martedì 11 maggio 2021

A PROPOSITO DI NIENTE Woody Allen


 


 A PROPOSITO DI NIENTE 

Woody Allen 

Come il giovane Holden, non mi va di dilungarmi in tutte quelle stronzate alla David Copperfield, anche se in questo caso i miei genitori magari possono essere un soggetto più interessante del sottoscritto. Mio padre, per esempio: nato a Brooklyn quando era ancora tutta campagna, raccattapalle per i Brooklyn Dodgers, giocatore di biliardo, bookmaker; un ebreo piccolo di statura ma che non si faceva mettere i piedi in testa da nessuno, e che sfoggiava camicie sgargianti e capelli imbrillantinati pettinati all’indietro alla George Raft. Non aveva frequentato le superiori, si era arruolato in marina a sedici anni, in Francia aveva fatto parte di un plotone di esecuzione, fucilando un commilitone che aveva violentato una ragazza del posto. Tiratore scelto pluridecorato, gli piaceva sparare, e andò in giro con una pistola fino al giorno in cui morì, con tutti i suoi capelli ancora in testa, anche se grigi, e dieci decimi di vista. Una notte, durante la Prima guerra mondiale, la sua nave venne affondata al largo di qualche costa europea. Annegarono quasi tutti, tre si salvarono raggiungendo la riva a nuoto, affrontando le gelide acque dell’Atlantico. Lui era uno di loro. Se ci fu un momento in cui rischiai di non nascere, fu quello. Poi la guerra finì. Suo padre, che aveva fatto qualche soldo, lo aveva sempre viziato, preferendolo spudoratamente a quei mentecatti dei fratelli. Non uso la parola a caso. Da piccolo, sua sorella mi sembrava una microcefala tipo Freaks. Suo fratello, un mollaccione pallido dall’aria degenerata, ciondolava per le strade di Flatbush vendendo giornali, finché si dissolse nel nulla. Così mio nonno dà i soldi al suo figlio preferito, il marinaio, per comprarsi una bella macchina, con cui quello va a zonzo per l’Europa postbellica. Quanto torna a casa, il vecchio ha aggiunto qualche zero al suo conto in banca e fuma sigari La Corona. È l’unico ebreo che fa il rappresentante di una grossa ditta di caffè. Mio padre gli dà una mano e un giorno, mentre trascina dei sacchi, passa davanti a un tribunale da cui sta uscendo Kid Dropper, un noto gangster dell’epoca. Quando Kid sale su una macchina, un certo Louie Cohen vi spara dentro quattro colpi, il tutto davanti agli occhi di mio padre, il quale me lo raccontò varie volte, a mo’ di favola della buonanotte, molto più divertente di quelle tradizionali a base di leprotti e coniglietti.


    Intanto mio nonno, cercando di diventare un vero capitalista, si compra un’agenzia di taxi e un bel po’ di sale cinematografiche, tra cui il Midwood Theater, dove passerò gran parte della mia infanzia, in fuga dalla realtà – ma questo avverrà più avanti. Prima dovevo nascere. Purtroppo, prima che questo succedesse, il padre di mio padre, in preda all’euforia, investì sempre di più a Wall Street – e potete immaginare come andò a finire. Un famigerato giovedì il mercato azionario fece patatrac, e mio nonno fu ridotto all’istante alla povertà più nera. Taxi e sale cinematografiche scompaiono, e anche i boss del caffè si buttano dalla finestra. Mio padre, dovendo improvvisamente occuparsi del proprio fabbisogno calorico, si ingegna: fa il tassista, gestisce una sala da biliardo, scuce quattrini a qualche pollo e fa l’allibratore. D’estate se ne va a Saratoga per gestire gli equivoci interessi ippici di Albert Anastasia. Da lì un’altra serie di favole della buonanotte. Quanto gli piaceva quella vita. Abiti eleganti, soldi in tasca, belle donne. E un bel giorno incontra mia madre. Come abbia potuto mettersi insieme a Nettie è un mistero pari a quello dei buchi neri. Due persone che non c’entravano niente una con l’altra, come il protagonista di Bulli e pupe e Hannah Arendt; non c’era nulla su cui andassero d’accordo, a parte Hitler e le mie pagelle. Eppure, malgrado i massacri verbali, rimasero sposati per settant’anni – giusto per farsi dispetto, immagino. Ciò nonostante, sono sicuro che a loro modo si amassero – in un modo forse noto solo ad alcune tribù di cacciatori di teste del Borneo.


    A difesa di mamma, devo dire che Nettie Cherry era una donna meravigliosa: brillante, gran lavoratrice e pronta a sacrificarsi. Era fedele, amorevole e gentile ma, diciamolo, non era una gran bellezza. Quando anni dopo ho detto che mia madre assomigliava a Groucho Marx, tutti hanno pensato che scherzassi. Morì a novantasei anni, e negli ultimi tempi soffriva di demenza senile. Pur tra i deliri, conservò fino all’ultimo la sua abilità di lamentarsi, che aveva elevato a forma d’arte. Quanto a mio padre, arzillo oltre i novant’anni, non lasciò mai che le preoccupazioni gli rovinassero il sonno. Né che qualunque tipo di pensiero gli turbasse la vita diurna. La sua filosofia si riassumeva nella massima “Quando c’è la salute c’è tutto”, essenziale come un biglietto in un biscotto della fortuna, ma più profonda di gran parte del pensiero occidentale. E lui di salute ne aveva da vendere. “A me non mi preoccupa niente,” si vantava. “Sei troppo stupido perché qualcosa ti possa preoccupare,” cercava pazientemente di spiegargli mia madre. Mamma aveva cinque sorelle, una più brutta dell’altra – e lei verosimilmente le batteva tutte. Lasciatemelo dire: la teoria freudiana secondo cui noi uomini desideriamo inconsciamente uccidere nostro padre e sposare nostra madre casca miseramente nel caso della mia genitrice.


    Purtroppo, anche se mia madre era un genitore molto migliore, più onesto, responsabile e maturo rispetto a quel donnaiolo dalla morale discutibile che era mio padre, era lui quello a cui volevo più bene. Come tutti, del resto. Immagino perché era un tipo affabile, più affettuoso e disposto a manifestare i suoi sentimenti, mentre lei era inflessibile. Era lei quella che impediva alla famiglia di andare a rotoli. Teneva la contabilità di un negozio di fiori. Si occupava della casa, faceva da mangiare, pagava le bollette e metteva il formaggio nelle trappole per i topi, mentre mio padre viveva al di sopra dei suoi mezzi e mi infilava in tasca biglietti da venti dollari mentre dormivo.


    Quelle poche volte che la fortuna gli sorrideva, era festa grande per tutti. Papà giocava alla lotteria clandestina ogni santo giorno: era quanto di più simile all’osservanza di una religione ci fosse nella sua vita. E, che vincesse cento dollari o uno solo, li spendeva tutti prima di tornare a casa. In che cosa? Be’, vestiti e altri generi di prima necessità, come palle da golf truccate da usare con i suoi amici. In ogni caso i primi beneficiari eravamo io e mia sorella Letty. Ci viziava con la stessa munificenza che suo padre aveva riservato a lui. Per esempio, a un certo punto mio padre lavorava di notte sulla Bowery, come cameriere – niente stipendio, solo mance. Eppure ogni mattina al mio risveglio – allora andavo alle superiori – trovavo cinque dollari sul comodino. Gli altri ragazzi che conoscevo avevano una paghetta settimanale di cinquanta centesimi, un dollaro al massimo. E io avevo cinque dollari al giorno! In cosa li spendevo? Roba da mangiare, attrezzi da illusionista, oppure me li giocavo a carte o ai dadi.


    Ero diventato un prestigiatore dilettante perché non c’era niente che amassi più dell’illusionismo. Mi era sempre piaciuto tutto ciò che richiedeva isolamento, come esercitarsi nei giochi di prestigio, suonare uno strumento o scrivere; era un modo per evitare di avere contatti con gli altri esseri umani, che non mi piacevano né mi ispiravano fiducia – senza che ci fosse un motivo particolare. Dopo tutto ero circondato da un parentado affettuoso, che era sempre stato gentile. Ma era come se ci fosse in me qualcosa di abietto. Nel frattempo, me ne stavo da solo con le mie monete e le mie carte, imparando a manipolare il mazzo, a fingere di mescolarlo e di tagliarlo, a distribuire le carte dal basso e nasconderle tra le mani. In ogni caso, un essere abietto come me capì in fretta che, se potevo estrarre un coniglio dal cilindro, potevo anche barare a poker. Avendo ereditato da mio padre i geni della fraudolenza, presto mi trovai a spennare polli, distribuire le carte che volevo io e intascare le paghette di tutti i miei coetanei.


    Ma non intendo dilungarmi oltre sul mio passato di piccolo farabutto. Vi stavo raccontando dei miei genitori e non sono ancora arrivato al punto in cui mamma dà alla luce la sua piccola canaglia. Mio padre se la spassava, e mia madre – costretta a fare fronte ai problemi della sopravvivenza quotidiana – era tutta casa e lavoro. Era una donna intelligente ma non certo un’intellettuale – e sarebbe stata la prima ad ammetterlo, fiera com’era del suo “buon senso”. In tutta franchezza, la trovavo rigida e opprimente, ma era perché voleva che combinassi qualcosa. A cinque o sei anni feci un test di intelligenza: non vi dirò il risultato, ma mia madre ne rimase impressionata. Le raccomandarono di mandarmi a una scuola speciale per bambini plusdotati, l’Hunter College, ma si trovava a Manhattan, e il tragitto in metropolitana da Brooklyn era troppo oneroso per mia madre e mia zia, che si alternavano ad accompagnarmi. Così tornai alla Public School 99, dove i primi a essere ritardati erano gli insegnanti. Ho sempre odiato tutte le scuole, e probabilmente non avrei ricavato nulla neanche dall’Hunter College, se ci fossi rimasto. Mia madre non faceva che vessarmi: con un QI così alto, come potevo essere un tale asino? Un esempio: alle superiori avevo fatto due anni di spagnolo. Quando andai alla New York University, riuscii a iscrivermi al corso di spagnolo per principianti assoluti. E ciò nonostante venni bocciato.


    In ogni caso, l’intelligenza di mia madre non si estendeva alla cultura, e così sia lei sia mio padre, che non erano mai andati oltre il baseball, il pinnacolo e i film di Hopalong Cassidy, mai una sola volta mi portarono a teatro o in un museo. La prima volta che andai a vedere uno spettacolo a Broadway avevo diciassette anni; e scoprii l’arte quando marinavo la scuola e avevo bisogno di stare in un posto caldo: i musei erano gratis o costavano poco. L’unico libro che mi accompagnò nella mia crescita fu Le gang di New York di Herbert Asbury, che apparteneva a mio padre: mi trasmise il fascino dei criminali e delle loro imprese. I nomi dei gangster mi erano familiari come quelli degli sportivi lo erano alla maggior parte dei ragazzi della mia età. Non che non conoscessi i nomi dei giocatori di baseball, ma Gyp The Blood, Greasy Thumb Jake Guzik e Tick-Tock Tannenbaum erano un’altra cosa. E conoscevo anche le stelle del cinema, grazie a mia cugina Rita, che tappezzava le pareti di camera sua con le foto a colori di “Modern Screen”. Tornerò a parlare di lei in quanto illuminò enormemente i miei primi anni, e per questo si merita il debito spazio. Ma oltre a Bogart e Betty Grable, al numero di vittorie di Cy Young, al numero di punti battuti a casa da Hack Wilson e al nome del lanciatore del Cincinnati con il maggiore numero di no-hitters, sapevo perché il killer Abe Reles era stato soprannominato “il canarino che cantava ma non sapeva volare”, che fine aveva fatto Owney Madder e perché l’arma preferita di Pittsburgh Phil Strauss era un punteruolo da ghiaccio.


    A parte Le gang di New York, la mia biblioteca consisteva solo di fumetti. E non lessi nient’altro fino a sedici o diciassette anni. I miei eroi letterari non erano Julien Sorel, Raskol’nikov o gli zotici della contea di Yoknapatawpha; erano Batman, Superman, Flash Gordon, Namor e Hawkman. Oltre a Paperino, Bugs Bunny e Archie Andrews. Gente, state leggendo l’autobiografia di un misantropo ignorante e patito di gangster; di un solitario incolto che se ne stava davanti a uno specchio a tre ante a fare esercizi con un mazzo di carte per nascondere un asso di picche nel palmo della mano, renderlo invisibile da qualunque angolazione e gabbare qualche ingenuo. Certo, alla fine venni travolto dalle massicce mele di Cézanne e dai piovosi boulevard di Pissarro ma, ripeto, solo perché bigiavo e avevo bisogno di un riparo in quelle gelide mattine invernali. A quindici anni venni ammaliato da Matisse e Chagall, da Nolde, Kirchner e Schmidt-Rottluff, da Guernica e dagli immensi e caotici Pollock, dal trittico di Beckmann e dalle nere sculture di Louise Navelson. Pranzavo alla caffetteria del MOMA e poi scendevo nella saletta sottostante a vedere qualche classico. Carole Lombard, William Powell, Spencer Tracy. Di certo meglio del muso inacidito della professoressa Schwab che chiedeva la data dello Stamp Act o la capitale del Minnesota. A seguire: bugie a casa e a scuola il giorno dopo, frenetici sotterfugi, giustificazioni contraffatte e inevitabilmente smascherate, rabbia dei genitori. E il tormentone: “Con quel quoziente di intelligenza che ti ritrovi!” Che non era così alto, cari lettori, anche se a sentire mia madre avrei dovuto essere capace di spiegare la teoria delle stringhe. Ma lo vedete dai film che ho fatto: alcuni sono divertenti, ma nessuna delle mie idee sarà mai la base di una nuova religione.


    E poi – non mi vergogno ad ammetterlo – non mi piaceva leggere. Al contrario di mia sorella, ero un ragazzo pigro che non provava alcun piacere a immergersi nei libri. E perché avrei dovuto? La radio e i film erano molto più elettrizzanti. Erano meno esigenti e più coinvolgenti. A scuola non avevano la minima idea di come far amare la lettura. I libri e le storie che sceglievano con tanta cura erano tediosi, stupidi e sterili. Non c’era nulla di paragonabile a Plastic Man o a Capitan Marvel. Pensate che un ragazzino in piena tempesta ormonale (anche in questo caso, alla faccia di Freud, non ho mai avuto una fase di latenza), cui piacevano i film di gangster con Bogart e Cagney e le bionde sexy e pettorute, si potesse appassionare al Dono dei magi di O. Henry? Un racconto in cui la protagonista femminile vende i suoi capelli per comprare la catena di un orologio al maritino, e lui vende il suo orologio per comprarle un assortimento di pettini? L’unica morale che ne ricavavo era che è sempre meglio regalare soldi. A me piacevano i fumetti, per quanto elementare fosse la loro prosa; e quando più tardi mi iniziarono a Shakespeare, me lo inflissero in modo tale da desiderare di non udire più per il resto della vita espressioni come “meco indulgenti” e “lagrime generose”.


    In ogni caso, cominciai a leggere solo alla fine delle superiori, quando avevo gli ormoni in subbuglio e iniziavo a notare le ragazze con i capelli lunghi e lisci, niente rossetto e poco trucco, che andavano in giro con maglioni a dolcevita neri, gonne e collant dello stesso colore e grosse borse di pelle, brandendo copie della Metamorfosi di Kafka con annotazioni ai margini tipo “Sono d’accordo” o “Cfr. Kierkegaard”. Per quanto potesse essere irrazionale, erano loro a conquistare il mio cuore e la mia carne e, quando chiedevo se volevano andare al cinema o a vedere una partita di baseball, e mi sentivo rispondere che preferivano ascoltare Segovia o vedere una cosa di Ionesco off-Broadway, dopo un silenzio imbarazzante replicavo: “Possiamo risentirci domani?” e mi precipitavo a cercare chi fossero Segovia o Ionesco. Va detto che queste signorine non aspettavano con ansia il nuovo numero di Capitan America o neanche il nuovo Mickey Spillane, l’unico poeta che fossi in grado di citare.


    Quando alla fine ce la feci a uscire con una di queste piccole, incantevoli bohémiennes, fu un’esperienza scioccante per entrambi. Per lei, perché dopo qualche minuto aveva capito di essere stata incastrata da un ignorante che sembrava non avere mai letto Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane. E per me, perché mi rendevo conto di essere una capra e, se mai speravo di baciare quelle labbra prive di rossetto o di vedere quella ragazza un’altra volta, dovevo immergermi in qualcosa di più sostanzioso di Un bacio e una pistola. Non potevo cavarmela con aneddoti su Lucky Luciano e Rube Waddell. Dovevo darmi un’infarinata di Balzac, Tolstoj e Eliot, in modo da reggere la conversazione e non dover improvvisamente accompagnare a casa la ragazza in questione dopo che aveva detto di essere stata colpita da un attacco di febbre gialla. Nel frattempo, sarei finito da Dubrow’s a piangermi addosso con gli altri miseri che avevano ricevuto un due di picche del sabato sera.


    Ma queste débâcle erano ancora a venire. Adesso che vi siete fatti un’idea dei miei genitori, dirò qualcosa della mia unica sorella. Dopodiché tornerò indietro e mi deciderò a nascere, così che il racconto possa davvero partire.


    Letty ha otto anni meno di me. Naturalmente, quando stava per venire al mondo, i miei genitori mi prepararono nel solito modo, quello più sbagliato: “Quando nascerà tua sorella, tu non sarai più il centro dell’attenzione. Tu non riceverai più regali, lei invece sì. Tutti noi ci dovremo concentrare su di lei e i suoi bisogni, e tu non sarai più il primo nome in cartellone: rassegnati.” Qualunque altro ragazzino di otto anni sarebbe stato un po’ turbato di fronte alla prospettiva di essere improvvisamente messo da parte a favore di un nuovo arrivato. Ma, anche se volevo un gran bene ai miei genitori, sapevo che erano un paio di dilettanti senza alcuna predisposizione per la puericoltura, e che le loro cupe profezie erano aria fritta. E infatti fu così. Penso che vada ascritto a loro merito il fatto che, anche se recitavano la parte delle Cassandre, io sapevo benissimo che non mi avrebbero mai abbandonato e si sarebbero occupati del mio benessere e della mia felicità. Non ebbi smentite.


    Nel momento in cui guardai dentro la culla, fui conquistato dalla mia sorellina. La amai, aiutai a crescerla, le feci scudo dagli attriti tra i miei genitori, che potevano assumere proporzioni epiche partendo da questioni banali – una discussione sul gefilte fish poteva generare una battaglia degna di Omero. Comunque io giocavo con Letty e spesso me la portavo dietro quando uscivo con gli amici. Loro la trovavano carina e intelligente, e noi due andavamo d’amore e d’accordo. Mi viene in mente una lettera che mi scrisse Groucho Marx, con cui avevo finito per stabilire rapporti amichevoli grazie a Dick Cavett – ne riparleremo. Bene, quando morì Harpo, scrissi a Groucho, e lui mi rispose che in tutti quegli anni lui e Harpo non avevano mai litigato né si erano presi a male parole. Lo stesso posso dire io di mia sorella, che oggi produce i miei film.


    Ma adesso sono pronto per nascere. Finalmente faccio il mio ingresso nel mondo. Un mondo in cui non mi sarei mai sentito a mio agio, che non avrei mai capito, che non avrei mai accettato o perdonato. Allan Stewart Konigsberg, nato il 1° dicembre 1935. A dire il vero nacqui il 30 novembre, quando era quasi mezzanotte, e i miei genitori spostarono la data, in modo che potessi cominciare dal primo giorno del mese. Non ne ho ricavato alcun vantaggio, e avrei preferito che mi avessero lasciato di che vivere di rendita. Se ne parlo è solo perché, per una di quelle ironie della sorte prive di qualunque significato, otto anni dopo mia sorella nacque nello stesso giorno. Non che se ne possa ricavare granché. Mia madre mi partorì in un ospedale del Bronx anche se abitava a Brooklyn. Non chiedetemi perché fece tutta quella strada. Forse l’ospedale dava i pasti gratis. Comunque non tornò subito a casa. Di fatto, in quell’ospedale rischiò di lasciarci le penne. Per qualche settimana fu più di là che di qua, ma, a suo dire, le flebo fecero miracoli. Per fortuna. Se mi avesse tirato su solo mio padre, a quest’ora avrei una fedina penale lunga come la Torah. Invece, con due genitori amorevoli, sono venuto su sorprendentemente nevrotico. Non chiedetemi il perché.


    Ero il centro dell’attenzione delle cinque sorelle di mia madre, il cocco di quelle dolci impiccione sempre in fibrillazione per l’unico nipote maschio. Avevo sempre di che mangiare e di che vestirmi, e non mi beccai malattie gravi come la poliomielite, che all’epoca imperversava. Non avevo la sindrome di Down, come un bambino della mia classe; non avevo la gobba come la piccola Jenny, né soffrivo di alopecia come un ragazzino che si chiamava Schwartz. Ero sano, benvoluto, atletico; ero sempre il primo a essere scelto quando si facevano le squadre, sapevo correre e lanciare la palla; eppure, non si sa come, sono riuscito a diventare un nevrotico pieno di fobie e dalla vita emotiva disastrata, sempre sul punto di perdere l’autocontrollo, un misantropo solitario e claustrofobico, inacidito, impeccabilmente pessimista. Alcuni vedono il bicchiere mezzo vuoto, altri lo vedono mezzo pieno. Io ho sempre visto la bara mezza piena. Sono riuscito a evitare quasi tutte le mille ingiurie naturali, retaggio della carne, tranne la numero 682: non ho meccanismi di difesa di fronte alla realtà. Mia madre ha sempre detto che ero un bambino dolce e gioioso fino a cinque anni, dopodiché sono diventato un ragazzino sgradevole, musone e marcio dentro.


    Eppure non ci sono stati traumi nella mia vita; non è successo niente per trasformarmi da bimbo lentigginoso e sorridente a giovinastro eternamente insoddisfatto. La mia ipotesi è che all’età di cinque anni o giù di lì divenni consapevole del concetto di mortalità, e pensai che non era mica nei patti. Qualcuno mi ha avvertito che non era previsto che fossi eterno? Se non vi spiace, rivoglio indietro i soldi. Crescendo, mi divenne più chiara non solo la finitudine dell’esistenza, ma anche la sua assenza di senso. E incocciai contro la stessa domanda che angustiava il noto principe danese: perché soffrire oltraggi di fortuna, sassi e dardi, quando basta che mi bagni il naso e lo metta nella presa della corrente per non avere più a che fare con angoscia, crepacuore e il pollo lesso di mia madre? Amleto scelse di non farlo per paura di ciò che gli sarebbe potuto succedere nell’aldilà, ma io non credo nella vita dopo la morte, e quindi, data la cupa visione che ho della condizione umana e della sua dolorosa assurdità, perché andare avanti? Alla fine, non sono stato in grado di trovare un motivo plausibile, e sono giunto alla conclusione che noi uomini siamo semplicemente programmati per resistere alla morte. Il sangue è più forte del cervello. Non c’è motivo logico per cui rimanere attaccati alla vita, ma chi se ne importa di quello che dice la testa. Il cuore dice: hai visto Lola in minigonna? Per quanto ci lamentiamo e insistiamo, a volte in modo del tutto persuasivo, che la vita è un incubo di lacrime e di sofferenza, se uno entrasse improvvisamente nella nostra stanza con un coltello e intenzioni omicide, reagiremmo subito. Lotteremmo con tutta la nostra energia per disarmarlo e sopravvivere. (Nel mio caso, scapperei.) E tutto ciò, ripeto, non è che una caratteristica delle molecole di cui siamo fatti. A questo punto probabilmente avrete capito non solo che non sono un intellettuale, ma anche che sono una persona da evitare ai party.


    Tra parentesi, è sorprendente quanto spesso io sia etichettato come “intellettuale”. È vero quanto è vero che esiste il mostro di Loch Ness, dal momento che non ho un solo neurone intellettuale nel cervello. Incolto e per nulla interessato allo studio, sono cresciuto con tutte le premesse per diventare un buzzurro che se ne sta in poltrona davanti alla televisione, birra in mano e partita di football ad alto volume, paginoni di “Playboy” attaccati con lo scotch alla parete. Posso sfoggiare giacche di tweed come un professore di Oxford, ma dentro sono un barbaro. Non ho né intuizioni geniali né pensieri elevati, non capisco la maggior parte delle poesie più complesse della Vispa Teresa. Certo, porto un paio di occhiali con la montatura nera, e suppongo che siano loro a tenere viva questa leggenda, in combinazione con il talento di appropriarmi di citazioni di testi eruditi che vanno al di là della mia comprensione ma che possono essere usati nel mio lavoro per dare l’ingannevole impressione di essere più colto di quanto non sia.


    Riprendiamo il racconto. Sto crescendo in una bolla, accudito da un mucchio di donne propense alle smancerie e da quattro nonni affettuosi. Il padre di mio padre, ve ne ho già parlato, è quello che aveva conosciuto la ricchezza, andava a Londra in nave solo per le corse dei cavalli e aveva un palco all’opera; adesso era diventato povero, e campava di non si sa bene cosa. Sua moglie era un’emigrante come lui, sposata per poter andare negli Stati Uniti. Lei fuggiva dai pogrom russi, lui dal servizio di leva. Da vecchia sembrava un acino di uva secca, e viveva con il marito e la progenie in una stamberga arredata con dubbio gusto e con un pianoforte verticale che non suonava mai nessuno. Ma era affezionata a me e, generosa malgrado l’indigenza, mi dava di nascosto soldini e zollette di zucchero, senza chiedere nulla in cambio, se non di andare a trovarla ogni tanto.


    Anche i nonni materni mi volevano bene. La mamma di mia mamma era sorda e in sovrappeso, se ne stava tutto il giorno seduta davanti alla finestra; dall’aspetto, forse si sarebbe trovata più a suo agio su una foglia di ninfea. Il nonno, invece, era una persona virile, attiva e sempre in sinagoga. Ed ecco come un essere abietto come me ripagava la sua gentilezza. Io e i miei amici eravamo venuti in possesso di un nichelino falso. Pura latta. Non osavamo spenderlo al negozio di dolciumi per paura di finire in riformatorio, così mi offrii di rifilarlo a mio nonno, cui l’età non aveva insegnato la furbizia. Aprì il borsellino e mi diede in cambio cinque monetine da un centesimo. E non fu come in quei film in cui il vecchio ridacchia perché ha sgamato il ragazzino, e lo asseconda con una strizzatina d’occhio. No. Lo fregai proprio, gli estorsi le cinque monetine, gli rifilai il nichelino di latta e andai a comprarmi arachidi ricoperte di cioccolato.


    Ma il vero arcobaleno della mia infanzia fu mia cugina Rita. Aveva cinque anni più di me, era bionda e rotondetta, e forse nessun altro ebbe un’influenza altrettanto significativa sulla mia vita. Di cognome faceva Wishnick; anche suo padre era un ebreo russo in fuga, che in origine si chiamava Višneckij. Era una ragazza attraente, cui la poliomielite aveva lasciato una lieve zoppia, e che si era affezionata a me; mi portava ovunque – al cinema, in spiaggia, al ristorante cinese, al minigolf – e giocava con me a qualunque cosa – a scacchi, a carte, a Monopoli. Mi presentava a tutti i suoi amici, ragazzi e ragazze più grandi di me, che sembravano apprezzarmi per quello che ero; frequentandoli, divenni molto sofisticato per un ragazzino, e la mia crescita subì un’accelerazione.


    Avevo anche amici della mia età, ma passavo parecchio tempo con Rita e la sua compagnia. Erano ragazzi ebrei della classe media, intelligenti, che studiavano per diventare giornalisti, insegnanti, medici e avvocati.


    Ma torniamo ai film, la grande passione di Rita. E ricordatevi che io avevo cinque anni e lei dieci. Oltre a tappezzare le pareti di camera sua con foto a colori di tutte le star, andava al cinema regolarmente: nella fattispecie, tutti i sabati a mezzogiorno, in genere al Midwood, dove si potevano vedere due film con un solo biglietto. E mi portava sempre con sé. Vedevo tutto quello che sfornava Hollywood, film di serie B compresi. Sapevo chi erano gli attori, imparavo a riconoscere i caratteristi e anche le canzoni, dato che Rita e io passavamo un sacco di tempo ad ascoltare insieme la radio. Programmi come Make Believe Ballroom o Your Hit Parade. All’epoca la radio rimaneva accesa da quando ti svegliavi a quando andavi a letto. Musica, notiziari – e che musica.


    La musica pop di allora era quella di Cole Porter, Rodgers & Hart, Irving Berlin, Jerome Kern, George Gershwin, Benny Goodman, Billie Holiday, Artie Shaw, Tommy Dorsey. Tra film e canzoni, non potevo lamentarmi. Prima due film alla settimana, e poi, con il passare degli anni, sempre di più. Com’era emozionante entrare nel Midway il sabato mattina, con le luci ancora accese e una piccola folla che comprava dolciumi e prendeva posto mentre i gestori mettevano su dei dischi per evitare ribellioni prima che si spegnessero le luci. I’ll Get By di Harry James. I paralumi erano rossi, i lampadari di ottone dorato, la moquette rossa. Alla fine le luci si abbassavano, le tende si aprivano e sullo schermo d’argento compariva un logo che faceva venire l’acquolina in bocca al cuore, se posso mescolare le metafore in modo pavloviano. Vedevo tutto: commedie, western, storie d’amore, film di pirati e film di guerra. Molti decenni dopo, passando con Dick Cavett per una strada dove un tempo c’era una sontuosa sala cinematografica, guardammo il lotto di terreno vuoto e ricordammo che una volta, seduti proprio lì in mezzo, venivamo trasportati in città straniere che brulicavano di intrighi, in deserti attraversati da romantici beduini, in velieri, trincee, palazzi e riserve indiane. Presto un condominio sarebbe sorto sulle macerie del Rick’s Café.


    Da ragazzo i miei film preferiti erano quelli che chiamavo champagne comedies. Mi piacevano le storie che si svolgevano in attici dove dall’ascensore si entrava direttamente nell’appartamento, i tappi volavano e uomini raffinati che pronunciavano dialoghi spiritosi flirtavano con donne bellissime che giravano per casa con vestiti che oggi si userebbero per un matrimonio a Buckingham Palace.


    Questi appartamenti erano enormi, in genere duplex, con tanto spazio vuoto. Appena entrati, gli ospiti si dirigevano quasi sempre verso un mobile bar e si versavano da bere da bottiglie di cristallo. Tutti bevevano in continuazione e nessuno vomitava. Nessuno aveva il cancro, i tubi non perdevano e, se squillava il telefono nel cuore della notte, gli abitanti degli attici di Park Avenue non brancolavano nel buio come mia madre rischiando di rompersi una gamba per cercare l’unico, nero apparecchio di casa e venire a sapere che magari un parente era appena passato a miglior vita. No. Katharine Hepburn, Spencer Tracy, Cary Grant o Myrna Loy allungavano un braccio sul comodino, dove il telefono solitamente era bianco, e le notizie non riguardavano metastasi o trombosi coronariche frutto di anni di cibi con troppo colesterolo, ma dilemmi di soluzione più immediata, tipo: “Prego? Cosa vuol dire che il nostro matrimonio non è valido?”


    Immaginate una torrida giornata estiva a Flatbush. La colonnina di mercurio segna i trentacinque gradi e l’umidità è soffocante. L’unica aria condizionata accessibile è quella delle sale cinematografiche. Fai colazione con uova alla coque in una minuscola cucina con il tavolo coperto da un telo cerato e il pavimento di linoleum. Alla radio trasmettono canzoni come Milkman Keep Those Bottles Quiet e Tess’s Torch Song. I tuoi genitori sono impegnati nell’ennesima, stupida “discussione” – per usare la definizione di mia madre – che per poco non degenera in una sparatoria. Forse lei gli ha macchiato la camicia con la panna acida, o lui ha parcheggiato il taxi davanti a casa – e guai se i vicini scoprono che lei ha sposato un tassista e non un giudice della corte suprema. Mio padre non si stufava mai di raccontare che una volta aveva avuto come cliente Babe Ruth. Ma l’unica cosa che ricordava del “Sultan of Swat” era che gli aveva dato una mancia da pidocchio. Mi tornò in mente anni dopo, quando facevo il comico al Blue Angel, e Sonny, il buttafuori, inchiodò con una definizione Billy Rose, il celebre impresario di Broadway che amava atteggiarsi a pezzo grosso. “Un uomo da un quarto di dollaro,” ghignò Sonny, che aveva imparato a catalogare gli uomini dall’entità delle mance che lasciavano. In queste pagine faccio dell’ironia sui miei genitori, ma ciascuno di loro mi ha insegnato cose che mi sono state utili per tutta la vita. Mio padre: quando compri un giornale all’edicola, non prendere mai quello in cima. Mia madre: l’etichetta dei vestiti va sempre dietro.


    Cosa stavamo dicendo? È una torrida giornata d’estate e passi la mattina riportando i vuoti in negozio. A due centesimi la bottiglia raggranelli il necessario per un biglietto al Midwood, al Vogue o all’Elm, i tre cinema del quartiere. A tremila miglia di distanza ci sono dei normalissimi tedeschi che, per nessun motivo, si divertono a fucilare ebrei o mandarli nelle camere a gas, e non hanno problemi a trovare complici in mezza Europa. E tu ti fai una sudata in Coney Island Avenue – una brutta strada piena di rivenditori di auto usate, agenzie di pompe funebri e negozi di ferramenta – finché l’elettrizzante insegna diventa visibile. Il sole adesso è alto e feroce. Il tram sferraglia, le automobili strombazzano, due uomini sono bloccati nella coreografia idiota della rabbia, urlano e cominciano a menare le mani. Quello più piccolo e debole corre a prendere una chiave inglese. Tu compri il biglietto, entri, la calura e la luce abbagliante scompaiono, ti ritrovi in un mondo alternativo fresco e buio. Sono solo immagini, certo, ma che immagini! La maschera, un’attempata signora vestita di bianco, ti accompagna al tuo posto con una torcia. Hai speso il tuo ultimo nichelino in deliziosi dolciumi dai nomi fantasiosi – Jujubes o Chuckles. E adesso volgi lo sguardo allo schermo dove, al suono di melodie di indescrivibile bellezza composte da Cole Porter o da Irving Berlin, appare lo skyline di Manhattan. Sono in buone mani. Non vedrò uomini in tuta da lavoro che si alzano all’alba per mungere le mucche e il cui scopo nella vita è vincere una medaglia alla fiera del bovino o addestrare il proprio cavallo a diventare un campione di trotto. Grazie al cielo, nessuno verrà salvato da un cane, né ci saranno campagnoli che bevono infilando il dito nel manico di una caraffa da whiskey o annodano una lenza all’alluce di un ragazzo che si è addormentato mentre pescava.


    Tutt’oggi, se la prima inquadratura di un film è il dettaglio della bandierina di un tassametro che viene abbassata, rimango. Ma, se è la bandierina di una cassetta della posta, esco. Al risveglio, le tende della camera da letto si aprono e i miei personaggi vedono i grattacieli di New York che brulicano di possibilità; fanno colazione o a letto, su vassoi che hanno il posto dove infilare il giornale, o su tavole apparecchiate con tovaglie di lino e posate d’argento, dove le uova alla coque vengono servite su pratici portauova, e sulle prime pagine dei quotidiani non si parla di campi di sterminio ma al massimo c’è la foto di una bella ragazza in compagnia di qualcuno, il che turba Fred Astaire dato che è innamorato di lei. Ma se è una coppia sposata a fare colazione, vedi che sono ancora innamorati dopo tanti anni, lei non gli rinfaccia i suoi fallimenti e lui non le dà della vecchia megera. E, finito il primo film, il secondo è un thriller dove un detective con la faccia da duro risolve i problemi della vita a suon di cazzotti alla mascella e alla fine se ne va con una sventola tutta curve che non ho mai visto né a scuola né a tutti i matrimoni, funerali e bar mitzvah cui sono andato. Anche se a un funerale non sono mai andato, me lo sono sempre risparmiato. Il primo e unico cadavere che ho visto è stato quello di Thelonious Monk. Stavo andando a cena da Elaine’s e mi fermai in un salone di pompe funebri sulla Terza Avenue per rendergli omaggio. Con me c’era Mia Farrow; era da poco che ci frequentavamo, e accondiscese alla mia richiesta malgrado lo sconcerto; avrebbe dovuto capire subito che stava mettendosi con la persona sbagliata, ma fuoco e fiamme vennero dopo.


    Adesso è finito anche il secondo film; lascio la magia oscura e confortevole dalla sala cinematografica, mi immergo nuovamente nel sole e nel traffico di Coney Island Avenue e torno nello squallido appartamento di Avenue K. Nelle grinfie del mio nemico numero uno, la realtà. In una sequenza comica di un mio film che si chiama Il dormiglione, divento imprevedibilmente Blanche DuBois in Un tram che si chiama desiderio. Parlo con accento femminile del Sud degli Stati Uniti, cercando di far ridere, mentre Diane Keaton fa una perfetta imitazione di Marlon Brando. Keaton protestava dicendo di non essere capace, come le ragazze che a scuola si lamentano di avere sbagliato il compito in classe, e poi si scopre che hanno preso dieci. Ovviamente il suo Brando è meglio della mia Blanche, ma quello che voglio dire è che nella realtà io sono Blanche. Blanche dice: “Non voglio la realtà, voglio la magia.” E io ho sempre disprezzato la realtà e bramato la magia. Ho cercato di essere un mago, ma ho scoperto di saper manipolare solo carte e monete, e non l’universo.


    Dunque la cugina Rita mi fece conoscere i film, le stelle del cinema, Hollywood con la sua morale patriottica e i finali miracolosi; e mentre tutti cercavano di insegnarmi qualcosa, dai miei genitori ai miei insegnanti di spagnolo (malgrado lo avessi già studiato per due anni), fu Hollywood ad attecchire. Riviste come “Modern Screen” e “Photoplay”. Bogart, Cagney, Edward G. Robinson, Rita Hayworth: era il loro mondo di celluloide che imparavo. Esagerato, superficiale, falsamente sontuoso – ma non rimpiango un solo fotogramma. Quando mi chiedono quale personaggio dei miei film mi assomiglia di più, dico sempre di dare un’occhiata a Cecilia nella Rosa purpurea del Cairo.


    Dove eravamo rimasti? Ah sì, ero nato. Nato incontestabilmente – e la metto così perché in tre circostanze mancò poco che non vedessi questo mondo. La prima fu quando mio padre fu uno dei tre che raggiunsero la riva a nuoto dopo il naufragio della sua nave. La seconda vide coinvolto sempre lui, ma in modo meno eroico. Era a una festa di famiglia con mia madre, allora sua fidanzata. Erano tutti parenti di lei: bravi ebrei rumorosi, dalla vita accidentata. Un esempio del loro stile: avevamo un parente che si chiamava Phil Wasserman, su cui tornerò perché in seguito dette un grande aiuto alla mia carriera. Ma c’era un altro parente che si chiamava Phil Wasserman, di pari importanza, e che veniva sempre chiamato “l’altro Phil Wasserman”. Così, quando si parlava di uno dei due Phil Wasserman, bisognava sempre specificare quale, e così si diceva: “Ero a Manhattan quando ho incontrato l’altro Phil Wasserman.” Oppure: “Devo comprare un regalo per l’altro Phil Wasserman.” Da piccolo mi chiedevo se quando faceva una telefonata esordiva dicendo: “Pronto? Sono l’altro Phil Wasserman.” Sua moglie diceva: “Vi presento mio marito, l’altro Phil Wasserman”? E sulla lapide della sua tomba ci sarà scritto: “Qui giace l’altro Phil Wasserman”? Per quanto raffazzonata, la cosa funzionava.


    Torniamo alla festa di famiglia. Una cugina mostra il suo nuovo anello con diamante. Vari “oooh” e “aaah” si levano a commentarne dimensioni e bellezza, anche se sono sicuro che difficilmente poteva fare concorrenza al diamante Hope. Un’ora dopo, però, scoppia la tragedia. Il prezioso gioiello è scomparso. Non so come, alla fine si scoprì che l’aveva rubato mio padre. Potete immaginare l’incredulità e lo stupore. Occhi sbarrati, grandi manate in testa come nel teatro yiddish, “Oy vey” come se piovesse, bicchieri di vino dolce posati sul tavolo e cosce di pollo abbandonate a metà masticazione. Ovviamente mia madre svenne e quella sera il matrimonio venne annullato. La mia nascita fu di nuovo in pericolo. Per fortuna mio padre, con il suo savoir-faire e la sua parlantina, riuscì a placare il futuro suocero. E il padre di mio padre promise che quel mascalzone senza sale in zucca di suo figlio non solo non avrebbe più fatto cose del genere, ma si sarebbe tirato fuori dalle losche frequentazioni e avrebbe rigato dritto. Lo aiutò anche a comprare una drogheria sull’orlo del fallimento in Flatbush Avenue, e mio padre ci mise tutto il suo impegno per raddoppiarne le perdite a tempo di record. Ormai avrete capito che mio padre non aveva alcuna predisposizione a essere il sostegno della famiglia: un soggetto che nel corso degli anni suscitò molte interessanti discussioni, in seguito alle quali ficcava furibondo tutti i suoi vestiti in una valigia, che poi disfaceva prima di andare a letto.


    La terza volta in cui sfiorai la non esistenza avvenne poco dopo la mia nascita. Almeno ero già attivo e funzionante. Mia madre che, come ho accennato, doveva lavorare per compensare le tante occupazioni poco remunerative di mio padre, spesso mi doveva lasciare con le tate: giovani sconosciute, sempre diverse, a seconda dell’agenzia che le mandava. Mia madre mostrava loro dov’era l’olio di fegato di merluzzo, le informava che bevevo solo latte al cioccolato e raccomandava di non fidarsi di una piccola peste come me, per quanto sembrassi carino. Non so perché fosse una tale rompiscatole e non una mamma divertente come Billie Burke o Spring Byington. Comunque rimanere da solo ogni giorno con una sconosciuta poteva rivelarsi fatale. Una volta una tata mi avvolse in una coperta spiegandomi che non ci avrebbe messo niente a soffocarmi e poi buttare tutto nel bidone della spazzatura. Lì dentro cominciava a mancarmi l’aria. Per fortuna era una di quelle svitate che dicono le cose ma poi non le fanno, al contrario di quelle che si dimenticano di prendere gli psicofarmaci e poi finiscono sui tabloid con la tuta arancio di qualche prigione.


    Quella volta me la cavai, e la buona sorte mi ha accompagnato per tutto il resto della vita. È un fatto da non sottovalutare. Considerando la mia carriera, alcuni diranno che non è stata sempre così fortunata, ma non sanno quante volte è stato il caso a decidere.


    Malgrado le minacce alla mia esistenza prima e dopo la nascita, crescevo a Brooklyn, in un appartamento della Quattordicesima Strada, quasi all’angolo con Avenue J. Non ricordo molto di quegli anni; tranne la volta in cui bevvi un bicchiere di latte munto direttamente dalla mammella di una mucca (anziché irresistibile, lo trovai solo caldo e disgustoso) e quella in cui stavo vedendo un film di Disney con mia mamma, mi alzai di scatto e corsi a toccare lo schermo, non ci sono altri sciocchi aneddoti che valga la pena di menzionare. A parte il fatto che sembrava che fossi paranoico fin dalla nascita. Ricordo la mia prima casa, un appartamento che i miei genitori condividevano con zio Abe e zia Ceil, la sorella di mia madre. Ricordo di avere pensato che tutte le persone, compresi i miei genitori e i miei zii, fossero alieni di un altro pianeta: a un certo punto si sarebbero tolti la maschera, rivelando i loro volti mostruosi, e mi avrebbero fatto a pezzi. Non so da dove venissero queste fantasie tremende. Come ho detto, erano tutti gentili e affettuosi.


    Nei primi tempi abitavamo in un quartiere meraviglioso che imparai ad apprezzare solo dopo la sua scomparsa. Avenue J era una strada di negozi: niente di speciale, ma adesso mi sembra il paradiso. C’erano fantastiche botteghe di dolciumi, deli pieni di squisitezze, negozi di giocattoli, un ferramenta, ristoranti cinesi, una sala da biliardo, una biblioteca. C’erano tanti negozietti che vendevano vestiti, pane e dolcetti appena sfornati; e ovviamente la signora dei sottaceti, che sedeva come un minotauro accanto a un barile di cetriolini. Era una massa informe coperta da strati di golf, e per cinque centesimi immergeva un arto nel barile e pescava un cetriolo di grandezza adeguata. A furia di immergere la mano nella brodaglia, anche la sua mano era diventata un sottaceto; da piccolo mi chiedevo quanti litri di lozione per la pelle sarebbero serviti per farla tornare normale. E poi c’era il Midwood, la sala cinematografica che in pratica era diventata la mia seconda casa. Ma nel mio simpatico quartierino si potevano facilmente raggiungere tante altre sale che offrivano il doppio programma. In quelle più modeste potevi vedere due film, cinque disegni animati, un serial come Batman e una comica, sperando fosse di Robert Benchley e non di Joe McDoakes.


    Purtroppo, a volte dovevi sorbirti un documentario dove un tale signor Fitzgerald ti portava in posti come Ceylon e Giava, “la terra dimenticata dal tempo”, che tu lo volessi o no. A volte ti davano un regalino, come una pistola di carta che faceva un botto quando veniva fatta scattare verso il basso. Ma la cosa davvero fantastica è che quando ero piccolo (ma non così piccolo da non poter andare al cinema) il biglietto costava solo dodici centesimi. Nei cinema di un certo tono era di venti centesimi, poi di venticinque, poi di trentacinque. Quando arrivò a cinquantacinque, nel quartiere ci fu una rivolta come quella dell’equipaggio della corazzata Potëmkin. Mi dicono che al giorno d’oggi un biglietto può costare addirittura venti dollari. Avete idea di quanti vuoti dovrei rendere per racimolare venti dollari?


    In ogni via c’era un cinema e non c’era giorno in cui non ci fosse qualcosa da vedere, si trattasse solo di serial come The Crime Doctor o The Whistler. A me piacevano tutti. Ma poi un giorno la mia vita cambiò, quando mio padre mi portò con sé a Manhattan per quello che oggi verrebbe definito come “tempo di qualità”, anche se probabilmente doveva solo andare a pagare dei bookmaker. Avrò avuto sette anni e non avevo mai messo piede fuori da Brooklyn.


    Prendemmo la metropolitana, scendemmo a Times Square, salimmo le scale e ci ritrovammo all’incrocio tra la Broadway e la Quarantaduesima Strada. Rimasi senza fiato. Mettetevi nei panni di un bambino. Un milione di persone, soldati, marinai, marines. Cinema a perdita d’occhio. Sale da ballo. Donne eleganti, o questa era la mia impressione. Musicisti di strada. L’enorme insegna di Bond, il negozio di abbigliamento e il grande cartellone pubblicitario della Camel con un uomo che fa anelli di fumo. Un tipo emaciato che annunciava a un gruppetto di ascoltatori che giovedì ci sarebbe stata la fine del mondo (come faceva a saperlo?). E quelle bambole di carta, come facevano a ballare senza fili? Sulla Quarantaduesima c’era il Laugh Movie con gli specchi deformanti lungo la strada (anche se non li trovavo divertenti nemmeno a sette anni), e il museo del circo delle pulci, che vantava un ermafrodito, qualunque cosa fosse. Facemmo sosta lì, perché mio padre voleva sparare con le carabine calibro 22; spense tutte le candele, e spese circa cinque dollari in proiettili.


    Mio padre aveva la passione delle armi da fuoco. Non poteva resistere alla tentazione di un tiro a segno – all’epoca si usavano armi e munizioni vere. In seguito si fece dare il porto d’armi, con la scusa che aveva bisogno di una pistola per il suo lavoro. Trafficava in gioielli, e poi tornava a casa tardi perché faceva il cameriere di notte. In realtà la tirò fuori solo due volte: la prima, per far scendere da un autobus una testa calda; la seconda, quando quattro giovanotti si avvicinarono a lui mentre era da solo sulla banchina della metropolitana alle tre di notte. Sparò un colpo verso il tunnel e i quattro se la diedero a gambe. Non gli avevano fatto niente, ma lui aveva percepito la minaccia; per quanto ne sapeva, avrebbero potuto anche essere un quartetto vocale – nel qual caso aveva ogni diritto di allontanarli.


    Così percorremmo Broadway Avenue, passando davanti a tutti i cinema e ai ristoranti: McGinnis’s, Roth’s, Jack Dempsey’s, Turf e alla fine Lindy’s. Entrammo nelle varie sale giochi, mangiammo hot dog, bevemmo piña colada analcolica e forse vedemmo un film. Ero così piccolo che non ricordo; di certo mi innamorai a prima vista di Manhattan, e negli anni a venire continuai a tornarci appena ne avevo l’occasione. I ricordi più belli che ho sono quelli di quando marinavo la scuola, prendevo la metropolitana in Avenue J, andavo a Manhattan, compravo un giornale, mi infilavo in un automat e leggevo le cronache sportive di Jimmy Cannon mentre ingurgitavo una fetta di torta di ciliegie e un caffè. A quel punto l’Universal apriva i battenti e vedevo il film e lo spettacolo – il comico mi faceva sempre ridere. Ricordo di essere andato al Roxy quando c’era la band di Duke Ellington: quando, finito il film, dalla fossa davanti allo schermo salirono i musicisti che suonavano Take the A Train, mi sentii scoperchiare la scatola cranica. Da quel momento, ogni film ambientato a New York non poteva che piacermi. Quante volte rimanevo incantato a vedere qualche pupa dalle gambe lunghe tornare a casa dopo una serata passata in un nightclub, una stola esagerata drappeggiata sulle spalle, entrare in un palazzo della Quinta Avenue, premere il pulsante dell’ascensore, salire al suo appartamento e andare a dormire solo quando il sole cominciava a spuntare al ritmo sinuoso di Out of Nowhere.


    Ogni volta che tornavo a Brooklyn, era nella città dall’altra parte del fiume che volevo vivere. Non vedevo l’ora di poter entrare in un bar di Manhattan e dire: “Il solito.” Anni dopo Mort Sahl ebbe un’idea geniale, quella di fare una class action contro i film per averci rovinato la vita. Ma sto divagando.


    Nel nostro racconto, sono ancora in Avenue J a Brooklyn, con addosso la mia tutina, intento a fare l’upgrade dalla culla al lettino. Ricordo ancora quel piccolo rito di passaggio. Ero un bimbo così fifone che dalla prima notte nel mio nuovo giaciglio adottai una posizione sul fianco destro che mi consentiva di alzarmi in un batter d’occhio e di reagire in modo adeguato se un lupo mannaro fosse sbucato dal ripostiglio. Dormivo pronto a saltare dal letto, ma per fare cosa? Buona domanda. All’epoca il ju-jitsu era abbastanza popolare, ma il problema era che prima di buttare il mostro sul tappeto dovevi stringergli la mano. In ogni caso, con la saggezza dell’età, mi rendo conto di quanto fossi sciocco, e di quanto sarebbe stato meglio dormire con una mazza da baseball a portata di mano.

Coerentemente con le mie fantasie escapiste di una vita chic a Manhattan, mentre gli altri ragazzi uscivano dal cinema volendo essere John Wayne, Gary Cooper e Alan Ladd, io mi identificavo soprattutto con Reginald Gardner, Clifton Webb e con i personaggi più effeminati. E poi c’era Bob Hope, per cui avevo una passione smodata: non perdevo mai un suo film o una sua trasmissione radiofonica. Adoravo la radio. Un altro godimento era quando potevo stare a casa ad ascoltarla, e questo avveniva in due casi: se ero malato o facevo finta di esserlo. Fare finta era difficile. Se non avevo la febbre dovevo andare a scuola e, dato che mia madre stava lì a controllare dopo avermi ficcato il termometro in bocca, era quasi impossibile trovare un calorifero o una lampadina per far salire la colonnina del mercurio senza farsi beccare. Ma il piacere di stare a casa malato, nel mio letto, con la radio accanto... Si iniziava con The Breakfast Club, poi c’erano Helen Trent, Luncheon at Sardi’s, Queen for a Day, Lorenzo Jones e sua moglie Belle, André Baruch e sua moglie Bea Win. Nel tardo pomeriggio arrivavano Hop Harrigan, Tom Mix e Captain Midnight; e più tardi The Answer Man, Baby Snooks e The Lone Ranger. Poter mangiare a letto. Mio padre che tornava a casa con dieci giornalini nuovi, che a dieci centesimi ciascuno era un bel capitale. Allora la radio occupava un posto importante nelle nostre vite, e con il senno di poi mi ha colpito il fatto che quell’attaccabrighe di mio padre preferiva i comici, e non si perdeva mai Jack Benny, Charlie McCarthy o, in seguito, Groucho. Mi sarei aspettato che gli piacessero Gangbusters o David Harding, Counterspy, invece amava The Life of Riley e Fibber McGee and Molly.


    Ero onnivoro ma il medico di famiglia mi proibì di ascoltare Inner Sanctum e qualunque programma ritenuto troppo terrificante. Il dottor Cohen consigliò a mia madre di non farmi vedere alcun film con Dracula o Frankenstein, perché nervoso com’ero avrei avuto gli incubi. Mia madre ricavava tutte le sue nozioni di puericultura da questo medico di quartiere che mi auscultava il cuore con lo stetoscopio, mi batteva le nocche sul petto, mi colpiva il ginocchio con un martelletto di gomma, ascoltava i racconti materni sulle mie malefatte, mi psicanalizzava, mi prescriveva cocillana e cerotti di senape – e tutto a domicilio, per un paio di dollari. Mia madre ascoltava le sue diagnosi come se fosse stato Avicenna. Chiedeva sempre consigli relativi alla salute, sia fisica sia mentale, a chiunque avesse un seppur vago legame con il mondo della medicina. Spesso si rivolgeva al dentista sopra il panettiere, e non solo per questioni relative a molari o gengive. E poi c’era il farmacista. Sapevi leggere una ricetta e vendevi cerotti per i calli? Mia madre ti avrebbe lasciato fare un’operazione al cervello. E se avevi la laurea in medicina, praticamente eri Dio. Il nome di un dottore veniva pronunciato con lo stesso rispetto che si tributava a un rabbino.


    E così mi piaceva essere malato e stare a letto a godermi radio, fumetti e brodo di pollo. Devo specificare che la gioia di ritrovarmi con trentotto di febbre dipendeva anche dal fatto che, come ho già detto, odiavo, aborrivo e detestavo la scuola. Nella Public School 99, con i suoi insegnanti stupidi, pieni di pregiudizi e ritardati, non c’era nulla da salvare. Sto parlando dell’inizio degli anni Quaranta. Dopo la guerra arrivarono insegnanti migliori. Ma non voglio calcare troppo la mano. Il corpo docente era composto da irlandesi con i capelli azzurri che sarebbero state perfette per interpretare suore arcigne e vessatrici. Una volta la vicepreside Reid mi trascinò per un orecchio per un’intera rampa di scale dandomi del verme, mentre per conto mio le auguravo di marcire sotto terra.


    I pochi insegnanti di sesso maschile erano ebrei dalle idee più aperte. Anche troppo, tant’è che uno dei più bravi venne licenziato. A un certo punto ogni classe doveva scegliere una canzone ed eseguirla in palestra con una coreografia adeguata. Lui scelse un ballo d’inizio secolo chiamato Boops-a-Daisy, dove le coppie di ballerini prima si toccano le mani, poi si danno una pacca sulle ginocchia e infine si girano e si danno un colpo d’anca. Apriti cielo: le arpie rimasero a bocca aperta come se in palestra stessero facendo una gang bang. Non era la solita coreografia inamidata di grandi classici come You’re a Grand Old Flag o Bicycle Built for Two. Quelle frigide antisemite sentivano puzza di depravazione. Oggi, nell’epoca del politically correct, si userebbe il termine “inappropriato”. Ovviamente, questo ebreo errante pedagogo venne cacciato a calci nel didietro il più in fretta possibile. Il fatto che avesse idee apertamente di sinistra non lo rendeva simpatico alla preside Fletcher e ai suoi miseri scherani.


    Ma non si trattava solo della congrega degli insegnanti: l’intera scuola era concepita in modo tale che fosse impossibile qualunque forma di apprendimento. Dovevi arrivare puntuale e metterti in fila in cortile, clima permettendo. E mentre eri in fila, guai a parlare. Poi salivi in classe, dove eri obbligato a stare seduto “con ambedue le piante dei piedi sul pavimento e gli occhi volti in avanti”. Vietato parlare, ridere, passarsi bigliettini e qualunque altra cosa potesse rendere più lieve il fardello dell’esistenza. Si imparava a memoria, solo che non si apprendeva niente. Una volta la settimana c’era la riunione plenaria. Prima si recitava il giuramento di fedeltà alla bandiera degli Stati Uniti d’America con la mano sul cuore – giusto per essere sicuri che tra noi non ci fosse qualche nazista. Poi un’insulsa preghiera cui non giungeva mai alcuna risposta – fosse anche solo un “Vi farò sapere”. Dio è silenzioso, pensavo; se solo se ne stessero zitte anche quelle arpie...


    E per finire, la musica. Riuscivano sempre a scegliere le canzoni più mosce. Alla radio si ascoltavano Cole Porter, Rodgers & Hart, Gershwin: melodie stupende, ritmi inebrianti. Anything Goes, Lady Be Good, Mountain Greenery: canzoni che ti insegnavano ad amare la musica. E invece no: prima attacchiamo In Flanders Fields the Poppies Grow, giusto per metterci di buon umore. Poi viene Recessional o Abide with Me. A quel punto pensavo di fingere un attacco epilettico per poter andare a casa. Non ce la facevo più. Fatemi mettere il termometro sul calorifero o marinare, lasciate che vada a Manhattan, divori un piatto di vongole da McGinnis’s e vada a vedere Esther Williams che nuota a dorso ai tropici. Ancora adesso mi vengono i brividi se penso alle file mattutine nel seminterrato quando pioveva o nevicava, con la puzza di lana bagnata dei nostri maglioni; o a quando convocavano le nostre madri per avere bisbigliato a un compagno o esserci scambiati un bacio furtivo davanti agli armadietti.


    “Sta sempre appiccicato alle ragazze,” comunicò a mia madre una delle sterili arpie. Sì, mi piacevano le ragazze. Cosa mi dovevano piacere, le tabelline? O i discorsi letali per il giorno del Ringraziamento? Avrei dovuto agognare, come certe amebe, il privilegio di sbattere i cancellini uno contro l’altro per scrollare la polvere di gesso? No, mi piacevano le ragazze. A partire dall’asilo quello che mi interessava non erano le filastrocche o il gioco delle sedie. Volevo prendere la metropolitana con Barbara Westlake, andare a Manhattan, portarla nel mio attico sulla Quinta Avenue, bere cocktail come il dry Martini (qualunque cosa significasse “dry”), uscire in terrazza e baciarla al chiaro di luna. Potete immaginare che tutto ciò non era apprezzato dal corpo insegnante della Public School 99, da mia madre o anche da Barbara Westlake che aveva sei anni, era ignara di dry Martini e singhiozzava disperata quando facevano fuori la madre di Bambi. Per cui, per quanto avessi la fissa dell’Astor Bar, non c’era modo di ubriacarmi. Ovviamente erano tutte chiacchiere. Per quanto ben informato, non avrei mai potuto andare a Manhattan da solo, trovare l’Astor Bar, riuscire a entrare e farmi servire qualcosa di più forte di una gazzosa. Senza considerare il fatto che non avrei saputo dove trovare due nichelini per la metropolitana.


    A furia di venire convocata dalle insegnanti, mia madre divenne un volto familiare. I miei compagni continuarono a salutarla quando la incrociavano per strada, anche dopo essere diventati grandi ed essersi sposati. Nella scena tipo, la maestra ci sta insegnando qualcosa di inutile quando si apre la porta e compare mia madre. Cinque minuti di pausa mentre la befana dai capelli azzurri spiega a mia madre che sono un caso irrecuperabile e che ho passato a Judy Dors un bigliettino in cui le proponevo di andare a bere un cocktail. “Ha proprio qualcosa che non va,” ribadisce mia madre, schierandosi immediatamente dalla parte di chi mi odia. Sì, avevo qualcosa che non andava. Mi piacevano le ragazze. Di loro mi piaceva tutto. Apprezzavo la loro compagnia, mi piaceva la loro anatomia e il suono delle loro risate, e volevo passare il tempo con loro e non nel laboratorio di applicazioni tecniche a costruire un portacravatte sbilenco insieme a maschi trogloditi.


    Alcuni insegnanti tenevano gli alunni in classe dopo la fine delle lezioni a mo’ di punizione, ma guarda caso erano sempre i bambini ebrei. Perché? Perché eravamo piccoli e viscidi usurai e, trattenendoci in classe, avremmo fatto tardi alla scuola ebraica o l’avremmo saltata del tutto. Non sapevano che questa punizione, se posso usare una parola yiddish, per me era una mitzvah – una buona azione. Odiavo la scuola ebraica quanto la scuola pubblica, e vi spiego perché. Per cominciare, ho sempre pensato che la religione fosse un grande imbroglio. Non ho mai creduto nell’esistenza di un dio, né che questi avesse una predilezione per gli ebrei, se mai fosse esistito. Mi piaceva la carne di maiale. Odiavo la barba. L’ebraico era troppo gutturale per i miei gusti. E poi si scriveva da destra verso sinistra. Perché mai? Già avevo i miei guai con l’inglese, che si scriveva nell’altro senso. E perché dovevo digiunare per i miei peccati? Quali erano i miei peccati? Avere dato un bacio a Barbara Westlake invece di appendere il cappotto? Avere rifilato un nichelino falso a mio nonno? Fattene una ragione, o Signore: c’è di molto peggio. Ci sono i nazisti che ci mettono nei forni. Pensa a quelli, piuttosto. Ma, come ho detto, non credevo in Dio. E perché in sinagoga le donne dovevano stare al piano di sopra? Erano più carine e intelligenti degli zeloti barbuti che giù da basso si avvolgevano scialli di preghiera, ciondolavano la testa come pupazzi adorando un potere immaginario che, se esisteva, ripagava tutti i loro salamelecchi con il diabete e il reflusso gastrico.


    E io avrei dovuto sprecare il mio tempo in quelle cose? Non vedevo l’ora che alle tre suonasse la campanella per poter correre fuori e andare a giocare; e invece no, dovevo sedermi in un’altra aula, a leggere parole ebraiche di cui non ci veniva mai spiegato il significato e imparare che gli ebrei avevano stretto un accordo speciale con Dio, solo che poi si erano dimenticati di metterlo nero su bianco. Ma ci andavo. I miei mi facevano una testa così, e poi c’era la minaccia di togliermi la paghetta, di non farmi sentire la radio e infine le botte. Mia madre mi picchiava almeno una volta al giorno. All’epoca le botte erano la prassi, anche se da mio padre le presi solo una volta, quando gli dissi di andare a farsi fottere e manifestò il suo disappunto con un buffetto che mi fece vedere l’aurora boreale in tutto il suo splendore. Invece mamma me le dava ogni giorno, come nella vecchia battuta di Sam Levenson – “Io non so che cosa hai fatto per meritarlo, ma tu sì.” Così alla fine anch’io feci il mio bar mitzvah, con tutte le lezioni preparatorie del caso in cui mi insegnarono anche a cantare in ebraico. Per citare l’Antico Testamento, ci furono molto pianto e stridore di denti.


    In famiglia quella osservante era mia madre, e mangiavamo solo kosher. Era abbastanza intransigente sull’esclusione di maiale, pancetta, prosciutto, crostacei e molte altre delizie concesse ai fortunati infedeli. Per farla star buona, mio padre fingeva di essere osservante, ma appena poteva non nascondeva più la sua dipendenza dal cibo proibito e si ingozzava di carne di maiale e crostacei come un lupo affamato. Così ogni tanto, al ristorante, mi concedevo un pasto che non aveva il nullaosta di Yahweh, come lo chiamavano gli amici. Mi ricordo quando avevo otto anni e mio padre mi portò per la prima volta da Lundy’s, un famoso ristorante di pesce a Brooklyn, dove potei ingozzarmi di vongole, ostriche e capesante, con la sicurezza che quel giorno Dio fosse da qualche altra parte. Fu anche la prima volta in cui vidi portare in tavola una ciotola per le dita. Non sapevo neanche che esistesse e l’esperienza fu esaltante come se avessi una piscina tutta per me. Ne rimasi così colpito che, quando due anni dopo ci tornai con mia zia, in testa avevo solo la ciotola per le dita. Così, quando ci servirono le vongole note come steamers con il brodino a parte, ero convinto che quest’ultimo servisse a pulirsi le dita. Il mio entusiasmo vinse il cauto scetticismo della zia, e ci lavammo le mani nel brodo. Fu solo quando, alla fine del pasto, arrivarono le vere ciotole per le dita che mia zia si accorse dell’errore, e mi percosse affettuosamente in testa con la sua borsa, almeno una dozzina di volte.


    Dicevamo: sono ancora un ragazzino, mi piacciono i film, le donne, gli sport, odio la scuola, mi struggo per un dry Martini. Sono un pessimo studente, lo ammetto, ma una cosa ho sempre saputo fare: scrivere. Sapevo scrivere prima di leggere. Ho imparato a leggere solo in prima elementare, ma quando tornavo a casa dall’asilo sapevo già scrivere. Cioè inventavo storie. Scrivevo senza scrivere nulla, secondo le antiche consuetudini della tradizione orale. Ma le mie storie non erano cupe come il Beowulf o la ballata di Lord Randall: si svolgevano in attici lussuosi, in anticipazione di un futuro mai contaminato da un solo giorno di onesto lavoro.


    Nel frattempo sognavo di essere uno scienziato e mi venne regalato un microscopio. Mi sarei lasciato alle spalle questa nobile ambizione, sedotto da uno stile di vita alimentato dalla Metro-Goldwyn-Mayer. E ricevevo un due di picche dopo l’altro da ragazze carine, studiose e dalla calligrafia impeccabile. “Oddio, no. Mia madre non mi darebbe mai il permesso.” “A New York? In metropolitana? Impossibile.” E, più tardi: “Mi spiace, non esco mai con ragazzi della mia età.”


    Arriva il giorno del bar mitzvah. Oggi si fanno bar mitzvah a tema: Star Wars, i cavalieri della tavola rotonda, il selvaggio West. Quello del mio era Bassifondi di Gor’kij. La mia iniziazione all’età adulta non si svolge in un posto elegante, ma a casa nostra, vicino ai binari della ferrovia. Gli zii e altri uomini che fumano due pacchetti di sigarette al giorno, malgrado infarti e ictus, mi sorridono e mi stringono la mano con aria furbesca allungandomi un biglietto da dieci. Manco fossero mille dollari. Le mie zie, le mie cugine, Rita, sua sorella maggiore Phyllis che fa l’infermiera e che sembra provata nel fisico come Eve Curie, Phil Wasserman e, ovviamente, l’altro Phil Wasserman. Il Phil originale è un tipo parecchio divertente che fa l’addetto stampa. Anni dopo, quando comincerò a scrivere le mie prime battute, gliele farò leggere, e lui mi incoraggerà a mandarle ai giornalisti di Broadway che curano rubriche dove varie spiritosaggini vengono attribuite alle celebrità. Seguirò il consiglio, e le mie modeste freddure mi apriranno un intero universo.


    Ma a tredici anni ero ancora un ragazzino molesto, uno sbruffoncello che conosceva un’infinità di barzellette e incominciava a fiutare il mondo dello spettacolo. A questo proposito vorrei descrivere il rinfresco che seguì alla nostra festicciola ashkenazita, in cui un giovane ebreo in teoria doveva diventare uomo, anche se io rimasi un topo. All’epoca mio padre faceva il cameriere, uno dei suoi svariati mestieri, tra i quali un metodo a prova di bomba per diventare ricchi vendendo prestigiose collane di perle per posta. Solo che non si trovò nessuno disposto a comprare una sola perla, e per molti mesi il nostro appartamento fu invaso dalle prestigiose collane. Alla fine lo stock venne ritirato al quindici per cento del prezzo di acquisto. Ma adesso sgobbava al Sammy’s Bowery Follies, tutti i giorni dalle sei del pomeriggio alle cinque di mattina

Si trattava di un locale rétro con la segatura sul pavimento e dove signore pettorute alla Sophie Tucker cantavano melodie di fine Ottocento con grandi cappelli e vestiti di dubbio gusto. Una di questa matrone era Mabel Sidney, sorella dell’attrice Sylvia e del regista George. All’epoca ignoravo la sua famiglia: sapevo solo che cantava a squarciagola Who’s Sorry Now, You Tell Me Your Dream e altri successi del tempo che fu. Gentilmente accettò di presenziare al mio tredicesimo compleanno, e mise un po’ di brio in un evento che altrimenti sarebbe stato identico alle esequie di mio zio Abe al Riverside Cemetery. In quegli anni la nostra famiglia traeva sempre vantaggio dal fatto che mio padre lavorasse sulla Bowery, con tutti gli alcolizzati che affollavano ogni bar o dormitorio sotto la sopraelevata. Tra di loro erano rappresentate tutte le professioni, dal muratore all’archeologo, dal broker al marinaio, dall’attore all’imbianchino. Uomini che non avevano realizzato i loro sogni e adesso erano ubriaconi all’ultimo stadio. Anime perse che non chiedevano altro che avere i soldi per bere. E così, per pochi dollari, ci facevamo ristrutturare casa da una squadra di avvinazzati, sempre che si presentassero. Magari i lavori subivano degli intoppi, ma alla fine non ci lamentavamo. Mamma dava loro da mangiare in abbondanza, ma dovevano bere in bicchieri loro riservati, che poi penso venissero spediti alle isole Marshall, dove il governo americano smaltiva i rifiuti tossici.


    Un altro vantaggio del lavorare tra i tristi etilisti della Bowery era che molti di loro erano dei ladri. Quello che cercavano erano i soldi per il giro successivo, e così, se qualcuno lasciava in giro qualcosa, scompariva in pochi secondi. I “John Banana” – a volte venivano chiamati così – entravano in un locale come quello in cui lavorava mio padre, o lo avvicinavano per strada offrendogli merce rubata: un soprabito, un registratore, delle bistecche. In cambio volevano solo di che pagarsi un bicchiere di whiskey. Mio padre, sempre aperto a proposte di questo tipo, li accontentava. In questo modo avemmo una macchina da scrivere Underwood a un dollaro e mezzo, un frullatore, una pelliccia per mia madre, giusto per citare i pezzi più pregiati. Scrissi le mie prime battute su una macchina da scrivere rubata e mi feci il mio primo latte al malto con un Hamilton Beach di dubbia provenienza. Comunque Mabel Sidney diede una botta di vita al mio bar mitzvah muggendo My Man per una congerie di ebrei cenciosi.


    Tra gli altri regali che ricevetti ci fu un manuale di illusionismo. Le sue foto di scatole magiche, gabbie che scompaiono, palline, fazzoletti, ghigliottine e innumerevoli altri attrezzi alimentarono in me un interesse che diventò un’ossessione, e in breve cominciai a passare tutto il tempo libero a esercitarmi; e, come facevano i John Banana con il bourbon, spendevo in trucchi ogni centesimo che riuscivo a estorcere, prendere in prestito o rubare. Possedevo tutti gli attrezzi tradizionali: anelli, bicchieri e palline, un sacchetto magico di velluto rosso, serie di bottiglie passe-passe – tanti effetti sorprendenti di cui non conoscete il nome ma che avete visto tante volte. Nel “sogno del povero”, per esempio, afferravo in aria monetine che poi lanciavo in un secchiello.


    Con il tempo andai oltre le cianfrusaglie con i brillantini, le bacchette con i foulard e i bauli con il doppio fondo. Cominciai a capire che a essere davvero importanti erano i libri, e i trattati di illusionismo furono tra le mie prime letture, se non le prime in assoluto. Capii che comprare attrezzature disponibili a chiunque era uno spreco di tempo e di soldi. Il bello era imparare giochi basati sulla destrezza manuale, e per questo occorreva leggere e fare esercizio, continuo esercizio: nascondere monete tra le mani, estrarre carte da sotto il mazzo, tagliare e ricomporre corde, manipolare fazzoletti di seta, palle da biliardo e sigarette. Pensavo di essere abbastanza bravo ma, quando vedo a quali livelli si è arrivati oggi, rimango senza fiato. In questa arte esigente e bizzarra ci sono prestigiatori che, per dedizione e talento, sono paragonabili a Jascha Heifetz o a Glenn Gould. Io non sono come loro, ed è di me che devo parlare, quindi andiamo avanti.


    Nello stesso periodo in cui contrassi il virus dell’illusionismo, ed ero già un malato di cinema che voleva vivere sulla Quinta Avenue, preparare cocktail e battibeccare nel mio attico con una star della Paramount, feci un’altra esperienza apocalittica. Qualche tempo prima, a undici anni, avevo cominciato a prendere la metropolitana, passare il fiume e andare a Manhattan a spendere la mia paghetta. Era davvero insolito per un ragazzo della mia età, ma avevo un sacco di libertà, o forse ai miei genitori non importava se venivo rapito. E, anche se non riuscii mai a farmi accompagnare da una ragazza, a volte ci andavo con il mio amico Andrew. Anche lui era affascinato dal mondo dello spettacolo, era un ragazzino grazioso e aveva genitori benestanti che lo viziavano molto più di quanto i miei facessero con me, tant’è che finì per buttarsi da una finestra a vent’anni, quando la vita vera cominciò a presentargli il conto. Povero Andrew: da una parte la droga, dall’altra la finestra della sua stanza in ospedale. Allora eravamo due sognatori precoci che ogni tanto andavano a Times Square, gironzolavano, entravano in un cinema, mangiavano da Roth’s o da McGinnis’s finché i soldi non erano finiti. Park Avenue, la Quinta Avenue, Central Park: era nella Manhattan dei film di Hollywood che fuggivo.


    Un sabato, non trovando un film che ci piacesse, prendemmo il giornale e scoprimmo che in una sala di Brooklyn, il Flatbush Theater, davano un film comico di basso rango, non ricordo più se con i Ritz Brothers o con Olsen & Johnson, che invece volevamo vedere. Riprendiamo la metropolitana, troviamo il cinema all’angolo tra Flatbush e Church Avenue, e vediamo che oltre al film ci sono cinque numeri di vaudeville. Finito il film si alza il sipario e sul palcoscenico c’è un’orchestra al completo, quella di Al Goodman con Willie Krieger alla batteria. E vedo i cinque numeri: un cantante, un ballerino di tip tap, un altro cantante, un comico. Sono travolto. Mi sorbisco entusiasta ogni secondo dell’esibizione di quegli intrattenitori scalcinati che mugolano Come Back to Sorrento o ticchettano Tea for Two con le loro scarpette. E poi battute risapute e imitazioni di James Cagney, Clark Gable, Bing Crosby e Bette Davis. Il vaudeville mi prende a tal punto che ci torno tutti i sabati, per anni, senza mai saltare una sola volta, finché la sala chiude e riapre come un vero e proprio teatro con Three Men on a Horse. Erano i comici quelli che mi piacevano di più e presto, portandomi una matita e scrivendo le loro battute sull’interno di una scatola di caramelle, riuscii a replicare tutti i loro sketch e tutte le loro imitazioni delle star di Hollywood, con la certezza che, tra i giochi di prestigio e gli spettacoli comici, sarei finito anch’io su un palcoscenico.


    Il mio debutto avvenne a quattordici anni, in un ritrovo del quartiere. Un tipo gentile che si chiamava Abe Stern mi ingaggiò per pura generosità, senza neanche farmi un’audizione e pagandomi due dollari – probabilmente una cifra commisurata al suo budget. Eseguii qualche monotono gioco di prestigio, usando mia sorella come spalla. Il suo compito era stare seduta in mezzo al pubblico e urlare: “L’ho visto! Ha messo l’uovo sotto il braccio!” Ovviamente l’avevo messo altrove, ma il pubblico reagiva come una folla di linciatori, chiedendo che alzassi il braccio per scoprire il trucco e umiliarmi. Quando alzavo il braccio, però, non c’era niente; l’uovo, nel frattempo, era finito nel sacchetto magico. C’era un’altra mezza dozzina di giochetti dello stesso livello e, mentre il pubblico ormai crollava dal sonno, uscii di scena, sperando di avere meritato i miei due dollari. Ricordo anche di avere fatto un provino per un programma televisivo, Magic Clown, con due bottiglie di whiskey che scomparivano e riapparivano. Inutile a dirsi, non mi presero. Ma notai che, ogni volta che infliggevo i miei letali giochi di prestigio, le chiacchiere che mi venivano spontanee mentre mi aggiravo nervosamente sul palco facevano sempre ridere il pubblico. Lì per lì non pensavo di avere qualche chance come comico, ma solo di essere un illusionista fallito. Per non sprecare tutte le ore passate a esercitarmi davanti allo specchio, decisi di usare la mia destrezza con le carte per barare e prendere i soldi della gente – insomma, per citare Max Shulman (uno scrittore molto divertente e, insieme a Mickey Spillane, l’unico che mi capitasse di leggere): “Diventa ricco, dormi fino a tardi, e fottili tutti.”


    Una volta, a scuola, venne annunciato che ci sarebbe stato un talent show. Decisi di fare delle imitazioni, e scelsi Cagney, Gable e Peter Lorre. Mentre aspettavo il mio turno, osservai un altro ragazzo. Si proponeva come comico, ma non aveva saccheggiato il “Reader’s Digest” o qualche altra triste raccolta. Non sembrava uno di quegli insegnanti imbarazzanti che per sollevare il morale a un raduno raccontano l’ultima sui dentisti. No, Jerry Epstein aveva preparato un pezzo professionale e ben organizzato, con battute spiritose e osservazioni sui film di guerra e quelli di gangster. Aveva fatto un lavoro coi fiocchi. Una volta usciti, lo avvicinai accanto alla montagna di neve sul marciapiedi che costeggiava la scuola. (Mi sono dimenticato di dirvi che era un inverno molto nevoso.) Cominciammo a parlare e scoprimmo di avere tanti interessi in comune: non solo la comicità, ma anche il baseball. In seguito avremmo giocato nella stessa squadra. Lui era un bravo prima base mancino, io un seconda base.


    E qui posso smentire un altro equivoco, che si somma a quello secondo cui sarei un intellettuale. La gente pensa che, non essendo un gigante e portando gli occhiali, dovevo per forza essere una schiappa. Sbagliato. Scattavo come un centometrista, ero un bravo giocatore di baseball e accarezzavo l’idea di diventare un professionista; e se non lo feci, fu solo perché di punto in bianco trovai lavoro come battutista. Giocavo a basket all’aperto e sapevo lanciare la palla a un miglio di distanza. Non mi aspetto che ci crediate ma, se incrociate qualcuno del mio vecchio quartiere, chiedetelo a loro. Quando capita a me di incontrarli, finiscono sempre per parlare del mio talento nei giochi di squadra e mai, chissà perché, dei miei film. Molti altri vi diranno delle mie doti al tavolo da poker. A trent’anni giocavo tutte le notti, dalle due all’alba, e guadagnavo di che vivere e comprarmi un acquerello di Nolde e un disegno di Kokoshka. Smisi solo perché David Merrick mi disse di essere stato anche lui un giocatore, ma di avere smesso una volta resosi conto di tutto il tempo che sprecava. Mi suonò un campanello in testa, e smisi.


    Anche con il baseball ci fu un taglio netto. In seguito mi capitò di giocare a softball nel campionato della Broadway Show League, ma è uno sport che non mi è mai piaciuto. Una volta stavo andando alla mia posizione nel campo esterno quando un giocatore più giovane mi disse: “Signor Allen, non si preoccupi. Se non riesce a prendere la palla, ci penso io.” Lo guardai e pensai: stai scherzando? Qualunque palla arrivi da queste parti, la recupero, ci faccio sopra l’autografo e la rilancio. Qualche secondo dopo mi passò davanti al naso una battuta tesa che da giovane avrei preso a occhi chiusi. Posai a terra il guantone, uscii dal campo, chiesi di essere sostituito e non toccai più una palla in vita mia. L’umiliazione fu così intensa che sento la vergogna ancora adesso, mentre scrivo.


    Un’altra umiliazione che provai fu in una partita di attori contro ex campioni al Dodger Stadium. Io e un gruppo di colleghi cani – intendo come giocatori di baseball – giocavamo contro gente come Willie Mays, Willie McCovey, Boog Powell, Jimmy Piersall, Roberto Clemente. Chissà perché i bookmaker li davano come favoriti. Mi trovai di fronte a Don Drysdale come lanciatore e venni eliminato subito. In seguito ebbi comunque il privilegio di essere eliminato da Willie Mays con una palla spiovente. L’anno dopo incontrai un tipo con cui ero cresciuto nel quartiere e la prima cosa che mi disse fu: “Ho visto la tua partita di softball in televisione. Come hai fatto a non prendere quel lancio di Drysdale?” Già, avrei dovuto tenere i piedi più vicini e magari avrei colpito la palla. Adesso ci manca solo che mi svegli nel cuore della notte, roso dal rimorso, pieno di rabbia e di disprezzo per me stesso. Come ho fatto a non colpire quella palla? La prossima volta terrò i piedi più vicini. Userò un’altra mazza. Vado in iperventilazione, vedo girare la stanza. Non devo sbagliare. Datemi un’altra mazza. Ho ottantaquattro anni. È troppo tardi? Dove sono? A che punto eravamo?


    Ah sì, sul marciapiedi coperto di neve. Jerry mi dice che ha un fratello più grande, Sandy, e che in famiglia è lui il vero comico. Fa il presentatore agli spettacoli del Dickinson College e dovrei conoscerlo. E andiamo subito in Avenue J a incontrare uno che fin da subito ebbe una notevole influenza su di me: Sandy Epstein. Quando era sul palco, sembrava uno stand-up comedian professionista. “Sapete, non riuscivamo a decidere se seppellire la nonna o cremarla. Così alla fine l’abbiamo lasciata vivere.” E anche se non è né Oscar Wilde né George Bernard Shaw, era il tipo di battute su cui campava chi faceva il comico di mestiere. Mi insegnò un’infinità di sketch e di battute. E quando finalmente mi lasciai alle spalle la Public School 99 ed entrai alla Midwood High School, la mia classe divenne il mio palcoscenico, con grande irritazione degli insegnanti. Non passò molto che mia madre cominciò a venire convocata di frequente e a provare imbarazzo per suo figlio che cercava di spiegare alla preside la battuta: “Quella ragazza era fatta come una clessidra, e il mio unico desiderio era giocare con la sua sabbia.” In quell’epoca pudibonda si stava molto attenti a qualunque cosa potesse essere “inappropriata”. In un club per ebrei feci degli sketch che ebbero un gran successo, e non avevo ancora finito il primo anno di superiori che ero un aspirante comico, un aspirante illusionista, un aspirante giocatore di baseball, ma alla fin fine solo un pessimo studente. Al cinema ero lo sbruffone che faceva una battuta durante una scena romantica e faceva scoppiare dal ridere quelli che la sentivano. Anche se molti altri mi intimavano di stare zitto.


    Il mio amico Jerry comprò un registratore a bobine e mi mostrò tutto fiero come funzionava.


    “Che musica è?” chiesi.


    “Un programma di jazz che ho registrato alla radio,” rispose. “Si chiama Ted Husing Bandstand.”


    “Forte,” dissi, dando una manata ai miei libri e rischiando di farli cadere nel secchio della spazzatura.


    “È un concerto che hanno fatto in Francia.”


    “E chi è che suona?”


    “Sidney Bechet.”


    “Chi?”


    “Uno di New Orleans che suona il sassofono soprano.”


    Era la prima volta che sentivo quel tipo di jazz. Perché mi trovasse così ricettivo non lo saprò mai. Da una parte c’era un ebreo di Brooklyn che non era mai andato più in là di New York, che amava autori popolari ma sofisticati come Gershwin, Porter, Kern, e dall’altra gli afroamericani del profondo Sud, che con me non avevano niente in comune ma che presto divennero un’ossessione. E presto diventai un aspirante comico, un aspirante illusionista, un aspirante giocatore di baseball e un aspirante jazzista. Mi comprai un sassofono soprano e imparai a suonarlo; mi comprai un clarinetto e imparai a suonarlo. Comprai anche un giradischi Victrola, che potevo suonare senza prendere lezioni. Compravo dischi, libri sulla nascita del jazz, biografie di Louis Armstrong. Io e miei amici Jack, Jerry ed Elliot dovevamo sembrare uno strano quartetto. Mentre gli altri ragazzi erano sommersi dalla musica pop e commerciale dell’epoca – Patti Page, Frankie Laine, The Four Aces – noi ce ne stavamo davanti ai nostri giradischi ad ascoltare jazz, ora dopo ora, giorno dopo giorno.


    Il jazz ci interessava tutto, ma preferivamo quello di New Orleans delle origini. Bunk Johnson, Jelly Roll Morton, Louis Armstrong e ovviamente Sidney Bechet, che veneravo e su cui modellai il mio stile (se questo non vi fa ridere, posso anche gettare la spugna). Me ne stavo da solo nella mia cameretta a suonare con i dischi di Bechet e poi di George Lewis – un altro mio idolo. Con lui e Johnny Dodds, un altro grande del clarinetto, mi sembrò di avere finalmente trovato me stesso. Il piacere era così intenso che decisi di dedicare la mia vita al jazz. Non mi rendevo bene conto che Bechet, Armstrong, George Lewis, Johnny Dodds e Jelly Roll Morton erano dei geni. Il loro linguaggio musicale era primitivo, ma nel contesto del jazz di New Orleans possedevano qualcosa di davvero magico che trasudava da ogni nota che suonavano. E io, da quell’ingenuo babbeo che ero, non capivo che non avevo quel genio, e che ero destinato, malgrado tutto il mio entusiasmo e amore per la musica, a essere una nullità, ascoltato e tollerato per via della mia fama cinematografica e non certo perché valessi qualcosa, jazzisticamente parlando.


    Comunque mi esercitavo seriamente, e continuo a farlo ancora adesso. Mi esercito tutti i giorni, e con tale dedizione che mi è capitato di farlo su spiagge gelide, dentro chiese mentre la mia troupe sistemava le luci, in stanze d’albergo dopo il lavoro, a mezzanotte, tirandomi le coperte del letto sopra la testa per non svegliare gli altri ospiti. Eppure, con tutta la musica che ho ascoltato, con tutte le entusiasmanti biografie di musicisti che ho letto, con tutti i bocchini e le ance che ho provato alla ricerca di un suono migliore, faccio sempre schifo. Rimango sempre un tennista della domenica rispetto a Federer e a Nadal. Mi spiace dirlo, ma non ho orecchio, timbro, senso del ritmo, feeling. Ciò nonostante ho suonato in pubblico in locali e sale da concerto, in teatri d’opera europei e in affollati auditorium americani. Ho suonato al Carnevale di New Orleans e in bar della stessa città, al Jazz & Heritage Festival e alla Preservation Hall nel quartiere francese, e solo perché posso sfruttare la mia carriera cinematografica. Anni fa Dotson Rader, che è un uomo di spirito, mi chiese: “Ma non ti vergogni?”


    Stretto tra il mio amore per la musica e i miei limiti tecnici, se voglio suonare non posso permettermi la vergogna. Cercai di spiegargli che all’inizio suonavo solo a casa, con gli amici. Lo facevamo per divertirci, come altri giocano a poker una volta la settimana. Furono loro a suggerire, a un certo punto, di suonare nei bar o nei ristoranti, per avere un minimo di pubblico. Alle spalle avevo anni di esperienza nei night-club, e non smaniavo per avere altro pubblico, ma loro sì, e acconsentii. Decenni dopo quei miseri esordi, diventammo un’attrazione fissa del Carlyle Hotel di Manhattan, e abbiamo sempre fatto il tutto esaurito in Europa, con folle anche di ottomila persone che facevano la fila sotto la pioggia per venire a sentirci. Ma torniamo al ragazzo di Brooklyn incantato dal jazz alle prese con un clarinetto. Telefono a un grande musicista, Gene Sedric, il clarinettista di Fats Waller, e dico: “Sono il ragazzo che ogni settimana sta sempre in prima fila quando suoni nella band di Conrad Janis. Sarebbe possibile che tu mi dessi delle lezioni di clarinetto?” Mi aspetto che mi mandi a quel paese, invece mi dice che mi costerà due dollari. Così, per un paio di biglietti, ogni settimana si fa un viaggio in metropolitana da Harlem a Flatbush e, dato che non so leggere la musica, prende il suo strumento, suona qualcosa e mi fa: “Ripeti.”


    Cerco di imitarlo ma, non avendo orecchio né talento, fallisco. Lui mi segue pazientemente, settimana dopo settimana, e miglioro – anche se il talento rimane un’altra cosa. Diventiamo grandi amici; fino alla sua morte è stato una grande fonte di incoraggiamento ma, se mi sentiste suonare, potreste accusarlo di essere stato un istigatore a delinquere.


    L’episodio che mi portò a suonare con altre persone – dato che per anni suonai solo con i dischi – avvenne quando lavoravo come comico in un locale di San Francisco che si chiamava Hungry i. Tra uno spettacolo e l’altro facevo il giro dell’isolato e mi piazzavo davanti all’Earthquake McGoon’s dove suonava la band del grande trombonista Turk Murphy. Restavo lì fuori ad ascoltare, tutte le sere, finché uno della band mi chiese: “Perché non vieni ad ascoltare?” Da timido e sfigato patito di jazz risposi che mi bastava starmene sul retro appoggiato all’uscita di sicurezza per carpire qualche briciola di piacere dalla musica che veniva suonata dentro. Turk, comunque, non sentì ragioni. Ero il comico con il primo nome in cartellone all’Hungry i, e dovevo entrare e godermi la band.


    Così feci, iniziammo a chiacchierare, Turk si rese conto che avevo una conoscenza sterminata del jazz, e saltò fuori che suonavo il clarinetto. Senza sapere in cosa andava a cacciarsi, insistette che lo portassi e mi unissi a loro. Dopo molto tergiversare lo feci, e devo dire che conoscevo tutti i pezzi. Turk mi disse di tornare quando volevo. I musicisti furono molto gentili e prodighi di incoraggiamento, e quando suonavo si tappavano le orecchie con la massima discrezione. Di ritorno a New York, dopo avere suonato con la band di Turk Murphy, non mi bastava più suonare da solo, e misi insieme un gruppo con cui ci si vedeva una volta la settimana. Il resto è storia – ma questo vale anche per l’Olocausto.


    Anni dopo, Turk era di passaggio a New York e lo invitai a suonare con la mia band al Michael’s Pub. Accettò, e non mi sfuggì l’ironia della sorte nel fatto che io avevo esordito tremando con la sua band e adesso, anni dopo, era lui a unirsi alla mia, con sorprendente nervosismo. Poi, rendendomi conto che questa presunta ironia della sorte non significava un bel niente, pensai ad altro. Adesso, quando faccio un assolo, l’unica cosa che mi viene in mente è che due grandi musicisti jazz, Gene Sedric e Turk Murphy, si stanno rivoltando nella tomba.


    Intanto gli ormoni del somaro quindicenne dalle multiple aspirazioni raggiungevano la massa critica: iniziava la mia vita amorosa, che altri avrebbero potuto definire “teatro dell’assurdo”. Alla deriva in un mare di testosterone, più che sesso cercavo una combinazione tra la sensualità di Rita Hayworth, la devozione di June Allyson e l’umorismo sarcastico di Eve Arden. Un cocktail difficilmente disponibile sul pianeta Terra, figuriamoci tra le quindicenni del quartiere per cui uscire insieme significava andare al cinema, bere una bibita ed estrarre la chiave a sei isolati da casa per essere sicure di aprire la porta e schizzare dentro prima che le potessi baciare. Non che non ci fossero ragazze promettenti: semplici, carine, intelligenti, elegantemente nevrotiche e annoiate a morte da uno smidollato come me che sapeva parlare solo di film con Bob Hope e tecniche per intercettare un tiro a effetto. Una ragazza mi chiese di portarla a vedere un film tratto dai racconti di O. Henry. Mi chiesi cosa c’entrasse la barretta di cioccolato Oh Henry! Un’altra voleva indirizzare la conversazione su Dalla parte di Swann, ma io ero troppo preso a mostrare com’era buffo Milton Berle quando camminava sui lati dei piedi. Erano ragazze che leggevano e parlavano francese; una era stata addirittura in Europa e aveva visto il David di Michelangelo.


    “Sì,” dicevo, fremendo per tornare su un terreno a me noto, “ma quando quel pacioccone di Szakáll fa ciondolare le guance...” Perché mi affascinavano quelle ragazze? La loro era una bellezza priva di artifici, sempre vestite di nero con orecchini d’argento. Non erano banali. Avevano un’intelligenza seducente. Erano di sinistra, mentre le mie conoscenze, in fatto di politica, si fermavano a Lincoln che aveva abolito la schiavitù. Sapevano canticchiare i Concerti brandeburghesi, e correva voce che fossero sessualmente progredite, anche se non potei mai appurarlo, dato che le nostre uscite serali spesso si concludevano all’improvviso, con scuse poco convincenti come un impegno inderogabile nelle Indie Orientali o struzzi domestici da nutrire. Una volta una di loro mi chiese di accompagnarla al Greenwich Village, dove mi trascinò a un Macbeth interpretato da marionette thailandesi. Per fortuna mi svegliai prima che calasse il sipario. In seguito, in un localino a lume di candela, si lanciò in una tirata su Czesław Miłosz e la perversione della dialettica mentre io la spogliavo mentalmente. Seguì un locale di musica folk dalle pareti di mattoni dove Josh White cantava canzoni sui lavori forzati e un uomo che andava in giro a prendere i nomi della gente, come per altro stava facendo in quel momento uno dell’FBI nascosto nel retro. Per finire la riaccompagnai a casa, dove si precipitò dentro per evitare i miei tentativi di baci sbattendomi la porta in faccia.


    Feci del mio meglio per essere all’altezza, ma chi era quel Lupo della steppa? E cosa aveva detto di così interessante Sidney Hook? Non la rividi più, ma essendomene innamorato capii che dovevo colmare le lacune; Stendhal e Dostoevskij avrebbero sostituito il gatto Felix e Little Lulu. Così iniziai a leggere. Certe cose mi piacevano, altre no. Non ero un onnivoro insaziabile. C’era comunque la concorrenza degli sport, dei film, del jazz, dei giochi con le carte, per tacere della fatica di affrontare certi libri stampati fitti fitti. Sono ancora sgomento al ricordo della sadica interlinea della Montagna incantata. Comunque avevo paura di essere emarginato socialmente se le mie conoscenze si limitavano al nome dell’assassino della Scala a chiocciola o ai testi delle canzoni degli Ames Brothers. Leggevo romanzieri, poeti, filosofi; avevo i miei problemi con Faulkner e Kafka, me la passavo peggio con Eliot e ovviamente con Joyce, ma amavo Hemingway e Camus perché erano più semplici e mi davano qualcosa; quanto a Henry James, non arrivai mai alla fine di un suo libro, per quanto mi sforzassi. Mi piacevano Melville ed Emily Dickinson, e mi presi la briga di documentarmi sulla vita di Yeats per apprezzare le sue poesie. Fitzgerald non mi faceva impazzire, ma amavo Thomas Mann e Turgenev. Mi piaceva Il rosso e il nero, soprattutto quando il suo giovane eroe si chiede se sedurre la più anziana e sposata Madame de Rênal. Inserii una parodia di quell’episodio nella mia commedia Provaci ancora, Sam, che interpretai a Broadway con Diane Keaton. Lessi Charles Wright Mills e Ginger Man, e Norman Oliver Brown mi fece scoprire cos’è la perversità polimorfa.


    Le mie letture disordinate lasciavano ampie lacune nella mia cultura, ma adesso ascoltavo anche musica classica, visitavo i musei e cercavo di farmi un bagaglio non per qualche nobile aspirazione, ma per non fare la figura del babbeo con le donne che mi piacevano – anche se in sostanza un babbeo era quello che continuavo a essere. A tutt’oggi, la mia poesia preferita è quella delle canzoni, e niente che abbiano scritto Eliot, Pound o Auden mi commuove come questi versi di Cole Porter: “Non vali un patrimonio / come un asparago fuori stagione.”


    Sapevo che Edith Wharton, Henry James e Fitzgerald avevano scritto di New York, ma la città in cui mi riconoscevo era quella descritta da Jimmy Cannon, cronista sportivo con l’anima di un sentimentale poeta irlandese. Rimarreste allibiti nel sapere tutto quello che non so, non ho letto e non ho visto. Dopo tutto sono un regista, uno scrittore. Non ho mai visto l’Amleto a teatro. Non ho mai visto Piccola città. Non ho mai letto Ulisse, Don Chisciotte, Lolita, Comma 22, 1984. Mai letto una riga di Virginia Woolf, E.M. Forster, D.H. Lawrence; lo stesso vale per Dickens e le sorelle Brontë. D’altro lato ero uno dei pochi miei coetanei ad avere letto il romanzo scritto da Joseph Goebbels. Sì, il vermiciattolo zoppo che teneva le pubbliche relazioni per il Führer fece un tentativo letterario intitolato Michael – il cui protagonista, a scanso di equivoci, non era un giovanotto nevrotico che voleva a tutti i costi piacere alle ragazze.


    Per quanto riguarda i film, non ho mai visto Charlot soldato o Il circo di Charlie Chaplin, né Il navigatore di Buster Keaton. Non ho mai visto nessuna delle versioni di È nata una stella. Malgrado tutti i miei sabati al Midwood Theater, mi sfuggirono Com’era verde la mia valle, Cime tempestose, Margherita Gauthier, Perdutamente tua, Ben-Hur e molti altri. Strada maestra, La casa sulla scogliera, La moglie di Frankenstein: non pervenuti. Non lo dico per snobismo: sto parlando della mia ignoranza e del fatto che un paio di occhiali non bastano a rendere colta una persona, e tanto meno intellettuale. E questo è solo un piccolo esempio delle mie lacune. A tutt’oggi, non ho mai visto È arrivata la felicità o Mr. Smith va a Washington.


    Certo, non è che non conosca proprio niente e, crescendo, mi sono visto la mia dose di film stranieri. Comunque penso che sareste sorpresi da alcuni dei miei gusti. Per esempio preferisco Chaplin a Keaton. La maggior parte dei critici e degli studiosi non sarebbe d’accordo con me, ma io lo trovo più divertente, anche se Keaton era migliore come regista. Chaplin fa più ridere anche di Harold Lloyd, che metteva in scena le gag in modo impeccabile, ma non mi ha mai fatto vibrare di empatia. Non sono mai stato un grande fan di Katharine Hepburn. Anche se è impressionante nel Lungo viaggio verso la notte e in Improvvisamente l’estate scorsa, il suo film migliore, spesso la trovo molto artificiale. Piangere era la sua specialità. Invece amavo Irene Dunne e Jean Arthur. Spencer Tracy sembrava sempre molto vero, tranne in Lui e lei.


    Non sono mai stato un grande fan di Lenny Bruce, mentre la mia generazione è impazzita per lui. Non ho mai pensato un secondo di essere un comico migliore di lui, neanche lontanamente. Sono molto critico delle mie capacità di stand-up comedian, ma non sono ancora arrivato a questo periodo della mia vita. Sto solo indicando alcune icone che sorprendentemente per me significano meno che per il grande pubblico. Come A qualcuno piace caldo e Susanna!: non mi hanno mai divertito. E non mi piace La vita è meravigliosa, che mi fa venire voglia di strozzare quel melenso angelo di seconda classe. Ho adorato Hitchcock, ma non La donna che visse due volte. Lubitsch mi fa impazzire, ma Vogliamo vivere! non mi ha mai fatto ridere. Mancia competente invece mi stende, è perfetto.


    Mi piacciono i musical: Cantando sotto la pioggia, Gigi, Incontriamoci a Saint Louis, Spettacolo di varietà, My Fair Lady. Non mi è mai piaciuto Un americano a Parigi. Non mi hanno mai fatto ridere Eddie Bracken, Laurel & Hardy o, ci mancherebbe altro, Red Skelton. Ovviamente i fratelli Marx e W.C. Fields sono i più grandi di tutti. Mi sono piaciuti Rex Harrison in Infedelmente tua e il Pigmalione di Leslie Howard con Wendy Hiller. Penso che quella di Shaw sia la miglior commedia di tutti i tempi, e la preferisco a qualunque cosa di Shakespeare, Wilde e Aristofane, anche se quest’ultimo a volte mi ricorda Kaufman & Hart, che mi piacciono. Ho un debole per Nata ieri, soprattutto nella versione con Judy Holliday e Broderick Crawford. D’altro canto, non ho mai trovato neanche vagamente divertenti né Il grande dittatore né Monsieur Verdoux. Di certo Chaplin che gioca con il mappamondo-palloncino non mi sembra un esempio di genio comico. Ma chi se ne importa di quello che penso io – sono gusti. Voi potete trovare sexy le esili modelle di biancheria intima e io no. Non ci posso fare niente. Chiuso il discorso gusto.


    Nel frattempo si trascinano le superiori. Mi rendo conto lentamente che un giorno, in un futuro non così lontano, dovrò prendere delle decisioni. L’università? E dove? Se non ci vado, mia madre si caverà gli occhi come Edipo. E poi cosa farò? Il seconda base? Il baro? È chiaro che non ho talento per la musica. Ho il fegato per affrontare il pubblico e fare il comico? Non sono uno che è felice quando se ne sta in camera sua? Non ero un animale da palcoscenico, solo uno sbruffone nevrotico che a scuola era sull’orlo dell’insufficienza. Intanto intorno a me c’erano ragazzi e ragazze con voti molto migliori dei miei che non baravano a poker o ai dadi, avevano i piedi per terra ed erano pronti ad affrontare la vita e le sue competizioni. Ragazzi che leggevano perché gli piaceva davvero, amavano imparare e non fantasticavano su professioni improbabili ma aspiravano a essere medici, avvocati, insegnanti, uomini d’affari. E poi c’ero io, annoiato, scontroso, pieno di sogni balordi, un verme che leggeva solo per non fare brutta figura con le ragazze carine dalle calze azzurre con i capelli scalati e la retrusione della mandibola.


    Piano piano imparavo, certo, ma in modo casuale, senza porre le basi per qualcosa di solido. Se c’era un ragazzo stupido e sconnesso dalla realtà ero io. Un giorno magari pensavo di fare il cowboy. E davvero pensavo di andare nel West a guidare mandrie bovine. E di dormire sotto le stelle in compagnia delle tarantole. Nel frattempo, compravo un lazo e facevo pratica cercando di lanciarlo attorno a un bidone della spazzatura, ma i risultati erano disastrosi. Probabilmente me la sarei data a gambe se mi fossi trovato davanti un manzo in una forma diversa rispetto a quella di bistecca. Che cavolo, ho paura anche dei cani – e intendo tutti i cani, compresi gli yorkshire. So che mi odierete, ma non mi piacciono gli animali domestici. Ovviamente detesto essere morso, ma anche essere riempito di peli, leccato o assordato da latrati. Dal punto di vista evolutivo, ho sempre considerato gli animali come uomini falliti. Non mi piace neanche che un canarino mi rivolga il suo canto o che un pesce mi guardi dal suo acquario. Di recente nostra figlia è tornata dal college con un topolino domestico. Ce l’ha lasciato per un fine settimana mentre andava negli Hamptons con degli amici. La bestiola è stata male. Io e Soon-Yi abbiamo dovuto portarla al pronto soccorso veterinario nel cuore della notte. C’è gente che va avanti e indietro con cani e gatti feriti e io me ne sto lì con un topo asmatico. Per fortuna c’era Soon-Yi, ma non avete idea di cosa significhi stare alle due di notte nella sala d’attesa di un pronto soccorso reggendo una scatola con un roditore accanto a un uomo che ha un pappagallo con il raffreddore. In ogni caso, se dovevo rinunciare a essere un cowboy, potevo essere sempre un agente dell’FBI. Ma prima dovevo laurearmi in legge o in economia, quindi meglio farci una croce sopra. Prima di rinsavire, comunque, presi molto sul serio la prospettiva di diventare un federale. Comprai l’attrezzatura necessaria, imparai a prendere le impronte digitali e a distinguere doppi cappi e occhi di pavone.


    Da qui al sogno di fare il detective privato il passo era breve. Vidi L’ombra del passato e Il falcone maltese. Lessi Mickey Spillane. I detective privati avevano una vita piuttosto emozionante. Misteri da risolvere. Pupe bollenti. Cinquanta dollari l’ora più le spese. Consultai le pagine gialle e telefonai a qualche investigatore privato per sapere se potevo fare lo stagista. Non ci fu verso. Ma avrei fatto di tutto per evitare la noia di timbrare il cartellino, di stare seduto tutto il giorno a una scrivania a fare i conti, di dire ai pazienti di aprire la bocca o di assicurare ai clienti che quelle scarpe sarebbero durate una vita.


    Il tempo passava; i miei talenti sembravano inutili. Pensai di fare il baro. Comprai dei dadi truccati e imparai a usarli in combinazione con dadi veri di modo che, lanciandoli contro un muro, ero sicuro di avere almeno un numero alto garantito. Qualche volta riuscii a spillare dei soldi a dei polli, ma le donne che sognavo andavano matte per artisti e poeti, preferivano Rilke a Sugar Ray Robinson. Feci qualche tentativo di scrittura e, cosa curiosa, i miei primi sforzi non solo non facevano ridere, ma erano raccapriccianti e morbosi. Tuttavia a scuola, quando dovevamo fare un tema, scrivevo sempre cose buffe, che non solo facevano ridere i miei compagni quando venivano inevitabilmente lette ad alta voce, ma a volte circolavano tra gli stessi insegnanti. Lasciate che faccia una digressione.


    Ormai sapete che la mia famiglia abitava a Brooklyn. Prima ci trasferimmo di due lettere, da Avenue J ad Avenue L, che era già un bel passo. Poi, nel 1944, andammo a passare l’estate a Long Beach, dove avevamo preso in affitto un bungalow. Era a buon mercato, del resto Long Beach era un posto primitivo, non ancora alla moda. Fu nelle strade di Long Beach che mio zio Abe mi insegnò a fare il ricevitore, e con il passare del tempo divenni bravo. L’estate era un momento incantato. Nuotavo nell’oceano o nelle più tranquille acque della baia, poco distanti. Andavo a pescare con mio padre o con gli amici. Ripeto, la mia è stata un’infanzia felice. Non avrei dovuto diventare quello che sono diventato. Comunque l’estate finì e, dato che era in corso la guerra e mio padre guadagnava davvero poco, i miei decisero di rimanere nel bungalow anche per l’inverno. Non c’era riscaldamento ma mio padre comprò dei termosifoni elettrici, assicurandosi che fossero di quelli che incendiano la casa e sterminano le famiglie durante il sonno.


    Andai alla scuola pubblica di Long Beach e non ebbi molti rimpianti, anche perché le lezioni erano più facili. Dopo la scuola io e i miei amici facevamo due isolati e avevamo tutta la spiaggia a nostra disposizione. A volte andavamo alla baia a pescare e mettere le trappole per i granchi. La sala cinematografica locale apriva solo la sera o se pioveva. La primavera andavamo in giro a piedi nudi. Anche a scuola. Provate a immaginarlo. Il sottoscritto, che si figurava essere in un attico della Quinta Avenue a dosare il vermut nel gin e a tirare una corda di seta per chiamare il maggiordomo immancabilmente interpretato da Alan Mowbray, se ne andava in giro come un personaggio di Mark Twain anziché di Noël Coward.


    Per qualche stagione abitammo a Long Beach, e adesso arrivo al motivo della mia digressione. Quando avevo dieci anni, in un tema scolastico feci riferimento a Freud, all’Es e alla libido, senza sapere ciò di cui stavo parlando, ma con un curioso talento: sfruttare conoscenze vaghe e superficiali – in quel caso giusto le parole – per delle battute che fanno ridere e fanno credere al lettore o al pubblico che io ne sappia parecchio di più. Gli insegnanti furono molto divertiti da quello che avevo scritto. Si passarono il mio tema, sussurrando e indicandomi. Questa abilità mi ha accompagnato per tutta la vita, e sapere come usare le citazioni è diventato uno strumento molto utile. Fine della digressione; e, se a questo punto non vi ho perso, torniamo al soggetto del libro: l’uomo che cerca Dio in un universo violento e privo di senso.


    Ormai ero al mio ultimo semestre alla Midwood High, e la romantica prospettiva di una vita nel crimine non compensava i miei pessimi voti. Un fatidico pomeriggio, dopo una raffica di battute particolarmente riuscite durante la proiezione di un film, qualcuno mi disse: “Dovresti scriverle, le tue battute. Fanno ridere.” Era solo un’osservazione buttata lì, che però mi raggiunse attraverso il rumore delle strade di Flatbush. A casa c’era la macchina da scrivere rubata che papà aveva ricettato, così quando tornai mi misi al lavoro. Mi feci venire in mente qualche battuta e pestai sui tasti della Underwood. Fortuna volle – e sulla fortuna ho sempre potuto contare – che mia madre, una donna seria con un cuore di azoto liquido, quel giorno saltò il rito quotidiano di darmi ceffoni sulla fiducia, e disse qualcosa di inaspettato: “Perché non fai leggere le tue scemenze a Phil Wasserman [quello originale, che faceva l’addetto stampa] e senti che ne pensa? Con tutta la gente di Broadway che conosce...”


    Seguii il suo consiglio. Phil ne fu colpito e disse: “Fanno ridere. Dovresti mandarle a qualche giornalista – Walter Mitchell, Earl Wilson, Hy Gardner dell’‘Herald Tribune’.” A questo punto devo avvertire il lettore che i miei motti non erano al livello di quelli di Voltaire o di La Rochefoucauld. Erano barzellette su suocere, parcheggi, tasse, che solo qualche volta trattavano temi di attualità. Per esempio (abbiate pietà, avevo solo sedici anni): “Il figlio di un giocatore d’azzardo va a scuola a Las Vegas. Quando prende un voto, non lo dice a casa. Lo gioca sul compito in classe del giorno dopo.” Così spedisco alcune di queste perle a vari titolari di rubriche sui giornali, e nessuno mi risponde. La vita va avanti e – costretto dai miei genitori, che mi infilano schegge di legno sotto le unghie – comincio a prendere in considerazione la possibilità di iscrivermi a farmacia. La mia uscita serale con Janet S., una ragazza irresistibile con il volto di una Madonna di Raffaello e i capelli e i vestiti di un personaggio di Jules Feiffer, prende una piega disastrosa nel momento in cui la porto a un concerto jazz e salta fuori che odia il jazz. Oltre al fatto che ha una cotta per Sheldon Lipman, che trova dotato di un “fascino mozzafiato”. Per quanto mi sforzi di convincerla dell’attrattiva della vita con un virtuoso delle preparazioni galeniche, non vede alcun futuro con me e mi ritrovo un’altra volta con il cuore a pezzi. Torno a casa da scuola e mi esercito con il clarinetto suonando insieme ai dischi di Johnny Dodds.


    Mi sfogo con il baseball e intanto rimugino su Ellen H., anche lei così bella che quando parla mi metto a farfugliare in urdu; ma ha già dato il suo cuore a Myron Sefransky, giornalista in erba e maschio tutto d’un pezzo. La cosa più eccitante che ha fatto, a quanto pare, è andare al Village a sentire Theodore (anzi, “fratello” Theodore, come si faceva chiamare). Costui era un attore che recitava racconti di Ambrose Bierce e di H.P. Lovecraft, diventando il nuovo idolo delle ragazze nerovestite. Aveva talento drammatico e teneva il suo pubblico con il fiato sospeso. Anni dopo lo ingaggiai nella mia prima, sfortunata commedia, Don’t Drink the Water, ma David Merrick lo dovette licenziare perché non aveva tecnica e ogni sera recitava in modo diverso. Giocai a scacchi con lui durante le prove, e i suoi racconti dell’orrore tennero anche me con il fiato sospeso. Anche se questa volta erano storie vere: come quando i nazisti erano entrati a casa sua e avevano buttato la sua famiglia dalla finestra.


    Quindi me ne sto a casa a sognare a occhi aperti Ellen, il suo volto perfetto senza traccia di trucco, che va in giro con la sua borsa di pelle brandendo l’edizione tascabile del Nano di Pär Lagerkvist, e maledico un dio che per altro non esiste, perché, quando le ho chiesto di uscire con me, mi ha squadrato come se fossi il gobbo di Notre-Dame e mi ha sbattuto una metaforica porta in faccia. La stessa sera, prima che crollassi a letto completamente annichilito, mi telefona un amico e mi dice: “Ehi, lo sai che ti ha citato Nick Kenny?”


    Nick Kenny firmava una simpatica rubrica per il “Daily Mirror”, un giornaluccio che sarebbe fallito se non avesse ospitato la rubrica di Walter Winchell. Al contrario di Winchell (avete presente il cinico protagonista di Piombo rovente?), Kenny era un amabile sentimentale che infarciva la sua rubrica con poesiole; una finiva con il verso “e cane scritto al contrario è Dio”.* Così saltai giù dal letto, mi precipitai in Avenue J, comprai il “Daily Mirror” e per la prima volta vidi stampato il mio nome: “Allan Konigsberg dice...” – seguiva qualche stupida battuta che grazie al cielo ho dimenticato. Il mio cuore si mise a battere più veloce delle bacchette di Gene Krupa in Drum Boogie. Sembrava che avessi vinto il Nobel per la letteratura. Già fantasticavo di prendere un aereo per Hollywood e di scrivere per il mio comico preferito, Bob Hope. Dopo qualche anno di tournée con lui per divertire i nostri soldati, avrei potuto sborsare l’anticipo per l’attico sulla Quinta Avenue. Nel frattempo avrei abitato a Beverly Hills, naturalmente. Campo da tennis e Porsche. E che vista si gode da Mulholland Drive, soprattutto se si dà un’occhiata nei sedili posteriori delle macchine parcheggiate... Avrei potuto mostrare ai miei genitori che non ero destinato a rovistare nei bidoni della spazzatura o a finire nell’elenco dei dieci ricercati più pericolosi, che potevo fare qualcosa di meglio che dispensare tisane e creme per le emorroidi. E se a scuola andavo male, chi se ne importa. Un radioso futuro si apriva davanti a me.


    La mattina dopo stavo ascoltando con aria di sufficienza il professore che cianciava di angoli alterni interni ed esterni, quando mi venne in mente che magari qualche mio compagno poteva avere visto il mio nome sul giornale. Che cosa imbarazzante. E perché invece non avrei dovuto esserne fiero? È una di quelle bizzarrie dell’animo umano che non capirò mai. So solo che ero un ragazzo timido e che avere una dimensione pubblica mi imbarazzava.


    Sento la voce dello strizzacervelli che sentenzia: “Volevi così tanto essere famoso che ti vergognavi di desiderarlo.” Non dico che non sia vero ma, una volta che lo so, che me ne faccio?


    Intanto erano ancora in giro delle battute con il mio nome, e pensai che fosse meglio sbrigarmi a cambiare quest’ultimo. Uno pseudonimo, d’altra parte, andava a nozze con le mie fantasie di entrare nel mondo dello spettacolo. A quell’epoca tutti gli attori, alcuni sceneggiatori e registi e perfino dei produttori cambiavano il proprio nome, e questo gesto mi rendeva più simile a loro. Nel corso degli anni molti si sono chiesti perché avessi scelto Woody Allen. Molti dissero che era per via del clarinettista Woody Herman: ma, anche se mi piaceva, non avevo mai fatto il collegamento. Giusto per avere una prova di quanto può essere stupida la gente, altri dissero che derivava dal fatto di giocare a stickball per le strade di Brooklyn con manici di scopa di legno (wooden). In realtà l’origine era molto più arbitraria. Volevo conservare un elemento del mio nome vero, così tenni Allen come cognome. Considerai J.C. Allen, ma poi temevo che mi avrebbero chiamato Jay. Mel non era male, ma c’era già Mel Allen, celebre commentatore delle partite degli Yankees. Alla fine la mia scarsa capacità di concentrazione ebbe la meglio, e scelsi Woody per nessun motivo. O meglio, era breve, stava bene con Allen, e aveva un’aria vagamente comica, al contrario, per esempio, di Zoltan o di Ludwig. Come pseudonimo ha funzionato, anche se ogni tanto è successo che qualcuno mi chiamasse “signor Herman”. Una volta una commessa di Bloomingdale’s, che mi aveva riconosciuto per avermi visto in televisione al Tonight Show, dopo avermi servito nervosamente mi disse: “Le serve altro, signor Woodpecker?”


    Di rado mi sono pentito di avere adottato uno pseudonimo e ho rimpianto il mio nome d’origine. Konigsberg aveva un suono troppo tedesco. Kant è nato a Königsberg, e in questa città, che oggi si chiama Kaliningrad, c’è un monumento a me dedicato (sempre che non l’abbiano tirato giù con una corda, come la statua di Saddam Hussein), anche se non c’è motivo. Non sono originario di Königsberg, non ci sono mai andato, di certo non ho fatto nulla per migliorare la vita di chi abita laggiù, ma il mio cognome è quasi lo stesso, e forse erano alla ricerca disperata di eroi. Hanno fatto un concorso e hanno lasciato che scegliessi io. Con mia sorpresa, c’erano tanti progetti intelligenti, e alla fine ho scelto il più semplice e modesto, che consisteva in una canna e in un paio di occhiali. Nella realtà è meglio della mia descrizione. Anche la graziosa città di Oviedo ha deciso di omaggiarmi, e questa volta con una statua tradizionale. Non mi hanno mai consultato né informato di quello che stavano facendo. Semplicemente, hanno messo in una strada questo monumento di bronzo, su cui immagino vadano a posarsi i piccioni. Anche in questo caso, a meno che non sia stato abbattuto da una folla inferocita, è ancora lì. Solo che dei vandali hanno rubato subito gli occhiali, per quanto fossero di bronzo anche loro e fossero attaccati alla statua; per toglierli devono avere usato la fiamma ossidrica. Hanno provato a rifarli, ma ogni volta c’è qualcuno che li ruba. Mi piacerebbe poter dire di avere fatto qualcosa di coraggioso e di nobile a Oviedo per avere meritato questo onore ma, a parte il fatto di averci girato qualche scena di un mio film, essere andato a zonzo e di avere goduto di un clima fantastico (assomiglia a quello londinese: in piena estate fa freddo, è grigio e variabile), non ho fatto nulla per meritare non solo un mio ritratto tridimensionale ma neanche un tale crudele accanimento. Oviedo è un piccolo paradiso, con l’unica macchia della presenza di uno schlemiel di bronzo.

Così, grazie a Nick Kenny, inizia l’era di Woody Allen, un’era che sarà segnata dall’infamia. Riuscii a farmi citare dalla rubrica di Nick Kenny varie altre volte, ma il successo arrivò quando per la prima volta una mia battuta ebbe ospitalità nella rubrica di Earl Wilson. Mentre la rubrica di Kenny era zuccherosa e benpensante, Earl era la voce di Broadway. Spettegolava su gente dello show business, spettacoli, stelle e stelline, locali notturni e club esclusivi. Midnight Earl (così si firmava) era un’istituzione e, quando una battuta di Woody Allen comparve nella sua rubrica, fu come se fossi diventato parte della sfolgorante vita notturna di Broadway. A dire il vero ero nel mio letto a Brooklyn, in Avenue K, ma sognavo di tenere corte al Toots Shor’s con un paio di Copa Girls sottobraccio. Di lì a poco cominciai a spedire le mie battute a destra e manca e a venire pubblicato ovunque: nella rubrica di cronaca di Bob Sylvester, in quella di Frank Farrell sul “New York World-Telegram”, da Leonard Lyons sul “Post”, da Hy Gardner sull’“Herald Tribune”, oltre che da Earl Wilson e Nick Kenny. E mentre gioivo smodatamente di tutto ciò, trascuravo lo studio e i miei voti andavano a picco. Gli altri ragazzi già pensavano all’università; a me invece sembrava di essere già arrivato e, anche se non ricevevo il becco di un quattrino per quelle battute, mi vedevo comprare un attico o pranzare con Bob Hope a Hollywood.


    All’epoca in Madison Avenue c’era la sede di un’agenzia di pubbliche relazioni, la David O. Alber Associates, il cui lavoro consisteva nel garantire ai suoi famosi clienti la maggiore pubblicità possibile a suon di articoli sui giornali, interviste nei vari media, copertine di riviste e qualunque diavoleria si facessero venire in mente per tenere vivo l’interesse nei loro confronti. Un metodo era comparire tutti i giorni nelle rubriche sui giornali, e per essere citati bisognava dire qualcosa di spiritoso. Per esempio si poteva leggere: “Ieri sera abbiamo sentito al Copa...” – e seguiva qualche amenità sul traffico, le suocere, il presidente o qualunque altra cosa, attribuita al cliente dell’agenzia. Ovviamente costui non aveva pronunciato quelle parole e probabilmente non l’avrebbe fatto neanche se fosse stata questione di vita o di morte. Magari non era stato neanche al Copa, anche se sia lui sia il locale pagavano per la pubblicità. Era l’addetto stampa che faceva avere la battuta al giornalista che così alimentava il mito di una vita notturna sfavillante dove le celebrità si scambiavano arguzie come Groucho Marx o Oscar Levant. E accadde che Gene Shefrin, la forza motrice della David O. Alber, non poté non notare che questo Woody Allen mai sentito prima compariva tutte le settimane su tutte le rubriche cittadine. Al che Shefrin telefona a Earl Wilson e gli chiede: “Chi è ’sto qua?”


    Earl Wilson dice che è un ragazzo di Brooklyn che torna a casa da scuola, si mette alla macchina da scrivere e gli spedisce delle battute un giorno sì e uno no. Dopodiché la segretaria di Earl Wilson mi dice di contattare la David O. Alber. Lo faccio e mi convocano per un colloquio. Sarei interessato a venire da loro ogni giorno, dopo la scuola, mettermi a una delle loro macchine da scrivere non rubate, e sfornare battute perché gente come Guy Lombardo, Arthur Murray, Jane Morgan, Sammy Kaye e altri non famosi per il loro senso dell’umorismo possano legare il proprio nome alle mie spiritosaggini?


    A quell’epoca facevo consegne per una macelleria e lavavo vestiti a secco a trentacinque centesimi l’ora più le mance. Se lavoravo sodo ed ero fortunato, potevo fare tre o quattro dollari la settimana. L’era delle paghette generose era finita, e la liquidità di papà era abbastanza anemica a causa di investimenti sbagliati sull’esito di alcune partite di basket. Mia madre lavorava otto ore per cinque giorni la settimana, e guadagnava quaranta dollari. E io non dovevo fare altro che prendere la metropolitana all’uscita da scuola, alle tredici, andare a sfornare qualche arguzia e poi tornare a casa. Il tutto pagato quaranta dollari la settimana. Decisi di non fare il prezioso, chiedendo tempo per pensarci su. Accettai prima ancora di sentire la fine della proposta. E così andavo a lavorare cinque giorni la settimana e macinavo una cinquantina di battute al giorno. Sembra un’impresa ma, se uno è capace, non è una gran fatica. Il viaggio in metropolitana durava circa trentacinque minuti, durante i quali scrivevo una ventina di battute. Il resto in ufficio. I miei colleghi mi sfottevano per la mia giovane età, e non mi fu d’aiuto il fatto di ammalarmi di orecchioni poche settimane dopo avere iniziato. Ma lavorai lì per anni, e i loro clienti apparivano in tutte le rubriche attribuendosi battute che all’epoca ci sembravano spiritose ma che con il senno di poi erano ovviamente abbastanza atroci. Presi il mio diploma con la media del 72 (la sufficienza era 65) e continuai a lavorare, ottenendo con il tempo un paio di aumenti. Non volevo andare all’università, fiducioso di avere una carriera nello show business, ma, giusto per evitare che mia madre si desse fuoco come un monaco buddhista, feci un tentativo alla New York University.


    Non so come, ma mi presero, malgrado i miei voti scadenti. Nell’ottica di limitare il mio impegno quanto umanamente possibile, optai per un piano di studi con solo tre materie. Scelsi cinema solo perché vedere film sembrava una passeggiata. Le altre due erano spagnolo e inglese. Come al solito, la prima cosa che scrissi creò scompiglio, e il professore non mi diede la sufficienza, annotando a margine: “Figliolo, hai bisogno che ti insegnino le buone maniere. Sei un adolescente immaturo e non un genio in erba.” All’epoca la mia era una comicità di grana grossa, influenzata da Max Shulman, anche se non ero alla sua altezza. Venni bocciato anche in cinema, in parte per la mia vecchia abitudine di saltare le lezioni. Prendevo la metropolitana da Avenue J all’Ottava Strada, dove c’era la NYU, si aprivano le porte dell’aula e pensavo: vado a lezione o la salto? Il dilemma si prolungava finché le porte si richiudevano, al che me ne andavo con un senso di euforia. Come anni prima, andavo a Times Square e passavo la mattina sulla Broadway tra il Paramount, il Roxy, Lindy’s, il Circle Magic Shop e l’automat con le sue prelibatezze. Alle tredici mi presentavo in Madison Avenue per il mio lavoro di battutista. All’epoca stavo imparando a suonare la batteria, e quando ero a lezione facevo esercizi di controllo dei piedi – sinistro destro, destro sinistro, destro sinistro, sinistro destro – cercando di mantenere regolare il paradiddle, e non prestavo attenzione alla coniugazione dei verbi o al Piers Plowman. Fu così che riuscii a non passare neanche un esame. Decisero di cacciarmi. Chiesi un’ultima possibilità per evitare che mia madre salisse su una pira accesa. Mi fecero sapere che, se avessi seguito i corsi estivi e fossi andato bene, ci avrebbero ripensato. Strinsi i denti e accettai.


    Scoprii che David Alber aveva dei contatti con Jimmy Saphier, il manager di Bob Hope. Gentilmente mi fece scrivere delle cose per quest’ultimo e gliele mandò. La risposta diceva: “Non male la roba che scrive il tuo ragazzo. Sembra più maturo della sua età. Magari quest’autunno lo facciamo lavorare per Bob.”


    È difficile non esagerare quando si tratta di spiegare che cosa significava per me Bob Hope. Lo adoravo fin da piccolo e anche oggi non mi stanco mai di rivedere i suoi film. Non tutti, non gli ultimi e neanche i primissimi. Ma Monsieur Beaucaire, Il grande amante o La grande notte di Casanova, per esempio. Certo, i suoi film sono leggerini e l’umorismo non è quello di George Bernard Shaw, ma lui ha una tale presenza comica e la sua recitazione è stratosferica. Spesso, quando importunavo degli sconosciuti come faceva il Vecchio Marinaio di Coleridge e li subissavo di elogi dell’arte di Bob Hope, la reazione era: “Quel repubblicano melenso che legge le battute sul gobbo e fa gli spettacoli per i soldati?” Potevo capirli, ma il Bob Hope di cui parlo io è l’interprete dei Cercatori d’oro e di Ai vostri ordini signora! Ripeto, so che sono filmetti. Magari Hope viene rapito da un gorilla – ma non è su questo che bisogna concentrarsi. È sulla recitazione, il personaggio, la sua dedizione, i suoi tempi, le battute memorabili. Come Jerry Lewis: un grande talento in film sciocchi, solo che quelli di Hope erano molto meglio di quelli di Lewis. Comunque ero al settimo cielo quando seppi che il mio materiale era piaciuto all’agente di Hope al punto di pensare di ingaggiarmi. Dopo tutto facevo il primo anno di università e, mentre arrancavo nei corsi estivi, ero sommerso da Keats e Shelley senza per altro essere d’accordo che la verità è bellezza e la bellezza è verità. Né mi esaltavo a sentire i miei professori discutere di Pudovkin o della struttura di Rapacità mentre io sognavo di fare film come La principessa di Bali.


    Per un breve periodo accarezzai nuovamente la prospettiva di fare il cabarettista, e uno dei miei colleghi in Madison Avenue, Mike Merrick, che aveva fatto il comico e di cui mi affascinavano gli occhiali dalla montatura nera, mi prestò il vecchio raccoglitore ad anelli che conteneva i suoi sketch. Tornai a esibirmi in un locale del mio quartiere, stesi tutti e capii quale incomparabile piacere sia far ridere il pubblico. Ma Mike Merrick mi spiegò: “È una vita faticosa. Devi volerla più di ogni altra cosa.” E io non la volevo. Mi attirava più la scrittura. Mi piaceva essere anonimo, e poi molte delle ragazze con cui uscivo impazzivano per Updike e Mailer, non per Buddy Hackett o Fat Jack E. Leonard. I miei piani subirono un lieve aggiustamento. Per un po’ avrei fatto il battutista, magari per Hope o – se si fossero accorti della mia esistenza – per Berle o Jack Benny. Ma forse avrei dovuto scrivere qualcosa di più profondo. Fu allora che i miei genitori mi suggerirono di parlare con un parente che si chiamava Abe Burrows. Era un famoso scrittore umoristico e regista – tra le altre cose era coautore del libretto di Bulli e pupe. Forse qualche zia acquisita era imparentata con lui – non sono mai riuscito a ricostruirlo. Parlai con la zia, che però disse di non potermi aiutare; sapeva solo che abitava al Beresford, un lussuoso condominio nel West Side. “E io come faccio a contattarlo?” chiesi timidamente. Mia madre, più aggressiva del generale Patton, mi disse: “Non devi contattarlo. Sai dove abita. Va’ a casa sua.”


    Ignorando il buon senso, mi vestii come se dovessi andare a un matrimonio e andai al Beresford. Al portiere spiegai che dovevo vedere Abe Burrows. E che gli dicesse pure che ero il figlio di Nettie.


    Mentre aspetto che il portiere faccia la chiamata, ecco che nell’atrio si materializza Abe in vestito scuro e cappello Fedora. Il portiere mi indica e gli dice che gli voglio parlare. Gli spiego con chi sono imparentato – forse dieci gradi di separazione.


    Burrows, che sta andando a un appuntamento, fa dietro-front, mi porta a casa sua, si toglie il cappello e chiacchiera con me per un’ora, rifocillandomi e mostrando grande interesse per quello che scrivo. Un vero signore, di una gentilezza squisita. Quello che poi gli feci leggere gli piacque, anche se non lesinò le critiche sulle battute che pensava non mi fossero riuscite. E mi scrisse una lettera di presentazione per Nat Hiken, lo sceneggiatore del Phil Silvers Show televisivo. Non ne venne fuori nulla, ma ci provò. Una volta gli parlai della mia ambizione di scrivere per la televisione, e obiettò: “Non vorrai mica lavorare per la televisione tutta la vita.” E io: “Meglio il cinema, allora?” “No,” rispose lui, “meglio il teatro.” “Ma non è vero che tutti i commediografi vogliono scrivere dei film?” “No, tutti gli sceneggiatori vogliono scrivere commedie.”


    Così decisi di concentrarmi sul teatro, quando in vita mia avevo visto solo un pezzo di uno spettacolo. Non sto dicendo che me ne andai dopo il primo atto. No, vidi esattamente metà dell’intera commedia. Era successo anni prima, quando mi struggevo per una meravigliosa ragazza bionda che veniva a scuola con me e si chiamava Roxanne. Mi rendevo conto che una creatura così celestiale, che avrebbe affascinato Cary Grant o Tyrone Power, non avrebbe mai preso in considerazione un ragazzo che assomigliava a Edward Everett Horton. Sognavo tristemente a occhi aperti finché un giorno si accese la lampadina. Avevo saputo che Roxanne moriva dalla voglia di vedere Letto matrimoniale, una commedia con due soli personaggi interpretata da due attori fantastici come Hume Cronyn e Jessica Tandy. Da quel furbacchione che ero, ebbi la faccia tosta di telefonarle e di chiederle se era libera sabato sera, dato che avevo appena trovato due biglietti per Letto matrimoniale, nel caso fosse interessata.


    Dall’altro capo del filo il silenzio era palpabile, mentre Roxanne bilanciava il desiderio di vedere la commedia e il fatto di doversi sorbire la compagnia di un vermiciattolo. Alla fine accettò. Io però, privo di esperienza com’ero, non sapevo che certi spettacoli andavano subito esauriti e trovare i biglietti era impossibile. Lo appresi dal tipo del botteghino, che mi disse che le prime disponibilità erano a mesi di distanza. In preda al panico, telefonai a un amico che mi consigliò di rivolgermi a un bagarino. Così feci, e scoprii che per venti dollari potevo trovare due posti in un palco. Non avevo quei soldi e non sapevo come procurarmeli a meno che non rapinassi una stazione di servizio. Alla fine li chiesi a mio padre. Era una cifra pazzesca, soprattutto per due posti a teatro, e non ebbi il coraggio di spiegargli il motivo imbarazzante per cui mi servivano venti verdoni sull’unghia, ma come sempre venne in mio soccorso ed ebbi i miei due deca. Arriva il sabato sera e vado a prendere la ragazza, che è così gentile da fingere interesse per me, malgrado le mie spacconate degne di Rhett Butler. Andiamo a teatro e veniamo accompagnati al palco, che è nel secondo ordine, all’estrema destra, proprio sopra il palcoscenico. Tipo quello in cui fu assassinato Lincoln, solo che è disposto in modo meno felice e metà palcoscenico è invisibile.


    È la prima volta che vado a Broadway, e vedo solo metà palcoscenico. Quando il bagarino aveva parlato di “palchi”, avevo pensato allo Yankee Stadium o all’Ebbets Field, dove dai palchi si vede benissimo. Comunque vediamo la commedia e Roxanne la prende bene. Non si lamenta ma quando usciamo non vuole andare a bere niente ed è colpita da una malattia improvvisa e misteriosa. Non ricordo, forse era un attacco di batteri mangiacarne. Quando arriviamo a casa sua, sulla soglia c’è il fratello, che nel frattempo lei ha avvisato telefonicamente, impedendomi qualunque forma di avance. O chissà, forse era lui ad aspettarsi il bacio della buonanotte. In ogni caso anni dopo, quando Abe Burrows chiese se mi piaceva il teatro, mi limitai a farfugliare, data la mia esperienza dimezzata. Ma presi sul serio il suo consiglio di non fare lo sceneggiatore televisivo o cinematografico tutta la vita, e con questa nuova ossessione passai anni a leggere e vedere tutte le commedie rappresentate a Broadway. Ma anticipo troppo.


    Stavo ancora sfornando battute per i tabloid al soldo della David O. Alber. Se avessi potuto scrivere per Bob Hope, sarei stato felice. Ma nel futuro mi immaginavo come autore teatrale, e non come il mio vecchio idolo George S. Kaufman, ma come Eugene O’Neill o Tennessee Williams. Al momento, tuttavia, ero stato un disastro anche nei corsi estivi ed ero stato convocato da un consiglio di decani: qualcosa di simile a un tribunale dell’inquisizione, in cui ti dicevano che con l’università avevi chiuso. Ascoltai educatamente mentre elencavano i capi d’accusa, dalle continue assenze ai risultati disastrosi. Mi chiesero quale fosse il mio scopo nella vita. “Forgiare nella fucina della mia anima la coscienza increata della mia razza e vedere se si può riprodurre in plastica,” risposi. Si guardarono l’un l’altro e mi consigliarono di andare da uno psichiatra. Dissi loro che avevo un lavoro e andavo d’accordo con tutti – perché mai avrei avuto bisogno di uno psichiatra? Mi spiegarono che nel mondo dello spettacolo erano tutti pazzi. In realtà non pensavo che quella dello strizzacervelli fosse una cattiva idea; malgrado i miei interessi creativi, i miei inizi promettenti come autore comico e tutto l’amore di cui avevo beneficiato durante la crescita, continuavo a provare moderati attacchi di ansia – avete presente la sensazione di venire sepolti vivi? Non ero felice; ero cupo, pieno di paure, arrabbiato, e non chiedetemi il motivo. Forse ce l’avevo nel sangue, o forse era la conseguenza del trauma provato quando mi resi conto che i film di Fred Astaire non erano documentari.


    Così, poco dopo essere stato espulso dalla NYU, cominciai ad andare ogni settimana da un raccomandatissimo psicologo di nome Peter Blos; ma, anche se era un tipo incredibile, non mi servì a molto. Alla fine mi consigliò di vedere uno psicanalista quattro volte la settimana, stare sdraiato su un lettino e dire tutto quello che mi veniva in mente, compresi i miei sogni. Lo feci per otto anni e fui abbastanza intelligente da evitare ogni progresso. Alla fine fui io ad avere la meglio, e un giorno lo vidi alzare bandiera bianca. Nella mia vita ci sono stati altri tre psicanalisti. Uno fu un gentiluomo di nome Lou Linn, che vedevo faccia a faccia due volte la settimana. Era piuttosto sveglio, ma fui più furbo di lui, e non rischiai alcun miglioramento. Poi, per quindici anni, vidi una signora molto intelligente e più efficace dal punto di vista terapeutico. Mi aiutò in alcuni momenti difficili, ma la mia personalità restò sostanzialmente invariata. Alla fine c’è stato un altro dottore di chiara fama, che ha alternato lettino e colloqui faccia a faccia, anche se per conto mio continuo a evitare ogni progresso significativo.


    Dopo tanti anni di terapia la mia conclusione è che sì, mi ha aiutato, ma non quanto sperassi e non come avevo immaginato. Nelle questioni più profonde non ho fatto un solo passo avanti; le paure, i conflitti e le debolezze che avevo tra i diciassette e i vent’anni li ho ancora adesso. Nelle poche aree dove i problemi non sono così radicati, dove serve solo un piccolo aiuto, una spintarella, forse ho tratto dei benefici. (Per esempio posso andare in un bagno turco senza comprare tutti i posti disponibili.) Per me il vantaggio consisteva nell’avere sotto mano una persona con cui condividere il mio malessere; come quando ci si allena a tennis con un professionista. Un altro era l’illusione che mi stessi facendo del bene. Nei momenti più bui è bello sentire che non rimani passivo, che non sei una lumaca bersagliata dalla follia dell’universo o da ubbie che ti sei creato da solo. È importante credere che stai facendo qualcosa. Il mondo può vessarti, la gente può cavarti il sangue, ma tu reagirai eroicamente e cambierai questo stato di cose. Procedi per libere associazioni. Ricordi i tuoi sogni. Magari li annoti. Almeno una volta la settimana vai da un esperto e insieme discutete le emozioni negative che ti fanno essere triste, spaventato, arrabbiato, disperato e incline al suicidio.


    Il fatto che risolvere questi problemi sia un’illusione e che rimarrai il solito disgraziato pieno di fobie, che dal fornaio non sa chiedere gli schnecken perché lo imbarazza pronunciare la parola, non importa. L’illusione aiuta. Ti senti un pochino meglio, un po’ meno sconfortato. Appunti le tue speranze a un Godot che non arriva mai, ma il pensiero che possa farsi vivo con delle risposte ti aiuta a districarti dagli incubi. Come la religione, per chi ci crede. E in quanto artista, invidio le persone che traggono conforto dal credere che le loro creazioni sopravvivranno, verranno discusse e in qualche modo li renderanno immortali, più o meno come succede nell’aldilà dei cattolici. L’inghippo è che tutti coloro che discutono le opere lasciate dall’artista e ne elogiano la grandezza sono vive e mangiano pastrami, mentre l’artista se ne sta in un’urna funeraria o sepolto nel Queens. Sapete quanto se ne fa Shakespeare di tutta la gente che canta le sue lodi; e verrà il giorno – remoto, certo, ma state pur certi che verrà – in cui tutte le opere di Shakespeare scompariranno, malgrado gli intrecci brillanti e i raffinati pentametri giambici, e lo stesso succederà a ogni pennellata di Seurat e ogni atomo dell’universo. Dopo tutto, siamo solo un incidente nell’universo. E neanche il prodotto di un’intelligenza benevola, ma solo l’opera di un imbranato.


    Dicevo che mi avevano cacciato dalla NYU, ma ormai lavoravo come autore comico. Non solo per la David O. Alber Associates: Abe Burrows mi aveva raccomandato a Peter Lind Hayes, titolare di un programma alla radio, e mi prese a scrivere per lui. Per un po’ lavorai anche per un altro programma radiofonico, quello di Arthur Godfrey. Nel frattempo battevo le agenzie teatrali, e Sol Leon, un simpatico agente della William Morris, mi presentò a Herb Shriner, un comico fantastico che faceva la cosiddetta “simultanea”: il suo show era trasmesso contemporaneamente alla radio e alla televisione. Il suo era un umorismo radicato nell’America profonda, come quello di Will Rogers, ma in meglio. Era molto divertente, gli piacquero le mie battute e mi prese. Il suo autore principale era Roy Kammerman, anche lui un grande professionista. Ero un tale pivello che quando scrissi il mio primo show per lui – o meglio, contribuii con qualche battuta – dissi a una ragazza di venire con me nello studio in cui andava in onda, pensando di fare bella figura e di assicurarmi un rapido accesso alle sue grazie. Solo che davanti allo studio c’erano centinaia di persone in attesa di entrare. D’un tratto l’agente di Herb Shriner mi vede e mi fa: “Perché diavolo ti sei messo in fila? Passa dal retro.”


    “Sul serio?”


    “Certo.”


    Così ci fece entrare dal retro, seguimmo lo show dalla stanza vip e potei recitare la parte del pezzo grosso. Dopodiché portai la ragazza a cena da Lindy’s. Altra fila. Mi era stato consigliato di dare una mancia al buttafuori, e due ritratti di George Washington mi assicurarono immediatamente un tavolo. Fu una serata fantastica fino al momento in cui davanti alla porta di casa, con le chiavi in mano, la ragazza mi fa quella che nel basket si chiama “finta spezzacaviglie”. Si alza sulla punta dei piedi, ci casco e mi allungo anch’io come per bloccare il suo tiro al volo, e lei ne approfitta per schizzare in casa senza di me.


    Ho diciotto anni e guadagno il triplo di quello che i miei genitori riescono a mettere insieme. Ho la possibilità di dare un contributo all’economia domestica, visto anche che mio padre è sempre in debito con qualche bookmaker. La tappa successiva nella mia irresistibile scalata al successo è quando un certo Harvey Meltzer, che vive a due passi da noi e ha saputo dell’enfant prodige che sarei io, viene a proporsi come mio manager. Conosco quello che riguarda il business nello show business ancora meno della congettura di Hodge. E Meltzer mi dice non solo che suo zio è un pezzo grosso alla William Morris di Hollywood ma che in via del tutto confidenziale ha saputo che la NBC sta organizzando un programma di formazione per giovani scrittori promettenti. A quanto pare qualche pezzo grosso ha letto che all’inizio c’era la parola: da cui l’idea di formare giovani autori, non solo drammatici ma soprattutto comici, dargli centosettantacinque dollari la settimana e farli esercitare sotto la guida di veterani del settore, il tutto con vantaggio di entrambe le parti. Ne sono entusiasta, dato che il mio salario alla Alber è molto più basso e il lavoro per la radio è legato alle alterne fortune dei conduttori. Centosettantacinque dollari fissi la settimana fanno gola, oltre alla prospettiva di lavorare per qualcosa di davvero importante. Mi sono dimenticato una piccola cosa: Herb Shriner, il nome più prestigioso nel mio curriculum, e sua moglie sono morti in un incidente automobilistico. Erano due persone squisite e, con tutta la gente che avrebbe potuto rendere migliore questa terra se fosse finita in qualche obitorio, era capitato proprio a chi non se lo meritava.


    Così accetto che Harvey – che assomiglia a Tommy Dorsey più magro e sfoggia una pittoresca tavolozza di tic facciali – sia il mio manager. E, come promesso, mi fa entrare nel programma di scrittura della NBC. In cambio firmo il contratto di sette anni che mi propone. Non avrei potuto sottoscrivere niente di peggio. Primo, sette anni erano troppi. Secondo, invece del solito dieci per cento, chiede il trenta, con la scusa che è un manager e non un semplice agente. Ok, dico io. Sono ancora un ragazzo, cosa diavolo ne so. Terzo, di solito esiste una proporzionalità inversa per cui la provvigione dell’agente scende man mano che aumentano i guadagni dell’artista. Più soldi fa l’artista, meno cresta ha bisogno di farci l’agente. Nel mio caso, la proporzionalità funzionava al contrario. Più guadagnavo, e più soldi andavano a Harvey. Nel giro di sette anni, successero molte cose e divenni più accorto. Ma non cercai mai di rompere il contratto. Per farvi capire quanto fossi ingenuo, non avevo mai visto nessuno con il parrucchino. Un giorno incontrai un comico che ne portava uno. Voleva darmi cento dollari perché gli scrivessi uno sketch. Mente parlavamo, notai un lembo di garza spuntare sotto l’attaccatura dei suoi capelli. Non credevo ai miei occhi, pensai che gli stesse crescendo veramente, e pensai che dovesse fare il fenomeno da baraccone più che il cabarettista.


    Ma adesso parliamo del programma di formazione per giovani scrittori. Eravamo in otto selezionati dalla NBC dopo un attento esame del materiale che avevamo prodotto e delle nostre personalità. Malgrado i loro scrupoli, tuttavia, non avevano fatto scelte sagge, e a un certo punto si sarebbero accorti di avere investito male i loro soldi. La maggior parte degli otto finì a fare lavori che non avevano attinenza con quanto aveva in mente la NBC. Il più losco finì a scrivere battute per i discorsi di Richard Nixon. Tutti gli altri erano persone a posto, ma per vari motivi non diventarono autori televisivi, né comici né drammatici. A coordinare il programma era Les Colodny, un ex agente della William Morris; era una persona divertente, ma andava a braccio e non sapeva da dove cominciare per trasformare in professionisti un gruppo di maldestri sognatori. Avrei dovuto imparare a scrivere uno sketch, e invece annaspavo, come i miei colleghi; nutrito delle ambizioni frutto di anni di intimidazioni materne, ebbi comunque il buon senso di non sprecare il tempo e i soldi che mi venivano dati. Ci riunivano in una sala della NBC dove giovani comici venivano a proporci il loro repertorio; dopodiché sceglievano quelli per cui scrivere. In questo modo, o almeno questa era l’intenzione, comici e autori sarebbero cresciuti contemporaneamente. In genere erano dei morti in piedi, ma vedemmo anche gente come Don Adams, Jonathan Winters e Kaye Ballard. Ovviamente questi ultimi non avevano bisogno di grande aiuto da parte nostra. I veri talenti scrivevano i loro sketch da soli, e non ricorrevano mai a noi. Per Don Adams scrissi una sola battuta. Jonathan Winters faceva tutto da solo: era un genio.


    Fu in quell’epoca che conobbi Harlene, la ragazza che presto avrei sposato. Fu in un altro ritrovo del quartiere: facevo il presentatore, recitavo sketch presi dal raccoglitore di Mike Merrick, e suonavo il sassofono soprano per la gioia di chi mi ascoltava (anni dopo un critico definì il mio stile “straziante”). Da patito del jazz di New Orleans qual ero, scelsi Jada e At the Darktown Strutters’ Ball. Qualcuno mi disse che alla James Madison High School c’era una ragazza che suonava il pianoforte, e non so come riuscii a incontrarla. Era carina, intelligente, veniva da una famiglia benestante che aveva una bella casa e una barca, suonava musica classica e studiava recitazione. Per farla breve, apparteneva a una categoria troppo superiore alla mia, come sarebbe stato chiaro dopo esserci sposati.


    Ci mettemmo a provare i due pezzi che avevo scelto, e cominciammo a uscire insieme. Devo dire che, per essere un ventenne, la portavo in posti romantici e sofisticati. Spettacoli off-Broadway. Al Birdland a sentire Miles Davis e John Coltrane. Cene a lume di candela in ristoranti. Il mio fascino e le mie doti di amante sembravano irresistibili, almeno fino a quando la sua famiglia mi invitò a fare un giro in barca. Volevo fare il disinvolto, ma appena fummo al largo, mentre cantavo il ritornello di Quindici uomini sulla cassa del morto, diventai verde pisello e cominciai ad attorcigliarmi sul ponte della barca come un anello di Möbius, invocando l’eutanasia. In preda a un mal di mare da Guinness dei primati, giurai di non mettere più piede su una barca e non lo feci fino al decennio successivo. Ancora una volta cercavo di fare bella figura, o meglio di non fare la figura dell’allocco (dato che lo sono e spesso faccio di tutto per celarlo), e così salii su una barca a vela su richiesta della bella Janet Margolin, durante le riprese di Prendi i soldi e scappa. I risultati furono gli stessi. Dopo avere vantato la mia esperienza marinaresca e avere usato la parola “ciurma” per rivolgermi all’equipaggio, mi ritrovai a contorcermi sul ponte, disposto a barattare Janet per una Xamamina. Dato che eravamo solo nella baia di San Francisco, a poca distanza dalla terraferma, le mie suppliche di chiamare un elicottero perché mi portasse in un ospedale vennero ignorate. Quando finalmente sbarcai, pallido e tremante, diedi la colpa della mia crisi a una labirintite da poco contratta in Sudan dove ero andato a tenere una serie di conferenze sull’arte comica di Gianni e Pinotto. Ma non ci credette nessuno.


    Harlene e io abitavamo ancora con i rispettivi genitori, e uscivamo insieme tutte le sere. Facevamo tutte le cose che fanno due fidanzati. Tra parentesi, a quel punto potevo contare su una macchina. Per seicento dollari avevo comprato una Plymouth decappottabile del 1952. Mi ero fatto tutto un film su come un’automobile avrebbe cambiato la mia vita. Mi avrebbe reso libero; avrei potuto fare un salto a Manhattan ogni volta che volevo, fare gite a Long Beach all’insegna della nostalgia, andare nel Connecticut le mattine di primavera per sentirmi in contatto con la natura. Non so cosa avessi in testa; odiavo la natura, e più ancora detestavo il fatto di possedere una macchina. Come mi succede con tutti gli oggetti meccanici, fummo subito nemici giurati. Odio qualunque aggeggio. Non possiedo orologi, non vado in giro con l’ombrello, non possiedo macchine fotografiche o registratori, e ancora adesso ho bisogno di mia moglie per vedere un DVD. Non possiedo computer, non so neanche cosa sia un programma di scrittura, non ho mai cambiato un fusibile, spedito una email o lavato un piatto. Sono uno di quegli anziani cui bisogna dare un telecomando con tutti i tasti coperti dallo scotch, di modo che possa solo accendere, spegnere e regolare il volume.


    A sedici anni mi concessi il lusso di una macchina da scrivere nuova, una Olympia portatile. Ci ho battuto sopra tutto quello che ho scritto: sceneggiature, commedie, racconti, pezzi per il “New Yorker”. Ancora oggi, non ho imparato a cambiare il nastro. Ci pensa mia moglie ma, quando ero single, conoscevo un tipo che invitavo a cena ogni volta che dovevo cambiare il nastro. Dopo mangiato, portavo con nonchalance la conversazione sul tema delle macchine da scrivere, su quanto erano fantastiche e quanto sarebbe stato divertente cambiare il nastro alla mia. Andavamo nel mio studio e mettevo della musica. Ricordo che il pezzo che preferiva per questa incombenza era la Danza delle spade di Chačaturjan. Il ritmo incalzante lo metteva dell’umore giusto e ne approfittavo per allungargli un nastro nuovo e proporgli: “Vediamo se hai ancora la mano.” Lui accettava la sfida, cambiava il nastro come un invasato e terminava con uno svolazzo e un inchino, mentre io fingevo meraviglia per la sua destrezza manuale. Devo anche dire che ansimava e grondava sudore, ma almeno avrei potuto continuare a macinare le mie sublimi scempiaggini fino a che le lettere non avrebbero nuovamente cominciato a sbiadire e avrei dovuto invitarlo a condividere il mio polpettone.

Di cosa stavamo parlando? Ah sì: una macchina in mano a me era come dare un missile balistico intercontinentale a un bambino di tre anni. Andavo troppo veloce. Sterzavo dove non c’erano curve. Di parcheggiare in retro neanche a parlarne. Testacoda a bizzeffe. In mezzo al traffico mi spazientivo e volevo scendere e lasciare la macchina in pieno ingorgo. Andavo in giro ore e ore alla ricerca di un buco dove parcheggiare, in cui poi non riuscivo a infilarmi. Frantumavo i fanali e le luci di posizione dei veicoli parcheggiati, nel tentativo di strizzare la mia Plymouth in mezzo a loro, e poi scappavo in preda al panico, abbandonando la scena del crimine a gran velocità. Mi perdevo di continuo. Non avevo senso dell’orientamento. Una volta che eravamo sulla Sunrise Highway, Harlene mi disse che i suoi erano andati via e che potevamo andare a casa sua e usare il loro letto. Infiammato dalla prospettiva, feci un’inversione a U e andai a sbattere contro un palo della luce. Una volta rimasi con una gomma a terra sulla West Side Highway, alle tre di notte. Ne venni fuori solo grazie alla gentilezza di un tipo che si fermò. Se lo sconosciuto che mi mostrò come si cambia una gomma non avesse avuto tanta pazienza e invece fosse stato, per esempio, il Killer dello Zodiaco, non sarei qui a raccontarvelo.


    Quanto alla macchina in sé, era effettivamente una stanza d’albergo su ruote, come temevano tutte le madri delle ragazze, ma, ogni volta che cominciavo a pomiciare, fuori dal finestrino si materializzava la luce di una lampada e un poliziotto mi invitava ad andare da un’altra parte. Molti altri suonavano il clacson. Una volta che per sbaglio sfrisai la portiera di una macchina in Atlantic Avenue, ne vidi uscire un gorilla furibondo che faceva la guardia del corpo e l’autista per un boss della mala. Mi vidi già oggetto di una veglia funebre a lume di candela, ma feci in tempo ad alzare il finestrino. Solo che la mano del gorilla rimase incastrata dentro, e lo piegò in giù come se fosse una scatola di sardine. Se non fosse intervenuta una folla, sarei finito in trentasette vasetti per conserve. Eppure guidavo: tutti quelli che conoscevo sembravano esserne capaci, perché io non avrei dovuto? Ma non ci riuscii mai, e poco dopo rinunciai. In seguito riprovai un paio di volte, con gli stessi risultati, dopodiché decisi di smettere.


    Quando vendetti la Plymouth, fu come se mi avessero tolto un tumore.


    Un giorno Harlene e io ci guardammo negli occhi e decidemmo di sposarci. Eravamo due ragazzi e non c’era nient’altro da fare. Avevamo visto tutti i film e gli spettacoli teatrali, visitato i musei, giocato al minigolf, bevuto il cappuccino da Orsini e passato una giornata a Fire Island. Che cosa ci rimaneva? Così ci fidanzammo. Tra il fisso che mi arrivava dalla NBC e i soldi che raggranellavo facendo il negro per i cabarettisti che si esibivano nei nightclub, potevo permettermi di essere un uomo sposato. Fare il negro è un lavoro che rimane nell’ombra e che il pubblico non apprezza a dovere. In giro ci sono milioni di comici, e di certo ce n’erano quando ho iniziato io. Si esibiscono nei nightclub, in televisione o in feste private, e hanno tutti bisogno di materiale: barzellette, battute, sketch, qualcosa da dire. La maggior parte non erano molto bravi, come mostra il fatto che avevano bisogno di altra gente che mettesse loro le parole in bocca. Lasciati a se stessi, non avrebbero estorto una risatina a un ciccione esagitato sotto l’effetto del gas esilarante. Ovviamente, artisti dotati come Mike Nichols, Elaine May, Mort Sahl o Jonathan Winters non avevano bisogno di autori. Non dovevano comprare barzellette da altri; si scrivevano i propri testi perché erano davvero divertenti.


    Anche icone di un’epoca precedente come Bob Hope e Jack Benny avevano creato i propri personaggi e, quando erano diventati delle star, assoldavano autori per nutrire i personaggi creati in precedenza. Così anch’io facevo il negro, come vari colleghi che riempivano il frigorifero sgobbando per mediocri falliti, nei cui avidi becchi deponevano il verme della comicità. Sedevo ore e ore in qualche locale ad ascoltare le lagne di qualche cabarettista imbranato che non si capacitava di non fare il grande salto. “Quello che mi serve è uno stile riconoscibile, come quello di Alan King. Un marchio di fabbrica.” Ma nessun autore poteva darglielo. Quello che potevamo fare era vendere a questa gente delle battute o degli sketch, che imparavano a memoria e interpretavano in modo più o meno brillante, ma che non lasciavano traccia. Un conto è essere delle persone vere che fanno ridere, e un conto è essere degli esibizionisti che comprano battute per estorcere risate e applausi, e poi si chiedono perché non ce l’hanno fatta.


    “Quello che mi serve è un bel truismo,” mi disse un poveretto che evidentemente aveva solo una vaga idea del significato della parola, mentre prendeva qualcosa per gli squilibri chimici del suo cervello. “Il pubblico si identifica con i truismi.” Presumo intendesse delle battute che evocassero esperienze facilmente riconoscibili. Comunque, fare i negri consentiva a giovani come noi di mettere qualcosa sotto i denti, anche se poteva risultare indigesto. A volte andava così: il comico incontra il negro. Il comico ha bisogno di un nuovo sketch. Il negro butta giù delle idee. Al comico ne piace una e paga un anticipo. Il negro scrive lo sketch. Il comico lo prova e non funziona. Il comico dà la colpa al negro. Il negro dà la colpa all’interpretazione del comico. Fulmini e saette. Il comico perde l’anticipo e si ritrova con un pugno di mosche. Seguono insulti e minacce di azioni legali o di arti spezzati, a seconda della moralità del comico.


    In quel periodo seppi dalla NBC che intendevano trasferirci a Los Angeles perché uno dei loro programmi di punta, la Colgate Comedy Hour, non funzionava, e magari noi avremmo potuto cercare di rimediare e contemporaneamente imparare qualcosa. Non mi ero mai allontanato da casa, la mia relazione con Harlene non aveva mai avuto interruzioni, e soprattutto non avevo mai preso un aereo. Allora gli aerei avevano il motore a elica e non potevano fare il viaggio senza scali, ma la cosa peggiore è che volavano. D’altro lato, ero entusiasta all’idea di andare nella città che conoscevo solo dai monologhi di Bob Hope. Hollywood, Vine Street, Mulholland Drive, i pozzi di catrame di La Brea: noi che amavano Hope alla radio, o in seguito alla televisione, conoscevamo tutti questi posti solo dalle sue battute, così come la radio ci aveva portato ogni domenica sera a casa di Jack Benny a Beverly Hills. Magari avrei pure potuto incontrare Hope o Benny. Mia madre mi avrebbe cucito etichette con il mio nome sui vestiti, e ciao ciao a tutti. Ma più si avvicinava il giorno della partenza, più venivo preso dal panico, e all’aeroporto, quando vidi i miei colleghi acquistare un’assicurazione a un distributore automatico (bastava inserire una moneta e usciva una polizza, così che se il tuo aereo si schiantava il beneficiario poteva riscuotere il capitale), impallidii. La mia paura non era tanto di morire in un incidente, ma di cadere in qualche luogo sperduto tra le montagne, dove saremmo rimasti per settimane senza cibo e, in quanto più giovane e più tenero, sarei stato scelto per sfamare gli altri sopravvissuti.


    Fortuna volle che non ci sfracellammo. Arrivai a Los Angeles senza finire arrostito, e chi aveva sottoscritto la polizza perse il suo quarto di dollaro. Dopo una sosta all’aeroporto per un muffin e una tazza di smog, salii su una limousine e presto mi ritrovai in un hotel in Hollywood Boulevard. Là mi aspettava un orrore peggiore di un disastro aereo: avrei dovuto condividere la stanza con un certo Milt Rosen, un corpulento autore più grande di me che era già stato mandato lì a cercare di salvare la Colgate Comedy Hour con una mezza dozzina di scribi veterani. Non solo avrei condiviso il bagno – che per me era già uno shock – ma anche l’unico letto, che era matrimoniale. Mi sentii svenire. Pensai di pagarmi una singola: ma me lo sarei potuto permettere? O dovevo addurre qualche improrogabile urgenza famigliare e tornare a New York? Ma sono un autore di testi comici e un’opportunità così non si ripresenterà più. Sono al centro del mondo – i film, le ville con la piscina, Bogart e Bacall, Via col vento, Bob Hope, il Sunset Boulevard. Se uno vuole avere successo, è qui che deve stare. E io restai. Condivisi il bagno e la camera da letto. (Bruno Bettelheim scrive che nei campi di concentramento i prigionieri si adattavano rapidamente a condizioni orribili che, senza la minaccia della tortura e della morte, avrebbero richiesto lunghi anni di analisi per essere accettate, senza risultati sicuri. Ovviamente non aveva preso in considerazione l’ipotesi di dormire insieme a Milt Rosen.)


    Milt si rivelò una persona carina, brillante e divertente. Dopo cinquant’anni che non lo sentivo sono venuto a sapere che se la passava male e gli ho mandato qualche soldino; si è meravigliato che mi ricordassi di lui. Comunque trovavo abbastanza disgustoso dormire con uno sconosciuto bene in carne che possedeva i cromosomi XY. Avevamo qualche giorno per sistemarci e, mentre andavo a zonzo inebriandomi di palme e tramonti, ero emozionato per la possibilità di entrare a far parte di una storia che mi aveva affascinato fin da quando ero piccolo. Bevvi succo d’arancia e mangiai brioche danesi finché un giorno entrai in una stanza con un paio di colleghi e venni presentato all’autore capo, che era stato mandato lì a dare un’iniezione di vita a quel mortorio e magari a cavar fuori qualcosa da noi. Si chiamava Danny Simon e sapevo che aveva fatto molte cose per il piccolo schermo. Lui e suo fratello Doc erano una squadra formidabile molto stimata nell’ambiente. Tutti noi avevamo visto il Red Buttons Show alla televisione, ed erano davvero forti. Solo che i due fratelli non lavoravano più insieme da quando Doc (che in realtà si chiamava Neil) aveva deciso di scrivere per il teatro.


    Danny squadrò noi pivelli e ci chiese di fargli leggere qualcosa di nostro. Prese le pagine che gli demmo, disse che se le sarebbe portate a casa e che poi le avrebbe discusse con noi. Io ero di gran lunga il più giovane, e si mostrò gentile ma un pochino scettico vedendo il malloppo che gli rifilai. Tornai in albergo sperando solo di poter dare il mio contributo. C’erano già dei veterani che ci lavoravano – e quando dico “veterani”, intendo che avevano più anni di me ed erano già affermati, non che erano vecchi. Norman Lear e Ed Simmons scrivevano in duo, al pari di Coleman Jacoby e Arnie Rosen. C’erano Ira Wallach e un bell’assortimento di comici che cercavano di rilanciare lo show, da emergenti come Jonathan Winters a gente che veniva dal vaudeville come Joe Frisco. Cenai da solo e poi andai a dormire, tenendo un occhio aperto per tutta la notte per paura che Milt Rosen rotolasse dal mio lato del letto – nel qual caso avrei lanciato uno strillo lancinante. Il giorno dopo Danny Simon mi convocò nel suo ufficio e la mia vita cambiò completamente.


    Per prima cosa mi disse che le mie battute erano fantastiche e che, se non avessi mai imparato a scrivere sketch, commedie o qualunque altra cosa, sarebbero bastate le mie battute per farmi fare una bella vita. Niente male come incoraggiamento. Voleva lavorare con me; era da quando suo fratello l’aveva mollato che cercava un partner, e forse potevo essere io. Cominciammo a scrivere sketch insieme. Funzionava così. Danny era una persona molto compulsiva ed esigente che si scontrava con ogni partner succeduto a Doc. Gli autori del suo livello non avevano pazienza per le sue richieste minuziose, per il fatto che passava un’intera giornata su una pagina finché dialoghi e battute non funzionavano alla perfezione senza interrompere il flusso narrativo, dopodiché rileggeva, stracciava tutto, mandava giù un altro Miltown (uno psicofarmaco che andava di moda all’epoca) e ricominciava. I collaboratori si ribellavano, lui era spietato con loro – e d’altra pare quanti avrebbero potuto degnamente sostituire uno come il futuro Neil Simon?


    Per conto mio, ero un ragazzo timido che non sapeva nulla, idolatrava Danny e Doc Simon, non pensava neanche di poter fare delle critiche a Danny; e quindi quest’ultimo trovò in me un collaboratore ideale. Gli piaceva il mio senso dell’umorismo e io lo divertivo. Immagino che apprezzasse il fatto di venire idolatrato, e mi insegnò alcune cose fondamentali. Per esempio: per fare una battuta memorabile ci vuole una premessa che funzioni. Mai far dire al personaggio qualcosa che suona innaturale solo per arrivare alla battuta che hai in mente. Danny mi insegnò a buttare via anche le mie battute migliori se in qualche modo rallentavano il racconto; a cominciare sempre dall’inizio e da lì procedere alla fine dello sketch; a non scrivere mai una scena isolata dal contesto; a non scrivere mai quando sei malato, altrimenti la pagina sarà priva di energia. E a non essere mai competitivo. Bisogna tifare per il successo dei tuoi colleghi, dato che c’è posto per tutti. E soprattutto, mi insegnò a fidarmi del mio giudizio. Mai avrei dovuto lasciarmi dire da qualcuno che cosa fa ridere, che cosa no e che cosa avrei dovuto fare: avrei dovuto semplicemente seguire il mio giudizio. A meno che, ovviamente, quella persona non fosse stato lui: dato che si considerava esperto di una materia che molti – da Freud a Bergson a Max Eastman – avevano cercato di analizzare, senza cavare un ragno dal buco. E fu un grande insegnante. Seppe infondermi una sicurezza che mi è stata di enorme aiuto.


    Al teatro estivo – tra poco spiegherò cos’è – la prima settimana scrissi uno sketch da recitare di fronte al pubblico dello show del sabato sera. A un certo punto ci fu la prova generale e tutti gli autori vennero a vedere la realizzazione di quello che avevano scritto per gli aggiustamenti del caso. Io però non ci andai, tanto ero sicuro di me. Quando una ragazza mi chiese dove fossi finito, risposi che non c’era bisogno della mia presenza. Volevo che il mio sketch venisse messo in scena così com’era, senza modifiche dell’ultima ora. E lei: “Alla prova generale, il tuo pezzo era l’unico che non funzionava.” Ribattei pacatamente, cercando di non sembrare presuntuoso ma di certo colmo di hybris immotivata: “Non sono preoccupato.” Quando lo show andò in scena, alcuni pezzi erano fiacchi o non funzionavano proprio, ma il mio venne accolto con grandi risate. Avevo seguito il mio giudizio, come mi aveva consigliato Danny.


    Così imparavo a scrivere, e ciò significava mettersi alla tastiera alle nove di mattina e staccare alle sei dopo ore e ore di duro lavoro. Altri grandi autori comici con cui ho lavorato in seguito avevano un metodo diverso, ma io ho imparato così, e penso mi abbia forgiato. Diventai amico di alcuni degli autori più grandi di me, a cui stavo simpatico perché, oltre ad avere un certo talento, mostravo un grande (e sincero) rispetto; nessuno era competitivo, da loro ebbi solo aiuto e incoraggiamento. Mentre ero lì, venni conquistato dal fascino di Hollywood. Eravamo stati trasferiti all’Hollywood Hawaiian Hotel, dove ebbi una suite tutta per me, dotata anche di cucina. L’hotel era costruito attorno a una piscina dove si ritrovavano tutti gli autori e i comici: tramonti, notti tiepide e un bel po’ di soldi in tasca.


    Volevo condividere tutto questo con Harlene, così le proposi di prendere un aereo e di sposarmi. Aveva appena finito le superiori e aveva diciassette anni. Io ne avevo venti. I suoi genitori le dissero di fare quello che si sentiva. Erano persone adorabili, lontane anni luce dai miei genitori, che vivevano costantemente a dieci decibel sopra di loro. I Rosen non gridavano mai, erano colti, viaggiavano, avevano una bella casa. In confronto a loro i miei erano cavernicoli che mi avevano tirato su come un uomo di Cro-Magnon, e i genitori di Harlene non avrebbero mai dovuto lasciare che sposassi la loro figlia. Certo, nel mio settore ero promettente, ma come persona direi di no. Ero rimasto uno stupido (è come andare in bici: non si scorda mai), un selvaggio, un nevrotico, totalmente impreparato al matrimonio, un groviglio di emozioni che fin dai sedici anni tirava avanti contando su quello che Noël Coward chiamava il “talento di divertire”.


    Quando Harlene arrivò e ci sposammo, la frase “Sì, lo voglio” mi sembrò echeggiare cupamente come se fosse uscita dalle labbra di Orson Welles al posto di “Rosabella”. In realtà la pronunciai nel soggiorno di un rabbino (per far felici i suoi genitori), ma mi sembrò di sentire una porta blindata chiudersi sulla mia vita. La porta di un sepolcro. Sì, amavo Harlene, ma non avevo idea di cosa fosse l’amore, di cosa dovessi e non dovessi aspettarmi, di cosa fosse necessario. Ciò che seguì fu un incubo per entrambi, ma per colpa mia. Per quanto priva di esperienza, lei era piena di buona volontà ed era una persona più generosa e meglio attrezzata. Mentre io fallii su tutti i fronti e le resi la vita un inferno. Entrambi in qualche modo ne uscimmo, ma fu un supplizio. Proverò a descriverlo, anche se è molto triste. Entrambi molto giovani, lei sul punto di iniziare l’università. Io guadagno abbastanza per mantenere entrambi, ma il programma di formazione per giovani scrittori della NBC si sta sfilacciando e ci sono le prime defezioni. Quindi torniamo a New York mentre la Colgate Comedy Hour finisce tra l’indifferenza generale.


    Ci troviamo un appartamento, all’angolo tra Park Avenue e la Sessantunesima Strada. Ovviamente sono attratto dall’Upper East Side, solo che il nostro non è un attico, è un monolocale. Quel buco mi costa centoventicinque dollari al mese e, dato che nessuno di noi ha esperienza in queste cose, non pensiamo che per il fatto di essere al piano terra di un condominio, proprio accanto al portone, ogni volta che qualcuno suona il citofono, in casa nostra si sente un ronzio assordante come quello di un motore fuoribordo. Nell’unica stanzetta abbiamo un divano letto, un tavolino con quattro sedie, una libreria, un televisore, un pianoforte verticale, una poltroncina, alcune lampade, un mobiletto con un grosso registratore. La mia macchina da scrivere è sul tavolino e lavoro lì.


    Mi piacerebbe dire che eravamo accampati in un ripostiglio delle meraviglie, poveri ma felici, e che in fondo ci divertivamo. Non era così. La cosa positiva è che Harlene andava all’università. Ogni mattina la accompagnavo all’Hunter, a sei isolati di distanza, e poi mi immergevo nel lavoro. Tiravo un respiro di sollievo dopo che se n’era andata perché non andavamo d’accordo su niente, nessuno dei due era disposto al minimo compromesso, e ci combattevamo come killer nella guerra castellammarese. Io ero scontroso, insoddisfatto, sgradevole con quelle brave persone dei suoi genitori senza nessuna ragione se non quella di essere un verme spregevole. Non sopportavo gli amici di mia moglie. La esasperavo con il mio costante malumore. Cominciai ad avere attacchi notturni di nausea. Davo la colpa a un male incurabile o alla sua cucina, ma secondo i medici non avevo nulla, e la nausea mi veniva anche se mangiavamo fuori. A ripensarci era un incubo. Mi sveglio alle tre di notte con una nausea insopportabile. Chiamiamo la guardia medica, che ci manda il medico di turno – evidentemente un poveretto. Arriva questo sconosciuto. Mi fa un’iniezione. La nausea si placa. Torno a dormire. Tutto ciò succede spesso. Fu solo quando, come ultima spiaggia, entrai in analisi, che la mia nausea venne diagnosticata come psicosomatica, e in quattro e quattr’otto non ebbi più attacchi. Se il lettino dello psicanalista avesse avuto questo solo effetto su di me (e non fu così), comunque ne sarebbe valsa la pena.


    Un bel giorno trovai una lettera nella cassetta della posta. Immaginai che fosse la proposta di lavorare con Bob Hope che non si era mai materializzata. Non vedevo l’ora di aprirla. Potete immaginare la mia sorpresa e il mio entusiasmo quando scoprii che era una cartolina di precetto. Finalmente potevo dormire in una camerata di soli uomini, fare la doccia con una ventina di sconosciuti, dividere il bagno con tipi che venivano chiamati “Alabama” e “Texas”, mentre io sarei stato “Brooklyn”. Svegliarmi alle cinque e mezzo, fare esercitazioni tutto il giorno, ricevere ordini da un uomo di Neanderthal con i capelli a spazzola e un cervello microscopico. E il cibo! Basta filetti, aragoste, hamburger al Twenty-One e Reuben sandwich! Dal pollo alle mandorle al pollo del marmittone. E naturalmente non vedevo l’ora di andare all’attacco. Starmene raggomitolato in preda al mal di mare mentre il mio mezzo da sbarco si avvicinava alla terraferma per poi cercare di raggiungere la spiaggia sotto il fuoco nemico. Ferite, ospedale, un paio di protesi come Harold Russell. Ecco la mia possibilità di servire la patria, essere un eroe, prendere una medaglia.


    Mi affrettai a contattare tutti i medici che conoscevo implorando certificati che attestassero menomazioni di ogni tipo. Il giorno della visita mi presentai con una carriola di esami secondo cui ero un caso umano da tenere costantemente a riposo. Piedi piatti, asma, miopia, cistifellea, scoliosi, ernia iatale, calcificazione della spalla, capsulite adesiva, labirintite, sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie. I medici che mi visitarono non trovarono tracce di nessuna di queste patologie. Quando finalmente feci il mio colloquio con lo psichiatra, portai altri certificati sui miei disturbi mentali, firmati da esperti che andavano dal mio strizzacervelli al tassista che mi aveva portato lì. A quel punto rischiavo seriamente di venire classificato 1A, cioè abile. Il medico mi disse di stendere la mano. Lo feci. Era ferma e non tremava. Poi mi chiese: “Lei si mangia le unghie?” Non ero un onicofago accanito, ma confessai che era una mia abitudine. Mi esaminò la punta delle dita e stampigliò “4F” sulla mia scheda. Riformato perché mi mangiavo le unghie. Forse era la prima volta nella storia. Ai miei commilitoni era andata bene: non avrebbero dovuto condividere la camerata con uno per addormentarsi singhiozzava stringendo un orsacchiotto. In seguito mia moglie insistette tanto che smisi di praticare l’onicofagia, sostituendo quell’abitudine disgustosa con la più simpatica sindrome di Tourette.


    Intanto si trascinavano i tristi giorni di un matrimonio infelice. Passò l’inverno senza che succedesse nulla di rilevante, a parte un botto assordante che ci svegliò nel cuore della notte. L’orribile rumore era stato causato da un uomo che abitava nel condominio di fianco, al 525 di Park Avenue, e che si era buttato dalla finestra, sfracellandosi nel vicolo tra i due edifici. Spero che non sentiate mai il rumore di un suicida che cade sull’asfalto ma, credetemi, è molto più forte di quello che pensate.


    L’arrivo dell’estate mi consente di fare una digressione su Tamiment. Era una località di villeggiatura in Pennsylvania che aveva un teatro e una compagnia stabile che ogni settimana allestiva spettacoli di varietà molto professionali: con costumi, ballerine, cantanti, sketch e coreografie assortite. La versione originale di C’era una volta una principessa andò in scena laggiù. C’era un assortimento incredibile di veterani, talenti in erba, autori, musicisti, costumisti: Max Liebman, Danny e Doc Simon, Sid Caesar, Mel Brooks, Joe Layton, Danny Kaye. Molti iniziarono lì la loro carriera. C’era un’orchestra con musicisti fantastici e arrangiatori abilissimi. Danny Simon insistette perché passassi lì qualche estate, come avevano fatto lui e Doc. Stare sotto pressione e sfornare ogni settimana un paio di sketch che gli attori si mettevano immediatamente a provare e che il sabato sera andavano subito in scena, o la va o la spacca: secondo lui, non c’era scuola migliore. Vedere i tuoi pezzi sul palcoscenico e le reazioni del pubblico, per due mesi e mezzo di fila. La ciliegina sulla torta era il fatto che alla fine avrei accumulato abbastanza materiale per fare qualcosa a Broadway.


    Da quando mi ero trasferito a New York, c’era sempre qualcuno che voleva mettere in piedi uno spettacolo a Broadway. New Faces era stato un grande successo, e tutti quelli che avevano una canzone o uno sketch nel cassetto scalpitavano. Giovani ambiziosi e di talento incontravano produttori esagitati in qualche loft dell’Upper East Side, si mettevano al pianoforte a suonare canzoni satiriche o d’amore e leggevano i loro sketch tra l’ilarità generale, finché si stringevano patti di sangue per allestire uno show. Per Dio, questa è la volta buona! Conosco un texano che vuole investire dei soldi, un argentino che va matto per il teatro americano. In realtà ben pochi riuscivano a raggiungere un palcoscenico, e i pochi che ci riuscivano fallivano miseramente. Per conto mio, fornii tre sketch a uno sventurato strazio intitolato Dalla A alla zeta, con protagonista Hermione Gingold. Tutti e tre avevano fatto morire dal ridere il pubblico di Tamiment. Nel primo due tipi andavano a una festa dove tutte le ragazze erano sosia di Groucho Marx. Ai critici teatrali non piacque, anche se Ken Tynan, sul “New Yorker”, lo trovò divertente. Il secondo, Guerra psicologica, era ambientato su un campo di battaglia dove i soldati usavano, come diceva il titolo, armi psicologiche: “Sei un nanerottolo, e tua madre non ti ha mai voluto bene.” Avete capito. Ebbe un discreto successo. Nel terzo un generale di Cape Canaveral telefonava al sindaco di New York per prepararlo al fatto che un missile nucleare per sbaglio si stava dirigendo verso la città: “E non faccia la donnetta, signor sindaco!”


    La scenetta dei Groucho e Guerra psicologica arrivarono fino a Broadway. Quella del missile, che il pubblico di Tamiment aveva trovato irresistibile, non suscitò un solo sorriso. Non riuscii a spiegarmelo: forse perché si trattava di anteprime nel Connecticut e a Philadelphia, e la gente non rideva non essendo la loro città. Non si sa mai perché la gente non ride di cose per cui dovrebbe impazzire. Non è una scienza esatta.


    Così Harlene e io passammo l’estate a Tamiment, dove scrissi degli sketch che funzionarono bene. L’altro autore era David Panich, un personaggio brillante e sui generis cui devo molto. Aveva dieci anni più di me, un’intelligenza stupefacente, una cultura mostruosa e sapeva disegnare con la precisione di Dürer o di Dalí. Scriveva poesie, leggeva di tutto e suonava boogie-woogie al pianoforte. Odiava il jazz moderno ma aveva vissuto a Parigi con Monk e Miles Davis, e aveva avuto una storia con la moglie di Charlie Parker. Abile scultore, aveva intagliato il drago sul basso di Mingus. Il suo appartamento sembrava una navicella spaziale: ultramoderno, con i suoi quadri alle pareti, inquietanti come le sue poesie. Si guadagnava da vivere facendo l’insegnante a Harlem, aveva atteggiamenti razzisti nei confronti dei neri, eppure tutti i suoi studenti lo amavano e li portava nei musei o li invitava al ristorante, pagando lui. Poi li imitava in modo offensivo. Era stato in manicomio, con la camicia di forza, e mi affascinava con i racconti di quando lo sottoponevano agli elettroshock, come si usava all’epoca. Una volta era andato sul George Washington Bridge meditando di buttarsi sotto. Un’altra volta era salito sul tetto del suo condominio per sputare sui passanti. Dei lontani parenti lo avevano fatto rinchiudere. All’inizio aveva acconsentito, poi era caduto in preda al panico quando gli infermieri lo avevano scortato lungo un corridoio. Da cui la camicia di forza e gli elettroshock. E tutto per una donna per cui aveva perso la testa e che poi l’aveva lasciato per un’altra donna.


    In un’epoca in cui la marijuana non era ancora di massa, era sempre fumato. Il suo pusher era una nera di Harlem che si chiamava Hazel. Panich rischiava molto, sia la prigione sia il posto. In ogni caso l’erba lo rendeva ilare, ed era un ascoltatore ideale di quello che scrivevo. Mi fece capire che S.J. Perelman era il più grande di tutti, cosa che penso ancora oggi. Mi aiutò ad ampliare il mio vocabolario. Spesso discutevamo di donne. Lui le adorava e detestava al tempo stesso. Io ero un giovane alle prese con un matrimonio non riuscito. “Dacci un taglio,” mi consigliò, aspirando la sua canna mentre socializzavamo davanti al lago di Camp Tamiment. “E liberati di quell’aborto di manager di cui ti dovresti solo vergognare. È un pescivendolo. Oltre al fatto che ti deruba.” Harvey non aveva un ufficio, solo un servizio di segreteria. Passava dagli agenti e chiedeva: “C’è lavoro oggi?” E poi usava il loro telefono. Comunque dovevo a Harvey il mio primo lavoro, e così avrei onorato il contratto.


    “Ti sei sposato troppo giovane,” insisteva David. “Piantala lì e cerca di limitare i danni. Non fai nessun favore a tua moglie cercando di tenere i piedi questo matrimonio.” “Non so,” rispondevo. E non lo sapevo. Di certo era servito a qualcosa: a farci uscire dalle case dei nostri genitori e a buttarci nel mondo. Io ero un newyorkese che lavorava, lei si stava laureando in filosofia all’Hunter College. Mi iniziò alla filosofia e me ne innamorai. Leggevamo insieme e pagavamo uno studente della Columbia perché venisse da noi una volta la settimana a parlarci di classici del pensiero. Ma le discussioni che avevamo sul libero arbitrio e le monadi, per quanto accese, non erano mai violente come quelle che riguardavano il nostro matrimonio. Mi resi conto di essere nei guai quando, durante una discussione filosofica, Harlene dimostrò che non esistevo.


    Quel primo anno ebbi grande successo a Tamiment e mi richiesero anche l’anno seguente. Ne parlai con Steven Vinover, un paroliere di talento che sarebbe morto prematuramente, e secondo lui non sarei dovuto tornare se non mi avessero lasciato dirigere i miei sketch. Quel primo anno incontrai un altro grande paroliere. Non lavorava lì ma era venuto a vedere uno spettacolo il sabato sera. Aveva solo sei anni più di me, e si diceva che avrebbe fatto grandi cose. Era Stephen Sondheim, che incontrai molti anni dopo quando andai a cena a casa sua con Mia Farrow, sua grande amica.


    Il secondo anno a Tamiment diressi i miei sketch ed ebbi ancora una volta successo. Quell’estate frequentai un altro paroliere che lavorava ai nostri spettacoli, Fred Ebb. Ci divertimmo un sacco e poi soffrimmo insieme vedendo le prove di Dalla A alla zeta, consolandoci sulla fatica di tenere in piedi uno spettacolo nato male. In seguito Fred, con il suo socio John Kander, avrebbe scritto New York, New York, Cabaret e Chicago. Non voglio anticipare troppo ma qualche anno dopo Larry Gelbart mi telefonò da Boston o da Philadelphia mentre era alle prese con il musical The Conquering Hero e mi riferì l’immortale battuta che aveva fatto al produttore Robert Whitehead: “Non impiccate Eichmann, piuttosto fategli vedere un musical.”


    Passai dei bei momenti a Tamiment e tornai per il terzo anno. E meno male che lo feci, perché uno dei comici era Milt Kamen, persona davvero divertente ma con un carattere difficile. Suonava il corno, si arrabbiava facilmente, e durante l’inverno faceva il sostituto di Sid Caesar. Quest’ultimo era titolare di uno dei migliori programmi televisivi dell’epoca, Your Show of Shows – un altro era The Honeymooners, con un comico molto diverso, Jackie Gleason. Sid poteva contare su un gruppo di autori di genio: Mel Brooks, Larry Gelbart, Mel Tolkin, Lucille Kallen, Mike Stuart, Shelly Keller, Neil Simon, oltre a Carl Reiner, Howie Morris e Sid stesso. Il suo programma settimanale era atteso da tutti quelli che apprezzavano la comicità intelligente. Entrare a far parte del gruppo dei suoi autori era un traguardo. Sid era un genio esuberante, i suoi pezzi erano scritti con verve e interpretati con brio. Dopo l’estate Milt Kamen tornò a fare il sostituto di Sid Caesar e gli disse un gran bene di me. Sid aveva già sentito parlare di me da Danny Simon e accettò di incontrarmi. Andai al suo ufficio, dove mi aspettava dietro una scrivania con Larry Gelbart. Questi aveva una decina d’anni più di me. Per un po’ parlammo del più e del meno e sembrava che non si quagliasse. Verso le sei i due dovevano andare a casa, ma prima di uscire Sid si girò teatralmente e annunciò: “Sei assunto.” In ascensore con Gelbert ribadii: “Sono assunto?” E lui: “Se accetti il minimo.” “Ve lo darei io per stare con voi in una stanza,” ribattei.


    A trent’anni Larry Gelbart era già un veterano e una leggenda. Suo padre era un barbiere che raccomandava il figlio alle celebrità a cui tagliava i capelli. Larry aveva scritto per la Duffy’s Tavern radiofonica, per Danny Kaye, Milton Berle, Bob Hope e adesso per Sid Caesar. Quando morì e mi chiesero un commento, dissi: “Era una delle poche persone che ho conosciuto che fossero all’altezza della loro fama.” Era un uomo eccezionale e un autore comico stratosferico; uno scrittore ebreo nello stesso modo in cui lo era Norman Mailer: vale a dire che entrambi erano ebrei, ma non emergeva mai dal loro lavoro. Con Larry andai subito d’accordo, e lo show che scrivemmo vinse un Peabody Award. Facemmo una satira di Ingmar Bergman e di Tennessee Williams, vincemmo un altro premio; ma quando mi trovai davanti all’entrata del Toots Shor’s non riuscii a entrare – una “fobia dell’ingresso” che ho ancora oggi. Una volta rimasi seduto davanti alla bella casa di Sidney Lumet in Lexington Avenue mentre arrivavano i vari invitati; lo ero anch’io, ma non trovavo il coraggio di varcare la soglia. Vedevo entrare gente che mi piaceva e a cui stavo simpatico – Bob Fosse, Milos Forman, Paddy Chayefsky – ma non ci fu verso di seguirli.


    Ogni volta che dovevo partecipare a qualche evento, mi assicuravo di arrivare per primo – e così, forse, riuscivo ad accedere. Una volta venni invitato dal presidente Johnson alla Casa Bianca. Uscii di casa, presi l’aereo per Washington, andai in un bagno e mi misi lo smoking e corsi alla Casa Bianca per essere il primo e non perdere quell’opportunità. Entrai, ma Richard Rodgers mi aveva preceduto. Era la prima volta che lo incontravo e mi abbracciò dicendo: “Se i nostri nonni ci potessero vedere.” Anche lui aveva le sue piccole stranezze, e mi chiesi se la fobia dell’ingresso fosse una di quelle.

Tra parentesi, qualche anno dopo andai a una festa affollata a casa di Sidney Lumet, in qualche modo riuscii a entrare e mi misi a sedere su un divano alle cui spalle c’era una vetrata. Le inutili ciance stavano superando il livello di guardia, e quando a una famosa cantante venne chiesto di eseguire un pezzo, cominciai a stare sulle spine. E quando qualcuno si mise al pianoforte e iniziò a suonare una canzone per cui era nota, sentii il bisogno irresistibile di essere da un’altra parte. Perché? So solo che mi sentivo attraversare da ondate di disagio. Il guaio era che la porta era lontana e non potevo farmi largo inosservato tra la gente proprio mentre l’ospite aveva iniziato il suo numero. Poi mi resi conto che la vetrata alle mie spalle era socchiusa. Eravamo al piano terra, e l’attenzione di tutti era concentrata sul pianoforte. I fan della cantante mi davano le spalle, e con un minimo di doti atletiche potevo scivolare fuori dalla finestra, ritrovarmi sulla Novantunesima Strada, e chi s’è visto s’è visto. Mi affrettai ad aprire un po’ di più le ante in modo da poter passare. Quello che non volevo è che qualcuno si girasse e mi beccasse mezzo dentro e mezzo fuori. Alla fine quatto quatto cominciai la mia fuga. La cantante cantava, e io infilai fuori una gamba alla volta. D’un tratto mi resi conto che se un passante mi avesse visto penzolare fuori da una finestra, avrebbe potuto pensare che fossi un topo d’appartamento. E se mi avesse visto uno sbirro fresco di accademia e mi avesse sparato? In preda al panico, in qualche modo riuscii a rientrare e a recuperare la mia postazione sul divano. Ascoltai l’intera esibizione e me ne andai assieme a tutti gli altri. Ma avete visto anche voi quanto mi era stato utile andare da uno strizzacervelli. Anche se ero in analisi solo da circa ventitré anni quando feci tutto ciò.


    Così finii il lavoro a Tamiment e venni assoldato da Sid Caesar. A un certo punto mi chiese di scrivere un pezzo per lui insieme a Mel Brooks, che aveva la fama di essere un terremoto e temevo mi mangiasse vivo, e invece si rivelò un tipo fantastico e mi prese in simpatia. Ogni sera tornavamo a casa insieme e mi raccontava le sue avventure galanti. Ero stupito che quel piccolo ebreo potesse ammaliare tante donne affascinanti. Mel era brillante, colto e con un talento per la musica. Scrivere per Sid significava trovarsi ogni mattina alle dieci con un mucchio di persone, parlare di film e degli eventi del giorno, e alla fine cercare di mettere giù qualcosa. Tutti lanciavano delle idee e, quando ne veniva scelta una, cominciavamo a improvvisare le battute, ridendo per quelle che ci piacevano o affossando le altre. Scrivere con una sola persona, come Larry Gelbart o Danny Simon, funzionava nello stesso modo, comprese le chiacchiere iniziali.


    In seguito, quando collaborai con Mickey Rose o Marshall Brickman o Doug McGrath, di diverso c’era solo che eravamo amici e che andavamo a fare una passeggiata o a cena continuando a sviluppare la sceneggiatura. Comunque anche pranzare con Sid e i suoi autori era sempre uno spasso. Se andavamo al ristorante invece di farci portare la roba in ufficio, non lasciava mai che pagassimo il conto. Una volta eravamo solo noi due e afferrai il conto insistendo per pagare; lasciò che lo facessi solo dopo avere controllato che non fosse una grossa cifra. Una volta che Larry Gelbart riuscì a prendere il conto, vidi quanto Sid ci rimase male e lo sentii dire: “Finalmente sono diventato grande.” Ogni volta che Danny Simon o Larry Gelbart aveva bisogno di un collaboratore chiamava me. Due personalità antitetiche. Danny, sempre molto riservato, mi diceva: “Non posso parlarne al telefono, vediamoci da Hansen’s.” E io: “Dobbiamo scrivere uno sketch o mi devi consegnare un microfilm?”


    Gelbart mi fece lavorare per il Paul Winchell Show. Winchell era un grande ventriloquo, e così mi toccò scrivere per un pupazzo. Un’altra volta: “Ci sono degli sketch da scrivere per Art Carney, ci stai?” “Certo.” “Vieni alla mia tenuta. Tu e tua moglie potete fermarvi a dormire. Cominciamo oggi.” Una volta mi trovai a lavorare con lui e Sid a casa di quest’ultimo, a Great Neck. A un certo punto Sid decise che ci saremmo spostati nella sauna. Anche se ero stato appena assunto e avevo grande stima di loro, non avevo la minima voglia di stare nudo con due maschi in uno sgabuzzino. Così rimasi un’ora sul prato mentre loro erano dentro a sudare. Sid mi trovò sempre un po’ strano ma mi apprezzava. Nel corso degli anni passai dei bei momenti con Larry. Cene, passeggiate, shopping a Londra, concerti jazz a Manhattan. Mi trattava come un suo pari, mentre per Danny rimasi sempre il ragazzo che aveva scoperto in California.


    Il contratto con Harvey Meltzer scadde. Non lo rinnovai. Seppi di un manager di cui tutti volevano essere clienti, ma che era molto selettivo. Aveva scoperto e lanciato Harry Belafonte. Quando quest’ultimo era uno sconosciuto, disse che un giorno sarebbe diventato una star, sia della musica sia del cinema. Molti si fecero una risata all’idea che un cantante nero di calypso potesse arrivare tanto lontano. Ma Jack Rollins aveva un progetto. Altri consideravano con scetticismo Mike Nichols e Elaine May, due giovani di Chicago che facevano un cabaret intellettuale, ma Jack disse che sarebbero diventati delle star, e Nichols e May fecero il botto. Jack aveva pochi clienti per poterli seguire in modo adeguato. Si teneva il quindici per cento, prendere o lasciare. Fu un comune amico a presentarci. Non aveva mai lavorato con un autore, ma il mio lavoro gli piacque. Quando dissi a lui e al suo socio, Charlie Joffe, che da quando avevo visto Mort Sahl mi era venuto il desiderio assillante di fare il cabarettista, Jack mi disse: “Sentiamo un po’.” E io: “Avete fatto caso che il ‘New York Times’ è l’unico quotidiano senza fumetti? Potrebbero metterne uno tipo Superman, solo che, quando lui entra nella cabina telefonica a cambiarsi, esce fuori un broker di Wall Street.”


    In quel momento Jack decise che dovevo diventare un cabarettista, malgrado i miei sforzi in senso contrario. Il quindici per cento era molto meno di quello che davo a Harvey, e in più avevo un manager di prima qualità. Ci stringemmo la mano, non firmammo nulla, e lavorammo insieme fino a quando morì, centenario. Tra le persone che ho conosciuto, era una delle poche dotate di saggezza. Quando si parlava di talento, non aveva solo intelligenza e capacità di immaginare il futuro. La saggezza è una cosa diversa: e anche se feci del mio meglio per oppormi a Jack con i miei intellettualismi, i pregiudizi, le mie paure e le idee strampalate, alla fine riuscì a dare un enorme contributo alla mia carriera. Ma all’inizio scalpitavo. Pensavo di sapere tutto del mio campo: in pratica ero stato un enfant prodige, avevo avuto subito successo ed ero apprezzato dagli autori più bravi del settore.


    A ventidue anni divenni l’autore principale per lo show televisivo di Pat Boone. Un lavoro che persi subito perché non ero la persona adatta, anche se Pat fu un’altra persona molto piacevole. Certo, scrivevo per lui degli sketch per cui ci voleva la verve di Sid Caesar. Poi finii nel Garry Moore Show, e persi anche quel lavoro per via del mio assenteismo. Comunque la mia reputazione continuava a essere alta tra i miei colleghi e continuavo a essere richiesto. Ma ormai era chiaro che a Jack Rollins faceva gola l’idea di scoprire un nuovo cabarettista, e aveva più fiducia di me nel tentare quella strada. Di giorno lavoravo per la televisione e facevo un sacco di soldi. Nel tempo libero preparavo uno spettacolo, giusto per capire se potesse funzionare.


    E adesso una pausa per spiegare che cosa mi spinse a lasciare l’isolamento della stanza degli autori e a fare un tentativo di calcare le scene come stand-up comedian. Qualche anno prima, quando ero ancora nel programma di formazione per giovani scrittori della NBC, Les Colodny mi aveva suggerito di andare al Blue Angel a vedere un cabarettista emergente che si chiamava Mort Sahl. Il Blue Angel era un locale di lusso, e la NBC avrebbe pagato il conto. Mi misi una cravatta e ci andai con Harlene, allora ancora mia fidanzata. Mort Sahl mi travolse: fu come la prima volta che assaggiai le costine di maiale. Su di lui potrei andare avanti all’infinito, e questo libro diventerebbe più lungo di Guerra e pace. Non posso rendere giustizia al suo lavoro di comico. Posso solo ripetere ciò che mi disse un giornalista sportivo a proposito di Babe Ruth: “Dovevi esserci.” Di lì a poco Mort avrebbe elettrizzato l’America, avrebbe fatto il tutto esaurito in ogni campus, conquistando un pubblico enorme e piazzandosi nei locali migliori, fino a guadagnare la copertina di “Time” e lunghi articoli sul “New Yorker”. E quelli di noi che erano presenti sapevano di partecipare a un’esperienza comica che non assomigliava a nulla.


    È difficile dire in che cosa consistesse il suo genio, perché la risposta è “tutto”, e le parole sono inadeguate. Basti dire che rovinò la mia vita nello stesso modo in cui per anni Charlie Parker rovinò ogni sassofonista venuto dopo di lui. Come scrisse un critico che mi apprezzava: “Se Woody Allen la piantasse di atteggiarsi a nuovo Mort Sahl, potrebbe essere un comico davvero divertente.” Ma era proprio quello che volevo: essere come lui, essere lui. E qui stava il problema. Per ottenere lo stesso effetto, dovevi proprio essere lui. Non erano le battute brillanti, le migliori che avevo mai sentito: era l’uomo. Ci misi molto tempo a rendermene conto e a capire che, per quanto mi sforzassi di far qualcosa di intelligente, non ero lui. (È lo stesso problema che ha avuto il novantanove per cento degli attori dopo che Marlon Brando ha iniziato a recitare. Camminavano come lui, facevano le pause come lui, si atteggiavano e si giravano come lui, ma alla fine erano solo se stessi.) Alla fine, ero sempre io. Per usare le parole icastiche che Marshall Brickman usò per concludere una discussione su arte e artisti: “Sai che cosa ti fotte? Quello che sei.” Come stand-up comedian ero molto bravo, ma in confronto a Mort ero di serie B.


    Avevo preparato un numero e lo provai davanti a Jack Rollins, sua moglie Jane e Charlie Joffe. Dissero che faceva ridere. Tutti (tranne me) pensavano che fossi un comico nato. Jack voleva che facessi un esperimento al Blue Angel, il locale più trendy di tutti gli Stati Uniti. Non solo molto chic, ma anche molto sofisticato. Per esempio erano passati di lì John Carradine (che leggeva Shakespeare), Mort, Mike e Elaine, Jonathan Winters. Era tradizione che dopo lo spettacolo della domenica sera ci fosse spazio per un nuovo talento, che fosse un cantante o un comico. Io ero terrorizzato dal pubblico ma, quando cercai di tirarmi indietro, Jack non volle sentire ragioni. Una domenica sera, terminato il suo spettacolo, Shelley Berman, che allora era un comico di successo, chiese al folto pubblico di rimanere, e fece la presentazione più gentile e utile che una star potesse fare a un principiante. Salii sul palcoscenico, attanagliato dalla paura, e cominciai. Le risate furono così fragorose che, a detta di Jack, mi ritirai subito nel mio guscio. Avevo mezz’ora a mia disposizione, e alla fine Jack mi fece le sue critiche dietro le quinte – un rito che si sarebbe ripetuto molte volte negli anni a venire.


    Malgrado il mio attacco di timidezza di fronte agli applausi e alle risate, dovevo essere andato bene, perché il giorno dopo arrivarono varie proposte da parte di proprietari di locali e produttori televisivi che mi avevano visto. Jack le rifiutò tutte dicendo che non ero ancora pronto. Adesso sarebbe iniziato il vero lavoro. Voleva che facessi il mio numero giorno dopo giorno, mese dopo mese, finché stare sul palcoscenico sarebbe diventata la mia seconda natura. Lo scrittore che era in me mi suggeriva di presentarmi e di leggere i miei pezzi. Le battute funzionavano. Che differenza c’era? Jack me lo spiegò con pazienza: “Guarda che dipende tutto da se piaci al pubblico o no. Se si mette in sintonia con te, apprezzerà le tue battute. In caso contrario, le migliori battute del mondo cadranno nel vuoto.” Non ero d’accordo. Non volevo compiacere la massa ignorante. Mi impuntai su tutte le cose ragionevoli e giuste che diceva, ma lui fu paziente e perseverante e mi disse che, se stavo zitto e facevo quello che diceva lui, dopo due anni avremo valutato i risultati e capito chi aveva ragione. “In te c’è potenzialmente un grande comico,” mi disse, “ma io non lo vedo ancora.” Comunque lo stimavo tanto che accettai di tacere e di lasciare che decidesse lui il da farsi.


    Fu così che lasciai una carriera di autore televisivo che mi faceva guadagnare migliaia di dollari la settimana e accettai di lavorare gratis in un localino sopra al Duplex che si chiamava, appunto, Upstairs at the Duplex, di proprietà di un’amabile signora di nome Jan Wallman. Ogni sera prendevo un taxi che mi portava in Sheridan Square, in compagnia di Jack Rollins o di Charlie Joffe (spesso di entrambi), che insieme a Jan mi spingevano sul palco, dove mi esibivo per un pubblico che andava dalle quaranta alle dieci persone, a seconda delle condizioni atmosferiche. Un altro cabarettista in cartellone era Garry Marshall, che poi produsse Happy Days per il piccolo schermo e diresse film come Pretty Woman. Vi assicuro che aveva talento. La gente veniva a vedermi e mi incoraggiava. Vennero a vedermi David Panich, Mel Brooks, Phil Foster. Charlie e sua moglie vennero a vedermi perfino la sera del giorno del loro matrimonio, lei ancora con l’abito bianco.


    E ogni notte, dopo lo spettacolo, andavo allo Stage Delicatessen a discutere con Jack, a sentire perché alcune delle mie allusioni erano troppo oscure, troppo interne – “Così acute che solo un cane riuscirebbe a percepirle,” come diceva Jack. Al nostro tavolo venivano a sedersi altri cabarettisti: Jack E. Leonard, Buddy Hackett, Henny Youngman, Gene Baylos. Tutti bravi artisti che mi apprezzavano e facevano il tifo per me perché ero gentile e rispettoso e non ero un giovane che guardava con disprezzo i comici più anziani del Borscht Circuit, legato alle località di villeggiatura degli ebrei. Al contrario, amavo i loro numeri e non lo nascondevo.


    Il loro atteggiamento era quasi paterno. Una volta non sapevo se dare la mancia alla guardarobiera per avermi prestato una cravatta. All’epoca un dollaro era una grossa mancia: ma a frenarmi non era l’avarizia, era l’ignoranza delle regole. “Le devo dare la mancia?” chiesi a Phil Foster. E lui: “Hai dieci dollari?” Dissi di sì. “Dammeli.” E Phil diede il deca alla ragazza. “Dieci dollari? Non ho mai dato una mancia così alta.” “Così te lo ricorderai per sempre,” mi spiegò. “E non ti dimenticherai mai di dare la mancia, che ti dia una cravatta o una giacca.” Non è che avessi il braccino corto in queste cose, solo che non avevo il senso dell’opportunità; una volta diedi la mancia a un ufficiale giudiziario che bussò alla mia porta per notificarmi una citazione.


    All’epoca, andare allo Stage Delicatessen sulla Settima Avenue era un rito delle ore piccole. Di fianco c’era un barbiere aperto ventiquattr’ore su ventiquattro, il Dawn Patrol, dove ti facevano barba e capelli alle tre di notte. Anche un negozio di dischi, il Colony, non chiudeva mai: ideale per cercare vinili e fare conoscenze. Per abbordare le ragazze c’era il salone di bellezza di Larry Matthews. E che ragazze: soubrette e ballerine andavano lì dopo la chiusura dei locali per farsi ancora più belle. Non essendo molto bravo ad abbordare le ballerine, mi accontentavo di farmi tagliare i capelli.


    Torniamo alle ultime scene del mio matrimonio. Harlene e io ci siamo allontanati uno dall’altra. Comprensibilmente, lei non ha più pazienza per i miei sbalzi di umore, la mia cupezza, la mia personalità sgradevole. Io mi sto facendo le ossa come cabarettista, lei sta finendo l’università. Grazie a lei ho acquisito familiarità con alcune cose di Kant, Kierkegaard, Schopenhauer e Hegel, e anche se non posso dire di avere davvero colto la differenza tra l’“essere in sé” e l’“essere per sé”, capivo che “essere in un matrimonio infelice” era una gran brutta cosa, sia che scrivessimo “essere” con la minuscola o la maiuscola. Adesso abitavamo vicino alla Quinta Avenue, in un appartamento di due stanze e mezzo. Non successe niente di particolare fino alla mattina in cui trovammo sotto la porta un biglietto della signora di mezza età che abitava sul nostro stesso piano. Diceva: “Mi sono buttata dalla finestra, chiamate la polizia.” Da dove nasceva la propensione dei nostri vicini al suicidio? Ah, e poi ci fu la volta in cui trovammo la porta di casa scassinata. Solo che il ladro non aveva preso nulla, ma ci aveva lasciato un televisore portatile. Immagino che lo avesse preso da un altro appartamento e che mentre stava derubando il nostro fosse stato preso dal panico e fosse fuggito, lasciandolo lì. Cascò a fagiolo, dato che ci serviva un altro televisore.


    Una sera uscimmo con un’altra coppia. Lei non era felice della sua relazione, anche se questo lo capii dopo. Non pensavo alle altre donne, e in testa avevo solo il mio nuovo lavoro di cabarettista. Scrivevo monologhi, li recitavo, cercavo di tenere sotto controllo il mio nervosismo, andavo tutti i giorni dallo psicanalista sperando ogni volta di avere una rivelazione alla Perry Mason. Eureka! Adesso ricordo! Una volta ho visto i miei genitori fare sesso, e il trauma a lungo represso è all’origine della mia devastante paura di rimanere chiuso nella custodia di un violoncello.


    La ragazza dell’appuntamento a quattro (ecco un buon titolo per un thriller) abitava con i suoi genitori nella Settantatreesima Strada (noi nella Settantottesima). Non ricordo nulla di particolare di quella serata, né per quale motivo finì la relazione tra i due; so solo che, abitando a due passi, spesso la invitavamo a cena e passavamo la serata in tre, a parlare o magari a vedere la televisione. Era molto carina e affascinante, e non mi resi conto del colpo che aveva fatto su di me finché non mi svegliai nel cuore della notte con un bruciante desiderio di sposarla e di andare a vivere sulla luna con lei. Voleva fare la cantante, e ci invitò ad andare a sentirla in un locale. Le dicemmo che ci sarebbe piaciuto ma che eravamo in partenza per una settimana a Washington. Le augurammo buona fortuna e lei se ne andò, anche se il suo sorriso rimase ad aleggiare a mezz’aria come quello del Gatto del Cheshire e io, in preda al senso di colpa, mi affrettai a nasconderlo sotto il cuscino del divano.


    Poco dopo andammo a Washington, una vacanza che in teoria doveva salvare il nostro matrimonio. Sette giorni lontani dalle tensioni e dal trantran di Manhattan avrebbero rimediato ad anni di ostilità barbariche. Così prendemmo il treno e andammo a visitare la National Gallery, la Freer Gallery, il quartier generale dell’FBI, la Zecca di Stato; pranzammo da Duke Zeibert’s e all’Occidental e lì, nella capitale degli Stati Uniti, circondati dall’indescrivibile bellezza dei ciliegi in fiore, continuammo a litigare. Il solenne Lincoln Memorial e le deliziose scaloppine di vitello dell’Anna Maria’s non ebbero l’effetto taumaturgico che speravamo. Tornato a casa, curvo sulla mia macchina da scrivere mentre mia moglie era a lezione, mi presi una pausa e telefonai alla ragazza dell’appuntamento a quattro per sapere com’era andato il suo debutto come cantante. Saranno state le tre di un pomeriggio di aprile. Lei era a casa e mi disse che le sembrava fosse andato bene. E il mio viaggio, invece? Farfugliai della Campana della libertà, dimenticando che è a Philadelphia, e in uno di quegli impulsi improvvisi che Dostoevskij attribuisce al suo giocatore, le chiesi: “Sto andando a comprare un disco di jazz. Ti va una passeggiata?”


    “Certo,” disse: e con un’unica parola devastò la mia vita, anche se non me ne resi conto. Pochi minuti dopo ero davanti a casa sua. Il portiere, esaminandomi come se fossi una macchia di muffa, non mi lasciò entrare, ma usò l’interfono e mi disse che sarebbe scesa subito. Fu un’apparizione stupefacente, una ventenne leggiadra che scendeva dalle scale per salutare un servo della gleba non giudicato degno di entrare nell’atrio del suo palazzo. Mentre mi sorrideva, non sognai che un giorno sarebbe diventata mia moglie e dopo qualche anno avremmo divorziato, ma che saremmo rimasti amici per tutta la vita; e ora che io ho ottantaquattro anni e lei ottantuno, se Čechov fosse vivo, saprebbe dove andrei a parare. Era Louise Lasser; articolare le elle del suo nome con la lingua era già una promessa di libidine; non che le varie esse guastassero. Aveva mollato la Brandeis University all’ultimo anno. Era una creatura bionda e bellissima e, anche se anni di malattie e di sofferenza hanno lasciato il segno, dovete credermi quando dico che era uno schianto.


    So che non mi credete, per cui state a sentire queste due testimonianze. Prima quella meno clamorosa. Avevamo preso un taxi e, arrivati a destinazione, lei uscì per prima, lasciandomi da solo a pagare il tassista. “Chi è quella ragazza?” mi chiese sbalordito. “È fantastica, è incredibile, è la fine del mondo!” Bene, questa è una voce imparziale. La voce dell’uomo della strada. Quando andava alla Brandeis, sia il giornalista Max Lerner sia John Fitzgerald Kennedy ci provarono con lei. E questi non erano uomini della strada. Prova numero due: suo padre ci porta a vedere Il violinista sul tetto, posti in seconda o in terza fila. Mentre vediamo lo spettacolo, mi accorgo di conoscere alcuni dei musicisti dell’orchestra dai tempi di Tamiment. Alla fine mi avvicino a salutarli.


    “Chi è la ragazza che è con te?” mi chiede il batterista.


    “Si chiama Louise. È la mia fidanzata.”


    “Davvero? Tutti noi pensavamo che fosse Brigitte Bardot.”


    D’accordo, nessuna poteva essere devastante come la Bardot, ma a vent’anni, con i capelli a coda di cavallo, Louise poteva evocarla. Ricordava anche la giovanissima e bellissima Mia Farrow, e amiche e conoscenti le mandavano ritagli di giornale con foto di Mia scrivendo: “Pensavo che fossi tu.” Molti anni dopo mostrai una foto della giovane Louise a Fletcher, il figlio di Mia, e gli domandai se la riconosceva. “È mamma, vero?” rispose.


    Finora mi sono dilungato a parlare della sua bellezza. Ma questa era solo uno dei motivi per cui me ne innamorai. Era affascinante, aveva un’intelligenza pronta e tagliente, era spiritosa; era colta, ed era cresciuta in un attico sulla Quinta Avenue, come quelli che avevo visto al cinema. Aveva un conto aperto da Tiffany’s e da Bergdorf; suo padre aveva un noto studio di revisione contabile ed era autore di un manuale che si trovava in tutte le librerie newyorkesi. Sua madre era un’arredatrice. I suoi la portavano nei ristoranti migliori, dove i maître la conoscevano fin da piccola. Mentre io ero cresciuto mangiando fagiolini Del Monte direttamente dalla lattina, lei degustava escargots sulla Quinta Avenue, dove un portiere in livrea le chiamava il taxi per non fare tardi a teatro. Aveva una voce calda, e trasudava carnalità da tutti i pori. Era anche un po’ svitata, perché Dio ha un’infinità di sorprese non sempre gradevoli nascoste nelle maniche della sua tunica bianca.


    Ma il manicomio doveva ancora iniziare. Era aprile e attraversammo Central Park per raggiungere il Record Center, un caotico negozio al primo piano di una casa. Si saliva una scala con il cartello TUTTO DA BUNK A MONK e si entrava in uno stanzone che straripava di vinili. Da ragazzo potevo passare ore a cercare e poi comprare un solo disco, perché di più non potevo permettermi. Il proprietario, un uomo obeso che si chiamava Joe, se ne stava seduto mezzo addormentato mentre frugavo negli scatoloni e riusciva a malapena a biascicare una risposta a quello che gli chiedevo. Non ricordo se è stato Hazlitt o Lamb a dire quanto era piacevole decidere quali libri comprare quando era ragazzo e aveva pochi spiccioli in tasca, mentre adesso che era adulto e poteva permettersene molti di più il brivido era scomparso. Trovai il Johnny Dodds o il George Lewis che volevo e le regalai un album di Billie Holiday, Lady Day. Dopo tutto era una cantante e quindi doveva venerare Billie Holiday, cosa che ovviamente fece.


    Tornammo verso casa e, quando fummo davanti a dove abitava, la ringraziai per la passeggiata e le dissi che avevo qualche pomeriggio libero se voleva fare altre passeggiate o andare al cinema. Lei disse che era libera il martedì successivo. Ci demmo appuntamento alla fontana del Plaza Hotel a mezzogiorno. Faceva molto Scott Fitzgerald – chissà se sarebbe stata la mia Zelda. Tornai a casa in uno stato di confusione. Lo stesso capitò a lei. Non so perché. Non avevo nulla di magico da offrire. Probabilmente ero una compagnia piacevole, ero abbastanza hip e divertente. Non so cos’altro potesse averla mandata al settimo cielo. Ero un aspirante cabarettista sposato, di modeste dimensioni e sempre vestito male. Naturalmente non potevo immaginare di piacerle. Sapevo solo che era la realizzazione di tutti i miei sogni e le mie fantasie, e martedì avrei potuto passare l’intero pomeriggio con lei. Immagino che quella sera fui supergentile con mia moglie, anche se lei già parlava delle dinamiche di una separazione incombente. Ammaliato, cominciai a programmare le cose da fare con Louise, certo che prima o poi mi avrebbe dato buca. Mi trascinai al Duplex a recitare le mie battute. Cenai con Jack Rollins, discutemmo di comicità, ma solo metà della mia mente era concentrata sull’hamburger che avevo nel piatto. Intendevo sfruttare al meglio il pomeriggio con Louise. Meglio non portarla a vedere un film: il silenzio non avrebbe fatto progredire la nostra relazione. Che cosa potevamo fare insieme di modo da capire che cosa provava nei miei confronti, prima come uomo sposato, e poi come lacchè, seduttore, candidato al suo cuore?


    D’un tratto mi venne in mente il luogo ideale. L’ippodromo. Saremmo andati a Belmont Park, avremmo scelto insieme i cavalli; avremmo vinto e perso, avremmo riso e ci saremmo consolati a vicenda. Era qualcosa di diverso e soprattutto qualcosa di attivo. Poi, se tutto fosse andato a dovere, saremmo andati alla Cave Henri IV, un romantico locale francese sotto il livello stradale dove si cenava a lume di candela; e lì avrei ordinato una bottiglia di vino e avrei sfoggiato una serie di espressioni intense alla Montgomery Clift.


    Stacco a martedì mattina. Mi alzo, mi rado, faccio la doccia, cospargo il mio corpo di recluso con tanto borotalco da sembrare il lupo che cerca di ingannare i sette capretti coprendosi di farina. Saluto mia moglie, che ha lezione tutto il giorno. Il mio punto debole erano le scarpe. Quelle che avevo erano inguardabili, così, mentre andavo al nostro rendez-vous, mi infilai in un negozio, dove mi comprai un paio di scarpe carine, anche se strette. A mezzogiorno sedetti sul bordo della fontana al Plaza e dopo qualche minuto apparve Louise, stendendomi con suoi lunghi capelli biondi, gli occhi grandi, la voce profonda e sensuale; per conto mio avevo il solito sorriso da ebete.


    Sul vagone della metropolitana che va all’ippodromo. La conversazione sembra procedere bene. E poi Belmont. Scommettiamo basandoci sui nomi dei cavalli, perdiamo quasi sempre ma una volta vinciamo. Poi, tornando a casa, cala una gelida depressione, e mi sembra che nulla abbia funzionato. A furia di voler essere affascinante sono sfinito: è come se avessi corso la maratona. Adesso sono in preda a un terrore sempre più forte, i silenzi si fanno sempre più lunghi, ormai sono convinto di avere perso la mia occasione. Davanti ai miei occhi vedo scorrere la mia vita come se fosse un film: e sono interpretato da Franklin Pangborn. Sono le diciotto e trenta e propongo di cenare, aspettandomi che mi dica picche. Ma un momento. Che succede? Accetta. Poco dopo ci troviamo nel locale a lume di candela e ordino una bottiglia di Bordeaux. Ne so di vino quanto ne so di cavalli o di donne bipolari. Il trucco sta nel posizionare gli occhi sul menù come se stessi leggendo l’anno mentre in realtà sto controllando il prezzo. Scelgo la bottiglia più costosa che mi posso permettere. Così beviamo e chiacchieriamo; dopo due bicchieri ho abbastanza coraggio da prenderle la mano, lei non la ritrae e sento tremare la terra sotto i piedi. Si tocca l’argomento del mio stato civile, ma le assicuro in tutta onestà che ci siamo sposati troppo giovani e che anche se mia moglie è dolce e intelligente stiamo per separarci. Sorvolo sul fatto che Harlene è una ragazza normale in grado di avere una vita coniugale sana e soddisfacente, ma non con un rottame immaturo e disadattato come me.


    Pago il conto, ci alziamo, e nell’ombra della Cave la bacio. Lei mi viene incontro a metà strada e rimango lì, con le mie labbra appiccicate alle sue, pensando che sto baciando Louise. Volevi sapere che cosa si prova? dice l’omino che vive nella mia testa e mi odia. Be’, ecco qua. Dieci minuti dopo, Louise sta estraendo dei soldi dalla borsetta. Tra scarpe nuove, cavalli brocchi e una bottiglia di Château Gruaud-Larose sono rimasto a secco. Louise mette una banconota nella mano del vetturino. È il primo dei tre pagamenti che scuce mentre il calesse fa il giro di Central Park e noi ci baciamo senza posa sotto il tettuccio. Quando torno a casa ho gli occhi rivolti al cielo come i santi nelle chiese cattoliche. “Perché hai la lingua così nera?” mi chiede mia moglie.


    “Sarà qualcosa che ho mangiato,” rispondo con voce colpevolmente flautata. “Credo dei mirtilli.”


    “Ma se odi la frutta,” obietta la mia carceriera.


    “Ho voluto provare,” dico, mentre il mio naso si allunga a ogni parola che pronuncio.


    “Voglio parlarti. Voglio discutere di cosa dobbiamo fare se vogliamo separarci.”


    La demolizione mi trova pronto, essendo appena incappato nella scusa ideale: il sovrapporsi di due relazioni. E così ci separiamo, e Louise e io iniziamo una storia. Mi ricordo esattamente dove eravamo quando mi resi conto per la prima volta di cosa fosse l’amore e come ci si sentisse, e finalmente capii quello che intendevano i poeti e gli autori dei testi delle canzoni. Facevamo coppia da qualche settimana. Mi ero trasferito in un romantico appartamento nel cui bagno c’era un caminetto – non che lo accendessi. Ma usavamo il caminetto nel soggiorno e stavamo sempre insieme, che dormissimo o fossimo svegli. Un pomeriggio stavamo bevendo un caffè nel ristorante del MOMA, osservai Louise e pensai: oddio, amo davvero questa donna. Non avevo mai provato quei sentimenti per nessun’altra. Adesso capisco di cosa parlano. Nel frattempo, su in cielo, lo stesso personaggio che si era accanito sadicamente su Giobbe aveva trovato la mia foto nel suo schedario e si stava sfregando le mani pregustando quello che sarebbe successo.


    Saltò fuori che la madre di Louise aveva avuto seri disturbi mentali, e quando dico “seri” intendo che entrava e usciva dalle cliniche dove veniva sottoposta a elettroshock. Tutto questo, ovviamente, ebbe un effetto devastante sulla piccola Louise. Fin dall’inizio, determinato a far andare tutto nel modo migliore, avevo trascurato alcuni segnali di allarme. Per esempio, quando avevo chiesto a Louise perché aveva interrotto gli studi, solo in seguito alla mia insistenza aveva ammesso non era stato solo per fare la cantante e l’attrice, ma che aveva avuto dei problemi psicologici. E poi c’erano le sue fasi maniacali, che potevano essere lusinghiere, dato che era una ragazza sexy e brillante. Certo, sembrava un po’ troppo sopra le righe, ma che ne sapevo io di disturbi bipolari? Nella mia famiglia le malattie mentali erano sconosciute, e non ci si preoccupava finché uno non correva nudo per strada brandendo una mannaia.


    Per capire che c’era qualcosa che non andava, probabilmente sarebbe bastato vedere la sua camera. Immaginate un elegante attico sulla Quinta Avenue dove vivono padre, madre e figlia. L’arredamento, in parte disegnato dalla madre, è amorevolmente curato in ogni dettaglio, dalle lampade ai posacenere, dalle sedie ai tavoli, e denota gusto, discrezione ed eleganza. Colori pastello, azzurri e grigi, legno di ciliegio ovunque. Tutto ordinato e perfetto. Si ha l’impressione che ogni oggetto abbia un numero che corrisponde a un altro numero sul tavolo. Una scala a chiocciola porta alla camera di Louise. Si apre una porta e ci si ritrova a Hiroshima. Letto disfatto, cassetti aperti, vestiti sparsi qua e là, creme e trucchi dappertutto, vasetti e tubetti senza coperchi o cappucci. Gli armadietti del bagno sono spalancati e quasi tutto è in precario equilibrio sul bordo del lavabo. Sul comodino ci sono una scatola di cartone con una fetta di pizza mangiata a metà risalente a non si sa quanti giorni prima e un bicchierino da caffè pieno a metà in cui è stato spento un mozzicone di sigaretta. Libri aperti e spartiti si mescolano alla biancheria. La camera di Louise si oppone platealmente alla meticolosa bellezza del resto della casa; è una dichiarazione. Che dice cosa? Dentro di me c’è il caos? La mia mente è fatta così? Mamma, è così che reagisco alla tua ossessione per l’ordine, al tuo arredamento impeccabile? Vedendo quella stanza, anche uno sciocco avrebbe capito che cosa sarebbe successo in seguito. Ma io non ero uno sciocco qualunque. Ero uno sciocco al cubo, innamorato dell’apoteosi dei miei sogni; e mentre mi facevo largo tra l’immondizia, decisi di trovare una giustificazione. “Cos’è, la signora delle pulizie era malata?” cinguettai. “È venuta ieri,” fu la risposta. Poco dopo stavo facendo l’amore con una dea e, se l’ordine non era la sua specialità, me ne sarei fatto una ragione.


    Louise e io stemmo insieme per otto anni prima di sposarci. Nel frattempo a volte vivevamo insieme, a volte no – comunque più sì che no. In quegli otto anni di montagne russe lei mi tradiva, seguiva varie diete, entrava e usciva da varie cliniche, faceva ampio consumo di marijuana, psicofarmaci e droghe meno legali; mentre periodi di autocommiserazione (cfr. Dopo la caduta di Arthur Miller) si alternavano senza preavviso a uragani di euforia forza 5, cercava di cantare, di stare al mondo, di essere la mia ragazza – incredibilmente eccitante nei giorni buoni (che erano sempre di meno), ingannevole, seducente, capace di aiutarmi e di incoraggiare la mia carriera, adorabile, esasperante, cupa, perspicace, sempre divertente.


    In tutto quello che scrissi negli anni successivi, fu sempre la mia bionda dama dei sonetti. Quando per un film ricreai la camera da letto di Louise, quell’attrice formidabile che era Anjelica Huston mi guardò incredula e mi chiese: “Chi hai conosciuto che viveva in questo caos?” E io pensai: oh, solo una che ho sposato.


    Torniamo ai miei spettacoli al Duplex. Oltre a Jack Rollins e Charlie, adesso c’è anche Louise a farmi da coach e ad aiutarmi con critiche e suggerimenti. Lei e Jack vanno d’accordo, lui cerca di occuparsi della sua fallimentare carriera di cantante, ma lei si dimostra troppo indisciplinata e inaffidabile. Anche quando fa la sostituta di Barbra Streisand per il musical I Can Get It for You Wholesale, dopo che è calato il sipario viene fedelmente a vedere i miei show. Nel frattempo dal Duplex mi ero spostato al Bitter End, un locale in Bleecker Street dove, incoraggiato dal suo proprietario – il grande Fred Weintraub – divenni il must di quella stagione. Al Bitter End servivano solo caffè, e dietro il palco c’era l’immancabile muro di mattoni. In genere si esibivano musicisti come Lucy & Carly Simon, José Feliciano, Peter, Paul and Mary e i Tarriers, un gruppo folk il cui bassista era Marshall Brickman con cui collaborai in seguito in numerosi film, come Io e Annie e Manhattan. Marshall aveva grande talento e un senso dell’umorismo davvero raro.


    Hilda Pollack stava alla cassa e mi pagava con rotoli di banconote avvolti da un elastico. Spesso mi capitava di parlare con il figlio di S.J. Perelman, che si chiamava Adam, e che in seguitò si suicidò. Conobbi Bill Cosby quando era ancora agli inizi. Su quel palco Dick Cavett provò a esibirsi come cabarettista: e ci riuscì egregiamente, come in tutte le cose che faceva. Anche il mio amico Mickey Rose fece un tentativo, ma ci rinunciò. Io invece feci il botto. Un giornalista del “New York Times”, Arthur Gelb, venne a vedermi e scrisse un pezzo lusinghiero; e al notiziario delle diciotto David Brinkley citò il pezzo di Gelb dicendo che al Bitter End c’era l’unico cabarettista che non parlava di JFK. All’epoca i Kennedy erano al centro dell’attenzione, e ogni comico faceva battute su di loro. Era il lato meno entusiasmante dell’eredità di Mort Sahl. Mort era un genio comico che spesso trattava temi politici come non era mai stato fatto prima, e un milione di cabarettisti molto meno geniali di lui pensarono di poterlo imitare. La maggior parte fallì.


    Tanto per cominciare, Mort Sahl era una persona che aveva idee politiche precise e si teneva sempre informato – al contrario di molti suoi colleghi. Ma soprattutto Mort aveva una personalità travolgente ed era un performer sopraffino, al punto che altri lo sminuivano dicendo: “Si presenta sul palco e parla. Sono capaci tutti.” E, mentre altri potevano trattare di politica con battute anche ottime, era con la personalità di Mort che entrava in contatto il pubblico. Non fatemi ricominciare. Le battute sull’attualità hanno il vantaggio di essere fresche e di sollecitare immediatamente la risata su temi ben noti. Ma secondo me Mort era ancora più grande e divertente quando non si occupava di politica. E io evitavo le battute sull’attualità, non per altro, ma perché non mi interessava l’argomento. Ascoltare le notizie è un conto, parlarne è un altro. Comunque, subito dopo l’articolo sul “New York Times”, davanti al Bitter End cominciarono a formarsi le file. C’era sempre il tutto esaurito, cominciarono a intervistarmi e a invitarmi a programmi televisivi come PM East, dove andai varie volte. Lì mi intervistò Mike Wallace, e una volta mi abbinarono a Barbra Streisand.


    Mi proposero di incidere un disco, e presto tornai in pompa magna al Blue Angel. All’epoca andavano di moda locali piccoli e trendy che si rivolgevano a un pubblico selezionato, e i nuovi comici se li facevano tutti. Mi esibii all’Hungry i a San Francisco, insieme a Barbra Streisand, e al Mister Kelly’s, a Chicago, dove conobbi Judy Henske, in un periodo in cui io e Louise ci eravamo presi una pausa di riflessione. Judy era spiritosa, divertente e piena di fascino; era originaria di Chippewa Falls, nel Wisconsin, il paese natale della protagonista di Io e Annie. Era molto più alta di me ed eravamo una coppia dall’aspetto abbastanza ridicolo, ma stare con lei era un piacere. Il problema era che all’epoca nessuna donna con cui uscivo aveva la possibilità di costruire qualcosa di serio con me, perché continuavo a essere innamorato della meshugana che non riuscivo a far ragionare, e dei cui problemi sottovalutavo la gravità. Che ne sapevo di disturbi bipolari? Mio zio Paul metteva da parte i fogli di carta stagnola dei pacchetti di sigarette e li usava per fare una palla sempre più grande. Quella era la forma di follia più grave che avessi mai conosciuto.


    Al Mister Kelly’s conobbi anche John e Jean Doumanian, e diventammo grandi amici. Più avanti racconterò la strana storia di me e Jean. Poi andai al Crystal Palace di Saint Louis dove conobbi Ernest Trova, un giovane scultore, poco prima che diventasse famoso.


    Al Blue Angel ero in cartellone con Nina Simone; fu lì che conobbi Paddy Chayefsky, Frank Loesser, Billy Rose e Harpo Marx. Ovviamente venivano tutti per sentire Bobby Short. Ma fui notato da Dick Cavett, alla ricerca di nomi nuovi per il suo programma televisivo. Gli piacqui subito e diventammo amici; che fossimo sulla costa orientale o su quella occidentale, ci frequentavamo e condividevamo i nostri amori: l’illusionismo, Groucho, S.J. Perelman e la zuppa di wonton al Sam Wo. Cavett è una di quelle persone la cui vita è un continuo susseguirsi di avventure. Poteva andare a comprare il giornale e ritrovarsi a una festa con Greta Garbo, J.D. Salinger e Howard Hughes. Vabbe’, sto esagerando, ma non più di tanto. Era una persona così arguta e interessante che, da quando era arrivato a New York dal Nebraska, era diventato richiestissimo da tutti, grandi o quasi grandi. Lo conferma la lista degli ospiti del suo talk show: Katharine Hepburn, Noël Coward, Federico Fellini, Henry Kissinger, Muhammad Ali, Laurence Olivier, Judy Garland, Bette Davis, Fred Astaire, Alfred Hitchcock, Gloria Swanson, Ingmar Bergman.


    La sua vita è stata una serie ininterrotta di pranzi, cene, weekend e conversazioni con luminari. Era in grado di reggere una conversazione con Tennessee Williams, di accompagnare il giornalista Walter Winchell nelle sue scorribande notturne con la radio sintonizzata sulle frequenze della polizia e di scambiarsi i trucchi del mestiere con alcuni dei maggiori illusionisti. Ripenso con piacevole nostalgia a quando entrambi avevamo più tempo libero e ci telefonavamo ogni mattina, andavamo a fare colazione, passeggiavamo e magari entravamo nel negozio di Charles Hamilton per vedere rari autografi; dopodiché lui andava a pranzo con star come Orson Welles o Gore Vidal. Quando mi portò a pranzo con Groucho, ricordo l’entusiasmo nell’incontrare il grande attore la cui voce rendeva buffa qualunque cosa dicesse, ma anche la lieve delusione nello scoprire che Groucho era identico a uno dei miei tanti zii o parenti che raccontavano barzellette ai matrimoni o ai bar mitzvah. La differenza era che, nel caso di Groucho, la compulsione alla battuta si tramutava in un incomparabile genio comico.


    Una volta Cavett e io ci ritrovammo a Los Angeles. Lui era uno degli autori del Jerry Lewis Show e io ero in cartellone al Crescendo. Facemmo il giro delle case delle star, come dei fan feticisti, e rimanemmo ammutoliti davanti alle magioni di Jack Benny e di W.C. Fields. Poco dopo venne assassinato John Fitzgerald Kennedy. Ed ecco un aneddoto che illustra o la mia disciplina e la mia ambizione o la mia mancanza di connessione con la realtà. La sera mi esibisco in un locale sul Sunset Boulevard, e passo la mattina davanti alla macchina da scrivere sfornando la mia prima sceneggiatura – un lavoro su commissione alla base di un film tremendo, Ciao Pussycat, ma di ciò avremo modo di riparlare.


    Dunque, sto scrivendo la sceneggiatura e la signora delle pulizie annuncia: “Hanno sparato al presidente Kennedy. Pensano che sia morto.” Accendo la televisione e tutti i canali parlano della tragedia. Rimango a guardare per due minuti, elaboro l’informazione, spengo la televisione e torno alla mia sceneggiatura. Nulla poteva distrarmi. Quella sera il mio show venne annullato e rimasi con Cavett e Mort Sahl a commentare tristemente quanto era successo.


    Anni dopo, Cavett cadde in depressione. Non usciva più di casa e il suo produttore mi telefonò perché andassi da lui a cercare di tirarlo su. Abitava a due passi da me e mi precipitai. Dick era a terra, tormentato dalla paura irrazionale di finire sul lastrico e di non lavorare più. L’unica cosa che potevo fare era tenergli compagnia. Ci raggiunse anche Marshall Brickman, ma la sua malattia era al di là della nostra portata. Ci vollero anni di medici, terapie, farmaci ed elettroshock, uniti all’intelligenza di Dick, prima che potesse uscire e tornare a fare una vita soddisfacente e produttiva. Anche nei momenti peggiori, Cavett non rinunciava al suo ruolo di uomo di società raffinato e cosmopolita. Jean Doumanian e io andammo a trovarlo al Mount Sinai Hospital quando gli facevano gli elettroshock. Volevamo fargli compagnia e tenerlo su di morale prima di andare a cena da Elaine’s. Speravamo che Dick non fosse in preda dei suoi demoni e terrorizzato da quello che gli facevano. Quando arriviamo, lo troviamo che si sta sistemando lo smoking davanti allo specchio. “Ho solo pochi minuti,” ci dice. “Devo vedere Jack Nicholson e andare a una cena con lui.” Il tempo di scambiare due parole, e lui se ne va via come Fred Astaire, lasciandoci nella corsia di una clinica psichiatrica. Il giorno dopo gli devono mettere due elettrodi sulle tempie, ma Dio non voglia che perda una cena con una star.


    Sembrava che fossi circondato da persone meravigliose ma instabili come l’uranio. Louise un momento era una delizia e il momento dopo iniziava a lamentarsi. Ha la pelle che brucia, le mani che diventano rigide. Non riesce a respirare. Sta morendo. Tutto ciò può succedere alle tre di notte, svegliandomi di colpo. Adesso è sdraiata per terra, in iperventilazione, in preda al panico. Le manca l’aria. Che cosa dovrei fare? Nella mia famiglia, alle tre di notte non succedeva nulla che non passasse con il bicarbonato di sodio. Adesso sembra in preda alle convulsioni, così chiamo un’ambulanza che ci porta al Lenox Hill Hospital. La visitano, le fanno un’iniezione, la dimettono. Trovare un taxi alle quattro di mattina non è facile. Torniamo. Ho lasciato a casa la giacca con le chiavi. Pensavo che le avessi prese tu. No, pensavo che le avessi tu. Taxi all’Americana Hotel. A questo punto il sedativo fa effetto e Louise non riesce a rimanere sveglia. Trascino il suo corpo inerte mentre il fattorino ci porta alla nostra stanza. Il giorno seguente, il fabbro ci permette di rientrare a casa.


    La settimana dopo si convince contro ogni logica di essere troppo grassa. Con logica inoppugnabile le dimostro che non lo è, che è tutto fuorché grassa. Ma non serve a nulla. Segue una dieta d’urto, che evidentemente nuoce alla sua salute. Digiuno. Per qualche giorno solo proteine. Altro digiuno. Poi solo insalata. Solo carboidrati, e poi niente carboidrati. Altro digiuno. E un altro risveglio nel cuore della notte. “Sto morendo di fame,” mi dice. Non mi stupisco. Va in cucina e apre mezza dozzina di scatole di tonno – e per “mezza dozzina” intendo proprio sei. Le versa in un’insalatiera, aggiunge una quantità di maionese e mescola tutto. Torniamo a letto. Io sono sfinito e sconsolato, lei si ingozza di insalata di tonno. Il giorno dopo ci alziamo tardi. Lei si sente in colpa per avere interrotto la dieta, ed è convinta di avere messo su un paio di chili nel giro di poche ore. Louise non sapeva cucinare. Sapeva solo fare gli spaghetti, ma la sua ricetta era per otto persone, e non sapeva ripartirla proporzionalmente. Per cui avanzavamo sempre sei porzioni. Presto ricomincia a imbottirsi di anfetamine per perdere peso a tempo di record. Nei pochi giorni di requie – che ormai vanno dai due ai cinque mensili – mi chiedo se ne valga la pena. Finalmente la follia passa e Louise diventa la migliore donna del mondo: dolce, brillante, molto divertente, molto affascinante, molto sexy.


    Un solo esempio su cosa intendo per “sexy”, perché è imbarazzante. La punta dell’iceberg. Siamo al ristorante, in attesa che ci servano gli antipasti. Non vedo l’ora di gustare il mio salmone affumicato, ma Louise ha un attacco di libido. Non ho fatto nulla per scatenarlo se non essere, come sempre, spiritoso e affettuoso. “Su, andiamo,” mi fa. “Dove?” chiedo, in preda a ipersalivazione. “Ho voglia di fare l’amore,” spiega. “Ma il mio antipasto?” protesto. “Andiamo,” dice in tono che non ammette replica. “Dove?” squittisco, mentre vengo trascinato verso la porta. “Torniamo subito,” dice al cameriere. “Ma dove mi porti?” insisto. “Ho visto un vicolo dietro l’angolo,” risponde. “Ma siamo in mezzo a New York, sulla Cinquantaquattresima Strada, tra la Broadway e la Settima. Ci passano tutti.” “È un angolino riparato,” dice. “Basta scendere un paio di gradini. È buio e non ci vedrà nessuno.”


    Vengo trascinato verso un mucchio di bidoni della spazzatura e poi spinto in un oscuro anfratto proprio nel cuore di Manhattan. A due passi da noi, il rumore di passanti e automobili che non possiamo vedere, o quasi. Alla fine soccombo alla fregola e dimentico il salmone. Facciamo l’amore e poco dopo siamo di nuovo seduti davanti agli antipasti, io con un sorriso beato in faccia, lei con le guance arrossate dalla soddisfazione. Donne così non si trovano tutti i giorni. Tra parentesi, andare al ristorante con Louise era sempre traumatico, perché ordinava una cosa, poi cambiava idea, poi tornava alla scelta originaria, ed ero sempre io a doverlo comunicare al cameriere.


    “Non avrei dovuto dire al cameriere di spinare il mio pesce,” disse una volta al Lutèce. “Non vorrai mica farci rimettere le lische?” chiesi inorridito e al tempo stesso preparandomi a fare la richiesta. Ma questo e altro per la donna che amavo.


    Il tutto mentre facevo il cabarettista, sviluppavo la mia tecnica e il mio nome circolava sempre di più.


    A volte Louise veniva in tournée con me, a volte se ne stava a casa e trovava qualcuno da portarsi a letto. Era promiscua all’ennesima potenza, eppure mi amava e, se minacciavo di lasciarla, cadeva nel panico e nella depressione. Faceva ogni sforzo per essere la fidanzata perfetta, ma non resisteva al richiamo di qualunque materasso e aveva la libido del proverbiale riccio. Ebbe un’influenza positiva su di me da molti punti di vista, per esempio tirandomi fuori dal mio guscio. Faceva amicizia facilmente: alla gente piacevano la sua energia, la sua intelligenza, il suo fascino e il suo senso dell’umorismo. Mi seguì a Chicago quando ero in cartellone al Mister Kelly’s; fu lei a entrare per prima in sintonia con John e Jean Doumanian, e senza di lei non sarei diventato loro amico. Mi ricordo una volta all’Astor Tower Hotel, John e Jean nella nostra suite in attesa di portarci a cena, io pronto, Louise come al solito in ritardo, la testa inclinata così che i lunghi capelli biondi cadessero sull’asse da stiro mentre lei ci passava sopra il ferro caldo per essere sicura che fossero lisci.


    Jean e John alla fine divorziarono, ma rimasero amici per tutta la vita e si trasferirono a New York. Mi legai molto a Jean, e non esagero quando dico che per alcuni decenni fu la persona che mi fu più vicina. Eravamo veri amici. Ci frequentavamo nei momenti brutti e in quelli belli, e ci facevamo coraggio durante le nostre travagliate relazioni con l’altro sesso. Cenavamo tutte le sere, noi due soli o con altri amici o con le persone con cui in quel momento avevamo una relazione. Quando vivevo da solo, era l’ultima persona con cui parlavo prima di spegnere la luce e addormentarmi, e la prima a cui telefonavo al mio risveglio. Insieme vedemmo un milione di film e viaggiammo per l’Europa. Negli anni Settanta, mentre ero a Parigi a girare un film, conobbe quello che poi fu il suo compagno; noi tre diventammo inseparabili. A volte mi aiutava a trovare un ingaggio, e io la aiutai a lavorare per la televisione quando si trasferì a New York. Tra noi non c’erano segreti, era più che una sorella. Questa confortevole prossimità continuò decennio dopo decennio finché non le feci causa.


    E credetemi, ancora oggi non me ne capacito. Immagino che cominciò quando Jean e il suo facoltoso compagno un giorno decisero di fare i produttori e cominciarono a finanziare alcuni miei film. Quasi tutti andarono bene, e lasciai che si tenessero la mia percentuale dei profitti, sentendomi più sicuro che se li avessi messi in banca. Loro insistevano per versarmela, ma io: “Non faccio i film per i soldi, a me basta realizzarli.” E di certo non avevo mai fatto quasi niente per i soldi, soprattutto se era una cosa a cui tenevo. Come ripeteva Jack Rollins: “Non scegliere i progetti per il denaro, ragiona dal punto di vista artistico, cerca di fare un buon lavoro e i soldi arriveranno.” Non che ci fosse bisogno che me lo dicesse, ma sentirlo da lui era una gradita conferma. E così pian piano ricavai un bel gruzzolo da una serie di film che si erano rivelati redditizi. Prendevo sempre un compenso misero per tenere basso il budget. Probabilmente ero il regista meno pagato della mia generazione. Mi rendo conto di fare un altro salto in avanti, ma altrimenti non posso spiegare ciò che per me rimane inspiegabile.


    Sono sposato con Soon-Yi, abbiamo adottato una figlia. Ho appena comprato una casa perché il nostro appartamento era troppo piccolo per una famiglia. Il mio agente, Steve Tenenbaum, mi consiglia di attingere ai miei profitti con tutte le spese che si prospettano. Ma inspiegabilmente, quando ne parla a Jean e al suo compagno, questi cominciano a fare melina. Consapevole dell’amicizia che ci lega, torna sull’argomento con la massima cautela, ma ogni volta incontra un muro di gomma. Dopo un anno non si è ancora quagliato nulla. Ora, se Jean e il suo compagno mi avessero detto: “Siamo a corto di liquidità, dobbiamo usare i tuoi soldi, abbi pazienza,” avrei risposto: “Fate pure, siete i miei migliori amici; me li darete quando potrete.” Ma la realtà era un’altra. Il suo compagno, un Safra, era un miliardario e quello che chiedevo, oltre a essermelo guadagnato con il mio lavoro, erano spiccioli per uno come lui. E se ignoravo che a causa di qualche crac finanziario aveva dovuto attingere ai miei soldi, anche in questo caso avrebbero dovuto dirmelo e io sarei stato ben lieto di aiutarli. Ma non c’era stato alcun crac, e altro tempo passò tra le nostre caute richieste e il loro tergiversare.


    Data la mia intimità con Jean, mi sarei aspettato che dicesse al suo compagno: “Lascia che parli io con Woody; so che succede spesso, ma non voglio che una questione di soldi possa anche solo incrinare questa amicizia; cerchiamo di trovare subito la soluzione migliore.”


    Ciò non successe e, malgrado i miei tentativi di risolvere la cosa, alla fine fui costretto a chiedere un’azione di accertamento. Risultò che mi era dovuto molto di più di quello che chiedevo. Proposi che mi dessero solo quest’ultima cifra e che ci mettessimo una pietra sopra. Nessuna risposta. Passa altro tempo, ed è chiaro che non hanno intenzione di darmi niente. Mi sembra incomprensibile da parte di due amici che sono sempre stati generosi e di grande aiuto. Jean mi spiega che il suo compagno, per non so quale tortuoso ragionamento, è convinto di non dovermi nulla. Impugno l’accertamento, ma è inutile. Suggerisco che è meglio non procedere su una strada che può rovinare decenni di amicizia: mettiamo tutto nelle mani di un arbitro, facciamoci da parte e rispettiamo qualunque cosa deciderà. Sembrano disposti, ma poi dicono che la decisione dell’arbitro non potrà avere valore legale e, se questo dirà che mi devono pagare, non saranno obbligati a farlo.


    L’assurdità della situazione comincia a diventare irritante. Voglio salvare l’amicizia, ma non so come uscirne. Non posso permettermi di dimenticare milioni di dollari guadagnati onestamente nel corso degli anni, anche se sarei lieto di prenderne solo una fetta per evitare la guerra, ma sul tavolo non c’è niente. Nel frattempo andiamo a cena insieme come se non volessimo vedere l’elefante nella stanza. E per conto mio non voglio vederlo. Apprezzo la loro compagnia e non penso una sola volta alla questione. Trascorriamo insieme momenti piacevoli, non ne parliamo mai, e passa altro tempo. A un certo punto Jean mi telefona poco prima che inizino le riprese del mio nuovo film e mi comunica che loro hanno deciso di tirarsi indietro e di non investire più quello che hanno promesso. Me ne faccio una ragione e accenno al fatto che gli altri produttori magari non prenderanno bene una defezione dell’ultimo momento e potrebbero fare causa. E lei: “Che la facciano pure, perderanno tempo e soldi.” Non sono le parole che mi aspetto di sentire da Jean. Lei è una bella persona, e le belle persone non parlano così. Fu in quel momento che decisi di essere io a portarli in tribunale.


    Era impossibile affrontare qualunque aspetto della questione. Quando Jacqui Safra disse che non gli piacevano gli arbitri e non si fidava di loro, gli suggerii di rivolgerci a Dio. “Trova qualcuno che ti piaccia, magari un rabbino. Fagli esaminare la cosa e prendere una decisione.” “È inaccettabile,” replicò. “Noi non ti dobbiamo niente.” Così si arrivò alla minaccia di un’azione legale. E loro sempre decisi a non riconoscermi neanche una parte del dovuto. Nel frattempo Jean cena con me e Soon-Yi tutte le sere. Ci sono anche altri, si chiacchiera, si spettegola, si ride. Se capita di parlare del nostro contrasto – cosa che succede di rado – si cambia subito argomento. Il compagno di Jean non è presente a queste cene perché è in Europa. La legge gli consentiva di stare solo quattro mesi all’anno negli Stati Uniti, un solo giorno in più significava tasse sul reddito da pagare, e si era efficientemente organizzato a livello globale per evitare la scocciatura di qualunque tipo di imposta.


    Alla fine, una sera siamo a cena da Cipriani, io, mia moglie e Jean; e dopo avere fatto le ordinazioni, dico a Jean: “Ti prego, è l’ultima possibilità. Domani il mio avvocato farà causa alla tua società. Non è la cosa più stupida che hai mai sentito? Risolviamo questa cosa tra di noi e andiamo avanti con le nostre vite.” Grandi sorrisi e nessuna risposta. Soon-Yi e io torniamo a casa. È mezzanotte. Telefono a Jean e la supplico: “Per favore, trova qualcuno che rispettiamo entrambi e che ci faccia da arbitro, magari un rabbino. Perché vuoi lasciare che i miei avvocati vi portino in tribunale? Che cosa pensate di guadagnarci? In questo modo perdiamo tutti.” Seguono belle parole e battute, ma nulla che possa evitare il redde rationem davanti a un giudice.


    La mattina dopo presentiamo la documentazione e io, come un babbeo cresciuto con i film hollywoodiani, immagino Jean e me come avversari in tribunale di giorno, ma come grandi amici la sera a cena. Tipo La costola di Adamo. Non era un po’ troppo tardi perché imparassi che la vita reale non assomiglia a un film della Metro-Goldwyn-Mayer? I tabloid diedero dei truffatori a Jean e al suo compagno, e nessuno dei due mi rivolse più la parola. Scrissi a Jean un biglietto in cui le dicevo: “Lasciamo che siano i nostri avvocati a occuparsi di questa faccenda ma noi non facciamoci la guerra, non sporchiamoci le mani. Facciamo finta che sia una screwball comedy con Spencer Tracy e Katharine Hepburn, e alla fine potremo riderci sopra. Mica ci odiamo: è solo che c’è una cosa su cui non andiamo d’accordo e, mentre austeri uomini in giacca e cravatta ci porteranno fuori dalle secche, noi berremo champagne tutte le sere scherzandoci sopra.” Non ricevetti alcuna risposta. Non solo, avevo definito il “New York Post” un “giornalaccio”, e lei inoltrò a loro la mia lettera.


    E poi venne il giorno in cui mi presentai fisicamente in tribunale. La ragione era così chiaramente dalla mia parte che a metà processo i due cedettero e fecero un accordo stragiudiziale. In seguito un giurato mi disse che, sulla base di quello che avevano sentito, la giuria era pronta a concedermi tutto quello che chiedevo. Tornando su questa storia dopo tanti anni, sono ancora completamente allibito. Si sarebbe potuto evitare tutto: le considerevoli spese legali di entrambe le parti; la gogna mediatica di cui fu vittima la mia amica, la cui testimonianza venne distrutta dai miei avvocati e dalla stampa; la divulgazione di delicate tecniche finanziarie di cui si serviva il suo compagno. A loro costò molto di più del misero accordo che avevo proposto in origine. La mia domanda è: com’è potuto succedere questo tra amici?


    Ho due teorie, nessuna delle quali particolarmente brillante. La prima è che, mentre Jean era una persona adorabile, il suo compagno non era kosher come pensavo. Veniva da una famiglia di banchieri di successo che aveva avuto trascorsi equivoci. Altri lo avevano portato in tribunale, o avrebbero voluto ma non avevano i mezzi. E spendeva un sacco di energia per trovare il modo di non pagare le tasse. In conclusione: non voleva altro che fregare il frutto del mio lavoro. È una teoria che non mi convince fino in fondo, perché in tutti gli anni di frequentazione lo avevo sempre trovato una persona generosa e caritatevole.


    L’altra mia teoria è che Jean e lui fossero sinceramente convinti di essere nel giusto e che io, da amico, sbagliavo a chiedere i miei soldi, dato che non tutti i miei film avevano ripagato i loro costi, e profitti degli uni avrebbero dovuto compensare le perdite degli altri. Mi avevano generosamente finanziato perché potessi continuare a lavorare in piena libertà; e ora, ingrato, avevo la faccia tosta di chiedere dei soldi. Solo un’intima convinzione di essere nel giusto poteva giustificare la loro ostinazione irrazionale, portata al punto di mandare all’aria anni di amicizia. Peccato solo che, se facevano due conti, risultava comunque un profitto. Una storia davvero sconcertante, in cui alla fine hanno perso tutti.


    Torniamo alla mia vita con Louise, detta anche Il tormento e l’estasi, che procedeva con i suoi alti e bassi: ci lasciavamo, ci rimettevamo insieme, ci lasciavamo. Intanto facevo progressi come comico. La mia prima apparizione al Jack Paar Show andò bene, ma a Paar non piacevo e pensava che fossi volgare, cosa che non era vera. Fu sempre sgradevole con me finché non sfondai, al che si vantò di avermi scoperto e d’un tratto diventò il mio più grande fan. Anche Ed Sullivan mi accusò di essere volgare. Una volta, durante le prove generali del suo show, quelli del suo staff mi dissero di non fare i pezzi in programma, ma di tenerli per quando saremmo andati in onda in serata. E così feci un pezzo che non era adatto al suo show, ma non era certo volgare. (Per gli standard odierni, Lenny Bruce sarebbe considerato da educande.) Se vi è mai capitato di ascoltare uno dei miei dischi, sapete che avevo ragione.


    In ogni caso, finito il mio pezzo, Sullivan viene nel mio camerino e mi dà una strigliata. Sbraita che è a causa di gente come me che i ragazzi bruciano le cartoline di precetto e temo che gli venga un colpo apoplettico. Io me ne sto seduto, allibito, e penso se non sia il caso di mandarlo a farsi fottere. Perché no? Mi importa qualcosa di Ed Sullivan e del suo show? Ci sono cose molto più importanti. Tra cinque miliardi di anni il sole si spegnerà e non se ne ricorderà più nessuno. Ma per qualche motivo me ne sto zitto. Ve lo giuro, non era paura; semplicemente il silenzio mi sembrava la mossa migliore da fare in quel momento.


    Finalmente Sullivan la pianta e se ne va con il fumo che gli esce dalle orecchie. La sera feci il pezzo concordato, che era privo di qualunque elemento urticante, raccolsi le mie risate e tornai a casa. Bene, da quel momento e per il resto della mia vita, Sullivan fu il mio più grande fan, sostenitore e anche amico. Non smise mai di elogiarmi nella sua rubrica, e fece pubblicità ai miei dischi e ai miei spettacoli a Broadway. Mi volle nel suo show in molte altre occasioni. Una volta ci trovammo a cena a casa di Groucho e non fece che profondersi in complimenti. A tutt’oggi non so cosa gli fosse successo. Una botta in testa? Un ictus? Un attacco di senso di colpa? Mi aveva scambiato per qualcun altro?


    Alla fine andai sia al Merv Griffin Show sia a quello di Johnny Carson. Due persone adorabili. E un’altra conversione. Una volta sono insieme a Henry Morgan, al solito bisbetico e irascibile. Non mi lascia iniziare il mio pezzo, si intromette, mi rovina le battute. Sto cercando di fare un monologo sulla mia infanzia, e lui: “Sai che scoperta. Ce li ho avuti anch’io due genitori.” E io: “Davvero? Mastini o labrador?”


    Il pubblico impazzisce dalle risate, vedendo quel mostro messo alle corde dal giovane comico contro cui si sta accanendo. Morgan se ne sta zitto. Alla fine non ci salutiamo. Poco dopo, quando sono in tournée con la mia prima, disastrosa commedia, Don’t Drink the Water, Morgan viene a vederla a Philadelphia. D’un tratto è il mio migliore amico. Viene a trovarmi dietro le quinte, cena con me, la vede diverse volte, cerca di aiutarmi a trovare i punti deboli, fa del suo meglio per darmi dei suggerimenti utili. Vai a capire.