Ci sono decisioni che segnano la piega che prenderà tutta una vita, e io finora quelle decisioni le ho sempre prese a caso. Se avessi dovuto scegliere cinque minuti dopo, avrei potuto tranquillamente fare l’esatto contrario, e non credo di aver affrontato nessuno snodo fondamentale della mia esistenza con una pur remota forma di ponderatezza e in vista di un obiettivo a lungo (o anche medio) termine. Tendenzialmente cerco di non muovermi, di procrastinare fino a quando tutte le possibilità sono evaporate e posso finalmente tornare a crogiolarmi nel mio bozzolo di inconcludenza. Oppure mi lascio trascinare dall’inerzia, e a un certo punto mi trovo ad aver fatto qualcosa senza aver mai realmente deciso di farla, cullato da una rassicurante bambagia di irresponsabilità. Un paio di anni fa mia madre, in preda a un’effimera fascinazione per l’oriente, mi ha semicostretto a leggere un libro in cui, tra le altre cose, si illustrava un tratto tipico della mentalità cinese: anziché agire in vista di uno scopo, il saggio lascia che le circostanze lo portino dove vogliono loro, senza incaponirsi, alla maniera occidentale, a voler essere per forza l’artefice del proprio destino. Se questa cosa è effettivamente come l’ho capita io, quindi, il punto non è che sono pigro, ma che sono praticamente il modello del saggio taoista.
Il fatto che sia finito a fare un dottorato di ricerca non fa eccezione: a volerne ricostruire le origini si trova tutt’al più un accrocchio di contingenze fortuite, di posizioni sostenute al di là della ragionevolezza, per mero puntiglio, e una congenita incapacità di valutare le conseguenze delle mie azioni.
Non sono uno di quelli che ce l’hanno scritta nel DNA, la carriera accademica. A parte l’abitudine alla lettura (che ho mantenuto nonostante non la condividessi con nessuno dei miei amici e nonostante mio padre le fosse apertamente ostile), sono stato uno studente universitario piuttosto mediocre. La mia unica forza era il mestiere. Intuivo fin dall’inizio quello che un professore voleva sentirsi dire, e studiavo solo le cose che mi servivano per dire esattamente quello, non una parola di più. Avevo il fiuto di capire quali lezioni frequentare e a quali lasciare la firma di presenza e poi dileguarmi, presentivo quali libri in programma si dovevano leggere e per quali bastava la quarta di copertina, e sapevo individuare a colpo sicuro la studentessa con gli occhiali a cui chiedere gli appunti. Alla fine ho galleggiato quasi sempre così, profondendo molta più energia e materia grigia nel capire cosa potessi evitare di fare che nel fare qualcosa.
Mi sono laureato in Lettere, poco più di un decennio dopo l’iscrizione, con una tesi su Kafka, un po’ perché l’esame di Letteratura Tedesca era uno dei pochi che avevo studiato con piacere, e un po’ perché il professore era un vecchietto minuscolo e appassionato che mi aveva fatto subito simpatia. La tesi non era un capolavoro, però tutto sommato è stata la parte più gradevole dell’università. Talmente gradevole che me la sono portata dietro per quasi tre anni, e nel frattempo ho pure dovuto cambiare relatore perché il vecchietto minuscolo e appassionato è morto. Alla fine ho discusso la tesi con il nuovo ordinario di Letteratura Tedesca: un maschio alfa di mezza età altissimo e sempre incazzato con cui è stata insofferenza reciproca a prima vista.
Dopo la discussione sono caduto in uno stato di torpore esistenziale, e per la prima volta in vita mia ho cominciato a sentire il peso dell’età. Al giro di boa dei trenta, riflettevo, i miei genitori avevano fatto un sacco di cose – figli, lavori, mutui, animali domestici –, i miei nonni avevano fatto la guerra e ricostruito il paese e i miei bisnonni erano morti per la spagnola. Io non solo non avevo fatto nemmeno una di queste cose, ma mi sembravano tutte inconcepibilmente lontane dai miei orizzonti. Tuttavia, mi ero sempre detto, è oggettivamente assurdo paragonare le generazioni tra di loro. Nonni e bisnonni dovevano fare le cose in fretta, prima che un bombardamento o il vaiolo li strappassero agli affetti dei loro cari, e i nostri genitori non avevano internet, Ryanair e Pornhub: a un certo punto le opzioni si esaurivano e restavano famiglia e carriera. Ogni generazione fa storia a sé: noi abbiamo un’adolescenza ventennale ma sappiamo fare cose che i nostri nonni se le sognavano, come prenotare una vacanza in dieci minuti e memorizzare un numero vertiginoso di combinazioni di tasti per giocare a PES.
Purtroppo però di punto in bianco anche i miei coetanei hanno cominciato a diventare adulti. Ragazzoni imbecilli e ipertatuati che fino a un minuto prima si nutrivano solo di spinelli king-size e di merendine per ammazzare la fame chimica, i cui orizzonti si esaurivano tra calcetto e fantacalcio e che tiravano mattina a ciondolare tra i locali per evitare l’onta di rientrare a casa prima dell’alba, da un giorno all’altro hanno cominciato a presentarsi con la fede al dito e la prole al seguito e a incarnare i valori della famiglia tradizionale. Certo, io lo so che sono ancora gli stessi ragazzoni imbecilli, lo so che la loro felicità dipende ancora esclusivamente dai risultati della Juventus, lo so che la loro iscrizione al popolo della famiglia è un fuoco di paglia e che i loro marmocchi si troveranno con un numero esponenzialmente crescente di genitori, man mano che quelli naturali si lasceranno e si riaccompagneranno e poi si lasceranno di nuovo e si riaccompagneranno e così via all’infinito, realizzando infine l’utopia platonica di una comunità in cui ogni bambino è figlio di tutti. Lo so, eppure questo precipitare di eventi non sono riuscito a lasciarmelo scivolare addosso come tutto il resto. Sono invecchiato di colpo. Anche i ragazzini, quelli nati negli anni Novanta, li incontri in giro con il SUV, il borsello e il riporto e ti parlano con cognizione di causa di commercialisti, Euribor e miniclub. È così che sono passato dall’eternità della giovinezza all’horror vacui della senilità perdendomi le tappe intermedie. E più mi sento invecchiare e più all’orizzonte vedo stagliarsi la mia personale versione dell’orologio biologico: l’immagine di mio padre che vuole che io erediti il bar di famiglia. Io l’ho giurato a me stesso e a lui, nel momento in cui ha mollato mia madre (e me, di conseguenza), che il bar Gori non lo avrei preso nemmeno morto; e ormai è sempre più chiaro che lui sta aspettando che il mio cadavere di laureato in Lettere gli scorra davanti per potermi intrappolare e costringermi a perpetuare la sua micro-impresa personale.
Forse per togliermi di dosso questa sensazione di irresolutezza e di minaccia incombente, decido di fare un giro a Pisa: da Viareggio ci si arriva in una ventina di minuti di treno, anche se agli occhi di qualsiasi viareggino ai confini della città si erge un’imponente barriera mentale che consiglia saggiamente di non allontanarsi mai, giacché al di là dei confini del comune non può esserci niente di buono. È ancora inizio settembre, l’invasione di ritorno degli studenti fuori sede deve ancora cominciare, e ho pensato che indugiare un po’ per i baretti di piazza Dante, dove ho sbriciolato la maggior parte delle mie giornate di universitario, possa in qualche modo illudermi che per il passaggio all’età adulta ci sia ancora tempo.
Appena aperto il giornale mi spunta di fronte Carlo, l’assegnista del dipartimento di Italianistica che mi ha interrogato per l’esame di Letteratura Italiana Contemporanea e che mi ha meticolosamente massacrato, dopodiché siamo rimasti amici. Si ferma a prendere un caffè e mi aggiorna sulle vicende interne al dipartimento. La tizia che va con il prof, quello che vince un dottorato alla Cornell e manda tutti liberatoriamente affanculo, l’ex direttore di dipartimento a cui hanno trovato un tumore alla prostata, il dottorando a cui dopo anni di angherie accademiche è venuto l’esaurimento nervoso, la segretaria che ancora non ha smesso di nascondere a bella posta tutte le carte del professor Lanza come atto di accanito quanto disinteressato bullismo. Poi passa a illustrare le lotte intestine per il concorso di dottorato di quest’anno. Ai tempi in cui lo ha fatto lui, in tutta la Facoltà di Lettere c’erano all’incirca venticinque borse di dottorato; oggi ce ne sono quattro, e vanno spartite tra sei dipartimenti. Come se non bastasse una delle quattro è destinata all’Università di Firenze, dove i dottorati in Lettere sono sospesi fino a data da destinarsi.
«Ormai la maggior parte dei professori te lo sconsiglia, di fare il dottorato», dice Carlo.
«Eh lo so, ti dicono di andare all’estero».
«Infatti. Come se l’estero fosse un posto a cui puoi mandare il curriculum. Se proprio volessero dovrebbero dirti dove andare, a chi scrivere. Ma non ne hanno idea nemmeno loro. Pensa che Sacrosanti dopo la laurea mi consigliò di provare a cercare qualcosa a Berlino, che per le cose che studiavo io era il non plus ultra. Peccato che “a Berlino” ci saranno quaranta università».
Io sorrido, ma, come spesso accade quando lui mi racconta queste cose, non ho chiarissimo dove voglia andare a parare.
«Insomma, ora i prof preferiscono non averci a che fare, con i dottorati. Non è più un campo in cui i baroni vogliano esercitare il proprio potere. Però c’è qualcuno che ci è affezionato, a queste piccole schermaglie per vedere chi ce l’ha più lungo».
«Tipo Sacrosanti», dico io, che in realtà un po’ lo so, dove gli piace andare a parare.
Il Chiarissimo prof. Sacrosanti è una sorta di dominus della Facoltà di Lettere; già extraparlamentare di sinistra in odore di terrorismo negli anni Settanta, come i più svegli di quella cucciolata rivoluzionaria si è defilato per tempo e si è reinvestito nell’accademia, senza nemmeno dover troppo rinnegare le sue idee. Anzi, ancora oggi si arrabbia se dicono che è di sinistra: «Io sono comunista, non di sinistra», ribatte; e a volte si dichiara, un po’ per posa, maoista o perfino stalinista. Detto questo, io di Sacrosanti ho un ottimo ricordo: è uno che ha studiato tutta la vita e che ha capito le cose che studiava; a lezione era un po’ teatrale ma molto godibile, e perfino disponibile al confronto. Tra le altre cose è uno di quelli che non fa fare lezione agli assistenti e che cambia argomento del corso ogni anno, a seconda di quello su cui sta lavorando. Insomma, tanto di cappello. Il suo tallone d’Achille, tuttavia, è il godimento quasi erotico che trae dai rapporti di potere accademici. Lo ha sempre perseguito, il potere, a maggior ragione da quando è diventato preside della Facoltà di Lettere. È capace di paralizzare l’intero dipartimento di Italianistica se non si affida l’insegnamento a contratto a chi dice lui, di impedire che qualcuno vada a fare il visiting professor in America se non si invita il suo tale amico a tenere una lectio magistralis, o di boicottare un ordinariato se non gli si lasciano due posti di dottorato sui quattro disponibili.
L’ultima fattispecie si è appena verificata: quest’anno toccano due borse a Italianistica (che poi andranno una a Italianistica e l’altra a Teoria della Letteratura, entrambi gli insegnamenti facenti capo a lui), una a Storia del Cinema e del Teatro (per cui ci sarà a posteriori uno scontro fratricida tra la fazione Teatro e la fazione Cinema all’interno del DAMS di Firenze) e l’ultima a Storia Moderna, che è già predestinata a uno studente della Normale, un ventitreenne che ha all’attivo una citatissima monografia sull’economia nel Seicento e che è stato ringraziato da Carlo Ginzburg nel suo ultimo saggio.
«E quelli di Sacrosanti si sanno già?», chiedo a Carlo.
Lui sorride. Si capisce che un po’ della libido nel distribuire prebende è passata in eredità anche a lui, che dei sacrosantiani è uno dei rampolli più stimati dal Chiarissimo. «Raffaele dice di no, ma questo fa parte del gioco. Stavolta però è vero che non ci sono nomi per cui sia disposto a battersi a morte». Raffaele è il nome di battesimo di Sacrosanti, appannaggio esclusivo di un cerchio magico di cui Carlo si è ampiamente meritato una delle tessere onorarie in virtù di un quindicennio di collaborazione non necessariamente retribuita.
«E allora perché ha voluto due borse?».
Carlo si stringe nelle spalle. Forse è perfino un po’ spiazzato da una domanda così naïf. Poi mi dà una risposta che nelle sue intenzioni dovrebbe chiarirmi la situazione: «Fra pochi anni va in pensione».
Io replico con uno dei miei sguardi bovini.
«Sì, insomma...», prova a spiegarmi, «sono gli ultimi colpi. Se vuole un altro allievo lo deve prendere adesso».
«E vuoi dire che non c’è nessuno di cooptato?».
«Non ho detto che non c’è nessuno. Ho detto che i giochi sono ancora aperti».
«Sennonché...», lo invito a estrarre il coniglio dal cilindro.
Lui mi mostra un foglietto. Nomi e numeri. Lì per lì non capisco, poi all’improvviso mi ricordo: Carlo è una specie di allibratore. E mi sta mostrando le quote a cui dà i concorrenti al dottorato.
«La lista non è completa, dato che le iscrizioni sono ancora aperte. E quindi anche le quotazioni sono passibili di modifica. Metti che si presenta un mammasantissima, è chiaro che quello lo do a 1,2 e gli altri salgono un po’. Però se vuoi scommettere adesso le quotazioni sono queste».
Il totodottorato. Ci scommettevo regolarmente, ma le dinamiche universitarie mi sono sempre state così oscure che non mi sono mai nemmeno avvicinato a piazzare un nome vincente.
Scorro i candidati, saranno sette o otto.
«Così pochi?», chiedo.
«Questi sono solo i papabili».
Si va da una quotazione minima di 2, per tale Camasta, a un massimo di 25 per gli ultimi due.
«Questi chi sono?».
«L’ultimo è Giacomo Mattei. Te lo ricordi?».
«No».
«Massì, dai. Sarà la dodicesima volta che tenta il dottorato. Quello con gli occhiali da pentapartito che dice di aver scritto un Dizionario Manganelliano ma che non trova chi glielo pubblica».
«Come no! Quello che andava ai campi estivi dove si parla solo latino».
«Ma con la pronuncia restituta».
Faccio un sorriso e glisso: «E l’altro?».
«Sono i Vari ed Eventuali. Quelli che non compaiono nella lista. Ovvero quelli che obiettivamente non hanno speranze».
«Ma bisogna sceglierne uno?».
«No, si possono prendere in blocco».
«Allora quasi quasi...».
«È una scelta suicida. Se qualcuno può vincere stai tranquillo che io lo so».
«Aspetta, fammi dare un’altra occhiata».
Scorro gli altri nomi in lista. Li conosco quasi tutti; dieci anni passati all’università, del resto, qualcosa dovranno pur lasciare. Tolto Giacomo Mattei, che non ha speranze per definizione, gli altri sono tutti fior di studenti. Gente che si è laureata in tempo, che ha collezionato trenta e lode, ha approfondito, letto molto e fatto l’Erasmus alla Sorbona o a Tubinga. Gente a cui trent’anni fa avrebbero tenuto un posto in caldo all’università prima ancora che discutessero la tesi di laurea, e oggi invece te li ritrovi a battersi per le briciole, e tra qualche anno se va bene a insegnare italiano e storia nella Bassa padana all’Istituto professionale «Germano Mosconi», dove si parla in dialetto, si intercala a bestemmie e i professori sono il gradino più basso della gerarchia sociale e umana. E magari andranno a scuola col kalashnikov il giorno che scopriranno che anche il preside scrive «po’» con l’accento.
«Chi è questo prescelto? Camasta. Lo conosco?».
«No, la conosco poco anch’io».
«Com’è che la dai a 2? Cos’è, una normalista sotto anfetamine?».
«È una di Bologna, la pupilla del Savoia».
«Ovvero?».
«Dai, lo hai pure portato all’esame. L’esperto di Pirandello».
«Ah, ma certo! Uno, nessuno e meno uno di Giovanni Savoia. Non l’ho mai letto, con quel titolo lì dubitavo che potesse dire qualcosa di intelligente».
«Invece è un grande libro. Quello è uno che lo invitano a Stanford una volta l’anno. E tra le altre cose è amico fraterno di Raffaele».
«Invece Pier Paolo perché non lo dai dentro per certo?».
Lui si acciglia. Pier Paolo è un normalista che Sacrosanti stima molto, e obiettivamente sembra strano che non sia un predestinato.
«Secondo me sceglierà di fare il dottorato in Normale, invece che in dipartimento».
«Insomma vabbè, ho capito: la Camasta è la puntata più scontata».
«Quanto punti?».
«Dieci euro. Ma li metto su Giacomo Mattei. Secondo me questo è l’anno dell’underdog».
Tornato da Pisa vado a mangiare da mio padre, cui spetta, da accordi post-separazione, una cena la settimana, l’unica in cui non mangio a casa con mia madre o una pizza con qualcuno, ovvero quella in cui mangio male.
Lo so che alla soglia dei trent’anni dovrei essere un po’ più autonomo, ma con la mia situazione professionale non è possibile mettere in conto spese un affitto da pagare. Se tutto va bene, d’inverno in un mese metto insieme 50 euro il sabato sera, facendo il cameriere nel ristorante dove lavora il mio amico Franz; 50 euro una domenica su due, nel turno del pranzo, da quando il padrone ha fatto l’abbonamento allo stadio e quindi se il Viareggio gioca in casa non va a lavorare; un centinaio di euro al mese di ripetizioni di italiano a qualche ragazzetto delle medie i cui genitori sono così disperati da non potersi permettere un professore vero, e ripiegano su di me, che prendo 12 euro l’ora e vado a fare lezione a casa loro, non avendone una mia; e infine qualche soldo variabile per tenere aggiornato in triplice lingua – italiano, inglese e un tedesco assai creativo – il sito di una ditta locale che produce tessuti costosi e ha ambizioni internazionali (un lavoretto che io chiamo copywriting per darmi un tono a mia volta internazionale). Totale: difficilmente arrivo a 500 euro al mese, per fortuna quasi tutti in nero.
Stasera però devo riconoscere che mio padre non è nella sua forma peggiore. Abbiamo quasi finito di mangiare il pollo con le patate che ha preso in rosticceria, inzuppandolo in montarozzi di maionese e bevendo Moretti, e lui ancora non ha affrontato nessuno dei suoi cavalli di battaglia: come sono vestito; il fatto che non faccia nulla dalla mattina alla sera; il fatto che non voglia andare a lavorare con lui al bar; qualche importante traguardo raggiunto da un mio coetaneo, di solito figli di amici suoi che sospetto gli raccontino un po’ di cazzate, che però mio padre si beve come oro colato perché gli confermano che a lui è toccato l’unico figlio debosciato della provincia di Lucca.
Non aver toccato questi argomenti significa che abbiamo mangiato praticamente in silenzio, non avendo molti altri temi di conversazione; però ho la sensazione che la nostra sia stata una serata padre-figlio tutto sommato accettabile, e provo per lui una qualche remota forma di affetto, non fosse altro perché credo che abbia finalmente cambiato rosticceria. Forse adesso che abbiamo raggiunto entrambi una certa età possiamo cominciare ad avere un rapporto più maturo. Decido addirittura di comunicarglielo, in qualche modo.
«Oh, lo sai che il pollo era buono?».
«Che vorresti dire?», chiede sospettoso.
«Nulla. Che era buono».
«L’ho preso in rosticceria, mica l’ho fatto io».
«Lo so, ma era più buono del solito», accompagno il commento con un sorriso, come a voler sottolineare che non sto scherzando, ironizzando, provocando o applicando chissà quale altra artata tattica di aggressione dissimulata, ma solo facendo un banale convenevole come fanno le persone normali quando condividono un pasto.
Lui però non sembra fidarsi delle mie intenzioni pacifiche, e credo che i motivi siano due: il primo è che noi una conversazione normale non ce l’abbiamo praticamente mai avuta, e il secondo è che i sorrisi non sono il mio forte. Sospetto che sia perché li faccio di proposito, dato che non mi vengono spontanei, e quindi il risultato assomiglia a un ghigno, o nel migliore dei casi a una paresi.
«La Roberta è in ferie», dice, poi fa una pausa. «Comunque è vero che è buono, questo pollo. È fatto al mattone, invece che allo spiedo». Questo suo diffondersi in dettagli superflui mi stupisce ancor più del cambio di rosticceria.
Si alza per togliere i piatti e i cartocci di stagnola e torna a tavola con due ciotole, due cucchiaini e una vaschetta di gelato artigianale. Adesso è il mio turno di essere sospettoso. Sono disposto a credere che voglia condividere con me i suoi giudizi sulle pollerie viareggine, ma che invece di prendere la vaschetta bigusto cioccolato e crema dell’Esselunga sia andato in gelateria senza un secondo fine mi sembra francamente implausibile. Mi chiedo quale pillola amara debba addolcire questo gelato. Le ipotesi che mi vengono in mente sono due.
La prima è che mi debba notificare una malattia. La sua mansuetudine durante la cena può essere un indizio a favore di questa ipotesi: stava provando a rassegnarsi all’idea di lasciare un mondo imperfetto e un figlio ancor più imperfetto, e a godersi quei piccoli piaceri che nella sua vita si è sempre negato: cambiare rosticceria, mangiare un gelato artigianale, non insultarmi.
La seconda ipotesi è che mio padre si sia «riaccompagnato», come dicono gli anziani in amore: che a quasi settant’anni gli sia tornato a battere il cuore e adesso stia per annunciarmelo, magari con qualche parola impacciata che mi metterà terribilmente in imbarazzo per lui. Mi chiedo chi possa far battere il cuore a mio padre (a parte l’Inter di Herrera e, un po’ meno, quella di Mourinho), ma soprattutto mi chiedo a chi mai possa far battere il cuore mio padre, che se in passato può essere stato piacente ormai mi sembra poco più di un vecchio scorbutico con un mefistofelico alito da MS (nonostante, almeno ufficialmente, non fumi da vent’anni). Forse, mi dico, una badante del fu Patto di Varsavia: una donna cresciuta nel socialismo reale e sfuggita a una società patriarcale fatta di uomini violenti e perennemente gonfi di vodka mi sembra l’unico tipo umano a cui mio padre possa sembrare un buon partito. Indizi a favore dell’ipotesi romantica: rasatura fresca, odore in casa passabile, interesse per la differenza tra pollo al mattone e pollo allo spiedo.
Il gelato sarebbe ancora più buono del pollo, ma lo ingurgito con la testa incassata nelle spalle, in attesa che mio padre cali l’asso di bastoni. E invece mangiamo in silenzio e io sono a tanto così dal prendere l’iniziativa e dirgli che è malato. O innamorato. In ogni caso una cosa grave. Invece alla fine mi trattengo: qualche altro giorno di incoscienza non potrà farmi male.
«Oh, aspetta un attimo», mi dice quando sono praticamente uscito e ho già la giacca indosso e il casco in mano. «Ti ho preso questo», dice consegnandomi un sacchetto di carta di una libreria (più che una libreria è un supermercato per libri, ma sono troppo sconcertato per sottilizzare). Mi ha fatto un regalo: segno che la cosa è probabilmente ancora più grave di quanto pensassi.
Un regalo pesante, constato prendendo in mano il sacchetto.
«Ma...», balbetto guardandolo non so bene come.
Non concludo la frase ed estraggo dalla busta il librone. Titolo: 954 addetti alla accoglienza e alla vigilanza. Concorso del Ministero dei Beni Culturali. Resto perplesso. Poi prima ancora di capire sento salire la rabbia.
«Cos’è?», sibilo. Mio padre non ha mai azzeccato un regalo in vita sua, ma questo è un capolavoro di manipolazione travestita da dono.
«È... uno di quei libri per preparare i concorsi. C’è una parte con le cose da studiare e l’altra con le crocette».
«Che concorso?».
«Del Ministero... boh, di un Ministero. Basta il diploma, per partecipare, però è a tempo indeterminato e tutto il resto».
«Quale resto?».
«Ma che ne so. Lo stipendio, per esempio. Mi ha detto Piero che c’era questo concorso, che sai, la su’ figliola lavora a Roma al Ministero, fa la dirigente o che so io...».
«...».
«Oh, pensavo di farti un piacere. Visto che non vuoi venire a lavorare al bar...».
«Devo fare il guardiano del museo? Passare la giornata in un corridoio vuoto a fissare il nulla e dire ai bambini di non scaccolarsi sui quadri? Devo staccare biglietti per tutta la vita? Secondo te ho studiato per questo?».
«Seh, ora studiato... È che a te ti fa schifo lavorare. E sei anche un presuntuoso, che pensa che i lavori che fanno le persone normali siano da sputarci sopra».
Mio padre è entrato, forse per la terza volta in vita sua, in una libreria, e non per comprare la mia opera prima e rendersi conto di avere un figlio di genio, ma per prendere un librone da 40 euro sperando che almeno un posticino fisso da guardiano di musei deserti sia alla sua (cioè alla mia) portata. O addirittura che una capitolazione anche a quel concorso possa spianare la strada al mio subentro nella gestione del bar.
«Non ci penso nemmeno», dico con astio.
«Perché te hai sempre pensato d’averci il pisellino d’oro. Deve fare l’intellettuale, lui».
«Sì, faccio l’intellettuale. E allora?».
«E allora chi pensi che te li dia i soldi per fare l’intellettuale a vita, a te?».
«L’università».
«Ah, ora l’università ti paga? Hanno deciso di pagare le comparse fisse?».
«A gennaio comincio il dottorato», sparo.
«E sarebbe?».
«Sarebbe che l’università mi paga uno stipendio per continuare a studiare».
«A te?».
«A me, proprio. È il primo passo per diventare professori universitari».
Mio padre non ha sufficiente dimestichezza con il mondo accademico per poter fare obiezioni, e credo che per un attimo gli abbia sfiorato il cervello l’idea che forse mi sottovaluta. Quell’ipotesi gli dura una frazione di secondo, e sono sicuro che subito dopo deve aver cominciato a pensare che il dottorato, che glorificherebbe senz’altro se lo facesse il figlio di chiunque altro, deve essere una cosa di valore pressoché nullo.
Io però non gli do il tempo di ribattere, e in un attimo sbatto la porta e scendo le scale quattro a quattro fino al portone. Farò il dottorato, penso mentre spedalo la mia Vespa PK sperando che una volta tanto parta al volo, in uno stato di rabbia, esaltazione e totale scollamento dalla realtà.
Il problema è che se Carlo mi dovesse quotare al totodottorato dovrebbe darmi a 40, ovvero assai più di quanto pagherebbe la già inverosimile vittoria di Giacomo Mattei, che dalla sua ha quantomeno una solida esperienza di concorsi di dottorato a cui è stato segato. Non c’è una sola delle variabili in campo che possa giocare a mio favore. Dal curriculum agli sponsor accademici, dall’avvenenza agli agganci politici, dalle relazioni personali all’età, non esiste obiettivamente alcun motivo per scegliere me anziché chiunque altro.
E però ormai sono committed, come si dice a poker: anche se le carte che ho in mano suggerirebbero prudentemente di mollare, ormai ho puntato così forte che non conviene più passare, tanto vale tentare la sorte, per quanto improbabile.
Mi sono esposto troppo, e tanto peggio con mio padre, per permettermi di chiamarmi fuori. Quindi mi rimetto a studiare, pur essendo consapevole che non è pensabile recuperare il gap accumulato in un decennio di letture asistematiche e per lo più ormai dimenticate versus i percorsi accademici impeccabili, ricchi e ben organizzati dei miei avversari. L’unico vantaggio di provare il concorso di dottorato è che mi risolve almeno temporaneamente il problema dell’eccesso di tempo libero.
Nel periodo che ho dedicato alla preparazione dell’esame sono riuscito a rileggere la mia (dignitosissima) tesi di laurea, ripassare qualcosa sul manuale di Letteratura Italiana, aka «il Ferroni», e tentare di decifrare i miei appunti per l’esame di Letteratura Italiana Contemporanea che ho dato con Sacrosanti.
Se poi andrà male, mi attesterò sull’alibi standard: alla fine vincono sempre i raccomandati.
A tre giorni dalla prova scritta, ricevo un messaggio da Carlo.
«Ma partecipi al concorso?».
Sembra quasi un rimprovero.
«Oh yeah», rispondo. «Voglio vegliare sul mio investimento».
«Ma perché non me l’hai detto?».
«Mi avresti consigliato di non farlo».
«Certo».
«Stai tranquillo, Charlie. Non la disturbo, la vostra bolognese».
«Non c’è pericolo».
«Ho qualche speranza di arrivare almeno secondo?».
«No».
«Dimmi una cosa sola: a quanto mi quoti?».
«Ma figurati se ti quoto. Sei nei Vari ed Eventuali».
«Posso stornare i miei dieci euro su Vari ed Eventuali, allora?».
«La tua puntata è invalidata».
«Mi ridai i dieci euro?».
Carlo smette di rispondere.
Mi scrive l’indomani: «Guardati almeno Pragmatica del romanzo di Sacrosanti».
«E i miei dieci euro?», insisto.
«È il prezzo del consiglio che ti ho appena dato».
Poi si richiude in un silenzio che stavolta so che durerà almeno fino alla fine del concorso.
Guardare Pragmatica del romanzo, in effetti, è tutto quello che riesco a fare. Nel senso che Carlo me lo consiglia quando mancano 48 ore allo scritto, e in biblioteca a Viareggio figurati se ce l’hanno; mi tocca ordinarlo su Amazon, e alla fine a quel tomo di quasi 500 pagine scritte fitte, l’opus magnum sacrosantiano, posso dedicare un pomeriggio e una sera, e la sera nemmeno tutta, visto che devo andare a recuperare il mio portafortuna da Dario, un mio amico ipocondriaco a cui serviva per non so quale esame medico, e finisce che passiamo la serata a cazzeggiare.
Quindi alla fine di Pragmatica del romanzo riesco giusto ad arrivare a tre quarti dell’introduzione. Magari, mi dico, lo riprendo in mano nel caso mi ammettessero all’orale. Ovvero probabilmente mai.
I mozziconi delle dita di Giacomo Mattei, scarnificati da anni di un feroce rosicchiamento nervoso che ha ormai fatto sparire le unghie e svariati strati di derma, estraggono la traccia della prova scritta: «Il grottesco. A partire da Bachtin e Kayser, delinei il candidato l’estetica del grottesco in un autore, una corrente o un’epoca a sua scelta». La trentina di presenti si guardano l’un l’altro con un’inequivocabile espressione di sbigottimento. La frase che viene mormorata a mezza bocca praticamente da tutti è: «Che tema del cazzo». Il che è innegabile, ma, guarda un po’, è precisamente il mio tema del cazzo, dato che nell’unico testo che abbia ripassato per l’esame, ovvero la mia tesi di laurea, c’è un intero capitolo dedicato al grottesco in Kafka. In virtù di questo, per puro caso, ho anche idea di chi siano Bachtin e Kayser, e quindi mi appresto a fare un ottimo tema, pensando a tutti i pozzi di scienza che mi siedono accanto che vengono polverizzati in un istante dalla mia botta di culo.
A giudicare dai voti dello scritto, però, il mio entusiasmo a caldo era meno giustificato di quanto pensassi; è andata benino, certo, senz’altro meglio di quanto ventilassero i pronostici della vigilia, ma non è che sia stato quel trionfo che mi prospettavo dopo la consegna del tema. Ho preso 27, un ottimo voto, ma non abbastanza da presentarmi all’orale da favorito. Agnese Camasta, la bolognese che il totodottorato di Carlo dava a 2, ha preso un 30 bello tondo, il che direi che la mette ampiamente al di fuori della mia portata, ma pure della portata di chiunque. Poi ci sono io, con il mio onorevolissimo 27, e a seguire due dei favoriti – Pier Paolo e Virginia – che hanno preso voti buoni, ma meno del mio: 26 e 25. Il che potrebbe, per un errore prospettico, far pensare che io parta in pole position per la seconda borsa di studio (tre anni a 1.200 euro al mese per studiare, mi ripeto, gustandomi il sogno prima che mi sfugga dalle mani) ma in realtà, se si sommano anche titoli e valutazione della tesi, sono l’ultimo dei quattro. Per spuntarla all’orale dovrei superare sia Pier Paolo che Virginia di almeno due punti, il che mi sembra onestamente impossibile.
Già essere stato ammesso all’orale, comunque, è una vittoria. Siamo quattro su trenta, il che mi proietta tra i migliori, cosa che raramente sono stato in vita mia. Non potrò monetizzare l’impresa passando tre anni a studiare a spese del Ministero dell’Istruzione e della Ricerca, ma potrò uscire dalla mia esperienza universitaria a testa alta. È già una vittoria, se uno sa accontentarsi; e io modestamente è una delle cose che so fare meglio, accontentarmi.
Il 10 di novembre ci troviamo, noi quattro ammessi all’orale, in un corridoio del secondo piano di Palazzo Ricci, a fianco della stanzetta striminzita in cui hanno deciso di interrogarci. Io sarò il terzo, a quanto riporta il prospetto che hanno attaccato con un pezzetto di scotch alla porta. In quanto ex studente di questa università, e di fronte a quella fior fiore di studentessa forestiera, mi vergogno un po’ di questa sciatteria quasi ostentata. Per fortuna ad alzare un po’ il tono arriva Sacrosanti, elegante e disinvolto, che prima di ritirarsi con i colleghi si ferma a salutare personalmente ciascuno di noi, e dice una parola e mezza battuta a ciascuno.
A me riserva un «Tu sei Kafka, vero?», in riferimento al mio tema (spero). Mi stringe la mano con una bella presa, ferma ma non soverchiante, sicura di sé e rassicurante nello stesso tempo. Il suo passaggio ha l’effetto di sciogliere la tensione. Ci mettiamo a chiacchierare. Mi bastano cinque minuti per capire che sono tutti e tre di un altro pianeta rispetto a me, e non mi riferisco solo alle nozioni che sciorinano in fatto di letteratura e critica letteraria, ma anche alla conoscenza approfondita della geopolitica accademica. In questo campo l’eccellenza incontrastata è Pier Paolo, il normalista pugliese che si è laureato con Sacrosanti, e che a quanto pare ha preferito il dottorato con lui a quello in Normale. Pier Paolo snocciola con mirabile competenza trame e sottotrame dell’accademia letteraria italiana: chi ha studiato con chi, chi non sopporta chi, chi ha rubato la moglie a chi, chi ha copiato chi, chi non va ai convegni di chi, chi va ai convegni di chi ma poi ne parla male in privato, chi ha piazzato chi, chi deve un favore a chi, chi non può vedere chi ma se la deve mettere via perché è troppo più potente di lui, chi non ha speranze di avere un posto da chi a meno che non si imponga chi, chi ha stroncato la carriera a chi, chi è dovuto andare all’estero per sfuggire ai veti di chi, chi dall’estero sta facendo la guerra a chi, chi ha riportato il cervello in Italia per farselo maciullare dalle logiche di palazzo, chi scrive un articolo per la rivista diretta da chi al fine di far sdebitare chi e aprire una posizione per chi mettendo i bastoni tra le ruote a chi. Quando i sistemi di equazioni hanno raggiunto le cinque incognite, ho smesso di seguirlo.
L’affresco di Pier Paolo viene interrotto da Virginia – una ragazza pallida e taciturna che a quanto ho capito ha studiato soprattutto cose del Cinquecento – che approfitta di un secondo in cui Pier Paolo sta riprendendo fiato per chiedere alla bolognese su cosa si è laureata.
Lei in meno di dieci secondi rivela la sua dimensione intimamente soprannaturale: anche se fino a un secondo prima sembrava una persona anonima, non appena apre bocca diventa improvvisamente bellissima, con un fascino che se non me ne innamoro all’istante è solo per non rischiare di contaminare la sua divinità. Ha una voce profonda che una lieve cadenza emiliana rende immediatamente simpatica. Ci racconta della sua tesi su Eros e Priapo, ma potrebbe parlare di qualsiasi cosa, dato che dopo trenta secondi siamo tutti soggiogati. E comunque ci mette poco a passare da Gadda a Breaking Bad, per poi dare alcuni giudizi tutt’altro che banali su X Factor, e poi su Ghali e su The Lady di Lory del Santo senza farsi mancare una battuta sul modo in cui Grand Theft Auto ha rimodellato l’immaginario collettivo e relazionale dei teenager. Qualsiasi cosa tocchi, lo fa con leggerezza, raffinatezza e acume, e sembra capace di nobilitare una serie o uno youtuber semplicemente nominandoli. In un attimo ci siamo scordati delle sordide trame accademiche che Pier Paolo svelava con grande competenza e ci facciamo portare per mano da Agnese Camasta su vette di erudizione alessandrina per poi planare sul pop più ingenuo: da Bolaño a Lukaku e poi da Bello FiGo a Berlioz.
Io e Virginia ne siamo stregati, e facciamo a gara a chi ride più forte alle sue sottili e brillanti facezie; Pier Paolo cerca di inserirsi e di far vedere che anche lui ne sa, sia di cultura che di trash, ma risulta grossolano e artefatto laddove la bolognese è lieve e perfettamente naturale. Io sono sinceramente felice che sia lei a prendersi una delle due borse di studio, e provo un certo orgoglio anche solo a partecipare al suo stesso campionato, pur sapendo che tra noi non c’è partita.
L’orale sono chiacchiere.
Le domande sono inconsistenti, e servono giusto a far passare senza grossi imbarazzi quella mezz’ora canonica discorrendo come fossimo al bar: del percorso di studi, della tesi e di possibili progetti di ricerca. Tutta la commissione ostenta cortesia e dispensa sorrisi, e io li vorrei prendere a schiaffi tutti e tre. Non fanno altro che confermare un vecchio adagio di Carlo: nessuna commissione che sappia il fatto suo lascia che l’orale decida alcunché. I giochi si fanno tra scritto e valutazione dei titoli: un orale insignificante garantisce il mantenimento dell’equilibrio stabilito a priori, lontano da occhi indiscreti. Che nel nostro caso significa il giustificatissimo trionfo della Camasta e la seconda borsa al solido Pier Paolo.
Nella graduatoria finale, che appendono quel pomeriggio, sempre su un foglio A4 stampato storto appiccicato alla bacheca con un pezzo di scotch, io risulto terzo, tre punti sotto Pier Paolo e un punto sopra Virginia.
Primo dei perdenti. Un po’ mi rode, ma è obiettivamente meglio di quanto potessi sperare.
«Pronto, Carlo!».
«Marcello...», sembra titubare.
«Dimmi tutto. Pensavo mi avessi bandito».
«Ormai il concorso è finito».
«Me la sono cavata bene, no?».
«Senti...», inizia. Il tono non mi piace.
«Oh, va tutto bene? C’hai una voce».
«La Camasta ha rinunciato. Ha vinto un dottorato in Cattolica a Milano e ha mollato questo».
«Maddai!», dico. Poi mi rendo conto: «Cioè... ho vinto?».
«Hai una borsa, sì», la voce però è rimasta funerea.
«E non siamo contenti?».
«Mah, secondo me fai una cazzata».
«A fare il dottorato? Non vuoi che segua le tue orme?».
«È un mondo di merda, Marcello».
«Senti, Carlo, a me voialtri che dite che è un mondo di merda ma ci state dentro mi fate morire. A te chi te l’ha detto, di stare in quel mondo di merda?».
«Raffaele non è per nulla contento».
«Ma scusa, se è stato lui a farmi vincere!».
«Non hai vinto. È che quella ha rinunciato».
«E io che ci posso fare?».
«Sarebbe stato meglio che vincesse Virginia».
«E non potevano farla arrivare prima di me, allora?».
«Ma infatti: io lo avevo detto».
«In che senso?».
«Invece hanno preferito farti arrivare terzo perché tanto sapevano che erano passati quei due, allora Virginia tanto valeva farla arrivare quarta, per non avere sul podio solo sacrosantiani. Sacrosanti è uno che ci tiene alla forma: se vinci, non c’è motivo di stravincere».
«Quindi io servivo solo a dare una patina di trasparenza?».
«Oh, Marcello! Ma mica pensi veramente di essere più bravo di loro? La Camasta è un fenomeno, una che a vent’anni ha tradotto Perec, e Pier Paolo ha pubblicato la tesi e tre articoli su riviste di fascia A. E pure Virginia...».
«Non importa che me lo spieghi. Lo so da me che sono scarso. Su cento concorsi loro ne vincono cento e io zero. Però in uno di questi cento io arrivo terzo e la prima se ne va a studiare da un’altra parte, ferendo mortalmente l’ego di Sacrosanti. Ma io che ci posso fare? È andata così».
«È andata pure peggio».
«In che senso?».
«Che quella è andata con Martesana».
«E chi è Martesana?».
«Certo che non sai veramente un cazzo».
«Confermo».
«Martesana è l’arcinemico di Sacrosanti».
«Mado’, questi a sessant’anni c’hanno gli arcinemici, manco fossero Batman».
«È tutta la vita che quei due trattano gli stessi argomenti e sempre dandosele di santa ragione».
«Wow. Cassius contro Foreman».
«Molto meglio. Più sottile, più avvincente. Uno scontro in punta di penna che dura da venticinque anni. Ogni volta che uno dei due pubblica qualcosa vanno tutti a cercare le stoccate contro l’altro».
«Avvincente, proprio».
«Oh, ma non sei te che vuoi entrare in questo mondo?».
«E voi non mi ci volete».
«Non è che non ti ci vogliamo».
«Ma...».
«Ma è una situazione delicata».
«Ovvero?».
«Pensaci: Sacrosanti doveva avere la mente migliore della vostra generazione, a parte che la Camasta ha cinque anni meno di te...».
«Sei: ha fatto la primina».
«Insomma, Raffaele era tutto contento perché doveva prendersi questo fenomeno e invece il fenomeno se lo prende Martesana e lui si ritrova con...».
«Me».
«Esatto».
«Ed è grave?».
«Vedi te».