domenica 16 maggio 2021

SANGUINA ANCORA Paolo Nori

Perché leggere Dostoevskij

SANGUINA ANCORA

Paolo Nori


0.1 Che senso ha

Che senso ha, oggi, nel 2021, leggere Dostoevskij?

Perché una persona di venti, o di trenta, o di quaranta, o di settant’anni dovrebbe mettersi, oggi, a leggere, o a rileggere, Dostoevskij?

Ecco.

Domanda che non mi mette minimamente in imbarazzo.

La mia risposta è: non lo so.

Io, qualsiasi domanda mi si faccia, rispondo quasi sempre, come prima cosa, che non lo so. Poi, delle volte, vado avanti.

In questo caso, se mi si chiedesse che senso ha, oggi, nel 2021, leggere, o rileggere, Dostoevskij, direi che non lo so.

Poi andrei avanti.

E direi che c’è un personaggio secondario di Delitto e castigo, che si chiama Svidrigajlov, che a un certo punto dice che non c’è niente di più difficile della franchezza e niente di più facile dell’adulazione.

E che se nella franchezza c’è anche solo un centesimo di nota che suona falso, si avverte subito una stonatura, e ne viene fuori una scenata.

Mentre l’adulazione, anche se è tutto falso, sino all’ultima nota, riesce comunque sempre gradita, e la si ascolta non senza piacere; sarà pure un piacere grossolano, ma è pur sempre un piacere, dice Svidrigajlov.

E io, quando ho riletto quella pagina, ho pensato a uno scrittore italiano col quale siamo stati anche un po’ amici, fino a quando non ho scritto una recensione di un suo romanzo, il quale scrittore, quando eravamo un po’ amici, mi ha raccontato che, nel palazzo dove abitava lui, c’era un portiere analfabeta, che non sapeva né leggere né scrivere, e che, tutte le volte che usciva un romanzo, di questo scrittore, il portiere lo fermava e gli diceva «Dottore, il suo ultimo romanzo: bellissimo».

E lui, questo scrittore, che è una persona molto intelligente, e sensibile, e di una moralità specchiata, mi verrebbe da dire, e che sapeva benissimo che il suo portiere era analfabeta, quando sentiva così, mi ha raccontato, era contento.

Era un così bel modo, di cominciare la giornata.

Quindi: il senso di leggere Dostoevskij io non lo so, so che Dostoevskij, anche se non lo leggiamo, ci ha detto, nelle cose che ha scritto, come siam fatti prima ancora che venissimo al mondo, e poi so, bene o male, cosa è successo a me, quando ho cominciato a leggerlo, Dostoevskij.

0.2 Chissà se è vero

Ho sentito dire che, diventando vecchi, si regredisce a uno stadio infantile. Chissà se è vero. Una cosa che mi sembra succeda a me, in questi ultimi anni (ne ho già cinquantasei e, quando avrò finito di scrivere questo libro, ne avrò già cinquantasette), è che mi chiedo come mai faccio le cose che faccio.

Non le faccio così, senza pensarci, le faccio chiedendomi “Ma perché la faccio, questa cosa?”.

Come quei bambini che, se gli dici che è ora di andare a letto, ti chiedono «Perché, è ora di andare a letto?».

E se gli dici che la verdura fa bene ti chiedono «Perché, la verdura fa bene?».

E se gli dici che non possono guardare tanta televisione, ti chiedono «Perché, non posso guardare tanta televisione?».

Ecco io, questi ultimi anni, uguale, quasi.

Un paio di anni fa, quando di anni ne avevo già cinquantacinque, mi sono chiesto come mai, io, nella mia vita, tra tutte le cose che avevo letto, avevo letto soprattutto dei libri russi.

“Perché?” mi sono chiesto.

E mi son ricordato del primo libro russo che ho letto, Delitto e castigo, di Dostoevskij.

0.3 Il posto

Delitto e castigo l’ho letto che avevo forse quindici anni, son passati ormai quarantun anni e, di quel momento in cui ho incontrato Delitto e castigo, io mi ricordo tutto; mi ricordo la stanza dov’ero, la mia stanzetta all’ultimo piano della nostra casa di campagna, mi ricordo com’ero voltato, mi ricordo l’ora del giorno, mi ricordo lo stupore di quello che stava succedendo, mi ricordo che mi chiedevo nella mia testa “E io?”.

Quel libro, come i libri memorabili che ho incontrato nella mia vita, ha fatto diventare un momento qualsiasi tra gli innumerevoli momenti che ho passato nei cinquantasei e passa anni che son stato al mondo un momento indimenticabile, un momento in cui ero consapevole del fatto che stavo al mondo, un momento che mi sentivo il sangue che mi pulsava dentro le vene.

0.4 Perché?

Uno scrittore russo, Vasilij Rozanov, descrive Dostoevskij come un arciere nel deserto con una faretra piena di frecce che, se ti colpiscono, esce il sangue.

Ecco io, la prima reazione che ho avuto, quando ho capito di cosa parlava Dostoevskij in Delitto e castigo, quando Raskol’nikov, il protagonista, si chiede “Ma io, sono come un insetto o sono come Napoleone?”, ecco quella domanda, io quindicenne, me la sono rivolta anch’io: “Ma io” mi son chiesto “sono come un insetto o sono come Napoleone?”.

E ho avuto, me lo ricordo perfettamente, la sensazione che quella cosa che avevo in mano, quel libro pubblicato centododici anni prima a tremila chilometri di distanza, mi avesse aperto una ferita che non avrebbe smesso tanto presto di sanguinare. Avevo ragione. Sanguina ancora. Perché?

0.5 Questo libro

Questo libro, attraverso il racconto dell’incredibile vita di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, ingegnere senza vocazione, traduttore umiliato dai propri editori, genio precoce della letteratura russa, nuovo Gogol’, meglio di Gogol’, aspirante rivoluzionario miseramente scoperto e condannato a morte, graziato e mandato per dieci anni in Siberia a scontare la sua colpa, riammesso poi nella capitale, quella Pietroburgo il cui mito, con le sue opere, contribuirà a costruire, «la più astratta e premeditata città del globo terracqueo», secondo una celebre definizione del suo uomo del sottosuolo, giocatore incapace e disperato, scrittore spiantato vittima di editori cattivi, marito innamoratissimo di una stenografa di venticinque anni più giovane di lui, padre incredulo che scrive a un amico: «Abbiate dei figli! Non c’è al mondo felicità più grande», pazzo benedetto che mette per iscritto le domande che tutti noi ci facciamo e che non osiamo confessare a nessuno, uomo dall’aspetto insignificante, goffo, calvo, un po’ gobbo, vecchio fin da quando è giovane, uomo malato, confuso, contraddittorio, disperato, ridicolo così simile a noi, che riesce a morire nel momento del suo più grande successo, attraverso il racconto di questa vita romanzesca, questo libro che crede di essere un romanzo prova semplicemente a rispondere a quella domanda: perché?

Perché sanguina ancora?

0.6 A cosa serve?

Uno, mi rendo conto, potrebbe chiedermi: Ma a te piace sanguinare?

In un certo senso, sì.

Nel senso che viviamo, mi sembra, in un tempo in cui valgono solo le vittorie e i vincenti, un tempo in cui il participio presente perdente non indica una condizione temporanea, è un’offesa, in un tempo in cui, se ti chiedono «Come stai?» (e te lo chiedono, continuamente), devi rispondere «Benissimo!» col punto esclamativo, in un tempo in cui devi nascondere le tue ferite e i tuoi dispiaceri, come se tu non fossi fatto di quelle, e di quelli.

C’è un paese, in Sardegna, che si chiama Seneghe, che per quattro giorni all’anno si trasforma nel paese della poesia, perché c’è un festival di poesia e sui muri c’è pieno di cartelli con le scritte dei poeti, come quella di Wisława Szymborska che dice «Preferisco il ridicolo di scrivere delle poesie al ridicolo di non scriverne», e a me l’ultima volta che ci sono andato, nel 2016, è venuta subito in mente una cosa che aveva scritto Zavattini nel 1967 a Franco Maria Ricci: «Sono pessimista ma me ne dimentico sempre».

E mi è sembrato che non si potesse essere pessimisti, in quei giorni lì, a Seneghe, e mi è venuto in mente Angelo Maria Ripellino, che quand’era in sanatorio, in Repubblica Ceca, che si curava, chiamava sé stesso e gli altri ricoverati «i nonostante».

«L’avverbio – aveva scritto Ripellino – si fa sostantivo, a indicare noi tutti che, contrassegnati da un numero, sbilenchi, gualciti, piegati da raffiche, opponevamo la nostra caparbietà all’insolenza del male.»

Che meraviglia, Ripellino.

E ho pensato che per quelli che leggono i libri, che guardan le mostre, che ascoltano le sinfonie, i libri, i quadri, le musiche che hanno incontrato nella loro vita li hanno aiutati in questa cosa così difficile e così strana, stare al mondo, a essere dei nonostante, a rendersi conto delle loro ferite, dei loro difetti, e ad accettarli, perché, come dice un cantante canadese, è attraverso le crepe che si vede la luce.

E questa condizione di nonostante, che io credo riguardi noi tutti, non interviene solo nei momenti decisivi, delle nostre vite, quando siamo in Repubblica Ceca in un sanatorio, credo intervenga anche nella vita di tutti i giorni, nella mia, perlomeno, succede, quando provo un sentimento che non ha un nome preciso, o se ce l’ha io non lo so.

Quel sentimento lì io l’ho riconosciuto, la prima volta, una volta che andavo a prendere una ragazza in stazione, era la prima volta che veniva a trovarmi, a Parma, abitavo a Parma, allora, e intanto che andavo in stazione, mi piaceva tanto, quella ragazza lì, intanto che andavo in stazione mi dicevo “Ma dove credi di andare, ma cosa credi di combinare, ma torna indietro, ma vai a casa”.

Era un misto di ritrosia e di vergogna, ritrosogna, si potrebbe chiamare, che brutto nome, ritrosogna, ecco io la ritrosogna, son passati vent’anni, e quella ragazza lì è diventata la mamma di mia figlia ma io la ritrosogna ce l’ho ancora, tutte le volte per esempio che devo partir per la Russia: “Ma cosa credi di combinare” mi dico, “ma dove credi di andare, ma torna indietro” mi viene da dirmi nella mia testa, “ma stai a casa”, invece poi ci vado, e mi sembra una cosa incredibile, che, nonostante la ritrosogna, riesco poi a andarci lo stesso.

E anche quando ho cominciato a scrivere questo libro sulla vita di Dostoevskij, nella mia testa mi dicevo “Ma cosa credi di fare, ma cosa vuoi scrivere, ma cosa credi di combinare, ma pianta lì”, invece adesso non pianto lì, vado avanti.

0.7 A cosa serve

Mentre scrivevo questo romanzo, nel gennaio del 2020, ho partecipato alla riunione di una rivista che si chiama “Qualcosa”.

L’argomento del numero di “Qualcosa” che stavamo preparando era: le storie sentimentali finite male; i disastri sentimentali, praticamente.

Noi, quella sera lì, le venti persone che erano lì, di quei momenti che abbiamo passato tutti, che siam stati male per amore, se così si può dire, di quei giorni così dolorosi che eravamo messi così male che ci sembrava di non esser mai stati tanto male nella nostra vita, e non ci sembrava possibile stare peggio, a ripensarci dopo degli anni, quella sera lì ci veniva da pensare “Ma come son stato male bene, quel giorno lì. Ma che bello, essere così vivi”.

Ecco.

Una cosa del genere.

1

Diventare Dostoevskij

1.1 Le balle

Nella prima cosa che ho letto in cirillico, di Dostoevskij, c’è una balla.

Una menzogna, direbbe forse lui.

È un pezzetto che si trova in un libro che si intitola Teksty i risunki (Testi e disegni), pubblicato a Mosca nel 1989 dalla casa editrice Russkij jazyk (Lingua russa), libro destinato agli studenti di russo.

Si tratta di una nota che Dostoevskij ha lasciato il 31 gennaio del 1873 nell’album dei ricordi di Ol’ga Aleksandrovna Kozlova, una sua conoscente di Pietroburgo.

Lì, a un certo momento Dostoevskij scrive:

«Per me, chissà perché, ricordare equivale a soffrire, e mi succede perfino che più felice è il ricordo suscitato, più forte è la sofferenza. Nello stesso tempo, nonostante tutto quel che ho perduto, la vita mi piace moltissimo: mi piace la vita per la vita, e, sono serio, mi preparo, ogni momento, a cominciarla, la mia vita. Presto avrò cinquant’anni, e ancora non sono riuscito a stabilire: sta per finire, la mia vita, o è appena cominciata? Ecco il tratto principale del mio carattere: forse anche della mia attività.»

Fëdor Dostoevskij

31 gennaio 1873

Bellissime parole, e vere, probabilmente.

La balla, o menzogna, riguarda i numeri. Dostoevskij è nato il 30 ottobre (nel calendario giuliano, quello in vigore in Russia, in quello gregoriano sarebbe l’11 novembre) del 1821, quindi il 31 gennaio del 1873 non aveva quarantanove anni, ne aveva cinquantuno. I cinquant’anni li aveva già compiuti da un po’.

Non fa niente, come direbbe il protagonista del suo primo romanzo, Devuškin.

A me, tra l’altro, le balle, le menzogne, piacciono, un po’ di anni fa ho cominciato un quadernetto dove volevo scrivere tutte le balle che raccontavo perché avevo l’impressione che mi avrebbero detto qualcosa su com’ero. L’ho tenuto per un po’, e la maggior parte delle balle che raccontavo riguardava il prezzo delle cose che compravo.

La mamma di mia figlia, che ha un carattere un po’ così, deciso, è laureata in Storia dell’Unione Sovietica e io la chiamo Togliatti perché lei è profondamente, intimamente, indubitabilmente convinta di essere “il migliore”, è una persona che tiene molto al risparmio; una volta ogni due mesi, d’inverno, riceve i complimenti del gestore del gas che la rifornisce per il fatto di aver consumato molto meno della media dei loro clienti: io mi dico, tra me e me, che quelle balle gliele racconto a fin di bene, per evitarle un dolore, ma forse è perché non voglio che abbia di me un’opinione ancora peggiore di quella che ha, che già non mi sembra mi consideri chissà che cosa.

Se dovessi dire cosa le piace, di me, a Togliatti, credo che direi che è la stessa cosa che a Bazarov, straordinario personaggio di Turgenev (da Padri e figli), piaceva dei russi, «la pessima opinione che hanno di sé stessi».

Ma forse mi sbaglio.

Io Togliatti non la capisco e non l’ho capita mai, e questa è una delle cose che mi piacciono, di lei.

Quel quadernetto poi l’ho interrotto, perché erano troppe, le cose da scriverci; io sono peggio, sicuramente, di Dostoevskij, ma il fatto che anche Dostoevskij abbia il mio difetto, raccontar delle balle, è una cosa che mi fa resistere agli attacchi di ritrosogna – “Ma come fai a mettere in fila la vita di Dostoevskij, ma chi ti credi di essere, Arrigo Petacco?” – e andare avanti come se sapessi benissimo dove voglio arrivare.

1.2 Firmato

La seconda (e ultima) moglie, di Dostoevskij, Anna Grigor’evna Dostoevskaja (nata Snitkina), racconta nelle sue memorie che, molti anni dopo la morte di Dostoevskij, il giovane compositore Sergej Prokof’ev, che stava scrivendo un’opera sul romanzo Il giocatore, che, come vedremo, è stato il romanzo che ha fatto incontrare Anna Grigor’evna e il suo futuro marito, le si era rivolto per una consulenza.

Al momento di salutarsi, dopo averla ringraziata per l’aiuto, Prokof’ev le aveva chiesto di lasciare qualche parola nel suo album.

Aveva avvisato Anna Grigor’evna che era un album singolare, di una persona singolare, un compositore russo, un tale Prokof’ev, un originale, che permetteva di scrivere sul proprio album solo cose che avevano a che fare col sole.

Anna Grigor’evna aveva preso la penna, ci aveva pensato un po’ e poi aveva scritto:

«Fëdor Dostoevskij: il sole della mia vita. Firmato: Anna Dostoevskaja.»

1.3 Già Dostoevskij

Anna Grigor’evna Snitkina conosce Dostoevskij nel 1866, quando lei ha vent’anni e lui quarantacinque, e lui la chiama perché ha bisogno di una stenografa alla quale dettare un romanzo che deve assolutamente scrivere entro la fine del mese, Il giocatore.

Lei ha letto i suoi romanzi, è, diremmo oggi, una sua fan, un’ammiratrice:

«Era stato lo scrittore preferito del mio povero padre – avrebbe poi scritto Anna –, e mi era familiare fin dall’infanzia. Io stessa, poi, ero entusiasta delle sue opere e avevo pianto leggendo le Memorie da una casa di morti.

E, d’un tratto, una fortuna del genere. Non solo conoscere quel celebre scrittore, poterlo anche aiutare nel suo lavoro!»

Quando Anna incontra il suo futuro marito per la prima volta, lui non è, semplicemente, un possibile datore di lavoro, è Dostoevskij: è già Dostoevskij.

1.4 Non ridete

Ma quand’è che Fëdor Michajlovič Dostoevskij, figlio di un medico militare, orfano di madre fin da quando ha quindici anni, ex ingegnere senza vocazione che, a ventidue anni, ha dato le dimissioni e ha rifiutato la modesta, tranquilla carriera che gli si prospettava, diventa il Fëdor Michajlovič Dostoevskij che conosciamo, quello che ci fa sanguinare, quello che se lo scriviamo su un computer il correttore automatico non lo segna come errore perché lo conosce anche lui?

Succede a San Pietroburgo all’inizio di giugno del 1845, in un appartamento al numero 64 della prospettiva Nevskij, all’angolo con la Fontan’ka, uno dei canali che attraversano il centro di Pietroburgo.

Uno dei primi giorni di giugno del 1845, Dostoevskij è uscito da quella casa, ha guardato il cielo,

«la giornata limpida, il sole, le persone che passavano e in tutto, e con tutto me stesso sentivo che era successo qualcosa di solenne, nella mia vita, una svolta definitiva, sentivo che era iniziato qualcosa di completamente nuovo, qualcosa che non avevo mai immaginato neanche nei miei sogni più appassionati (e io ero, allora, un terribile sognatore). “Ma davvero sono così grande?” ho pensato vergognoso in uno stato di timida gioia. Oh, non ridete, poi non ho più pensato che ero grande ma, allora, come potevo sopportare una cosa del genere? “Oh, sarò degno di questi elogi, e che uomini, che uomini! Ecco, dove sono gli uomini! Me lo meriterò, cercherò di diventare bello come loro, sarò leale!”

[…]

Oh, come sono frivolo, e se solo Belinskij sapesse che cose orribili e vergognose ci sono in me! E tutti dicono che questi letterati sono orgogliosi, egocentrici. Però, persone del genere si trovano solo in Russia, sono sole, ma sanno la verità, e la verità, il bene, la giustizia, trionfano sempre, e vincono sul vizio e sul male, vinceremo; oh, da loro, con loro!»

Ma cos’era successo? E chi è questo Belinskij? E quali sono le cose orribili e vergognose che ci sono in Dostoevskij? E chi sono quelle persone che si trovano solo in Russia? Cos’era successo?

1.5 Un intermezzo

Ci son due cose che mi dispiacciono, in quello che sto per scrivere: la prima, è che sto per scrivere una cosa che ho già scritto in altri libri (succede anche a Dostoevskij, di ripetere le cose da un libro all’altro, ma a me di più); la seconda, che la cosa che sto per scrivere è un po’ immodesta, per i motivi che dirò più avanti.

Mi son ricordato di una volta che, avevo appena cominciato a abitare con Togliatti, e avevo appena firmato un contratto con una grande casa editrice che si chiama Einaudi, e una sera, non so perché, non lo facevo quasi mai, ma, aspettando che Togliatti tornasse a casa, mi ero messo a lavare i piatti e, intanto che lavavo i piatti, “Ma pensa” avevo pensato, “uno che sta per firmare un contratto con una grande casa editrice che si chiama Einaudi, guardalo qua che lava i piatti. Che umiltà” avevo pensato, e poi mi ero fermato nel mio lavare, “Ma sei deficiente?” avevo pensato.

Ero deficiente.

Mi succede, di essere deficiente, abbastanza spesso, anche.

C’è uno straordinario poeta e drammaturgo italiano che si chiama Raffaello Baldini che, in un suo straordinario testo teatrale che si intitola La fondazione, ha fatto dire al protagonista una battuta: «C’è una battuta, a proposito di battute, che la diceva sempre il maestro Liverani: “La battaglia contro la coglionaggine comincia da sé stessi”».

Ecco io, per quanto possa essere poco interessante, io devo dire che la mia coglionaggine non la combatto, la assecondo. Mi piace, quando mi accorgo di essere un deficiente, sono momenti memorabili. E, per quanto possa essere immodesto, ho l’impressione che a Dostoevskij succedesse la stessa cosa.

1.6 La cosa peggiore di Turgenev

In una lettera del 1867 al poeta e membro dell’Accademia delle Scienze Apollon Nikolaevič Majkov, Dostoevskij racconta che, a Ginevra, è passato a trovare Turgenev, cosa che non avrebbe voluto fare:

«Ho rimandato, ho rimandato – scrive –, poi alla fine ho deciso di fargli visita. Sono andato a mezzogiorno, e l’ho trovato che faceva colazione. Le parlo francamente: a me, anche prima, questo signore non è mai piaciuto. E la cosa peggiore è il fatto che io, già da tempo, da Wiesbaden, gli devo cinquanta talleri, e non glieli ho mai ridati!»

Ecco.

La cosa peggiore di Turgenev, è che Dostoevskij gli deve dei soldi.

1.7 Un personaggio di Tolstoj

Se c’è, nella letteratura russa, uno che sa stare al mondo, mi sembra sia il fratello di Anna Karenina, Stepan Arkadič Oblonskij, detto Stiva, il capofamiglia della prima famiglia infelice che troviamo in quel romanzo straordinario (ho paura che, in questo libro, l’aggettivo più usato sarà straordinario, portate pazienza).

Quando a Mosca, nella prima parte di Anna Karenina, arriva, dalla campagna, Lëvin per chiedere la mano della figlia di Stiva Oblonskij, Kitty, Stiva lo porta al ristorante, e, dovendo scegliere tra due dei suoi ristoranti preferiti, sceglie quello dove ha il debito più grande.

Il contrario di Dostoevskij, che, le persone con cui ha dei debiti, cerca di evitarle, che provinciale, ma questo fatto, invece di nasconderlo, e di nasconderselo, ce l’ha ben presente e lo fa bene presente: «Questo signore [Turgenev] non mi è mai piaciuto. E la cosa peggiore [di Turgenev] è il fatto che io, già da tempo, da Wiesbaden, gli devo cinquanta talleri, e non glieli ho mai ridati!».

In uno (straordinario) libro di Serena Vitale, Il bottone di Puškin, c’è un’amica di Puškin, una donna molto bella, molto intelligente, molto colta e molto di mondo, come Stiva, che dà confidenza a chiunque, anche a soggetti che Puškin non toccherebbe neanche con un bastone, tanto sono cattivi, ignoranti e repellenti.

Quando Puškin le chiede cosa ci trova, nella conversazione di quei soggetti, lei lo guarda stupita e gli dice: «Tu non sai cosa ignora quell’uomo!».

Ecco, a me sembra che Dostoevskij, e i suoi personaggi, si stupiscano, spesso, non dell’ignoranza altrui, ma della propria, ignoranza, dei propri difetti, della propria cattiveria, delle proprie limitazioni, e che, invece di nasconderli, li mettano in mostra: guardate, guardate che spettacolo.

E hanno ragione: è uno spettacolo.

La scoperta delle loro deficienze, della loro coglionaggine, direbbe forse Baldini, è una grande scoperta, per Dostoevskij e per noi che lo leggiamo.

Ma andiamo con ordine.

1.8 Cos’era successo

Torniamo al momento in cui Dostoevskij non è ancora Dostoevskij, è un ingegnere che ha dato le dimissioni dal servizio e che vuol provare a fare della propria passione, la letteratura, un mestiere.

Comincia con le traduzioni.

Tra la fine del 1844 e l’inizio del 1845, con il fratello Michail e il compagno di studi Oskar Petrovič Patton, decidono di tradurre, in tre, un terzo ciascuno, e di pubblicare, a loro spese, e di mettere in commercio, Mathilde, romanzo di Eugène Sue.

Dopo qualche settimana Patton deve partire per il Caucaso e non se ne fa niente.

Dostoevskij traduce, allora, da solo, il romanzo di George Sand La dernière Aldini, uscito in Belgio nel 1838.

Dopo aver finito la traduzione scrive al fratello: «Mi è successa una cosa poco simpatica. Figurati come ci sono rimasto, quando mi sono accorto che il romanzo che avevo appena finito di tradurre l’hanno già tradotto».

Il grande critico russo Viktor Šklovskij, in una specie di saggio autobiografico intitolato Racconto sull’OPOJAZ, scrive: «Se, per una ragione qualsiasi, vi dovesse succedere di ricominciare a vivere, non abbiate paura degli insuccessi».

1.9 Non aveva paura

Non aveva paura, degli insuccessi.

All’epoca, Dostoevskij va a abitare con Dmitrij Vasil’evič Grigorovič, che aveva studiato ingegneria come lui, che, come lui, era appassionato di letteratura e che, come lui, sarebbe diventato un letterato.

Grigorovič racconta che, quando va a vivere con Dostoevskij, Dostoevskij ha appena finito di tradurre il romanzo di Balzac Eugénie Grandet.

«Balzac» scrive Grigorovič «era il nostro scrittore preferito; dico “nostro” perché ne eravamo entrambi appassionati e lo consideravamo di gran lunga superiore a tutti gli altri scrittori francesi.»

Una rivista, “La biblioteca di lettura”, inaspettatamente accetta di pubblicare la traduzione e Dostoevskij è contentissimo.

È la prima cosa che riesce a pubblicare, la traduzione di un romanzo del suo scrittore preferito, «una traduzione fantastica», scrive al fratello Michail.

Le riviste russe, i cosiddetti tolstye žurnaly(riviste grosse), all’epoca, e per tutto il Novecento, funzionano così, pubblicano, anche, interi romanzi.

E mi sembra di vederlo, Dostoevskij, che aspetta l’uscita della sua prima cosa stampata e che pregusta l’incredulità di vedere il proprio nome, tutto per intero, in caratteri di stampa: «Traduzione di: Fëdor Michajlovič Dostoevskij».

Quando alla fine riesce a recuperare l’ultimo numero della “Biblioteca di lettura”, lo scorre per cercare Eugénie Grandet e la trova.

Che meraviglia.

E cerca il nome del traduttore, e non lo trova. Perché non c’è.

E scorre le pagine, e si accorge che il romanzo che lui ha tradotto è stato ridotto di un terzo.

La cura dei redattori russi dell’epoca non era impeccabile, da un punto di vista filologico, bisogna dire.

Dostoevskij ci resta molto male, ma non rinuncia nemmeno dopo questo insuccesso.

Non aveva paura, degli insuccessi.

1.10 Povera gente

Dice Grigorovič che Dostoevskij, in quel periodo, passa giornate intere, e notti, perfino, alla scrivania.

Quando lui gli chiede che cosa sta facendo, Dostoevskij non risponde, o risponde a monosillabi e non si capisce niente di quello che dice.

Fino a che, una mattina, Dostoevskij non chiama Grigorovič nella sua stanza.

Ha in mano un grande quaderno e gli dice: «Siediti, Grigorovič. L’ho ricopiato ieri, voglio leggertelo; siediti, e non interrompermi».

E gli legge, tutto d’un fiato, un romanzo, Povera gente.

«Avevo sempre avuto un’alta opinione di Dostoevskij – ricorda Grigorovič –; la sua erudizione, le sue conoscenze letterarie, i suoi giudizi e la serietà del carattere avevano su di me un grande effetto. Mi chiedevo spesso come era potuto succedere che io fossi già riuscito a scrivere qualcosa, e che questo qualcosa fosse stato pubblicato, come potessi ritenermi già in qualche modo un letterato mentre Dostoevskij non aveva ancora fatto niente, in questo campo. Dalle prime pagine di Povera gente capii che quello che aveva scritto Dostoevskij era meglio di tutto quello che avevo composto io fino a quel momento; questa convinzione si rafforzava man mano che la lettura proseguiva. Pieno di ammirazione, ebbi la tentazione di saltargli al collo; mi tratteneva solo la sua avversione per le effusioni rumorose e espressive. Però non riuscivo a stare seduto tranquillo al mio posto e ogni tanto interrompevo la lettura con esclamazioni entusiaste.»

Alla fine della lettura, Grigorovič prende il manoscritto e lo porta a un suo amico, Nikolaj Nekrasov, che è un poeta giovane (nato anche lui nel 1821, come Dostoevskij) ma già molto conosciuto.

1.11 Quella nottata

Dostoevskij ricorda che la sera di quello stesso giorno, una volta dato il manoscritto a Grigorovič, era andato in periferia, a trovare uno dei suoi vecchi compagni.

Avevano parlato per tutta la notte di Anime morte, il romanzo di Gogol’, e l’avevano letto, anche.

«Allora – scrive Dostoevskij – succedeva così, tra i giovani: si riunivano in due, tre e: “Se leggessimo Gogol’, signori?”, e si sedevano e leggevano, magari per tutta la notte. Allora moltissimi, tra i giovani, erano come toccati da qualcosa, era come se aspettassero qualcosa.»

Sarebbe come se oggi, in Italia, dei ventenni si trovassero per passare una sera insieme e a un certo punto uno dicesse: «E se leggessimo Foscolo, ragazzi?». E gli altri dicessero «Certo, com’è che non ci abbiamo pensato noi, leggiamo Foscolo!».

1.12 Stranissimo

È stranissimo, per un italiano, come me, constatare l’importanza che gli scrittori hanno avuto in Russia; non solo Dostoevskij, gli scrittori russi in quanto scrittori, il loro ruolo sociale.

Tolstoj, per esempio, aveva fondato una specie di religione, c’era gente che si comportava come Tolstoj, andava in bicicletta come Tolstoj, mangiava come Tolstoj, c’erano i ristoranti, per tolstojani.

Come se oggi, in Italia, ci fosse della gente che mangia come Saviano.

O come Scurati.

O come Michela Murgia.

O come Paolo Nori, Dio ci scampi e liberi.

1.13 Una cosa più importante del sonno

Comunque loro, Dostoevskij e il suo amico, leggono Gogol’, Anime morte, e Dostoevskij torna a casa che son già le quattro del mattino; siamo alla fine di maggio, a Pietroburgo ci sono le notti bianche, non tramonta mai il sole, la notte pietroburghese è luminosa quasi come il giorno.

«C’è un tempo bellissimo – scrive Dostoevskij –, fa caldo. Entrato nel mio appartamento, non vado a dormire, apro la finestra e mi siedo lì vicino. D’un tratto il campanello mi fa fare un salto: sono Grigorovič e Nekrasov, che mi si gettano al collo in preda all’entusiasmo e poco manca che si mettano a piangere. La sera prima sono rientrati a casa presto, hanno preso il mio manoscritto e hanno cominciato a leggerlo, per vedere com’era.»

Pensano di leggerne dieci pagine; arrivano a pagina dieci, decidono di leggerne altre dieci e poi, senza fermarsi, rimangono lì tutta la notte, fino al mattino, leggendo ad alta voce e alternandosi, quando uno si stanca.

«“Stava leggendo della morte dello studente – mi disse poi a tu per tu Grigorovič – e d’un tratto mi accorgo che, nel punto in cui il padre corre dietro alla bara, a Nekrasov viene a mancare la voce, una volta, un’altra, e d’un tratto non ce la fa, sbatte il palmo sul manoscritto: – Ah, accidenti a lui! – voleva dire: accidenti a lei. E così siamo andati avanti tutta la notte.” Quando finiscono, sono d’accordo di venire subito da me. “Che importa se dorme, lo svegliamo, questa cosa è più importante del sonno!”»

Nekrasov poi dice che porterà subito il manoscritto a Vissarion Belinskij.

1.14 Vissarion Belinskij

Credo che i giornalisti più celebri, nella Russia dell’epoca, non fossero quelli che commentavano la politica, come oggi in Italia, ma quelli che commentavano, raccontavano, e sostenevano la letteratura, e che il più celebre, tra i celebri giornalisti russi dell’epoca, fosse Vissarion Belinskij.

Vissarion Belinskij, nella Russia del primo Ottocento, era come Marco Travaglio nell’Italia di oggi, solo che, diversamente da Marco Travaglio, Belinskij non aveva a che fare con Berlusconi, Bersani, D’Alema, Veltroni, Renzi, Salvini, Di Maio o Di Battista, aveva a che fare con Puškin, Gogol’, Lermontov, Turgenev, Dostoevskij, Herzen, Leskov, Aksakov, Gončarov, Saltykov-Ščedrin eccetera eccetera.

È stato un periodo, è quasi inutile sottolinearlo, straordinario.

1.15 Diario di uno scrittore

Più di trent’anni dopo, nel 1877, nel numero di gennaio di una rivista che Dostoevskij avrebbe fatto da solo, che si chiamava “Diario di uno scrittore” e che avrebbe avuto un successo straordinario, nel numero di gennaio del 1877 avrebbe scritto:

«Tutti i nostri critici (e io seguo la letteratura da quasi quarant’anni), sia i defunti sia gli attuali, tutti, in una parola, quelli almeno che io ricordo, appena cominciavano un qualsiasi resoconto sulla letteratura russa corrente (un tempo, per esempio, solevano esserci nelle riviste, nel mese di gennaio, resoconti di tutto l’anno precedente), adoperavano più o meno, ma con grande amore, sempre la stessa frase: “Al tempo nostro, in cui la letteratura è in un tale ristagno”, oppure “In questo tempo così povero di letteratura”, oppure “Vagando nei deserti della letteratura russa” ecc. ecc. Una stessa idea in mille forme. E pure in questi ultimi quarant’anni sono uscite le ultime opere di Puškin, ha cominciato e ha finito Gogol’, c’è stato Lermontov, sono apparsi Ostrovskij, Turgenev, Gončarov, e almeno un’altra decina di scrittori di grande ingegno»

che potrebbero essere, per esempio, lo stesso Dostoevskij, Lev Tolstoj, Nikolaj Leskov, Aleksandr Herzen, Sergej Aksakov, Nikolaj Černyševskij, Michail Saltykov-Ščedrin, Fëdor Tjutčev, Nikolaj Nekrasov e Afanasij Fet, perlomeno, per non parlare di Koz’ma Prutkov, che era un celebre aforista che aveva scritto «Anche una fontana ha diritto di riposarsi», e «Non si abbraccia l’inabbracciabile», e «Vuoi essere felice? Siilo».

1.16 Ma torniamo al maggio del 1845

Nekrasov, quindi, porta il manoscritto a Belinskij.

«È comparso il nuovo Gogol’!» gli grida entrando da lui con in mano Povera gente.

«Da voi i Gogol’ crescono come funghi» risponde Belinskij, ma il manoscritto lo prende.

Quando Nekrasov torna da lui, la sera dopo, Belinskij è agitatissimo: «Me lo porti, me lo porti subito!».

E Nekrasov glielo porta.

1.17 Con un tratto

«Mi ricordo – scrive Dostoevskij – che al primo sguardo sono rimasto molto colpito dal suo aspetto, dal suo naso, dalla sua fronte. Me l’ero immaginato, chissà perché, in modo completamente diverso: “Uno spaventoso, terribile critico”. Mi ha accolto in modo straordinariamente solenne e freddo.

“Be’, deve essere così” ho pensato, ma non è passato, forse, neanche un minuto, che tutto è cambiato: la solennità non dipendeva dal personaggio, dal grande critico che accoglie uno scrittore esordiente ventiduenne [ne ha ventitré, in realtà] ma, per così dire, dal rispetto per quei sentimenti che voleva trasmettermi il prima possibile, dalle parole importanti che aveva fretta di dirmi. Parlò con passione, con gli occhi che brillavano: “Ma lo capisce lei – mi ripeté più volte, e gridando come faceva di solito – quello che ha scritto?”. Gridava sempre quando era infervorato.

“Solo d’istinto, è stato capace di scriverlo, da artista; ma ha compreso, lei, tutta la terribile verità che ci ha fatto vedere? Non è possibile che a vent’anni l’abbia già capito. Ma questo suo infelice impiegato si è comportato in un modo, e si è spinto a tal punto che per la vergogna non osa nemmeno ritenersi infelice, e quasi considera la minima lamentela una manifestazione del libero pensiero, e non osa neppure ammettere di ritenersi infelice, e quando un uomo buono, il suo generale, gli dà questi cento rubli, è distrutto, annichilito dallo stupore che qualcuno come lui possa far compassione a ‘la loro eccellenza’, non sua eccellenza, ‘la loro eccellenza’, come dice lui nel romanzo! Ma il bottone staccato, il bacio alla mano del generale che dura un minuto, per quest’infelice non son dispiaceri, ma orrori, orrori! Nella sua gratitudine sta il suo orrore! È una tragedia! E lei ha toccato l’essenza stessa della questione, ha indicato subito la cosa più importante. Noi, giornalisti e critici, ragioniamo solo, cerchiamo di chiarirlo a parole, invece lei, un artista, con un tratto, di colpo, con un’immagine mostra la vera essenza, in modo che si possa toccare con mano, in modo che al lettore più irragionevole diventi, all’improvviso, tutto chiaro. Ecco il segreto dell’arte, ecco la verità dell’arte! Ecco il servizio dell’artista al vero! A lei la verità viene rivelata e annunciata come a un artista, le viene data come un dono, apprezzi il suo dono e gli resti fedele, e sarà un grande scrittore!…”.»

1.18 A dormire

Quando Dostoevskij esce da casa di Belinskij, si trova poi lì, sulla prospettiva Nevskij, davanti al civico 64, all’angolo con la Fontan’ka, e si accorge, come abbiamo già detto, che «è iniziato qualcosa di completamente nuovo, qualcosa che non avevo mai immaginato neanche nei miei sogni più appassionati (e io ero, allora, un terribile sognatore)».

Quella casa, che all’epoca si chiamava Casa Lopatin, era, nel 1845, una delle più grandi di Pietroburgo: conteneva diciotto appartamenti, ed era una casa nella quale, come ha scritto Belinskij, si poteva «abitare per degli anni senza conoscere i propri vicini».

L’ultima volta che ci sono passato davanti era dipinta di un colore tra il rosa shocking e il ciclamino, a pianterreno c’era una società che, a guardarla da fuori, sembrava una specie di banca, o di finanziaria, al primo piano mi è sembrato di capire che affittassero delle stanze: ho cercato su internet prospettiva Nevskij, 64, è vero: uno, se vuole, oggi, nel 2021, può andare a dormire nella casa dove Dostoevskij è diventato Dostoevskij.

1.19 Un romanzo

Balzac, lo scrittore preferito di Dostoevskij e Grigorovič, dice che un romanzo dev’essere una cosa inaudita.

E uno che scrive un romanzo ha, probabilmente, da una parte, quella pulsione lì, a scrivere una cosa inaudita, dall’altra, si aspetta che il mondo reagisca, alla cosa inaudita che lui gli dà.

1.20 Il mondo

Cosa succede, quando compare un romanzo inaudito?

Non un bel romanzo, non un romanzo passabile, non un romanzo carino; uno che scrive dei romanzi, non scrive per scrivere un romanzo carino, scrive per scrivere una cosa che prima non c’era, una cosa che non è mai stata detta, che nessuno ha mai sentito, una cosa inaudita: e cosa succede, quando compare un romanzo inaudito?

Credo succeda quel che è successo quando ho sentito quella ferita che mi si è aperta mentre leggevo Delitto e castigo.

Quello è l’effetto che dovrebbe fare la comparsa di un romanzo, ed è una cosa che non succede solo coi romanzi: quando ho sentito leggere in russo una poesia di Anna Achmatova, autunno del 1988, in viale San Michele, a Parma, la prima volta che sentivo la lingua russa, il suono che fa la lingua russa, quella volta lì, la poesia è Il re dagli occhi grigi, l’effetto che ha fatto quella poesia lì è che la stanza dove eravamo si è dipinta di blu, è diventato tutto leggero ed è stato chiarissimo, non avevo più dubbi, io avrei studiato il russo per il resto della mia vita.

Mi è successo poi diverse volte, nella mia vita, di essere sotto un palco a sentire qualcuno che parlava di un libro, o che leggeva una poesia, o che cantava una canzone, e di sentirmi, insieme agli altri che ascoltavano, insieme al pubblico, un’unica bestia: respiravamo all’unisono.

L’arte, i romanzi, fanno quello, forse: determinano la frequenza dei tuoi respiri, guidano il flusso del tuo sangue, comandano il tuo sistema nervoso, e uno che decide, coscientemente, di scrivere un romanzo, io credo che, come minimo, inconsciamente si aspetti questo, di determinare i respiri, di guidare il flusso del sangue, di comandare i sistemi nervosi.

Per quello, un momento in cui il primo romanzo sta per uscire è un momento terribile, per chi l’ha scritto, perché ha l’impressione di essere sul punto di trasformarsi in qualcuno che è capace di fare qualcosa che pochissimi, tra i suoi simili, sanno fare.

1.21 Non sono esigente

Povera gente, il primo romanzo di Dostoevskij, è, forse, oggi, tra i romanzi di Dostoevskij che hanno avuto successo, il meno letto; per questo, nel raccontarlo, non ho nessun attacco di ritrosogna: verranno, ho paura, quando si tratterà di parlare di Delitto e castigo, o dell’Idiota, o dei Fratelli Karamazov (“Ma cosa credi, di spiegare I fratelli Karamazov? Ma chi ti credi di essere? Ma lascia perdere!”).

Povera gente è un romanzo epistolare composto da 54 lettere che, dall’8 aprile al 30 settembre, si scambiano un povero copista di una certa età, Makar Devuškin, e una povera, giovane orfana, Varvara (detta Varen’ka) Dobroselova, che abita di fronte a Makar in un gruppo di povere case poco lontano dalla Fontan’ka.

«Manifestate il desiderio, matočka – scrive Makar il 12 aprile –, di conoscere la mia vita nel dettaglio, e tutto quel che mi circonda. Con gioia mi affretto a esaudire il vostro desiderio, mia carissima. Comincerò dal principio, matočka, così ci sarà un ordine maggiore. In primo luogo, in casa nostra, la scala dell’ingresso principale è più che passabile; la scala di servizio, invece, meglio non parlarne: a chiocciola, umida, lercia, con i gradini sbrecciati e le pareti così unte che la mano resta appiccicata quando ci si appoggia sopra. Sui pianerottoli bauli, sedie, armadi sventrati, robe vecchie appese, finestre rotte; ci sono tinozze con ogni genere di sporcizia, sudiciume, pattume, gusci d’uovo e interiora di pesci; l’odore è nauseabondo… per farla breve, non è una bella cosa.»

Dentro:

«Immaginate, più o meno – scrive Makar –, un lungo corridoio, del tutto buio e sporco. Sulla destra, una parete cieca, sulla sinistra porte e ancora porte, che si stendono in fila come stanze d’albergo. E questi quartierini li affittano, e dentro ciascuno c’è una stanza; e in una stanza ci vivono in due, in tre. Di ordine nemmeno a parlarne, una vera arca di Noè! D’altra parte, a quanto pare si tratta di brave persone, tutte istruite e colte. La padrona di casa è una vecchiaccia molto piccola e sporca, sta tutto il giorno in ciabatte e tutto il giorno non fa che gridare.»

La casa,

«nulla da dire, è comoda, ma in qualche modo non ci si respira, cioè, non è che ci sia un cattivo odore, ma, se così ci si può esprimere, c’è come una puzza di marcio, acuta e dolciastra. All’inizio l’impressione è sfavorevole, ma non fa niente, basta restare da noi un paio di minuti e tutto passa e non lo senti più, e tutto passa perché tu stesso cominci a puzzare, e il vestito puzza, e le mani puzzano, e tutto puzza e poi ti ci abitui. È per quello che da noi muoiono i canarini. Il guardiamarina ne ha già comprati cinque, ma loro non vivono con la nostra aria, è per quello che gli son morti tutti.»

In questo contesto abitativo, Makar si è sistemato in un modo abbastanza originale: abita dietro un tramezzo nella cucina comune, che, a sentire lui,

«è grande, spaziosa e piena di luce. È vero – scrive poi dopo –, al mattino c’è un po’ di fumo, quando cuociono il pesce o la carne, e poi versano l’acqua e lavano dappertutto.»

Oltretutto

«in cucina, su delle corde, è sempre appesa della vecchia biancheria, e l’odore della biancheria dà un po’ fastidio, ma non fa niente.»

I coinquilini di Makar non sono ricchi nemmeno loro, sono poveri, ma sono tutti più ricchi di lui, perché si possono permettere una stanza tutta per loro. Il vantaggio dell’angolino di Makar, dietro un tramezzo, in cucina, in mezzo all’odore del pesce e alla biancheria, sta nel fatto che costa poco. Così, Makar può permettersi anche di bere il tè, che prima non beveva e che non berrebbe neanche adesso, se fosse per lui, ma

«c’è da vergognarsi, mia carissima, a non bere il tè: qui sono tutte persone che stanno bene, e così ci si vergogna. Ed è per gli altri che lo si beve, Varen’ka, per l’apparenza, per darsi un tono, mentre per me è lo stesso, non sono esigente.»

1.22 Come scrive Makar

Questo Makar Devuškin, aspira a scrivere meglio, perché un po’ si vergogna, del proprio stile. «Io» scrive «non ho talento. Anche se mi metto a imbrattare dieci pagine, non ne vien fuori niente, non c’è nessuna descrizione. Ci ho anche provato!» scrive Devuškin; eppure questo libro, il romanzo con cui Dostoevskij, secondo Belinskij, è andato più avanti di Gogol’, è fatto quasi solo dello stile di Makar, che ha un modo di scrivere che sembra Sancio Panza, tutto fatto di modi di dire, di proverbi, e di diminutivi.

Varvara, per esempio, nel corso della corrispondenza la chiama «mia inestimabile», «mia ostinata», «anima mia», «mia piccola colomba», «angioletto mio», «mia egregia signorina», «mia piccola amica», «briciolina mia», «luce mia», «luce dei miei occhi», «animuccia mia», «cara amica», «graziosissima», «orfanella», «mia carissima», «Varen’ka», «matočka»; che è, quest’ultima, una variante popolare, contadina, del più comune matuška, che letteralmente significa «mammina», e col quale ci si rivolgeva, e ci si rivolge ancora, in Russia, a una donna che è cara a chi parla, e che, generalmente, ma non necessariamente, è più anziana di chi parla.

Questo appellativo, «matočka», comune nella lingua parlata, non lo era nella lingua scritta, Dostoevskij è stato il primo, a metterlo per iscritto, e questo sarà notato non solo dai vocabolari, come vedremo.

1.23 Uno dei protagonisti di Povera gente

Uno dei protagonisti di Povera gente è un personaggio che, come in una commedia di Bulgakov, pur essendo uno dei protagonisti (il protagonista, nella commedia di Bulgakov), non compare mai: Aleksandr Sergeevič Puškin.

Nelle pagine in cui Varen’ka racconta la sua vita precedente, confessa di essersi innamorata di un giovane istitutore, Pokrovskij, e che, quando Pokrovskij aveva compiuto gli anni, lei aveva speso tutto quel che aveva, non tantissimo, per regalargli una raccolta delle opere di Puškin; quando poi capisce che Makar Devuškin ha la passione della scrittura, gli regala un libro, I racconti di Belkin, di Puškin, e Devuškin legge un racconto, Il direttore della stazione di posta, e reagisce così:

«Ora, vi voglio dire, matočka, che capita di vivere e di non sapere che lì, accanto a te, c’è un libretto nel quale tutta la tua vita è esposta come sul palmo di una mano. E quello che prima a te era incomprensibile, adesso, appena cominci a leggere questo libretto, a poco a poco tutto ti viene in mente, e lo scopri, e lo decifri, e sapete perché mi sono innamorato del vostro libretto? Ci sono delle opere che, per quanto tu le legga, per quanto ti ci impegni, sono scritte con tanta intelligenza che è come se tu non le capissi. Io, per esempio, di mio, sono un po’ stupido, allora non posso leggere opere troppo importanti, ma questa, al contrario, la leggi, è come se l’avessi scritta tu stesso, proprio come se tu avessi preso il tuo cuore, così com’è, l’avessi rivoltato da una parte all’altra di fronte alla gente, e avessi descritto tutto, nel dettaglio, e avessi detto: “Ecco, guardate com’è”. Sì, ed è tutto semplicissimo, e anch’io l’avrei scritto così, e perché non l’ho fatto?»

si chiede Devuškin.

E alla fine, non voglio dire come va a finire, Povera gente, ma alla fine, quel che resta, l’ultimo oggetto che viene nominato in questo primo romanzo di Dostoevskij, è un libro di racconti di Aleksandr Sergeevič Puškin, I racconti di Belkin.

Un po’ come nella biografia di Dostoevskij.

Quando Dostoevskij arriva a Pietroburgo, nel 1837, uno dei primi posti in cui va è la casa dove, fino a pochi mesi prima, aveva vissuto Puškin, che era morto in duello nel gennaio del 1837, a trentasette anni.

Dostoevskij, in quel 1837, è in lutto, per la morte della madre, e anni dopo dice che, se non fosse stato in lutto per sua mamma, si sarebbe messo in lutto per la morte di Puškin.

E l’ultima cosa che scrive, Dostoevskij, l’ultimo suo straordinario successo, l’ultimo di una lunghissima serie di fallimenti e di successi, è un celeberrimo discorso su Puškin nel quale dice che «mai, nessuno scrittore russo, né prima né dopo di lui, è mai stato così in confidenza, così visceralmente vicino al proprio popolo come Puškin».

Ma cosa aveva fatto, Puškin, di così importante, per meritarsi tutte queste attenzioni?

Adesso proviamo a raccontarlo, prima però voglio dire altre due o tre cose che sono dentro Povera gente e raccontare cosa succede quando il romanzo poi esce.

1.24 Nominarle

Dostoevskij, fin dall’inizio, scrive di cose che si fa fatica non solo a scriverle, anche a nominarle, e non solo a nominarle, anche a pensarle.

I bambini, per esempio, quando muoiono.

Il primo romanzo, Povera gente, la prima bara di un bambino.

In una delle famiglie che abitano con Devuškin, i Gorškov, muore il primogenito, un bambino di nove anni. Non si sa di cosa, forse di scarlattina. Una bara piccola, semplice, bella. La sorella, sei anni, tace, appoggiata alla bara, con in mano una caramella che non mangia. Seria, pensierosa.

«A me non piace, matočka» scrive Devuškin, «quando un bambino si fa pensieroso.»

1.25 Il futuro

C’è un regista russo che si chiamava Kulešov che una volta ha fatto un esperimento destinato a diventare celebre, nella storia del montaggio (si chiama Effetto Kulešov).

Ha filmato quattro sequenze: qualche secondo del primo piano di un attore, che si chiamava Mozžuchin, che guardava in lontananza; qualche secondo di una zuppa fumante; qualche secondo di un bambino steso, come se fosse morto, dentro una bara; qualche secondo di una ragazza su un divano che guardava, languida, la cinepresa.

Poi Kulešov, il regista, aveva montato le sequenze in questo modo: primo piano dell’attore-zuppa fumante; primo piano dell’attore-bambino nella bara; primo piano dell’attore-ragazza sul divano.

E la faccia dell’attore, Mozžuchin, nel primo montaggio sembrava una faccia affamata, nel secondo una faccia disperata, nel terzo una faccia innamorata, e la faccia era sempre quella, e l’esperimento di Kulešov dimostra che il significato che si attribuisce a una cosa cambia a seconda delle cose che la circondano, e viene in mente quel paradosso di Mommsen che dice che ci son delle volte che il futuro getta le sue ombre sul passato, che è quello che succede nelle tre sequenze di Kulešov: che la faccia di Mozžuchin si colora dell’ombra di quel che le succede (cioè di quel che vien dopo di lei), prende il colore del futuro, in un certo senso.

Questa cosa succede, delle volte, nel rapporto tra la biografia di Dostoevskij e le opere che scrive.

Cioè a Dostoevskij capita, come a tutti, che delle cose che scrive riflettano cose che gli sono successe in passato, ma a lui succede anche che delle cose che ha scritto, nel passato, si realizzino in futuro.

1.26 La miseria

Il povero Devuškin fa continuamente dei regali, alla povera Varen’ka, dei fiori, delle caramelle, e per Varen’ka rinuncia a bere il tè, e si fa prendere in giro, e fa dei debiti, e quando passa davanti a un mendicante e sente dire «In nome di Cristo», è costretto a passare senza dir niente, e a me viene in mente quando mia figlia era piccola, che voleva che facessi l’elemosina a tutti i mendicanti che incontravamo e io non lo facevo e mi sentivo malissimo, ma questo non c’entra, e quando il povero Devuškin va in rovina, Varen’ka lo viene a sapere e gli dà i pochi soldi che ha, delle copeche, dei centesimi, e questa miseria, questi due poveretti a me hanno ricordato quel che si legge nelle memorie della seconda moglie di Dostoevskij, Anna, che racconta che alla fine del 1867, a Ginevra, la sera, verso le sette, lei e il marito andavano a passeggiare, e, per non stancarla (lei era incinta), si fermavano spesso davanti alle vetrine illuminate dei negozi di lusso, e Fëdor Michajlovič le faceva vedere i gioielli che le avrebbe regalato se fosse stato ricco.

«Dobbiamo rendergli giustizia: mio marito aveva gusto artistico, e i gioielli che sceglieva erano deliziosi» scrive Anna Dostoevskaja.

1.27 I bambini

E quando, nel romanzo scritto nel 1845, si legge del bambino, e della bara nuova fatta fare apposta, viene in mente di quando a Dostoevskij nasce la primogenita (Sonja, chiamata così in onore di Sonja Marmeladova, la protagonista di Delitto e castigo, che di mestiere faceva la prostituta, avevano un bel coraggio, Dostoevskij e sua moglie), e la lettera che Dostoevskij manda a Majkov nel marzo del 1868:

«La bambina ha solo un mese – scrive Dostoevskij – e ha persino la mia stessa espressione sul viso, la mia intera fisionomia, le rughe sulla fronte; sta stesa come se stesse componendo un romanzo! Non sto parlando di tratti. Persino la sua fronte, stranamente, assomiglia alla mia. Da questo, ovviamente, potrebbe sembrare che lei non sia così bella (perché io sono un fusto solo agli occhi di Anna Grigor’evna, dico sul serio!). Ma Lei, che è un artista, sa benissimo che si può non avere esattamente un bel viso, ma essere comunque molto graziosi.»

E, soprattutto, torna in mente quel che scrive Anna Grigor’evna, di quei giorni a Ginevra, nel 1868:

«Con mia grande felicità, Fëdor Michajlovič si rivelò essere il più tenero padre; assisteva immancabilmente al bagno della bambina e mi aiutava, lui stesso l’avvolgeva in una coperta da picnic chiusa con delle spille inglesi; la portava in braccio e la faceva dondolare e, abbandonando i suoi impegni, si affrettava verso di lei, non appena sentiva la sua vocetta. La prima domanda al suo risveglio o al suo ritorno a casa era: “Come sta Sonja? Sta bene? Ha dormito bene, ha mangiato?”»

Fëdor Michajlovič passava ore accanto alla sua culla, a volte cantando canzoni per lei, a volte parlandole, e quando aveva tre mesi era sicuro che Sonja lo avesse riconosciuto, e questo è quello che scrisse a Majkov il 18 maggio 1868:

«Questa piccola creatura, a tre mesi, così misera, così minuscola, per me era già un volto e una personalità. Cominciava a riconoscermi, a volermi bene, e sorrideva quando mi avvicinavo. Quando le cantavo delle canzoni con la mia voce ridicola, le piaceva ascoltarle. Non piangeva né aggrottava le sopracciglia quando le davo un bacio; smetteva di piangere quando mi avvicinavo.»

«Ma non ci è stato dato molto tempo per goderci la nostra felicità – continua la moglie di Dostoevskij –. Nei primi giorni di maggio, il tempo era meraviglioso e noi, su consiglio insistente del medico, portavamo la nostra cara bambina tutti i giorni al parco, dove dormiva nel suo passeggino per due o tre ore. Un giorno sfortunato, durante una passeggiata del genere, il tempo cambiò improvvisamente, cominciò a soffiare la bizee la bambina prese il raffreddore, si vede, perché la notte le salì la febbre, e tossiva. Ci rivolgemmo immediatamente al miglior pediatra, che veniva da noi ogni giorno, e ci assicurava che la nostra bambina si sarebbe ripresa. Anche tre ore prima della sua morte, diceva che la piccola stava molto meglio. Nonostante le sue rassicurazioni, Fëdor Michajlovič non riusciva a fare nulla e quasi non si allontanava dalla sua culla. Entrambi eravamo atterriti dall’angoscia, e i nostri cupi presentimenti si sono avverati: nel pomeriggio del 12 maggio (del nostro stile), la nostra piccola Sonja è morta. Non sono in grado di descrivere la disperazione che ci ha assalito quando abbiamo visto la nostra cara figlia morta. Profondamente scioccata e rattristata dalla sua morte, ero terribilmente spaventata per il mio sfortunato marito. La sua disperazione era violenta, singhiozzava e piangeva come una donna, in piedi di fronte al corpo freddo della sua piccolina, e le copriva il viso pallido e le mani di baci caldi. Non ho mai visto una disperazione così violenta. A entrambi sembrava di non poter sopportare il nostro dolore. Per due giorni, senza separarci nemmeno per un minuto, andammo insieme in diverse istituzioni per ottenere il permesso di seppellire la nostra bambina, insieme la vestimmo con un abito di raso bianco, insieme la mettemmo in una bara bianca coperta di raso e piangemmo, piangemmo in modo incontrollabile. Era spaventoso guardare Fëdor Michajlovič, tanto aveva perso peso durante la settimana in cui Sonja si era ammalata. Il terzo giorno, portammo il nostro tesoro in una chiesa russa per il servizio funebre, e da lì al cimitero, nel Plain Palais, dove la seppellimmo nell’area riservata alla sepoltura dei bambini. Pochi giorni dopo, la sua tomba fu ornata con dei cipressi e tra loro fu collocata una croce di marmo bianco. Ogni giorno io e mio marito andavamo sulla sua tomba, portavamo dei fiori e piangevamo.»

1.28 L’aspetto

Nella biografia Dostoevskij bez gljanca(Dostoevskij senza orpelli), a cura di Pavel Fokin, la vita di Dostoevskij viene ricostruita in base alle testimonianze dei contemporanei.

Un suo compagno d’infanzia, Stepan Dmitrievič Janovskij, ricorda l’aspetto esteriore di Dostoevskij nell’anno in cui pubblica il suo primo romanzo.

«Ecco una descrizione dell’aspetto esteriore di Fëdor Michajlovič com’era nel 1846 – scrive Janovskij –. Era più basso della media, con delle ossa grandi, particolarmente ampie erano le spalle e il petto; la testa ce l’aveva proporzionata, ma la fronte era straordinariamente sviluppata, con le parti laterali che sporgevano in modo particolare; gli occhi piccoli, grigio chiari, e straordinariamente vivaci, le labbra sottili e sempre serrate, che davano a tutto il viso l’espressione di una certa particolare bonarietà e tenerezza; i suoi capelli erano più che chiari, erano quasi biancastri, e straordinariamente sottili, mani e piedi molto grandi. I suoi vestiti erano puliti, quasi eleganti; aveva una finanziera nera di ottima qualità, un gilè nero, una camicia di tela d’Olanda di una bianchezza accecante e un cilindro alla Zimmermann. Se qualcosa rovinava l’armonia della tenuta, erano le scarpe, e il fatto che lui, Dostoevskij, si muoveva in un modo un po’ goffo, come l’allievo di un’accademia militare, o un seminarista appena uscito dal seminario.»

A leggere questa descrizione vengono in mente tre cose: che quel cappello alla Zimmermann lo troveremo poi, ridotto malissimo, all’inizio di Delitto e castigo; che a vedere Dostoevskij vestito così, da scrittore, sembra di sentire quella canzone di Battiato «Deve sentirsi imbarazzato un vigile nella divisa il primo giorno di lavoro»; e che un personaggio del primo romanzo di Tiziano Scarpa, Occhi sulla graticola, è uno studente che sta facendo una tesi sulle brutte figure in Dostoevskij, e sembra che non ci sia dubbio: questo è un signore che sta per fare un mucchio di brutte figure.

E anche nel suo primo libro, Povera gente, che è uscito proprio nel 1846, nei giorni in cui Janovskij vede Dostoevskij con il cilindro alla Zimmermann, c’è pieno di brutte figure, e il signore che fa le brutte figure è, soprattutto, il protagonista, Devuškin, che, come abbiamo già detto, si indebita per far dei regali alla sua giovane amica e non ha i soldi per far risuolare gli stivali o per comprare i bottoni che gli mancano, e gliene mancano, e si vergogna del modo in cui è costretto ad andare a lavorare, e una volta, i primi di settembre, gli succede una cosa terribile.

1.29 Una biografia

Un’altra descrizione esteriore, nel libro a cura di Fokin, è quella di Christina Danilovna Alčevskaja, anche lei pubblicista e memorialista, che ci racconta un Dostoevskij di qualche anno più tardi, già dopo la condanna a morte e l’esilio:

«Di fronte a me – scrive – c’era un uomo basso, magro, vestito senza cura. Non l’avrei detto vecchio; non si notavano né calvizie né canizie, segni abituali della vecchiaia: sarebbe stato perfino difficile dire quanti anni avesse effettivamente; però, guardando il suo volto sofferente, i suoi bassi, piccoli occhi infossati, le sue rughe profonde, ciascuna delle quali sembrava avesse una sua biografia, si poteva dire con sicurezza che era una persona che aveva molto pensato, molto sofferto, molto sopportato.»

1.30 La cosa terribile

La cosa terribile che è successa a Makar Devuškin, il protagonista di Povera gente, è il fatto che lui, che di mestiere fa il copista (come Akakij Akakievič, il protagonista del Cappotto di Gogol’), l’8 settembre, nel copiare una pratica molto importante, affidatagli dal capufficio, ha saltato una riga. Il giorno dopo lo chiamano da «Sua Eccellenza», cioè dalla persona più importante di quel ministero, dal generale, e gli dicono: «Negligenza! Sconsideratezza! Siete nei guai!».

Lui vorrebbe aprire la bocca ma non ci riesce.

Vorrebbe chiedere scusa, ma non ci riesce.

Vorrebbe scappare, ma non si azzarda.

E a quel punto succede una cosa che, a raccontarla, Devuškin fa «fatica a tenere in mano la penna per la vergogna».

«Il mio bottone – scrive Devuškin – che se lo pigli il demonio, il bottone che era appeso a un filo d’un tratto si è strappato, è rimbalzato, si è messo a saltellare (l’avevo probabilmente sfiorato senza volerlo), a tintinnare, a rotolare ed è andato a finire, maledetto, dritto ai piedi di Sua Eccellenza; le conseguenze sono state da fare paura. Sua Eccellenza ha subito rivolto la propria attenzione alla mia figura e al mio abbigliamento.»

Lui, Devuškin, consapevole del proprio aspetto, si getta a raccogliere il bottone e non gli riesce tanto bene:

«Quello rotola, gira, non riesco a tirarlo su; in poche parole: mi sono distinto anche in quanto a agilità – scrive –. A questo punto – continua –, sento che anche le ultime forze mi stanno abbandonando, che tutto è perduto, oramai. Tutta la reputazione è perduta, tutto l’uomo è andato in rovina!»

Alla fine riesce a prendere in mano il bottone, si risolleva, e «invece di restarmene lì, come uno scemo, con le mani lungo i fianchi», cerca di attaccare il bottone ai fili strappati «come se fosse possibile, riattaccarlo, e per di più sorridevo, sì, continuavo a sorridere».

1.31 Sua Eccellenza

Sua Eccellenza ha voltato le spalle a Makar Devuškin, come per non guardarlo più, poi gli ha gettato ancora un ultimo sguardo, si è voltato verso il capufficio e ha detto, al capufficio:

«Ma come è possibile? Ma guardi in che stato è! Ma come fa? Ma cosa fa?». «Mai avuto segnalazioni» ha risposto il capufficio, «comportamento esemplare, stipendio sufficiente, secondo le regole.» «Be’, bisogna aiutarlo» ha detto Sua Eccellenza, «dategli un anticipo», «L’ha già preso» ha detto il capufficio, «ha preso parecchi mesi di anticipo. Non figura tanto bene» ha detto, «ma non ci sono mai state segnalazioni.» Devuškin scrive a Varvara che lui, in quel momento, avrebbe voluto sparire sottoterra (quanti ce ne saranno, nei romanzi di Dostoevskij, di momenti nei quali il protagonista vorrebbe sparire sottoterra?). Ma Sua Eccellenza si rivolge proprio a lui, a voce alta, e gli dice: «Allora: deve essere copiato ancora, e senza errori! Forza, Devuškin, venga qui un attimo». Poi Sua Eccellenza dà a ciascuno dei presenti una disposizione e li congeda. Spariscono tutti, rimangono solo Devuškin e Sua Eccellenza.

1.32 Un generale

Quando gli altri sono usciti dalla stanza, Sua Eccellenza tira fuori in fretta il portafoglio e dal portafoglio un biglietto da cento rubli e dice a Devuškin: «Ecco, per quel che posso, consideratelo come volete», e glielo ficca in mano. Devuškin si confonde, gli prende la mano. Sua Eccellenza arrossisce tutto e stringe la mano di Devuškin. «Come se io fossi un suo pari» ha scritto Devuškin. «Come se fossi io stesso un generale.»

Poi Sua Eccellenza dice: «Andate pure. Per quello che posso… Non fate errori, e andrà tutto bene».

1.33 Prima che esca Povera gente

Scrive Grigorovič, il coabitante di Dostoevskij, che, dopo che Belinskij aveva letto il manoscritto di Povera gente, in Dostoevskij era avvenuto un cambiamento notevole.

«Nel periodo in cui si stampava Povera gente, lui, Dostoevskij, si trovava continuamente in uno stato di grande eccitazione nervosa» scrive.

Questo stato è evidente anche dalla corrispondenza.

Il 16 novembre del 1845, Fëdor Michajlovič Dostoevskij scrive al fratello, Michail.

«Fratello mio, non succederà mai più, credo, che io sia famoso come lo sono ora. Mi rispettano tutti in modo straordinario, c’è un’incredibile curiosità, nei miei riguardi. Ho conosciuto un sacco di gente proprio per bene. Il principe Odoevskij mi chiede di farlo felice con una mia visita, il conte Sollogub si strappa i capelli per la disperazione. Tutti mi accolgono come se fossi un prodigio. Non posso aprire bocca senza che, da tutte le parti, dicano “Dostoevskij ha detto questo, Dostoevskij ha fatto quello”. Belinskij mi vuol così bene che di più non si può. Da qualche giorno è tornato da Parigi il poeta Turgenev [che in realtà, più che come poeta, diventerà famoso come romanziere], e mi si è attaccato con un attaccamento tale, con una tale amicizia, che Belinskij dice che si è innamorato, di me, proprio. E anch’io, son quasi innamorato anch’io. Un poeta, un talento, un aristocratico, un bell’uomo, ricco, intelligente, colto, venticinque anni [ne aveva ventisette, in realtà]. Ho un mucchio di idee, e non faccio in tempo a raccontarne una, non so, a Turgenev, che il giorno dopo, in quasi tutti i cantoni di Pietroburgo, tutti sanno che Dostoevskij scrive questo o quello. Insomma, fratello, se dovessi farti l’elenco di tutti i miei successi, non troverei abbastanza carta, per scriverteli tutti. Goljadkin [cioè il suo romanzo successivo, Il sosia] sta venendo benissimo. Sarà il mio capolavoro.»

Non sarà, il suo capolavoro, Il sosia, come vedremo, ma prima di entrare nella vita di Dostoevskij scrittore professionista, cioè prima di raccontare quel che succede dal 1846 (anno in cui escono i suoi due primi romanzi, Povera gente e Il sosia) in poi, mi concedo un breve intermezzo, ma prima del breve intermezzo, voglio finire questa prima parte di questa specie di romanzo con il post scriptum con il quale Dostoevskij finisce quella lettera al fratello Michail del 16 novembre del 1845: «Ho riletto la mia lettera e mi sono accorto che: prima di tutto, sono un analfabeta, secondariamente, sono un fanfarone».

2

Intermezzo

2.1 Aerei

Io, per qualche anno, da giovane, tra i ventidue e i venticinque anni, ho lavorato all’estero, in Algeria e in Iraq e, leggevo già dei romanzi russi, ma prendevo spesso l’aereo, per dei viaggi anche lunghi, e in questi viaggi aerei leggevo anche dei romanzi, non so come dire, da viaggio aereo, quei best seller internazionali che si trovano, o si trovavano allora, nelle librerie degli aeroporti e, devo dire, mi piacevano. C’era un autore, Frederick Forsyth, che mi ha aiutato un paio di volte a raggiungere Algeri e Baghdad, L’alternativa del diavolo, e Dossier Odessa, se non ricordo male; quando poi, quindici anni dopo, alla fine degli anni Novanta, dopo essermi laureato in russo e dopo aver cominciato a scrivere dei romanzi, ho trovato in libreria un suo romanzo di fantapolitica scritto all’inizio degli anni Novanta e ambientato in Russia nel 1999, l’ho preso e l’ho letto e, devo dire, mi è sembrato stranissimo non tanto per come era fatto, era sempre avvincente, ben scritto e magnificamente montato, ma era stranissimo il modo in cui descriveva i russi.

In quel libro lì, che si chiama Icona, i russi non avevano soldi, diversamente dagli americani e dagli inglesi, che erano tutti benestanti, dentro nel libro.

I russi non avevano amici, e anche tra loro non si volevano bene, diversamente dagli americani e dagli inglesi che si invitavano a cena continuamente. I russi, in Icona, erano antisemiti, diversamente da americani e inglesi che invece erano amici di Israele e del popolo ebraico. E i russi, in Icona, stupidi, erano, diversamente da americani e inglesi che erano furbi. I russi erano anche poco simpatici, mentre invece gli americani e gli inglesi dicevan delle battute che poi ridevano tutti, e la birra, dei russi, era balorda, mentre la birra degli americani e la birra degli inglesi era buona, e se un americano o un inglese incontrava un russo per strada gli regalava una bottiglia di birra perché anche lui, come la birra della nazione da cui proveniva, era buono anche lui.

E il russo, che era povero, e non era abituato a questi gesti di bontà anglosassone, all’inizio ringraziava e si commuoveva, poi gli nasceva dentro una riconoscenza che però nel giro di pochissimo tempo si trasformava in odio perché i russi, come tutti gli slavi, in quel libro lì, eran cattivi, a differenza degli americani e degli inglesi che nel loro Dna avevano inscritta la bontà, com’è dimostrato anche dalla storia, e questo è in sintesi l’inizio del libro che ho letto un po’ di anni fa.

Dopo, i servizi segreti russi, in quel libro lì, ammazzavano un sacco di gente, soprattutto dei russi, invece i servizi segreti occidentali non ammazzavan nessuno. E se per caso saltava fuori un documento che avrebbe richiesto un intervento dei servizi segreti occidentali che magari alla fine avrebbe potuto anche esser violento, chissà, i responsabili dei servizi segreti occidentali cosa facevano? Andavano in chiesa, si inginocchiavano «Fa’ che non sia vero, Signore» si mettevano a pregare, «fa’ che non sia vero. Fa’ che il documento sia falso, Signore, per cortesia» dicevano i responsabili dei servizi segreti occidentali in quel libro lì, mentre i responsabili dei servizi segreti russi nelle loro riunioni usavano un linguaggio volgare, cosa che può sembrare strana ai lettori occidentali ma che dipende dal fatto che in Russia la volgarità è molto comune, c’era scritto in quel libro lì che si intitola Icona ed è stato anche un best seller molto venduto negli aeroporti dell’Occidente.

E dopo poi, dentro quel giallo internazionale, gli occidentali che si consegnavano ai russi, in quel libro lì, è perché erano alcolizzati incapaci che inspiegabilmente si eran trovati ai vertici dei servizi segreti occidentali, mentre i russi che consegnavano informazioni agli occidentali erano sobri padri di famiglia che odiavano il sistema sovietico perché era ingiusto e si eran rivolti agli occidentali solo perché avevano un figlio malato che poteva esser curato solo con delle medicine speciali americane che gli agenti occidentali gliele regalavano senza chiedere niente in cambio e solo dopo l’agente russo decideva per conto suo di tradire, che tra l’altro, tradendo lui l’Unione Sovietica, non si può neanche dire tradire, non son tradimenti, è a fin di bene, si capisce in quel libro lì che io a un certo punto avevo anche pensato che era un po’ manicheo che tutti gli occidentali erano buoni tutti gli orientali eran cattivi invece no, c’erano anche un occidentale ubriacone e un russo buono.

Che poi, obiettivamente, in quel libro lì, devo dire, Forsyth dimostra delle grandi doti anche di immaginazione perché quel libro lì poi finisce in un modo che io non avrei mai immaginato, una fine così.

Che per prevenire la deriva nazista verso la quale scivolava la Russia nel ’99, a pochi mesi dalle elezioni era ormai certa la vittoria elettorale di un blocco nazista e antisemita, i servizi segreti britannici avevano organizzato una truffa che nel giro di pochi mesi, con l’aiuto inconsapevole del metropolita russo, che essendo russo faceva anche lui la figura un po’ del coglione, i servizi segreti britannici con un solo agente in tre settimane riuscivano a rivoltar la frittata, e siccome loro avevan capito benissimo che un paese così da coglioni come la Russia non c’era niente da fare non poteva esser governato democraticamente, i servizi segreti anglosassoni eran riusciti a trovare e a fare insediare il diretto discendente dell’ultimo zar Nicola II, che detto zar Nicola II, mi dispiace, essendo russo anche lui, era anche lui un coglione, si capiva in quel libro lì.

E il suo unico discendente diretto o quasi diretto, comunque il più adatto, sorpresa sorpresa, era un inglese, che si installava alla fine sul trono di tutte le Russie di modo che il romanzo finiva in gloria.

Ecco.

Questo secondo me è il riassunto più obiettivo possibile che io son capace di fare di Icona, di Frederick Forsyth, che è un libro che mi sembra, ancora oggi, molto interessante per via che indica, un po’, il rapporto che abbiamo noi occidentali, di solito, con i russi.

Cioè, prima di tutto, i russi, per noi, per la maggior parte di noi, sono diversi da noi; secondariamente, per la maggior parte di noi, non sono tanto intelligenti; in terzo luogo, sono cattivi.

Se dovessi dirlo con un termine regionale di quella lingua che si agita dentro di me quando mi agito, i russi, per la maggior parte di noi occidentali, sono dei cancheri.

Allora.

La stesura di questo libro ha occupato un periodo, nella mia vita, e nella vita dei miei contemporanei, che sarà ricordato come il periodo del Coronavirus, o della pandemia.

Io mi son trovato spesso, in questi giorni, chiuso nella mia casa di Casalecchio di Reno, io Dostoevskij e il rumore del mio frigorifero mentre fuori, oltre le finestre, tutti parlavano del Coronavirus, e la sera anch’io, finito di lavorare, andavo sui social a guardare cos’era successo, e c’era moltissima gente che aveva paura, e un po’ di gente che non aveva paura affatto, per esempio un mio amico, che si chiama Matteo B. Bianchi, in quei giorni lì ha chiesto in rete qual è il contrario di ipocondriaco; perché lui, ha scritto, con la diffusione del Coronavirus si sentiva proprio così: il contrario di un ipocondriaco.

Una ragazza gli aveva risposto che, secondo lei, il contrario di ipocondriaco era ipercondriaco, e a me è sembrata una bella parola, e l’ho assunta, come neologismo, e, riguardo alla paura del Coronavirus, e di tutti i virus in generale, io sono così, ipercondriaco, ho pensato, quasi spericolato.

Io, nella mia vita, come tutti, sono stato, qualche volta, in pericolo di vita, tra l’uscio e l’assa, come dicono a Parma, e, mi ricordo benissimo, la prima volta che è successo ho pensato “No, io adesso guarisco”.

E nei confronti dei russi, e della paura che fanno i russi, e della presunta stupidità e cattiveria dei russi, e della presunta noia e pesantezza della letteratura russa, io, lo so fin da quel giorno che ho letto Delitto e castigo e che mi si è aperta la piaga che ho qui, sotto la gabbia toracica, io lo so, che non sono cattivi, io lo so, che non sono noiosi, io lo so, che fan bene, io lo so, che la Russia, i russi, la letteratura russa, meno male che ci sono.

Ecco.

E adesso andiamo pure avanti.