giovedì 17 luglio 2025

NUDI E CRUDI Alan Bennett


 NUDI E CRUDI

Alan Bennett

The Clothes They Stood Up In, 1996

 Recensione 

Stupenda lettura solo 90 pagine Molto ironico in una atmosfera assurda, che nasconde una riflessione tagliente sui rapporti di coppia, l’identità borghese e la fragilità del possesso.

 NUDI E CRUDI

Casa Ransome era stata svaligiata. «Rapinata» disse Mistress Ransome. «Svaligiata» la corresse il marito. Le rapine si fanno in banca, una casa si svaligia. Mister Ransome era avvocato e riteneva che le parole avessero la loro importanza. Anche se in questo caso era difficile trovare un termine preciso. Di solito un ladro sceglie, fa una cernita, prende un oggetto e ne lascia altri. C'è un limite a ciò che riesce a far sparire: per esempio, è raro che porti via una poltrona, ancor più raro un divano. Questi ladri, però, l'avevano fatto. Avevano preso tutto.

I Ransome erano andati all'opera a sentire "Così fan tutte" (il "Così", come Mistress Ransome aveva imparato a chiamarlo). Mozart era fondamentale nel loro matrimonio; i Ransome non avevano figli e probabilmente, non fosse stato per Mozart, si sarebbero divisi già da anni. Quando tornava a casa dallo studio Mister Ransome faceva sempre il bagno, poi cenava. E dopo cena faceva un altro bagno, questa volta in Mozart. Mister Ransome ci sguazzava, in Mozart, ci si tuffava; dal piccolo viennese si lasciava ripulire delle sozzure che aveva dovuto sopportare tutto il giorno al lavoro. Quella sera erano stati ai bagni pubblici, cioè al Covent Garden, dove seduto davanti a loro c'era il ministro dell'Interno. Anche lui era andato a fare un tuffo per lavarsi di dosso le preoccupazioni della giornata, preoccupazioni che di lì a poco, benché solo in forma di statistica, avrebbero annoverato anche i Ransome.

Normalmente Mister Ransome non condivideva il bagno serale con nessuno, giacché Mozart gli arrivava personalizzato tramite una cuffia e un sofisticato impianto stereo scrupolosamente equalizzato, che Mistress Ransome non poteva toccare per alcun motivo. Secondo lei, i ladri erano venuti proprio per colpa dello stereo, che li aveva attirati. I furti di stereo sono all'ordine del giorno; i furti di moquette no.

«Forse hanno preso la moquette per avvolgerci lo stereo» disse al marito.

Mister Ransome ebbe un brivido e ribatté che come imballaggio gli sembrava più plausibile la pelliccia, al che la moglie riattaccò a piangere.

Il "Così" non era stato un granché. Mistress Ransome non aveva capito la trama e a Mister Ransome, che non ci aveva mai neanche provato, era parso senz'altro inferiore alle quattro incisioni che aveva a casa. La recitazione lo distraeva sempre. «Non ce n'è uno che sappia come tenere le braccia» aveva commentato durante l'intervallo. Forse non era solo questione di braccia, aveva pensato Mistress Ransome, però non gliel'aveva detto. Le era sorto il dubbio che a 180 gradi lo sformato che aveva lasciato nel forno potesse venire troppo asciutto; forse sarebbe stato meglio a 170 gradi. Ma era un timore inutile: i ladri avevano portato via sia lo sformato sia il forno.

I Ransome abitavano non lontano da Regent's Park, in un palazzo edoardiano color vinaccia. Era comodo per chi lavorava nella City, ma Mistress Ransome avrebbe preferito stare più fuori; ogni tanto si vedeva fugacemente nel verde con un cestino al braccio. Il giardinaggio, tuttavia, non faceva per lei: la violetta africana che Mistress Clegg, la donna delle pulizie, le aveva regalato a Natale era spirata proprio quella mattina, e per evitare che se ne accorgesse l'aveva dovuta nascondere nell'armadio. Altra fatica sprecata: era scomparso pure l'armadio.

Rapporti di buon vicinato non ne avevano; a volte incontravano qualcuno in ascensore con cui scambiavano un sorrisetto guardingo. Un giorno avevano invitato i nuovi inquilini del loro pianerottolo a bere uno sherry, ma lui si era rivelato «un invasato del jazz» (così si definiva), mentre lei faceva la segretaria in uno studio dentistico e aveva una multiproprietà in Portogallo, sicché per un verso o per l'altro era stata una serata imbarazzante e l'esperienza non si era ripetuta. Ormai sembrava che il ricambio di inquilini fosse sempre più veloce e l'ascensore sempre più imprevedibile. C'era un viavai continuo, anche di arabi.

«Cioè, ormai pare un albergo» commentò Mistress Ransome.

«Ti sarei grato se smettessi di dire 'cioè'» ribatté Mister Ransome. «Non aggiunge nulla al senso della frase».

Di quel «parlare sciatto», come lo chiamava lui, ne sentiva già abbastanza al lavoro; in casa, a suo modesto parere, il minimo che potesse pretendere era una sintassi accettabile. Perciò Mistress Ransome, che normalmente aveva molto poco da dire, tendeva ormai a dire ancora meno.

Quando si erano trasferiti a Naseby Mansions il palazzo vantava un portiere con la divisa viola prugna intonata al colore della facciata. Costui era morto un pomeriggio del 1982 mentre fermava un taxi per Mistress Brabourne, quella del secondo piano, che poi glielo aveva ceduto per farlo portare all'ospedale. Nessuno dei successori aveva dimostrato altrettanto zelo sul lavoro, né altrettanto orgoglio per la divisa, e alla fine il ruolo di portiere si era svilito fino a confondersi con quello del guardiano, un tizio che all'ingresso non si vedeva mai e di rado si incontrava altrove, dato che stava sempre rintanato in un rovente stanzino dietro il locale caldaia, a dormire su una poltrona scartata da uno degli inquilini.

La sera del furto il guardiano non stava dormendo in poltrona, come d'abitudine, bensì a teatro. Allo scopo di conoscere un tipo più raffinato di ragazza, si era iscritto a un corso per adulti e tra le materie aveva scelto letteratura; potendo, aveva detto al professore, gli sarebbe piaciuto diventare un lettore vorace. Il professore aveva idee elettrizzanti, anche se non perfettamente articolate, sul tema «l'arte e il posto di lavoro»: nell'apprendere che lui faceva il guardiano gli aveva procurato dei biglietti per il dramma omonimo, pensando che le riflessioni stimolate dal testo avrebbero dato spunto a una discussione di gruppo. Ma il guardiano non restò più soddisfatto dei Ransome dalla serata a teatro, né il testo gli ispirò particolari riflessioni. «Considerato ciò che comporta in realtà il mio mestiere,» riferì alla classe «era una stronzata» . Il professore si consolò sperando che, a sorpresa, l'esperienza avrebbe prima o poi aperto dei varchi. E non sbagliava: a sorpresa, si aprì la porta di casa Ransome.

Più tardi arrivò la polizia, ma per farla venire c'era voluto ben altro che tirar su il telefono: a questo, infatti, avevano già provveduto i ladri, portandosi via tutti e tre gli apparecchi dopo aver staccato di netto filo e battiscopa. Siccome i dirimpettai latitavano («Concerto jazz o multivacanza in Portogallo» ipotizzò Mister Ransome), lui era dovuto partire alla ricerca di una cabina. «Un'impresa» aveva detto alla moglie, ora che le cabine servivano anche da gabinetto pubblico. Le prime due che aveva incontrato, anzi, si limitavano a quella sola funzione, perché il telefono era già stato divelto da un pezzo. La soluzione, naturalmente, sarebbe stata un cellulare, ma Mister Ransome aveva opposto a quella novità («Rivela una mancanza di organizzazione») la stessa resistenza che opponeva a tutte le altre, esclusa la riproduzione stereofonica.

Aveva continuato a girovagare per le strade deserte, domandandosi come faceva la gente. I pub erano tutti chiusi e l'unico posto ancora aperto era una lavanderia a gettone, che aveva un telefono pubblico in vetrina. Gli sembrò un colpo di fortuna: non avendo mai avuto motivo di frequentare un negozio del genere, non sapeva che potesse essere così attrezzato e si domandò se il servizio fosse a disposizione anche di chi non aveva niente da lavare. In ogni caso, il telefono era attualmente in mano all'unica cliente, una vecchia con due cappotti che visibilmente non lavava i panni da tempo. Così Mister Ransome prese coraggio.

La vecchia teneva la cornetta schiacciata su un orecchio lercio senza parlare, e in realtà senza neppure ascoltare.

«Potrebbe sbrigarsi, per favore?» le chiese Mister Ransome. «E' un'emergenza».

«Anche la mia, caro» ribatté la vecchia. «Sto telefonando a Padstow, solo che non rispondono».

«Devo chiamare la polizia» disse Mister Ransome.

«L'hanno aggredita?» chiese la vecchia. «A me anche, una settimana fa. Ma ormai nessuno si stupisce più. Era un ragazzino. Qui squilla, però c'è un corridoio lungo. Verso quest'ora bevono qualcosa di caldo. Sa, sono suore» aggiunse per chiarire.

«Suore?» fece Mister Ransome. «Ma è sicura che non siano già andate a letto?».

«No, ce n'è sempre qualcuna in giro. Sono in ballo con le funzioni tutta la notte».

E continuò ad ascoltare il telefono che squillava in Cornovaglia.

«Non può riprovare dopo?» tornò alla carica Mister Ransome, vedendo sfrecciare i suoi averi sull'autostrada. «La rapidità è un fattore essenziale».

«Lo so,» rispose la vecchia «invece le suore hanno tutto il tempo che vogliono. Il bello è proprio questo, salvo quando gli si telefona. Ho intenzione di andarci in ritiro a maggio».

«Ma siamo solo a febbraio!» esclamò Mister Ransome. «E io...».

«I posti vanno via come il pane» spiegò la vecchia. «E ti credo: non si parla mai e si mangia tre volte al giorno. La usano come casa di villeggiatura per religiosi. Chi l'avrebbe detto che una monaca ha bisogno di una vacanza. Pregare mica è stressante, mica è come guidare l'autobus. Questo continua a squillare. Forse hanno già finito e si sono spostate nella cappella. In effetti, potrei riprovare più tardi, solo che...». La vecchia guardò gli spiccioli in attesa nella mano di Mister Ransome. «Ormai ci ho messo i soldi».

Mister Ransome le allungò una sterlina, ma lei si prese anche gli altri cinquanta penny. «Tanto» disse «la chiamata alla polizia è gratis».

Non appena riattaccò, le sue monetine scesero giù da sole; ma Mister Ransome era così ansioso di telefonare che non ci badò. Più tardi, però, seduto sul pavimento di quella che era stata la loro camera da letto, aveva detto alla moglie: «Te lo ricordi il tasto per la restituzione delle monete? Lo sapevi che non c'è più? Non ci avevo mai fatto caso».

«Non c'è più niente,» aveva risposto Mistress Ransome assorta «nemmeno il deodorante, nemmeno il portasapone. Questi sono dei marziani. Cioè, dico, hanno portato via addirittura lo scopettino del gabinetto».

«Polizia, ambulanza o vigili del fuoco?» chiese una voce di donna.

«Polizia» rispose Mister Ransome. Seguì un attimo di silenzio.

«'Sta banana mi ci voleva proprio» disse una voce maschile. «Pronto, polizia» . Mister Ransome cominciò a parlare, ma l'uomo tagliò corto: «C'è gente in pericolo?». Stava masticando qualcosa.

«No» rispose Mister Ransome. «Ma...».

«Qualcuno ha ricevuto minacce?».

«No» rispose Mister Ransome. «Solo che...».

«Capo, al momento c'è un piccolo ingorgo» lo interruppe la voce. «Abbia pazienza, la metto in attesa».

Mister Ransome si ritrovò ad ascoltare un valzer di Strauss.

«Probabilmente stanno bevendo qualcosa di caldo» commentò la vecchia, che a giudicare dall'olezzo era ancora lì dietro.

«Scusi» disse la voce cinque minuti dopo. «Al momento siamo in manuale, il computer ha il singhiozzo. Posso esserle utile?».

Mister Ransome spiegò che avevano subìto un furto e diede l'indirizzo.

«Parla dal telefono?».

«Ovviamente» rispose Mister Ransome. «Solo che...».

«Com'è il numero?».

«Hanno portato via anche il telefono» disse Mister Ransome.

«Non è una novità» commentò la voce. «Era un cordless?»

«No» rispose Mister Ransome. «Ce n'era uno soggiorno, un altro vicino al letto...».

«Non ci perdiamo in dettagli» disse la voce. «Del resto il furto di un telefono non è la fine del mondo. Mi ridice il numero?».

Quando Mister Ransome fece ritorno a casa era l'una passata. Mistress Ransome sedeva appoggiata al muro nella loro camera, nel posto in cui sarebbe andata a letto se ci fosse stato il letto. Ormai si era messa l'anima in pace. In assenza del marito aveva pianto parecchio; poi, però, si era asciugata gli occhi, decisa a far buon viso a cattivo gioco.

«Ho pensato che forse eri morto» gli disse.

«E perché mai?».

«Be', le disgrazie non vengono mai da sole».

«Se proprio vuoi saperlo, sono finito in una lavanderia a gettone. Un'esperienza orribile. Cosa mangi?».

«Una pastiglia per la tosse. L'ho trovata nella borsetta». Era una delle pastiglie che lui le aveva imposto di portarsi all'opera da quella volta che aveva tirato su col naso per tutto il "Fidelio".

«Ce n'è un'altra?».

«No» rispose Mistress Ransome succhiando. «Era l'ultima».

Mister Ransome andò al gabinetto e troppo tardi si rese conto che i ladri erano stati talmente meticolosi da far sparire sia la carta igienica sia il portarotolo.

«Non c'è carta» gli gridò la moglie.

L'unico pezzo di carta reperibile in tutta la casa era il programma del "Così", e mentre glielo passava dalla porta socchiusa Mistress Ransome notò - non senza soddisfazione - che il marito sarebbe stato costretto a pulirsi il didietro su un ritratto di Mozart.

Rigido e spesso com'era, il dépliant patinato (sponsorizzato dalla Barclay's Bank) risultò poco pratico e soprattutto inaffondabile; nonostante tre tirate di sciacquone, l'occhio risentito di Georg Solti continuò a fulminare Mister Ransome dal buco della tazza.

«Meglio?» chiese sua moglie.

«No» rispose il marito, sedendosi accanto a lei contro il muro. Ma poiché il battiscopa le stava piantato nella schiena, Mistress Ransome si mise di traverso con la testa sulla coscia del marito, posizione in cui non si trovava da molti, lunghi anni. Benché Mister Ransome seguitasse a dirsi che era un'emergenza, quell'intimità gli sembrò sia fastidiosa sia imbarazzante; evidentemente, però, piaceva a sua moglie, che si addormentò subito, lasciandolo lì a guardare con aria tetra la parete di fronte e la finestra senza più tende. In quel momento si accorse sconcertato che i ladri avevano rubato anche l'asta e gli anelli.

Erano già le quattro quando arrivò la polizia, cioè un omone di mezz'età con l'impermeabile che si presentò come un sergente del reparto investigativo e un giovane agente in divisa dall'aria sensibile, che non disse una parola.

«Alla buon'ora» commentò Mister Ransome.

«Sì,» rispose il sergente «saremmo arrivati prima, senonché c'è stato un piccolo... ehm... inconveniente, come si dice. Campanello sbagliato. Colpa del qui presente professorino: ha visto il nome Hanson e...».

«No, Ransome» precisò Mister Ransome.

«Appunto, alla fine l'abbiamo capito... Trasloco recente, eh?» disse il sergente squadrando il parquet spoglio.

«No, abitiamo qui da trent'anni» ribatté Mister Ransome.

«E l'appartamento era tutto ammobiliato?».

«Ovvio» rispose Mister Ransome. «Era una casa normale».

«Divano, poltrone, pendola...» disse Mistress Ransome. «Avevamo tutto».

«Anche la televisione?» domandò timidamente l'agente.

«Sì» rispose Mistress Ransome.

«Ma non la guardavamo tanto» disse Mister Ransome.

«Videoregistratore?» .

«No» rispose Mister Ransome. «La vita è già abbastanza complicata».

«Lettore C.D.?».

«Sì» risposero i Ransome all'unisono.

«E mia moglie aveva la pelliccia» aggiunse Mister Ransome. «L'assicurazione ha un elenco degli oggetti di valore».

«In tal caso» disse il sergente «siete a cavallo. L'agente Partridge prenderà nota dei particolari. Io intanto, se non vi dispiace, faccio un giretto. I vicini hanno visto niente?».

«Sono in Portogallo» rispose Mister Ransome.

«E il guardiano?».

«Forse è in Portogallo anche lui,» disse Mister Ransome «data la frequenza con cui si fa vedere».

«Ransom come il titolo del film» domandò l'agente «o come Arthur Ransome?».

«Partridge è una delle nostre nuove leve col diploma» spiegò il sergente esaminando la porta d'ingresso.

«La serratura non è stata forzata, vedo. Saranno entrati dalla finestra. Non è che si potrebbe avere un tè, no?».

«No,» rispose Mister Ransome tagliente «visto che non si può avere neanche una teiera. Per non dire una bustina da metterci dentro».

«Vorrete il sostegno psicologico, penso, no?» disse l'agente.

«Come?».

«Qualcuno che venga qui a tenervi la mano» disse il sergente controllando la finestra. «Secondo Partridge è importante».

«Siamo tutti esseri umani» disse l'agente.

«Io sono un avvocato» disse Mister Ransome.

«Be',» disse il sergente «magari potrebbe provarci la sua signora. Facciamo contento il nostro Partridge».

Mistress Ransome sorrise con aria servizievole.

«Allora scrivo di sì» disse l'agente.

«Non è che hanno lasciato qualcosa, no?» domandò il sergente tirando su col naso, mentre passava la mano su una modanatura.

«No, come può vedere da sé non hanno lasciato assolutamente nulla» rispose Mister Ransome stizzito.

«Non volevo dire qualcosa di vostro» precisò il sergente. «Dicevo qualcosa di loro». E di nuovo tirò su col naso, con sguardo interrogativo. «Un ricordino».

«Un ricordino?» chiese Mistress Ransome.

«Escrementi» rispose il sergente. «Quello del topo d'appartamenti è un mestiere che dà ansia. Il ladro sente spesso il bisogno di evacuare per scaricarsi».

«Che poi sarebbe un altro modo per dirlo» intervenne l'agente.

«Per dire cosa, Partridge?».

«Scaricarsi è un altro modo per dire evacuare. In francese» proseguì l'agente «si dice appostare una sentinella».

«Ah, ecco. E questo te l'hanno insegnato a Leatherhead?» disse il sergente. «Partridge si è diplomato all'Accademia di polizia».

«E' come l'università» spiegò l'agente. «Solo che lì ci si comporta meglio».

«Ad ogni modo,» disse il sergente «date una controllata in giro. Per gli escrementi, dico. Certi ladri sono parecchio creativi. In una casa di Pangbourne l'avevano fatta dentro un'applique del Settecento. In qualunque altro campo avrebbero preso un'onorificenza».

«Forse lei non se n'è accorto,» sottolineò torvo Mister Ransome «ma non abbiamo più lampade».

«Un altro a Guildford l'ha fatta in una ciotola di pot-pourri».

«Un vero paradosso» disse l'agente.

«Senti senti. E io che credevo fosse solo un drogato con un problema di incontinenza. Comunque, visto che siamo in tema di funzioni corporali, prima di salutarci vado in quel posticino anch'io».

Mister Ransome si rese conto troppo tardi che avrebbe dovuto avvertirlo e andò a rifugiarsi in cucina.

Il sergente tornò scuotendo la testa.

«Be', almeno i nostri amici hanno avuto la decenza di usare il gabinetto; però l'hanno lasciato che è uno schifo. Non avrei mai pensato di dover fare la pipì su Kiri Te Kanawa. La sua incisione di "West Side Story" è una delle chicche della mia collezione».

«Per la verità,» confessò Mistress Ransome «è stato mio marito».

«Santo cielo» esclamò il sergente.

«A fare che?» domandò Mister Ransome rientrando nella stanza.

«Niente» rispose la moglie.

«Crede che riuscirete a prenderli?» chiese Mister Ransome sulla porta.

Il sergente scoppiò a ridere.

«Be', i miracoli capitano anche nel mondo della pubblica sicurezza. Non è che qualcuno ce l'aveva con voi, no?»

«Io sono avvocato» disse Mister Ransome. «Quindi sarebbe possibile».

«Non è che qualcuno avrà pensato di farvi uno scherzo?».

«"Uno scherzo?"» esclamò Mister Ransome.

«Era solo un'idea» rispose il sergente. «Ma vi avverto: se è un vero topo d'appartamenti, ritornerà».

L'agente annuì con aria competente; anche a Leatherhead concordavano in materia. «Ritornerà?» esclamò Mister Ransome con sarcasmo, guardando l'appartamento vuoto. «"Ritornerà?" E che cazzo dovrebbe tornare a fare?».

Mister Ransome non diceva quasi mai parolacce e sua moglie, che era rimasta di là, fece finta di non aver sentito. La porta si chiuse.

«Inutile» disse Mister Ransome rientrando nel soggiorno. «Tutto perfettamente inutile. Per forza uno poi ricorre al turpiloquio».

«Be',» disse Mistress Ransome qualche ora dopo «ci toccherà accamparci e basta. In fin dei conti,» aggiunse con una certa eccitazione «potrebbe anche essere divertente».

«Divertente?» esclamò il marito. «"Divertente?"».

Mister Ransome aveva la barba lunga, non si era lavato, gli bruciava il posteriore e per colazione aveva bevuto un sorso d'acqua dal rubinetto. Ciò nonostante, per quante suppliche gli rivolgesse la moglie, volle andare eroicamente al lavoro - e Mistress Ransome capì d'istinto che, anche in quelle circostanze inedite, le sarebbe toccato plaudere alla generosa abnegazione del consorte.

Tuttavia, quando rimase sola nell'appartamento così vuoto, sentì un po' la sua mancanza e si mise a gironzolare da una stanza echeggiante all'altra senza saper bene da dove cominciare. Decise di fare una lista della spesa; ma si era dimenticata di non avere nulla per scrivere. Perciò fece un salto dal cartolaio a comprare matita e bloc-notes, e arrivata davanti al negozio si accorse per la prima volta che accanto c'era un caffè. A quanto pareva servivano abbondanti colazioni. Anche se col vestito da sera si sentiva un po' fuori luogo fra i tassisti e i fattorini che prevalentemente affollavano il locale, nessuno le badò; la cameriera la chiamò addirittura «ciccia» e, intanto che aspettava l'uovo con la pancetta, i fagioli e il pane fritto, le portò una copia del «Mirror». Il «Mirror» non era un quotidiano che Mistress Ransome avrebbe letto normalmente, ma neanche l'uovo con la pancetta, i fagioli e il pane fritto era una colazione che normalmente avrebbe fatto, e i resoconti su splendori e miserie della famiglia reale la interessarono a tal punto che per mangiare e continuare a leggere appoggiò il giornale alla bottiglia della salsa, scordandosi completamente che in quel caffè era entrata anche per fare la lista della spesa.

Senza lista fece gli acquisti un po' a casaccio. Andò prima da Boots a comprare la carta igienica, i bicchieri e i piatti di carta, ma dimenticò il sapone. E quando si ricordò del sapone e tornò indietro dimenticò il tè, e quando si ricordò del tè dimenticò i tovaglioli; a furia di andirivieni cominciò a sentirsi esausta.

Fu al terzo di questi viaggi sempre più esasperanti (adesso si era scordata le posate di plastica) che si avventurò nel negozio di Mister Anwar. Ci era già passata davanti tante volte, perché era sul tragitto fra casa sua e Saint John's Wood High Street; si ricordò di quando lo avevano aperto e della merceria che c'era prima, della quale era stata una fedele cliente. La mandava avanti una tale Miss Dorsey, che negli anni le aveva venduto qualche sporadico centrino o rocchetto di filo e, con molta più regolarità, certi pacchetti di carta marrone contenenti quelli che all'epoca venivano chiamati «pannolini». La chiusura del negozio, alla fine degli anni Sessanta, l'aveva lasciata sguarnita e ansiosa, finché un giorno, arrischiandosi a entrare da Timothy White's, non aveva scoperto con autentica sorpresa che in quel settore così intimo la tecnologia aveva fatto passi da gigante, mai rispecchiati dalle antiquate scorte di Miss Dorsey, di cui lei, alla fine, era rimasta forse l'unica consumatrice. Mistress Ransome era una persona all'antica e lo sapeva; ma qui c'entrava anche una punta di snobismo, perché ricevere l'articolo richiesto senza dover dire una parola davanti al sorriso paziente e mesto di Miss Dorsey («La nostra croce» mormorava quel sorriso), anziché vederlo tirar giù dai promiscui scaffali di Timothy White's, le era sembrato vagamente più signorile. Poco tempo dopo Timothy White's aveva seguito le stesse sorti della Dorsey, pappato in un sol boccone da Boots. Che a onor del vero era un pizzico più su di Superdrug, l'altra grande farmacia della zona, che di signorile non aveva proprio niente.

Dopo la chiusura della merceria di Miss Dorsey (trovata un pomeriggio riversa sul bancone, fulminata da una sincope), i locali rimasero vuoti finché una mattina, andando verso la High Street, Mistress Ransome notò che al suo posto c'era un alimentari asiatico e che sul marciapiede, dove prima sostava solo qualche rara carrozzina, stavano allineate casse di ortaggi insoliti - ignami, papaie, manghi e via dicendo -, più una gran quantità di sacchi diversi, davanti ai quali sembrava assai probabile che i cani di passaggio alzassero la zampa.

Dunque era stato un po' per lealtà nei confronti della Dorsey e un po' perché quel genere di roba non faceva per lei che Mistress Ransome non aveva messo piede nel negozio di Mister Anwar fino a quella mattina, quando per risparmiarsi l'ennesima puntata nella High Street si disse che poteva benissimo entrare a chiedere se non avessero del lucido da scarpe (c'erano necessità molto più urgenti e lei sarebbe stata la prima ad ammetterlo, ma al lucido Mister Ransome teneva in modo particolare). Sebbene fossero passati più di vent'anni dai tempi di Miss Dorsey, non notò grandi cambiamenti. A parte l'introduzione di un congelatore e delle vetrine frigorifero, Mister Anwar aveva semplicemente adattato i vecchi arredi alle nuove esigenze: i cassetti riservati in origine al leggiadro strumentario di un'esistenza ricca di tempo libero - uncinetti, tomboli, trine - ospitavano adesso chapati e naan; le spezie avevano sostituito cuffiette e scarpini di lana, mentre gli scaffali e i cassettoni che una volta accoglievano busti e maglieria intima erano pieni di riso e ceci.

Mistress Ransome riteneva improbabile che vendessero anche il lucido (ma poi gli indiani usavano scarpe normali?). Aveva il dubbio che sul color sangue di bue che cercava (o meglio, che Mister Ransome esigeva) potessero avere riserve di tipo religioso, ma era talmente stanca che fece un tentativo. Il paffuto e allegro Mister Anwar sottopose alla sua gentile attenzione varie scatolette, e al momento di pagare le cadde l'occhio su uno spazzolino per le unghie che prima o poi sarebbe venuto buono; i pomodori sembravano belli, come pure quel limone, e vedendo che avevano anche casalinghi comprò un colino. Gironzolando per il locale, l'altrimenti muta Mistress Ransome si sorprese a intrattenere il gioviale droghiere sulle circostanze che l'avevano spinta ad acquistare un assortimento così strano. Lui sorrise e scrollò la testa con espressione partecipe, indicandole nel frattempo altri articoli che avrebbe certo dovuto ricomprare e che lui sarebbe stato felice di fornirle. «Quei mascalzoni vi hanno ripulito da cima a fondo. Non vi raccapezzerete più. Le servirà del detersivo per i piatti e una di queste confezioni, per fare del W.C. un ambiente più fragrante».

Mistress Ransome finì per comprare una decina e passa di cose, troppe per portarle da sola; ma nemmeno di questo c'era da preoccuparsi, perché Mister Anwar fece scendere dal piano di sopra il figlioletto («Speriamo che non abbia dovuto piantare lì il Corano per causa mia» si augurò Mistress Ransome), che la seguì fino a casa con la sua papalina bianca e la spesa dentro uno scatolone.

«Sarà tutto di seconda mano» commentò più tardi Mister Ransome. «E' così che ci guadagnano».

Mistress Ransome non capiva come si potesse vendere un lucido da scarpe di seconda mano, ma evitò di farglielo notare.

«Speriamo che facciano le consegne a domicilio» disse invece.

«Vorrai dire che accettino le ordinazioni per telefono» la corresse Mister Ransome. «La consegna a domicilio l'hanno già fatta».

«Comunque», ribatté Mistress Ransome in tono di sfida «rimane aperto fino alle dieci».

«Perché può permetterselo» disse Mister Ransome. «Figurati se quello paga qualcuno. Io mi terrei stretto Marks & Spencer».

E lei, in generale, ubbidì. Ma una volta si fermò al volo e comprò un mango per pranzo e un'altra volta una papaia; avventure minime, certo, ma pur sempre distacchi, timidi viaggi esplorativi che, conoscendo il marito, preferì tenere per sé.

I Ransome avevano pochi amici e invitavano di rado; Mister Ransome diceva di vedere già abbastanza gente per lavoro. Nelle rare occasioni in cui Mistress Ransome incontrava qualcuno e provava a descrivere la loro terribile esperienza, rimaneva sorpresa dal fatto che tutti avevano la loro storia di ladri da raccontare. Nessuna vicenda le sembrava mai brutale e scioccante quanto la loro, che francamente avrebbe dovuto sbaragliare quei furtarelli poco eclatanti. Ma non era questione di proporzioni: gli amici sopportavano il suo racconto solo in quanto inevitabile preludio al loro. Mistress Ransome domandò al marito se se n'era accorto.

«Sì» rispose lui seccamente. «Neanche fosse un qualsiasi fatterello di cronaca».

Lo era, naturalmente. Ma nessun caso aveva mai la stessa compiutezza, la stessa totalità a dir poco epica del loro; di questo era certo.

«Tutto» disse a Gail, la sua segretaria di vecchia data. «Tutto fino all'ultimo spillo» .

Gail era una donna alta, dall'aria dolente: cosa normalmente gradita a Mister Ransome, che mal tollerava quelle che lui chiamava «tante smancerie» (leggi: la femminilità) . Ma se Gail avesse fatto tante smancerie, forse gli avrebbe mostrato un po' di partecipazione. Invece, come gli altri, snocciolò la propria disavventura personale e si dichiarò sorpresa che a lui non fosse accaduto prima, perché quasi tutti quelli che conosceva avevano subìto almeno un furto, e suo cognato (che faceva il pedicure a Ilford) addirittura due; una volta gli erano entrati in casa con la macchina mentre stavano guardando la televisione.

«Ma lei, piuttosto, stia attento al trauma, che mica prende tutti alla stessa maniera. Pare che la caduta dei capelli sia spesso conseguenza di un furto. A mia sorella invece è venuto un eczema tremendo. Comunque,» aggiunse Gail «sono sempre uomini».

«A fare che?» disse Mister Ransome.

«A svaligiare le case» .

«Be', le donne taccheggiano» commentò Mister Ransome, sulla difensiva.

«Mai fino a quel punto» ribatté Gail. «Mica ripuliscono tutto il negozio».

Senza capire bene come fosse finito dalla parte del torto, Mister Ransome, indispettito e frustrato, ci riprovò con Mister Pardoe dello studio accanto; ma non ebbe sorte migliore. «Dice ripuliti da cima a fondo? Be', ringrazi che non eravate in casa. Il mio dentista e sua moglie sono rimasti legati sette ore, e ancora si considerano fortunati perché non c'è stato stupro. Passamontagna, walkie-talkie... Ormai è un business. Fosse per me, li castrerei».

Quella sera Mister Ransome tirò fuori dalla valigetta un vocabolario (entrambi nuovi acquisti). Il vocabolario era il suo libro preferito.

«Che fai?» gli chiese la moglie.

«Cerco l'etimologia di 'furto'».

Nel giro di una settimana Mistress Ransome si era procurata l'essenziale: due brandine, lenzuola e asciugamani, un tavolo e due sedie pieghevoli. Poi comprò due «sacchi di fagioli», come li chiamava lei, benché al negozio avessero un altro nome; erano poltrone piuttosto diffuse, pareva, anche tra gente che non aveva avuto i ladri e si sedeva in terra per scelta. A un certo punto arrivò perfino (contributo di Mister Ransome) un lettore C.D. portatile insieme a un'incisione del "Flauto magico".

Far compere l'aveva sempre divertita. Di conseguenza, l'imprescindibile necessità di riattrezzarsi ebbe un risvolto piacevole, anche se l'urgenza era tale da non lasciare grande spazio all'estro. Fino a quel momento ogni elettrodomestico era stato acquistato personalmente da Mister Ransome, o su sua precisa indicazione, anche nel caso di un aspirapolvere (che lui non passava mai) o di una lavastoviglie (che riempiva di rado). Tuttavia, date le circostanze, Mistress Ransome si vide autorizzata a comprare qualunque cosa ritenesse essenziale; quindi non solo prese un bollitore elettrico, ma si lasciò tentare anche da un forno a microonde, innovazione lungamente avversata dal marito in quanto, a suo giudizio, inutile.

La probabilità che molti di questi articoli (per esempio i sacchi di fagioli) sarebbero stati eliminati, non appena fosse arrivato il rimborso, in favore di qualcosa di più permanente non attenuava il silenzioso entusiasmo di Mistress Ransome. E dal momento che, insieme a tutti gli altri documenti, era stata rubata anche la polizza, poteva darsi che il risarcimento tardasse e di conseguenza anche la seconda fase, quella eliminatoria. Nel frattempo conducevano una vita spartana, che a Mistress Ransome non risultava affatto sgradita.

«Tiriamo avanti con lo stretto indispensabile» spiegò Mister Ransome.

«Vi hanno davvero lasciato in mutande» commentò Croucher, il suo assicuratore.

«No» disse Mister Ransome. «Si sono portati via anche quelle».

«Ma lei non pensa» gli domandò Croucher «che possa trattarsi di una specie di scherzo?» .

«Me lo chiedono tutti» commentò Mister Ransome. «Evidentemente gli scherzi non sono più quelli di una volta. Credevo che uno scherzo dovesse far ridere».

«Che tipo di stereo aveva?» chiese Croucher.

«Oh, un impianto all'avanguardia» rispose Mister Ransome. «Il meglio che c'era sul mercato. Devo avere ancora le ricevute... ah, no, certo che no. Dimenticavo».

Anche se la dimenticanza era autentica, fu una fortuna che le ricevute fossero state rubate insieme al relativo impianto, perché Mister Ransome aveva detto una piccola bugia. Il suo impianto stereo non era esattamente all'avanguardia; ma d'altronde quale impianto può dirsi tale? La riproduzione del suono non è cosa statica; il perfezionamento è costante e quasi non passa settimana senza che si registri qualche progresso tecnico. Essendo un avido lettore di riviste di hi-fi, Mister Ransome vedeva spesso la pubblicità di certe innovazioni che avrebbe sognato di integrare nella sua esperienza d'ascolto, e il furto, per quanto sconvolgente, gliene dette l'occasione. Fu dunque nel momento in cui prese coscienza dei potenziali vantaggi della sua sventura che quest'uomo granitico cominciò, seppur con riluttanza, a vedere le cose sotto un'altra luce.

Anche Mistress Ransome vedeva il lato dilettevole della faccenda; ma per lei era normale. All'epoca del matrimonio i due si erano dotati di tutto ciò che occorreva in una casa come si deve: avevano un servizio di piatti completo, un servizio da tè con tovaglia e tovaglioli di lino, e inoltre piattini da dessert, coppe per il gelato e ogni genere di vassoi. Centrini per il tavolo da toilette, sottocoppe per il tavolino da caffè e centrotavola per la tavola da pranzo; asciugamani grandi e piccoli per gli ospiti e set di spugna coordinati per la vasca e il gabinetto. Coltelli da torta, da pesce e altri coltelli vari, nonché delicate palette d'argento e osso di cui Mistress Ransome non era mai riuscita a stabilire l'esatta funzione. Sopra tutto troneggiava una massiccia scatola per posate a più piani, zeppa di coltelli, forchette e cucchiai per dodici. I Ransome non invitavano mai dodici persone; i Ransome non invitavano affatto. Gli asciugamani per gli ospiti li usavano di rado, perché di ospiti non ne avevano mai. Si erano portati dietro quell'armamentario per trentadue anni di matrimonio e Mistress Ransome non capiva perché. Adesso si erano sbarazzati di tutto in un colpo solo. Mentre sciacquava nel lavello le loro uniche due tazze, Mistress Ransome si mise improvvisamente a cantare.

«Sarà meglio far conto che sia andato tutto perduto e che non riavrete indietro niente» disse Croucher. «Forse a qualcuno piaceva l'idea di avere una casa borghese ben arredata e ha scelto la via più breve».

Si era fermato sulla porta.

«Le farò avere un assegno appena possibile, così potrete cominciare a ricostruirvi una vita. La sua signora, comunque, sembra averla presa bene».

«Sì,» rispose Mister Ransome «ma non vuol darlo a vedere».

«Niente gioielli di valore o simili?»

«No. Non ha mai avuto una grande passione per quel genere di cose» rispose Mister Ransome. «Meno male che all'opera si era messa le perle».

«Stasera portava una collana» disse Croucher. «Anche piuttosto vistosa, oserei dire».

«Ah, sì?». Mister Ransome non ci aveva fatto caso.

Mentre cenavano seduti al tavolo pieghevole domandò alla moglie: «La conosco, quella collana?».

«No. Ti piace? L'ho comprata all'alimentari».

«L'alimentari?».

«Sì, quello dell'indiano, costava solo settantacinque penny. Non posso mica mettermi sempre le perle».

«Sembra uscita da un uovo di pasqua».

«Secondo me, mi sta bene. Ne ho comprate due. L'altra è verde».

«Cos'è questa roba?» chiese Mister Ransome. «Un sedano rapa?».

«E' una patata dolce. Ti piace?».

«Dove l'hai presa?».

«Da Marks & Spencer».

«Molto buona».

Un paio di settimane dopo il furto (ormai tutto datava da quello), allungata sul sacco di fagioli davanti al caminetto elettrico, Mistress Ransome si contemplò le scarpe décolleté ormai piuttosto scalcagnate, pensando alla prossima mossa. Quando moriva qualcuno, si disse, era lo stesso: tante cose da sbrigare all'inizio, poi più nulla.

Eppure, proseguendo le sue riflessioni davanti al lavello, le parve che una separazione tanto brusca dai suoi beni terreni comportasse alcuni benefici, benefici che forse non avrebbe osato definire spirituali ma che, con più disinvoltura, si potevano far rientrare nella categoria delle «lezioni salutari». A suo avviso, il fatto che le avessero quasi letteralmente tirato via la moquette da sotto i piedi doveva stimolarle utili pensieri sul modo in cui aveva vissuto fin allora. Un tempo l'avrebbe salvata la guerra, o qualche altro sconvolgimento irreparabile. E benché l'accaduto non fosse una catastrofe di quella portata, capiva che stava a lei sfruttarlo al meglio. Sarebbe andata a visitare musei e gallerie d'arte, si disse; avrebbe studiato la storia di Londra. Oggigiorno ci sono corsi di ogni genere, corsi che lei avrebbe potuto benissimo frequentare anche prima che le rubassero tutto. Ma sembrava fosse stato proprio quel tutto a trattenerla. Ora poteva incominciare. Sprofondata nel sacco di fagioli sul nudo parquet del suo ex salotto, Mistress Ransome scoprì di non essere infelice; si disse che questa situazione era più autentica e che d'ora in avanti avrebbero rinunciato al superfluo (naturalmente, fatti salvi certi comfort).

Fu a questo punto che suonò il citofono.

«Mi chiamo Fine» disse la voce. «Per il sostegno alle famiglie, ha presente?».

«Noi votiamo conservatore» rispose Mistress Ransome.

«No» disse la voce. «La polizia, ha presente. Il trauma. Il furto».

Sapendo che la psicologa arrivava tramite la polizia, Mistress Ransome si era aspettata un tipo un po' più... curato. Ma Miss Fine non aveva niente di curato, tranne forse il cognome, del quale peraltro si liberò sulla soglia.

«No, no, mi chiami Dusty. Mi ci chiamano tutti».

«Ma è il suo nome di battesimo?» le chiese Mistress Ransome facendola accomodare. «Oppure è un soprannome?»

«No, io mi chiamo Brenda, però non voglio mettere a disagio nessuno».

Mistress Ransome non capì bene in che senso. In effetti non sembrava una Brenda; ma non sapeva neanche se avesse una faccia da Dusty, non avendone mai conosciute altre.

Era una ragazza abbastanza robusta che, forse saggiamente, aveva optato per uno scamiciato anziché un vestito, con sopra un cardigan così lungo e largo che era quasi un abito di per sé - una tasca gonfia di agenda e taccuino e l'altra sformata dal peso del cellulare. Considerato che lavorava per il Ministero, Mistress Ransome pensò che Dusty aveva un'aria piuttosto sciatta.

«Lei allora è Mistress Ransome? Rosemary Ransome?»

«Sì».

«E la chiamano così? Rosemary?».

«Be', sì» (se e quando mi chiamano rifletté Mistress Ransome).

«Non è che la chiamano Rose o Rosie?».

«No, no».

«Anche il maritino la chiama Rosemary?»

«Be', sì» rispose Mistress Ransome. «Direi di sì».

E andò a mettere su l'acqua per il tè, consentendo a Dusty di prendere il suo primo appunto: «Domanda: sarà il furto il vero problema?» .

All'epoca in cui Dusty aveva cominciato a fare sostegno psicologico, le vittime venivano chiamate «casi». La consuetudine era scomparsa da tempo: adesso si chiamavano «clienti» o addirittura «utenti», termini che all'inizio aveva osteggiato perché li trovava antipatici. Ma ormai la definizione di costoro le sembrava irrilevante quanto le loro catastrofi. Le vittime "decidono" di essere vittime; furto, aggressione o incidente stradale che fosse, ogni sventura era solo il modo in cui certe persone inadeguate si segnalavano alla sua attenzione. E chiunque, avendone l'occasione, è potenzialmente inadeguato. Lo diceva per esperienza, ed era stata l'esperienza a fare di lei una professionista.

Presero il tè nel soggiorno e ciascuna sprofondò nel suo sacco, manovra che a questo punto Mistress Ransome eseguiva con destrezza, mentre Dusty fece una specie di rotolone.

«Sono nuove?» chiese la ragazza, pulendosi il tè dallo scamiciato. «Ieri sono andata da un'altra utente, la sorella di un tizio in coma, che aveva anche lei delle cose così. Allora, Rosemary, vogliamo esaminare il dato di realtà?».

Mistress Ransome non capì, ma esordire con un dubbio le pareva di ostacolo a una conversazione fruttuosa. «La realtà come contrapposta al suo vissuto» avrebbe detto Dusty se Mistress Ransome avesse formulato la sua domanda, ma lei non la formulò.

Mistress Ransome descrisse le circostanze in cui era avvenuto il furto e la sua gravità, ma Dusty non restò più colpita di tanto: l'economia in cui vivevano adesso i Ransome - le poltrone a sacco, il tavolo pieghevole, eccetera - le sembrò, più che una privazione, un look.

Anche se lì c'era più ordine, era lo stesso stile minimalista che aveva adottato a casa sua.

«E' cambiato rispetto a prima?» chiese.

«Oh, avevamo un mucchio di roba» le rispose Mistress Ransome. «Avevamo tutto. Era una casa normale».

«Deve farle molto male» commentò Dusty.

«Dove?» domandò Mistress Ransome.

«A lei, a lei in generale. Quello che è successo» .

«Ah». Mistress Ransome rifletté un istante. Il suo stoicismo era una semplice questione di linguaggio. «Be', ecco, sì e no. Mi ci sto abituando».

«Non si abitui troppo in fretta» le raccomandò Dusty. «Si dia tempo, dia tempo al suo dolore. Avrà pianto, spero...».

«All'inizio sì» rispose Mistress Ransome. «Ma mi sono ripresa subito».

«Anche Maurice?».

«Maurice?» .

«Suo marito».

«Ah... no. No. Non credo che abbia pianto. Sa,» aggiunse come se la stesse mettendo a parte di un segreto «lui è un uomo».

«No, Rosemary. E' una persona. Peccato che non si sia lasciato andare. Secondo gli esperti, se non si dà sfogo al dolore, se ci si tiene tutto dentro, è probabile che prima o poi venga il cancro».

«Oddio» disse Mistress Ransome.

«Certo,» proseguì Dusty «per un uomo sfogare il dolore è più difficile che per una donna. Aiuterebbe se ci parlassi un attimino?».

«Lei? Con mio marito? No, no» si affrettò a rispondere Mistress Ransome. «Non credo. E' molto... timido».

«Comunque', riprese Dusty «sono convinta che potrò aiutarvi... o che potremo aiutarci a vicenda». Si sporse verso Mistress Ransome per prenderle la mano, ma siccome non ci arrivava si limitò a fare una carezza al saccone.

«Pare che ci si senta come violentati» disse Mistress Ransome.

«Sì. Tira fuori tutto, Rosemary. Tira fuori tutto».

«Io, però, non tanto. Più che altro mi sento sconcertata».

«Palese denegazione» scrisse Dusty mentre Mistress Ransome portava via le tazze. Poi aggiunse un punto interrogativo.

Accomiatandosi, Dusty suggerì a Mistress Ransome di vedere quell'esperienza come una curva di apprendimento: un suo possibile andamento (la curva poteva andare in varie direzioni) era quello di considerare la perdita dei loro averi come una specie di liberazione. «La sindrome dei gigli del campo» la definì Dusty; «della serie: non accumulate tesori sulla terra». Benché fosse venuto in mente anche a lei, Mistress Ransome non afferrò subito il concetto, perché parlando dei loro averi Dusty li chiamò «puro e semplice maquillage», usando un termine che per lei significava il contenuto della sua borsetta: cipria, rossetto e così via, oggetti che aveva ancora. Più tardi, però, ripensandoci, dovette ammettere che raggruppare moquette, tende, mobili, accessori e tutto sotto la definizione di «maquillage» facilitava effettivamente le cose; ma non era una parola che si sarebbe arrischiata a usare col marito.

In verità, quello era un discorso che Dusty faceva senza grande convinzione (ma a Mistress Ransome non lo aveva detto). E più casi vedeva di quella sindrome, meno ci credeva. C'erano stati, sì, due utenti che le avevano raccontato di un furto doloroso che gli era servito per capire come bisognava vivere: da allora in poi avrebbero dato meno importanza ai beni materiali, viaggiato leggeri, eccetera. Sei mesi dopo era tornata per una visita di controllo e li aveva trovati ingombri di roba come non mai. La gente, aveva concluso Dusty, può fare a meno di tante cose; il problema è che non riesce a non andare a comprarle.

Quando aveva confidato a Dusty di non provare nostalgia dei suoi arredi, Mistress Ransome era stata sincera. Piuttosto - ma questo era più difficile da esprimere - le mancavano i particolari percorsi che seguiva da una cosa all'altra. Ad esempio, c'era quel cappello verde col pompon, mai messo, che lasciava sulla console nell'ingresso per ricordarsi che aveva acceso lo scaldabagno. Adesso non aveva più né cappello né console (ringraziando il cielo, lo scaldabagno c'era ancora). Ma senza quel cappello le era già capitato due volte di lasciarlo acceso tutta la notte e una volta Mister Ransome si era scottato una mano.

Anche lui aveva dovuto rinunciare a certi suoi riti: per esempio, non aveva più le forbicine ricurve con cui si tagliava i peli delle orecchie. E non finiva qui. Pur non essendo particolarmente vanitoso, Mister Ransome aveva due baffetti che, se abbandonati a se stessi, mostravano l'antipatica tendenza a diventare rossicci, sfumatura che egli teneva a bada con sporadiche pennellate di tinta per capelli. La tinta proveniva da un vetusto flaconcino che Mistress Ransome aveva sperimentato anni prima sulle radici e cassato all'istante; tuttavia si conservava ancora in fondo all'armadietto del bagno. Mister Ransome, che prima di applicare la tinta sulla parte interessata si chiudeva sempre dentro a chiave, non aveva mai confessato quell'attività; ma nemmeno Mistress Ransome aveva mai confessato di esserne al corrente. Ora, però, l'armadietto era scomparso e con quello il flaconcino; di conseguenza, i baffi di Mister Ransome cominciarono a colorarsi di quel fulvo rivelatore che egli trovava tanto odioso. Avrebbe potuto risolvere il problema chiedendo alla moglie di comprargli un altro flaconcino, ma così avrebbe ammesso anni di cosmesi clandestina. Altrimenti poteva comprarsene uno da sé. Ma dove? Il suo barbiere era polacco e parlava un inglese che non andava più in là di barba e capelli. Forse un profumiere comprensivo; ma le profumerie a lui note non gli sembravano luoghi in cui trovare comprensione, servite com'erano da annoiate puttanelle diciottenni che non avrebbero avuto molta pazienza con un avvocato di mezz'età dal rossiccio strisciante.

In bagno, controllando amareggiato i progressi del rossiccio nell'unico specchio rimasto in casa, quello del portacipria della moglie, Mister Ransome maledisse i ladri che lo avevano così umiliato, mentre Mistress Ransome, sdraiata sulla brandina, rifletteva che il furto, non da ultimo, aveva fatto piazza pulita dei loro piccoli sotterfugi coniugali.

Mister Ransome era stato informato del fatto che l'assicurazione non avrebbe sovvenzionato il noleggio di un lettore C.D. (non ritenuto un bene essenziale), ma quello di un televisore sì. Perciò una mattina Mistress Ransome andò in un negozio e scelse il modello più sobrio, che le venne consegnato e installato quel pomeriggio stesso. Convinta di avere altre urgenze, Mistress Ransome non aveva mai guardato la televisione di giorno. Ma una volta che il tecnico se ne fu andato, vide che l'apparecchio era rimasto acceso su una specie di talk show, che ospitava una coppia di americani obesi ai quali una nera in completo pantalone stava domandando «se comunicassero sul piano fisico».

L'uomo, stravaccato su una poltrona a gambe larghe, cominciò a descrivere in gran dettaglio - tempi televisivi permettendo - ciò che lui «chiedeva al suo matrimonio», mentre la donna - braccia conserte e ginocchia chiuse, ma troppo grassa per fare la compita - spiego che «senza voler essere ipercritica, lui non si era mai messo un deodorante che fosse uno».

«Quel che si dice linguaggio del corpo...» commentò la conduttrice e il pubblico scoppiò in un boato di risa e fischi, lasciando perplessa Mistress Ransome che di linguaggio del corpo non aveva mai sentito parlare.

«Cosa non fa la gente per denaro» si disse spegnendo la T.V.

Il pomeriggio seguente, però, dopo un sonnellino sul saccone, si ritrovò a guardare un programma simile con una coppia altrettanto impudica e lo stesso pubblico rumoreggiante e incline allo sberleffo, in mezzo al quale si aggirava con un microfono un'altra presentatrice, stavolta bianca, ma imperturbabile come la prima e come lei indifferente alla maleducazione generale, che anzi pareva incoraggiare.

Queste presentatrici (Mistress Ransome aveva ormai cominciato a seguirle regolarmente) erano più o meno tutte uguali, tutte ragazzone sfrontate e, secondo lei, fin troppo sicure di sé (personalità che si definiscono «assertive», almeno così le sembrava, magari l'avrebbe controllato sul vocabolario di suo marito), e avevano dei nomi che sfidavano ogni distinzione di genere: Robin, Bobby, Troy, oppure altri come Tiffany, Page e Kirby, che a quanto ne sapeva lei non erano nomi per niente.

Presentatrici e pubblico usavano espressioni che Mistress Ransome, per lo meno agli inizi, ebbe difficoltà a capire. Parlavano di «preliminari» e «orgasmi multipli», di «consapevolezza profonda» e del «bambino che è in noi». Era un linguaggio fatto di confessioni e di esuberanti dichiarazioni di affetto. «Ti sento molto» si dicevano, dandosi a vicenda un colpetto sulla mano. «Sono in contatto con te».

Si presentò una tale Felicia che avrebbe voluto lunghe e affettuose interazioni sessuali con il marito Dwight, il quale invece «correva troppo» e «trascurava le sue zone erogene». Quei due, fu il giudizio unanime, dovevano «sviscerare l'argomento», e il luogo che avevano scelto era proprio lì, davanti a un'orda sardonica e assetata di sensazioni forti che, quando ai titoli di coda i due si avventarono vogliosi l'uno sull'altra e le labbra di lui si incollarono a quelle di lei, ululò la propria approvazione davanti al sorriso ora più saggio e triste della presentatrice. Che mentre la coppia continuava a baciarsi chiuse con un «Grazie a tutti».

Una cosa alla quale Mistress Ransome non riuscì mai ad abituarsi era la totale mancanza di ritegno degli ospiti, nessuno dei quali risultava mai anche solo lontanamente timido. Se c'era un programma sulla timidezza, nessuno sembrava timido nel senso che intendeva lei: gli ospiti, totalmente disinibiti, non vedevano l'ora di vantarsi della propria paralizzante insicurezza e delle conseguenze grottesche di tanta castrante sfiducia in se stessi. Per quanto privato o intimo fosse l'argomento, nessuno di questi vocianti individui si mostrava mai minimamente schivo. Anzi, sembrava una gara a chi escogitava le confessioni più indecorose e volgari, e il pubblico salutava ogni rivelazione con un boato di grida sgangherate, subissando i partecipanti di consigli e incitandoli a riferire altre nefandezze.

D'accordo, in rare occasioni qualcuno del pubblico esternava non giubilo ma scandalo, dando perfino la fugace impressione, di fronte a una confessione davvero madornale, di esser rimasto sinceramente turbato; ma questo succedeva solo perché la presentatrice, occhieggiando di nascosto il pubblico da dietro le spalle del reo confesso, sollecitava l'indignazione con una smorfia. La presentatrice era una complice, rifletté Mistress Ransome, e non ci faceva una figura migliore degli altri, specialmente quando si affannava a ricordare all'ospite certe sue gesta ancora più fantasiose e indecenti confidatele nella presunta intimità del camerino. Quando lei gli rinfrescava la memoria, l'ospite inscenava una caricata pantomima della vergogna (nascondendo la testa, coprendosi il viso con le mani in preda a un attacco di risa apparentemente irrefrenabili), per dare a intendere che non si era mai aspettato di veder reso pubblico, e men che meno spiattellato davanti alle telecamere, un segreto del genere.

Eppure, pensava Mistress Ransome, erano tutte persone migliori di lei. Sì, perché nessuna di quelle creature rumoreggianti, ridanciane e spesso obese sembrava mettere in dubbio che, al livello primitivo di quei programmi, la gente è tutta uguale. Vergogna e imbarazzo erano fuori questione, e fingerli significava essere presuntuosi e ipocriti. Mistress Ransome pensò che lei apparteneva certo alla prima categoria, e suo marito, probabilmente, alla seconda.

Il contenuto dell'appartamento era assicurato per cinquantamila sterline. Dopo aver iniziato con una cifra molto inferiore, da avvocato e uomo accorto qual era Mister Ransome aveva fatto sì che il premio stesse al passo con il costo della vita. Negli anni, dunque, quel modesto insieme di mobili, elettrodomestici e suppellettili varie era andato pian piano aumentando di valore; lo stereo e il frullatore, il servizio di posate, le insalatiere in silverplate, le tovagliette, i centrini - insomma tutto l'apparato di quell'esistenza che, pur essendo perfettamente attrezzati allo scopo, i Ransome non erano mai riusciti a condurre - avevano discretamente seguito la curva dell'inflazione. Roba resistente, sobria, austera, comprata pensando alla praticità e non all'estetica, coscienziosamente spolverata e lucidata anno dopo anno, tanto da non recare quasi traccia d'usura; roba che non aveva mai subìto sconvolgimenti di sorta e della quale ben poco era andato rotto o perduto fino alla tremenda sera dell'imboscata, quando la piccola e anonima truppa era stata spazzata via e Mistress Ransome aveva perduto per sempre quelle che lei chiamava con modestia «le nostre cose».

O così arrivò a stabilire l'assicurazione, che a tempo debito inviò un assegno per il valore complessivo dei beni, più un bonus inatteso - vista l'assenza di precedenti sinistri - a titolo di risarcimento dei danni morali.

«L'extra è per il trauma» disse Mistress Ransome guardando l'assegno.

«Preferisco chiamarlo incomodo» le rispose Mister Ransome. «Siamo stati derubati, non investiti da un autobus. Comunque, i soldi in più non guastano»

Mister Ransome, infatti, stava già mettendo a punto il piano d'acquisto di un impianto stereo più avanzato e di un modello aggiornato del suo lettore C.D. con perfetta equalizzazione e alta definizione del suono digitale, il tutto collegato a una maestosa coppia di casse in mogano lavorato a mano. Avrebbe sentito Mozart come non mai.

Mistress Ransome se ne stava seduta felice e contenta su una sedia a dondolo di vimini da quattro soldi, trovata qualche settimana prima in un negozio di mobili di Edgware Road in cui una volta non si sarebbe mai sognata di entrare: un negozio con un'esposizione di salotti pacchiani, quadri di clown e, ai lati della porta d'ingresso, due leopardi di porcellana a grandezza naturale. Un negozio cafone, l'avrebbe considerato una volta, come una parte di lei lo considerava ancora; senonché gliel'aveva consigliato Mister Anwar, e di fatto quella sedia a dondolo era comodissima. A differenza della sua vecchia poltrona, non le faceva venire il mal di schiena. Ora che l'assegno era arrivato aveva in mente di prenderne una uguale per Mister Ransome; nel frattempo aveva comprato un tappeto da metterci sotto, col disegno di un elefante che una lampada d'ottone, acquistata nello stesso negozio, riempiva di colori. Seduta in mezzo al soggiorno spoglio, sulle spalle quello che stando a Mister Anwar era un drappo da preghiera afghano, le sembrava di essere su un'isoletta accogliente e vagamente esotica.

Non altrettanto accogliente poteva definirsi per ora l'isola di Mister Ransome, una semplice sedia accostata al tavolo pieghevole, sul quale sua moglie aveva posato la lettera che costituiva tutta la posta giornaliera. Mister Ransome prese la busta e sentendo odore di curry domandò: «Che c'è per cena?».

«Spezzatino al curry».

Mister Ransome voltò la lettera. Sembrava una fattura. «Di cosa?».

«Di agnello» rispose Mistress Ransome. «Con le albicocche. Secondo te,» proseguì «bianco sarebbe troppo osé?».

«Bianco? Che cosa?» domandò Mister Ransome guardando la lettera in controluce.

«Be',» rispose lei titubante «i muri... tutto, insomma».

Mister Ransome non rispose. Stava leggendo la lettera.

«Non ti entusiasmare troppo» le disse poi in macchina, mentre andavano a Aylesbury. «Potrebbe essere un altro scherzo. Qualcuno che si diverte alle nostre spalle».

In realtà erano d'umore cupo entrambi, come cupa era la campagna; da quando si erano messi in viaggio non avevano quasi aperto bocca. Mistress Ransome teneva sulle ginocchia la lettera, con le istruzioni scritte a matita dal marito.

«Alla rotonda a sinistra» pensò Mister Ransome.

«Alla rotonda gira a sinistra» gli disse la moglie.

Quando quella mattina aveva telefonato al magazzino gli aveva risposto una ragazza. La ditta si chiamava Traslochi & Stoccaggi Rapidi & Sicuri; tutte quelle &, si era detto, preannunciavano guai. E i suoi timori non furono smentiti.

«Traslochi & Stoccaggi Rapidi & Sicuri, buongiorno. Sono Christine Thoseby. Posso esserle utile?».

Mister Ransome chiese di parlare con Mister Ralston, che aveva firmato la lettera.

«Al momento Mister Ralston si trova a Cardiff: Posso esserle utile?».

«Quando torna?».

«Non prima della settimana prossima. Sta facendo un tour dei nostri depositi. Posso esserle utile?».

Nonostante le sue profferte, Christine dimostrava tutto il consumato distacco di chi si sta laccando in permanenza le unghie, e quando Mister Ransome le spiegò che il giorno prima aveva ricevuto una misteriosa fattura di 344,36 sterline riguardante il deposito di certi effetti d'uso domestico lei ribatté semplicemente: «E allora?». Lui cominciò a illustrarle la situazione e, di fronte all'ipotesi che gli effetti in questione potessero essere rubati, Christine si animò.

«Permette una parola? Mi sembra improbabile, voglio dire, sa, la Traslochi & Stoccaggi esiste dal '77».

Mister Ransome cambiò tattica. «Non è che per caso saprebbe dirmi se fra questi effetti d'uso domestico è compreso un vecchio impianto stereo?».

«Mi dispiace, temo di non poterle essere utile. Ma tenga presente che se ha degli oggetti in deposito risulta sul C47, di cui lei dovrebbe avere una copia. E' una velina gialla».

Mister Ransome cominciò a spiegare perché non aveva la velina, ma Christine tagliò corto.

«Io sono a Newport Pagnell, per cui non ne so niente. Qui ci sono gli uffici; il deposito è a Aylesbury. Ormai uno può stare dove vuole, tanto si fa tutto col computer. La persona che potrebbe esserle utile a Aylesbury si chiama Martin, ma so che oggi è fuori quasi tutto il giorno».

«Secondo lei» le chiese Mister Ransome «non mi converrebbe fare un salto a Aylesbury per vedere se per caso trovo qualcosa?».

Christine non si mostrò entusiasta. «Certo non posso impedirglielo» rispose. «Solo che lì non sono attrezzati per ricevere visite. Mica è un canile» aggiunse inspiegabilmente.

Poiché suo marito le aveva detto che il deposito si trovava in un parco di imprese, Mistress Ransome, digiuna in materia, lo immaginò calato in un paesaggio ameno: un parco di nome e di fatto, appartenente a una magione adattata con sensibilità alle esigenze moderne, punteggiato magari di radi laboratori, gli uffici discretamente nascosti fra gli alberi. Nel cuore di questo centro imprenditoriale immaginò una villa di campagna in cui donne alte con un fascio di cartelline sotto il braccio attraversavano a lunghe falcate le terrazze, mentre le dattilografe lavoravano in saloni dorati con i soffitti dipinti: visione che, pensandoci, avrebbe potuto far risalire a quei film di guerra in cui gli châteaux francesi requisiti dal comando tedesco tornano a fervere d'attività alla vigilia del D-Day.

Fu dunque un bene se Mistress Ransome non confidò le sue romantiche aspettative al marito, il quale, consulente legale di varie società, le avrebbe liquidate senza tanti complimenti.

Mistress Ransome cominciò a ricredersi non appena si trovò a percorrere una circonvallazione brulla e squallida, fiancheggiata da fabbrichette e assediata dal cemento e dalle erbacce.

«Non è mica tanto ameno» commentò.

«E perché dovrebbe?» ribatté Mister Ransome, che stava svoltando verso un cancello metallico assai poco palladiano.

«Ci siamo» disse Mistress Ransome guardando la lettera.

Il cancello interrompeva una recinzione alta più di due metri e ornata da una mantovana sbieca di filo spinato, sicché il posto, più che un parco, sembrava un carcere. C'era anche una specie di fortino in cemento, vuoto, con una mappa di metallo gialla e blu che indicava la posizione delle varie ditte del consorzio. Mister Ransome scese dalla macchina per controllare dove fosse il Settore 14.

«Voi siete qui» diceva una freccia, e davanti alla punta qualcuno aveva disegnato alla meno peggio un culo.

A quanto pareva il Settore 14 era a qualche centinaio di metri dal perimetro esterno, suppergiù all'altezza dell'ombelico, qualora il culo fosse stato disegnato in scala. Mister Ransome risalì in macchina e si inoltrò lentamente nel crepuscolo sempre più fitto, finché non arrivò a un fabbricato basso e largo che sembrava un hangar, con una doppia porta scorrevole verniciata di rosso e una sola scritta in cui si rendeva nota la presenza di cani da guardia. Non c'erano altre automobili né si vedeva anima viva.

Mister Ransome tirò la porta scorrevole, senza aspettarsi di trovarla aperta. Come appunto non era.

«E' chiusa» osservò la moglie.

«Ma non mi dire» bofonchiò lui. Poi si incamminò deciso e svoltò l'angolo, seguito più adagio da Mistress Ransome che procedeva incerta tra il pietrisco, il clinker e gli sparuti ciuffi d'erba. Mister Ransome sentì qualcosa di scivoloso sotto una scarpa.

«Attento alle cacche di cane» lo avvertì la moglie. «Qui è pieno».

Una scaletta scendeva fino a una porta del piano interrato. Mister Ransome provò ad aprirla forse dava accesso a un locale caldaia. Ma era chiusa anche quella.

«Sembrerebbe un locale caldaia» commentò Mistress Ransome.

Lui si pulì la suola su un gradino.

«Almeno loro potrebbero dare il buon esempio» disse Mistress Ransome.

«Chi?» chiese Mister Ransome, strusciando la scarpa contaminata sull'erba rada.

«I cani da guardia».

Avevano fatto quasi il giro completo dell'hangar quando arrivarono davanti a una finestrella ghiacciata, da cui filtrava una luce fioca. La finestrella, col vetro appena abbassato, apparteneva senza dubbio a un gabinetto, e Mistress Ransome scorse all'interno un rotolo di carta igienica poggiato sul davanzale. Era sicuramente una coincidenza che fosse azzurro, per la precisione carta da zucchero, sfumatura che lei aveva sempre prediletto e che non era sempre facile trovare. Mistress Ransome schiacciò il viso contro il vetro per vedere meglio e notò qualcos'altro.

«Guarda, caro» disse. Ma Mister Ransome non guardò: stava ascoltando.

«Zitta» ordinò. Aveva sentito Mozart.

E dallo spiraglio arrivarono le note scure, piene, sontuose e decisamente inconfondibili di Kiri Te Kanawa.

«Per pietà, ben mio,» cantava «perdona all'error d'un'amante».

Il canto fluttuò lentamente nell'aria umida della sera, librandosi sopra la Traslochi & Stoccaggi del Settore 14 e la Adesivi Croda del Settore 16 fino a raggiungere la Applicatori Lansyl Selant del Settore 20 (essendo i Settori 1/19 attualmente in vendita).

«O Dio» cantava Kiri. «O Dio».

Lo udì anche la strada perimetrale, come lo udirono gli alberelli stenti e incellofanati che la punteggiavano e il lurido fiumiciattolo che da un dotto di cemento si disperdeva nel campo bozzoluto giù in fondo, dove un ronzino malconcio stava contemplando due barili e un palo.

Galvanizzato dalle emissioni della cantatrice antipode, Mister Ransome si arrampicò su per la grondaia e penando non poco si inginocchiò sul davanzale. Poi si aggrappò con una mano alla grondaia, abbassò il vetro di altri tre o quattro centimetri e ficcò dentro la testa fin dove riuscì, rischiando per un attimo di scivolare.

«Stai attento» gli disse la moglie.

«Ehi!» gridò lui. «C'è nessuno?».

Mozart si interruppe mentre in lontananza passava un autobus.

Nel silenzio che seguì, Mister Ransome gridò, stavolta quasi garrulo: «C'è nessuno?».

In un istante si scatenò il finimondo: i cani abbaiarono, una sirena attaccò a ululare e i Ransome, presi in trappola, vennero abbacinati da cinque o sei riflettori puntati dritti sulle loro sagome rattrappite. Mister Ransome, pietrificato, si aggrappò disperatamente alla finestrella e Mistress Ransome, spalmata sul muro, fece strisciare una mano fino al davanzale (non vista, si augurò), cercando il conforto del ginocchio coniugale.

Poi, così com'era cominciato, il finimondo cessò: i riflettori si spensero, la sirena tacque e i latrati dei cani si ridussero a qualche ringhio isolato. Mister Ransome, ancora tutto tremante, udì una porta che si apriva e un rumore di passi che attraversavano senza fretta il cortile. «Scusate, gente» disse una voce maschile. «E' partito l'allarme. Battaglia contro il crimine». Mistress Ransome scrutò nel buio ma, ancora mezzo accecata dai riflettori, non vide nulla. Mister Ransome scivolò giù dalla grondaia e restò immobile accanto alla moglie, che gli prese la mano.

«Prego, siore e siori. Da questa parte».

I Ransome avanzarono barcollando fra gli ultimi ciuffi d'erba e raggiunsero il cemento; davanti alla porta aperta, in controluce, li aspettava un giovanotto.

Storditi, marito e moglie lo seguirono nell'hangar illuminato. Erano ridotti da far pietà: Mistress Ransome zoppicava perché le si era rotto un tacco e aveva tutte e due le calze smagliate; Mister Ransome si era strappato i calzoni al ginocchio, aveva le scarpe sporche di merda e infilando la faccia nella finestrella si era fatto un lungo sbaffo nero sulla fronte.

Il giovanotto sorrise e tese loro la mano. «Maurice, Rosemary... piacere, Martin!».

Aveva un bel viso aperto, e anche se sfoggiava quel pizzetto che a Mistress Ransome faceva subito pensare a un avvelenatore, per essere un magazziniere aveva un'aria piuttosto distinta. Certo, portava l'irrinunciabile berretto da golfista americano, e dietro, sopra l'elastico, gli zampillava un ciuffetto di capelli; in più, sempre come quelli lì al giorno d'oggi, lasciava il dietro della camicia penzoloni. Comunque, ciò che agli occhi di Mistress Ransome gli dava un tono era l'elegante cardigan bordeaux, non molto diverso da quello che lei aveva comprato per suo marito ai saldi dell'anno prima. Il giovanotto, inoltre, portava morbidamente legata al collo una sciarpa di seta gialla con una fantasia a teste di cavallo: anche questa somigliava a una sciarpa che Mistress Ransome aveva regalato al marito, che però se l'era messa una volta sola perché la trovava volgarotta. Questo ragazzo non sembrava volgarotto; anzi, aveva molta classe e Mistress Ransome pensò che se mai fossero riusciti a recuperare le loro cose avrebbe ripescato la sciarpa dall'armadio e convinto il marito a ricredersi.

«Prego, entrez» disse il giovanotto facendo strada lungo un corridoio freddo e spoglio.

«E' bello conoscervi, finalmente» aggiunse voltandosi a guardarli. «Anche se date le circostanze ho l'impressione di conoscervi già».

«Quali circostanze?» fece Mister Ransome.

«Un attimo di pazienza» rispose Martin.

Armeggiò con una serratura, lasciandoli al buio.

«Getterò rapidissimamente luce sulla faccenda» annunciò dopo un momento, e la stanza di fronte a loro s'illuminò.

«Accomodatevi» disse ridendo.

Stanchi, sporchi e abbagliati, i Ransome varcarono malfermi la soglia e si ritrovarono in casa loro.

Era tutto come l'avevano lasciato la sera del "Così": la moquette, il divano, le poltrone con lo schienale alto, il tavolino finto antico col bordo lavorato, le zampe a capriolo e, sopra, l'ultimo numero di «Gramophone». Ed ecco, sul bordo del divano, il ricamo che Mistress Ransome aveva abbandonato alle sei meno un quarto andandosi a cambiare per quell'indimenticabile serata. E lì, sui tavolini impilabili, il bicchiere in cui Mister Ransome aveva bevuto un goccio per tenersi su fino alla fine del primo atto. Mistress Ransome sfiorò l'orlo con un dito: era ancora leggermente appiccicoso.

Dalla mensola del camino, l'orologio donato a Mister Ransome per i suoi venticinque anni presso lo studio Selvey, Ransome, Steele & Co. suonò le sei; Mistress Ransome, però, non era sicura se fossero le sei di allora o di adesso. Anche le luci erano accese proprio come le avevano lasciate loro.

«Uno spreco di corrente, lo so» era uso dire Mister Ransome. «Ma per lo meno tiene lontano il ladro di passaggio». E sulla console c'era il giornale della sera che aveva messo lì per la moglie, la quale in genere lo leggeva il giorno dopo a colazione.

A parte un piatto di carta con gli avanzi freddi di uno spezzatino, che Martin spinse abilmente col tacco sotto al divano, mormorando un impercettibile «Scusate», tutto fino all'ultimo dettaglio si trovava esattamente al suo posto; sembrava proprio di stare a casa loro a Saint John's Wood e non in un capannone alla periferia del nulla.

Quel brutto presentimento con cui Mistress Ransome si era messa in viaggio qualche ora prima era scomparso; adesso gironzolava per la sala felice come una pasqua, prendendo in mano qualche oggetto amato con un sorriso e un «oh!» di riconoscimento o alzandolo per mostrarlo al marito. Quanto a quest'ultimo rischiò di commuoversi, specie quando gli cadde l'occhio sul lettore C.D., il suo vecchio, fedele lettore C.D., com'era ormai incline a considerarlo: arnese venerando non più al passo coi tempi, certo, ma nella sua vetustà pur sempre dignitoso. Sì, era bello rivederlo, e Mister Ransome fece omaggio alla moglie di un breve brano del "Così" col volume al massimo.

Osservando quel ricongiungimento con un sorriso quasi orgoglioso, Martin chiese: «Tutto a posto? Ho cercato di mantenere le cose così come stavano».

«Senz'altro» rispose Mistress Ransome. «E' perfetto».

«Stupefacente» disse suo marito.

Mistress Ransome rammentò un particolare: «Avevo lasciato in forno uno sformato».

«Sì,» rispose Martin «l'ho molto apprezzato».

«Non era asciutto?» chiese Mistress Ransome.

«Appena appena» rispose Martin, seguendoli in camera da letto. «Forse era meglio metterlo a 170 gradi».

Mistress Ransome annuì e notò sul tavolino da toilette il pezzo di scottex (avevano finito i fazzolettini) con cui tre mesi prima si era tamponata il rossetto.

«La cucina» annunciò Martin come se non conoscessero la strada, anche se la cucina stava precisamente dove e come doveva, salvo la teglia ormai vuota che riposava lavata sullo scolapiatti.

«Quella non sapevo dove andava» spiegò Martin in tono di scusa.

«Non fa niente» gli rispose Mistress Ransome. «Va qui». Così dicendo aprì la credenza accanto al lavello e la mise a posto.

«Me l'immaginavo, ma non mi sono arrischiato» disse Martin ridendo, e Mistress Ransome rise con lui.

Mister Ransome lo guardò accigliato. Anche se si prendeva troppe confidenze, quel giovanotto era senz'altro molto gentile, ma l'atmosfera gli sembrava eccessivamente rilassata. In fin dei conti era stato commesso un reato, e nemmeno tanto piccolo. Quelli erano tutti oggetti rubati: che cosa ci facevano lì?

Ritenne giunto il momento di prendere in mano la situazione.

«Volete un tè?» domandò Martin.

«No, grazie» rispose Mister Ransome.

«Sì, grazie» rispose Mistress Ransome.

«Poi» disse Martin «dobbiamo sviscerare l'argomento»

Mistress Ransome non aveva mai incontrato qualcuno che usasse quell'espressione nella vita vera, e guardando il giovanotto si rese conto, con una nuova consapevolezza, di sentirlo molto.

Lo aveva sentito anche Mister Ransome.

«Sì, appunto» disse seccamente, sedendosi al tavolo di cucina con tutte le intenzioni di chiedere una spiegazione a quel giovanotto troppo compiaciuto.

«Magari,» suggerì Martin porgendo il tè a Mistress Ransome «magari a questo punto, con tutto il rispetto, vorrete darmi una spiegazione?».

Mister Ransome aveva gli occhi fuori dalla testa.

«Magari,» sbottò «con tutto il rispetto, vorrà dirmi perché ha addosso il mio cardigan!»

«Tu non lo mettevi quasi mai» intervenne placida Mistress Ransome. «Ottimo, questo tè».

«Non è questo il punto, Rosemary». Mister Ransome usava di rado il nome della moglie, e solo come una sorta di corpo contundente. «E quella è la mia sciarpa di seta».

«Quella, poi, non l'hai messa veramente mai. La trovavi volgarotta».

«A me diverte proprio per quello» commentò Martin allegramente. «Ma si sa, le cose belle finiscono presto...». E senza fretta (e senza alcun segno di contrizione, notò Mister Ransome) si tolse il cardigan, sciolse la sciarpa e posò entrambi sul tavolo.

Libera da quel riparo, la maglietta di Martin proclamò apertamente il suo messaggio: «Se lo conosci lo eviti», e fra parentesi «Istruzioni sul retro». Martin si girò appena e, mentre Mister Ransome si piegava in avanti per schermare la moglie da quel disegno scandaloso, Mistress Ransome si piegò appena appena all'indietro.

«In effetti,» riconobbe Martin «ci siamo messi un paio di cose sue. Ho cominciato io con l'impermeabile marrone. All'inizio me lo ero infilato un po' per ridere».

«Per ridere?» esclamò Mister Ransome, che non aveva mai colto l'aspetto umoristico del suo impermeabile.

«Sì. Solo che piano piano mi ci sono affezionato. E' forte».

«Ma le starà troppo grande» disse Mistress Ransome.

«Infatti. Per questo è forte. E nel suo armadio ci sono tonnellate di sciarpe. Cleo dice che ha molto gusto».

«Cleo?» disse Mistress Ransome.

«La mia fidanzata».

Accorgendosi che Mister Ransome ormai schizzava veleno da tutti i pori, Martin scrollò le spalle e aggiunse: «Del resto siete stati voi a darci via libera». Andò in soggiorno e tornò con una cartellina, che posò sul tavolo.

«Lei mi spieghi soltanto» gli disse Mister Ransome con una calma agghiacciante «perché le nostre cose si trovano qui».

E così Martin diede una spiegazione, che però non era una vera spiegazione, e alla fine i Ransome si trovarono al punto di partenza.

Una mattina di circa tre mesi prima («il 15 febbraio» suggerì solerte Mistress Ransome) era arrivato al deposito e, aprendo la porta, si era trovato davanti il loro appartamento sistemato esattamente come a Naseby Mansions e come loro lo vedevano adesso: moquette, luci accese, atmosfera accogliente, un profumino che veniva dalla cucina.

«Cioè,» disse Martin con brio «proprio odore di "casa"».

«Ma si sarà reso conto» intervenne Mister Ransome «che era un fatto quanto meno insolito, o no?».

«Molto insolito» convenne Martin. Normalmente mobili e suppellettili venivano imballati e sigillati in un container che restava parcheggiato lì fino a nuovo ordine. «Qui arrivano quintali di mobili, ma, sapete, io posso passare anche sei mesi senza vedere una poltrona».

«Ma perché è stato scaricato tutto qui?» domandò Mistress Ransome.

«Scaricato?» disse Martin. «E lei lo chiama scaricato? Ma questo è un poema, un capolavoro!».

«Perché?» domandò Mister Ransome.

«Be', quando quella mattina sono entrato, sulla console ho trovato una busta...».

«Sì, la posta la metto sempre lì» disse Mistress Ransome.

«... una busta» proseguì Martin «con dentro tremila sterline in contanti per due mesi di deposito. E posso dirvi che è ben più delle nostre tariffe normali. Inoltre» aggiunse tirando fuori qualcosa dalla cartellina «c'era questo».

Era una pagina strappata dall'"Agenda gastronomica" di Delia Smith, con la ricetta dello sformato che Mistress Ransome aveva messo in forno quel pomeriggio. Sul retro qualcuno aveva scritto: «Lasciare tutto così com'è», e tra parentesi «ma usare a piacimento». L'invito era sottolineato.

«Quindi, per tornare all'impermeabile, alle sciarpe, eccetera, mi è sembrato» - Martin cercò la parola giusta - «mi è sembrato che quello fosse il mio "imprimatur"» (il ragazzo aveva frequentato per un breve periodo l'Università di Warwick).

«Ma quell'invito potrebbe averlo scritto chiunque» commentò Mister Ransome.

«Lasciando tremila sterline in contanti?» disse Martin. «Figuriamoci. Comunque ho controllato. A Newport Pagnell non ne sapevano niente. Lo stesso a Cardiff. E a Leeds. Ho chiesto di verificare sul computer, ma non hanno cavato un ragno dal buco. Perciò mi sono detto: 'Caro Martin, la roba sta qui e per il momento è pagata, quindi perché non ne approfitti?'. E così ho fatto. Certo, non mi sarebbe dispiaciuto se la scelta di C.D. fosse stata un po' più eclettica... Sbaglio, o lei è un patito di Mozart?».

«A mio modesto parere» ribatté Mister Ransome, furente «avrebbe potuto fare altri controlli, prima di valersi così largamente dei nostri effetti».

«D'accordo, è una cosa un po' insolita,» disse Martin «ma sinceramente non avevo motivo di... sentire puzza di bruciato?».

Mister Ransome colse (e ne fu irritato) l'intonazione impropriamente interrogativa con cui Martin (e i giovani in genere) parevano spesso concludere una frase. L'aveva già sentita usare dal fattorino dello studio («E adesso, Foster, dove sta andando?». E quello rispondeva: «A pranzo?»), ma ignorava che la voga si fosse diffusa fino a Aylesbury. Non avrebbe saputo dire perché, ma quel tono gli sembrava insolente e riusciva immancabilmente a metterlo di cattivo umore (ragion per cui Foster lo usava).

Martin, invece, sembrava inconsapevole della sua irritazione, anzi, ostentava una serenità talmente inattaccabile che Mister Ransome la imputò all'uso di droghe. In quel momento se ne stava seduto felice e contento al tavolo di cucina, e mentre lui setacciava casa in cerca di prove relative ad avvenuti danni o manomissioni o quanto meno utilizzo indebito, seguitava tranquillamente a chiacchierare con Rosemary, come ormai chiamava sua moglie.

«Speriamo che non scleri» commentò il ragazzo mentre Mister Ransome ispezionava rumorosamente gli armadi.

Mistress Ransome non era sicura di che cosa significasse sclerare, ma afferrò il senso, annuì e sorrise.

«Per noi è stata come una casa di bambola» disse Martin. «Io e Cleo abitiamo sopra un lavasecco».

Mistress Ransome pensò che Cleo doveva essere nera, ma preferì non chiedere.

«A dirla tutta,» e Martin abbassò la voce perché Mister Ransome stava contando le bottiglie di vino sulla rastrelliera della dispensa «questa faccenda ha ridato sprint al rapporto. Sa com'è, quando cambia il contesto...».

Mistress Ransome annuì con aria competente; era un argomento affrontato spesso nei programmi pomeridiani.

«Bel letto» sussurrò Martin. «Il materasso dà parecchio... sì, parecchio appoggio». E diede una spintarella col bacino. «Non so se mi spiego, Rosemary...» aggiunse facendole l'occhiolino.

«E' ortopedico» si affrettò a dire Mistress Ransome. «Mio marito ha problemi di schiena».

«Probabilmente verrebbero anche a me se abitassi qua dentro un altro po'». Martin le diede una pacca affettuosa sulla mano. «Scherzavo».

«Quello che non capisco» annunciò Mister Ransome rientrando in cucina mentre Martin teneva ancora la mano sulla mano di sua moglie (altro fatto che Mister Ransome non capì) «quello che non capisco è come hanno fatto a ricordarsi con tanta precisione dove andavano le cose».

«Pas de problème» disse Martin andando nell'ingresso e tornando con un album per fotografie. Mister Ransome lo aveva regalato alla moglie nel periodo in cui la spronava a trovarsi un hobby, insieme a una macchina fotografica che lei non era mai riuscita a decifrare, sicché né l'uno né l'altra erano mai stati usati. Adesso, però, l'album era pieno di foto.

«La Polaroid e i suoi prodigi» disse Martin.

L'album conteneva una decina di foto di ogni stanza scattate la sera del "Così": panoramiche e dettagli, un primo piano del camino, un altro della scrivania; ogni ambiente e ogni superficie erano stati documentati con scrupolosa attenzione al particolare, grosso modo come avrebbe fatto una segretaria di edizione se la casa fosse stata il set di un film.

«Ma il nostro nome e l'indirizzo?» domando Mister Ransome.

«Semplice» rispose Martin. «Basta aprire...».

«Qualche cassetto» dissero all'unisono il ragazzo e Mistress Ransome.

«Quante foto hanno fatto!» esclamò Mistress Ransome. «Chiunque sia stato, deve avere soldi a palate. Però, guarda qui come sembra bella la casa...»

«La casa è bella» disse Martin. «Ci mancherà».

«Non solo ogni oggetto sta al suo posto» continuò Mister Ransome. «E' esatta anche la posizione delle stanze».

«Pareti di cartongesso» disse Martin. «Evidentemente se le sono portate dietro loro».

«Ma il soffitto non c'è» disse Mister Ransome trionfante. «Quello non gli è riuscito».

«Però sono riusciti a mettere il lampadario» commentò la moglie. Ed era vero: l'avevano appeso a una trave che capitava proprio al punto giusto.

«Be', non credo occorra prolungare più del necessario questa fase del procedimento» annunciò Mister Ransome. «Avvertirò l'assicurazione che i nostri beni sono stati ritrovati. La chiameranno senz'altro per prendere accordi sul ritiro e la restituzione. Non mi pare che manchi nulla, ma al momento è impossibile averne la certezza».

«Oh, non manca niente» disse Martin. «Magari un paio di After Eight, ma posso facilmente reintegrarli».

«No, no,» intervenne Mistress Ransome «figuriamoci. Quelli...» e sorrise «... li offre la casa».

Mister Ransome aggrottò la fronte, e quando Martin andò a cercare i vari moduli disse sottovoce a sua moglie che avrebbero dovuto far pulire tutto.

«Non voglio pensare a cosa può essere successo. Sul tuo tavolino da toilette c'è un pezzo di scottex quasi sicuramente sporco di sangue. E qualcosa mi dice che potrebbero aver dormito nel nostro letto».

«Adesso ci scambiamo le veline» spiegò Martin. «Una a voi e una a me. Eccovi restituito il patrimonio. Ma si può dire patrimonio quando uno è ancora vivo? O solo quando è morto?».

«Si può dire, ma in questo caso parlerei piuttosto di beni» precisò Mister Ransome autorevolmente.

«Patrimonio» ripeté Martin. «Bella parola».

Al momento dei saluti, nel cortile, Martin baciò Mistress Ransome su tutte e due le guance. Lei pensò che se il loro figlio fosse nato avrebbe avuto più o meno quell'età.

«Mi sento come uno di famiglia» commentò lui.

«Eh, già» rifletté Mister Ransome, ecco come sarebbe stato se avessero avuto un figlio. Una situazione irritante, sconcertante. Una palla al piede.

In un modo o nell'altro riuscì a stringergli la mano.

«Tutto è bene quel che finisce bene» disse Martin dandogli una pacca sulla spalla. «In gamba».

«E se fosse un complice?» domandò Mister Ransome una volta saliti in macchina.

«Non mi sembra il tipo» gli rispose Mistress Ransome.

«Ah, no? E quale sarebbe il tipo? Ti era mai capitata un'esperienza del genere? Ne avevi mai sentito parlare? No, mi interessa: secondo te quale sarebbe il tipo?»

«Stiamo andando un po' forte» disse Mistress Ransome.

«Dovrò avvisare la polizia, è ovvio» disse Mister Ransome.

«Se alla polizia non gliene importava niente prima, figuriamoci adesso».

«Ma tu chi sei?».

«Come?».

«Io sono l'avvocato. Tu chi sei? L'esperta?». Per un po' il viaggio proseguì in silenzio.

«Esigerò un risarcimento, mi pare chiaro. Lo stress, l'incomodo, l'assillo mentale, tutte cose quantificabili, che andranno considerate nella liquidazione finale».

Stava già scrivendo la lettera a mente.

Alla fine, il contenuto dell'appartamento fece ritorno a Naseby Mansions con un bigliettino appiccicato su una cassa, che diceva: «Usare a piacimento. Martin». E fra parentesi: «Battutaccia». Mister Ransome volle far rimettere tutto esattamente come prima, cosa che senza il promemoria - l'album per fotografie di sua moglie - sarebbe risultata assai difficile. Certo, i facchini che riportarono i mobili si dimostrarono meno meticolosi, oltre che assai più lenti, dei ladri che li avevano sottratti. Ma una volta riarredate le stanze da cima a fondo e passato con l'aspirapolvere o lavato a secco o in lavatrice tutto quanto, la casa riassunse a poco a poco il suo volto e la vita tornò a essere quella che una volta Mistress Ransome considerava normale, ma che adesso tanto normale non le sembrava più.

Ben presto, mentre il marito era in ufficio, Mistress Ransome provò a vedere come stavano il tappeto e la sedia a dondolo di vimini nel contesto ora molto meno frugale del salotto; ma anche se la sedia era comoda come sempre, l'insieme le sembrò strano e le diede la sensazione di star seduta in un grande magazzino. Allora relegò la sedia nella stanza degli ospiti, dove ogni tanto andava a trovarla e passava in rassegna la propria esistenza. Ma non era più la stessa cosa, no, e alla fine la sedia fu lasciata sul pianerottolo per il guardiano, che la inserì fra gli arredi della sua stanza dietro la caldaia, dove al momento stava tentando di familiarizzarsi con i romanzi di Jane Austen.

Mister Ransome se la cavava meglio di sua moglie: pur avendo dovuto rimborsare i soldi dell'assegno, poté obiettare all'assicurazione che bisognava tener conto delle casse nuove da lui già ordinate (non era vero), obiezione debitamente accolta, che gli consentì di investire in un impianto all'avanguardia sul serio.

Nei mesi successivi affiorarono in casa Ransome sporadiche tracce della breve occupazione di Martin e Cleo: un pacchetto di preservativi (vuoto) ficcato sotto il materasso, un fazzoletto rimasto infilato nel divano e, dentro uno dei ninnoli sul camino, un tocco di una sostanza dura color marrone, avvolta nella stagnola. Mistress Ransome provò ad annusarla, poi si infilò i guanti di gomma e la buttò nel gabinetto, ritenendo che fosse la sua sede naturale, anche se ci vollero varie scariche d'acqua per vincere la sua riluttanza a sparire; nel frattempo, seduta sul bordo della vasca in attesa che lo sciacquone si riempisse, aveva continuato a domandarsi in che modo fosse arrivata sulla mensola del camino. Forse era uno scherzo, che in ogni caso non venne riferito a Mister Ransome.

Tra le cose che invece spuntavano regolarmente c'erano dei capelli lunghi e biondi, senza dubbio di Martin, e altri più scuri e ricci, che Mistress Ransome attribuì a Cleo. La loro comparsa non risultò equamente suddivisa fra l'armadio suo e quello del marito, anzi, dal momento che quest'ultimo non se ne lamentava, Mistress Ransome dedusse che non ne aveva mai trovati; in caso contrario gliel'avrebbe certo fatto sapere.

Lei, invece, li trovava dappertutto: fra i vestiti, i cappotti, la biancheria, capelli sia di lui sia di lei, e non solo capelli ma anche peli, tant'è che seguitò a chiedersi perplessa cosa avessero mai combinato quei due in barba al decoro e ai normali confini fra i sessi. Martin si era messo le sue mutande in testa? (In un paio aveva rinvenuto tre capelli). E come mai l'elastico del reggiseno era così lento? (Ci aveva scoperto dentro due peli, uno chiaro e l'altro scuro).

Malgrado tutto, quando la sera sedeva davanti al marito già munito di cuffia, Mistress Ransome contemplava con serenità - per non dire con un pizzico d'euforia - l'idea di aver spartito la propria biancheria intima con un terzo interessato. O con due. «Terzo interessato è inesatto,» le avrebbe detto Mister Ransome «a maggior ragione se sono due». Motivo in più per tacere.

Ci fu tuttavia un ulteriore memento del recente passato che marito e moglie furono costretti a condividere, anche se solo per caso. Un sabato sera, dopo cena, Mister Ransome si apprestava a registrare una recita dal vivo del "Serraglio" su Radio 3. Riflettendo che il sabato sera non c'era mai niente di interessante alla T.V., Mistress Ransome si era messa a leggere un romanzo che parlava di scialbi adulteri campagnoli. Il marito, intanto, ultimava i preparativi: aveva inserito una cassetta che credeva vergine ma, controllando, scoprì stupito che iniziava con una gran sghignazzata. Mistress Ransome alzò lo sguardo. Mister Ransome seguitò ad ascoltare finché non riuscì a stabilire che a ridere erano in due, un uomo e una donna, e visto che non davano segno di smettere stava per spegnere, quando lei gli disse: «No, Maurice, aspetta. Potrebbe essere un indizio».

Perciò ascoltarono in silenzio le risate, che proseguirono quasi ininterrotte per tre o quattro minuti e poi cominciarono a smorzarsi, e chi rideva restò senza fiato ad ansimare, finché questo ansimare modulò a poco a poco in un altro verso (il secondo tema, come fosse), ovvero un gemito e quindi un grido che segnò l'inizio di un pompaggio ritmico tanto deciso e concentrato quanto l'altro tema era stato lieve e gaio. A un certo punto il microfono parve avvicinarsi e registrò un suono così umido e acquoso da non sembrare neanche umano.

«Sembra crema pasticcera che bolle» disse Mistress Ransome, pur sapendo che crema non era. Fare la crema difficilmente richiede tanto sforzo, né si usa incitare la crema con gridolini incoraggianti, né i cuochi urlano quando la crema comincia finalmente a bollire.

«Non credo proprio che ci vada di sentire questa roba, o sbaglio?» disse Mister Ransome, sintonizzandosi su Radio 3 nel momento in cui si diffondeva in sala il religioso silenzio che precedeva l'arrivo di Claudio Abbado.

Più tardi, a letto, Mistress Ransome disse: «Sarà meglio restituirla, quella cassetta, no?».

«E perché mai?» ribatté Mister Ransome. «E' mia. Comunque non possiamo. L'ho cancellata, ci ho registrato sopra».

Era una bugia. Va detto, a onor del vero, che aveva avuto intenzione di cancellarla; tuttavia, temeva che risentendo il concerto si sarebbe ricordato cosa c'era sotto, il che avrebbe guastato per sempre qualunque espressione del sublime. Così aveva buttato la cassetta nella pattumiera. Poi, però, ci aveva ripensato, e mentre Mistress Ransome si lavava i denti era tornato in cucina e aveva affondato la mano fra le bucce di patata e le bustine di tè; dopodiché, tolto un pezzetto di pomodoro che era rimasto attaccato, aveva infilato la cassetta nella libreria dietro "L'illecito in materia di salmone", nascondiglio in cui teneva anche una scorta segreta di fotografie raffiguranti alcuni atti sessuali, retaggio di un macchinoso caso di divorzio di cui si era occupato qualche anno prima. La libreria, ovvio, era finita a Aylesbury insieme a tutto il resto; ma era anche tornata indietro intatta, senza che Martin, a quanto pareva, avesse individuato il nascondiglio.

Invece Martin l'aveva individuato eccome: ed erano state proprio le fotografie la causa scatenante delle risate di Martin e Cleo.

Dunque, nessun segreto per Martin, e nessun segreto neanche per Mistress Ransome, la quale un pomeriggio, mentre guardava pigramente la libreria chiedendosi cosa cucinare per cena, aveva notato il titolo "L'illecito in materia di salmone" e vi aveva ravvisato qualcosa di vagamente culinario. Dopo aveva rimesso a posto le fotografie; ma ogni due o tre mesi andava a controllare che ci fossero ancora. E, trovandole, si sentiva in qualche modo rassicurata.

Adesso, quando Mister Ransome sedeva in poltrona ad ascoltare in cuffia "Il flauto magico", certi giorni tutto ascoltava meno che Mozart. Mentre fissava assorto la moglie che leggeva, le sue orecchie erano piene di Martin e Cleo che gemevano, gridavano, si sfiancavano l'un l'altra una, due, tre volte, all'infinito. Per quanto lo mettesse, quel nastro non finiva mai di sbalordirlo: che due esseri umani potessero darsi così completamente e senza riserve l'uno all'altra e al momento presente andava oltre le sue capacità di comprensione, gli sembrava un miracolo.

A furia di ascoltare il nastro, Mister Ransome lo imparò a memoria proprio come un brano di Mozart. Finì per riconoscere nella lunga inspirazione di Martin la conclusione di un misterioso passaggio (in quel momento Cleo stava a quattro zampe, Martin dietro di lei), allorché il languido andante (miagolii sommessi della ragazza) si trasformava in un battente allegro assai (grida rauche di entrambi), il quale a sua volta cedeva il posto a una coda ancor più frenetica e a un improvviso rallentando («No, no, aspetta» esclamava lei, e poi «Sì, sì, sì!») seguito da ansiti, sospiri, silenzio e finalmente dal sonno. Benché non avesse una gran fantasia, Mister Ransome si sorprese a pensare che, volendo redigere un catalogo di nastri del genere, si sarebbe potuto assegnare a ciascuno l'equivalente erotico dei numeri di Köchel e perfino individuare lo sviluppo di uno stile del rapporto sessuale, contraddistinto da un periodo iniziale, uno centrale e uno tardo, adattando a quei ritmi nuovi e martellanti l'intero apparato della musicologia mozartiana.

Tali erano i pensieri di Mister Ransome mentre sedeva davanti alla moglie, che stava riprovando per l'ennesima volta a leggere Barbara Pym. Mistress Ransome sapeva che il marito non ascoltava Mozart, anche se non c'erano indizi chiari e senz'altro nulla di volgare come un rigonfiamento nei pantaloni. No, c'era solo l'espressione tesa del suo viso, l'esatto opposto di quella che aveva quando ascoltava il suo compositore preferito: un'attenzione intensa, pronta a cogliere ogni dettaglio finora sfuggito.

Anche Mistress Ransome ogni tanto sentiva il nastro; lei, però, non potendo valersi della copertura fornita da Mozart, limitava le sue esperienze d'ascolto al pomeriggio. Prendeva la scaletta pieghevole e, tirato giù "L'illecito in materia di salmone", allungava la mano alla ricerca della cassetta (le foto le sembravano idiote e ridicole com'erano sembrate a Martin e Cleo). Poi, dopo essersi versata un bicchierino di sherry, si metteva comoda ad ascoltare i due che facevano l'amore, continuando a meravigliarsi, dopo almeno una decina di sedute, della lunghezza e pertinacia dell'atto e del suo epilogo violento e indecoroso. Alla fine andava a sdraiarsi sul letto, riflettendo che era lo stesso letto sul quale si era svolto tutto, e ripensando a come tutto si era svolto.

Se si eccettuano queste furtive illuminazioni, dopo che i Ransome ebbero recuperato i loro averi la vita andò avanti più o meno come prima. Certe volte, però, quando si riposava sul letto o prima di alzarsi la mattina, Mistress Ransome si sentiva pervadere dalla deprimente sensazione di aver perso il tram, anche se era difficile dire quale tram fosse o dove andasse. Prima del viaggio a Aylesbury si era convinta che il furto fosse un'occasione da sfruttare. Ogni giornata portava con sé una messe di piccole avventure: una visita di Dusty, un salto da Mister Anwar, una passeggiata a Edgware Road. Ora, invece, reinsediata fra i suoi possedimenti, Mistress Ransome temette che per lei le distrazioni fossero arrivate al capolinea. La vita era rientrata nella normalità; solo che così non le piaceva più.

Particolarmente monotoni e pieni di rimpianto erano i pomeriggi. Vero è che continuava a guardare la televisione, senza più sorprendersi come una volta delle cose che arrivava a fare la gente, anzi, provando persino (come nel caso di Martin e Cleo) un pizzico di invidia. Si abituò talmente al lessico televisivo che di tanto in tanto le sfuggiva un modo di dire rivelatore, per esempio quando una volta disse che dagli altri si sarebbe aspettata più empatia.

«Empatia?» ripeté Mister Ransome. «E da quando in qua usi termini di questo genere?».

«Perché, non è esatto?» domandò lei con aria innocente.

«Non volevo dire questo».

Mistress Ransome pensò che avevano vissuti troppo diversi e che era venuto per lei il momento di cercare aiuto nella terapia. La scelta facoltativa di un tempo era diventata una necessità sicché provò a rintracciare Dusty tramite il numero verde.

«Miss Fine è momentaneamente assente» disse una voce registrata, interrotta subito da una presenza reale.

«Pronto, sono Mandy. Posso esserle utile?».

Mistress Ransome spiegò che doveva sviscerare con qualcuno il ritorno improvviso del suo mobilio. «Vorrei arrivare a una consapevolezza più profonda» aggiunse, e cercò di spiegare.

Mandy era dubbiosa. «Potrebbe rientrare nella sindrome da stress postraumatico,» disse «solo che non ci farei troppo assegnamento. Siamo quasi alla fine dell'anno finanziario e c'è un giro di vite. Comunque quella sindrome lì va bene per stupro, omicidio e simili, mentre c'è stata gente che ci ha telefonato perché ha passato un brutto quarto d'ora dal dentista. Non è che le sembrano sporchi i mobili, eh?».

«No» rispose Mistress Ransome. «In ogni caso abbiamo fatto pulire tutto».

«Be', se ha tenuto le ricevute potrei fare una telefonata in sede per vedere se è previsto un rimborso».

«Non si preoccupi» disse Mistress Ransome. «E' un'esperienza che mi servirà per crescere».

«Be', prima o poi ci tocca a tutti, no?» disse Mandy.

«Che cosa?» domandò Mistress Ransome.

«Crescere, bella mia. In fin dei conti l'importante è quello. Del resto, da come me l'ha descritto,» aggiunse Mandy «il suo mi sembra un furto molto "affettivo"».

Mandy aveva ragione; anzi, il vero problema era proprio quello. Fosse stato un furto dei soliti, riprendersi sarebbe stato più facile; un'asportazione drastica era un fatto che Mistress Ransome sarebbe riuscita ad accettare, a guardare in maniera positiva, addirittura ad apprezzare. Ma la scomparsa in blocco abbinata alla meticolosa ricostruzione e alla restituzione la tormentava. Chi poteva aver voluto derubarli fino a quel punto per poi decidere di riparare in maniera così impeccabile? Si sentiva come derubata due volte: la prima, dei suoi averi; la seconda, della possibilità di superarne la perdita. Non era giusto, e non aveva senso; forse, pensò, era questo che si intendeva per «sentirsi destabilizzati».

Succedeva di rado che qualcuno scrivesse ai Ransome. Ogni tanto arrivava una cartolina dal Canada - dove lui aveva dei parenti per parte di madre che mantenevano diligentemente i rapporti -, alla quale lei rispondeva con una cartolina altrettanto insipida (lo scambio di saluti non andava molto più in là di un «Ciao, noi ci siamo ancora» e un «Ah, bene, anche noi» ). In genere, però, la posta consisteva di bollette e estratti conto, e Mistress Ransome non si dava quasi mai la pena di esaminarla dopo averla ritirata dalla cassetta nell'atrio, preferendo lasciarla intatta sulla console perché se ne occupasse suo marito prima di cena. Quella mattina aveva appena completato il rituale, quando notò che la lettera in cima alla pila veniva dal Sudamerica e non era indirizzata a Mister M. Ransome, bensì a un certo Mister M. Hanson. La cosa era già successa e Mister Ransome aveva ficcato la lettera nella cassetta del guardiano, insieme a un biglietto in cui chiedeva a lui o al postino di fare più attenzione.

Meno disposta di un tempo a tollerare la pedanteria del marito e non volendo che la storia si ripetesse, Mistress Ransome mise la lettera da parte; dopo pranzo sarebbe salita all'ottavo piano e l'avrebbe infilata sotto la porta di Mister Hanson. Almeno avrebbe fatto una passeggiatina.

Non saliva all'ultimo piano da anni. Sapeva che erano stati fatti dei lavori, perché Mister Ransome aveva dovuto scrivere una lettera di protesta ai padroni di casa per il baccano che facevano gli operai e la sporcizia che lasciavano in ascensore; ma con l'andirivieni di inquilini c'era sempre stato qualcuno che ristrutturava e Mistress Ransome aveva finito per considerarlo un fatto della vita. Eppure, non appena le porte dell'ascensore si aprirono, lo spazio arioso che si trovò di fronte la lasciò sorpresa; si sarebbe quasi detto un palazzo moderno, tanto il pianerottolo era ampio, luminoso e privo di ombre. A differenza del mogano scuro e rovinato che avevano loro, il legno dei pannelli era stato schiarito e, mentre giù la guida arancione era tutta macchiata e butterata, qui c'era una folta moquette azzurro fumo che lambiva le pareti e attutiva ogni rumore. Sul soffitto vide un alto lucernario ottagonale e sotto, simmetrico, un divano ottagonale. Sembrava quasi un albergo, o uno di quegli ospedali nuovi. E non era cambiato solo l'arredamento: Mistress Ransome ricordava varie porte, ma ora pareva esserci un unico appartamento. Per sicurezza cercò il nome sulla porta superstite, ma non trovò né quello, né una buca delle lettere. Allora si chinò per infilare la lettera sotto la porta, ma la moquette era così folta che non ci riuscì. In alto, non vista, una telecamera che lei aveva preso per un faretto fece una serie di scatti silenziosi, come un rettile impacciato, finché non l'ebbe inquadrata. Mentre lei tentava di appiattire il pelo della moquette, si udì un debole ronzio e la porta, senza rumore, si aprì.

«Prego» disse una voce disincarnata e Mistress Ransome, esibendo la lettera come un invito, entrò.

Nell'ingresso non c'era nessuno e lei aspettò incerta, sorridendo con aria premurosa nell'eventualità che qualcuno la stesse guardando. L'ingresso era identico al loro, ma grande il doppio e decorato come l'atrio, con lo stesso legno chiaro e le pareti puntinate. Avranno buttato giù un muro e accorpato l'appartamento vicino, pensò Mistress Ransome, o forse tutti gli appartamenti del piano.

«Ho portato una lettera» disse a voce alta, più che se ci fosse stato qualcuno. «E' arrivata a me per sbaglio».

Silenzio.

«Credo che venga dal Sudamerica. Dal Perù. Sempre che il nome sia Hanson. Ad ogni modo, la metto qui e me ne vado» disse per disperazione.

Stava per posare la lettera su un cubo di perspex che le sembrava un tavolo, quando alle sue spalle sentì una specie di rantolo sommesso e girandosi vide che la porta si era richiusa. Ma intanto, con un sospiro, la porta davanti si era aperta e Mistress Ransome vide sul fondo, nel vano di un'altra porta, un giovanotto appeso a una sbarra.

Il giovanotto andava su e giù apparentemente senza grande sforzo, contando ad alta voce. Portava i pantaloni di una tuta grigia, una cuffia sulle orecchie e nient'altro. Era arrivato a 11. Mistress Ransome aspettò con la lettera in mano, non sapendo bene dove guardare. Era da tempo che non si trovava così vicina a un uomo così giovane e così nudo, dato che i pantaloni gli erano scivolati sui fianchi, lasciando scoperta la sottile riga di peli biondi che risaliva il ventre piatto fino all'ombelico. Il giovanotto era ormai piuttosto stanco, sicché le ultime due trazioni, la 19 e la 20, gli costarono notevole fatica, e dopo aver quasi gridato «Venti!» restò lì ansimante, con una mano ancora aggrappata alla sbarra e la cuffia intorno al collo. Sotto le ascelle gli crescevano due pallide aiolette di peluria e sul petto ne era appena accennata una terza; come Martin, anche lui aveva il codino, ma più lungo e avvolto in un nodo.

Mistress Ransome si disse che non aveva mai visto un uomo più bello in vita sua.

«Ho portato una lettera» ricominciò. «Mi è arrivata per sbaglio».

Così dicendo gliela tese, ma il giovanotto non fece neanche il gesto di prenderla; allora lei si guardò intorno in cerca di un posto dove appoggiarla.

Al centro della stanza c'era una lunga fratina e accanto al muro un divano quasi altrettanto lungo, unici oggetti della stanza che Mistress Ransome avrebbe definito mobili veri e propri. Sparsi in giro vide dei cubi di plastica variopinti che, immaginò, potevano fungere da tavolino oppure da sgabello. C'era un'alta piramide d'acciaio bucherellata, che le sembrò una lampada, e una carrozzina vecchio stile con le ruote a fascia bianca e molle enormi. A una parete era attaccato il collare di un cavallo da tiro; a un'altra un cappello da cavallerizzo e, di fianco, una gigantografia di Lana Turner.

«Era una diva del cinema» disse il giovanotto. «La foto è originale».

«Sì, me la ricordo» disse Mistress Ransome.

«Perché, la conosceva di persona?».

«No, no» disse Mistress Ransome. «Comunque era americana».

Il pavimento era rivestito da una folta moquette bianca dove sicuramente sarebbero rimasti tutti i segni, pensò Mistress Ransome, anche se di segni non ne vedeva affatto. In ogni caso non le sembrava plausibile, la stanza, e con quella vetrata che dava sulla terrazza le pareva una vetrina in via di allestimento: forse avrebbe acquistato un senso se qualcuno avesse elegantemente srotolato sul tavolo una pezza di tweed. Il giovanotto si accorse del suo sguardo.

«L'hanno pubblicata su varie riviste» le disse. «Si accomodi», e le prese la lettera di mano.

Si sedette a un capo del divano, lasciando l'altro a lei, e tirò su le gambe; se Mistress Ransome avesse fatto lo stesso, fra loro sarebbe comunque rimasto parecchio spazio. Il giovanotto guardò la lettera e la girò un paio di volte senza aprirla.

«Viene dal Perù» gli disse Mistress Ransome.

«Sì,» rispose lui «grazie» e la strappò in due.

«Magari era importante» disse Mistress Ransome.

«E' sempre importante» disse il giovanotto, e la buttò sulla moquette.

Mistress Ransome gli guardò i piedi. Come ogni centimetro quadrato visibile del suo corpo, erano perfetti, senza quelle inutili dita ricurve che avevano lei e Mister Ransome. Queste dita erano lunghe, squadrate, addirittura espressive; sembrava che all'occorrenza potessero fare le veci delle mani e suonare uno strumento musicale.

«Non l'ho mai incontrata in ascensore» gli disse.

«Ho una chiave speciale per non farlo fermare agli altri piani». Il giovanotto sorrise. «E' comodo».

«Non per noi» disse Mistress Ransome.

«Vero» e il giovanotto scoppiò a ridere, per nulla risentito. «Comunque, pago di più».

«Non sapevo che si potesse» disse Mistress Ransome.

«Voi, infatti, non potete».

Mistress Ransome si fece l'idea che fosse un cantante, ma temeva che se glielo avesse chiesto avrebbe smesso di trattarla alla pari. Si domandò anche se si drogasse. Il silenzio non sembrava certo dargli fastidio, visto come se ne stava allungato dalla sua parte del divano tutto sorridente, assolutamente a suo agio.

«Ora devo andare» annunciò Mistress Ransome.

«Perché?».

Il giovanotto si tastò un'ascella, poi fece un gesto col braccio mostrando la stanza.

«Ha arredato tutto lei».

«Chi?».

Lui indicò la lettera strappata. «Lei. E' il suo mestiere. Cioè, era. Adesso alleva bestiame in Perù».

«Vacche?» domandò Mistress Ransome.

«Cavalli».

«Oh, che bello» disse Mistress Ransome. «Non saranno in tanti ad aver fatto una cosa del genere».

«Che cosa?».

«Be', prima l'arredatrice e poi... poi l'allevatrice di cavalli».

Lui ci rifletté sopra. «No. Anche se lei era così. Cioè, incostante». Il giovanotto si guardò intorno. «Le piace?».

«Be',» disse Mistress Ransome «è un po' strana. Ma mi piace lo spazio».

«Sì, è un bello spazio. Uno spazio geniale».

Non era esattamente quello che aveva voluto dire lei; il concetto, tuttavia, non le era ignoto, dato che al pomeriggio parlavano spesso di spazio, del bisogno di spazio, di come uno deve prenderselo e creare i suoi confini.

«Ha arredato la casa» proseguì il giovanotto «e poi, ovviamente, è venuta ad abitarci».

«E quindi lei si è sentito...» disse Mistress Ransome (e avrebbero potuto essere le sue prime parole in urdu, tanto le sembravano strane in bocca sua) «si è sentito come se avesse invaso il suo spazio».

A conferma, il giovanotto puntò verso di lei uno dei suoi bellissimi piedi.

«Infatti, infatti. Prenda per esempio quella carrozzina del menga...».

«Me le ricordo» disse Mistress Ransome.

«Sì, be', certo» continuò lui. «Il fatto è che, ci creda o no, la carrozzina non sta lì in quanto carrozzina: sta lì in quanto oggetto. E doveva stare precisamente in quel cazzo di posto. E siccome a un certo punto io l'ho spostata, ma tipo di un centimetro, Madame è andata in tilt. Ha minacciato di portare via tutto. Di svuotare casa. Come se me ne importasse qualcosa. Comunque, ormai è una storia vecchia».

Mistress Ransome annuì e commentò: «Gli uomini hanno esigenze diverse».

«Esatto».

«Le fa male?» disse Mistress Ransome.

«Mi ha fatto molto male,» rispose il giovanotto «ma adesso sto mettendo la sofferenza in prospettiva. Ti tocca, prima o poi».

Mistress Ransome annuì con espressione saggia.

«E la sua ex come l'ha vissuto?» gli domandò, morendo dalla voglia di stringergli il piede.

«Be', se proprio vuole saperlo,» disse lui «quella vive male qualunque cosa». E guardò fuori dalla finestra.

«Quando vi siete lasciati?».

«Mah, non so. Non ho più la nozione del tempo. Saranno tre, quattro mesi».

«Tipo a febbraio?» fece Mistress Ransome. E non era una domanda.

«Sì, giusto».

«Hanson, Ransome» disse lei. «Non sono proprio identici, ma forse per uno del Perù...».

Siccome lui non capiva - e d'altronde come avrebbe potuto? -, lei gli raccontò tutta la storia fin nei minimi particolari: il ritorno a casa dopo il "Così", la polizia, la gita a Aylesbury, tutto.

Quando ebbe finito, lui commentò: «Sì, potrebbe essere stata lei. Paloma sarebbe capacissima di fare una cosa del genere. Aveva uno strano senso dell'umorismo. Sa, è il Sudamerica».

Mistress Ransome annuì di nuovo, come se ogni lacuna di quel resoconto potesse essere ascritta al luogo e alla ben nota volubilità dei suoi abitanti. L'incanto della pampa, la lunghezza del Rio delle Amazzoni, i lama, i piranha: paragonato a simili fenomeni, cos'era un semplice furto commesso a Saint John's Wood? Eppure, un interrogativo continuava ad assillarla.

«Ma chi potrebbe aver fatto un lavoro così di precisione?» domandò.

«Oh, facile. Un gruppo di attrezzisti».

«Di attrezzisti?» ripeté Mistress Ransome. «Intende acrobati?».

«No, operai di teatro. Gente che allestisce la scena. Avranno aperto con un passepartout, scattato le foto, smantellato e poi ricostruito tutto a Aylesbury. Sembra un lavoro da professionisti. Bene o male è roba che quelli fanno sempre. Per loro niente è troppo difficile... basta pagare». Le fece l'occhiolino. «Comunque,» e guardò la stanza disadorna «non sarà stata una gran fatica. Casa sua è così?».

«Non proprio» rispose Mistress Ransome. «La nostra è... be', più complicata».

Lui si strinse nelle spalle. «Paloma se lo potrebbe permettere, è ricca. Ad ogni modo,» disse alzandosi e prendendole la mano «mi dispiace che le abbiano dato tanto disturbo per causa mia».

«Ci mancherebbe» disse Mistress Ransome. «Oddio, all'inizio è stata un'esperienza allucinante, ma poi ho cercato di metterla in positivo. E sa una cosa? Mi sento cresciuta».

Si erano fermati accanto alla carrozzina.

«Anche noi una volta ne abbiamo avuta una così» disse Mistress Ransome. «Per poco». Era una cosa di cui non parlava da trent'anni.

«Un figlio?».

«Doveva chiamarsi Donald,» rispose lei «ma non ce l'ha fatta».

Ignaro di essere appena diventato il depositario di una rivelazione, il giovanotto si lisciò meditabondo un capezzolo e la accompagnò nell'ingresso.

«Grazie di aver chiarito il mistero» gli disse lei e (col gesto più audace di tutta la sua vita) gli sfiorò un fianco nudo, aspettandosi che lui si ritraesse. Ma lui non si ritrasse, né cambiò atteggiamento, e continuò a mostrarsi sorridente e rilassato. Forse, però, anche a lui parve che la situazione richiedesse qualcosa di straordinario, perché le prese la mano e, portandosela alle labbra, la baciò.

Un pomeriggio di qualche settimana dopo, rientrando con la spesa, Mistress Ransome vide un furgone davanti a casa e, nell'atrio, un ragazzo con un cappello da cavallerizzo in testa e un collare da cavallo al collo. Stava spingendo una carrozzina.

«Mister Hanson trasloca?» gli domandò.

«Eh, già». Il ragazzo si appoggiò alla carrozzina. «Di nuovo».

«Perché, succede spesso?».

«Signora mia, questo tizio cambia casa come gli altri si cambiano le mutande. E tutta questa roba» - indicò la carrozzina, il collare da cavallo e il cappello da cavallerizzo - «va frullata. Stavolta pare che ci facciamo casa alla cinese».

«Aspetti che le do una mano» gli disse Mistress Ransome prendendo la carrozzina, mentre lui battagliava con la porta. Poi la fece scendere giù per i gradini e rimase lì a dondolarla piano piano intanto che il ragazzo sistemava gli altri oggetti nel furgone.

«Era un pezzo che non ne spingeva una, eh?» le disse il ragazzo riprendendola in consegna. Lei si appollaiò con la spesa sul muretto vicino all'entrata e lo guardò avvolgere delle coperte intorno ai mobili, chiedendosi se fosse uno degli attrezzisti che avevano svuotato casa sua. Non aveva raccontato a Mister Ransome com'era andata la storia del furto, se no chissà che scena avrebbe fatto. Sicuramente sarebbe salito difilato all'ultimo piano per sentire di persona il giovanotto («Sarà un complice» avrebbe detto). E lei non era riuscita a immaginarsi quell'incontro senza imbarazzo. Quando il furgone partì, salutò con la mano e salì in casa.

Fine della storia, o almeno così credeva lei; senonché un paio di mesi dopo, una domenica pomeriggio, a suo marito venne un coccolone. Mistress Ransome, che era in cucina a riempire la lavastoviglie, sentendo un tonfo andò in soggiorno e lo trovò lungo disteso davanti alla libreria, con una cassetta in una mano, una fotografia oscena nell'altra e "L'illecito in materia di salmone" aperto per terra. Mister Ransome era cosciente, ma non riusciva né a parlare né a muoversi.

Lei fece tutto giusto: prima di chiamare l'ambulanza gli mise un cuscino sotto la testa e una coperta addosso. Sperava che, seppure in quelle condizioni di infermità, il marito sarebbe rimasto colpito dalla sua efficienza e padronanza di sé. Tuttavia, quando lo guardò mentre aspettava in linea, nei suoi occhi non scorse segno d'approvazione né gratitudine: solo terrore puro.

Non potendo attirare l'attenzione della moglie sulla cassetta che stringeva in mano, e neppure posarla, l'inerme Mister Ransome la vide raccogliere svelta le foto, e in un lontano recesso della mente constatò quanto poco interesse o stupore suscitassero in lei quelle porcherie ormai consunte. Alla fine (già si udiva la sirena dell'ambulanza che sfrecciava lungo il parco) lei gli si inginocchiò accanto, gli aprì a fatica le dita ceree, prese la cassetta e la infilò come se niente fosse nella tasca del grembiule. Poi gli tenne un attimo la mano (ancora piegata nella forma della cassetta sconcia) e rifletté che forse il suo sguardo non esprimeva più terrore ma vergogna, sicché sorrise e stringendogli la mano disse: «Non ti preoccupare» nel momento in cui quelli dell'ambulanza suonavano il campanello.

Mister Ransome non viene fuori bene da questo racconto; apparentemente impermeabile ai casi della vita, al contrario della moglie non è né cambiato, né cresciuto. Se avesse avuto un cane, forse sarebbe apparso in una luce migliore; ma per quanto comodo fosse il palazzo di Naseby Mansions data la vicinanza al parco, starsene confinato in un appartamento non è vita da cane. Un hobby sarebbe tornato utile, un hobby però che non fosse Mozart, visto che la ricerca dell'esecuzione perfetta ha contribuito solo a sottolineare la pignoleria del personaggio e la sua generale mancanza di calore umano. No, per imparare a prendere le cose come vengono gli avrebbero giovato arti più disordinate come la fotografia o l'acquerello. Anche un figlio avrebbe comportato un certo caos; pensare che adesso, nella mezza età, per lui non contavano che l'ordine e la precisione. Certo, risulta che solo Mistress Ransome abbia sofferto per la perdita del piccolo Donald, e d'altro canto avere Mister Ransome per padre non sarebbe stato uno spasso; ma un figlio, scompigliandogli un po' la vita, avrebbe smussato i suoi spigoli. In sostanza, la colpa che qui gli viene fatta è quella di non essere uscito fuori dal guscio, e può darsi che con un figlio il guscio non si sarebbe formato.

Ora Mister Ransome giace muto e immobile nel reparto di terapia intensiva e la parola «guscio» sembra appropriata alla situazione. Da qualche parte sente la voce di sua moglie, vicina e a un tempo lontana e un po' echeggiante, come se anche il suo orecchio fosse un guscio e lui un animaletto lì racchiuso. Le infermiere hanno detto a Mistress Ransome che il marito ci sente di certo, e lei, ritenendo che egli possa soccombere non tanto al colpo, quanto alla vergogna e all'umiliazione dovute alle circostanze, si concentra anzitutto su questo punto. «Se riusciamo a trovare un'intesa a livello fisico,» riflette «magari questa storia dell'ictus la vedremo come una manna».

Pur sentendosi un po' stupida, visto che la conversazione è per forza unilaterale, Mistress Ransome comincia a parlare al marito inerte, o meglio, essendovi altri ricoverati nel reparto, a bisbigliare al suo orecchio. Dalla coda dell'occhio sinistro, Mister Ransome non vede altro di lei che il declivio incipriato e lanuginoso della sua guancia soccorrevole.

Lei gli dice che sapeva da anni del suo «peccatuccio», come lo chiama lei, ma che non c'è da vergognarsi, perché in fin dei conti si tratta solo di sesso. Dentro il suo guscio, Mister Ransome sta cercando di capire cosa sia «vergognarsi», e anche su «conti» non è più tanto sicuro, per non parlare di «sesso»; le parole sembrano essersi scollate dal loro significato. Il buonsenso con cui ha affrontato il peccatuccio del marito, intanto, ha esaurito il vocabolario emotivo di Mistress Ransome; il fatto di non aver mai parlato tanto di queste cose la lascia per qualche istante a corto di parole. Comunque, per quanto inebetito, a Mister Ransome questa cosa sta facendo male, ed è evidente che devono sviscerare le basi del loro rapporto. Tenendogli la mano floscia delicatamente nella sua, Mistress Ransome riattacca a bisbigliare, usando quel linguaggio che (ora se ne rende conto) era destinata a fare suo proprio per un'eventualità del genere.

«Mi riesce difficile verbalizzare i miei sentimenti, Maurice» esordisce. «Tutti e due abbiamo sempre avuto difficoltà a farlo, ma vedrai, impareremo». Premendo le labbra sopra l'orecchio inamovibile di lui, Mistress Ransome vede da vicino i peletti ispidi e grigi che il marito spunta regolarmente con le forbicine curve durante le sue sedute in bagno. «Le infermiere mi hanno detto che imparerai di nuovo a parlare, Maurice, e io imparerò con te; impareremo a parlare insieme». Le parole gli vorticano nell'orecchio e finiscono per esser risucchiate dentro, incomprese. Mistress Ransome parla lentamente. E' come dar la pappa a un bambino: Mistress Ransome potrebbe quasi pulire quell'orecchio dalla ricottina di parole ignorate.

Nonostante ciò, e bisogna rendergliene merito, insiste.

«Non voglio certo essere ipercritica, Maurice, perché sai, non sono nella posizione di giudicare nessuno». Così gli dice che anche lei ha ascoltato la cassetta di nascosto.

«Ma in futuro, Maurice, ti propongo di ascoltarla insieme, di sfruttarla per migliorare la nostra intesa... Alla fin fine, tesoro mio, il matrimonio è questione di scelte, e noi qualcosa ci dobbiamo pure investire».

E' un torrente di parole; la taciturna Mistress Ransome ha ormai assimilato un intero dizionario comunicativo e lo riversa nell'orecchio del marito. Parla di sintonia e sessualità, di come si possa fare sesso gioiosamente e senza freni fino a un passo dalla tomba, e già immagina un futuro di cui tutto ciò sarà parte integrante: appena lui si rimetterà in piedi faranno in modo di destinare alcune ore fisse della giornata a toccarsi.

«Noi non ci siamo mai dati delle carezze, Maurice. In futuro dovremo farlo sempre».

Addobbato com'è di tubi, drenaggi e monitor, accarezzare Mister Ransome da malato non è più facile che accarezzarlo da sano, sicché Mistress Ransome si accontenta di baciargli una mano. E avendolo messo a parte della sua visione del futuro - un futuro tattile, estroverso, espansivo - le viene in mente di concludere con qualche nota del "Così". Magari, pensa, è proprio quello che ci vuole per sbloccarlo.

Facendo attenzione a non spostare nessuno dei tanti cavi non destinati all'intrattenimento, Mistress Ransome sistema con delicatezza la cuffia sulle orecchie del marito. Ma prima di infilare la cassetta nel registratore, gliela tiene un attimo davanti agli occhi sbarrati.

«"Così"» dice scandendo le sillabe. E poi, a voce un po' più alta: «Mozart?».

Dopodiché accende, scrutando il viso immutato del consorte per cogliere un pur lieve accenno di reazione. Niente. Allora alza un po' il volume, ma non troppo, diciamo mezzoforte. Mister Ransome, che ha sentito la parola «Mozart» ma non sa se sia una persona, un oggetto o un Tir, si ritrae senza muovere un muscolo davanti a un fuoco di fila di suoni per lui assolutamente privi di significato, che non hanno più logica o senso delle foglie di un albero, tranne che le foglie fanno pensare alle note e sull'albero c'è qualcuno (trattasi di Kiri) che strilla. E' sconcertante. E' terribile. E' assordante.

Forse per l'atroce folgorazione che Mozart non ha senso, o forse perché Mistress Ransome, non vedendo reazioni, decide di fare un ultimo tentativo e alza ancora il volume, fatto sta che i suoni cominciano a vibrargli nelle orecchie e dentro il suo cranio succede un putiferio, la fragile sacca in cui si era riversato il sangue scoppia e nelle orecchie gli risuona un ruggito più forte e trascinante di qualunque musica abbia mai udito; segue un breve e improvviso andante, poi Mister Ransome tossisce piano e muore.

Mistress Ransome non si accorge subito che la mano inerte del marito non è più nemmeno tale, e in ogni caso anche a guardarlo, o addirittura a toccarlo, sarebbe difficile capire che è accaduto qualcosa. Sul monitor il segnale è cambiato, ma lei di monitor non sa nulla. Tuttavia, dato che Mozart non sembra sbloccare la situazione, decide di togliergli la cuffia; solo mentre tenta di districare i fili seri da quelli frivoli nota che sul monitor c'è effettivamente qualcosa di diverso e chiama l'infermiera.

Il matrimonio è parso spesso a Mistress Ransome come una specie di parentesi, ed è appropriato che la frase con cui si rivolge all'infermiera («Credo che se ne sia andato») sia a sua volta fra parentesi e che sia quest'ultima piccola parentesi a chiudere quella più grande. L'infermiera controlla il monitor, sorride tristemente e le posa una mano affettiva sulla spalla, dopodiché tira la tenda e lascia marito e moglie soli per l'ultima volta. Così si chiude la parentesi aperta trentadue anni or sono e Mistress Ransome torna a casa vedova.

Segue un intervallo adeguato. E giacché la televisione l'ha istruita sull'elaborazione del lutto e sulle tecniche per affrontare il dolore, Mistress Ransome osserva rigorosamente quell'intervallo; si concede tempo più che sufficiente per accettare la perdita continuando a essere se stessa fino in fondo, e per ciò che riguarda la vedovanza non mette mai un piede in fallo.

Quando ripensa al passato, il furto e tutto quello che è venuto dopo le sembrano una specie di apprendistato. Ora, si dice, posso incominciare.