sabato 29 maggio 2021

ALEXIS o il trattato della lotta vana Marguerite Yourcenar

 


ALEXIS

o il trattato  della lotta vana

Marguerite Yourcenar 

Nota
Questo romanzo ci trasmette un concetto profondo che io condivido: la morale è solo una: non si tratta di amarsi, quanto di capirsi. Tutto il resto è una lotta vana.
«Il mondo, per ognuno di noi, non esiste se non in quanto confina con la nostra vita. E gli elementi che la compongono non sono scindibili: so troppo bene che gli istinti di cui andiamo fieri e quelli che non confessiamo hanno, in fondo, la stessa origine. Non ne potremmo sopprimere uno senza modificare tutti gli altri».
Come si legge nella Prefazione,  l’omosessualità e il titolo stesso del romanzo richiamano il “Traité du vain désir” di Gilde, anche se si avverte più forte l’influenza del Rilke di “Malte Laurids Brigge” per gli scrupoli e la religiosità di Alexis, quella tenerezza diffusa che egli emana sulle persone e le cose.(Pb)


PREFAZIONE




Alexis o il trattato della lotta vana apparve nel 1929: è contemporaneo di un certo momento della letteratura e del costume in cui un argomento sino ad allora colpito da interdetto trovava per la prima volta da secoli la piena espressione scritta. Sono ormai passati circa trentacinque anni dalla sua pubblicazione: durante questo periodo, le idee, le abitudini sociali, le reazioni del pubblico si sono modificate, meno comunque di quanto si creda; certe opinioni dell’autore sono cambiate o avrebbero potuto cambiare. Non è stato dunque senza una qualche inquietudine che ho riaperto Alexis dopo un intervallo così lungo: mi aspettavo di dover apportare a questo testo un certo numero dì ritocchi, dì aver da fare il punto su un mondo trasformato.

Eppure, a rifletterci bene, queste modifiche mi son parse inutili, se non addirittura nocive; tranne che per quel che concerne alcune inavvertenze di stile, questo libretto è stato lasciato così com’era, e questo per due ragioni che, in apparenza, si contraddicono; l’una è il carattere personalissimo di una confidenza strettamente legata a un ambiente, un tempo, un paese attualmente scomparso dalle carte geografiche, impregnato d’una vecchia atmosfera d’Europa centrale e francese a cui sarebbe stato impossibile imporre un qualsiasi cambiamento senza trasformare l’acustica dell’opera; la seconda, invece, è che questo racconto, almeno dalle reazioni che provoca ancora, pare aver conservato una specie di attualità, e persino d’utilità per qualcuno.

Sebbene l’argomento in questione, un tempo considerato illecito, sia stato abbondantemente trattato ai nostri giorni, e persino sfruttato, dalla letteratura, acquisendo cosi una specie di semidiritto di cittadinanza, pare in effetti che il problema intimo di Alexis non sia oggi meno angoscioso o meno segreto che in altri tempi, né che la facilità relativa, così differente dalla vera libertà, che regna su questo punto in certi ambienti molto ristretti, abbia fatto qualcosa di più che creare nel pubblico ulteriori malintesi e pregiudizi. Basta guardarci attentamente intorno per rilevare che il dramma di Alexis e di Monique non ha smesso di esser vissuto e continuerà senza dubbio a esserlo sinché il mondo delle realtà sensuali resterà sbarrato da proibizioni, le più pericolose tra le quali sono forse quelle del linguaggio, irto di ostacoli che la maggioranza degli esseri evitano o aggirano senza troppo disagio, ma su cui finiscono quasi immancabilmente infilzati i cervelli scrupolosi e i cuori puri. I costumi, checché se ne dica, son troppo poco cambiati perché il dato centrale dì questa narrazione abbia potuto fare il suo tempo.

Non si è forse abbastanza notato che il problema della libertà sensuale in tutte le sue forme è in gran parte un problema dì libertà d’espressione. Pare proprio che, di generazione in generazione, le inclinazioni e le azioni differiscano poco; quel che cambia, invece, è la zona di silenzio intorno o la consistenza degli strati di menzogna. E questo non è vero solo per le avventure proibite: è all’interno dello stesso matrimonio, nei rapporti sensuali tra sposi, che la superstizione verbale si è imposta più tirannicamente. Lo scrittore che cerchi di trattare con onestà l’avventura di Alexis, eliminando dal proprio linguaggio le formule supposte conformi alla buona creanza ma, in realtà, a metà provocatorie e a metà salaci che son proprie alla letteratura amena, può scegliere solo tra due o tre processi d’espressione più o meno difettosi e a volte inaccettabili. I termini del vocabolario scientifico, di formazione recente, destinati a passar di moda insieme con le teorie che li sostengono, deteriorati da una volgarizzazione a oltranza che li spoglia ben presto della loro virtù d’esattezza, valgono solo per le opere specializzate per le quali sono stati appositamente creati; queste parole-etichetta vanno nella direzione opposta della ricerca della letteratura, che è l’individualità nell’espressione. L’oscenità, metodo letterario che ha avuto in ogni tempo i propri adepti, è una tecnica d’urto giustificabile quando si tratta di forzare un pubblico puritano o disincantato a guardare in faccia quel che non vuol vedere o che, per eccesso d’abitudine, non vede più. Il suo impiego può anche legittimamente corrispondere a una specie d’impresa di pulizia delle parole, uno sforzo per rendere a vocaboli in se stessi indifferenti, ma insozzati e disonorati dall’uso, una sorta di linda e serena innocenza. Ma una soluzione così brutale resta pur sempre una soluzione esteriore: l’ipocrita lettore tende ad accettare la parola sconveniente come una forma pittoresca, quasi d’esotismo, come il viaggiatore di passaggio in una città straniera si autorizza a visitarne i bassifondi. L’oscenità si usura presto, costringendo l’autore che ne fa uso a esasperazioni ancor più pericolose per la verità dei sottintesi d’altri tempi. La brutalità del linguaggio bara sulla banalità del pensiero, e (qualche grande eccezione a parte) resta facilmente compatibile con un certo conformismo.

Una terza soluzione può offrirsi allo scrittore: l’impiego di quella lingua spoglia, quasi astratta, circospetta ed esatta insieme, che in Francia è servita per secoli ai predicatori, ai moralisti, e a volte anche ai romanzieri dell’epoca classica per trattare di quel che allora veniva detto “gli smarrimenti dei sensi”. Lo stile tradizionale dell’esame di coscienza si presta tanto bene a formulare le innumerevoli sfumature di giudizio su un argomento per sua natura complesso come la vita stessa che un Bourdaloue o un Massillon vi hanno fatto ricorso per esprimere l’indignazione o il biasimo, e un Laclos il libertinaggio o la voluttà. Per la stessa discrezione che gli è propria, questo linguaggio decantato mi è parso particolarmente indicato alla lentezza pensosa e scrupolosa di Alexis, al suo paziente sforzo per liberarsi, maglia dopo maglia, sciogliendola più che rompendola, dalla rete d’incertezze e di costrizioni in cui si trova preso, al suo pudore in cui entra il rispetto della stessa sensualità, al suo fermo proposito di conciliare senza bassezze lo spirito e la carne.

Come ogni racconto scritto in prima persona, Alexis è il ritratto di una voce. Occorreva lasciare a questa voce il suo proprio registro, il suo proprio timbro, e non toglierle nulla, a esempio quelle inflessioni dì cortesìa che paiono appartenere a un’altra epoca, e lo parevan già trentacmque anni fa, o ancora quegli accenti di tenerezza quasi vezzeggiale che ne dicono di più sui rapporti tra Alexis e la giovane moglie della sua stessa confessione. Occorreva anche lasciare al personaggio certe opinioni che all’autore oggi risultano dubbie, ma che conservano un loro valore di caratterizzazione. Alexis spiega le sue inclinazioni come effetto d’una infanzia puritana interamente dominata dalle donne, visione esatta forse in quel che lo concerne, importante per lui dal momento che l’accetta, ma che (anche se per caso io vi abbia dato credito un tempo, del che non mi ricordo più) mi pare ormai il tipo di spiegazione destinata a far rientrare artificialmente nel sistema psicologico della nostra epoca fatti che probabilmente non hanno bisogno di questo genere di motivazione. Allo stesso modo, la preferenza di Alexis per il piacere gustato indipendentemente dall'amore, la sua diffidenza verso ogni legame che si prolunghi sono caratteristiche d’un periodo di reazione contro tutto un secolo di esagerazioni romantiche: un punto di vista tra i più diffusi del nostro tempo, quali che siano i gusti sensuali di coloro che lo professano. Si potrebbe replicare ad Alexis che la voluttà così messa da parte rischia a sua volta di diventare piatta abitudine; anzi, che c’è un fondo di puritanesimo in questo cruccio di separare il piacere dal resto delle emozioni umane, come se non meritasse di avervi un posto.

Alexis, abbandonando la moglie, motiva la sua partenza con la ricerca di una libertà sessuale più completa e meno inficiata di menzogne, e questa ragione resta certo la più decisiva; è comunque probabile che vi si mescolino altre motivazioni ancor più difficili da confessare per colui che se ne va, quali la voglia di sfuggire a un agio e a un decoro prefabbricati, e di cui Monique, volente o nolente, è diventata il simbolo vivente. Alexis adorna la giovane moglie di ogni virtù, come se, aumentando le distanze tra lei e se stesso, trovasse più facile giustificar la sua partenza. A volte ho pensato di scrivere una risposta di Monique, che, senza contraddire in nulla la confessione di Alexis, facesse luce su qualche punto di questa avventura, e offrisse della giovane donna un’immagine meno idealizzata, ma più completa. Per il momento ho rinunciato. Non c’è nulla di più segreto di un'esistenza femminile. Il racconto di Monique riuscirebbe forse più difficile da scrivere della confessione di Alexis. Per coloro che avessero dimenticato il latino di scuola, ricordiamo che il nome del protagonista (e di conseguenza il titolo del libro) è preso in prestito dalla seconda egloga di Virgilio, Alexisdalla quale, e per le stesse ragioni, Gide prese in prestito il Corydon del suo saggio così discusso. D'altronde, il sottotitolo Il trattato della lotta vana fa eco alTrattato del desiderio vano, quell’opera un poco pallida della giovinezza di André Gide. Nonostante questo richiamo, l’influenza di Gide sull’Alexis fu debole: l’atmosfera quasi protestante e la preoccupazione di riesaminare un problema sensuale vengono da altra parte. Quel che vi ritrovo al contrario in più d'una pagina (e forse eccessivamente) è l’influenza dell’opera grave e patetica di Rilke che un felice caso mi aveva fatto conoscere per tempo. In genere, dimentichiamo troppo l’esistenza di una specie di legge della diffusione ritardata che fa sì che i giovani colti leggessero verso il 1860 Chateaubriand piuttosto che Baudelaire, e quelli della fine del secolo Musset piuttosto che Rimbaud. Quanto a me, che non mi riconosco del resto alcuna importanza caratteristica, ho vissuto gli anni della giovinezza in una relativa indifferenza alla letteratura contemporanea, dovuta in parte allo studio della letteratura del passato (è così che un Pindaro, d’altronde abbastanza goffo, precede in quella che si potrebbe chiamare la mia produzione questo libretto su Alexis), in parte a un’istintiva diffidenza verso quelli che potrebbero venir definiti i valori in voga. Dei grandi libri di Gide dove l’argomento a cui tenevo era infine trattato apertamente, la maggior parte mi erano noti solo per sentito dire; il loro effetto su Alexis più che dal loro contenuto dipende dal rumore fatto intorno a essi, da quella specie di discussione pubblica organizzantesi intorno a un problema sino ad allora esaminato a porte chiuse, e che mi ha certo reso più facile affrontare il medesimo tema senza troppe esitazioni. E dal punto di vista formale che la lettura dei primi libri di Gide mi è stata soprattutto preziosa, provandomi che era ancora possibile usare le forme puramente classiche del récit, che altrimenti avrebbero forse rischiato di apparirmi squisite e antiquate insieme, ed evitandomi di cadere nella trappola del romanzo propriamente detto, la cui composizione pretende dall’autore una varietà d’esperienza umana e letteraria che a quell’epoca certo non possedevo. Quel che dico non tende affatto a ridurre l’importanza dell’opera di un grande scrittore che fu anche un grande moralista, e ancor meno a separare questo Alexis, scritto in completo isolamento dalle mode per mano di una giovane donna di ventiquattro anni, da altre opere contemporanee di intenzioni più o meno simili, ma al contrario di offrir loro l’appoggio di una confidenza spontanea e d’una testimonianza autentica. Certi argomenti son nell’aria di un dato tempo; sono anche nella trama di una vita.

Marguerite Yourcenar








Questa lettera, amica mia, sarà lunghissima. Non amo granché scrivere. Ho letto più volte che le parole tradiscono il pensiero, ma mi pare che le parole scritte lo tradiscano ancora di più. Sapete quel che resta di un originale dopo due traduzioni successive. E poi, io non sono capace. Scrivere è una perpetua scelta tra mille espressioni, nessuna delle quali mi soddisfa, nessuna delle quali, soprattutto, mi soddisfa senza le altre. Eppure dovrei sapere che solo la musica consente il concatenarsi degli accordi. Una lettera, anche la più lunga, costringe a semplificare quel che non avrebbe dovuto esser semplificato: si è sempre così poco chiari quando si tenta d’essere completi! Qui vorrei fare uno sforzo non solo di sincerità, ma anche di esattezza; queste pagine conterranno molte cancellature; ne contengono già. Quel che vi domando (la sola cosa che posso ancora domandarvi) è di non saltare nessuna di queste righe che mi saranno costate tanto. Se vivere è difficile, è molto più disagevole spiegar la propria vita.

Può darsi che avrei fatto meglio a non andarmene senza dir nulla, come se avessi vergogna o come se voi aveste capito. Avrei fatto meglio a spiegarmi a bassa voce, molto lentamente, nell’intimità di una camera, in quell’ora senza luce in cui si riesce così poco a vedersi che quasi si osa confessar tutto. Ma io vi conosco, amica mia. Siete molto buona. In un discorso del genere c’è qualcosa di penoso che può portare a intenerirsi; per il fatto che mi avreste compatito, avreste creduto di capirmi. Io vi conosco. Avreste voluto risparmiarmi quanto c’è di umiliante in una spiegazione così lunga; mi avreste interrotto troppo presto; avrei avuto la debolezza, a ogni frase, di sperare di venire interrotto. E voi avete un’altra qualità (un difetto, forse) di cui parlerò tra poco e di cui non voglio abusare ulteriormente. Sono troppo colpevole nei vostri riguardi per non sentirmi obbligato a mettere una qualche distanza tra me e la vostra pietà.

Non si tratta della mia arte. Voi non leggete i giornali, ma qualche comune amico vi avrà informata che avevo quel che chiamano successo, il che sta a dire che molti mi lodano senza avermi ascoltato, e alcuni senza capirmi. Non si tratta di questo. Si tratta di qualcosa, non proprio di più intimo (cosa può esserci di più intimo della mia opera?), ma che mi pare più intimo perché l’ho tenuto nascosto. Soprattutto, comunque, di più miserabile. Ma, lo vedete, esito; ogni parola che traccio mi allontana un poco di più da quel che volevo esprimere all’inizio; questo prova unicamente che mi manca il coraggio. Mi manca pure la semplicità. Mi è sempre mancata. Ma anche la vita non è semplice, e non è colpa mia. La sola cosa che mi induce a persistere, è la certezza che voi non siete felice. Abbiamo tanto mentito, e tanto patito per causa delle menzogne, che davvero non è un gran rischio provare a vedere se la sincerità guarisca.

La mia giovinezza, o meglio la mia adolescenza, è stata assolutamente pura, o almeno quel che si concorda a definire pura. So che un’affermazione simile fa sempre sorridere, perché in genere prova una mancanza di lucidità o una mancanza di franchezza. Ma credo di non sbagliarmi, e sono sicuro di non mentire. Ne sono sicuro, Monique. Verso i sedici anni ero come voi certo desiderate sia Daniel alla stessa età, e lasciatemi dire che avete torto a desiderare una cosa simile. Sono convinto che sia un errore esporsi così giovani a dover relegare ogni perfezione di cui si sia stati capaci tra i ricordi del più remoto passato. Il bambino che ero, il bambino di Woroïno non c’è più, e tutta la nostra esistenza ha come condizione l’infedeltà a noi stessi. È pericoloso che i nostri primi fantasmi siano appunto i migliori, i più cari, i più rimpianti. La mia infanzia è altrettanto lontana da me dell’ansiosa attesa delle vigilie di festa o del torpore dei pomeriggi troppo lunghi durante i quali si resta senza far nulla aspettando che succeda qualcosa. Come posso sperare di ritrovar quella pace a cui allora non sapevo neppure dare un nome? L’ho separata da me rendendomi conto che non era tutto me stesso. Devo confessarlo subito, solo a fatica riesco a continuare a rimpiangere quell’ignoranza che noi chiamiamo pace.

Quant’è difficile non essere ingiusti con noi stessi! Vi stavo dicendo che la mia adolescenza era stata senza turbamenti; e lo credo; ci ho rimuginato spesso sul mio passato un poco puerile e cosi triste; ho cercato di ricordare i miei pensieri, le mie sensazioni, più intime dei pensieri, e persino i sogni. E li ho analizzati per scoprire se potessi scoprirci significati inquietanti, che allora mi eran sfuggiti, e se non avessi scambiato l’ignoranza della mente per innocenza del cuore. Conoscete gli stagni di Woroïno; dite che somigliano a grandi lembi di cielo grigio caduti sulla terra che stian tentando di risalire in forma di nebbia. Da bambino, ne avevo paura. Capivo già che ogni cosa ha il suo segreto e gli stagni come tutto il resto, che la pace, come il silenzio, è sempre solo una superficie, e che la peggior menzogna è la menzogna della calma. Tutta l’infanzia, quando me ne ricordo, m’appare come una grande calma sull’orlo di una grande inquietudine, che sarebbe stata la vita intera. Penso a certe circostanze, troppo piccole per riferirvele, che allora non notai, ma nelle quali colgo ora i primi fremiti premonitori (fremiti della carne e fremiti del cuore), come quel respiro di Dio di cui parlano le Scritture. Ci sono momenti della nostra esistenza in cui, in modo inesplicabile e quasi terrificante, siamo già quelli che diventeremo più tardi. Mi pare di esser così poco cambiato, amica mia! L’odore della pioggia che arriva da una finestra aperta, un bosco di tremoli nella nebbia, una musica di Cimarosa che le vecchie signore mi facevano suonare, immagino perché ricordava loro la giovinezza, anche meno, una qualità speciale di silenzio che ritrovo solo a Woroïno, bastano ad annullare come non avvenuti tutti i pensieri, gli eventi e i dolori che mi separano dalla mia infanzia. Potrei quasi ammettere che l’intervallo sia durato poco meno di un’ora, che si tratti solo di una di quelle fasi del dormiveglia in cui all’epoca piombavo spesso, e durante le quali la vita e io non avevamo il tempo di modificarci molto. Non ho che da chiuder gli occhi; tutto procede esattamente come allora; ritrovo, come se non si fosse mai staccato da me, quel ragazzo timido, molto dolce, che non pensava di dover essere compianto e che mi somiglia tanto da indurmi a sospettare, ingiustamente forse, che mi abbia potuto somigliare in tutto.

Mi contraddico, lo vedo. Certo, è come per i presentimenti che immaginiamo di avere avuto perché avremmo dovuto averli. Il risultato più crudele di quanto sono costretto a chiamare le nostre colpe (se non altro per conformarmi all’uso) è la contaminazione persino del ricordo del tempo in cui non le avevamo commesse. E proprio questo a turbarmi. Poiché, insomma, se mi sbaglio, non posso sapere in che senso, e non riuscirò mai a stabilire se la mia innocenza di allora fosse meno grande di quel che ho appena sostenuto, oppure se ora io sia meno colpevole di quel che mi obbligo a pensare. Ma mi accorgo di non aver spiegato nulla.

Non ho bisogno di dirvi che eravamo molto poveri. C’è qualcosa di patetico nel disagio delle vecchie famiglie, in cui pare si continui a vivere solo per fedeltà. Mi domanderete a chi: alla casa, immagino, e anche agli antenati, e semplicemente a quel che si è stati. La povertà, Dio mio, non ha molta importanza per un bambino; non ne aveva neppure per mia madre e le mie sorelle, poiché tutti ci conoscevano e nessuno ci supponeva più ricchi di quanto fossimo. Era il vantaggio degli ambienti molto chiusi di una volta, considerare meno quel che si era di quel che si era stati. Il passato, a rifletterci, è una cosa infinitamente più stabile del presente, quindi pareva molto più importante. Non ci dedicavano più attenzione di quanta ne occorresse; di noi stimavano soprattutto un certo feldmaresciallo vissuto in un’epoca lontanissima di cui, dopo circa un secolo, nessuno ricordava più le date. Mi rendo pure conto che la ricchezza di mio nonno e le onorificenze ricevute dal mio bisnonno restavano ai nostri occhi fatti ben più rilevanti, addirittura ben più reali della nostra stessa esistenza. Questi vecchi modi di vedere probabilmente vi faranno sorridere; ammetto che altri modi, del tutto opposti, non sarebbero più irragionevoli, ma, insomma, eran questi ad aiutarci a vivere. Dato che nulla poteva impedire che noi fossimo i discendenti di quei personaggi diventati quasi leggendari, nulla poteva impedire che si continuasse a onorarli in noi; era la sola parte del patrimonio che risultasse veramente inalienabile. Non ci rinfacciavano di disporre di meno denaro e meno credito di quanto gli altri avessero disposto; era persino troppo naturale; caso mai ci sarebbe stato qualcosa di sconveniente nel voler eguagliare quei personaggi celebri, un’ambizione fuori posto.

Così, la vettura che ci portava in chiesa sarebbe apparsa fuori moda altrove che a Woroïno, ma, là, penso, avrebbe dato più scandalo una vettura nuova, e, se gli abiti di mia madre duravano un poco troppo a lungo, nessuno lo notava. Noi, i Gera, eravamo, per così dire, solo la fine di un lignaggio, in quel vecchissimo paese della Boemia del Nord. Si sarebbe potuto credere che neppure esistessimo più, che personaggi invisibili, ma molto più autorevoli di noi, continuassero a riempire delle loro immagini gli specchi di casa nostra. Vorrei evitare anche il minimo sospetto di cercare l’effetto, soprattutto alla fine di una frase, ma si potrebbe dire, in un certo senso, che sono i vivi, nelle vecchie famiglie, a parer le ombre dei morti.

Bisogna scusarmi se mi attardo tanto su questo Woroïno d’un tempo, perché l’ho amato molto. E una debolezza, non ne dubito, e non si dovrebbe amare nulla, almeno non si dovrebbe amare nulla in particolare. Non che là si fosse molto felici; per lo meno, la gioia non era di casa. Non credo di aver sentito a Woroïno una risata, neppure di ragazza, che non fosse soffocata. Non si ride molto, nelle vecchie famiglie. Si finisce addirittura per abituarsi a parlare solo a bassa voce, come se si temesse di svegliare ricordi che è proprio meglio lasciar dormire in pace. Neppure si è infelici, e devo dire che in quella casa non ho mai visto piangere. Solo, si era un poco tristi. Questione di carattere più che di circostanze, e tutti, intorno a me, riconoscevano che si può essere felici senza smettere di esser tristi.

Era, allora, lo stesso edificio bianco, tutto colonnati e finestre, di quel gusto francese dominante nel secolo di Caterina. Ma devo ricordarvi che la vecchia casa era in condizioni molto peggiori di quelle d’oggi, poiché è stata riattata solo grazie a voi all’epoca del nostro matrimonio. Non vi sarà difficile immaginare com’era allora: basta che ricordiate in che stato era quando ci siete venuta la prima volta. Certo, non era stata costruita per ospitare una vita monotona; suppongo che fosse stata edificata per darci feste (al tempo in cui si davan feste) dal capriccio di un antenato che voleva ostentare una qualche fastosità. Tutte le dimore del XVIII secolo sono così: pare siano state costruite solo per il ricevimento degli ospiti, e finiamo per starci solo come visitatori a disagio. Avevamo un bel darci da fare: la casa risultava sempre troppo grande per noi, e ci faceva sempre freddo. Mi pareva anche che non fosse molto solida, e certo il pallore di case del genere, talmente desolato sotto la neve, fa pensare a una certa fragilità. Si capisce bene che son state concepite per climi molto più miti, e da gente che prendeva la vita con maggior disinvoltura. Ma ormai so che quella costruzione, in apparenza così leggera che si sarebbe detta ideata per lo spazio d’una estate, durerà infinitamente più a lungo di noi e, probabilmente, della nostra famiglia. Può darsi che un giorno vada a degli estranei; questo le sarà indifferente perché le case vivono di una vita propria, a cui la nostra vita importa poco, e che del resto noi non capiamo.

Ci rivedo facce serie, un poco tirate, facce pensose di donne in salotti troppo chiari. L’antenato di cui vi ho appena parlato aveva voluto che le stanze fossero spaziose perché la musica potesse risuonar meglio. Amava la musica. Di lui non si parlava spesso; pareva che si preferisse non dirne nulla; si sapeva che aveva dilapidato una grande sostanza; forse gliene serbavano rancore, o c’era qualcos’altro. Altre due generazioni erano passate sotto silenzio, con probabilmente nulla di notevole di cui valesse la pena occuparsi. Poi veniva mio nonno; s’era rovinato al tempo delle riforme agrarie; era liberale; aveva idee che potevano essere ottime, ma che naturalmente l’avevano impoverito, e la gestione di mio padre fu altrettanto deplorevole. Morì giovane, mio padre. Me ne ricordo molto poco; rammento che era severo con noi bambini, come lo sono a volte coloro che si rimproverano di non esserlo stati abbastanza con se stessi. Naturalmente, è solo una supposizione; in pratica, non so nulla di mio padre.

Ho notato qualcosa, Monique: si dice che le vecchie case racchiudano sempre dei fantasmi; non ne ho mai visti, eppure ero un bambino pieno di paure. Può darsi che mi fossi già reso conto che i fantasmi sono invisibili, perché ce li portiamo dentro. Ma quel che rende inquietanti le vecchie case non è il fatto che ci siano i fantasmi, ma il sospetto che potrebbero essercene.

Credo che quegli anni d’infanzia abbiano determinato la mia vita. Ho altri ricordi più vicini, più vari, forse più nitidi ma mi pare che queste nuove impressioni, essendo state meno monotone, non abbiano avuto il tempo di penetrare abbastanza profondamente in me. Siamo tutti distratti, perché abbiamo i nostri sogni; solo il perpetuo ricominciare delle stesse cose finisce per impregnarcene. La mia infanzia fu silenziosa e solitaria; mi ha reso timido, e di conseguenza taciturno. Se penso che vi conosco da quasi tre anni e questa è la prima volta che oso parlarvi ! E per di più solo per lettera, e proprio perché non posso farne a meno. E terribile che il silenzio possa essere un errore; è il più grave dei miei errori, ma, insomma, l’ho commesso. Prima di commetterlo verso di voi, l’ho commesso verso di me. Quando il silenzio si è installato in una casa, farlo uscire è difficile; più una cosa è importante, più pare che la si voglia tacere. Lo si direbbe una materia congelata, sempre più dura e massiccia: al di sotto la vita continua; solo, non la si sente. Woroïno era pieno d’un silenzio che pareva ogni giorno più grande, e ogni silenzio non è fatto che di parole non dette. Forse è stato per questo che divenni musicista. Ci voleva qualcuno per esprimere quel silenzio, per fargli restituire tutta la tristezza che conteneva, per farlo, per così dire, cantare. Non poteva servirsi di parole, sempre troppo esatte per non esser crudeli, doveva semplicemente servirsi della musica, perché la musica non è mai indiscreta, e, quando si lamenta, non sta a dire il perché. E ci voleva della musica di una specie particolare, lenta, piena di lunghe reticenze eppure veridica, aderente al silenzio e infine capace di lasciarcisi scivolare dentro. Questa musica, è stata la mia. Vedete che sono solo un esecutore, mi limito a tradurre. Ma non si traduce che il proprio turbamento; è sempre di se stessi che si parla.

Cera, nel corridoio che conduceva alla mia camera, un’incisione moderna che pareva non interessare nessuno. Era dunque solo mia. Non so chi l’avesse portata là; l’ho rivista poi tante volte in casa di tanti sedicenti artisti da disgustarmene, ma allora la contemplavo spesso. Rappresentava alcuni personaggi che ascoltavano un musicista, e io ero quasi atterrito dalla faccia di quegli esseri a cui la musica pareva rivelare qualcosa. Avrò avuto tredici anni; né la musica né la vita, vi assicuro, avevano ancora avuto nulla da rivelarmi. Almeno, così credevo. Ma l’arte fa parlare alle passioni un linguaggio talmente bello che ci vuol molta più esperienza di quella che possedessi allora per comprendere cosa vogliano dire. Ho riletto le piccole composizioni che tentavo a quel tempo; sono diligenti, molto più infantili di quanto fossero i miei pensieri. Ma è sempre così: le nostre opere rappresentano un periodo della nostra vita che abbiamo già superato all’epoca in cui le scriviamo.

La musica mi metteva allora in uno stato di piacevolissimo torpore, piuttosto particolare. Pareva che tutto s’immobilizzasse in me, tranne il battito delle arterie; che la vita se ne fosse andata dal mio corpo, e che fosse un bene esser così sfinito. Era un piacere; ma era anche una specie di sofferenza. In tutta la mia vita ho trovato il piacere e la sofferenza due sensazioni molto vicine; penso che succeda lo stesso a ogni natura un poco riflessiva. Mi ricordo anche di una sensibilità particolare per i contatti, parlo dei più innocenti, la carezza di una stoffa molto morbida, il solletico di una pelliccia che pare un vello vivente, o l’epidermide di un frutto. Non v’è nulla di biasimevole in ciò; quelle sensazioni mi eran troppo abituali perché me ne stupissi più di tanto; non ci s’interessa a quel che pare semplice. Prestavo ai personaggi della mia incisione emozioni più profonde, perché non eran più bambini. Li supponevo coinvolti in un dramma; credevo che non potesse non esserci stato un dramma. Siamo tutti eguali: abbiamo paura di un dramma; qualche volta, siamo tanto romanzeschi da desiderare che avvenga, e non ci rendiamo conto che è già cominciato.

C’era anche un quadro in cui si vedeva un uomo al clavicembalo, che smetteva di suonare per ascoltare la propria vita. Era la vecchissima copia di un dipinto italiano; l’originale è celebre ma non so come si chiami. Lo sapete, sono molto ignorante. Non amo molto i quadri italiani; eppure, questo, l’ho amato. Ma non vi scrivo per parlarvi d’un quadro.

Può darsi che non valesse nulla. Lo si è venduto, quando il denaro ha cominciato a scarseggiare, insieme con qualche vecchio mobile e qualche antica scatola musicale in smalto, di quelle che sapevano un unico motivo e saltavan sempre la stessa nota. Ce n’erano molte che contenevano delle marionette. Le si caricava; facevano qualche giro a destra, poi qualche giro a sinistra. E poi si fermavano. Era persino commovente. Ma non vi scrivo per parlarvi di marionette.

Lo confesso, Monique, c’è troppo compiacimento per me stesso in queste pagine. Ma dispongo di così pochi ricordi non amari, che bisogna proprio perdonarmi se indugio su quelli che sono semplicemente tristi. Non me ne vorrete di riferire così a lungo i pensieri d’un bambino, che sono il solo a conoscere. Voi amate i bambini. Lo confesso: forse senza saperlo, ho sperato così di predisporvi all’indulgenza all’inizio di un racconto che ve ne chiederà molta. Cerco di guadagnar tempo: è naturale. E tuttavia c’è qualcosa di ridicolo nell’awiluppare di frasi una confessione che dovrebbe esser semplice: ne sorriderei, se solo potessi sorridere. E umiliante pensare che tante aspirazioni confuse, emozioni e apprensioni (senza contar le sofferenze) hanno una ragione fisiologica. Quest’idea mi ha fatto vergognare prima di calmarmi. Anche la vita è solo un segreto fisiologico. Non vedo perché il piacere dovrebbe esser disprezzato in quanto mera sensazione, mentre non si disprezza affatto il dolore, e pure il dolore è una sensazione. Si rispetta il dolore, perché non è volontario, ma sarebbe il caso di appurare se lo sia sempre il piacere, e non ci capiti mai di subirlo. A ogni modo, anche se il piacere fosse solo liberamente scelto, non mi parrebbe per questo più colpevole. Ma non è questa l’occasione per sollevare tutti questi problemi.

Sento che sto diventando sempre più oscuro. Certo, per spiegarmi mi basterebbe impiegare qualche termine esatto, che non sarebbe poi neppure indecente dal momento che è scientifico. Ma non ne impiegherò. Non crediate che ne abbia paura: non si dovrebbe più aver paura delle parole, quando si è acconsentito alle cose. Più semplicemente, non posso impiegare termini del genere. Non posso non solo per delicatezza e perché mi rivolgo a voi, non posso rispetto a me stesso. So che ci son nomi per tutte le malattie, e che quello di cui vi parlo passa per essere una malattia. Io stesso l’ho creduto, a lungo. Ma io non sono un medico; e non sono neppure più sicuro di essere un malato. La vita, Monique, è molto più complessa di tutte le definizioni possibili; ogni immagine semplificata rischia immancabilmente di esser grossolana. Non crediate neppure che io approvi i poeti che evitano i termini esatti poiché conoscono solo i propri sogni; c’è molto di vero, nei sogni dei poeti, ma non son tutta la vita. La vita è qualcosa di più della poesia; è qualcosa di più della fisiologia, e anche della morale a cui ho creduto a lungo. E tutto questo e molto di più ancora: è la vita. E il nostro solo bene e la nostra sola maledizione. Noi viviamo, Monique; ognuno di noi ha la sua vita particolare, unica, determinata da tutto il passato, su cui non possiamo nulla, e determinante, a sua volta, per poco che sia, tutto l’avvenire. La sua vita. La sua vita che appartiene a lui solo, che non si ripeterà una seconda volta, e che lui non è sempre sicuro di capire del tutto. E quel che dico della vita tutt’intera, potrei dirlo di ogni momento d’una vita. Gli altri vedono la nostra presenza, i nostri gesti, il modo con cui le parole si formano sulle nostre labbra; noi siamo i soli a veder la nostra vita. E strano: la vediamo, ci meravigliamo che sia così, e non possiamo cambiarla. Anche quando la giudichiamo, le apparteniamo ancora; la nostra approvazione o la nostra disapprovazione ne fanno parte; è sempre lei che si riflette in se stessa. Poiché non c’è null’altro; il mondo, per ognuno di noi, non esiste che nella misura in cui confina con la nostra vita. E gli elementi che la compongono non sono separabili: so persino troppo bene che gli istinti di cui andiamo tanto fieri e quelli che non confessiamo hanno, in fondo, la stessa origine. Non ne potremmo sopprimere uno senza modificare tutti gli altri. Le parole servono a tanti, Monique, che non si addicono più a nessuno; come potrebbe un termine scientifico spiegare una vita? Non spiega neppure un fatto; lo indica. Lo indica sempre allo stesso modo, e, tuttavia, non ci son due fatti identici in vite diverse, e forse neppure in una stessa vita. I fatti, dopotutto, sono molto semplici; è facile renderne conto: può darsi che li sospettiate di già. Ma, quando avrete saputo tutto, mi resterà ancora da spiegarmi con me stesso.

Questa lettera è una spiegazione. Non vorrei che diventasse un’apologià. Non ho la follia di augurarmi d’essere approvato; non domando neppure di essere accettato: sarebbe domandar troppo. Desidero solo d’essere compreso. Vedo bene che è la stessa cosa, è desiderar troppo. Ma voi siete stata tanto generosa con me nelle piccole cose che ho quasi il diritto di aspettarmi da voi qualche comprensione nelle grandi.

Non occorre che mi immaginiate più solitario di quanto fossi. Avevo a volte degli amici, voglio dire dei ragazzi della mia età. E stato all’epoca delle grandi feste, a cui accorrevano tante persone. C’erano anche dei ragazzi, spesso a me sconosciuti. Oppure, l’occasione era qualche compleanno, quando andavamo in visita da qualche parente molto lontano, che pareva esistere solo un giorno all’anno, perché ci si pensava appena quel giorno. Quasi tutti quei ragazzi erano timidi come me: dunque non ci divertivamo molto. Ce n’erano anche di sfrontati, così turbolenti che presto ci si augurava che se ne andassero; e altri che non eran più tranquilli, ma che ci tormentavano senza che protestassimo perché eran belli o la loro voce ci affascinava. Vi ho detto che ero un ragazzo molto sensibile alla bellezza. Presentivo fin da allora che la bellezza, e i piaceri che ci procura, valgono tutti i sacrifici e anche tutte le umiliazioni. Ero naturalmente umile. Credo proprio che mi lasciassi tiranneggiare con delizia. Costituiva una gran dolcezza per me esser meno bello dei miei amici; ero felice di vederli; non pensavo ad altro. Ero felice di amarli; non pensavo neppure ad augurarmi che mi amassero. L’amore (perdonatemi, amica mia) è un sentimento che non ho più provato in seguito; occorre un eccesso di virtù per esserne capace; mi meraviglio che la mia infanzia abbia potuto credere a una passione così vana, quasi sempre menzognera e per nulla necessaria, neppure alla voluttà. Ma l’amore, nei ragazzi, fa parte del loro candore: s’immaginano di amare perché non s’accorgono di desiderare. Quegli incontri non eran troppo frequenti, non abbondavano le occasioni favorevoli; per questo forse restavano innocentissimi. I miei amici ripartivano oppure eravamo noi a tornarcene a casa; la vita solitaria mi si richiudeva intorno. Avevo l’idea di scrivere qualche lettera, ma ero così poco capace di evitar gli sfondoni che non ne spedii nessuna. D’altronde, non trovavo nulla da dire. La gelosia è un sentimento biasimevole, ma bisogna perdonare ai ragazzi che ci si abbandonano, dato che capita di esserne vittima a tante persone ragionevoli. Io ne ho molto sofferto, molto di più di quanto mi confessassi. Certo, avvertivo che non era giusto che l’amicizia rendesse gelosi; cominciavo già a temere di esser colpevole. Ma quel che vi racconto è davvero puerile: tutti i ragazzi hanno conosciuto simili passioni, e si avrebbe torto, vero, a vederci un pericolo tanto grave?

Sono stato tirato su dalle donne. Ero l’ultimo nato di una famiglia molto numerosa; ero malaticcio di natura; mia madre e le mie sorelle non eran troppo felici; ecco una certa quantità di ragioni perché fossi amato. C’è tanta bontà nella tenerezza delle donne che ho creduto a lungo di poter ringraziare Dio. La nostra vita, cosi austera, era fredda in superficie; avevamo paura di mio padre; più tardi dei miei fratelli maggiori; nulla avvicina gli esseri più di aver paura insieme. Né mia madre né le mie sorelle erano molto espansive; la loro presenza funzionava come quelle lampade basse, dolcissime, che rischiarano appena, ma con una costanza capace d’impedire che faccia troppo buio o che ci si senta veramente soli. Non si riesce a immaginare quanto abbia di rassicurante, per un ragazzo inquieto com’ero io allora, l’affetto sereno delle donne. I loro silenzi, le loro parole irrilevanti ma significanti solo la loro calma, i loro gesti familiari in grado di addomesticare le cose, le loro facce scialbe, ma tranquille che comunque somigliavano alla mia, mi hanno insegnato la venerazione. Mia madre è morta molto presto: voi non l’avete conosciuta; la vita e la morte mi hanno egualmente portato via le sorelle; ma la maggior parte di loro erano così giovani allora che potevano parer belle. Tutte, suppongo, avevano già un loro amore che portavano dentro di sé, come più tardi, sposate, avrebbero portato un figlio o la malattia di cui sarebbero morte. Nulla è commovente quanto i sogni delle ragazze, in cui una quantità di istinti assopiti si esprimono oscuramente; una bellezza patetica, poiché si spendono in pura perdita, e la vita ordinaria non ne prevede la pratica. Molti di quegli amori, devo dirlo, erano ancora piuttosto vaghi; avevano per oggetto giovanotti del vicinato che magari non ne erano a conoscenza. Le mie sorelle erano molto riservate; e anche tra loro si confidavano di rado; così a volte capitava che ignoravano i sentimenti l’una dell’altra. Naturalmente, ero troppo giovane perché si confidassero con me; ma indovinavo; mi associavo alle loro pene. Quando uno dei loro amati entrava in casa d’improvviso, il cuore mi batteva forse più forte che a loro. È pericoloso, ne sono sicuro, per un adolescente molto sensibile, imparare a veder l’amore attraverso i sogni delle ragazze, anche quando paiono pure, e lui si immagina di esserlo altrettanto.

Per la seconda volta sono sull’orlo di una confessione; meglio confessarmi subito e con la massima semplicità. Le mie sorelle, lo so bene, avevano anche delle amiche che vivevano in familiarità con noi, e di cui finivo per credermi quasi un fratello. Eppure nulla pareva impedirmi di amare una di quelle ragazze e forse anche voi trovate strano che non lo abbia fatto. Ma era proprio impossibile. Un’intimità così familiare, così tranquilla metteva da parte persino le curiosità, persino le inquietudini del desiderio, ammesso che fossi stato capace di nutrirne nei loro riguardi. Quando si tratti di una donna veramente buona non credo eccessiva la parola che ho usato prima, venerazione; più passa il tempo, e meno la credo eccessiva. Sospettavo già (addirittura con qualche esagerazione) la brutalità dei gesti fisici dell’amore; mi avrebbe ripugnato accostare quelle immagini di vita domestica, ragionevole, perfettamente austera e pura, ad altre immagini più passionali. Non si desidera chi si rispetta, e forse neppure chi si ama; non si desidera soprattutto chi si sente più simile; e la maggior differenza da me, non l’offrivano le donne. Il vostro merito, amica mia, non sta solo nel potermi comprendere, ma nel poter comprendere tutto ancor prima che io abbia detto tutto. Monique, mi comprendete?

Non so quando io compresi me stesso. Certi particolari, che non posso star qui a dire, mi provano che si dovrebbe risalir molto indietro, sino ai primi ricordi di un essere, e che i sogni a volte sono i battistrada del desiderio. Ma un istinto non è ancora una tentazione; la rende solo possibile. Ho appena dato l’impressione di spiegare le mie inclinazioni con delle influenze esterne; hanno certo contribuito a fissarle; ma vedo persino troppo bene che ci si deve sempre rifare a ragioni molto più intime, molto più oscure, che comprendiamo male perché si nascondono dentro di noi. Non basta aver certi istinti per chiarirne la causa, e nessuno, dopotutto, può spiegarla completamente; così, non insisterò al proposito. Volevo solo dimostrare che il mio istinto, proprio perché a me naturale, aveva potuto svilupparsi a lungo dentro di me a mia insaputa. Quelli che parlano per sentito dire sbagliano quasi sempre, vedon le cose dall’esterno e le vedono volgarmente. Non s’immaginano neppure che atti che giudicano riprovevoli possano essere facili e insieme spontanei, come lo sono la maggior parte degli atti umani. Mettono sotto accusa il cattivo esempio, il contagio morale, e così facendo allontanano sempre più la possibilità di un chiarimento. Non sanno che la natura è più diversificata di quanto si supponga; non vogliono neppure saperlo, perché gli riesce più facile indignarsi che pensare. Fanno l’elogio della purezza; non sanno quanti mai turbamenti può contenere la purezza; ignorano soprattutto il candore della colpa. Tra i quattordici e i sedici anni avevo meno giovani amici che mai, perché mi ero maggiormente inselvatichito. Eppure (e me ne rendo conto oggi), una volta o due ho rischiato di essere felice in tutta innocenza. Non starò a spiegare quali circostanze me lo impedirono: è troppo delicato, e ho troppo da dire per perder tempo con le circostanze.

I libri avrebbero potuto insegnarmi qualcosa. Ho sentito mettere molto sotto accusa la loro influenza; mi sarebbe facile propormi come vittima; forse potrebbe rendermi interessante. Ma i libri non hanno avuto alcun effetto su di me. Non ho mai amato i libri. Ogni volta che se ne apre uno, ci si aspetta qualche rivelazione sorprendente, ma, ogni volta che se ne chiude uno, ci si sente più scoraggiati. D’altronde, bisognerebbe leggerli tutti, e non ci basterebbe la vita. Ma i libri non contengono la vita; ne contengono solo la cenere; è quella, suppongo, che vien chiamata l’esperienza umana. In casa nostra, c’era un buon numero di libri antichi, in una stanza in cui non entrava nessuno. Si trattava per lo più di raccolte devote, stampate in Germania, piene di quel dolce misticismo moravo che piaceva alle mie antenate. Quella era una specie di libro che non mi dispiaceva. Gli amori che descrivono hanno tutti i deliqui e i trasporti degli altri, ma non contemplano rimorsi: ci si può abbandonare senza timore. C’erano anche libri molto differenti, di solito scritti in francese, durante il XVIII secolo, e da non mettere in mano ai bambini. Ma non mi piacevano. La voluttà, già lo sospettavo, è un argomento gravissimo: occorre trattar seriamente quel che rischia di far soffrire. Mi ricordo di certe pagine, che avrebbero dovuto compiacere i miei istinti, o per meglio dire, avrebbero dovuto svegliarli, ma che voltavo con indifferenza perché le immagini che mi offrivano erano davvero troppo precise. Le cose nella vita non sono mai troppo precise; e dipingerle nude significa mentire, poiché le intravediamo solo attraverso la caligine del desiderio. Non è affatto vero che i libri ci inducano in tentazione; e neppure gli avvenimenti lo fanno, poiché ci tentano solo quando arriva la nostra ora ed è il tempo in cui tutto può tentarci. E non è affatto vero che qualche brutale dettaglio sia in grado di illuminarci sull’amore; non è affatto vero che sia facile riconoscere, nella semplice descrizione di un gesto, l’emozione che più tardi produrrà su di noi.

La sofferenza è una. Si parla della sofferenza come si parla del piacere, ma se ne parla quando non ci possiedono, quando non ci possiedono più. Ogni volta che penetrano in noi, ci causano la sorpresa di una sensazione nuova, e ci tocca riconoscere che li avevamo dimenticati. Sono nuovi, perché noi lo siamo: ogni volta li riforniamo di un’anima e di un corpo un poco modificati dalla vita. Eppure la sofferenza è una. Non ne conosceremo, come non conosceremo del piacere, che qualche forma sempre eguale, e ne siamo i prigionieri. Bisogna spiegarlo, questo: la nostra anima, suppongo, ha solo una tastiera ristretta, e la vita ha un bel darsi da fare, non ne ricava mai più di due o tre povere note. Mi ricordo l’atroce insulsaggine di certe sere, in cui ci si appoggia alle cose come per abbandonarcisi, i miei eccessi di musica, il mio morboso bisogno di perfezione morale, che forse era unicamente una trasposizione del desiderio. Mi ricordo di certe lacrime versate quando, veramente, non c’era proprio nulla di cui piangere; riconosco che tutte le mie esperienze di dolore eran già racchiuse nella prima. Ho potuto soffrire maggiormente, non ho mai sofferto diversamente; e, del resto, ogni volta che si soffre, si crede di soffrir maggiormente. Ma il dolore non ci insegna nulla sulla sua causa. Se avessi creduto qualcosa, avrei creduto d’essere innamorato d’una donna. Solo, non immaginavo di quale.

Fui messo in collegio a Presburgo. La mia salute non era troppo buona; s’erano manifestate delle turbe nervose; tutto questo aveva ritardato la mia partenza. Ma l’istruzione ricevuta in casa non pareva più sufficiente, e si pensava che quel gusto per la musica compromettesse i miei studi. La verità è che i miei studi non eran brillanti. Non miglioravano in collegio; ero un allievo molto mediocre. Il mio soggiorno in quell’accademia fu, d’altronde, estremamente breve; passai a Presburgo qualcosa di meno di due anni. Presto, vi dirò perché. Ma non andatevi a immaginare avventure clamorose: non successe nulla, o, perlomeno, a me non capitò nulla.

Avevo sedici anni. Ero sempre vissuto ripiegato su me stesso: quei lunghi mesi a Presburgo mi hanno insegnato la vita, intendo dire la vita degli altri. Fu, dunque, un periodo penoso. Quando ci torno con il pensiero, rivedo un grande muro grigiastro, la tetra fila dei letti, la sveglia nel freddo dell’alba, in cui la carne si sente miserabile, e resistenza monotona, insipida e scoraggiante come un cibo inghiottito controvoglia. La maggior parte dei miei compagni appartenevano all’ambiente da cui uscivo io, e ne conoscevo già qualcuno. Ma la vita in comune sviluppa la brutalità. Ero urtato da quella dei loro giochi, delle loro abitudini, del loro linguaggio. Nulla è più cinico dei discorsi degli adolescenti, anche e soprattutto quando sono casti. Molti dei miei compagni vivevano in una specie d’ossessione per la donna, meno riprovevole, può darsi, di quanto immaginassi, ma espressa con turpitudine. Certe pietose creature adocchiate durante le nostre passeggiate intrigavano i più grandi tra i miei compagni, ma suscitavano in me una straordinaria ripugnanza. Ero abituato a circondare le donne di tutti i pregiudizi del rispetto; quando non ne eran più degne, le odiavo. La severa educazione ricevuta poteva offrire una spiegazione parziale, ma, in quella repulsa, c’era, temo, qualcos’altro che una semplice prova d’innocenza. Avevo l’illusione della purezza. Sorrido all’idea che spesso va così: ci crediamo puri sinché disprezziamo quel che non desideriamo.

Non ho incriminato i libri; tanto meno, accuserò gli esempi. Io, amica mia, credo solo alle tentazioni interiori. Non nego affatto di esser stato turbato da degli esempi, ma non come immaginate voi. Fui atterrito. Non dico che ne fui indignato, è un sentimento troppo semplice. Credetti di essere indignato. Ero un ragazzotto scrupoloso, pieno di quelli che si usa chiamare i migliori sentimenti; attribuivo un’importanza quasi morbosa alla purezza fisica, probabilmente perché, senza saperlo, attribuivo anche molta importanza alla carne; l’indignazione mi parve, dunque, naturale; e, del resto, avevo bisogno di una parola con cui designare quanto provavo. So ormai che era la paura. Avevo sempre avuto paura, una paura indeterminata, incessante per qualcosa che doveva essere mostruoso e mi paralizzava in anticipo. Da allora in poi, l’oggetto della mia paura fu preciso. Era come se avessi appena scoperto una malattia contagiosa che si andava diffondendo intorno a me; e, sebbene affermassi a me stesso il contrario, sentivo che mi si poteva attaccare. Sapevo confusamente che cose simili esistevano; senza dubbio, non me le ero immaginate così o (dato che si deve dir tutto) il mio istinto, all’epoca delle mie letture, non era ancora abbastanza sveglio. Avevo immaginato dunque quelle cose come fatti un poco vaghi, verificatisi in altri tempi o verificabili altrove, sprovvisti comunque della minima realtà per me. E ormai me li vedevo dappertutto. La sera, a letto, soffocavo pensandoci; credevo sinceramente di soffocare di disgusto. Ignoravo che il disgusto è una delle forme dell’ossessione, e che, se si desidera qualcosa, è più facile pensarci con orrore che non pensarci proprio. Io ci pensavo continuamente. La maggior parte di coloro di cui sospettavo, non erano forse colpevoli, ma finii per sospettare tutti. Avevo l’abitudine dell’esame di coscienza; avrei dovuto sospettare anche di me stesso. Naturalmente, non ne feci nulla. Mi era impossibile credermi, senza nessuna prova materiale, al livello del mio stesso disgusto; e sono ancora convinto che ero differente dagli altri.

Un moralista non ci vedrebbe nessuna differenza. Eppure mi pare proprio che non ero come gli altri, e che anche valevo un poco di più. Tanto per cominciare perché avevo degli scrupoli e quegli altri di cui vi parlo certo non ne avevano. E poi perché amavo la bellezza, l’amavo esclusivamente, e quest’amore avrebbe limitato la mia scelta, il che non era il caso di quegli altri. E infine, perché ero più difficile, o, se si vuole, più raffinato. Fu la mia stessa raffinatezza a ingannarmi. Scambiai per una virtù quanto non è che una delicatezza, e la scena di cui il caso mi fece testimone mi avrebbe prodotto sicuramente meno impressione se i suoi attori fossero stati più belli.

Via via che l’esistenza in comune mi diventava più penosa, soffrivo di più d’essere sentimentalmente solo. Per lo meno attribuivo alla mia sofferenza una causa sentimentale. Qualche semplicissima cosa m’irritò; mi credetti sospettato come se fossi già colpevole; un pensiero che non mi abbandonò più mi avvelenò ogni contatto. Caddi malato. Meglio che dica: diventai più malato poiché un poco lo ero stato sempre.

Non si trattò di una malattia molto grave. Fu la mia malattia, quella che dovevo conoscere a più riprese e che avevo già conosciuta; poiché ognuno di noi ha la propria malattia particolare come la propria igiene e la propria salute, ed è difficile determinarla con esattezza. Fu una malattia piuttosto lunga; durò varie settimane; come capita sempre, mi rese un poco più calmo. Le immagini che mi avevano ossessionato durante la febbre se n’andarono via con lei; non me ne restò che una vergogna confusa simile al gusto cattivo che si lascia dietro una crisi, e il ricordo si velò nella mia memoria oscurata. Allora, dato che un’idea fissa non sparisce neppure per un momento se un’altra non la rimpiazza, io vidi lentamente ingrandire la mia seconda ossessione. Mi tentò la morte. Mi è sempre parso molto facile morire. Il mio modo di concepire la morte non differiva molto dalle mie fantasticherie sull’amore: ci vedevo un cedimento, una sconfitta tutto sommato dolce. Da quel giorno, per l’intera mia esistenza, queste due fissazioni non smisero di alternarsi in me; l’una mi guariva dall’altra e non c’era ragionamento che mi guarisse da tutt’e due. Ero coricato nel mio letto all’infermeria; guardavo attraverso la finestra il muro grigio del vicino cortile, e roche voci di ragazzi salivano sino a me. Mi dicevo che la vita sarebbe stata eternamente quel muro grigio, quelle voci roche, quel disagio di nascondere il mio turbamento. Mi dicevo che nulla ne valeva la pena, e che sarebbe stato più comodo farla finita con la vita. E lentamente come una specie di risposta che mi fornivo, una musica saliva in me. Era dapprima una musica funebre, ma smetteva presto di poter essere definita così, poiché la morte non ha più senso là dove la vita non arriva, e questa musica si librava ben più in alto della morte e della vita. Era una musica serena, serena perché era possente. Riempiva l’infermeria, mi arrotolava dentro di sé, cullandomi come un’onda lenta, regolare, voluttuosa, a cui non resistevo, e dopo un istante mi sentivo placato. Non ero più un ragazzotto morboso spaventato da se stesso: mi credevo diventato quello che ero veramente, perché tutti noi ci trasformeremmo, se avessimo il coraggio d’essere quelli che siamo. A me, che sono troppo timido per cercar degli applausi, o anche per sopportarli, pareva facile essere un grande musicista, rivelare alla gente quella musica nuova che batteva in me come un cuore. La tosse di un altro malato, in un angolo opposto della camera, la interrompeva ogni tanto bruscamente, e mi accorgevo che le mie arterie battevano troppo in fretta, tutto qui.

Guarii. Conobbi le emozioni della convalescenza e le sue lacrime a fior di ciglio. La mia sensibilità, affinata dalla sofferenza, aborriva tutte le promiscuità del collegio.

Pativo la mancanza di solitudine e la mancanza di musica. La musica e la solitudine hanno sempre interpretato nella mia esistenza il ruolo di calmanti. I combattimenti interiori, scatenatisi in me a mia insaputa, e la malattia, che li aveva seguiti, avevano esaurito le mie forze. Ero talmente debole che diventai molto pio. Avevo la facile spiritualità che viene insufflata da ogni grande debolezza; mi permetteva di disprezzare più sinceramente quello di cui vi parlavo poco fa e a cui mi capitava di pensare ancora. Non potevo più vivere in un ambiente troppo sozzo per me. Scrissi a mia madre lettere assurde, esagerate e tuttavia veridiche, in cui la scongiuravo di ritirarmi dal collegio. Le dissi che ero infelice, che volevo diventare un grande musicista, che non le sarei costato altro denaro, che sarei presto arrivato a mantenermi da solo. Eppure il collegio mi riusciva meno odioso di un tempo. Molti dei miei compagni, che agli inizi mi avevano brutalizzato, si mostravano attualmente un poco più bendisposti: ero così facile da accontentare che ne provavo una grande riconoscenza; pensavo che mi ero sbagliato sul loro conto e che non erano cattivi. Mi ricorderò sempre che un ragazzo a cui non avevo quasi mai rivolto la parola, essendosi accorto che ero molto povero e che la mia famiglia non mi mandava nulla o press’a poco, volle spartire con me non so più quali dolciumi. Ero diventato di una sensibilità ridicola da umiliarmi da solo; avevo un tal bisogno d’affetto che quel gesto mi fece sciogliere in lacrime, e non riesco a dimenticare che ebbi vergogna delle mie lacrime come d’una specie di peccato. Da quel giorno, fummo amici. In altre circostanze, quell’inizio di amicizia mi avrebbe fatto desiderare di rinviare la partenza: mi confermò, invece, nel mio desiderio di andarmene via, e il più presto possibile. Scrissi a mia madre lettere ancor più pressanti. La pregai di togliermi di là senz’altri indugi.

Mia madre fu buonissima. Si è sempre mostrata buona. Venne lei stessa a prendermi. Bisogna dire che la mia retta costava cara; ogni semestre costituiva una preoccupazione per i miei. Se i miei studi fossero andati meglio, credo che non mi avrebbero ritirato dal collegio, ma io non combinavo nulla e i miei fratelli sentenziarono che era denaro sprecato. Mi pare che non avessero del tutto torto. Il maggiore si era appena sposato; c’era stato un supplemento di spese. Quando rientrai a Woroïno, vidi che mi avevan relegato in un’ala lontana, ma naturalmente non me ne lamentai. Mia madre insistè perché mi sforzassi di mangiare; volle servirmi lei stessa; mi sorrideva con quel debole sorriso che pareva chieder sempre scusa di non poter fare di più; la sua faccia e le sue mani mi apparvero logore come il suo vestito, e notai che le sue dita, la cui finezza avevo tanto ammirato, cominciavano a esser sciupate dai lavori domestici come quelle di una vera povera. Fui consapevole di averla delusa, che lei aveva desiderato per me altre cose che un avvenire da musicista, e probabilmente da musicista mediocre. Eppure, era contenta di rivedermi. Non le raccontai le mie tristezze di collegio; ora mi apparivano del tutto immaginarie, in confronto alle pene e agli sforzi che la semplice esistenza imponeva alla mia famiglia; e d’altra parte quello sarebbe stato un racconto difficile. Arrivai a provare una specie di rispetto persino per i miei fratelli; amministravano quella che ancora veniva chiamata la proprietà; era più di quanto facessi io, o che mai avrei fatto; cominciavo vagamente a capire che questo aveva la sua importanza.

Pensate che il mio ritorno fu triste; al contrario, ero felice. Mi sentivo in salvo. Indovinate probabilmente che era da me stesso che mi sentivo in salvo. Era un sentimento ridicolo, tanto più che l’ho riprovato varie volte in seguito, il che attesta che non era mai definitivo. I miei anni di collegio eran stati solo un interludio; non ci pensavo neppure più. Non mi ero ancora disingannato circa le mie pretese di perfezione; ero soddisfatto di vivere secondo l’ideale di moralità passiva, un poco tetra, che sentivo esaltare intorno a me; credevo che quel genere di esistenza potesse durare per sempre. Mi ero messo seriamente al lavoro; ero arrivato a riempir le mie giornate di una musica così continua che i momenti di silenzio mi apparivano delle semplici pause. La musica non facilita i pensieri; facilita solo i sogni, e i sogni più vaghi. Parevo temere tutto quel che poteva distrarmi da essi, o magari precisarli. Non avevo riannodato nessuna delle mie amicizie d’infanzia: quando i miei andavano in visita, li pregavo di lasciarmi a casa. Era una reazione contro la vita in comune che mi era stata imposta in collegio; era anche una precauzione, ma la prendevo senza confessarmelo. Nella nostra regione passavano molti vagabondi zigani; alcuni son dei buoni musicisti e voi sapete che questa razza a volte è molto bella. Un tempo, quando ero molto più giovane, andavo a parlare con i loro figli attraverso le inferriate del giardino, e, non sapendo cosa dirgli, gli regalavo dei fiori. Non so se poi quei fiori gli facessero davvero piacere. Ma, dopo il mio ritorno, ero diventato ragionevole, e uscivo solo in pieno giorno, quando la campagna era tutta illuminata.

Non avevo dei secondi fini; e, del resto, pensavo il meno possibile. Mi ricordo, con un poco d’ironia, che mi congratulavo con me stesso per quella completa dedizione al lavoro. Ero come un febbricitante che non trovi sgradevole il proprio torpore, ma che tema di muoversi perché il minimo movimento potrebbe dargli dei brividi. Era quanto chiamavo calma. Ho appreso in seguito che occorre temere proprio questa calma, in cui ci si addormenta quando si è più vicini agli eventi capitali. Ci si crede tranquilli, forse perché qualcosa, a nostra insaputa, s’è già deciso in noi.

E fu allora che il fatto ebbe luogo, un mattino simile a tanti altri, in cui nulla, né la mia mente né il mio corpo, mi parlavano più chiaramente del solito. Non dico che le circostanze mi sorpresero: mi si eran già presentate senza che le cogliessi, ma le circostanze son fatte così. Sono timide e instancabili; vanno e vengono davanti alla nostra porta, sempre eguali a se stesse, e sta a noi tender la mano per fermare le passanti. Era un mattino come tutti i mattini possibili, né più luminoso né più velato. Camminavo in piena campagna, su un sentiero fiancheggiato da alberi; tutto era silenzioso come intento ad ascoltarsi vivere; i miei pensieri, vi assicuro, non eran meno innocenti della giornata che stava cominciando. Almeno, non riesco a ricordarmi di pensieri che non fossero innocenti, poiché, quando smisero di esserlo, io già non li controllavo più. In questo momento, in cui sembro allontanarmi dalla natura, devo lodarla per essere ovunque presente sotto la forma della necessità. Il frutto non cade che all’ora sua, quando il suo peso dopo lunga resistenza lo trascina verso la terra: non c’è altra fatalità che quest’intima maturazione. Oso dirvelo solo nel modo più vago; andavo in giro, non avevo una meta; non fu colpa mia se, quel mattino, incontrai la bellezza...

Rincasai. Non voglio drammatizzare le cose: vi accorgereste subito che vado oltre la verità. Quanto provavo, non era vergogna, e, men che meno, rimorso, era piuttosto stupore. Non avevo mai immaginato tanta semplicità in quel che mi spaventava in anticipo: la facilità della colpa sconcertava il pentimento. Questa semplicità, che il piacere m’insegnava, l’ho ritrovata più tardi nella grande miseria, nel dolore, nella malattia, nella morte, s’intende, nella morte degli altri, e spero bene ritrovarla un giorno anche nella mia, di morte. Sono le nostre fantasticherie che si sforzano di rivestire le cose, ma le cose sono divinamente nude. Rincasai. Mi girava un poco la testa; non ho mai potuto ricordarmi di come passai il resto della giornata; il fremito dei nervi fu lungo a morire in me. Mi ricordo solo del ritorno nella mia camera, la sera, e di quelle lacrime assurde, per nulla dolorose, che erano solo una distensione. Avevo fatto confusione per tutta la mia vita tra il desiderio e la paura; non sentivo più né l’uno né l’altra. Non dico che fossi felice: non ero abbastanza abituato alla felicità; ero solo stupefatto di esser così poco sconvolto.

Ogni felicità è un’innocenza. Anche a costo di scandalizzarvi, devo ripetere questa parola che pare sempre meschina, poiché nulla prova di più la nostra miseria come l’importanza della felicità. Per qualche settimana, vissi a occhi chiusi. Non avevo abbandonato la musica; sentivo, anzi, una grande facilità nel muovermici dentro; la conoscete, questa leggerezza che si prova al fondo dei sogni. Pareva che i minuti mattutini mi liberassero del mio corpo per il resto della giornata. Le mie impressioni di allora, per varie che fossero, diventano un’unica impressione nella memoria: si sarebbe detto che la mia sensibilità, non più confinata in me stesso, si fosse dilatata nelle cose. L’emozione del mattino si prolungava nelle frasi musicali della sera; quella certa sfumatura di stagione, quella fragranza, quell’antica melodia da cui fui conquistato allora son restate per me tentazioni eterne, perché mi parlano di un altro. Poi, un mattino, lui non comparve più. La mia febbre svanì: fu come un risveglio. Posso paragonarlo allo stupore che è prodotto dal silenzio, quando la musica è finita.

Fui costretto a riflettere. Naturalmente, potevo giudicarmi solo in base alle idee ammesse nel mio ambiente: non provare orrore della mia colpa mi sarebbe parso anche più abominevole dell’averla commessa; mi condannavo, quindi, severamente. Quel che soprattutto mi spaventava era di aver potuto vivere così, di esser stato felice per molte settimane prima che mi colpisse l’idea del peccato. Cercai di ricordare le circostanze di quell’atto; non ci riuscii; le circostanze mi sconvolgevano molto di più che nel momento in cui le avevo vissute, perché in quel momento non mi ero guardato vivere. M’immaginavo di aver ceduto a una follia passeggera; non capivo che i miei esami di coscienza mi avrebbero portato presto a una follia ben peggiore; ero troppo scrupoloso per non sforzarmi di essere il più infelice possibile.

Tenevo, nella mia stanza, uno di quegli specchietti d’altri tempi che sono sempre un poco torbidi, come se molti fiati ne avessero appannato la superficie. Poiché qualcosa di tanto grave era accaduto in me, ingenuamente mi pareva di dovere essere cambiato, ma lo specchio mi rimandava solo la mia immagine consueta, una faccia indecisa, spaventata e pensierosa. Ci passavo sopra la mano per assicurarmi d’essere davvero io più che per cancellare la traccia di un contatto. Quel che rende la voluttà così terribile è che ci insegna che abbiamo un corpo. Prima, ci serviva solo a vivere. Ora sentiamo che questo corpo ha un’esistenza sua, suoi sogni, una sua volontà e che sino alla morte bisognerà tener conto di lui, cedere, transigere o lottare. Sentiamo (crediamo di sentire) che la nostra anima è appena il miglior sogno del nostro corpo. Solo, davanti a uno specchio che duplicava la mia angoscia, mi è capitato di domandarmi cosa avessi in comune con il mio corpo, con i suoi piaceri o i suoi malori, quasi non gli appartenessi più. Ma gli appartengo, amica mia. Questo corpo, che pare così fragile, è comunque più duraturo dei miei propositi virtuosi, forse anche della mia anima, perché spesso l’anima muore prima di lui. Questa frase, Monique, ne sono certo, vi colpisce più di tutto il resto della mia confessione: voi credete nell’anima immortale. Perdonatemi d’esserne meno sicuro di voi o d’aver meno orgoglio; l’anima mi pare spesso solo un respiro del corpo.

Credevo in Dio. Ne avevo un’idea molto umana, ovvero molto inumana, e mi giudicavo abominevole di fronte a lui. La vita, che è la sola a insegnarci la vita, ci spiega per di più i libri: certi passi della Bibbia che avevo letto con negligenza assunsero per me una nuova intensità; mi atterrirono. A volte, mi dicevo che era successo, che nulla poteva impedire che fosse successo, e che dovevo rassegnarmici. Questo pensiero era come il pensiero della dannazione: mi calmava. C’è una sorta di tranquillità al fondo di ogni grande impotenza. Promisi solennemente a me stesso che non sarebbe più successo; lo giurai a Dio, come se Dio accettasse i giuramenti. Per colpa mia avevo per testimone solo un complice, e costui non era più nei paraggi. E l’opinione altrui a conferire una specie di realtà ai nostri atti; i miei atti, ignoti a tutti, non possedevano maggiore realtà dei gesti che si compiono nei sogni. La mia mente si rifugiava talmente nella menzogna che avrei potuto finir per sostenere che non era successo nulla; negare il passato non è più assurdo che impegnare l’avvenire.

Quel che avevo provato non era un vero e proprio amore; non era neppure una passione. Per ignorante che fossi, me ne rendevo bene conto. Era un trasporto che potevo credere esteriore. Ne addossai l’intera responsabilità a chi l’aveva solo condiviso; mi convinsi che la mia separazione da lui era stata volontaria, che era meritoria. Sapevo perfettamente che non era vero, ma, insomma, avrebbe potuto esserlo: la nostra memoria è anche la nostra illusione. A forza di ripeterci quanto avremmo dovuto fare, finiamo per trovare impossibile non averlo fatto. Il vizio consisteva per me nell’abitudine al peccato; ignoravo che cedere una sola volta è più difficile che non cedere mai; spiegando la mia colpa come un effetto delle circostanze, alle quali promettevo a me stesso di non espormi più, in certo modo la separavo da me stesso per considerarla esclusivamente un incidente. Amica mia, devo dirvi tutto: dato che mi ero giurato di non commettere più una simile colpa, provavo un poco meno rimorso per averla assaporata una volta.

Vi risparmio il resoconto delle nuove trasgressioni che mi tolsero l’illusione d’essere colpevole solo a metà. Mi rimproverereste di compiacermene; forse avreste ragione. Ormai, sono così lontano dall’adolescente che ero, dalle sue idee, dalle sue sofferenze, che mi chino su di lui con una specie d’amore; ho voglia di compatirlo, e quasi di consolarlo. Questo sentimento, Monique, mi induce a riflettere: mi domando se non sia il ricordo della nostra giovinezza a turbarci davanti allo spettacolo di quella altrui. Ero spaventato dalla facilità con cui io, così timido, così tardo di mente, arrivavo a prevedere le possibili complicità; non mi rimproveravo tanto le mie colpe quanto la volgarità delle circostanze, come se fosse dipeso solo da me sceglierne di meno basse. Non avevo la serenità di credermi irresponsabile: sapevo bene che i miei atti erano volontari, ma li volevo solo mentre li compivo. Pareva che l’istinto, per prender pieno possesso di me, aspettasse che la coscienza se ne andasse via o che chiudesse gli occhi. Ubbidivo di volta in volta a due volontà contrarie, che non si contrastavano poiché si succedevano l’una all’altra. Pure, qualche volta, si presentava qualche occasione che non coglievo: ero timido. Così le mie vittorie su me stesso non erano che altre sconfitte; i nostri difetti sono a volte i migliori nemici che possiamo opporre ai nostri vizi.

Non avevo nessuno a cui chieder consigli. La prima conseguenza delle inclinazioni proibite è di murarci in noi stessi: si può solo tacere o parlare con dei complici. Ho molto sofferto, nei miei sforzi per vincermi, di non poter raccogliere incoraggiamenti né pietà, neppure quel poco di stima che merita ogni buona volontà. Non ero mai stato in intimità con i miei fratelli; mia madre, che era pia e triste, coltivava commoventi illusioni su di me; me ne avrebbe voluto se le avessi tolto l’idea purissima, dolcissima e un poco melensa che aveva del suo bambino. Se avessi osato confessarmi ai miei quel che mi avrebbero meno perdonato sarebbe stato, appunto, il fatto che mi confessassi. Avrei messo quelle persone scrupolose in una situazione difficile, che veniva loro risparmiata dall’ignoranza dell’accaduto; e cosi sarei stato sorvegliato, ma non aiutato. Il nostro ruolo nella vita di famiglia è stabilito una volta per tutte, in rapporto a quello degli altri. Siamo il figlio, il fratello, il marito, che so? Questo ruolo ci è peculiare come il nome, come il supposto stato di salute e i riguardi che ci sono o non ci sono dovuti. Il resto non ha importanza; il resto, è la nostra vita. Ero a tavola, o in un tranquillo salotto; di colpo, conoscevo istanti d’agonia ai quali temevo di non sopravvivere; mi stupivo che non se ne accorgesse nessuno. Pare, allora, che lo spazio tra noi e i nostri familiari diventi insuperabile; ci si dibatte nella solitudine come nel cuore di un cristallo. Arrivavo a pensare che i miei fossero così saggi da capire, da non intervenire, da non rivelar neppure stupore. Quest’ipotesi, a rifletterci, potrebbe forse spiegare Dio. Ma, quando si tratta di gente comune, è inutile attribuir loro la saggezza; basta la cecità.

Se pensate alla mia vita familiare, che vi ho descritta, dovete rendervi conto che l’ambiente era tetro come un lunghissimo novembre. Mi pareva che un’esistenza meno triste avrebbe potuto essere più pura; del resto, mi dicevo, e con ragione, nulla spinge tanto ai capricci dell’istinto quanto la regolarità di una vita troppo assennata. Passammo l’inverno a Presburgo. I problemi di salute di una delle mie sorelle rendevano necessario il soggiorno in una città, con la vicinanza dei medici. Mia madre, che faceva del suo meglio per contribuire al mio avvenire, aveva insistito perché prendessi lezioni d’armonia; si diceva in giro che avessi fatto grandi progressi. Certo, lavoravo come chi cerca rifugio in un’occupazione. Il musicista che mi dava quelle lezioni (un uomo piuttosto mediocre, ma pieno di buona volontà) consigliava a mia madre di mandarmi a completar l’educazione musicale all’estero. Sapevo che laggiù l’esistenza sarebbe stata difficile; eppure desideravo partire. Siamo uniti da tanti legami ai luoghi dove abbiamo vissuto, che, lasciandoli, ci pare più facile lasciare noi stessi.

La mia salute, che era molto migliorata, non costituiva più un ostacolo, comunque mia madre mi trovava ancora troppo giovane. Temeva forse le tentazioni a cui mi avrebbe esposto una vita più libera; immaginava, suppongo, che la vita in famiglia mi avrebbe protetto da quelle tentazioni. Molti genitori ragionano così. Lei si rendeva perfettamente conto che avevo bisogno di guadagnare un po’ di soldi, ma pensava che potevo ancora aspettare. Non indovinai allora quanto fosse drammatica la sua proibizione. Ignoravo, infatti, che le restasse tanto poco tempo da vivere.

Una sera, a Presburgo, poco dopo la morte di mia sorella, tornai a casa più disorientato del solito. Avevo voluto molto bene a mia sorella. Non voglio dire che la sua morte mi affliggesse oltre misura; ero troppo tormentato sul mio conto per esser veramente commosso. La sofferenza ci rende egoisti perché ci assorbe interamente: è solo più tardi che, in forma di ricordo, ci insegna la compassione. Rincasai un poco più tardi di quanto mi fossi ripromesso; ma con mia madre non avevo stabilito un’ora fissa; quindi, non mi aspettava. Quando spinsi la porta, la trovai seduta al buio. Nell’ultimo tempo della sua vita, mia madre amava restarsene senza far nulla, all’approssimarsi della notte. Pareva volersi abituare all’inazione e alle tenebre. La sua faccia, suppongo, assumeva allora quell’espressione più serena e anche più sincera che si ha quando si è completamente soli e fa totalmente buio. Entrai. A mia madre non piaceva venir sorpresa così. Mi disse, come per scusarsi, che il lume si era appena spento, ma ci posai sopra le mani: il vetro non era neppure tiepido. Si accorse che avevo qualcosa: si è più chiaroveggenti al buio, poiché non si è tratti in inganno dagli occhi. A tastoni, le sedetti accanto. Ero in quello stato di languore un po’ vago che conoscevo molto bene; mi pareva che una confessione potesse sgorgarmi fuori involontariamente come fanno le lacrime. Stavo forse per raccontar tutto, quando sopraggiunse la serva con un altro lume.

Allora, sentii che non avrei più potuto dire nulla, che non avrei sopportato l’espressione che la faccia di mia madre avrebbe assunto al momento in cui avesse cominciato a comprendermi. Quel poco di luce mi risparmiò un errore irreparabile, e inutile. Le confidenze, amica mia, sono sempre perniciose, quando non hanno lo scopo di semplificare la vita di un altro.

Comunque, ero già andato troppo in là perché potessi limitarmi al silenzio; dovetti dir qualcosa. Dipinsi la tristezza della mia esistenza, le speranze di avvenire indefinitamente rinviate, la soggezione in cui ero tenuto dai miei fratelli in famiglia. Pensavo a una soggezione ben peggiore da cui speravo di liberarmi partendo. Misi in quelle meschine lamentele tutta l’angoscia che avrei messo in un’altra confessione, quella che non potevo fare e che era l’unica a importarmi. Mia madre taceva; capii che l’avevo convinta. Si tirò su per arrivare alla porta. Era debole e stanca; sentii quanto le fosse penoso non dirmi di no. Era quasi come perdere un altro figlio. Soffrivo di non poterle dire la vera ragione di tanta mia insistenza; certo, mi credette egoista: avrei voluto dirle che non me ne sarei più andato via.

Il giorno dopo, mi fece chiamare; parlammo della mia partenza come se fosse stata convenuta da sempre tra noi. La mia famiglia non aveva i mezzi per mantenermi; mi sarei dovuto assicurare l’esistenza con il mio lavoro. Per facilitare i miei inizi, mia madre mi dette in gran segreto una somma prelevata dai suoi fondi personali. Non era una grossa somma, ma tale parve a tutt’e due. L’ho parzialmente rimborsata appena mi è stato possibile, ma mia madre è morta troppo presto; prima che riuscissi a sdebitarmi completamente. Mia madre credeva nel mio avvenire. Se mai ho desiderato un poco di gloria, è perché sapevo che lei ne sarebbe stata felice. Così, via via che quelli che abbiamo amato scompaiono, diminuiscono i motivi per cercar di conquistare una felicità che ormai ci è negato di assaporare insieme.

Stavo per compiere diciannove anni. Mia madre teneva a che partissi solo dopo il mio compleanno; tornai quindi a Woroïno. Durante le poche settimane che ci passai, non ebbi da rimproverarmi un atto né un desiderio. Ero ingenuamente occupato nei preparativi della partenza; desideravo tagliar la corda prima del periodo di Pasqua che porta nel nostro paese troppi stranieri. L’ultima sera, salutai mia madre. Ci separammo con semplicità. C’è qualcosa di riprovevole nel mostrarsi troppo teneri al momento di andarsene, come per farsi rimpiangere. E poi i baci della voluttà ci disabituano agli altri; non si sa più o non si osa più. Volevo partire molto presto la mattina dopo, senza disturbare nessuno. Consumai la notte nella mia camera, davanti alla finestra spalancata, a immaginare il mio avvenire. Era una notte immensa e chiara. Solo un cancello separava il parco dalla strada maestra; chi aveva fatto tardi sfilava in silenzio nella via; sentivo in lontananza i loro passi pesanti; d’improvviso, si levò un loro canto triste. Può darsi che quella povera gente pensasse, soffrisse solo oscuramente, più o meno al modo delle cose. Ma il canto conteneva tutto il poco d’anima di cui erano in grado di disporre. Cantavano solo per alleviare un poco la loro marcia; ignoravano quanto potevano esprimere così. Mi ricordo di una voce di donna talmente limpida che avrebbe potuto volare senza fatica, senza fine, sino a Dio. Mi pareva possibile che l’intera vita diventasse una simile ascesa; lo promisi solennemente a me stesso. Non è difficile nutrire pensieri mirabili alla presenza delle stelle. E più difficile conservarli intatti nella piccineria delle giornate; è più difficile esser davanti agli altri quel che siamo davanti a Dio.

Arrivai a Vienna. Mia madre mi aveva inculcato tutte le prevenzioni morave contro l’Austria; passai una prima settimana così crudele che preferisco non dirne nulla. Affittai una stanza in una casa piuttosto povera. Ero pieno di buone intenzioni; mi ricordo che credevo di poter riordinare metodicamente i miei desideri e le mie pene, come si ripongono ordinatamente gli oggetti nel cassetto di un mobile. C’è un’ebbrezza amara nelle rinunce dei vent’anni. Avevo letto, in non so più quale libro, che certi turbamenti non sono rari in una data epoca dell’adolescenza; antidatavo i miei ricordi per provarmi che si trattava di banalissimi incidenti, limitati a un periodo della mia vita ormai superato. Neppure pensavo ad altre forme di felicità; dovevo, dunque, scegliere tra le mie inclinazioni, che giudicavo criminali, e una totale rinuncia, forse non proprio umana. Scelsi. Mi condannai, a vent’anni, all’assoluta solitudine dei sensi e del cuore. Ed ebbero così inizio anni e anni di lotte, di ossessioni, di severità. Non tocca a me dire che i miei sforzi furono ammirevoli; si potrebbe dire che furono insensati. In ogni caso, averli compiuti è pur sempre qualcosa; oggi mi consentono di accettare più onorevolmente me stesso. Proprio perché in quella città sconosciuta avrei potuto trovare occasioni più facili, mi credetti tenuto a respingerle tutte; non volevo tradire la fiducia che mi era stata dimostrata lasciandomi partire. Eppure è strano vedere con quale rapidità ci abituiamo a noi stessi; trovavo un merito nel rinunciare a quanto, pochi mesi prima, credevo mi facesse orrore.

Ho detto che avevo preso alloggio in una casa abbastanza misera. Dio mio, non pretendevo altro. Ma quel che rende la povertà così dura non sono le privazioni, è la promiscuità. La nostra situazione a Presburgo mi aveva evitato quei sordidi contatti che si subiscono nelle città. Nonostante le lettere di raccomandazione fornitemi dalla mia famiglia, alla mia età mi fu a lungo difficile trovare da dare lezioni. Non mi piaceva farmi avanti; quindi, non sapevo cavarmela. Mi parve penoso far da accompagnatore in un teatro, dove chi mi stava vicino credette di mettermi a mio agio, a forza di familiarità. Non è esattamente lì che mi feci una migliore opinione di quelle donne che si dovrebbe potere amare. Ero sfortunatamente molto sensibile all’aspetto esteriore delle cose; soffrivo per la casa in cui alloggiavo; soffrivo per chi mi capitava a volte di incontrare. Potete capire bene che era gente volgare. Ma sono sempre stato aiutato nei miei rapporti con gli altri dall’idea che neppure loro sono mai molto felici. Neppure le cose sono molto felici; per questo ci diventano amiche. All’inizio, la mia cameretta mi ripugnava; era triste con una specie di falsa eleganza che stringeva il cuore, perché si capiva che non era stato possibile far di meglio. E neppure era molto pulita: si vedeva che c’eran passati altri prima di me, e questo mi disgustava un poco. Poi finii per interessarmi a quel che avessero potuto essere i miei predecessori, per immaginare le loro vite. Erano come amici con cui non ero in grado di litigare, perché non li conoscevo. Mi dicevo che si eran seduti a quel tavolo per fare faticosamente i conti del giorno, che avevano coricato in quel letto il loro sonno o la loro insonnia. Pensavo che avevano avuto le loro aspirazioni, le loro virtù, i loro vizi e le loro miserie, come io avevo i miei. Non so a cosa servirebbero le nostre tare, amica mia, se non c’insegnassero la pietà.

Mi abituai. Ci si abitua facilmente. C’è un godimento nella consapevolezza di esser poveri, di esser soli, senza nessuno che pensi a noi. Semplifica la vita. Ma è pure una grande tentazione. Tornavo a casa tardi, ogni notte, attraverso quartieri a quell’ora pressoché deserti, ed ero così stanco da non sentir neppure più la stanchezza. Quelli che s’incontrano per strada durante il giorno danno l’impressione di procedere con uno scopo preciso che si può presupporre ragionevole, ma di notte pare che camminino nei propri sogni. I passanti mi parevano avere, al pari di me, l’aspetto vago delle figure che si vedono nei sogni, e non ero affatto sicuro che la mia vita non fosse tutto un incubo insulso, spossante, interminabile. Non ho bisogno di dirvi lo squallore di quelle notti viennesi. Scorgevo a volte coppie di amanti in mostra sulla soglia dei portoni a prolungare comodamente i loro incontri o forse i loro amplessi; l’oscurità che li circondava rendeva più scusabile la reciproca illusione d’amore; invidiavo quel tranquillo appagamento, che non desideravo. Come siamo strani, amica mica. Provavo per la prima volta un piacere perverso nel non essere come gli altri; è difficile non credersi superiori quando si soffre di più, e la vista di gente felice dà la nausea della felicità.

Avevo paura di ritrovarmi nella mia stanza, di stendermi su quel letto dove ero sicuro di non poter dormire. Eppure, ci dovevo arrivare. Persino quando tornavo all’alba, avendo violato le promesse fatte a me stesso (vi assicuro, Monique, mi capitava raramente), dovevo pur finire per risalire nella mia stanza, per togliermi di dosso gli abiti come mi sarei augurato, forse, di potermi sbarazzare del mio corpo, per adagiarmi tra le lenzuola dove questa volta il sonno sopravveniva. Il piacere è troppo effimero, la musica ci solleva un momento solo per lasciarci più tristi, ma il sonno è una compensazione. Anche quando ci ha abbandonato, ci occorre qualche secondo per ricominciare a patire; e, ogni volta che ci si addormenta, si ha l’impressione di affidarsi a un amico. So bene che è un amico infedele, come tutti gli altri; se siamo troppo infelici, ci abbandona pure lui. Ma sappiamo che, prima o poi, farà ritorno, magari sotto un altro nome, e finiremo per riposare in lui. È perfetto quando è senza sogni; si potrebbe dire che, ogni sera, ci sveglia dalla vita.

Ero assolutamente solo. Ho taciuto, sino a ora, sui volti umani in cui s’è incarnato il mio desiderio; ho posto tra voi e me solo fantasmi anonimi. Non crediate che mi ci abbia costretto un qualche pudore o la gelosia che si prova persino per i propri ricordi. Non mi vanto di avere amato. Sono troppo esperto di quanto poco durevoli siano le emozioni più vive per cercar di ricavare dall’avvicinamento di esseri perituri, impegnati totalmente nella morte, un sentimento che si pretende immortale. Quel che ci commuove in un altro non è, dopotutto, che un prestito ricevuto dalla vita. Sento troppo bene che l’anima invecchia come la carne e che è solo, e nei migliori, la fioritura di una stagione, un miracolo effimero come la stessa giovinezza. A che scopo, amica mia, chiedere sostegno a chi passa?

Temo i legami d’abitudine, fatti d’intenerimenti fittizi, di inganni sensuali e di pigre assuefazioni. Avrei potuto amare, credo, solo un essere perfetto; e risulterei sempre troppo mediocre per meritare la sua accettazione, anche se un giorno mi fosse possibile incontrarlo. E non è tutto, amica mia. La nostra anima, la nostra mente, il nostro corpo hanno esigenze per lo più contraddittorie; credo sia difficile mescolare soddisfazioni tanto varie, senza avvilire le une e deprimere le altre. Così ho dissociato l’amore. Non voglio lusingare i miei atti con spiegazioni metafisiche, quando la mia timidezza è una ragione sufficiente. Mi son quasi sempre limitato a banali complicità, per un oscuro terrore di legarmi e soffrire ulteriormente. Basta già esser prigioniero di un istinto; non c’è bisogno di esserlo anche di una passione; e credo sinceramente di non aver mai amato.

E poi vengono a galla ricordi. Non vi allarmate: non descriverò nulla; e non vi farò i nomi; li ho persino dimenticati, i nomi, o non li ho mai saputi. Rivedo la curva speciale d’una nuca, d’una bocca o d’una palpebra, certe facce amate per la loro tristezza, la piega di stanchezza che tira giù le labbra o persino quel non so che d’ingenuo che la perversità assume in un essere giovane, ignorante e ridente; tutto quel che affiora dall’anima alla superficie di un corpo. Penso a sconosciuti che non rivedrò più, che neppure tengo a rivedere e che proprio per questo si raccontano o tacciono con sincerità. Non li amavo: non desideravo imprigionar tra le mani quel poco di felicità che mi veniva fornito; non mi aspettavo la loro comprensione e neppure una durata della loro tenerezza: semplicemente ascoltavo la loro vita. La vita è il mistero di ogni essere: è così mirabile che si può sempre amarla. La passione ha bisogno di grida, l’amore stesso si compiace nelle parole, ma la simpatia può esser silenziosa. Io l’ho sentita non solo nei minuti previsti di gratitudine e di appagamento, ma anche verso esseri che non associavo a nessuna idea di gioia. L’ho conosciuta in silenzio, poiché coloro che la ispirano non la capirebbero; non è necessario che qualcuno la capisca. Ho amato cosi le figure dei miei sogni, povera gente mediocre, qualche volta persino delle donne. Ma le donne, per quanto possano sostenere il contrario, nella tenerezza non vedono altro che una tappa verso l’amore.

Avevo, come vicina di stanza, una persona piuttosto giovane di nome Marie. Non state a immaginarvi una bellissima Marie; aveva lineamenti comuni che passavano inosservati. Poco meglio di una serva. Lavorava comunque, e non credo che il suo lavoro le sarebbe bastato per campare. In ogni caso, quando andavo da lei, la trovavo sempre sola. Faceva in modo di esserlo, suppongo, a quelle ore.

Marie non era intelligente e forse neppure troppo buona, ma era servizievole, come lo sono i poveri che conoscono la necessità del reciproco aiuto. Pare che la solidarietà si spenda tra loro in spiccioli quotidiani. Si deve essere riconoscenti per ogni minima cortesia; è per questo che parlo di Marie. Non aveva autorità su nessuno; le piaceva, penso, averne su di me; mi dava consigli su come vestire per star più caldo o accendere il fuoco, e s’occupava al mio posto delle piccole inezie pratiche. Non oso dire che Marie mi ricordasse le mie sorelle; eppure ritrovavo in lei quei dolci gesti di donna che avevo amato da bambino. Era chiaro che si sforzava d’avere modi educati, e questo era già un suo merito. Marie credeva di amare la musica; l’amava davvero: sfortunatamente, aveva cattivo gusto. Un cattivo gusto addirittura commovente, tanto era ingenuo; i sentimenti più convenzionali le parevano i più belli: si sarebbe detto che la sua anima, come la sua persona, si appagasse di ornamenti falsi. Marie poteva mentire con la maggiore sincerità del mondo. Suppongo che vivesse, come il più delle donne, un’esistenza immaginaria in cui lei era migliore e più felice che in quest’altra esistenza. A esempio, se glielo avessi domandato, avrebbe sostenuto di non aver mai avuto amanti; e avrebbe pianto se non le avessi creduto. Si portava dentro il ricordo di un’infanzia vissuta in campagna, in un ambiente molto rispettabile, e il ricordo di un vago fidanzato. Aveva anche qualche altro ricordo di cui, però, non parlava. La memoria delle donne somiglia a certi loro antichi tavolini da lavoro per cucire. Ci sono dei cassetti segreti; ce ne sono di chiusi da molto tempo che non si possono più aprire; ci sono dentro fiori secchi che sono ormai solo polvere di rose; e ci si ritrovano anche matasse imbrogliate, a volte qualche spillo. La memoria di Marie era molto compiacente: le serviva a ricamare il suo passato.

Andavo da lei la sera quando cominciava a far freddo e avevo paura di soffrir la solitudine. La nostra conversazione era insipida, ma c’è un non so che di confortante, per coloro che continuano a tormentarsi, nell’ascoltare una donna parlare di cose insignificanti. Marie era pigra: non si meravigliava che io lavorassi così poco. Io non ho nulla di un principe da favola. Ignoravo che alle donne, soprattutto a quelle povere, capita spesso di credere di avere incontrato il personaggio dei loro sogni, anche quando la somiglianza è estremamente remota. La mia situazione, e forse il mio nome, avevano per Marie un prestigio romanzesco, che io non afferravo esattamente. Beninteso, le avevo sempre portato il massimo rispetto; e lei ne era restata lusingata all’inizio, come d’una delicatezza a cui non era abituata. Non indovinavo i suoi pensieri, mentre cuciva in silenzio; credevo semplicemente che mi volesse un poco di bene; e poi, certe idee non mi passavano neppure per la mente.

A poco a poco, mi accorsi che Marie si mostrava molto più fredda. C’era, nelle sue minime parole, una specie di deferenza aggressiva, come se di colpo si fosse resa conto che provenivo da un ambiente considerato troppo superiore al suo. Sentivo che era offesa. Non mi stupivo che l’affetto di Marie fosse passato: tutto passa. Vedevo solo che era triste; avevo l’ingenuità di non indovinare perché. Credevo impossibile che sospettasse certi lati della mia esistenza; e non mi rendevo conto che lei se ne sarebbe probabilmente scandalizzata meno di me. Alla fine, altre circostanze sopravvennero; dovetti sloggiare in una casa ancor più povera, la mia camera era diventata troppo cara per me. Non rividi più Marie. Per quante precauzioni uno prenda, com’è difficile non far soffrire...

Continuavo a lottare. Se la virtù consiste in una serie di sforzi, fui irreprensibile. Imparai il rischio delle rinunce troppo frettolose; smisi di credere che la perfezione si trovi dall’altra parte di un giuramento. La saggezza, come la virtù, mi parve fatta di progressi continui, di ricominciamenti, di pazienza. Una guarigione più lenta si propose come meno precaria: mi accontentai, al modo dei poveri, di piccoli guadagni miserevoli. Cercai di spaziare le crisi; arrivai a un calcolo maniacale di mesi, di settimane, di giorni. Senza confessarlo, durante quei periodi di disciplina eccessiva, vivevo sostenuto dall’attesa del momento in cui mi sarei permesso di peccare. Finivo per cedere alla prima tentazione unicamente perché da troppo tempo mi proibivo di farlo. Mi fissavo press’a poco, in anticipo, l’epoca della prossima debolezza; mi abbandonavo sempre un poco troppo presto, non tanto per impazienza di quel penoso piacere, quanto per evitarmi l’orrore di aspettare la crisi e di sopportarla. Vi risparmio il racconto delle precauzioni che presi contro di me; oggi mi paiono più umilianti delle stesse colpe. Credetti dapprima che si trattasse di evitare le occasioni di peccato; mi accorsi ben presto che le nostre azioni valgono solo come sintomi; è la nostra natura che si dovrebbe cambiare. Avevo avuto paura degli avvenimenti; ebbi paura del mio corpo; finii per riconoscere che i nostri istinti si comunicano all’anima, e ci penetrano interamente. Allora, non ebbi più dove rifugiarmi. Trovai nei pensieri più innocenti il punto di partenza d’una tentazione; non ne scoprii uno solo che restasse a lungo sano; parevano guastarmisi tutti dentro, e la mia anima, quando la conobbi meglio, mi disgustò come il mio corpo.

Certi periodi eran particolarmente pericolosi: la fine delle settimane, l’inizio dei mesi, forse perché avevo un poco più di soldi e ormai avevo preso l’abitudine delle complicità prezzolate. (Ci sono, amica mia, di queste ragioni miserabili.) Temevo anche la vigilia delle feste, la loro scioperataggine, la loro tristezza per quanti vivono soli. In giorni del genere mi chiudevo in casa. Non avevo nulla da fare: andavo su e giù, stanco di veder la mia immagine riflettersi nello specchio; odiavo quello specchio, che m’infliggeva la mia presenza. Un crepuscolo brumoso cominciava a invadere la stanza; l’ombra si posava sulle cose come una sporcizia in più. Non chiudevo la finestra, perché mi mancava l’aria; i rumori dell’esterno mi sfinivano sino a impedirmi di pensare. Ero seduto, mi sforzavo di fissar la mente su una qualsiasi idea, ma un’idea porta subito a un’altra idea; non si sa dove si va a finire. Meglio muoversi, camminare. Non c’è nulla di vergognoso a uscir di casa al crepuscolo; comunque, era una sconfitta che ne lasciava presagire un’altra. Mi piaceva quell’ora in cui pulsa la febbre delle città. Non ne descriverò l’allucinata ricerca del piacere, le possibili frustrazioni, l’amarezza di un’umiliazione morale ben peggiore di quella che segue al peccato, quando nessun appagamento viene a compensarlo. E sorvolo sul sonnambulismo del desiderio, la brusca decisione che spazza via tutte le altre, l’alacrità di una carne che, finalmente, ubbidisce solo a se stessa. Descriviamo spesso la felicità di un’anima in grado di sbarazzarsi del suo corpo: ci son dei momenti, nella vita, in cui il corpo si sbarazza dell’anima.

Caro Dio, quando morirò?... Monique, vi ricordate queste parole. Si trovano all’inizio di una vecchia preghiera tedesca. Sono stanco di quest’essere mediocre, senza avvenire, senza fiducia nell’avvenire, di quest’essere che son proprio costretto a chiamare Me Stesso, poiché non posso separarmene. Mi ossessiona con le sue tristezze, le sue pene; io lo vedo soffrire, e non son più neppure capace di consolarlo. Io sono certo migliore di lui; posso parlar di lui come di un estraneo; non capisco per quali ragioni ne sono prigioniero. E il più terribile, forse, è che gli altri conosceranno di me solo questo personaggio in lotta con la vita. Non vai neppure la pena di augurarsi che muoia perché, quando morirà, io morirò con lui. A Vienna, durante quegli anni di combattimenti interiori, ho spesso sperato di morire.

Non si soffre dei propri vizi, si soffre solo di non poter rassegnarci si. Conobbi ogni sofisma della passione; conobbi anche ogni sofisma della coscienza. Gli altri s’immaginano di disapprovare certi atti perché la morale è contraria; in realtà, ubbidiscono (hanno la fortuna d’ubbidire) a ripugnanze istintive. Ero colpito, nonostante tutto, dall’estrema insignificanza delle nostre colpe più gravi, dal poco posto che occuperebbero nella nostra vita, se i nostri rimorsi non ne prolungassero la durata. Il nostro corpo dimentica come la nostra anima; è forse questo a spiegare, in certi tra noi, il rinnovarsi dell’innocenza. Mi sforzavo di dimenticare; quasi ci arrivavo. Poi, quell’amnesia mi spaventava. I miei ricordi, apparendomi sempre incompleti, mi suppliziavano ulteriormente. Mi ci buttavo sopra per riviverli. Mi disperavo che diventassero sempre più smorti. Erano il poco ancora a mia disposizione a compenso del presente e dell’avvenire a cui rinunciavo. Dopo essermi proibito una tale quantità di cose, non avevo il coraggio di proibirmi anche il passato.

Vinsi. A forza di miserevoli ricadute e di ancor più miserevoli vittorie, arrivai a vivere un anno intero come avrei desiderato aver vissuto tutta la vita. Amica mia, non dovete sorridere. Non intendo esagerare il mio merito: trarre merito dall’astensione da un peccato, è un modo d’essere colpevole. Si riesce a dirigere qualche volta i propri atti; ci si riesce meno con i pensieri; non ci si riesce con i sogni. Ebbi dei sogni. Conobbi l’insidia delle acque stagnanti. Pare che agire ci assolva. C’è qualcosa di puro, anche in un atto colpevole, se lo si paragona ai pensieri che ne ricaviamo. Diciamo, se lo volete, di meno impuro, e diciamo che questo dipende da quel tanto di mediocre che ha sempre la realtà. Quest’anno, in cui non commisi, ve lo assicuro, nulla di reprensibile, fu intorbidato più di qualsiasi altro anno da incubi, dagli incubi più bassi. Si sarebbe detto che la piaga, ricucita troppo presto, si fosse riaperta nell’anima, e finì per avvelenarla. Mi sarebbe facile fornire un racconto drammatico, ma né voi né io ci interessiamo ai drammi, e ci sono un’infinità di cose che si esprimon meglio non dicendole. Così, avevo amato la vita. Era in nome della vita, voglio dire del mio avvenire, che mi ero sforzato di riconquistarmi a me stesso. Ma, quando si soffre, si odia la vita. Subii le ossessioni del suicidio, e ne subii altre, di più abominevoli. In ogni anche più umile oggetto della vita quotidiana non vedevo più altro che lo strumento d’una possibile distruzione. Avevo paura delle stoffe, perché si possono annodare; delle forbici perché hanno le punte; soprattutto, degli oggetti taglienti. Ero tentato da queste forme brutali di liberazione: mettevo una serratura tra la mia demenza e me stesso.

M’indurii. Mi ero astenuto, sino ad allora, dal giudicare gli altri; avrei finito per essere, se ne avessi avuto il potere, spietato con loro come lo ero già con me stesso. Non perdonavo al prossimo le più piccole trasgressioni; avevo paura che l’indulgenza nei riguardi degli altri potesse indurmi a scusare le mie colpe davanti alla mia stessa coscienza. Temevo l’indebolimento che procurano le sensazioni dolci; arrivai a odiar la natura, a causa delle tenerezze di primavera. Evitai il più possibile la musica commovente: le mie mani, posate davanti a me sulla tastiera, mi turbavano con il ricordo delle carezze. Paventai l’imprevisto degli incontri mondani, il pericolo dei volti umani. Fui solo. Poi la solitudine mi spaventò. Non si è mai del tutto soli: per sventura, si è sempre in compagnia di se stessi.

La musica, questa gioia dei forti, è il conforto dei deboli. La musica era diventata un mestiere che esercitavo per campare. Insegnarla ai ragazzi era una prova penosa perché la tecnica li distoglie dall’anima. Si dovrebbe, penso, fargliene gustare prima l’anima. In ogni caso, a questo si oppone la consuetudine, e né i miei allievi né le loro famiglie tenevano a cambiarla. Mi piacevano più i ragazzi che gli adulti che vennero dopo e che si credevano obbligati a esprimere qualcosa. E, poi, i ragazzi m’intimidivano meno. Avrei potuto avere, se mi fossi dato più da fare, molte più lezioni; ma quelle che avevo mi bastavano per vivere. Lavoravo già troppo. Io non ho il culto del lavoro, se il risultato riguarda solo noi stessi. Non c’è dubbio che stancarsi è un modo di dominarsi; ma lo sfinimento del corpo finisce per intorpidire l’anima. Resta da sapere, Monique, se un’anima inquieta non valga di più di un’anima addormentata.

Mi restavano le serate. Mi concedevo, ogni sera, un momento di musica dedicata a me solo. Certo, un simile piacere solitario è un piacere sterile, ma nessun piacere è sterile se rimette d’accordo il nostro essere con la vita. La musica mi trasporta in un mondo in cui il dolore non cessa d’esistere, ma si allarga, si rasserena, diventa insieme più calmo e più profondo, come un torrente che si trasformi in lago. Quando si rincasa tardi, non ci si può mettere a far musica troppo rumorosa; d’altronde, non è stata mai la mia passione. Sapevo bene che in quella casa tolleravano solo quella mia, e indubbiamente il sonno della gente stanca vale tutte le melodie possibili. E in questo modo, amica mia, che imparai a suonare quasi sempre in sordina, come se avessi paura di svegliare qualcosa. Il silenzio non compensa solo l’impotenza delle parole umane, compensa anche, per i musicisti mediocri, la povertà degli accordi. M’è sempre parso che la musica dovrebbe essere unicamente silenzio, e il mistero del silenzio che cerca di esprimersi. Prendete, a esempio, una fontana. L’acqua muta riempie i condotti, vi si ammassa, ne trabocca, e la perla della cascata è sonora. Mi è sempre parso che la musica dovrebbe essere solo l’eccesso di un grande silenzio.

Da bambino, ho desiderato la gloria. A quell’età desideriamo la gloria come si desidera l’amore: abbiamo bisogno degli altri per rivelarci a noi stessi. Non dico che l’ambizione sia un vizio inutile; può servire a sferzare l’anima. Il guaio è che la svuota. Non conosco successo che non si acquisti attraverso mezze menzogne; non conosco ascoltatori che non ci costringano a omettere, o a esagerare qualcosa. Ho spesso pensato con tristezza che un’anima davvero bella non potrebbe accaparrarsi la gloria perché non potrebbe concupirla. Questa idea che mi ha reso scettico nei riguardi della gloria, mi ha reso scettico anche nei riguardi del genio. Ho spesso pensato che il genio non sia altro che una speciale eloquenza, un chiassoso dono di espressione. Anche se fossi Chopin, Mozart o Pergolesi, direi solo, imperfettamente forse, quel che prova ogni giorno un musicista di paese, quando fa del suo meglio con umiltà. Facevo del mio meglio. Il mio primo concerto fu qualcosa di peggio d’un insuccesso, fu un mezzo successo. Per decidermi a darlo, ci vollero tutte le ragioni materiali e quell’autorità che assumono su di noi i signori del gran mondo quando decidono di venirci in aiuto. La mia famiglia annoverava a Vienna certi parenti piuttosto lontani; erano per me quasi dei protettori e dei perfetti estranei. La mia povertà li umiliava un poco; avrebbero voluto che diventassi celebre, per non sentirsi più in imbarazzo quando il discorso cadeva su di me. Li vedevo di rado; mi serbavano rancore, forse, perché non gli offrivo l’occasione di rifiutarmi un aiuto. Eppure, mi aiutarono. Nel modo meno costoso, lo so bene, ma non vedo proprio, amica mia, con quale diritto potremmo esigere la bontà.

Ricordo il mio ingresso in scena, al mio primo concerto. Il pubblico era piuttosto scarso, ma per me era già troppo. Soffocavo. Non mi piaceva il pubblico per cui l’arte è solo una vanità necessaria, quelle facce mascheranti l’anima, l’assenza di anima. Non riuscivo a concepire che si potesse suonare davanti a sconosciuti, a una data ora, per un compenso versato in anticipo. Indovinavo gli scontati apprezzamenti che si credevano obbligati a pronunciare all’uscita; odiavo il loro gusto per l’enfasi inutile, l’interessamento che mi concedevano perché facevo parte del loro mondo, il fittizio splendore che ostentavano quelle donne. Preferivo gli ascoltatori dei concerti popolari, dati la sera in qualche misera sala, dove a volte accettavo di suonare gratuitamente. La gente, li, ci veniva nella speranza di istruirsi. Non erano più intelligenti di questi altri, avevano solo più buona volontà. Certo, dopo cena, si eran vestiti il meglio possibile; certo, avevano programmato di patire il freddo per due lunghe ore in una sala quasi buia. Quelli che vanno a teatro cercano di dimenticare se stessi ; quelli che vanno al concerto cercano di ritrovarsi. Tra la dispersione del giorno e la dissoluzione del sonno, s’immergono in quello che sono. Facce stanche degli ascoltatori della sera, facce che si distendono nei sogni e che paiono bagnarcisi. La mia faccia... E non sono anch’io poverissimo, io che non ho amore né fede né desiderio confessabile, io che non ho che me stesso su cui contare, e che mi sono quasi sempre infedele?

L’inverno che seguì fu un inverno piovoso. Mi raffreddai. Ero troppo abituato a esser malaticcio per allarmarmi quando lo ero veramente. Durante l’anno di cui vi parlo, ero stato riassalito dalle turbe nervose dell’infanzia. L’infreddatura che non curai mi indebolì ulteriormente; mi ammalai di nuovo, e questa volta molto gravemente.

Compresi allora la fortuna di essere solo. Se mi fosse toccato di lasciarci la vita, a quell’epoca, non avrei avuto da rimpiangere nessuno. Era l’assoluto distacco da tutti. Una lettera dei miei fratelli mi informò allora che mia madre era morta, e già da un mese. Mi rattristai, soprattutto per non averlo saputo prima; mi sentivo derubato di qualche settimana di dolore. Ero solo. Il medico del quartiere, che alla fine era stato chiamato, smise presto di venire, e i vicini si stancarono di curarmi. Ero contento così. Ero così tranquillo da non provare neppure il bisogno di rassegnarmi. Guardavo il mio corpo dibattersi, soffocare, soffrire. Il mio corpo voleva vivere. C’era, in lui, una fede nella vita che non potevo fare a meno di ammirare: quasi mi pentivo di averlo disprezzato, scoraggiato, crudelmente punito. Quando cominciai a star meglio, quando riuscii a ritirarmi un poco su nel letto, la mia mente, ancora debole, restò incapace di ponderate riflessioni: fu attraverso il corpo che mi pervennero le prime gioie. Rivedo la bellezza, quasi sacra, del pane, l’umile raggio di sole a cui mi scaldai la faccia, e lo stordimento che mi causò la vita. Arrivò il giorno in cui potei appoggiarmi con i gomiti alla finestra aperta. Abitavo solo in una grigia strada della periferia di Vienna, ma ci son momenti in cui basta un albero che sporge da un muro per ricordarci che esistono le foreste. Quel giorno, attraverso il mio corpo stupito di rivivere, ebbi la seconda rivelazione dellabellezza del mondo. Sapete quale era stata la prima. Come la prima volta, piansi, non tanto di felicità né di gratitudine; piansi all’idea che la vita fosse così semplice e che sarebbe così facile se fossimo, a nostra volta, così semplici da accettarla.

Quel che rimprovero alla malattia è di render la rinuncia troppo facile. Ci si crede guariti dal desiderio, ma la convalescenza è una ricaduta, e ci s’accorge, sempre con lo stesso stupore, che la gioia può ancora farci soffrire. Nel corso dei mesi successivi credetti di poter continuare a guardare la vita con gli occhi indifferenti dei malati. Insistevo a pensare che forse non ne avevo ancora per molto; mi perdonavo le mie colpe, come Dio, senza dubbio, ci perdonerà dopo la morte. Non mi rimproveravo più di emozionarmi troppo alla bellezza umana; in certi lievi trasalimenti del cuore vedevo una debolezza da convalescente, il perdonabile turbamento di un corpo ridiventato, per così dire, nuovo davanti alla vita. Ripresi le mie lezioni, i miei concerti. Era necessario, perché la malattia mi era costata molto. Quasi nessuno si era sognato di chieder mie notizie; quelli presso i quali insegnavo non si accorsero che ero ancora tanto debole. Non bisogna serbargliene rancore. Per loro, ero solo un giovanotto molto dolce, molto ragionevole all’apparenza, le cui lezioni non erano care. Era l’unico punto di vista dal quale riuscissero a guardarmi, e la mia assenza per loro era stata solo un contrattempo. Appena fui in grado di affrontare una passeggiata più lunga, andai dalla principessa Catherine.

Il principe e la principessa di Mainau, allora, trascorrevano a Vienna qualche mese ogni inverno. Temo, amica mia, che i loro capriccetti mondani ci abbiano impedito di apprezzare quanto c’era di raro in quelle personalità d’altri tempi. Erano i superstiti di un mondo più ragionevole del nostro, perché più lieve. Il principe e la principessa avevano quella facile affabilità che, nelle piccole cose, è sufficiente a surrogare la vera bontà. In linea femminile eravamo un poco imparentati; la principessa si ricordava di esser stata educata, insieme con la mia nonna materna, da certe monache tedesche. Le piaceva rievocare quell’intimità tanto lontana, perché era una di quelle donne che vedono nell’età solo un che di nobiltà in più. Forse, la sua unica civetteria consisteva nel ringiovanirsi l’anima. La bellezza di Catherine de Mainau era appena un ricordo; invece degli specchi nella sua camera teneva i suoi ritratti di un tempo. Ma si sapeva che era stata bella. Aveva, dicono, ispirato vivacissime passioni, ne aveva risentito; ne aveva ricevuto anche lei qualche pena, che comunque non la aveva mai infastidita troppo a lungo. Con i suoi dolori capitava come con i suoi vestiti da ballo, li metteva un’unica volta. Ma li conservava tutti; aveva cosi interi armadi di ricordi. Voi dicevate, amica mia, che la principessa Catherine aveva un’anima di merletto.

Andavo molto raramente alle sue serate intime, ma lei mi accoglieva sempre bene. Non provava nessun vero attaccamento per me, me ne rendevo conto, ma appena un affetto distratto da vecchia signora indulgente. Eppure, io quasi la amavo. Amavo le sue mani, un poco enfiate, serrate dai cerchietti degli anelli, i suoi occhi stanchi e il suo limpido accento. La principessa, come mia madre, usava quel dolce, fluido francese del secolo di Versailles che conferisce alle minime parole la grazia attardata di una lingua morta. Ritrovavo in lei, come poi in voi, un poco del mio eloquio nativo. Lei faceva del suo meglio per educarmi alla buona società; mi prestava libri di poeti; li sceglieva teneri, superficiali e difficili. La principessa di Mainau mi credeva ragionevole; era l’unico difetto che non mi perdonava. M’interrogava, ridendo, a proposito delle giovani donne che incontravo da lei; si stupiva che non fossi preso di nessuna; quei semplici interrogatori mi mettevano alla tortura. Naturalmente, lei se ne accorgeva: mi trovava timido e più giovane della mia età; le ero grato di giudicarmi in modo simile. C’è qualcosa di rassicurante, quando uno è infelice e si crede molto colpevole, nell’essere trattato come un bambino senza importanza.

Sapeva che ero molto povero. La povertà, come la malattia, apparteneva alle cose brutte a cui lei si sottraeva. Per nulla al mondo avrebbe acconsentito a salire cinque piani di scale. Non dovete biasimarla troppo precipitosamente, amica mia: era di un’infinita delicatezza. Probabilmente è per non ferirmi che mi faceva solo regali inutili, e i più inutili sono i più necessari. Quando seppe che ero malato, m’inviò dei fiori. Non c’è da arrossire, davanti ai fiori, d’essere alloggiato sordidamente. Era più di quanto mi aspettassi da chiunque; non credevo che ci fosse, sulla terra, un solo essere così buono da mandarmi dei fiori. Aveva in quel periodo una passione per i lillà violetti; grazie a lei ebbi una convalescenza profumata. Vi ho detto quanto fosse triste la mia camera: forse, senza i lillà della principessa Catherine, non avrei mai avuto il coraggio di guarire.

Quando andai a ringraziarla, ero ancora debolissimo. La trovai, come al solito, alle prese con uno di quei lavori d’ago che raramente aveva la pazienza di finire. I miei ringraziamenti la stupirono; non si ricordava già di avermi mandato dei fiori. Questo, amica mia, mi indignò: pare che la bellezza di un regalo diminuisca, quando chi l’ha fatto non gli dà importanza. Le imposte, dalla principessa Catherine, erano quasi sempre chiuse; viveva, per sua scelta, in un continuo crepuscolo, eppure l’odore polveroso delle vie invadeva la camera; si sentiva proprio che stava cominciando l’estate. Pensai, con un’opprimente stanchezza, che avrei dovuto subire quei quattro mesi d’estate. Immaginavo il rarefarsi delle lezioni, le vane uscite notturne alla ricerca di un poco di fresco, lo snervamento, l’insonnia, altri pericoli ancora. Avevo paura di ricadere malato, peggio che malato; finii per lamentarmi ad alta voce che l’estate arrivasse così presto. La principessa di Mainau la passava a Wand, in una vecchia proprietà ereditata dai suoi. Wand era per me un nome vago, come quello di ogni luogo in cui crediamo di non dover vivere mai; impiegai un poco di tempo a capire che la principessa mi invitava. Mi invitava per pietà. Mi invitava con allegria, preoccupandosi in anticipo di scegliermi una camera, prendendo, per così dire, possesso della mia vita sino al prossimo autunno. Allora, mi vergognai d’aver dato l’impressione, lamentandomi, di aspettarmi qualcosa. Accettai. Non ebbi il coraggio di punirmi con un rifiuto, e voi sapete, amica mia, che alla principessa Catherine non si resiste.

Ero andato a Wand per passarci solo tre settimane: ci restai molti mesi. Furono dei lunghi mesi immobili. Scorsero lentamente, in modo meccanico e veramente insensibile; si sarebbe detto che fossi in attesa, a mia insaputa. L’esistenza da quelle parti era cerimoniosa pur essendo molto semplice; gustavo la pace di quella vita più facile. Non posso dire che Wand mi ricordasse Woroïno; eppure, c’era la stessa impressione di vecchiaia e di durata serena. La ricchezza appariva insediata in quella casa da tempi molto antichi, come da noi la povertà. I principi di Mainau erano sempre stati ricchi; non ci si poteva, dunque, stupire che lo fossero ancora, gli stessi poveri non ne restavano offesi. Il principe e la principessa ricevevano molto; si viveva tra i libri appena arrivati dalla Francia, gli spartiti aperti e un andirivieni di carrozze. In certi ambienti coltivati, eppure frivoli, l’intelligenza pare un lusso in più. Senza dubbio il principe e la principessa per me non erano degli amici: erano solo dei protettori. La principessa mi definiva, ridendo, suo musicista straordinario; la sera, esigevano che mi mettessi al piano. Mi rendevo perfettamente conto che non era possibile, davanti a un pubblico così mondano, eseguire altro che musiche banali, superficiali come le parole che erano appena state pronunciate, ma c’è una certa bellezza anche in tante ariette dimenticate.

Quei mesi passati a Wand mi appaiono una lunga siesta, durante la quale mi sforzai di non pensare mai. La principessa non aveva voluto che interrompessi i miei concerti; mi assentavo per darne molti, in tutte le grandi città tedesche. Mi capitava, allora, di trovarmi faccia a faccia con le ben note tentazioni, ma si trattava solo d’incidenti. I miei ritorni a Wand ne cancellavano persino il ricordo: facevo ancora una volta uso della mia spaventosa capacità di oblio. La vita della gente di mondo si limita, in superficie, a qualche idea gradevole, o comunque decente. Non è neppure questione di ipocrisia, si evita semplicemente di fare allusione a quel che è urtante esprimere. Si sa bene che esistono realtà umilianti, ma si vive come se non si dovesse mai sopportarle. E come se si finisse per confondere gli abiti con il corpo. È indubbio che non ero capace d’un errore così grossolano; mi era capitato di guardarmi nudo. Solo, chiudevo gli occhi. Non ero felice, a Wand, prima del vostro arrivo: ero solo assopito. In seguito, siete venuta voi. Non fui felice neppure al vostro fianco: immaginai solo l’esistenza della felicità. Fu come il sogno di un pomeriggio d’estate.

Sapevo di voi, in precedenza, tutto quel che si può sapere di una ragazza, vale a dire poche cose, e cose molto piccole. Mi avevano detto che eravate bellissima, che eravate ricca, e perfettamente educata. Non mi avevano detto quanto eravate buona; la principessa Pignorava, o forse la bontà era per lei solo una qualità superflua: pensava che bastasse l’amenità. Molte ragazze sono bellissime; ce ne sono anche di ricche e di perfettamente educate, ma non c’era alcuna ragione per cui mi dovessi interessare di questo. Non vi dovete meravigliare, amica mia, che tante descrizioni abbiano lasciato il tempo che trovavano, in me: al fondo di ogni essere perfetto, c’è un non so che di unico che scoraggia l’elogio. La principessa desiderava che vi ammirassi in anticipo; e io così vi ho creduta meno semplice di quanto non siate. Sino ad allora non mi era riuscito sgradevole di recitare, a Wand, un ruolo di invitato modesto, ma mi parve che, davanti a voi, mi si volesse costringere a brillare. Sapevo bene che ne ero incapace, e le facce nuove m’intimidiscono sempre. Se fosse stato per me, me ne sarei partito prima del vostro arrivo, ma questo non fu possibile. Capisco, ora, con quali intenzioni il principe e la principessa mi trattennero: per sfortuna, ero circondato da vecchi preoccupati di una mia sistemazione felice.

È proprio necessario, amica mia, che perdoniate la principessa Catherine. Mi conosceva ben poco per credermi degno di voi. La principessa vi sapeva religiosissima; e io pure, prima di conoscervi, ero di una devozione timorata, infantile. Non ci son dubbi, io ero cattolico, voi eravate protestante, ma questo importava talmente poco.

La principessa immaginava che un nome molto antico fosse sufficiente a compensare la mia povertà, e i vostri parenti ragionarono press’a poco allo stesso modo. Catherine de Mainau compiangeva, forse esageratamente, la mia vita solitaria e spesso difficile; temeva per voi i pretendenti volgari; si riteneva impegnata a rimpiazzare in un certo senso vostra madre e la mia. E, poi, era mia parente; voleva anche far piacere ai miei parenti. La principessa di Mainau era sentimentale: amava vivere nell’atmosfera un poco scialba dei fidanzamenti tedeschi; il matrimonio, per lei, era una commedia da salotto, disseminata d’intenerimenti e di sorrisi, in cui la felicità arriva al quinto atto. La felicità non c’è stata, ma può darsi, Monique, che ne siamo tutt’e due incapaci; e non è colpa della principessa Catherine.

Credo di avervi detto che il principe di Mainau mi aveva raccontato la vostra storia. Dovrei dire, piuttosto, la storia dei vostri genitori poiché quella delle ragazze è tutta interiore: la loro vita è una poesia prima di diventare un dramma. Avevo ascoltato quella storia con indifferenza, come uno di quegli interminabili racconti di cacce e di viaggi in cui il principe si smarriva la sera, dopo cena. Era veramente un racconto di viaggio, poiché il principe aveva conosciuto vostro padre nel corso di un’or mai remota spedizione nelle Antille francesi. Il dottor Thiébaut fu un esploratore celebre; si era sposato già non più in giovane età; voi eravate nata laggiù. Poi vostro padre, restato vedovo, aveva lasciato le Isole; eravate vissuta in una provincia della Francia, presso dei parenti dal lato paterno. Eravate cresciuta in un ambiente severo, e tuttavia molto affettuoso; avevate avuto l’infanzia di una bambina felice. Certo, amica mia, non è necessario che vi racconti la vostra storia: la conoscete meglio di me. Si è svolta per voi, giorno per giorno, versetto per versetto, al modo di un salmo. Non è neppure necessario che ve ne ricordiate: vi ha fatto quella che siete, e i vostri gesti, la vostra voce, tutta voi, rendete testimonianza del vostro tranquillo passato.

Siete arrivata a Wand un giorno della fine del mese di agosto, al crepuscolo. Non mi ricordo esattamente i dettagli della vostra apparizione; non sapevo che stavate entrando, non solo in quella casa tedesca, ma anche nella mia vita. Mi ricordo solo che faceva già buio, e che le lampade, nel vestibolo, non erano ancora state accese. Non era il vostro primo soggiorno a Wand, le cose avevano quindi un aspetto familiare per voi; e anche loro vi conoscevano. Era troppo scuro perché distinguessi i vostri lineamenti; mi accorsi unicamente che eravate molto calma. Amica mia, le donne sono raramente calme: sono placide o sono febbrili. Voi eravate serena come una lampada. Conversavate con i vostri ospiti; dicevate solo le parole che occorreva dire; facevate solo i gesti che occorreva fare, e questo era perfetto. Io, quella sera, fui di una timidezza peggiore del solito; avrei scoraggiato persino la vostra bontà. Comunque, non ve ne volevo. E neppure vi ammiravo: eravate troppo remota per me. Il vostro arrivo mi risultò semplicemente un poco meno sgradevole di quanto non avessi creduto prima. Vedete, amica mia, che vi sto dicendo la verità.

Cerco di rivivere, il più esattamente possibile, le settimane che ci condussero al fidanzamento. Non è facile, Monique. Devo evitare le parole felicità o amore, poiché, insomma, non vi ho amata. Solo, mi siete diventata cara. Vi ho detto quanto fossi sensibile alla dolcezza delle donne: vicino a voi, provavo un nuovo sentimento di fiducia e di pace. Vi piacevano, come piacevano a me, le lunghe passeggiate attraverso la campagna che non portano da nessuna parte. Non avevo bisogno che mi portassero da qualsiasi parte; al vostro fianco ero tranquillo. La vostra natura riflessiva si accordava con la mia natura timida; tacevamo insieme. Poi la vostra bella voce grave, un poco velata, la vostra voce impregnata di silenzio, m’interrogava dolcemente sulla mia arte e su me stesso; mi rendevo già conto che provavate per me una specie di tenera pietà. Eravate buona. Conoscevate la sofferenza, per averla spesso guarita o consolata: indovinavate in me un giovane malato o un giovane povero. Ero talmente povero che neppure vi amavo. Solo, vi trovavo talmente dolce. Mi capitava di pensare che sarei stato felice di essere vostro: voglio dire vostro fratello. Più lontano, non andavo. Non ero abbastanza presuntuoso da immaginare di più, o, forse, la mia natura non si pronunciava. Era già molto che non si pronunciasse, quando ci penso.

Eravate molto pia. A quell’epoca, voi e io credevamo ancora in Dio, intendo dire in colui che tanta gente descrive come se lo conoscesse. Eppure, non ne parlavate mai. Pensavate forse che non se ne può dire nulla, oppure non ne parlavate mai perché lo sentivate presente. Si parla di quelli che si amano soprattutto quando sono assenti. Voi vivevate in Dio. Vi piacevano, come piacevano a me, quei vecchi libri dei mistici che paiono aver guardato la vita e la morte attraverso un cristallo. Ci scambiavamo in prestito dei libri. Li leggevamo insieme ma non a voce alta, sapevamo troppo bene che le parole pronunciate rompono sempre qualcosa. I nostri eran due silenzi accordati. Ci aspettavamo alla fine delle pagine; il vostro dito seguiva, lungo le righe, le preghiere cominciate, come se doveste indicarmi il cammino. Un giorno che ero più coraggioso e voi eravate ancor più dolce del solito, vi confessai la mia paura d’esser dannato. Sorrideste gravemente, per darmi fiducia. Allora, bruscamente quest’idea mi apparve piccina, miserabile, e soprattutto così remota: quel giorno, capii l’indulgenza di Dio.

Ho anche dei ricordi d’amore. Non era indubbiamente una vera passione, ma non sono sicuro che una vera passione mi avrebbe reso migliore, o solo più felice. Vedo persino troppo, comunque, quanto egoismo contenesse un simile sentimento: mi attaccavo a voi. Mi attaccavo: malauguratamente è la sola formula che si addica. Passavano le settimane: la principessa escogitava ogni giorno delle nuove ragioni per trattenervi; voi cominciavate, credo, ad abituarvi a me. Eravamo arrivati a scambiarci i ricordi d’infanzia; ne conobbi di felici grazie a voi; a causa mia voi ne conosceste di tristi; fu come se avessimo duplicato il nostro passato. Ogni ora aggiungeva qualcosa a quella intimità timidamente fraterna e mi accorsi, con spavento, che avevano finito per crederci fidanzati.

Mi aprii con la principessa Catherine. Non potevo dire tutto: insistei sull’estrema povertà in cui si dibatteva la mia famiglia; voi eravate disgraziatamente troppo ricca per me. Il vostro nome, celebre da due generazioni nel mondo della scienza, valeva probabilmente di più di una misera nobiltà austriaca. Alla fine, osai alludere a certe mie colpe passate, di natura gravissima, che mi proibivano il vostro amore, ma che naturalmente non potevo stare a precisare. Quella mezza confessione, già penosa, non servì che a far sorridere. Monique, non mi si credette neppure. Mi scontravo contro la testardaggine della gente leggera. La principessa si era ripromessa una volta per tutte di unirci: su di me si era fatta un’idea favorevole, che non modificò più. La buona società, a volte troppo severa, compensa la propria durezza con la distrazione. Non si sospetta di noi, semplicemente. La principessa di Mainau diceva che l’esperienza l’aveva resa frivola: né lei né suo marito mi presero sul serio. I miei scrupoli gli parvero testimoniare un vero amore; poiché mi mostravo inquieto, mi credettero disinteressato.

La virtù ha le proprie tentazioni come il resto, e sono ben più pericolose, in quanto non ne diffidiamo. Prima di far la vostra conoscenza, sognavo il matrimonio. Quelli la cui esistenza è irreprensibile forse sognano altre cose; noi ci rifacciamo così di avere una sola natura e di vivere solo una faccia della felicità. Mai, neppure negli istanti di più completo abbandono, avevo considerato le mie condizioni definitive о semplicemente durevoli. Avevo avuto, nella mia famiglia, ammirevoli esempi di tenerezza femminile; le mie convinzioni religiose mi portavano a vedere, nel matrimonio, il solo ideale innocente e permesso. Mi capitava di fantasticare che una ragazza dolcissima, affettuosissima e serenissima avrebbe finito un giorno per insegnarmi ad amarla. Non ne avevo mai conosciuto una simile fuori dalla mia cerchia familiare: pensavo a quelle creature che si vedono sorridere pallidamente tra le pagine dei vecchi libri, Julie von Charpentier о Teresa di Brunswick. Erano immagini un poco vaghe e malauguratamente purissime. D’altronde, un sogno, amica mia, non è una speranza; ci se ne appaga; lo si trova addirittura tanto più dolce quanto più impossibile lo si ritiene, proprio perché così non si ha l’inquietudine di avere da viverlo un giorno.

Cosa c’era da fare? Non si osa dir tutto a una ragazza, anche quando la sua anima è già l’anima di una donna. Mi avrebbero fatto difetto i termini; avrei fornito dei miei atti un’immagine scialba o magari eccessiva. A ogni modo, significava perdervi. Se, nonostante tutto, aveste acconsentito a sposarmi, avrei comunque proiettato un’ombra sulla vostra fiducia nei miei riguardi. E io avevo bisogno di tale fiducia per costringermi, in qualche modo, a non tradirla. Mi credevo in diritto (o, piuttosto, in dovere) di non respingere l’unica possibilità di salvezza che mi veniva offerta dalla vita. Mi sentivo arrivato al limite del mio coraggio: comprendevo che da solo non sarei mai guarito. A quell’epoca, volevo guarire. Ci si stanca di vivere solo gli aspetti furtivi, disprezzati della felicità umana. Con appena una parola, avrei potuto rompere quel tacito fidanzamento: avrei trovato qualche scusa; bastava dire che non vi amavo. Me ne astenni, non perché la principessa, mia unica protettrice, non me l’avrebbe mai perdonato; mi astenni perché speravo in voi. Mi lasciavo scivolare, non dico verso questa felicità (amica mia, non siamo felici), ma verso questo crimine. Il desiderio di far bene mi fece scendere più in basso dei peggiori calcoli d’interesse: vi rubai l’avvenire. Non vi portavo nulla, neppure quel grande amore su cui facevate conto; e quei pochi residui di virtù a mia disposizione furon complici di quella menzogna; e il mio egoismo fu tanto più odioso quanto più si credette legittimo.

Mi amavate. Non sono così fatuo da credere che mi amaste di amore; mi domando ancora come abbiate potuto, non dico innamorarvi di me, ma adottarmi in questo modo. Ognuno di noi sa poche cose sull’amore, come lo intendono gli altri; l’amore, per voi, forse era solo una bontà appassionata. Oppure, vi son piaciuto. E vi sono piaciuto soprattutto per quelle qualità che troppo spesso crescono all’ombra dei più gravi difetti: la debolezza, l’indecisione, la sottigliezza. Soprattutto, avete avuto compassione per me. Ero stato tanto imprudente da ispirarvi pietà; essendo stata buona con me per qualche settimana, avete trovato naturale di esserlo per tutta la vita: avete creduto che esser perfetta vi fosse sufficiente per essere felice; io ho creduto che per essere felice, mi fosse sufficiente non essere più colpevole.

Fummo marito e moglie a Wand un giorno piuttosto piovoso d’ottobre. Probabilmente, Monique, avrei preferito che il fidanzamento durasse di più; preferisco che il tempo ci porti, e che non ci trascini. Non ero certo tranquillo sull’esistenza che ci si apriva davanti: pensate che avevo ventidue anni, e che voi eravate la prima donna che invadeva la mia vita. Ma tutto, al vostro fianco, era sempre così semplice: vi ero grato di spaventarmi tanto poco. Gli ospiti del castello se n’erano partiti uno dopo l’altro; presto saremmo partiti anche noi, partiti insieme. Fummo uniti nella chiesa del villaggio, e, dato che vostro padre era assente, in una delle sue remote spedizioni, intorno a noi c’erano solo qualche amico e mio fratello. Mio fratello si era scomodato, nonostante il gran costo del viaggio; mi ringraziò con una certa effusione di avere, come disse lui, salvato la famiglia; mi resi conto che alludeva alla vostra fortuna, e questo mi fece vergogna. Non risposi nulla. E, tuttavia, amica mia, sarei stato più colpevole sacrificandovi alla mia famiglia o sacrificandovi a me stesso? Era, ora me ne ricordo, uno di quei giorni mescolati di sole e di pioggia, che cambiano facilmente espressione come un volto umano. Pareva che si sforzasse di far bello, e che io mi sforzassi d’essere felice. Dio mio, ero felice. Ero felice con timidezza.

E ora, Monique, ci vorrebbe un poco di silenzio. Qui dovrebbe fermarsi il mio dialogo con me stesso: qui comincia il dialogo di due anime e di due corpi uniti. Uniti, o semplicemente congiunti. E, per dire tutto, amica mia, sarebbe necessaria un’audacia che io mi proibisco di avere; sarebbe necessario, soprattutto, che fossi una donna anch’io. Vorrei solo confrontare i miei ricordi con i vostri, vivere, in qualche modo al rallentatore, quei momenti di tristezza o di gioia penosa che noi due abbiamo, forse troppo frettolosamente, vissuto. Il passato mi ritorna in forma di pensieri quasi svaniti, di timide confidenze sussurrate, di musica molto discreta che bisognava tender l’orecchio per afferrare. Ma devo vedere se è possibile scrivere altrettanto a bassa voce.

La mia salute, restata precaria, vi dava maggiori preoccupazioni proprio perché non me ne lamentavo. Avevate tenuto a trascorrere i nostri primi mesi insieme in climi meno rigidi: lo stesso giorno del matrimonio partimmo per Merano. Poi, l’inverno ci scacciò verso paesi ancora più miti; vidi per la prima volta il mare, e il mare sotto il sole. Ma questo importa poco. Anzi, avrei preferito altre regioni più tristi, più austere, in maggiore armonia con l’esistenza che mi sforzavo di desiderar di vivere. Quelle terre della spensieratezza e della felicità carnale m’ispiravano diffidenza e turbamento insieme; sospettavo sempre che ogni gioia contenesse un peccato. Più la mia condotta mi era parsa reprensibile, più mi ero attaccato alle idee morali rigorose che condannavano i miei atti. Le nostre teorie, Monique, quando non sono la formula dei nostri istinti sono la difesa che opponiamo agli istinti. Ve ne volevo di farmi notare il cuore troppo rosso di una rosa, una statua, la bruna bellezza di un bambino che passava; provavo, per queste cose innocenti, una specie di orrore ascetico. E per la stessa ragione avrei preferito che voi foste meno bella.

Avevamo ritardato, per una specie di tacito accordo, l’istante in cui saremmo stati del tutto l’uno dell’altra. Ci pensavo da tempo, con un poco d’inquietudine, anche di ripugnanza; mi pareva che quell’intimità troppo grande potesse guastare, avvilire qualcosa. E poi non si sa mai quel che potranno far nascere, tra due esseri, le simpatie o le antipatie dei corpi. Forse non erano idee troppo sane, ma, insomma, erano le mie. Mi domandavo, ogni sera, se avrei osato raggiungervi; amica mia, non osavo. Poi, fu inevitabile: indubbiamente, non mi avreste più capito. Penso, con un poco di tristezza, quanto chiunque altro avrebbe, invece, apprezzato la bellezza (la bontà) del dono, così schietto, di voi stessa. Non vorrei dir nulla che rischiasse di urtarvi, o ancor meno di farvi sorridere, ma mi pare che il vostro sia stato un dono materno. Ho visto più tardi vostro figlio stringersi a voi, e ho pensato che forse ogni uomo, senza saperlo, cerca nella donna soprattutto il ricordo del tempo in cui la madre lo abbracciava. Per lo meno questo è vero nel mio caso. Mi ricordo con infinita pietà dei vostri sforzi un poco affannosi per rassicurarmi, consolarmi, magari rallegrarmi; e quasi credo di esser stato io il vostro primo figlio.

Non ero felice. Certo, provavo qualche delusione per una simile mancanza di felicità, ma, in fondo, mi ci rassegnavo. Avevo, in un certo qual modo, rinunciato alla felicità, per lo meno alla gioia. Poi, mi dicevo che i primi mesi di un’unione sono raramente i più dolci, che due esseri, bruscamente congiunti per la vita, non possono così rapidamente fondersi l’uno nell’altro ed essere veramente uno solo. Ci vuol molta pazienza e molta buona volontà. Ne avevamo tutt’e due. Mi dicevo, ancor più giustamente, che la gioia non ci è dovuta, e che avremmo avuto torto a lamentarci. Tanto valeva, suppongo, esser ragionevoli, e la felicità può essere un’infelicità meglio sopportata. Me lo dicevo, perché il coraggio consiste nel dar ragione alle cose, quando non possiamo cambiarle. A ogni modo, stia nella vita, o solo in noi stessi, l’insufficienza non è meno grave, né ne soffriamo meno. Neppure voi, amica mia, neppure voi eravate felice.

Avevate ventiquattro anni. Press’a poco l’età delle mie sorelle maggiori. Ma non eravate scialba o timida come loro: c’era un’ammirevole vitalità in voi. Non eravate nata per un’esistenza di piccoli affanni o piccole contentezze; eravate troppo forte. Da ragazza, vi eravate fatta un’idea molto severa e molto grave della vostra vita da sposa, un ideale di tenerezza più affettuosa che passionale. E tuttavia, senza che voi stessa lo sapeste, nello stretto concatenarsi di quei doveri tediosi e spesso impervi che a vostro parere dovevano comporre il vostro avvenire, lasciavate che s’insinuasse qualcos’altro. L’abitudine non concede la passione alle donne: permette loro solo l’amore; è forse per questo che amano così totalmente. Non oso dire che foste nata per un’esistenza di piacere; c’è qualcosa di colpevole in questa parola, per lo meno qualcosa di proibito; preferisco dire, amica mia, che eravate nata per conoscere e dare la gioia. Bisognerebbe cercar di ridiventare abbastanza puri per comprendere tutta l’innocenza della gioia, questo aspetto solare della felicità. Avete creduto che bastasse offrirla per riceverla di ritorno; non affermo che siate stata delusa: occorre molto tempo perché un sentimento si trasformi in riflessione in una donna: eravate solo triste.

Così, non vi amavo. Avevate rinunciato a chiedermi quel grande amore che certo nessuna donna mi ispirerà mai, dal momento che non mi è riuscito di nutrirlo per voi. Ma questo non lo sapevate. Eravate troppo ragionevole per non rassegnarvi a una simile vita senza uscita, ma eravate troppo sana per non soffrirne. La sofferenza che si causa è l’ultima di cui ci s’accorge; e poi, voi la nascondevate; i primi tempi, vi credetti quasi felice. Vi sforzavate in un certo modo di svitalizzarvi per piacermi di più, indossavate abiti scuri, spessi, in grado di nascondere la vostra bellezza, poiché la minima appariscenza mi spaventava (lo capivate di già) come un’offerta d’amore. Senza amarvi, ero preso di voi con il più inquieto degli affetti; l’assenza di un momento mi rattristava per tutto un giorno, e non si sarebbe potuto sapere se soffrissi di star lontano da voi o se, semplicemente, avessi paura di esser solo. Io stesso, non lo sapevo. E, poi, avevo paura di stare insieme, di essere soli insieme. Vi avviluppavo in un’atmosfera di tenerezza snervante; vi domandavo, venti volte di seguito, se teneste a me; sapevo troppo bene che era impossibile.

Ci costringemmo alle pratiche di una devozione esaltata che ormai non corrispondeva più alle nostre vere convinzioni: coloro a cui fa difetto tutto si appoggiano a Dio ed è in questo momento che anche Dio fa loro difetto. Spesso, ci attardavamo in quelle vecchie chiese accoglienti e oscure che si visitano in viaggio; ora avevamo preso l’abitudine di indugiarci in preghiera. Ne ritornavamo la sera, stretti l’uno all’altra, uniti almeno da un fervore in comune; trovavamo pretesti per rallentare per la strada, a guardare la vita degli altri; la vita degli altri appare sempre facile poiché non siamo noi a viverla. Sapevamo troppo bene che da qualche parte era in attesa la nostra camera, una camera di passaggio, fredda, nuda, vanamente spalancata al tepore di quelle notti italiane, una camera senza solitudine e comunque senza intimità. Abitavamo, infatti, la stessa camera, ed ero io a volerlo. Esitavamo ogni sera ad accendere la lampada; la sua luce ci imbarazzava, e tuttavia non osavamo spegnerla. Mi trovavate pallido e non lo eravate meno voi; avevo paura che aveste preso freddo; e voi mi rimproveravate dolcemente di essermi sfinito in preghiere troppo lunghe; eravamo esasperantemente buoni l’uno con l’altra. Soffrivate a quell’epoca di intollerabili insonnie; e facevo fatica io pure ad addormentarmi; simulavamo la presenza del sonno per non essere obbligati a compiangerci. Oppure, voi piangevate. Piangevate il più silenziosamente possibile, perché non me ne accorgessi, e io allora fingevo di non sentirvi. Forse è la cosa migliore non accorgersi delle lacrime, quando non si ha il potere di consolarle.

Il mio carattere cambiava: diventavo lunatico, difficile, irritabile, pareva che una virtù mi dispensasse da tutte le altre. Ve ne volevo perché non riuscivate a infondermi quella calma sulla quale avevo fatto conto e che non chiedevo altro, Dio mio, che di ottenere. Avevo preso l’abitudine delle mezze confidenze; vi torturavo di confessioni, tanto più inquietanti quanto più incomplete. Trovavamo, nelle lacrime, una sorta di miserabile appagamento: il nostro duplice sgomento finiva per unirci, come una felicità. Pareva che vi avessi rapito la serenità d’un tempo, senza pervenire a impadronirmene. Voi avevate, come me, impazienze e tristezze repentine, impossibili da capire; ormai eravamo solo dei malati che si appoggiavano l’uno all’altra.

Avevo abbandonato completamente la musica. La musica faceva parte di un mondo in cui mi ero rassegnato a non vivere più. Si dice che la musica sia l’universo dell’anima; e può darsi che lo sia davvero, amica mia: questo prova semplicemente che l’anima e la carne non sono più separabili, e che l’una contiene l’altra, al modo in cui la tastiera contiene i suoni. Il silenzio che succede agli accordi non è per nulla un silenzio ordinario: è un silenzio attento; è un silenzio vivente. Molte cose insospettate bisbigliano in noi a favore di questo silenzio, e non sappiamo mai cosa ci dirà una musica che finisce. Un quadro, una statua, anche una poesia, ci presentano idee precise, che abitualmente non ci conducono più lontano, ma la musica ci parla di possibilità senza confini. È pericoloso esporsi alle emozioni nell’arte, quando si è deciso di astenersene nella vita. Cosi, non suonavo più e non componevo più. Non son di quelli che pretendono dall’arte la compensazione del piacere; amo l’una e l’altro; e non l’una per l’altro, queste due forme piuttosto tristi del desiderio umano. Non componevo più. Il mio disgusto della vita si estendeva lentamente a quei sogni della vita ideale, poiché un capolavoro, Monique, è vita sognata. Persino la semplice gioia che assicura all’artista il compimento di un’opera si era inaridita o, per meglio dire, congelata in me. Dipendeva forse dal fatto che non eravate musicista: la mia rinuncia, la mia fedeltà non sarebbero state totali, se, ogni sera, mi fossi sprofondato in un mondo come quello dell’armonia a cui non avevate accesso. Non lavoravo più. Ero povero. Sino al matrimonio avevo faticato per campare. Scoprivo ora una qualche voluttà nel dipendere da voi, persino dalla vostra fortuna: una simile situazione un poco umiliante era una garanzia contro l’antico peccato. Noi tutti, Monique, abbiamo pregiudizi ben strani: tradire una donna che ci ama è solo crudele, ma sarebbe odioso ingannare quella del cui denaro viviamo. E voi, pur così laboriosa, non osavate biasimare ad alta voce la mia completa inazione: avevate paura che nelle vostre parole vedessi un rimprovero alla mia povertà.

L’inverno, poi la primavera passarono; i nostri eccessi di tristezza ci avevano sfibrati come una grande orgia. Provavamo quell’aridità di cuore che succede a un abuso di lacrime, e il mio scoraggiamento poteva venir scambiato per calma. Ero quasi terrorizzato di sentirmi così calmo; credevo di essermi conquistato. E si è così pronti, ahimè, a disgustarsi delle proprie conquiste! Accusavamo della nostra prostrazione gli strapazzi dei viaggi: così fissammo dimora a Vienna. Io provavo qualche ripugnanza a rientrare in questa città, dove ero vissuto solo, ma per una delle vostre delicatezze, voi tenevate a non allontanarmi dal mio paese natale. Mi sforzai di credere che questa volta sarei stato meno infelice dell’altra volta a Vienna; fui soprattutto meno libero. Vi lasciai scegliere i mobili e le tinteggiature delle camere; vi guardavo, con un poco di amarezza, andare su e giù per le stanze ancora nude, in cui sarebbero state imprigionate le nostre due esistenze. La società viennese aveva preso una cotta per la vostra bellezza bruna, ma pensosa: la vita mondana, a cui né l’uno né l’altra eravamo preparati, ci permise per qualche tempo di scordarci di quanto fossimo soli. Poi, ci stancò. Mettevamo una specie di costanza nel sopportare la noia in quella casa troppo nuova, i cui oggetti erano privi di ricordi per noi, e gli specchi non ci conoscevano ancora. Il mio sforzo di virtù, e il vostro tentativo d’amore, non approdavano neppure a distrarci reciprocamente.

Tutto, persino una tara, possiede i suoi vantaggi per una mente un poco lucida; suggerisce una visione meno convenzionale del mondo. La vita meno solitaria e la lettura dei libri m’insegnarono quale differenza esista tra le convenzioni esteriori e la morale intima. Gli uomini non dicono tutto, ma, quando uno, come me, ha dovuto prender l’abitudine di determinate reticenze, si rende molto presto conto che sono pratiche universali. Avevo acquistato una singolare attitudine a indovinare le vergogne o le debolezze nascoste; la mia coscienza, messa a nudo, mi rivelava quella degli altri. Senza dubbio, coloro a cui mi paragonavo si sarebbero indignati per un accostamento del genere; si credevano normali, forse perché i loro vizi erano molto ordinari; e, a ogni modo, potevo giudicarli tanto superiori a me, nella loro ricerca di un piacere che è solo fine a se stesso, e che, il più delle volte, non desidera prole? Finivo per dirmi che il mio unico torto (la mia unica infelicità, piuttosto) stava nell’essere, non certo peggiore di tutti, ma solo differente. E per di più, un bel poco di gente si adatta a vizi simili ai miei; non è poi così raro, né soprattutto così strano. Me ne volevo per aver preso così sul tragico precetti, smentiti da tanti esempi e la morale umana non è che un gran compromesso. Mio Dio, non biasimo nessuno: ognuno cova in silenzio i propri segreti e i propri sogni, senza confessarlo mai, senza confessarselo neppure, e tutto sarebbe così chiaro se non si dicessero menzogne. Mi ero dunque torturato per ben poco, probabilmente. Conformandomi alle regole morali più anguste, mi concedevo ora il diritto di giudicarle, e si sarebbe detto che il mio pensiero osasse esser più libero dopo la mia rinuncia a ogni libertà nella vita.

Non ho ancora detto quanto desideraste un figlio. Anch’io lo desideravo appassionatamente. Comunque, quando seppi che stava per arrivarci un figlio, non sentii molta gioia. Indubbiamente, il matrimonio senza prole è solo lussuria consentita; se l’amore della donna è degno di un rispetto che l’altro forse non merita, è unicamente perché contiene l’avvenire. Ma non è proprio al momento in cui la vita appare assurda e priva di scopo, che ci si può rallegrare di perpetuarla. Quel bambino, di cui sognavamo insieme, sarebbe venuto al mondo tra due estranei: non era la prova né il completamento della felicità, ma una compensazione. Speravamo vagamente che tutto sarebbe andato a posto quando lui fosse stato lì, e io lo avevo voluto perché voi eravate triste. Dapprima provaste addirittura qualche timidezza a parlar di lui con me; e questo, più di qualsiasi altra cosa, mostra quanto le nostre vite fossero restate lontane. Comunque, quel piccolo essere cominciava a venirci in aiuto. Ci pensavo, un poco come se fosse il figlio di un altro; assaporavo la dolcezza di quella nostra intimità, ridiventata fraterna, in cui la passione non avrebbe più potuto entrare. Mi pareva quasi che foste mia sorella, o qualche parente prossima che mi avevano affidato e che occorreva curare, rassicurare e forse consolare di un’assenza. Avevate finito per attaccarvi molto a quella piccola creatura che almeno viveva già per voi. E il mio compiacimento, così confessabile, non era meno sprovvisto di egoismo: non avendo saputo farvi felice, trovavo naturale scaricar sul bambino le mie responsabilità.

Daniel nacque in giugno a Woroïno, in quel triste paese della Montagna Bianca. Avevate tenuto a che venisse al mondo in quel paesaggio d’altri tempi: per voi, era come rendermi più mio il figlio. La casa, per quanto restaurata e ridipinta a nuovo, era restata la stessa: pareva solo diventata molto più grande, perché noi eravamo diminuiti di numero. Mio fratello (ormai avevo un solo fratello) ci abitava con la moglie; eran gente molto provinciale, che la solitudine aveva reso selvatici e che la povertà aveva reso apprensivi. Vi accolsero con una sollecitudine un poco maldestra, e, dato che il viaggio vi aveva stancata, vi offrirono, per farvi onore, la grande camera in cui era morta mia madre, e in cui eravamo nati. Le vostre mani, posate sul biancore delle lenzuola, parevano quasi le sue; ogni mattino, come ai tempi in cui entravo da mia madre, mi aspettavo che quelle lunghe, fragili dita si posassero sulla mia testa per benedirmi. Ma non osavo chiedervi una cosa simile; mi accontentavo di baciarle, semplicemente, le vostre mani. E, tuttavia, avrei avuto un gran bisogno di quella benedizione. La camera era piuttosto buia, con un letto imponente circondato da cortine molto spesse. Molte donne, suppongo, nei giorni antichi della mia famiglia, ci si erano coricate per aspettare il loro figlio o la loro morte, e la morte forse non è altro che il parto di un’anima.

Le ultime settimane della vostra gravidanza furono penose: una sera, mia cognata venne a dirmi di pregare. Non pregai; mi ripetei solo che senza dubbio sareste morta. Temetti di non provare un dolore abbastanza sincero: ne avvertivo già, in anticipo, una sorta di rimorso. E poi, vi eravate rassegnata. Vi eravate rassegnata come quelli che non tengono molto a vivere: vedevo un rimprovero nella vostra serenità. Può darsi che sentiste che la nostra unione non era fatta per durare tutta la vita, e che avreste finito per amare qualche altro. Aver paura dell’avvenire, ci rende più facile la morte. Tenevo tra le mie mani le vostre mani sempre un poco febbricitanti; e tacevamo tutt’e due su quel pensiero comune, la vostra possibile scomparsa; e il vostro sfinimento era tale che non vi domandavate neppure cosa sarebbe stato del bambino. Mi dicevo, ribellandomi, che la natura è ingiusta proprio con chi ubbidisce alle sue leggi fondamentali, dal momento che ogni nascita mette in pericolo due vite. Ognuno fa soffrire quando nasce e soffre quando muore. Ma è ancora nulla che la vita sia atroce; il peggio è che sia vana e che sia senza bellezza. La solennità di una nascita, come la solennità di una morte, si perde, per quanti assistono, in dettagli ripugnanti o semplicemente volgari. Non mi lasciavano più entrare in camera vostra: vi dibattevate tra le cure e le preghiere delle donne, e poiché le lampade restavano accese tutta la notte, era chiaro che si aspettava qualcuno. Le vostre grida, che mi arrivavano attraverso le porte chiuse, avevano qualcosa di inumano, mi incutevano orrore. Non mi ero spinto a immaginarvi, in anticipo, alle prese con una simile forma assolutamente animalesca di dolore, e me ne volevo per quel bambino che vi faceva gridare. È così che tutto si lega, Monique, non solo in una vita, ma anche in un’anima: il ricordo di quelle ore, in cui vi credetti perduta, contribuì forse a ricondurmi da quest’altra parte verso la quale continuavano a inclinare i miei istinti.

Mi fecero entrare nella vostra camera per mostrarmi il bambino. Tutto, ora, era tornato tranquillo; voi eravate felice, ma di un benessere fisico, fatto soprattutto di stanchezza e di senso di liberazione. Solo, il bambino piangeva tra le braccia delle donne. Suppongo che soffrisse del freddo, del frastuono delle parole, delle mani che lo maneggiavano, del contatto delle fasce. La vita lo aveva appena strappato alle calde tenebre materne: aveva paura, penso, e nulla, neppure la notte, neppure la morte, avrebbe potuto rimpiazzare per lui quel rifugio veramente primordiale, poiché la morte o la notte hanno tenebre fredde, non animate dal battito di un cuore. Mi sentivo intimidito davanti a quel bambino che bisognava pur baciare. Non m’ispirava, non dico tenerezza, neppure affetto, ma una grande pietà, poiché non si sa mai, davanti ai neonati, quali ragioni di pianto gli fornirà l’avvenire.

Mi dicevo che sarebbe stato vostro, figlio vostro, Monique, molto più che mio. Avrebbe ereditato da voi non solo quella fortuna, da tanto tempo assente da Woroïno (e la fortuna, amica mia, non dà la felicità, ma spesso la permette); avrebbe ereditato anche i vostri bei gesti calmi, la vostra intelligenza e quel chiaro sorriso che ci saluta nei quadri francesi. Almeno, me lo auguro. Per un cieco sentimento del dovere, mi ero reso responsabile della sua vita, che correva qualche rischio di non essere felice, per il fatto che era anche mio figlio; e la mia sola scusa era di avergli assicurato una madre meravigliosa. E, comunque, mi dicevo, era un Gera, apparteneva a questa famiglia i cui membri si trasmettono pensieri così antichi da risultare oggi fuori uso come le slitte dorate e le carrozze di corte. Discendeva come me da antenati di Polonia, di Podolia e di Boemia; avrebbe avuto le loro passioni, i loro repentini scoraggiamenti, il loro gusto per le tristezze e i piaceri bizzarri, e tutte le loro fatalità, a cui s’aggiungevano le mie. Poiché siamo una razza ben strana, in cui follia e malinconia si alternano di secolo in secolo, come gli occhi neri e gli occhi azzurri. Daniel e io abbiamo gli occhi azzurri. Il bambino dormiva ora nella culla accanto al letto; le lampade, poggiate sul tavolo, illuminavano confusamente le cose, e i ritratti di famiglia, che abitualmente non si guardan più a forza di vederli, smisero di essere una presenza per diventare un’apparizione. Così, la volontà che esprimevano quei volti d’antenati si era realizzata: il nostro matrimonio aveva portato a un figlio. Per lui quella vecchia razza si sarebbe prolungata nell’avvenire, ormai importava poco che continuasse la mia, di esistenza: io non interessavo più a quei morti, e potevo sparire a mia volta, morire, oppure ricominciare a vivere.

La nascita di Daniel non ci aveva riavvicinato: ci aveva deluso quanto l’amore. Non avevamo più ripreso la nostra esistenza in comune; avevo smesso di stringermi contro di voi, la sera, come un bambino che ha paura del buio, e mi avevan restituito la camera in cui dormivo quando avevo sedici anni. In quel letto, in cui recuperavo, insieme con i miei sogni d’un tempo, l’incavo formato dal mio corpo, avevo l’impressione di ricongiungermi con me stesso. Amica mia, sbagliamo a credere che la vita ci trasformi: ci consuma, e quel che consuma in noi sono proprio le cose acquisite. Non ero cambiato io; solo, gli avvenimenti si erano interposti tra me e la mia natura; ero quel che ero stato, forse un poco più profondamente di prima, poiché, via via che le nostre illusioni e le nostre convinzioni crollano una dopo l’altra, conosciamo meglio il nostro più vero essere. Tanti sforzi e tante buone intenzioni finivano per farmi ritrovare tal quale ero una volta: un’anima un poco torbida, che due anni di virtù avevano disincantata. E scoraggiante, Monique. E pareva anche che tutto il lungo travaglio, compitosi in voi, avesse ricondotto la vostra natura alla semplicità d’una volta: eravate, come prima del matrimonio, un giovane essere desideroso di felicità, solo più deciso, più calmo, meno sopraffatto dall’anima. La vostra bellezza aveva acquistato una specie di placida abbondanza: ero io, ora, a sentirmi malato, e in qualche modo me ne compiacevo. Il pudore m’impedirà sempre di dirvi quante volte, durante quei mesi d’estate, avessi desiderato la morte; e non voglio sapere se, paragonandovi ad altre donne più felici, mi sia meritato il vostro rancore per avervi rovinato l’avvenire. Ci amavamo pur sempre, come ci si può amare senza reciproca passione; la bella stagione (la seconda dopo il nostro matrimonio) finiva, un poco frettolosamente, come fanno le belle stagioni nei paesi del Nord; indugiavamo ad assaporare in silenzio quella fine di un’estate e di una tenerezza, che avevano portato i loro frutti e a cui mancava solo di morire. Fu in quella tristezza che la musica ritornò a me.

Una sera, in settembre, la sera precedente al nostro rientro a Vienna, cedetti all’attrazione del pianoforte, che sino ad allora era restato chiuso. Ero solo nel salotto quasi buio; era, ve l’ho già detto, la mia ultima sera a Woroïno. Da lunghe settimane, un’inquietudine fisica si era insinuata in me, una febbre, qualche insonnia, contro cui lottavo e di cui accusavo l’autunno. Ci son musiche fresche che consentono di dissetarci: almeno questo pensavo. Mi misi a suonare. Suonavo; suonavo dapprima con precauzione, dolcemente, delicatamente come se volessi addormentarmi l’anima dentro. Avevo scelto i brani più calmi, puri specchi d’intelligenza, Debussy o Mozart, e si sarebbe potuto dire, come già in passato a Vienna, che avevo paura della musica torbida. Ma la mia anima, Monique, non voleva addormentarmi si dentro. O forse, non si trattava dell’anima. Suonavo vagamente, lasciando fluttuare ogni nota sul silenzio. Era (ve l’ho già detto) la mia ultima sera a Woroïno. Sapevo che le mie mani non si sarebbero più congiunte a quei tasti, che mai più quella stanza si sarebbe riempita di accordi grazie a me. Interpretavo le mie sofferenze fisiche come un presagio funebre: mi ero deciso a lasciarmi morire. Abbandonando l’anima alla cresta degli arpeggi, come un corpo sull’onda quando l’onda ridiscende, aspettavo che la musica mi rendesse più facile la prossima ricaduta verso la rovina e l’oblio. Suonavo con un senso di oppressione. Mi dicevo che la mia vita era da rifare, e che nulla guarisce, neppure la guarigione. Mi sentivo troppo stremato da quella successione di ricadute e di sforzi per risalire, egualmente sfinenti, e tuttavia già godevo, nella mia musica, della mia debolezza e del mio abbandono. Non ero più capace, come altre volte, di provar del disprezzo per la vita passionale, di cui continuavo ad aver comunque paura. La mia anima s’era ancor più sprofondata nella mia carne; e quel che mi rimproveravo, risalendo di pensiero in pensiero, di accordo in accordo, verso il mio passato più segreto, non erano le mie colpe, erano le mie possibilità di gioia che avevo rifiutato. Non mi rammaricavo dunque di aver ceduto troppo spesso, ma di aver troppo a lungo e troppo duramente lottato.

Suonavo, disperatamente. L’anima umana è più lenta di noi: il che mi induce ad ammettere che potrebbe durare di più. Resta sempre un poco indietro rispetto alla vita presente. Cominciavo appena allora a comprendere il senso di quella musica interiore, di quella musica di gioia e di desiderio selvaggio, che avevo soffocato in me. Avevo ridotto la mia anima a un’unica melodia, piagnucolosa e monotona; avevo fatto della mia vita un silenzio da cui poteva elevarsi solo un salmo. Non ho abbastanza fede, amica mia, per limitarmi ai salmi; e se mi pento, è d’essermi pentito. I suoni, Monique, si dispiegano nel tempo come le forme nello spazio, e, sinché una musica non è arrivata al termine, resta, almeno in parte, immersa nell’avvenire. C’è qualcosa di commovente, per chi improvvisa, nella scelta della nota successiva. Cominciavo a comprendere questa libertà dell’arte e della vita, che ubbidiscono esclusivamente alle leggi del loro sviluppo. Il ritmo segue l’ascesa del turbamento interiore: è un ascolto terribile quando il cuore batte troppo in fretta. Quel che, al momento, nasceva dallo strumento in cui, per due anni, avevo sequestrato tutto me stesso, non era il canto del sacrificio, e non era neppure più quello del desiderio, né quello della gioia così vicina. Era l’odio; l’odio per tutto quel che mi aveva falsificato, schiacciato per tanto tempo. Pensavo, con una specie di crudele piacere, che dalla vostra camera dovevate sentirmi suonare; mi dicevo che bastava questo come confessione e come spiegazione.

E fu in quel momento che fecero la loro apparizione le mie mani. Le mie mani lì sui tasti, due mani nude, senza fede nuziale, senza anello  era come se avessi sotto gli occhi la mia anima due volte viva. Le mie mani (ne posso parlare perché sono le mie sole amiche) mi parevano di colpo straordinariamente sensitive; anche immobili, apparivano accarezzare il silenzio come per incitarlo a rivelarsi negli accordi. Riposavano, ancora un poco tremanti di ritmo, e c’erano in loro tutti i gesti futuri, come tutte le note possibili dormivano nella tastiera. Avevano annodato intorno ai corpi la breve gioia delle strette; avevano palpato, sulla tastiera sonora, le forme delle note invisibili; avevano, nelle tenebre, rinchiuso in una carezza i corpi addormentati. Spesso, le avevo sollevate nell’atteggiamento della preghiera; spesso le avevo unite alle vostre, ma di tutto questo, loro non si ricordavano più. Erano mani anonime, mani di musicista. Erano il mio intermediario, attraverso la musica, con quell’infinito che siamo tentati di chiamar Dio, e, attraverso le carezze, erano il mio mezzo di contatto con la vita degli altri. Erano delle mani smorte, pallide come l’avorio su cui s’appoggiavano, poiché le avevo private di sole, di lavoro, di gioia. E, tuttavia, erano servitrici ben fedeli; mi avevano nutrito, quando la musica era il mio sostentamento; e cominciavo a rendermi conto che c’era una qualche bellezza nel vivere della propria arte, perché questo ci libera da quanto non le appartiene. Le mie mani, Monique, mi avrebbero liberato di voi. Avrebbero potuto tendersi di nuovo senza costrizioni ; mi aprivano, le mie mani liberatrici, la porta per la partenza. Forse, amica mia, è assurdo dire tutto, ma quella sera, goffamente, al modo con cui si suggella un patto con noi stessi, mi son baciato le mani.

Se passo sopra rapidamente ai giorni successivi è perché le mie sensazioni non concernono e non toccano altri che me stesso. Preferisco tener per me i ricordi intimi, perché non potrei parlarne con voi solo con le preoccupazioni di un pudore che somiglia troppo alla vergogna, e perché, se mostrassi il minimo pentimento, mentirei. Nulla eguaglia la dolcezza di una sconfitta che si sa definitiva: a Vienna, durante quegli ultimi giorni solatii d’autunno, esperimentai la meraviglia di ritrovare il mio corpo. Il mio corpo che mi guarì dall’avere un’anima. Voi, di me, avete visto solo i timori, i rimorsi e gli scrupoli della coscienza, non esattamente di quella mia, ma di quella degli altri, che avevo assunto come guida. Non ho saputo, o non ho osato dirvi quale ardente adorazione fanno provare la bellezza e il mistero dei corpi, né come ogni corpo, quando si offre, paia portarmi in dono un frammento della giovinezza umana. Amica mia, vivere è difficile. Ho edificato abbastanza teorie morali per non costruirne altre, e contraddittorie: sono troppo ragionevole per credere che la felicità non dimori altro che sull’orlo d’una colpa, e il vizio, non più della virtù, sia in grado di dar la gioia a quelli che non l’hanno già in sé per conto loro. Solo, preferisco ancora la colpa (se è una colpa) a una negazione di sé tanto vicina alla demenza. La vita mi ha fatto quel che sono, prigioniero (se così si vuole) d’istinti che non ho scelti, ma ai quali mi rassegno, e spero che una simile acquiescenza, se non la felicità, mi dia la serenità. Amica mia, vi ho sempre creduta capace di comprendere tutto, che è una cosa più difficile che perdonare tutto.

E ora, vi dico addio. Penso, con infinita dolcezza, alla vostra bontà femminile, o piuttosto materna: vi lascio con dispiacere, ma invidio vostro figlio. Eravate il solo essere nei confronti del quale mi giudicassi colpevole, ma scriver la mia vita mi conferma in me stesso; finisco per compiangervi, ma senza condannarmi con severità. Vi ho tradita; non ho voluto ingannarvi. Siete di quelle che scelgono sempre, per dovere, la via più stretta e più ardua: non voglio, implorando la vostra pietà, fornirvi un pretesto per sacrificarvi ulteriormente. Non avendo saputo vivere secondo la morale altrui, tento di andar d’accordo almeno con la mia: è al momento in cui si buttan via tutti i principi che conviene munirsi di scrupoli. Mi ero preso nei vostri riguardi impegni prudenti che la vita si è incaricata di protestare: vi chiedo perdono, con la maggiore umiltà possibile, non tanto di abbandonarvi, quanto di esser restato così a lungo.

Losanna, 31 agosto 1927 - 17 settembre 1928