OTTAEDRO
Julio Cortázar
Recensione
P.b.
Ottaedro” è una raccolta di otto storie a più dimensioni, oniriche, anche un po' allucinatorie.
Sono dei racconti di grande bellezza, saturi di dettagli poetici che riescono, attraverso le parole, a trasmettere la vita.
Cortázar come sempre ti fa seguire la corrente dei suoi pensieri, anche quelli smozzicati, accostati senza un’apparente sintonia, che però alla fine compongono un quadro completo.
Qui siamo all’interno di otto scenari diversi, tutti a loro modo surreali.
Il racconto parte da quello che accade, prendendo spunto dal reale, per poi proiettarsi in una situazione fantastica ed irreale, alla quale i personaggi sorprendentemente si adattano perfettamente.
Allora capisci che non puoi sapere quali sensazioni riporterai da una lettura di un complesso sfuggente di associazioni mentali che però alla fine si compongono in un insieme completo. È come se non ti trovassi a leggere un lavoro di prosa, bensì una poesia.
OTTAEDRO
Liliana che piange
Meno male che si tratta di Ramos e non di un altro medico, con lui è sempre stato valido un patto, io sapevo che giunto il momento me lo avrebbe detto o almeno me lo avrebbe fatto capire pur non parlando apertamente. Poverino, gli è costato, quindici anni di amicizia e serate di poker e fine settimana in campagna, il problema di sempre; ma così è, nell'ora della verità e fra uomini certe cose valgono più delle menzogne d’ambulatorio colorate come le pastiglie o come il liquido rosa che mi sta entrando goccia a goccia nelle vene.
Tre o quattro giorni, non ha bisogno di dirmelo, lui farà in modo che non ci sia quella cosa che chiamano agonia, lasciar morire il cane lentamente, a che scopo; posso avere fiducia in lui, le ultime pastiglie saranno sempre verdi o rosse ma conterranno altro, il grande sonno e fin da ora gliene sono riconoscente mentre lui, Ramos, è lì che mi guarda ai piedi del letto, un po’ sperduto perché la verità lo ha svuotato, caro vecchio amico. Non dire niente a Liliana, inutile farla piangere prima del tempo, non ti pare. Ad Alfredo si, ad Alfredo puoi dirglielo così organizza il suo lavoro in modo da occuparsi di Liliana e di mamma. Per favore, amico mio, di' anche all'infermiera che non mi stia a scocciare quando scrivo, è Punica cosa che mi fa dimenticare il dolore, a parte la tua dotta farmacopea, naturalmente. Ah, e che mi portino il caffè quando lo chiedo, in questa clinica prendono tutto tanto sul serio.
E' evidente che scrivere mi dà un po’ di calma, forse per questa ragione esistono tante lettere di condannati a morte, chissà. Persino mi diverte immaginare per scritto cose che se solo pensate improvvisamente mi resterebbero per traverso nella gola, per non parlare delle lacrime; poi mi vedo dalle parole come se fossi un altro, posso pensare tutto ciò che voglio purché immediatamente lo scriva, deformazione professionale o qualcosa che mi si comincia a rammollire nelle meningi. Mi interrompo solo quando viene Liliana, con gli altri sono meno gentile, siccome non vogliono che parli molto, lascio che mi raccontino loro se fa freddo o se Nixon avrà partita vinta con McGovern, con la matita in mano li lascio parlare e persino Alfredo capisce e mi dice di fare pure, che faccia come se lui non ci fosse, ha il giornale e si fermerà ancora un momento. Mia moglie questo non lo merita, lei la ascolto e le sorrido e ho meno male, accetto quel suo bacio un po’ umido e ripetuto una e un’altra volta sebbene ogni giorno che passa sempre più mi stanca che mi radano e certamente le graffio la bocca, povera cara. Bisogna dire che il coraggio di Liliana è la mia maggiore consolazione, vedermi già morto nei suoi occhi mi toglierebbe quel poco di forza che mi consente di parlare con lei e di restituirle qualcuno dei suoi baci, che mi consente di continuare a scrivere appena è andata via e ha inizio la routine delle iniezioni e delle paroline di simpatia. Nessuno osa prendersela con il mio quaderno, so che posso tenerlo sotto il cuscino o sul tavolino da notte, è il mio capriccio, lasciamolo fare dato che il dottor Ramos, certo lasciamolo fare, così si distrae.
Allora, lunedì o martedì, e il posticino nella cripta mercoledì o giovedì. In piena estate il cimitero di Chacarita sarà un forno e gli amici, a disagio, già me lo vedo il Pincho con una di quelle sue giacche a doppio petto con le spalline che tanto divertono Acosta, che da parte sua dovrà vestirsi come si deve anche se gli costerà, il re del giubbotto mettere giacca e cravatta per accompagnarmi, che spettacolo. E Fernandito, il trio al completo, e anche Ramos, certo, fino alla fine, e Alfredo dando il braccio a Liliana e a mamma, piangendo con loro. E non sarà una finzione, so quanto mi vogliono bene, quanto mancherò loro; non verranno come andammo al funerale del Tresa, obblighi di partito e qualche vacanza insieme, adempiere al proprio dovere con la famiglia in modo rapido e tagliare la corda, verso la vita e l'oblio. Certamente avranno una fame da lupi, soprattutto Acosta che quanto a stomaco nessuno lo batte; e per quanto addolorati siano e maledicano questo assurdo di morire giovani e nel pieno della carriera, c’è la reazione che tutti abbiamo conosciuto, il piacere di entrare di nuovo nella metropolitana o in macchina, di farsi una doccia e di mangiare con appetito e vergogna anche, ma come negare la fame che segue alle notti in bianco, all’odore dei fiori della veglia funebre e alle interminabili sigarette e ai su e giù in strada, una specie di rivincita che sempre si sente in quei momenti e che io mai rifiutai perché sarebbe stato ipocrita. Mi piace pensare che Fernandito, il Pincho e Acosta andranno insieme in una rosticceria, sono certo che ci andranno insieme perché così facemmo dopo i funerali del Tresa, gli amici devono stare insieme ancora un poco, bere un litro di vino e finire con qualche sanguinaccio; porca miseria, come se li avessi davanti, Fernandito per primo farà una battuta e subito se la rimangerà con mezzo salsicciotto di traverso, pentito, ma ormai troppo tardi, e Acosta lo guarderà di sotto in su, ma il Pincho sarà già scoppiato in una risata, non riesce mai a dominarsi, e allora Acosta che è una pasta d’uomo si dirà che non vede perché passare per un esempio di virtù agli occhi degli amici e anche lui si metterà a ridere prima di accendere una sigaretta. E parleranno a lungo di me, ognuno di loro si ricorderà di tante cose, la vita che ci unì tutti e quattro anche se come sempre piena di vuoti, di momenti che non tutti dividemmo e che si affacceranno al ricordo di Acosta o del Pincho, tanti anni tante liti e cotte, la combriccola. Faranno fatica separarsi dopo lo spuntino perché allora dovranno tornare ad altro, all’ora di rincasare, all’ultimo, definitivo funerale. Per Alfredo sarà diverso e non perché non appartenga alla combriccola, al contrario, ma Alfredo si occuperà di Liliana e di mamma e questo né Acosta né gli altri possono farlo, la vita crea contatti speciali fra gli amici, tutti hanno sempre frequentato la mia casa ma Alfredo è un’altra cosa, una vicinanza che mi ha sempre fatto bene, il suo piacere di fermarsi a lungo a chiacchierare con la mamma di piante e medicine, quella sua gioia di condurre Pocho al giardino zoologico o al circo, lo scapolo disponibile, il pacchetto di dolci e il sette e mezzo quando la mamma non stava bene, la sua confidenza timida e limpida con Liliana, l’amico degli amici che adesso dovrà trascorrere questi due giorni inghiottendosi le lacrime, magari portando il Pocho nella sua casa di campagna e subito indietro per stare con mamma e Liliana fino all’ultimo. In fin dei conti gli toccherà essere l’uomo della casa e far fronte a tutte le complicazioni cominciando dai funerali, doveva proprio capitare mentre mio padre è in viaggio in Messico o a Panama, chissà se arriverà in tempo per affrontare il sole delle undici a Chacarita, povero papà, per cui sarà Alfredo che porterà Liliana perché non credo che permetteranno a mamma di venire, Liliana per il braccio, sentendola tremare contro il proprio tremito, mormorandole tutto quello che io devo aver mormorato alla moglie del Tresa, l’inutile necessaria retorica che non è conforto né menzogna, neppure frasi coerenti, un semplice essere lì, che è moltissimo.
Anche per loro il peggio sarà il ritorno, prima la cerimonia e i fiori, c’è ancora contatto con quella inconcepibile cosa carica di maniglie e di bronzi, l’alto frontone della cripta, l’operazione correttamente eseguita da gente del mestiere, ma dopo la macchina e soprattutto la casa, rientrare in casa sapendo che il giorno ristagnerà senza telefono e senza clinica, senza la voce di Ramos che prolunga la speranza di Liliana, Alfredo farà il caffè e le dirà che il Pocho è contento di stare in campagna, che gli piacciono i cavallini e che gioca con i ragazzi dei contadini, dovrà occuparsi di mamma e di Liliana, ma Alfredo conosce ogni angolo della casa e scommetto che rimarrà a vegliare sul divano del mio studio, lo stesso sul quale una volta coricammo Fer-nandito vittima di un poker durante il quale non aveva visto una carta, per non parlare dei cinque cognac compensatori. Sono settimane che Liliana dorme sola e forse la stanchezza sarà più forte di lei. Alfredo non si dimenticherà di dare dei calmanti a Liliana e alla mamma, ci sarà zia Zulema con le sue tisane, Liliana a poco a poco si abbandonerà al sonno nel silenzio della casa che Alfredo avrà avuto cura di chiudere prima di gettarsi sul divano e accendere uno di quei suoi sigari che non ha il coraggio di fumare quando c’è la mamma per via del fumo che la fa tossire.
Ecco, c’è questo di buono, Liliana e mamma non saranno sole del tutto o circondate da quella solitudine ancora peggiore fatta di parenti lontani che invadono la casa a lutto; ci sarà la zia Zulema che è vissuta sempre al piano di sopra, e Alfredo che è sempre stato con noi come non ci fosse, l’amico con la chiave di casa; nelle prime ore forse sarà meno duro sentire irrevocabilmente l’assenza piuttosto che sopportare un assalto di abbracci e di ghirlande verbali, Alfredo ci penserà lui a prendere le distanze necessarie, Ramos farà una scappata per vedere come stanno mamma e Liliana, le aiuterà a dormire e lascerà delle pastiglie a zia Zulema. A un certo momento, il silenzio della casa buia, appena l’orologio della chiesa, un clacson lontano perché il quartiere è tranquillo. E' bello pensare che sarà così, che abbandonandosi poco a poco a un sopore senza immagini, Liliana si sgranchirà con i suoi lenti movimenti di gatta, una mano abbandonata sul guanciale umido di lacrime e di acqua di colonia, l’altra sulla bocca in un ritorno puerile, prima del sonno. Immaginarla così mi fa tanto bene, Liliana mentre dorme, Liliana alla fine del tunnel nero, confusamente sentendo che l’oggi sta per finire e diventare ieri, che quella luce fra le persiane non sarà più la medesima che la colpiva in pieno petto mentre zia Zulema apriva le scatole dalle quali usciva il nero sotto forma di abiti e di veli che si mescolavano sul letto con un pianto rabbioso, un’ultima, inutile protesta contro ciò che doveva ancora accadere. Adesso invece la luce della finestra sarebbe giunta prima, prima dei ricordi disciolti nel sonno e che solo confusamente si sarebbero aperti un varco nell’ultimo sopore. Sola, sapendo di essere veramente sola in quel letto e in quella camera, in quel giorno che si stava avviando verso un’altra direzione, Liliana avrebbe potuto piangere abbracciata al guanciale senza che nessuno corra a calmarla, lasciandole esaurire il pianto fino in fondo, e solo molto dopo, con un semisonno ingannevole che la trattiene nel gomitolo delle lenzuola, il vuoto del giorno avrebbe cominciato a riempirsi di caffè, di tende aperte, della zia Zulema, della voce del Pocho appeso al telefono della casa di campagna per raccontarle dei girasoli e dei cavalli, di un pesce pescato dopo ardua lotta, di una scheggia nella mano ma niente di grave, gli hanno già messo su la medicina di don Contreras, la più indicata per queste cose. E Alfredo, nel living con il giornale in mano, dicendole che mamma aveva dormito bene e che Ramos sarebbe venuto a mezzogiorno, proponendole di andare nel pomeriggio dal Pocho, con quel sole valeva la pena fare una scappata in campagna e intanto potevano portarci la mamma, le avrebbe fatto bene l’aria di campagna, magari fermarsi per il fine settimana, e perché non tutti, il Pocho sarebbe stato felice di averli là. Accettare o no era lo stesso, lo sapevano tutti e attendevano le risposte che le cose e lo svolgersi del mattino stavano dando, entrare passivamente nella colazione o in un commento a proposito dello sciopero dei tessili, chiedere ancora caffè e rispondere al telefono che a un certo punto avevano dovuto riattaccare, al telegramma del suocero all’estero, e poi un fragoroso scontro per strada, grida e fischi, la città là fuori, le due e mezzo, andare con la mamma e Alfredo alla casa di campagna perché non si poteva mai sapere con quella scheggia nella mano, i bambini, si sa, e Alfredo che le tranquillizza mentre guida, don Contreras era di maggior affidamento che un medico in queste cose, le strade di Ramos Mejia e il sole simile a un ribollente sciroppo fino al rifugio delle grandi camere imbiancate, il mate delle cinque e il Pocho con il suo pesce che cominciava a puzzare ma così bello, così grande, che lotta tirarlo fuori dal ruscello, mamma, quasi tagliava la lenza, te lo giuro, guarda che denti. Come star sfogliando un album o vedendo un film, le immagini e le parole una dopo l'altra riempiono il vuoto, e adesso andiamo a vedere che meraviglia è l'arrosto della Carmen, signora, leggero e saporitissimo, un’insalata e siamo a posto, non è necessario altro, con questo caldo è meglio mangiare poco, e porta l’insetticida perché a quest’ora le zanzare. E Alfredo li zitto ma il Pocho, una pacca sulle spalle al Pocho, tu sì vecchio mio che sei il campione dei pescatori, domani ci andiamo insieme presto e chi ti dice che, mi hanno detto che uno del paese ne ha pescato uno di due chili. Qui sotto la tettoia si sta bene, la mamma può fare un pisolino sulla sedia a dondolo se vuole, don Contreras aveva ragione, non hai più niente nella mano, facci vedere come monti il cavallino pezzato, guarda mamma, guardami quando galoppo, perché non vieni con noi a pescare domani, ti insegnerò io, vedrai, venerdì con un sole rosso e i pesciolini, la corsa fra il Pocho e il figlio di don Contreras, lo spezzatino a mezzogiorno e mamma che aiuta lentamente a pelare le pannocchie di granturco dando consigli per la figlia della Carmen che ha quella tosse tanto ribelle, la siesta nelle camere spoglie che sanno d’estate, l’oscurità sulle lenzuola un po’ ruvide, la sera sotto la tettoia e il falò contro le zanzare, la vicinanza mai manifesta di Alfredo, quel suo modo di esserci e di badare al Pocho e che tutto sia comodo, persino il silenzio rotto dalla sua voce sempre al momento opportuno, la sua mano che porge una bibita, un fazzoletto, che accende la radio per ascoltare il notiziario, gli scioperi e Nixon, era prevedibile, che paese.
Il fine settimana e nella mano del Pocho appena un piccolo segno della scheggia, tornarono a Buenos Aires lunedi molto presto per evitare il caldo, Alfredo li lasciò a casa e corse a prendere il suocero, a Ezeiza c’era anche Ramos, e Fernandito, che diede una mano in quelle ore dell'incontro perché era bene che fossero presenti altri amici in casa, Acosta alle nove con la figlia che poteva giocare con il Pocho al piano di sopra, dalla zia Zulema, tutto si stava dando in maniera più smorzata, tornare indietro ma in altro modo, con Liliana costretta a pensare ai genitori più che a se stessa, controllandosi continuamente, e Alfredo insieme a loro con Acosta e Fernandito che sviano i tiri diretti, si incrociano per aiutare Liliana, per convincere il babbo a riposare dopo un simile viaggio, e se ne vanno uno ad uno finché restano solo Alfredo e la zia Zulema, la casa silenziosa, Liliana che accetta una pastiglia, lasciandosi condurre a letto senza aver ceduto una sola volta, e si addormenta quasi di colpo come dopo qualcosa di compiuto fino in fondo. Il mattino, le corse del Pocho nel living, lo strascicare delle pantofole del babbo, la prima telefonata, quasi sempre di Clotilde o di Ramos, mentre mamma si lamenta del caldo o dell'umidità, parla della colazione con la zia Zulema, e alle sei Alfredo, qualche volta il Pincho con la sorella o Acosta perché il Pocho giochi con sua figlia, i colleghi del laboratorio che reclamano Liliana, doveva tornare al lavoro e non continuare a starsene rinchiusa in casa, che si sforzasse per loro, mancavano chimici e Liliana era necessaria, che comunque andasse almeno mezza giornata finché non si sentisse un po’ più forte; Alfredo l’accompagnò la prima volta, Liliana non aveva voglia di niente, in seguito non volle dare troppo disturbo e tirò fuori la macchina, qualche volta usciva con il Pocho il pomeriggio, lo conduceva al giardino zoologico o al cine, al laboratorio le erano grati che desse loro una mano con i nuovi vaccini, si era manifestata un’epidemia sulla costa, e rimanere a lavorare fino a tardi, prendendoci gusto, una corsa in équipe contro l’orologio, venti casse di fiale a Rosario, lo abbiamo fatto, che lavoro, il Pocho a scuola e Alfredo che protesta, a questi ragazzi insegnano in modo diverso l' aritmetica, ogni sua domanda mi lascia di stucco, e i genitori alle prese con il domino, ai nostri tempi tutto era diverso, Alfredo, ci insegnavano calligrafia e guardi adesso come scrive questo ragazzino, dove andremo a finire. La ricompensa silenziosa di guardare Liliana abbandonata su un sofà, una semplice occhiata al di sopra del giornale e vederla sorridere, complice senza parole, mentre dà ragione ai vecchi e gli sorride da lontano quasi come una ragazzina. Ma per la prima volta un vero sorriso, dall’intimo, come il giorno in cui andarono al circo con il Pocho che aveva fatto progressi a scuola e lo avevano portato a prendere il gelato, a fare una passeggiata al porto. Cominciavano i grandi freddi, Alfredo andava meno di frequente a trovarli perché c’erano problemi sindacali e lui doveva viaggiare nelle province, qualche volta veniva Acosta con la figlia e le domeniche il Pincho o Fernandito, non aveva più importanza, tutti avevano molte cose da fare e le giornate erano corte, Liliana tornava tardi dal laboratorio e dava una mano al Pocho smarrito nei decimali e nel bacino del Rio delle Amazzoni, e alla fine e sempre Alfredo, i regalini per i vecchi, quella tranquillità mai dichiarata di sedere con lui vicino al fuoco la sera tardi e parlare sottovoce dei problemi del paese, della salute della mamma, la mano di Alfredo posata sul braccio di Liliana, ti stanchi troppo, hai una faccia che non mi piace, il sorriso riconoscente mentre nega, un giorno andiamo in campagna, questo freddo non può durare in eterno, nulla poteva durare eternamente anche se Liliana ritirava lentamente il braccio e cercava le sigarette sul tavolino, le parole quasi senza senso, gli occhi ora si incontravano in altro modo finché nuovamente la mano scivolava sul braccio, le teste si univano e il lungo silenzio, il bacio sulla guancia.
Non c’era da fare alcun commento, era capitato e non c’era da fare alcun commento. Chinandosi per accenderle la sigaretta che le tremava fra le dita, semplicemente aspettando senza parlare, forse sapendo che non esistevano parole, che Liliana avrebbe fatto uno sforzo per mandare giù il fumo lasciandolo uscire poi con un lamento, che avrebbe cominciato a piangere lacrime soffocate, che venivano da lontano, senza separare la faccia da quella di Alfredo, senza negarsi e con un pianto silenzioso, ora unicamente per lui, per tutte quelle altre cose che lui avrebbe capito. Inutile mormorare logore frasi, Liliana che piange era il termine, il bordo dal quale avrebbe avuto inizio un nuovo modo di vivere. Se calmarla, se restituirla alla tranquillità fosse stato tanto semplice quanto scriverlo con parole che si allineano in un quaderno simili a secondi congelati, piccoli disegni del tempo per aiutare l'interminabile fluire del pomeriggio, se si trattasse unicamente di questo, ma arriva la sera e anche Ramos, incredibilmente, la faccia di Ramos che osserva i dati delle analisi appena finite, mi tasta il polso, di colpo altro, incapace di fingere, mi strappa di dosso le lenzuola per osservarmi nudo, mi palpa il torace, con un incomprensibile ordine all’infermiera, un lento, incredulo esame al quale assisto come da lontano, quasi divertito, sapendo che è impossibile, che Ramos si sbaglia e che non è vero, che solo era vera l’altra cosa, il poco tempo che non mi aveva tenuto nascosto, e la risata di Ramos, il suo modo di palparmi come se non potesse ammettere, la sua assurda speranza, nessuno ci crederà, sai, e io sforzandomi di riconoscere che magari è così, che di punto in bianco chissà, e guardo Ramos che si raddrizza e di nuovo ride e dà un ordine dopo l’ altro con una voce che mai gli avevo sentito in quella penombra e in quel letargo, si, devo convincermi a poco a poco che si, che dunque dovrò chiederglielo, non appena l’infermiera sia uscita dovrò chiedergli di aspettare un pochino, di aspettare che almeno sia giorno prima di dirlo a Liliana, prima di strapparla da quel sonno in cui per la prima volta non è più sola, da quelle braccia che la stringono mentre dorme.
I passi sulle impronte
Cronaca alquanto tediosa, stile di esercizio più che esercizio di stile di un, diciamo, Henry James che avesse preso il mate in un qualsiasi patio porteño o rioplatense degli anni venti.
Jorge Fraga aveva appena compiuto quarantanni quando decise di studiare la vita e l'opera del poeta Claudio Romero.
Tutto nacque dalle quattro chiacchiere da caffè durante le quali Fraga e i suoi amici furono costretti ad ammettere ancora una volta l’incertezza in cui era avvolta la persona di Romero. Autore di tre libri appassionatamente letti e invidiati che gli avevano valso una effimera celebrità negli anni posteriori al Centenario, la figura di Romero si confondeva con le sue invenzioni, mancava di una critica sistematica e persino di un’iconografia soddisfacente. A parte alcuni articoli parsimoniosamente laudatori sulle riviste dell’epoca, e un libro compilato da un entusiasta professore santafesino nel quale il lirismo suppliva alla mancanza di idee, non era stata tentata la minima indagine sulla vita o l’opera del poeta. Alcuni aneddoti, fotografie sbiadite; il resto era leggenda per cenacoli letterari e panegirici nelle antologie di vaghi editori. Ma Fraga era rimasto colpito dal fatto che molta gente continuava a leggere i versi di Romero con il medesimo fervore con cui leggeva quelli di Carriego o di Alfonsina Storni. Egli stesso li aveva scoperti negli anni del liceo, e malgrado l’accento dozzinale e le immagini rese logore dagli epigoni, le poesie del «vate platense» erano state una delle esperienze decisive della sua giovinezza, come Almafuerte o Carlos de la Púa. Solo più tardi, quando era già conosciuto come critico e saggista, gli capitò di pensare seriamente all’opera di Romero e non tardò a rendersi conto del fatto che quasi niente si sapeva del suo significato più personale e forse più profondo. Di fronte ai versi di altri buoni poeti di inizio secolo, quelli di Claudio Romero si distinguevano per una qualità speciale, una risonanza meno enfatica che gli guadagnava immediatamente la stima dei giovani, stufi di tropi altisonanti e di evocazioni che erano delle zeppe. Quando parlava di queste poesie con gli studenti o gli amici, Fraga finiva per domandarsi se il mistero non fosse in fondo ciò che dava prestigio a quella poesia di chiavi oscure, di intenzioni evasive. Finì per irritarlo la facilità con la quale l’ignoranza favorisce l’ammirazione; dopo tutto, la poesia di Claudio Romero era troppo alta perché una migliore conoscenza della sua genesi potesse svalutarla. Uscendo da una di quelle riunioni di caffè durante le quali avevano parlato di Romero con la consueta vaghezza ammirativa, senti come un dovere il mettersi a lavorare seriamente sul poeta. Senti anche che non doveva limitarsi a un semplice saggio con propositi filologici o stilistici come quasi tutti quelli che aveva scritto fino a quel momento. La nozione di una biografia nel suo significato più nobile gli si impose fin dal principio: l’uomo, la terra e l’opera dovevano scaturire da un tutto unico, anche se l’impresa sembrava impossibile in tanta nebbia di tempo. Finita la tappa della schedatura, sarebbe stato necessario raggiungere la sintesi, provocare l’impensabile incontro del poeta con il suo persecutore; solo quel contatto avrebbe restituito all’opera di Romero la sua ragione più profonda.
Quando si decise a intraprenderne lo studio, Fraga stava entrando in un periodo critico della sua vita. Un certo prestigio accademico gli era valso un incarico di professore associato all’università e il rispetto di un piccolo gruppo di lettori e di allievi. Contemporaneamente, un recente tentativo di ottenere l’appoggio ufficiale che gli permettesse di lavorare in certe biblioteche d’Europa era fallito per ragioni di politica burocratica. Le sue pubblicazioni non erano di quelle che aprono senza bussare le porte dei ministeri. Il romanziere alla moda, il critico da terza pagina potevano permettersi molto di più. Fraga non si nascose che se il suo libro su Romero avesse avuto successo, i problemi più meschini si sarebbero risolti da soli. Non era ambizioso ma lo irritava vedersi lasciato indietro dagli scribacchini del momento. Anche Claudio Romero, ai suoi tempi, si era lamentato alteramente che il versificatore da salotto elegante avrebbe potuto ottenere l’incarico diplomatico a lui negato.
Per due anni e mezzo riunì materiale per il libro. Il lavoro non era difficile, ma lungo e in alcuni casi noioso. Andò anche a Pergamino, a Santa Cruz e a Mendoza, si mantenne in corrispondenza con bibliotecari e archivisti, esaminò collezioni di periodici e di riviste, compulsò testi, approfondì parallelamente lo studio delle correnti letterarie dell’epoca. Verso la fine del 1954 gli elementi centrali del libro erano raccolti e valutati, anche se Fraga non aveva ancora scritto una sola parola del testo.
Mentre stava infilando una nuova scheda nella scatola di cartone nero, una sera di settembre, si domandò se era in grado di intraprendere la stesura del suo libro. Gli ostacoli non lo preoccupavano, piuttosto il contrario, la facilità di cominciare la corsa su un campo sufficientemente conosciuto. I dati erano lì, e nulla di importante sarebbe ormai venuto fuori dalle scrivanie o dalle memorie degli argentini del suo tempo. Aveva raccolto notizie e fatti apparentemente sconosciuti che avrebbero concorso al perfezionarsi della conoscenza dell’immagine di Claudio Romero e della sua poesia. L’unico problema era quello di non sbagliarsi nella messa a fuoco centrale, nelle linee di fuga e nella composizione dell’insieme.
«Ma questa immagine è abbastanza chiara per me? - si domandò Fraga guardando la brace della sua sigaretta. - Le affinità fra Romero e me, la preferenza che abbiamo in comune per certi valori estetici e poetici, ciò che rende inevitabile la scelta del tema da parte del biografo, non mi farà cadere più di una volta in una mascherata autobiografia?»
A ciò poteva rispondere che non gli era stata concessa alcuna capacità creativa, che non era un poeta ma un degustatore di poesia, e che le sue capacità trovavano la propria affermazione nella critica, nel diletto che accompagna la conoscenza. Sarebbe bastato stare all’erta, non chiudere gli occhi quando fosse stato fronte a fronte con l’opera del poeta e non lasciarsi sommergere per evitare ogni indebita trasfusione. Non doveva diffidare della propria simpatia per Claudio Romero né del fascino delle sue poesie. Come con le buone macchine fotografiche, sarebbe occorso fissare l’angolazione necessaria affinché il soggetto fosse esattamente inquadrato, senza che l’ombra del fotografo gli pestasse i piedi.
Ora che lo attendeva il primo foglio bianco come una porta che da un momento all’altro sarebbe stato necessario cominciare ad aprire, tornò a domandarsi se sarebbe stato capace di scrivere il libro così come lo aveva immaginato. La biografia e la critica potevano derivare pericolosamente nella faciloneria, appena fossero state dirette verso quel tipo di lettore che si aspetta da un libro l’equivalente di un film o di André Mau-rois. Il problema era di non sacrificare quell’anonimo e massificato consumatore che i suoi amici socialisti chiamavano «il popolo» alla soddisfazione erudita di un pugno di colleghi. Trovare l’angolatura che permettesse di scrivere un libro appassionante senza cadere nelle ricette da best seller; guadagnarsi simultaneamente il rispetto del mondo accademico e l’entusiasmo dell’uomo della strada che vuole svagarsi seduto in poltrona il sabato sera.
Era un po’ l’ora di Faust, il momento del patto. Quasi all’alba, la sigaretta consumata, il bicchiere di vino nella mano indecisa. Il vino, come un guanto di tempo, aveva scritto Claudio Romero da qualche parte.
«Perché no, - si disse Fraga, accendendo un’altra sigaretta. - Con tutto ciò che so di lui ora, sarebbe stupido che mi limitassi a un saggio in senso stretto, in edizione da trecento copie. Juárez o Ricardi possono farlo altrettanto bene. Ma nessuno sa qualcosa di Susana Márquez».
Un’allusione del giudice di pace di Bragado, fratello minore di un defunto amico di Claudio Romero, lo aveva messo sulla pista. Un tale che lavorava presso l’anagrafe di La Piata gli fornì, dopo non poche ricerche, un indirizzo di Pilar. La figlia di Susana Márquez era una donna di circa trent’anni, piccola e dolce. In principio si rifiutò di parlare, con la scusa che doveva badare al negozio (una bottega di erbivendola); poi accettò che Fraga passasse in salotto, sedesse su una seggiola coperta di polvere e le rivolgesse alcune domande. In principio lo guardava senza rispondergli; poi pianse un pochino, si passò il fazzoletto sugli occhi e parlò della sua povera mamma. A Fraga riusciva difficile farle capire che sapeva già qualcosa della relazione fra Claudio Romero e Susana, ma finì per dirsi che l’amore di un poeta val bene un libretto di matrimonio, e lo insinuò con la dovuta delicatezza. Pochi minuti dopo averle cosparso la strada di fiori la vide venirgli incontro, totalmente convinta e persino commossa. Un attimo dopo teneva in mano una straordinaria fotografia di Romero, mai pubblicata, e un’altra più piccola e ingiallita, nella quale accanto al poeta si vedeva una donna dolce e minuta quanto la figlia.
- Ho conservato anche alcune lettere, - disse Raquel Márquez. - Se le possono essere utili, dal momento che dice che scriverà un libro su di lui...
Cercò a lungo, scegliendo fra un mucchio di carte prese da una scatola a carillon, e finì per dare tre lettere a Fraga che le prese senza leggerle dopo essersi assicurato che fossero scritte di proprio pugno da Rome-ro. A quel punto della conversazione non v’era più dubbio che Raquel non era la figlia del poeta, perché alla prima allusione vide che chinava la testa tacendo, come se pensasse. Dopo spiegò che sua madre si era sposata più tardi con un militare di Balcarce («il paese di Fangio», disse, quasi fosse una prova), e che entrambi erano morti quando lei aveva soltanto otto anni. Ricordava molto bene la madre, ma poco il padre. Era un uomo severo, questo si.
Quando Fraga tornò a Buenos Aires e lesse le tre lettere di Claudio Romero a Susana, gli ultimi frammenti del mosaico parvero all’improvviso incastrarsi al giusto posto, rivelando una composizione totale insperata, il dramma che l’ignoranza e la bacchettoneria della generazione del poeta non avevano neppure sospettato. Nel 1917 Romero aveva pubblicato la serie di poesie dedicate a Irene Paz, fra le quali la celebre Oda a tu nombre doble che la critica aveva dichiarato essere la più bella poesia d’amore mai scritta in Argentina. E tuttavia, un anno prima della pubblicazione del libro, un’altra donna aveva ricevuto quelle tre lettere nelle quali dominava il tono che definiva la migliore poesia di Romero, mescolanza di esaltazione e di distacco, come di chi sia contemporaneamente motore e soggetto dell’azione, protagonista e coro. Prima di leggere le lettere, Fraga aveva sospettato di trovarsi di fronte alla solita corrispondenza amorosa, gli specchi faccia a faccia che isolano e pietrificano il proprio riflesso solo per essi importante. Invece scopriva ad ogni periodo la reiterazione del mondo di Romero, la ricchezza di una visione totalizzante dell’amore. Non solo la passione per Susana Márquez non lo tagliava fuori dal mondo ma ad ogni linea si sentiva pulsare una realtà che ingigantiva l’amata, giustificazione ed esigenza di una poesia che battagliava nel pieno della vita.
In sé la storia era semplice. Romero aveva conosciuto Susana in un salotto letterario alquanto scialbo di La Piata, e l’inizio della loro relazione coincise con un’eclissi quasi totale del poeta che i suoi piccoli biografi non si spiegavano o attribuivano ai primi sintomi della tisi che lo avrebbe ucciso due anni dopo. Le notizie su Susana erano sfuggite a tutti, come si addiceva alla sua immagine sfuocata, ai grandi occhi spaventati che guardavano fissamente dalla vecchia fotografia. Maestra elementare senza lavoro, figlia unica di genitori vecchi e poveri, priva di amici che potessero interessarsi a lei, la sua simultanea eclissi dai circoli letterari rioplatensi aveva coinciso con il periodo più drammatico della guerra europea, con altri interessi pubblici, con nuove voci letterarie. Fraga poteva considerarsi fortunato di avere colto l’indifferente allusione di un giudice di pace di campagna; con quel filo fra le dita riuscì a individuare la lugubre casa di Bur-zaco dove Romero e Susana avevano abitato per quasi due anni; le lettere che gli aveva consegnato Raquel Márquez corrispondevano alla fine di quel periodo. La prima, datata La Piata, si riferiva a lettere precedenti che parlavano del suo matrimonio con Susana. Il poeta confessava la propria angoscia di sentirsi malato e la propria riluttanza a sposarsi con chi avrebbe dovuto essere infermiera prima che sposa. La seconda lettera era ammirevole, la passione cedeva a una coscienza di purezza quasi insopportabile, come se Romero lottasse per risvegliare nell’amante un’analoga lucidità che rendesse meno penosa la necessaria rottura. Una frase riassumeva tutto: «Nessuno ha il diritto di sapere di noi, e io ti offro la libertà con il silenzio. Libera, sarai ancor più mia per l’eternità. Se ci sposassimo, mi sentirei il tuo giustiziere ogni volta che entrassi nella mia stanza con un fiore in mano». E aggiungeva con durezza: «Non voglio tossirti in faccia, non voglio che tu mi asciughi il sudore. Un corpo diverso hai conosciuto, altre rose ti ho dato. Ho bisogno della notte per me solo, non ti permetterò di vedermi piangere». La terza lettera era più serena, come se Susana avesse cominciato ad accettare il sacrificio del poeta. A un certo punto, era scritto: «Insisti che io ti magnetizzo, che ti obbligo a fare la mia volontà... Ma la mia volontà è il tuo futuro, permettimi di seminare questi semi che mi consoleranno di una morte stupida».
Nella cronologia stabilita da Fraga, la vita di Claudio Romero entrava, a partire da quel momento, in una tappa monotona, di quasi continua reclusione nella casa dei genitori. Nessun’altra testimonianza permetteva di supporre che il poeta e Susana Márquez si fossero ancora incontrati, anche se non si poteva neppure affermare il contrario; tuttavia, la miglior prova del fatto che la rinuncia di Romero si era compiuta e che Susana doveva aver preferito finalmente la libertà anziché condannarsi presso il malato, era costituita dal sorgere del nuovo e risplendente pianeta nel cielo della poesia di Romero. Un anno dopo quella corrispondenza e quella rinuncia, una rivista di Buenos Aires pubblicava l' Oda a tu nombre doble, dedicata a Irene Paz. La salute di Romero pareva essere migliorata e la poesia, che egli stesso aveva letto in alcuni salotti, gli valse di colpo la gloria che gli scritti precedenti avevano preparata quasi segretamente. Come Byron, poté dire che un mattino si era svegliato per scoprire che era celebre, e non tralasciò di dirlo. Ma contrariamente a quanto ci si poteva aspettare, la passione del poeta per Irene Paz non fu corrisposta, e a giudicare da una serie di episodi di carattere mondano contraddittoriamente narrati dagli ingegni dell’epoca, il prestigio personale del poeta decadde improvvisamente, costringendolo a ritirarsi un’altra volta nella casa dei genitori, lontano dagli amici e dagli ammiratori. A quell’epoca risaliva il suo ultimo libro di poesie. Un’emottisi brutale lo aveva colto in mezzo la strada pochi mesi dopo, e Romero era morto tre settimane più tardi. I suoi funerali avevano riunito un gruppo di scrittori, ma dal tono delle orazioni funebri e dalle cronache era evidente che coloro che appartenevano al mondo di Irene Paz non erano stati presenti e neppure avevano reso l’omaggio che ci si poteva aspettare in quella circostanza.
A Fraga risultava facile comprendere che la passione di Romero per Irene Paz doveva avere lusingato e scandalizzato in uguale misura l’ambiente aristocratico rioplatense e porteno. Su Irene non aveva potuto farsi un’idea precisa; della sua bellezza parlavano le fotografie dei suoi vent’anni, ma il resto era semplicemente racchiuso nelle cronache mondane dei giornali. Fedele erede delle tradizioni dei Paz, era possibile immaginarne l’atteggiamento nei confronti di Romero; doveva averlo incontrato durante un ricevimento che i suoi davano di tanto in tanto per ascoltare coloro che chiamavano, sottolineando le virgolette con la voce, gli «artisti» e i «poeti» del momento. Se l'Oda la lusingò, se l’ammirevole invocazione iniziale le mostrò come un fulmine la sincerità di una passione che la voleva per sé nonostante tutti gli ostacoli, forse solo Romero potè saperlo, e neppure questo era certo. Ma giunto a questo punto, Fraga capiva che il problema cessava di essere tale e che perdeva ogni importanza. Claudio Romero era stato troppo lucido per poter immaginare anche solo per un attimo che la sua passione sarebbe stata corrisposta. Le distanze, le barriere d’ogni natura, la totale inaccessibilità di Irene, sequestrata nella doppia prigione della propria famiglia e di se stessa, fedele specchio della casta, la rendevano fin dal principio irraggiungibile. Il tono dell’Oda era inequivocabile e andava assai oltre le immagini correnti della poesia amorosa. Romero chiamava se stesso «L’Icaro dei tuoi piedi di miele» - immagine che gli aveva valso le burle di un critico da strapazzo di «Caras y Caretas» - e la poesia non era che un balzo supremo all’inseguimento dell’ideale impossibile e pertanto più bello, l’ascesa, attraverso i versi, in un volo disperato verso il sole che lo avrebbe bruciato e precipitato nella morte. Anche il ritiro e il silenzio finali del poeta somigliavano straordinariamente alle fasi di una caduta, di un dolente ritorno alla terra che aveva osato abbandonare per un sogno superiore alle proprie forze.
« Sì - pensò Fraga, riempiendo nuovamente il bicchiere di vino, - tutto coincide, tutto si incastra; adesso non resta che scriverlo».
Il successo della Vita di un poeta argentino superò ogni aspettativa dell’autore e degli editori. Commentato appena nelle prime settimane, un inatteso articolo su «La Razón» svegliò i portenos dalla loro cauta flemma e li spinse a una presa di posizione che pochi si rifiutarono di assumere. «Sur», «La Nación», i migliori giornali di provincia si appropriarono dell’argomento del giorno che immediatamente si riversò sui tavolini dei caffè e di tutti i pranzi. Due violente polemiche (sull'influsso di Darìo su Romero e una questione cronologica) vennero ad aggiungersi per maggiormente interessare il pubblico. La prima edizione della Vita si esaurì in due mesi: la seconda, in un mese e mezzo. Costretto dalle circostanze e dai vantaggi che ne derivavano, Fraga diede il suo consenso per una riduzione teatrale e un’altra radiofonica. Si giunse al momento in cui la novità unita all’interesse attorno a un’opera raggiungono l’apice temibile oltre il quale già sta in agguato lo sconosciuto successore; abilmente, come se si proponesse di riparare a un’ingiustizia, il Premio Nazionale si fece largo fino a Fraga grazie a due amici che precedettero tutte le telefonate e lo stridulo coro delle prime felicitazioni. Ridendo, Fraga rammentò che l’attribuzione del premio Nobel non aveva impedito a Gide di andare quella medesima sera a vedere un film di Fernandel; forse per questa ragione lo divertì isolarsi in casa di un amico ed evitare la prima valanga dell’entusiasmo collettivo con una tranquillità che il suo stesso complice nell’amichevole sequestro trovò eccessiva e quasi ipocrita. Ma in quei giorni Fraga era sempre pensieroso, senza spiegarsene la ragione nasceva in lui quasi un desiderio di solitudine, di stare ai margini della propria figura pubblica che per via fotografica e radiofonica superava le mura della città, ascendeva ai circoli di provincia e affermava la propria presenza in molti ambienti stranieri. Il Premio Nazionale non era una sorpresa, appena una riparazione. Adesso sarebbe venuto il resto, ciò che in fondo lo aveva spinto a scrivere la Vita. Non si sbagliava: una settimana più tardi il ministro degli esteri lo riceveva in casa sua («noi diplomatici sappiamo che ai veri scrittori non interessa la messa in scena ufficiale») e gli proponeva un incarico di addetto culturale in Europa. Tutto assumeva un aspetto quasi onirico, andava talmente controcorrente che Fraga doveva fare sforzi per accettare del tutto questa ascesa lungo la scalinata degli onori; scalino dopo scalino, partendo dalle prime recensioni, dal sorriso e dagli abbracci dell’editore, dagli inviti degli atenei e dei circoli culturali, era ormai arrivato al pianerottolo dal quale, chinandosi appena, poteva abbracciare la totalità del salotto mondano, allegoricamente dominarlo e scrutarlo fino all'ultimo angolo, fino all' ultima cravatta bianca e all' ultimo cincillà dei protettori della letteratura fra un boccone e l' altro di foie gras e di Dylan Thomas. Più in là - o più in qua, dipendeva dal punto di vista, dallo stato d’animo del momento - vedeva anche la moltitudine umile e minchiona dei divoratori di riviste, dei telespettatori e dei radioascoltatori, del gregge che un giorno senza sapere né come né perché si sottomette all'imperativo di comperare una lavatrice o un romanzo, un oggetto di ottanta centimetri cubici o di trecentodiciotto pagine, e lo compera, lo compera immediatamente gli costi qualsiasi sacrificio, lo porta a casa dove la signora e i figli aspettano con ansia perché la vicina lo ha già, perché il presentatore alla moda di Radio El Mundo lo ha nuovamente lodato nella trasmissione delle undici e cinquantacinque. Era stato stupefacente come il suo libro fosse entrato nel catalogo delle cose che bisogna assolutamente comperare e leggere, dopo tanti anni che la vita e l’opera di Claudio Romero erano state mera mania di intellettuali, vale a dire di quasi nessuno. Ma quando, di tanto in tanto, sentiva di nuovo la necessità di stare solo e di pensare a quanto stava capitando (adesso era la settimana dei contatti con i produttori cinematografici), all’iniziale stupore subentrava un’attesa inquietante, non sapeva di cosa. Nulla poteva esserci se non un altro gradino lungo la scala degli onori, eccetto il giorno inevitabile in cui, come per i ponti dei giardini, all’ultimo gradino ascendente sarebbe seguito il primo della discesa, il decoroso cammino verso la sazietà del pubblico e la sua svolta alla ricerca di nuove emozioni. Quando dovette isolarsi per preparare il discorso di accettazione del Premio Nazionale, la sintesi delle vertiginose esperienze di quelle settimane era riassumibile in una ironica soddisfazione per quel tanto di rivincita racchiuso nel suo trionfo, mitigato dall’inquietudine inspiegabile che a tratti emergeva alla superficie e cercava di proiettarlo verso un territorio al quale il suo senso dell'equilibrio e dell'umorismo si rifiutavano recisamente. Credette che la preparazione della conferenza lo avrebbe restituito al piacere del lavoro, e andò a scriverla nella casa di campagna di Ofelia Fernández, dove sarebbe stato tranquillo. Era la fine dell’estate, il parco era già dei colori dell’autunno, che gli piaceva guardare dal portico mentre chiacchierava con Ofelia e carezzava i cani. In una camera del primo piano lo aspettava il suo materiale di lavoro; quando aprì lo schedario principale, percorrendolo distrattamente come un pianista che arpeggi, Fraga si disse che tutto era perfetto, che nonostante l’inevitabile volgarità di qualsivoglia trionfo letterario in grande scala, la Vita era un atto di giustizia, un omaggio alla razza e alla patria. Poteva sedersi e scrivere la sua conferenza, ricevere il premio, preparare il viaggio in Europa. Date e cifre gli si mescolavano nella memoria con clausole di contratti e inviti a pranzo. Presto Ofelia sarebbe entrata con una bottiglia di jerez, si sarebbe avvicinata silenziosa e attenta, lo avrebbe guardato lavorare. Sì, tutto era perfetto. Non doveva far altro che prendere un foglio di carta, orientare la luce, accendere un avana ascoltando il lontano grido di un tero1.
Mai seppe esattamente se la rivelazione venne in quel momento o più tardi, dopo aver fatto l’amore con Ofelia mentre fumavamo seduti sul letto guardando una piccola stella verde alta nella finestra. L’invasione, se la si poteva chiamare così (ma il suo vero nome o natura non importavano), forse coincise con la prima frase della conferenza, redatta velocemente fino a un punto in cui si era improvvisamente interrotta, e sostituita, cancellata da qualcosa che era come un vento che le toglieva di colpo ogni significato. Il resto era stato un lungo silenzio, ma forse tutto era già chiaro quando scese le scale, chiaro e non ancora formulato, pesante come un mal di capo o un principio d’influenza. In modo inafferrabile, in un momento indefinibile, il peso confuso, il vento nero erano diventati certezza: la Vita era falsa, la storia di Claudio Romero nulla aveva a che vedere con ciò che aveva scritto. Senza alcuna ragione, senza prove: tutto falso. Dopo anni di lavoro, di testi consultati, di piste seguite, di eccessi personalistici volutamente evitati: tutto falso. Claudio Romero non si era sacrificato per Susana Márquez, non le aveva restituito la libertà a spese della propria rinuncia, non era stato l’Icaro dai piedi di miele di Irene Paz. Come nuotando sott’acqua, incapace di tornare in superficie, flagellato dal fragore della corrente negli orecchi, sapeva la verità. E ciò non era ancora tortura sufficiente; dietro, più in basso ancora, in un’acqua ormai fango e immondizia, si trascinava la certezza di averlo saputo fin dal primo momento. Inutile accendere un’altra sigaretta, pensare alla nevrastenia, baciare le delicate labbra che Ofelia gli offriva nell’ombra. Inutile speculare che l'essersi eccessivamente consacrato al suo eroe poteva provocare quella momentanea allucinazione, quel rifiuto per eccesso di abbandono. Sentiva la mano di Ofelia accarezzargli il petto, il calore intermittente del suo respiro. Inspiegabilmente si addormentò.
Il mattino seguente osservò lo schedario aperto, le carte, e gli risultarono più estranei delle sensazioni della notte. Di sotto, Ofelia era intenta a telefonare alla stazione per verificare le coincidenze dei treni. Arrivò a Pilar più o meno alle undici e mezzo, e andò diretta-mente al negozio di verdure. La figlia di Susana lo ricevette con una curiosa espressione di risentimento e di adulazione simultanei, come di cane dopo un calcio. Fraga le chiese di concedergli cinque minuti, entrò di nuovo nel salotto polveroso e di nuovo sedette su quella stessa sedia con la fodera bianca. Non dovette parlare a lungo, perché la figlia di Susana, dopo essersi asciugata qualche lacrima, cominciò ad annuire a capo chino, chinandosi sempre più in avanti.
- Si, signore, è così. Si, signore.
- Perché non me lo ha detto la prima volta ?
Era difficile spiegare perché non glielo avesse detto la prima volta. La madre le aveva fatto giurare che mai avrebbe fatto riferimento a certe cose, e siccome dopo si era accasata con il sottufficiale di Balcarce, allora... Quasi aveva pensato di scrivergli quando avevano cominciato a parlare tanto del libro su Romero, perché...
Lo guardava perplessa, e ogni tanto le scendeva una lacrima fino alla bocca.
- E come ha saputo ? - disse poi.
- Non si preoccupi di questo, - disse Fraga. - Tutto si sa prima o poi.
- Ma lei nel libro ha scritto tutta un’altra cosa. L’ho letto, sa. Lo conservo e tutto.
- Che nel libro sia detta un’altra cosa è colpa sua. Esistono altre lettere di Romero a sua madre. Lei mi ha dato quelle che le convenivano, quelle che facevano fare bella figura a Romero e quindi a sua madre. Mi occorrono le altre, immediatamente. Me le dia.
- Si tratta di una sola, - disse Raquel Márquez. -Ma la mamma mi fece giurare, signore.
- Se l’ha conservata invece di bruciarla vuol dire che non le importava poi molto. Me la dia. Gliela compro.
- Signor Fraga, non è per questo che non gliela do...
- Prenda, - disse brutalmente Fraga. - Non sarà vendendo zucche che guadagnerà questa somma.
Mentre la osservava chinarsi sul carillon, frugando fra le carte, pensò che ciò che in quel momento sapeva lo aveva già saputo (in altro modo, magari, ma lo aveva saputo) il giorno della sua prima visita a Raquel Márquez. La verità non lo coglieva completamente di sorpresa, e adesso poteva giudicarsi retrospettivamente e domandarsi, per esempio, perché aveva abbreviato in quel modo il suo primo incontro con la figlia di Susana, perché aveva accettato le tre lettere di Romero come se fossero le uniche, senza insistere, senza offrire qualcosa in cambio, senza andare fino in fondo a ciò che Raquel sapeva e taceva. «E' assurdo, - pensò. - In quel momento io non potevo sapere che Susana era arrivata ad essere una prostituta per colpa di Romero». Ma allora perché aveva deliberatamente abbreviato la sua conversazione con Raquel, considerandosi soddisfatto delle fotografie e delle tre lettere. «Oh sì, lo sapevo, va’ a sapere come, ma lo sapevo, e ho scritto il libro sapendolo, e forse anche i lettori lo sanno, e la critica lo sa, e tutto è un’immensa menzogna nella quale ci siamo dentro tutti fino al collo...» Ma era facile cavarsela generalizzando, non accettare che una piccola parte della colpa. Menzogna anche questo: uno solo era il colpevole, lui.
La lettura della lettera fu una semplice sovrapposizione di parole su qualcosa che Fraga già conosceva da altra visuale e che la prova epistolare poteva solo rafforzare in caso di polemica. Caduta la maschera, un Claudio Romero quasi feroce si affacciava in quelle frasi categoriche, di una logica inoppugnabile. Condannando di fatto Susana allo sporco mestiere in cui si sarebbe trascinata negli ultimi anni, e al quale si alludeva esplicitamente in due punti della lettera, le imponeva per sempre il silenzio, la distanza e l’odio, la spingeva con sarcasmi e minacce lungo una china che egli stesso aveva dovuto preparare in due anni di lenta, minuziosa corruzione. L’uomo che si era compiaciuto di scrivere alcune settimane prima: «Ho bisogno della notte per me solo, non ti permetterò di vedermi piangere», terminava ora un periodo con una grossolana allusione il cui effetto doveva essere stato malignamente previsto, e aggiungeva raccomandazioni e consigli ironici, superficiali addii interrotti da esplicite minacce se Susana avesse preteso di incontrarsi ancora con lui. Ormai Fraga non ne era più stupito, tuttavia rimase a lungo con la schiena appoggiata al finestrino del treno, la lettera in mano, come se qualcosa lottasse in lui per svegliarlo da un incubo insopportabilmente lento. «E' questo spiega il resto», si udì pensare. Il resto era Irene Paz, e l' Oda a tu nombre doble, il fallimento finale di Claudio Romero. Senza prove né ragioni precise ma con una certezza molto più profonda di quella che poteva scaturire da una lettera o da un qualsiasi testimone, gli ultimi due anni della vita di Romero si disponevano giorno dopo giorno nella memoria - se un nome occorreva darle - di colui che agli occhi dei passeggeri del treno di Pilar doveva sembrare un signore che ha bevuto un vermut di troppo. Quando scese nella stazione erano le quattro del pomeriggio e cominciava a piovere. Il calesse che lo portava alla casa di Ofelia era freddo ed emanava un odore di cuoio marcio. Quanto buon senso aveva albergato sotto l’orgogliosa fronte di Irene Paz, da quale lunga esperienza aristocratica era nato il rifiuto del mondo cui apparteneva. Romero era stato capace di magnetizzare una povera donna, ma non aveva le ali di Icaro che la sua Oda pretendeva. Irene, o forse neppure lei, sua madre o i suoi fratelli avevano intuito immediatamente il tentativo dell’arrivista, il salto grottesco dello scroccone che comincia col negare la propria origine, uccidendola se necessario (e quel delitto si chiamava Susana Márquez, maestra elementare). Era bastato loro un sorriso, rifiutare un invito, andare in villa, le affilate armi del denaro e dei domestici con ordini tassativi. Non si erano neppure presi il fastidio di assistere ai funerali del poeta.
Ofelia aspettava sotto il portico. Fraga le disse che doveva mettersi subito al lavoro. Quando si trovò davanti alla pagina iniziata la notte precedente, con una sigaretta fra le labbra e un’enorme stanchezza che gli curvava le spalle, si disse che nessuno sapeva. Era come prima di scrivere la Vita ed egli continuava a tenere strette le chiavi di tutto. Sorrise appena, e cominciò a scrivere la sua conferenza. Molto più tardi si accorse che a un certo momento durante il viaggio aveva perso la lettera di Romero.
Chiunque può leggere negli archivi dei giornali di Buenos Aires i commenti suscitati dalla cerimonia di consegna del Premio Nazionale, durante la quale Jorge Fraga provocò deliberatamente sconcerto e ira nelle teste benpensanti presentando dalla tribuna una versione assolutamente strampalata della vita del poeta Claudio Romero. Un cronista notò che Fraga aveva dato l'impressione di non star bene (ma l’eufemismo era chiaro), fra l’altro perché diverse volte si era espresso come se fosse lo stesso Romero, correggendosi immediatamente ma ricadendo in quella assurda aberrazione subito dopo. Un altro cronista fece notare che Fraga si era presentato con pochi foglietti scribacchiati ai quali aveva dato appena un’occhiata nel corso della conferenza, dando la sensazione di essere l’ascoltatore di se stesso, approvando o disapprovando certe frasi appena pronunciate, fino a provocare una crescente, e alla fine insopportabile irritazione nel vasto uditorio che si era raccolto con la manifesta intenzione di applaudirlo. Un altro giornalista poi fece il resoconto del violento alterco tra Fraga e il dottor Jovellanos alla fine della conferenza, mentre gran parte del pubblico abbandonava la sala fra esclamazioni di disapprovazione, notando con tristezza che all’intimazione del dottor Jovellanos che Fraga esibisse prove convincenti delle temerarie affermazioni che calunniavano la sacra memoria di Claudio Romero, il conferenziere si era stretto nelle spalle, quindi si era portato una mano sulla fronte come se le prove richieste non andassero al di là della sua immaginazione, e infine era rimasto immobile, guardando nel vuoto, estraneo alla tumultuosa ritirata del pubblico quanto ai provocatori applausi e rallegramenti di un gruppo di ragazzi e di umoristi che mostravano di giudicare ammirevole quel modo tutto speciale di ricevere un Premio Nazionale.
Quando Fraga arrivò alla casa di campagna, due ore dopo, Ofelia gli tese in silenzio una lunga lista di chiamate telefoniche, da una della Cancelleria a un’altra di un fratello con il quale aveva rotto i rapporti. Guardò distrattamente la serie di nomi, alcuni sottolineati, altri mal scritti. Il foglio si staccò dalla sua mano e cadde sul tappeto. Senza raccoglierlo si avviò per le scale che conducevano alla sua stanza di lavoro.
Molto più tardi Ofelia lo udì camminare su e giù per la stanza. Si coricò e cercò di non pensare. I passi di Fraga andavano e venivano, qualche volta interrompendosi come se si fosse fermato davanti allo scrittoio, consultando qualcosa. Un’ora dopo lo udì scendere, avvicinarsi alla camera da letto. Senza aprire gli occhi, sentì il peso del suo corpo che si lasciava scivolare accanto a lei, supino. Una mano fredda strinse la sua. Nel buio Ofelia lo baciò sulla guancia.
- L’unica cosa che non capisco, - disse Fraga come se non parlasse con lei, - è perché ci abbia messo tutto questo tempo a sapere che tutto questo lo avevo saputo da sempre. E' idiota supporre che io sia un medium, non ho assolutamente nulla a che vedere con lui. Fino a una settimana fa non avevo niente a che vedere con lui.
- Se potessi dormire un pochino, - disse Ofelia.
- No, il fatto è che devo trovarlo. Due cose: quello che non capisco e quello che comincerà domani, che già ha avuto inizio questo pomeriggio. Sono liquidato, capisci, non mi perdoneranno mai di avergli offerto l’idolo su un piatto d’argento mentre ora glielo mando per aria in mille pezzi. E bada bene che tutto ciò è completamente idiota, Romero continua ad essere l’autore delle più belle poesie degli anni venti. Ma gli idoli non possono avere piedi di argilla, e con identica volgarità me lo diranno domani i miei cari colleghi.
- Ma se hai giudicato tuo dovere dichiarare la verità...
- Non ho giudicato niente, Ofelia. L’ho fatto e basta. O qualcuno lo ha fatto per me. Di colpo nessun’altra via mi era rimasta dopo quella sera. Era l'unica cosa da farsi.
- Forse sarebbe stato preferibile aspettare un po’, -disse con timore Ofelia. - così all'improvviso, in faccia al...
Stava per dire: «al ministro», e Fraga udì la parola tanto chiaramente come se fosse stata pronunciata. Sorrise, le carezzò la mano. Poco a poco le acque cominciavano a scendere, qualcosa di ancora oscuro cercava di proporsi, di definirsi. Il lungo, angosciato silenzio di Ofelia lo aiutò a sentire meglio, guardando il buio con gli occhi ben aperti. Mai avrebbe capito perché non aveva saputo prima che tutto era chiaro, se continuava a negare di essere anche lui una canaglia, tanto canaglia quanto lo stesso Romero. L’idea di scrivere il libro fin dall’inizio aveva comportato il proposito di un riscatto sociale, di un trionfo facile, di una rivendicazione di tutto ciò che lui meritava e che altri più opportunisti gli toglievano. Apparentemente rigorosa, la Vita era nata armata di tutti i mezzi atti ad aprirsi il passo nelle vetrine dei librai. Ogni tappa del trionfo attendeva, minuziosamente preparata in ogni capitolo, in ogni frase. La sua ironica, quasi disincantata accettazione progressiva di quelle tappe, non era se non una delle molte maschere dell’infamia. Dietro la copertina anodina della Vita stavano già pronti a scattare la radio, la televisione, i film, il Premio Nazionale, l’incarico diplomatico in Europa, il denaro e ogni sorta di onori. Solo che qualcosa di non previsto aveva aspettato fino alla fine per scaricarsi sull’ingranaggio minuziosamente montato e farlo saltare. Era inutile voler pensare a quel qualcosa, inutile avere paura, sentirsi posseduto dal succube.
- Non ho niente che vedere con lui, - ripetè Fraga, chiudendo gli occhi. - Non so come è stato, Ofelia, ma non ho niente che vedere con lui.
La sentì piangere silenziosamente.
- Ma allora è ancora peggio. Come un’infezione sotto la pelle, nascosta per tanto tempo, che all’improvviso scoppia e ti macchia di sangue marcio. Ogni volta che mi toccava scegliere, decidere sul comportamento di quell’uomo, sceglievo il contrario, ciò che lui pretendeva di far credere da vivo. Le mie scelte erano le sue scelte, e intanto chiunque avrebbe potuto decifrare una verità diversa nella sua vita, nelle sue lettere, in quell’ultimo anno in cui la morte lo stava incalzando e mettendo a nudo. Non ho voluto capire, non ho voluto mostrare la verità, Ofelia, perché allora, allora Romero non sarebbe stato il personaggio di cui avevo bisogno come ne aveva avuto bisogno lui per costruire la leggenda, per...
Tacque, ma tutto seguitava a ordinarsi e a compiersi. Ora riusciva ad afferrare fin dal profondo la propria identità con Claudio Romero, e la cosa nulla aveva di soprannaturale. Fratelli nella farsa, nella menzogna studiata per un’ascesa folgorante, fratelli nella brutale caduta che li fulminava e distruggeva. In modo chiaro e semplice, Fraga sentì che chiunque simile a lui sarebbe sempre stato Claudio Romero, che i Romero di ieri e di domani sarebbero sempre stati Jorge Fraga. Esattamente come aveva temuto in una lontana notte di settembre, aveva scritto la propria dissimulata auto-biografia. Gli venne voglia di ridere, e allo stesso tempo pensò alla pistola chiusa nello scrittoio.
Mai seppe se fu in quel momento o più tardi che Ofelia disse: «Quel che conta è che oggi hai detto la verità». Non gli era accaduto di pensarci, di evocare ancora una volta l’ora quasi incredibile durante la quale aveva parlato a volti che progressivamente passavano dal sorriso ammirato o cortese al cipiglio malinconico, alla smorfia sdegnosa, al braccio alzato in un gesto di protesta. Ma era stata l’unica cosa importante, l’unica cosa vera e solida di tutta la storia; nessuno poteva togliergli quell’ora in cui aveva trionfato davvero, oltre i simulacri e i loro avidi manutengoli. Quando si chinò su Ofelia per carezzarle i capelli, gli sembrò come se lei fosse un po’ Susana Márquez e che quella carezza la salvasse e la trattenesse accanto a lui. E contemporaneamente il Premio Nazionale, l'incarico in Europa e gli onori erano Irene Paz, una cosa che era necessario respingere e abolire se non voleva sprofondare completamente in Romero, miserabilmente identificato fino all’ultimo con un falso eroe da rotocalco e da radiodramma.
Più tardi - la notte girava lenta con il suo cielo ribollente di stelle, - altre carte si mischiarono nell'interminabile solitario dell’insonnia. Il mattino avrebbe portato con sé le telefonate, i giornali, lo scandalo ben organizzato a due colonne. Gli sembrò insensato avere pensato per un momento che tutto era perduto, bastava un minimo di disinvoltura e di abilità per vincere la partita. Tutto dipendeva da un breve giro di ore, da alcune interviste. Se gliene veniva il capriccio, l’annullamento del premio, il rifiuto della Cancelleria di confermare la sua candidatura, potevano trasformarsi in notizie che lo avrebbero lanciato nel mondo internazionale delle grandi tirature e delle traduzioni. Ma poteva anche continuare a starsene coricato a letto, rifiutarsi di vedere chiunque, rinserrarsi per mesi nella casa di campagna, riprendere e continuare i suoi vecchi studi filologici, le sue migliori e quasi cancellate amicizie. In sei mesi lo avrebbero dimenticato, sostituito ammirevolmente con il più stolido giornalista di turno nel cartellone del successo. Le due strade erano parimenti semplici, parimenti sicure. Tutto stava nel decidere. E sebbene avesse già preso una decisione, continuò a pensare per il gusto di pensare, scegliendo e spiegandosi il perché di quella decisione, finché l'alba cominciò a strofinarsi gli occhi contro la finestra, sui capelli di Ofelia addormentata, e il ceìbo2 del giardino si stagliò impreciso, come un futuro che si condensa nel presente, si indurisce poco a poco, adotta la propria forma diurna, l' accetta e la difende e la condanna alla luce del mattino.
Note
1 Tero, trampoliere che deve il nome al grido che lancia al minimo allarme.
2 Ceibo, albero papillionaceo dai fiori rosso vivo
Manoscritto trovato in una tasca
Adesso che lo scrivo per altri tutto ciò potrebbe esser stato la roulette o l’ippodromo, ma quel che cercavo non era denaro, a un certo momento avevo cominciato a sentire, a decidere che un vetro di finestrino del metro poteva portarmi la risposta, l’incontro con una sorta di felicità, esattamente qui dove tutto avviene sotto il segno della più implacabile rottura, entro un tempo sotto terra che un tragitto fra stazione e stazione disegna e limita così, inappellabilmente sotto. Dico rottura per comprendere meglio (dovrei comprendere un sacco di cose da quando ho iniziato a giocare il gioco) quella speranza di una convergenza che forse mi sarebbe stata data dal riflesso in un vetro di finestrino. Superare la rottura che la gente non sembra avvertire sebbene vai a sapere che cosa pensa questa gente affaticata che sale e scende dai vagoni del metro, quel che cerca oltre il trasporto questa gente che sale prima o dopo per scendere dopo o prima, che solo si trova in una zona del vagone dove tutto è deciso in precedenza senza che nessuno possa sapere se usciremo insieme, se io scenderò per primo oppure quell’uomo magro con un rotolo di carte, se la signora anziana in verde continuerà fino al capolinea, se quei bambini scenderanno ora, è evidente che scenderanno perché raccattano quaderni e righe, si avvicinano ridendo e giocando alla porta mentre là nell’angolo una ragazza si sistema per restare, per rimanere ancora molte stazioni sul sedile finalmente libero, e quell’altra ragazza è imprevedibile,
Ana era imprevedibile, si manteneva molto eretta contro lo schienale sul sedile dalla parte del finestrino, era già là quando salii alla stazione Etienne Marcel e un negro abbandonò il sedile di fronte e parve che la cosa non interessasse nessuno e io potei scivolare con una scusa qualsiasi fra le ginocchia dei due passeggeri seduti dalla parte del corridoio e mi trovai di fronte ad Ana e quasi subito, perché ero sceso nel metro per giocare ancora una volta al gioco, cercai il profilo di Mar-grit nel riflesso del vetro del finestrino e pensai che era carina, che mi piacevano i suoi capelli neri con una specie di breve ala ad acconciarle in diagonale la fronte.
Non è vero che il nome di Margrit o di Ana sorgesse in seguito o che sia ora un modo di distinguerle nella scrittura, cose come questa si davano per decise istantaneamente nel gioco, voglio dire che in alcun modo il riflesso nel vetro del finestrino poteva chiamarsi Ana, così come non poteva neppure chiamarsi Margrit la ragazza seduta di fronte a me e che non mi guardava e aveva lo sguardo smarrito nella noia di quell'interregno in cui tutti paiono consultare una zona di visione che non è quella circostante, eccetto i bambini che fissano e in pieno le cose fino al giorno in cui gli viene insegnato a collocarsi anch’essi negli interstizi, a guardare senza vedere con quell' ignoranza civile di ogni vicina apparenza, di ogni possibile contatto, ognuno installato nella propria bolla d’aria, allineato fra parentesi, preoccupato del perdurare della minima aria libera fra ginocchia e gomiti altrui, rifugiandosi in «France-Soir» o in libri tascabili, sebbene quasi sempre come Ana, occhi collocati nel vuoto fra quanto è veramente visibile, in quella distanza neutra e stupida che andava dalla mia faccia a quella dell'uomo concentrato nel «Figaro». Ma allora Margrit, se qualcosa potevo prevedere era che a un certo punto Ana si sarebbe voltata distratta verso il finestrino e allora Margrit avrebbe visto il mio riflesso, l’incrociarsi degli sguardi nelle immagini di quel vetro in cui l’oscurità della galleria pone il suo mercurio attenuato, la sua felpa violetta e mobile che dà alle facce una vita su altri piani, gli toglie quell' orribile maschera di gesso delle luci municipali del vagone e soprattutto, oh si, non avresti potuto negarlo, Margrit, fa guardare davvero quell’altra faccia del vetro perché durante il tempo istantaneo del doppio sguardo non esiste censura, il mio riflesso nel vetro non era l’uomo seduto di fronte ad Ana e che Ana non doveva guardare apertamente in un vagone di metro, e inoltre colei che stava guardando il mio riflesso non era Ana ma Margrit nel momento in cui Ana rapidamente aveva sviato gli occhi dall’uomo seduto di fronte a lei perché non stava bene guardarlo, voltandosi verso il vetro del finestrino aveva visto il mio riflesso in attesa di quell’attimo per poter sorridere lievemente senza alcuna insolenza o speranza quando lo sguardo di Margrit fosse caduto come un uccello nel suo sguardo. Durò forse un secondo, forse un po’ di più perché sentii che Margrit aveva avvertito quel sorriso che Ana condannava non fosse altro che con il solo gesto di chinare il viso, di esaminare vagamente la chiusura della borsa di pelle rossa; ed era quasi giusto continuare a sorridere anche se Margrit ormai non mi guardava più perché in un certo senso il gesto di Ana accusava il mio sorriso, continuava a sentirlo e non occorreva più che lei o Margrit mi guardassero, meticolosamente comprese nel provare la chiusura della borsa rossa.
Come già con Paula (con Ofelia) e con tante altre meticolosamente comprese nel controllare la chiusura di una borsa, un bottone, la grinza di una rivista, ancora una volta fu il pozzo in cui la speranza si intrecciava al timore in un crampo di ragni a morte, in cui il tempo cominciava a battere come un secondo cuore nel polso del gioco; da quel momento ogni stazione del metro era un intreccio diverso del futuro perché così aveva deciso il gioco; lo sguardo di Margrit e il mio sorriso, l’istantaneo ripiegamento di Ana nella contemplazione della chiusura della sua borsa erano l’apertura di una cerimonia che, a un certo momento, avevo iniziato a celebrare contro ogni logica, preferendo i peggiori disincontri alla stupida catena di una causalità quotidiana. Spiegarlo non è difficile ma giocarlo aveva molto del combattimento alla cieca, di trepidante sospensione colloidale nella quale ogni rotta configurava un albero dall'imprevedibile percorso. Una pianta del metro di Parigi traccia nel suo scheletro mondrianesco, nei suoi rami rossi, gialli, azzurri e neri una vasta ma limitata superficie di sottesi pseudopodi: e quell'albero è vivo venti ore su ventiquattro, una linfa tormentata lo percorre con precise finalità, quella che scende a Chatelet o sale a Vaugirard, quella che all’Odéon cambia per proseguire fino a La Motte-Picquet, le duecento, trecento, vai a sapere quante possibilità di combinazione e affinché ogni cellula codificata e programmata entri in un settore dell’albero e affiori in un altro, esca dalle Galeries Lafayette per depositare un pacco di asciugamani o una lampada al terzo piano di rue Gay-Lussac.
La mia regola del gioco era maniacalmente semplice, era bella, stupida e tirannica, se mi piaceva una donna, se mi piaceva una donna seduta di fronte a me, se mi piaceva una donna seduta di fronte a me vicino al finestrino, se il suo riflesso nel finestrino incrociava lo sguardo con il mio riflesso nel finestrino, se il mio sorriso nel riflesso del finestrino turbava o lusingava o respingeva il riflesso della donna nel finestrino, se Margrit mi vedeva sorridere e Ana chinava la testa e cominciava a esaminare scrupolosamente la chiusura della sua borsa rossa, allora c’era gioco, non aveva importanza che il sorriso fosse o non fosse colto o corrisposto o ignorato, il primo tempo della cerimonia non andava oltre, un sorriso registrato da chi lo aveva meritato. Allora cominciava il combattimento nel pozzo, i ragni nello stomaco, l’attesa con il suo pendolo di stazione in stazione. Mi ricordo di come mi decisi per quel giorno: in quel momento si trattava di Margrit e di Ana, ma una settimana prima erano state Paula e Ofelia, la ragazza bionda era scesa in una delle peggiori stazioni, Montparnasse-Bienvenue, che apre la sua maleodorante idra alle massime possibilità di fallimento. La mia coincidenza era con la linea della Porte de Vanves e quasi immediatamente, nell'ingresso, compresi che Paula (che Ofelia) avrebbe proseguito per il corridoio che conduceva alla coincidenza per la Mairie d’Issy. Impossibile fare qualcosa, solo guardarla per l'ultima volta all'incrocio dei due ingressi, vederla allontanarsi, scendere la scala. La regola del gioco era questa, un sorriso nel vetro del finestrino e il diritto di seguire una donna e sperare disperatamente che la sua linea coincidesse con quella che avevo deciso io prima di ogni viaggio; e allora - sempre, finora -, vederla prendere una diversa direzione e non poterla seguire, obbligato a tornare nel mondo di sopra e entrare in un caffè e continuare a vivere finché poco a poco, ore o giorni o settimane, la sete reclamando di nuovo la possibilità che tutto coincidesse finalmente, donna e vetro di finestrino, sorriso accettato o rifiutato, coincidenze di treni e allora finalmente sì, allora il diritto di avvicinarmi e di pronunciare la prima parola, spessa di tempo ristagnante, di interminabile vagare nel fondo del pozzo fra i ragni del crampo.
Adesso entravamo nella stazione Saint-Sulpice, qualcuno accanto a me si alzava e andava via, anche Ana rimaneva sola di fronte a me, aveva smesso di guardare la borsa e una o due volte i suoi occhi mi spazzarono via distrattamente prima di smarrirsi nell’annuncio della stazione termale ripetuto nei quattro angoli del vagone. Margrit non mi aveva più guardato nel finestrino ma ciò dimostrava il contatto, la sua pulsazione segreta; Ana era forse timida o semplicemente le pareva assurdo accettare il riflesso di quella faccia che avrebbe di nuovo sorriso per Margrit; e inoltre arrivare a Saint-Sulpice era importante perché se mancavano ancora otto stazioni alla fine del percorso a Porte d’Orléans, solo tre combinavano con altre linee, e solo se Ana scendeva ad una di esse mi era possibile una coincidenza; quando il treno cominciava a frenare a Saint-Placide guardai e guardai Margrit cercando in lei gli occhi che Ana continuava a posare dolcemente sulle cose del vagone quasi dando per scontato che Margrit non mi guardasse più, che era inutile sperare che guardasse di nuovo il riflesso che l’aspettava per sorriderle.
Non scese a Saint-Placide, lo seppi prima che il treno cominciasse a frenare perché c’è da parte del viaggiatore quella specie di preparazione, soprattutto le donne che nervosamente controllano pacchetti, si assettano il cappotto o guardano di lato mentre si alzano, evitando ginocchia in quell’istante in cui la perdita di velocità allaccia e stordisce i corpi. Ana scorreva distrattamente gli annunci della stazione, il volto di Margrit si andò cancellando sotto le luci della banchina e non potei sapere se mi aveva guardato ancora; neppure il mio riflesso sarebbe stato visibile in quella marea di neon e annunci fotografici, di corpi che entravano e uscivano. Se Ana scendeva a Montparnasse-Bienvenue le mie possibilità erano minime; come non ricordare Paula (Ofelia) là dove una quadrupla coincidenza possibile rendeva esile ogni previsione; e ciò nonostante il giorno di Paula (di Ofelia) ero stato assurdamente certo che ci saremmo incontrati, fino all’ultimo avevo camminato a tre metri da quella donna lenta e bionda, vestita come con foglie secche, e la sua biforcazione a destra mi si era avvolta attorno alla faccia come una frustata. Per questo adesso Margrit no, per questo il timore, di nuovo poteva accadere in modo così abominevole a Montparnasse-Bienvenue; il ricordo di Paula (di Ofelia), i ragni nel pozzo contro la lieve speranza che Ana (che Margrit). Ma chi ha mai forze abbastanza contro quell’ingenuità che ci permette via via di vivere, quasi immediatamente mi dissi che forse Ana (che forse Margrit) non sarebbe scesa a Montparnasse-Bienvenue ma ad una delle altre stazioni possibili, che magari non sarebbe scesa ad una delle intermedie dove non mi era dato seguirla; che Ana (che Margrit) non sarebbe scesa a Montparnasse-Bienvenue (non scese), che non sarebbe scesa a Vavin, e non scese, che magari sarebbe scesa a Raspail, la prima delle due ultime possibili; e quando non scese ed ebbi coscienza che restava unicamente una stazione in cui avrei potuto seguirla contro le tre ultime in cui tutto era ormai indifferente, cercai di nuovo gli occhi di Margrit nel vetro del finestrino, la chiamai da un silenzio e una immobilità che avrebbero dovuto raggiungerla come un invito, come un’ondata, le sorrisi con il sorriso che Ana non poteva più ignorare, che Margrit ormai doveva accettare anche se non guardava il mio riflesso sferzato dalle semiluci della galleria che sboccava in Denfert-Rochereau. Forse il primo colpo di freni aveva fatto tremare la borsa rossa sulle cosce di Ana, forse solo la noia le muoveva la mano fino alla ciocca nera che le attraversava la fronte; in quei tre, quattro secondi in cui il treno si immobilizzava lungo la banchina, i ragni piantarono le loro unghie nella pelle del pozzo per vincermi ancora una volta dal di dentro; quando Ana si alzò con un’unica e netta flessione del corpo, quando la vidi di spalle fra due passeggeri, credo che cercai ancora assurdamente il volto di Margrit nel vetro accecato di luci e movimento. Uscii senza quasi rendermene conto, ombra passiva di quel corpo che scendeva sulla banchina, fino a svegliarmi a quel che sarebbe successo, alla duplice scelta finale che irrevocabilmente si compiva.
Penso che sia chiaro, Ana (Margrit) avrebbero imboccato una strada quotidiana o del momento, mentre prima di salire su quel treno io avevo deciso che se qualcuno entrava nel gioco e scendeva a Denfert-Rochereau, la mia coincidenza sarebbe stata la linea Nation-Etoile, se poi Ana (Margrit) fosse scesa a Chatelet allora avrei potuto seguirla solo nel caso in cui avesse preso la coincidenza Vincennes-Neuilly. Nell’ultima fase della cerimonia il gioco era perduto se Ana (se Margrit) prendeva la coincidenza della Ligne de Sceaux o usciva direttamente sulla strada; immediatamente, all’istante perché in quella stazione non esistevano gli interminabili passaggi di altre volte e le scale conducevano rapidamente incontro al destino, a ciò che anche per i mezzi di trasporto si chiamava destinazione. La vedevo muoversi fra la gente, la borsa rossa come un pendolo, alzando la testa alla ricerca dei cartelli indicatori, esitando un attimo per orientarsi poi a sinistra; ma a sinistra era l’uscita che portava in strada.
Non so come dire, i ragni mordevano troppo, non fui disonesto in quel primo minuto, semplicemente la seguii per poi magari accettare, lasciarla andare verso qualsiasi sua meta lassù; a metà scala compresi che no, che forse l'unica maniera di ammazzarli era negare per una volta la legge, il codice. Il crampo che mi aveva preso nel secondo in cui Ana (in cui Margrit) cominciava a salire la scala vietata, cedeva di colpo a una mollezza sonnolenta, a un golem di lenti scalini; mi rifiutai di pensare, bastava sapere che continuavo a vederla, che la borsa rossa saliva verso la strada, che ad ogni passo i capelli neri le tremavano sulle spalle. Era già buio e l'aria era gelata, con qualche fiocco di neve tra folate di vento e pioggia; so che Ana (che Margrit) non si impauri quando mi misi al suo fianco e le dissi: «Non possiamo separarci così, prima di esserci incontrati».
Nel caffè, più tardi, ormai solamente Ana, mentre il riflesso di Margrit cedeva a una realtà di cinzano e di parole, mi disse che non capiva niente, che si chiamava Marie-Claude, che il mio sorriso nel riflesso le aveva fatto male, che per un attimo aveva pensato di alzarsi e di cambiare posto, che non si era accorta che la seguivo e che in strada non aveva avuto paura, contraddittoriamente, e intanto mi guardava negli occhi bevendo il suo cinzano, sorridendo senza vergognarsi di sorridere, di avere accettato quasi subito il mio approccio in piena strada. In quel momento di una felicità quasi di ondeggiamento supino, di un abbandono in uno slittare pieno di pioppi, non potevo dirle ciò che lei avrebbe accolto come una pazzia o una mania e che tale era ma in altro modo, da altre sponde della vita; le parlai del ciuffo dei suoi capelli, della borsa rossa, di come guardava il cartellone pubblicitario delle terme, del fatto che non le avevo sorriso per dongiovannismo e neppure per noia, ma per offrirle quel fiore che non avevo, il segno che lei mi piaceva, che mi aiutava, del fatto che viaggiare di fronte a lei, che un’altra sigaretta e un altro cinzano. In nessun momento fummo enfatici, parlammo come da cosa già conosciuta e accettata, guardandoci senza farci male, credo che Marie-Claude mi permettesse di venire e di rimanere nel suo presente come forse Margrit avrebbe risposto al mio sorriso nel vetro se non si fossero frapposti tanti schemi precostituiti, tanto non devi rispondere se qualcuno ti parla per la strada e ti offre un cioccolatino e ti vuole portare al cine, finché Marie-Claude, ormai libera dal mio sorriso a Margrit, Marie-Claude in strada e nel caffè aveva pensato che il mio era un sorriso buono, che lo sconosciuto del metro non aveva sorriso a Margrit per tastare un altro terreno, e il mio assurdo modo di abbordarla era stato l’unica comprensibile, la sola ragione per rispondere sì, che potevamo bere qualcosa insieme e chiacchierare in un caffè.
Non ricordo ciò che potei raccontarle di me, forse tutto tranne il gioco, ma in quel momento contava così poco, a un certo punto ci mettemmo a ridere, qualcuno pronunciò la prima frase scherzosa, scoprimmo che ci piacevano le stesse sigarette e Catherine Deneuve, mi permise di accompagnarla fino al portone di casa, mi diede la mano con semplicità e acconsentì per lo stesso caffè alla medesima ora il martedì. Presi un tassì per tornare al mio quartiere, per la prima volta in me stesso come in un incredibile paese straniero, ripetendomi che sì, che Marie-Claude, che Denfert-Rochereau, stringendo le palpebre per meglio custodire i suoi capelli neri, quel suo modo di piegare a lato la testa prima di parlare, di sorridere. Fummo puntuali e ci raccontammo film, il lavoro, notammo diversità ideologiche parziali, lei continuava ad accettarmi come se meravigliosamente le bastasse quel presente senza ragioni, senza domande; e neppure sembrava accorgersi che qualsiasi imbecille l’avrebbe creduta facile o sciocca; accettando anche che io non cercassi di sedere sul suo medesimo divanetto nel caffè, che nel tratto di strada lungo rue Froidevaux non le passassi il braccio attorno alle spalle in un primo gesto di intimità, che sapendola quasi sola - una sorella minore, sovente fuori casa, l’appartamento al quarto piano - non le chiedessi di salire. Se una cosa non poteva sospettare erano i ragni, ci eravamo incontrati tre o quattro volte e non mi avevano morso, immobili nel pozzo e in attesa fino al giorno in cui lo seppi come se non lo avessi saputo continuamente, ma il martedì, arrivare al caffè, immaginare che Marie-Claude era già lì o vederla entrare con il suo passo agile, il suo bruno ritornare che innocentemente aveva lottato contro i ragni nuovamente svegli, contro la trasgressione al gioco che solo lei aveva potuto difendere unicamente dandomi una piccola, calda mano, unicamente con quella ciocca di capelli che si muoveva sulla sua fronte. A un certo punto dovette accorgersene, rimase a guardarmi senza parlare, aspettando; era ormai impossibile che non mi tradisse lo sforzo per far durare la tregua, per non ammettere che poco a poco tornavano nonostante Marie-Claude, contro Marie-Claude che non poteva capire, che continuava a guardarmi senza dire niente, aspettando; bere e fumare e parlarle, difendendo fino all'ultimo il dolce interregno senza ragni, venire a conoscere la sua vita semplice e a orari e sorella studentessa e allergie, desiderare tanto quella ciocca nera che le pettinava la fronte, desiderarla come un termine, veramente come l’ultima stazione dell'ultimo metro della vita, e allora il pozzo, la distanza della mia sedia da quel divanetto sul quale ci saremmo baciati, sul quale la mia bocca avrebbe bevuto il primo profumo di Marie-Claude prima di portarmela abbracciata fino a casa sua, salire quelle scale, spogliarci finalmente di tanti abiti e di tanta attesa.
Allora glielo dissi, ricordo il muro del cimitero e che Marie-Claude vi si appoggiò e mi lasciò parlare con il volto perduto nel muschio caldo del suo cappotto, chissà se la mia voce le giunse con tutte le sue parole, se fu possibile che comprendesse; le dissi tutto, ogni particolare del gioco, le improbabilità confermate da tante Paule (da tante Ofelie) perdute alla fine di un corridoio, i ragni a ogni capolinea. Piangeva, la sentivo tremare contro il mio corpo anche se continuava a proteggermi, sostenendomi con tutto il suo corpo appoggiato alla parete dei morti; non mi fece domande, non volle sapere perché né da quando, non le venne in mente di lottare contro un congegno montato nel corso di tutta una vita a contrappelo di se stesso, della città e i suoi dettami, unicamente quel suo pianto come una bestiolina ferita, resistendo senza forze al trionfo del gioco, alla danza esasperata dei ragni nel pozzo.
Sul portone di casa sua le dissi che non tutto era perduto, che da entrambi dipendeva tentare un incontro legittimo; ora lei conosceva le regole del gioco, chissà che non ci fossero favorevoli dal momento che non avremmo fatto altro che cercarci. Mi disse che poteva chiedere quindici giorni di permesso, viaggiare con un libro per rendere meno umido e ostile il tempo in quel mondo sotterraneo, passare da una coincidenza all’altra, aspettarmi leggendo, guardando la pubblicità. Non volemmo pensare alla improbabilità, al fatto che forse ci saremmo incontrati su un treno ma che ciò non era sufficiente, che questa volta non si poteva venir meno a quanto prestabilito; le chiesi di non pensare, di lasciar correre il treno, di non piangere mai durante le due settimane in cui l’avrei cercata; senza parole rimase inteso che se il tempo fissato fosse trascorso prima che ci fossimo visti o se ci fossimo solo visti finché due diversi corridoi ci avessero divisi, non avrebbe più avuto senso tornare nel caffè, al portone di casa sua. Ai piedi di quella scala di sobborgo che una luce arancione tendeva dolcemente verso l'alto, verso l'immagine di Marie-Claude nel suo appartamento, fra i suoi mobili, nuda e addormentata, la baciai sui capelli, le accarezzai le mani; lei non cercò la mia bocca, si allontanò poco a poco e la vidi di spalle salire un’altra delle tante scale che la portavano via senza che io potessi seguirla; rincasai a piedi, senza ragni, vuoto e pronto per la nuova attesa; ora non potevano farmi niente, il gioco stava per ricominciare come tante altre volte ma unicamente con Marie-Claude, il lunedi scendendo alla stazione di Couronnes il mattino, uscendo a Max Dormey a notte tarda, il martedì entrando a Crimée, il mercoledì a Philippe Auguste, l’esatta regola del gioco, quindici stazioni delle quali quattro offrivano coincidenze, e allora nella prima delle quattro sapendo che avrei dovuto proseguire per Sèvres-Montreuil come nella seconda non potevo che prendere per Clichy -Porte Dauphine, ogni itinerario scelto senza una ragione speciale perché non poteva esserci alcuna ragione, Marie-Claude forse era salita vicino a casa sua, a Denfert-Rochereau o a Corvisart, stava già cambiando forse a Pasteur per proseguire in direzione Falguière, l’albero mondrianesco con tutti i suoi rami secchi, il caso delle tentazioni rosse, turchine, bianche, punteggiate; il giovedì, il venerdì, il sabato. Da una banchina qualsiasi vedere entrare i treni, i sette o otto vagoni, permettendomi di guardare mentre passavano sempre più lentamente, di spostarmi fino in testa e salire in un vagone senza Marie-Claude, scendere alla stazione seguente e aspettare un altro treno, proseguire fino alla prima stazione per prendere un’altra linea, vedere arrivare i vagoni senza Marie-Claude, lasciar passare un treno o due, salire sul terzo, proseguire fino al capolinea, tornare indietro fino a una stazione dalla quale passare a un’altra linea, decidere di prendere solo il quarto treno, abbandonare la ricerca e salire a mangiare, tornare quasi subito con una amara sigaretta e sedere su una panchina fino al secondo, fino al quinto treno. Il lunedì, il martedì, il mercoledì, il giovedì, senza ragni perché speravo ancora, perché aspetto ancora su questa panchina della stazione Chemin Vert, con questo taccuino su cui una mano scrive per inventarsi un tempo che non sia soltanto questa interminabile raffica che mi lancia verso il sabato quando forse tutto sarà concluso, quando tornerò solo e li sentirò svegliarsi e mordere, le loro tenaglie rabbiose esigere da me il nuovo gioco, altre Marie-Claude, altre Paula, la ripetizione dopo ogni insuccesso, il ricominciare canceroso. Ma è giovedì, è la stazione Chemin Vert, fuori comincia a farsi scuro, è ancora presumibile qualsiasi cosa, può persino non sembrare troppo incredibile che nel secondo treno, che nel quarto vagone, che in un posto vicino al finestrino Marie-Claude, che mi abbia visto e balzi in piedi con un grido che nessuno all'infuori di me può sentire così in pieno volto, in piena corsa per saltare nel vagone stracolmo, spingendo passeggeri sdegnati, mormorando scuse che nessuno si aspetta e neppure accetta, rimanendo in piedi contro il doppio sedile occupato da gambe e ombrelli e pacchi, da Marie-Claude con il suo cappotto grigio contro il finestrino, la ciocca nera che l'improvvisa partenza del treno agita appena come le sue mani tremanti sulle cosce in un appello senza nome, che è solamente ciò che ora sta per accadere. Non è necessario parlarsi, nulla sarebbe pronunciabile al di sopra di questo muro impassibile e sospettoso di facce e ombrelli fra Marie-Claude e me; restano tre stazioni con coincidenza per altre linee, Marie-Claude dovrà sceglierne una, percorrere la banchina, seguire uno dei corridoi o andare verso la scala d’uscita, estranea alla mia scelta e che questa volta non trasgredirò. Il treno entra nella stazione Bastille e Marie-Claude è sempre lì, la gente scende e sale, si fa libero il posto accanto a lei ma non mi avvicino, non posso sedermi lì, non posso tremare accanto a lei come lei starà tremando. Adesso vengono Ledru-Rollin e Froidherbe-Chaligny, in queste stazioni senza possibilità di coincidenze Marie-Claude sa che non posso seguirla e non si muove, il gioco sarà giocato a Reully-Diderot o a Daumesnil; mentre il treno entra in Reuilly-Diderot guardo altrove, non voglio che sappia, non voglio che possa capire che non è lì. Quando il treno si muove vedo che non si è mossa, che ci resta un’ultima speranza, a Daumesnil esiste solo una coincidenza e l’uscita in strada, rosso o nero, sì o no. Allora ci guardiamo, Marie-Claude ha alzato la faccia per guardarmi apertamente, afferrato alla sbarra del sedile sono ciò che lei guarda, pallido come ciò che sto guardando, la faccia esangue di Marie-Claude che stringe la borsa rossa, che sta per fare il primo gesto per alzarsi mentre il treno entra nella stazione Daumesnil.
Estate
Al tramonto Florencio scese con la bambina fino alla casetta, seguendo il sentiero pieno di solchi di ruote e di pietre che solo Mariano e Zulma avevano il coraggio di percorrere con la jeep. Zulma aprì la porta, e a Florencio sembrò che avesse gli occhi come se stesse pelando le cipolle. Mariano arrivò dall’altra stanza, disse loro di entrare, ma Florencio voleva solo chiedere che tenessero la bambina fino al mattino dopo perché doveva scendere alla costa per un affare urgente e in paese non c’era nessuno a cui chiedere quel favore. Naturalmente, disse Zulma, lasciacela pure, le prepareremo un letto qui a pianterreno. Entri a bere un bicchiere, insistette Mariano, cinque minuti soli, ma Florencio aveva lasciato la macchina nella piazza del paese e doveva rimettersi subito al volante; li ringraziò, diede un bacio a sua figlia che aveva già scoperto la pila di riviste sul panchettino; quando la porta si richiuse Zulma e Mariano si guardarono quasi interrogativamente, come se tutto fosse accaduto troppo in fretta. Mariano si strinse nelle spalle e tornò nella stanza degli attrezzi dove stava incollando una vecchia seggiola; Zulma domandò alla bambina se avesse fame, le propose di giocare con le riviste, nella dispensa c’erano una palla e un retino per acchiappare le farfalle; la bambina ringraziò e si mise a guardare le riviste; Zulma la osservò un attimo mentre preparava i carciofi per la cena, e pensò che poteva lasciarla giocare da sola.
Ormai nel Sud faceva scuro presto, mancava solo un mese e poi sarebbero tornati in città, sarebbero entrati nell’altra vita dell’inverno che in fin dei conti era la medesima sopravvivenza, uno stare distantemente vicini, cortesemente amici, rispettando ed eseguendo le molteplici minime delicate cerimonie convenzionali della coppia, come ora che Mariano aveva bisogno di uno dei fornelli per scaldare il barattolo della colla e Zulma toglieva dal fuoco la casseruola delle patate dicendo che avrebbe finito di farle cuocere dopo, e Mariano ringraziava perché la seggiola era quasi finita ed era meglio mettere la colla tutta in una volta, ma certo, scaldala. La bambina sfogliava le riviste in fondo alla grande stanza che serviva da cucina e da camera da pranzo, Mariano le andò a prendere qualche caramella nella dispensa; era l’ora di uscire in giardino per bere un bicchiere e guardare il tramonto sulle colline; non c’era mai nessuno sul sentiero, la prima casa del paese si profilava appena molto più in alto; dinanzi a loro il declivio continuava a scendere fino in fondo alla valle ormai in penombra. Versa, vengo subito, disse Zulma. Tutto si compiva ciclicamente, ogni cosa per un’ora e un’ora per ogni cosa, ad eccezione della bambina che improvvisamente alterava lievemente lo schema; un panchettino e un bicchiere di latte per lei, una carezza sui capelli ed elogi per come si comportava bene. Le sigarette, le rondini a grappoli sulla casetta; tutto si stava ripetendo, incastrando, la sedia doveva essere quasi asciutta, incollata come quel nuovo giorno che nulla aveva di nuovo. Le insignificanti differenze erano la bambina quella sera, come qualche volta il postino che a mezzogiorno li strappava un momento dalla solitudine con una lettera per Mariano o per Zulma che il destinatario riceveva e metteva da parte senza dire una parola. Ancora un mese di prevedibili ripetizioni, come prove, e la jeep carica fino al tetto li avrebbe restituiti alla casa di città, alla vita che solo era diversa nelle forme, il gruppo di Zulma o gli amici pittori di Mariano, i pomeriggi di commissioni per lei e le sere al caffè per Mariano, un andare e venire separatamente anche se sempre si sarebbero incontrati per l'adempimento delle cerimonie cerniera, il bacio del mattino e i programmi neutrali in comune, come ora che Mariano offriva a Zulma un altro bicchiere e lei lo accettava con lo sguardo perduto sulle colline più lontane, ormai tinte di un profondo violetto.
Cosa ti piacerebbe per cena, piccola. A me, quel che vuole lei, signora. Forse non le piacciono i carciofi, disse Mariano. No, mi piacciono, disse la bambina, con olio e aceto, ma poco sale perché pizzica. Risero, avrebbero fatto per lei una salsina speciale. E uova alla coque, vuoi. Con il cucchiaino, disse la bambina. E poco sale perché pizzica, scherzò Mariano. Il sale pizzica moltissimo, disse la bambina, alla mia bambola dò purea senza sale, oggi non l'ho portata perché papà aveva fretta e non mi ha lasciato. Sarà una bella notte, pensò Zulma a voce alta, guarda com’è trasparente Faria a nord. Sì, non farà troppo caldo, disse Mariano portando le seggiole nella sala del pianterreno, e accendendo le lampade vicino al finestrone verso la valle. Meccanicamente accese anche la radio. Nixon sarebbe andato a Pechino, ma guarda un po’, disse Mariano. Non c’è più religione, disse Zulma, e scoppiarono a ridere insieme. La bambina si era dedicata alle riviste e segnava le pagine con i fumetti come se volesse rileggerli in seguito.
La notte arrivò fra l’insetticida che Mariano spruzzava nella stanza da letto al piano di sopra e il profumo di una cipolla che Zulma tagliava canticchiando un ritmo pop della radio. A metà cena la bambina cominciò ad appisolarsi sull’uovo alla coque; le fecero qualche piccolo scherzo, la spinsero a finire; Mariano le aveva già preparato un materassino di gomma nell’angolo più lontano dalla cucina, così non l’avrebbero disturbata se si fossero fermati ancora un poco nella sala ad ascoltare dischi o a leggere. La bambina mangiò la sua pesca e ammise di avere sonno. Vai a coricarti, tesoro, disse Zulma, e sai che se hai bisogno di fare pipì hai solo da salire, ti lasceremo accesa la luce della scala. La bambina li baciò sulle guance, completamente vinta dal sonno, ma prima di coricarsi scelse una rivista e la mise sotto il cuscino. Sono incredibili, disse Mariano, che mondo irraggiungibile, e pensare che è stato anche il nostro, quello di tutti. Forse non è poi tanto diverso, disse Zulma sparecchiando, anche tu hai le tue manie, il flacone dell’acqua di colonia a sinistra e il gilette a destra, e io poi. Ma non erano manie, pensò Mariano, piuttosto una risposta alla morte e al nulla, fissare le cose e i tempi, stabilire riti e passaggi contro il disordine pieno di buchi e di macchie. Solo che non lo diceva più a voce alta, ogni volta sembrava esserci sempre meno necessità di parlare con Zulma, e anche Zulma non diceva mai qualcosa che esigesse uno scambio di idee. Porta la caffettiera, ho già preparato le tazze vicino al caminetto. Guarda se la zuccheriera è piena, c’è un pacco di zucchero nella dispensa. Non trovo il cavaturaccioli, questa bottiglia di grappa è quel che ci vuole, non ti pare. Sì, ha un bel colore. Già che sali, prendi le sigarette, le ho lasciate sul cassettone. E' proprio buona questa grappa. Fa caldo, non ti pare. Si, è fastidioso, meglio non aprire le finestre, avremmo una invasione di farfalle e zanzare.
Quando Zulma udì il primo rumore, Mariano stava cercando nella pila dei dischi una sonata di Beethoven che quell’estate non aveva ascoltato. Rimase con la mano a mezz’aria, guardò Zulma. Un rumore, si sarebbe detto sulla scala di pietra del giardino, ma a quell’ora nessuno andava da loro, nessuno veniva mai la sera tardi. Dalla cucina accese la lampada che illuminava la parte più prossima del giardino, non vide nulla e la spense. Un cane che cerca da mangiare, disse Zulma. Il suono era strano, quasi come uno sbuffo, disse Mariano. Sul finestrone schizzò un’enorme macchia bianca, Zulma emise un grido soffocato, Mariano di spalle si voltò troppo tardi, il vetro rifletteva soltanto i quadri e i mobili della sala. Non ebbe il tempo di fare domande, lo sbuffo risuonò dalla parte del muro verso nord, un nitrito soffocato come il grido di Zulma che si premeva le mani sulla bocca e s’incollava alla parete in fondo, guardando fissamente il finestrone. E' un cavallo, disse Mariano senza crederci, è un rumore come di cavallo, senti gli zoccoli, sta galoppando nel giardino. La criniera, il muso come se sanguinassero, un’enorme testa bianca sfiorava il finestrone, il cavallo li guardò appena, la macchia bianca si cancellò verso destra, udirono ancora gli zoccoli, un improvviso silenzio dalla parte della scala di pietra, il nitrito, la corsa. Ma qui non ci sono cavalli, disse Mariano che aveva afferrato la bottiglia di grappa per il collo prima di accorgersi di quel che faceva e di tornare a posarla sul panchettino. Vuole entrare, disse Zulma sempre contro la parete in fondo. Ma no, che sciocchezza, sarà scappato da qualche podere della valle ed è stato attirato dalla luce. Ti dico che vuole entrare, è rabbioso e vuole entrare. Ai cavalli non viene la rabbia, che io sappia, disse Mariano, mi pare che se ne sia andato, vado a vedere dalla finestra di sopra. No, no, resta qui, lo sento ancora, è sulla scala della terrazza, sta calpestando le piante, tornerà, e se rompe il vetro ed entra. Non essere sciocca, cosa vuoi che rompa, disse debolmente Mariano, magari se spegniamo le luci se ne va. Non so, non so, disse Zulma scivolando fino a trovarsi seduta sul panchettino, senti come nitrisce, è lì sopra. Udirono gli zoccoli scendere la scala, lo sbuffare irritato contro la porta, a Mariano sembrò di sentire una specie di pressione contro la porta, uno sfregamento ripetuto, e Zulma corse verso di lui gridando istericamente. La allontanò senza violenza, tese la mano verso l’interruttore; nella penombra (era rimasta accesa la luce della cucina dove dormiva la bambina) il nitrito e il rumore degli zoccoli si fecero più forti, ma il cavallo non stava più davanti alla porta, lo si udiva andare e venire nel giardino. Mariano corse a spegnere la luce della cucina, senza neppure dare un’occhiata nell’angolo dove avevano messo a dormire la bambina; tornò per abbracciare Zulma che singhiozzava, le accarezzò i capelli e la faccia, chiedendole di tacere per poter ascoltare meglio. Al finestrone la testa del cavallo sfregò contro il grande vetro, senza troppa forza, la macchia bianca pareva trasparente nel buio; sentirono che il cavallo guardava all’interno come cercando qualcosa, ma non poteva vederli e nondimeno continuava a stare là, nitrendo e sbuffando, con bruschi scarti da una parte e dall’altra. Il corpo di Zulma scivolò fra le braccia di Mariano, che la aiutò a sedere nuovamente sul panchettino, appoggiandolo contro la parete. Non muoverti, non dire niente, adesso andrà via, vedrai. Vuole entrare, disse debolmente Zulma, so che vuole entrare e se rompe la finestra, cosa capiterà se la rompe a calci. Zitta, disse Mariano, taci, per favore. Entrerà, mormorò Zulma. E non ho neppure un fucile, disse Mariano, gli ficcherei cinque palle in testa, figlio di puttana. Non è più lì, disse Zulma alzandosi improvvisamente, lo sento di sopra, se vede la porta della terrazza è capace di entrare. E' chiusa bene, non avere paura, renditi conto che nel buio non può entrare in una casa dove non potrebbe neppure muoversi, non è tanto stupido. Oh sì, disse Zulma, vuole entrare, ci schiaccerà contro le pareti, so che vuole entrare. Zitta, ripetè Mariano che pensava la stessa cosa, che non poteva fare altro che sperare con la schiena madida di sudore freddo. Ancora una volta gli zoccoli risuonarono sulle lastre della scala, e di colpo il silenzio, i grilli lontani, un uccello sul noce in alto.
Senza accendere la luce, ora che il finestrone lasciava entrare l’incerto chiarore della notte, Mariano riempi un bicchiere di grappa e lo sostenne contro le labbra di Zulma, obbligandola a bere anche se batteva i denti contro il vetro e l’alcol le si versava sulla camicetta; dopo, dalla bottiglia, bevve un lungo sorso e andò in cucina per dare un’occhiata alla bambina. Con le mani sotto il cuscino, come se volesse tenere stretta la preziosa rivista, dormiva, incredibilmente, e non aveva sentito niente, sembrava esistere appena in quell’angolo mentre nella sala il pianto di Zulma si spezzava a tratti in un singhiozzo soffocato, quasi un grido. E' passata, è passata, disse Mariano sedendole vicino e scuotendola dolcemente, non è stato altro che uno spavento. Tornerà, disse Zulma con gli occhi inchiodati al finestrone. No, sarà già lontano, certamente è fuggito da qualche mandria, laggiù. Nessun cavallo si comporta così, disse Zulma, nessun cavallo vuole entrare così in una casa. Ammetto che è strano, disse Mariano, meglio dare un’occhiata fuori, qui c’è la pila. Ma Zulma si era stretta contro la parete, l’idea di aprire la porta, di uscire incontro all’ombra bianca che poteva essere vicino, in attesa sotto gli alberi, pronta a caricare. Senti, se non ci accertiamo che è andato via nessuno dormirà stanotte, disse Mariano. Diamogli ancora un po’ di tempo, intanto tu ti corichi e ti dò un calmante; dose extra, povera piccola, te la sei meritata.
Zulma finì per accettare, passivamente; senza accendere le luci andarono fino alla scala e Mariano indicò con la mano la bambina addormentata, ma Zulma la guardò appena, saliva la scala inciampando continuamente, Mariano dovette sostenerla mentre entrava nella camera da letto perché fu sul punto di andare a sbattere contro lo stipite della porta. Dalla finestra che si apriva sulla grondaia guardarono la scala di pietra, la terrazza più alta del giardino. Se ne è andato, vedi, disse Mariano aggiustando il cuscino di Zulma, osservandola mentre si svestiva con gesti meccanici, lo sguardo fisso sulla finestra. Le fece bere le gocce, le passò l’acqua di colonia sul collo e sulle mani, alzò dolcemente il lenzuolo fino alle spalle di Zulma che aveva chiuso gli occhi e tremava. Le asciugò le guance, attese un attimo e scese a prendere la pila; tenendola spenta in una mano e con un’ascia nell’altra, socchiuse lentamente la porta del salone e uscì sulla terrazza inferiore da dove poteva abbracciare con lo sguardo tutto il lato della casa verso est; la notte era identica a tante altre dell’estate, i grilli stridevano lontano, una rana lasciava cadere due gocce ritmate di suono. Senza aver bisogno della pila Mariano vide il cespuglio di lillà calpestato, le enormi impronte nell’aiuola delle viole del pensiero, il vaso fiorito caduto ai piedi della scala; non era un’allucinazione, allora, e senza dubbio era più importante che non lo fosse; l’indomani mattina sarebbe andato con Fiorendo ad accertarsene nei vari poderi della valle, non se la sarebbero cavata tanto a buon mercato. Prima di entrare raddrizzò il vaso, si spinse fino ai primi alberi e ascoltò a lungo i grilli e la rana; quando guardò verso la casa, Zulma era alla finestra della camera da letto, nuda, immobile.
La bambina non si era mossa, Mariano salì senza fare rumore e si mise a fumare accanto a Zulma. Come vedi, se ne è andato, possiamo dormire tranquilli, domani vedremo. Poco a poco la condusse fino al letto, si svestì, si distese supino, sempre fumando. Dormi, tutto va bene, non è stato altro che un assurdo spavento. Le passò la mano fra i capelli, le dita scivolarono fino alle spalle, sfiorarono i seni. Zulma si voltò su un fianco, di spalle, senza parlare; anche questo era come in tante altre notti dell'estate.
Dormire doveva essere difficile, ma Mariano si addormentò di colpo non appena ebbe spento la sigaretta; la finestra era rimasta aperta e certamente sarebbero entrate le zanzare, ma il sonno venne prima, senza immagini, il nulla totale dal quale emerse a un certo punto, congedato da un indicibile panico, la pressione delle dita di Zulma su una spalla, Paffanno. Quasi prima di capire già stava ascoltando la notte, il perfetto silenzio punteggiato dai grilli. Dormi, Zulma, non c’è niente, avrai sognato. Ostinandosi che lo ammettesse, che tornasse a stendersi dandogli le spalle ora che di colpo aveva ritirato la mano e stava seduta, rigida, guardando verso la porta chiusa. Si alzò contemporaneamente a Zulma, incapace di impedirle di aprire la porta e di andare fino all’inizio della scala, quasi stretto a lei e chiedendosi vagamente se non era meglio darle uno schiaffo, portarla di forza nel letto, dominare infine tanta lontananza pietrificata. A metà della scala Zulma si fermò, afferrandosi alla ringhiera. Sai dirmi perché la bambina è lì? Con una voce che certamente apparteneva ancora all’incubo. La bambina ? Altri due scalini, quasi al gomito che si apriva sulla cucina. Zulma, per favore. E la voce spezzata, quasi in falsetto, è lì per lasciarlo entrare, ti dico che lo lascerà entrare. Zulma, non costringermi a fare una schiocchezza. E la voce quasi trionfante, salendo ancor più di tono, guarda, ma guarda se non mi credi, il letto vuoto, la rivista per terra. Con uno spintone Mariano precedette Zulma, balzò fino all'interruttore. La bambina li guardò, il suo pigiama rosa contro la porta che dava sulla sala, la faccia insonnolita. Cosa fai alzata a quest’ora, disse Mariano avvolgendosi i fianchi con uno strofinaccio. La bambina guardava Zulma nuda, addormentata e vergognosa la guardava come se volesse tornare a letto, sul punto di piangere. Mi sono alzata per fare la pipi, disse. E sei andata nel giardino mentre ti avevamo detto di salire nel bagno. Alla bambina cominciò a tremare il mento, le mani comicamente perdute nelle tasche del pigiama. Non importa, torna a letto, disse Mariano accarezzandole i capelli. La coprì, le mise la rivista sotto il guanciale; la bambina si voltò contro il muro, un dito in bocca come per consolarsi. Sali, disse Mariano, come vedi non è accaduto niente, non restare lì come una sonnambula. La vide fare due passi verso la porta della sala, le sbarrò la strada, basta così, diavolo. Ma non capisci che gli ha aperto la porta, disse Zulma con quella voce che non era la sua. Smettila con queste stupidaggini, Zulma. Vai a vedere se non è così, o lascia andare me. La mano di Mariano si chiuse sull’avambraccio tremante. Sali immediatamente, spingendola fin quasi a portarla ai piedi della scala, guardando mentre passava la bambina che non si era mossa, che doveva già dormire. Sul primo scalino Zulma gridò e volle scappare, ma la scala era stretta e Mariano la spingeva con tutto il corpo, lo strofinaccio si sciolse e cadde ai piedi della scala, tenendola saldamente per le spalle e tirandola verso l’alto la portò fino al pianerottolo, la lanciò verso la camera da letto, chiudendo la porta dietro a sé. Lo lascerà entrare, ripeteva Zulma, la porta è aperta ed entrerà. Coricati, disse Mariano. Ti dico che la porta è aperta. Non importa, disse Mariano, entri se vuole, a questo punto me ne frego se entra o non entra. Afferrò le mani di Zulma che cercavano di respingerlo, la spinse di schiena contro il letto, caddero insieme, Zulma singhiozzando e supplicando, senza la possibilità di muoversi sotto il peso di un corpo che la stringeva sempre più, che la piegava a una volontà mormorata bocca a bocca, rabbiosamente, fra lacrime e oscenità. Non voglio, non voglio, mai più, non voglio, ma troppo tardi, la sua forza e il suo orgoglio cedevano a quel peso che tutto abbatteva e che la restituiva al passato impossibile, alle estati senza lettere e senza cavalli. A un certo momento -cominciava a far chiaro - Mariano si vestì in silenzio, scese in cucina; la bambina dormiva con il dito in bocca, la porta della sala era aperta. Zulma aveva avuto ragione, la bambina aveva aperto la porta ma il cavallo non era entrato. A meno che, vi pensò accendendo la prima sigaretta e guardando il profilo azzurro delle colline, a meno che anche in questo Zulma avesse avuto ragione e che il cavallo fosse entrato nella casa, ma come saperlo se non lo avevano sentito, se tutto era in ordine, se l’orologio avrebbe continuato a scandire il mattino e poi Florencio sarebbe venuto a prendere la bambina, magari verso mezzogiorno sarebbe arrivato il postino fischiando da lontano, lasciando sul tavolo del giardino le lettere che lui o Zulma avrebbero preso senza dire niente, un attimo prima di decidere di comune accordo quel che era meglio preparare per pranzo.
Lì, ma dove, come
Un quadro di René Magritte rappresenta
una pipa al centro della tela.
Ai piedi della figura, il titolo. «Questa
non è una pipa».
A Paco, che amava i miei racconti
(Dedica di Bestiario, 1951).
non dipende dalla volontà
è lui all' improvviso : adesso (prima di cominciare a scrivere; la ragione che mi ha spinto a cominciare a scrivere) o ieri, domani, nessuna indicazione previa, lui c’è o non c'è; non posso neppure dire che viene, non esistono né arrivo né partenza; lui è come un puro presente che si manifesta o non si manifesta in questo presente sporco, pieno di echi di passato e obblighi di futuro
Tu che mi leggi, non ti è mai capitata quella cosa che comincia in un sogno e che torna in molti sogni ma che non è quello, non è solamente un sogno ? Qualcosa che è lì, ma dove, come; qualcosa che capita sognando, certo, puramente sogno ma dopo anche lì, in altro modo perché morbido e pieno di buchi ma lì mentre ti lavi i denti, nel fondo della coppa del lavabo continui a vederlo mentre sputi il dentifricio o metti la faccia sotto l’acqua fredda, e già assottigliandosi ma ancora lo senti afferrato al tuo pigiama, alla base della lingua mentre scaldi il caffè, lì, ma dove, come, incollato al mattino, con il suo silenzio nel quale già entrano i rumori del giorno, il radiogiornale perché abbiamo acceso l’apparecchio e siamo svegli e alzati e la vita continua. Maledizione, maledizione, ma com’è possibile, che cos’è questa cosa che fu, che fummo in un sogno ma che è altro, torna ogni tanto ed è lì, ma dove, come è lì e dove è lì? Perché di nuovo Paco stanotte, ora che lo scrivo in questa stessa stanza, accanto a questo letto dove le lenzuola segnano l’impronta del mio corpo ? A te non accade come accade a me con qualcuno morto trent’anni fa, che seppellimmo un mezzogiorno di sole a Chacarita, portando sulle spalle la cassa insieme con gli amici del gruppo, con i fratelli di Paco ?
il suo volto piccolo e pallido, il suo corpo asciutto di giocatore di pelota basca, i suoi occhi d’acqua, i suoi capelli biondi con la brillantina, la riga di lato, il suo vestito grigio, i suoi mocassini neri, quasi sempre una cravatta azzurra ma qualche volta in maniche di camicia o con una vestaglia di spugna bianca (quando mi aspetta nella sua camera di via Rivadavia, e si alza con sforzo perché non mi accorga di quanto è malato, va a sedere sul bordo del letto avvolto nella vestaglia bianca e mi chiede la sigaretta che gli è stata proibita)
So bene che non si può scrivere ciò che sto scrivendo, certo che si tratta di uno dei modi del giorno per porre fine alle deboli operazioni del sogno; adesso andrò al lavoro, mi incontrerò con traduttori e revisori della conferenza di Ginevra dove mi fermerò quattro settimane, leggerò le notizie dal Cile, quest’altro incubo che nessun dentifricio spazza via; perché allora saltare dal letto alla macchina, dalla casa di via Rivadavia di Buenos Aires dove poco fa ero con Paco a questa macchina che non servirà a niente ora che sono sveglio e che so che sono passati trentun anni da quella mattina di ottobre, da quel loculo in un colombario, da quei pochi fiori che quasi nessuno portò perché a chi volete che importassero quei fiori mentre seppellivamo Paco. Te lo ripeto, quei trentun anni non sono ciò che importa, molto peggio questo passaggio dal sogno alle parole, il buco in ciò che ancora continua ad essere qui ma che si sta sempre più consegnando ai nitidi fili delle cose che stanno da questo lato, al coltello delle parole che continuo a scrivere e che non sono più quel qualcosa che continua ad essere lì, ma dove, come. E se insisto è perché non ne posso più, tante volte ho saputo che Paco è vivo o che morirà, che è vivo in modo diverso dal nostro modo di essere vivi o di star per morire, che scrivendolo almeno lotto contro l’inafferrabile, passo le dita delle parole sui buchi di questa leggerissima trama che poco fa mi legava, nel bagno, davanti al tostapane, alla prima sigaretta, che è ancora lì, ma dove, come; ripetere, reiterare, formule d’incantesimo, verità, forse anche tu che mi leggi qualche volta cerchi di fissare con qualche salmodia quel che comincia a sfuggirti, ripeti stupidamente un verso infantile, ragnetto tessitore, ragnetto tessitore, chiudendo gli occhi per centrare la scena capitale del sogno sfilacciato, rinunciando ragnetto, alzando le spalle tessitore, il giornalaio suona alla porta, tua moglie ti guarda sorridendo e ti dice Pedrito, ti son rimaste le ragnatele negli occhi e come ha ragione tu pensi, ragnetto tessitore, le ragnatele, certo.
quando sogno Alfredo, come altri morti, l'immagine può essere una delle tante sue, secondo le opzioni del tempo e della vita; vedo Alfredo al volante della sua Ford nera, mentre gioca a poker, mentre si sposa con Zulema, mentre usciamo insieme dalla scuola Mariano Acosta e andiamo a bere un vermut al Perla del Once; poi, infine, prima, in un giorno qualsiasi durante un anno qualsiasi, ma Paco no, Paco è solo la stanza nuda e fredda della sua casa, il letto di ferro, la vestaglia di spugna bianca, e se ci incontriamo nel caffè e ha indosso l'abito grigio e la cravatta azzurra, la faccia è sempre uguale, la terrea maschera finale, i silenzi di una stanchezza inarrestabile
Non perderò altro tempo; se scrivo è perché so, anche se non mi è possibile spiegare che cosa è questo che so e riesco appena a separarne le parti più evidenti, da una parte i sogni, dall’altra Paco, ma così occorre fare se un giorno, se adesso non importa in che momento riesco a strappare anche una briciola in più. So che sogno Paco dato che la logica, dato che i morti non camminano per la strada ed esiste un oceano di acqua e di tempo fra questo albergo di Ginevra e la sua casa di via Rivadavia, fra la sua casa di via Rivadavia e lui morto trentun anni fa. Allora è ovvio che Paco è vivo (in quale inutile, orribile maniera dovrò dirlo pur di avvicinarmi, pur di guadagnar terreno) mentre io dormo; quel che si dice sognare. Ogni tanto, possono trascorrere settimane e anche anni, so nuovamente mentre dormo che lui è vivo e che morirà; non c’è nulla di straordinario nel fatto che lo sogno e lo vedo vivo, così capita con tanti altri nei sogni di tutti, anch’io a volte vedo mia nonna viva nei miei sogni, o Alfredo vivo nei miei sogni, Alfredo che fu uno degli amici di Paco e che mori prima di lui. Non c’è chi non sogni i suoi morti e li veda vivi, non è questo che mi spinge a scrivere; se scrivo è perché so, anche se non posso spiegare cos’è ciò che so. Ecco, quando sogno Alfredo il dentifricio funziona perfettamente; c’è sì malinconia, il tornare di antichi ricordi, ma poi la giornata senza Alfredo ha inizio. Ma con Paco è come se si svegliasse con me, può permettersi il lusso di dissolvere quasi immediatamente le vivide sequenze della notte e continuare ad essere presente e fuori dal sogno, smentendolo con una forza che Alfredo, che nessun altro possiede in pieno giorno, dopo la doccia e il giornale. Che gli importa a lui che io ricordi appena quel momento in cui suo fratello Claudio venne da me, a dirmi che Paco stava molto male, e che le scene successive, ormai sfilacciate ma ancora rigorose e coerenti nell’oblio, un po’ come l’impronta del mio corpo segnata sulle lenzuola, si dissolvano come tutti i sogni. Quel che allora so è che avere sognato fa unicamente parte di una cosa diversa, una specie di sovrapposizione, una zona altra, sebbene l’espressione sia scorretta ma bisogna pur sovrapporre o violentare le parole se voglio avvicinarmi, se spero una buona volta di arrivarvi. All’ingrosso, come lo sto sentendo ora, Paco è vivo anche se morirà, e se una cosa so è che in questo non vi è niente di soprannaturale; ho idee precise circa i fantasmi ma Paco non è un fantasma, Paco è un uomo, l’uomo che fu fino a trentun anni fa, il mio compagno di studi, il mio migliore amico. Non è stato necessario che tornasse dal mio lato una o più volte, fu sufficiente il primo sogno perché io lo sapessi vivo al di là o al di qua del sogno e nuovamente fossi invaso dalla tristezza, come nelle notti di via Rivadavia quando lo vedevo perdere terreno di fronte a una malattia che se lo stava divorando dalle viscere, consumandolo senza fretta nella più perfetta delle torture. Ogni notte che sono tornato a sognarlo è sempre stata la medesima cosa, variazioni del tema; non è la ripetizione che potrebbe ingannarmi, quel che so ora già lo sapevo fin dalla prima volta, credo a Parigi più o meno nel 1959, dopo quindici anni dalla sua morte a Buenos Aires. E' vero, quella prima volta cercai di non perdere la testa, di lavarmi meglio i denti; ti respinsi, Paco, benché qualcosa in me sapesse che non eri li come Alfredo, come i miei altri morti; anche nei confronti dei sogni si può essere una canaglia e un vigliacco, e forse per questo tornasti, non per vendetta ma per dimostrarmi che era inutile, che eri vivo e molto malato, che saresti morto, che una sera o l’altra Claudio sarebbe venuto a cercarmi nel sogno per piangere sulla mia spalla, per dirmi Paco sta male, che cosa possiamo fare, Paco sta tanto male.
la sua faccia terrea e senza sole, senza neppure la luna dei caffè dell'Once, la vita da nottambuli degli studenti, una faccia triangolare senza sangue, l’acqua celeste dei suoi occhi, le labbra spellate dalla febbre, l’odore dolciastro dei nefritici, il suo sorriso dolce, la voce ridotta al minimo, costretto a respirare fra una frase e l’altra, sostituendo le parole con un gesto o una smorfia ironica
Vedi, questo è quanto so, non è molto ma rende tutto diverso. Mi annoiano le ipotesi spaziotemporali, le n dimensioni, e lasciamo stare il gergo occultista, la vita astrale e Gustav Meyrinck. Non cercherò il perché so di essere incapace di illusione o forse, magari, della capacità di entrare in territori diversi. Io sono qui, semplicemente disponibile, Paco, e scrivo quel che una vol-ta ancora abbiamo vissuto insieme mentre io dormivo; se qualche aiuto posso darti è il sapere che non sei soltanto il mio sogno, che lì, ma dove, come, lì sei vivo e stai soffrendo. Di questo lì non posso dire niente, se non che così è mentre sogno e mentre sono sveglio, che è un lì senza luogo; perché quando ti vedo sto dormendo e non so pensare, e quando penso sono sveglio ma posso solo pensare; immagine o idea sono sempre questo lì, ma dove, questo lì, ma come.
rileggere quanto ho scritto è chinare la testa, prendersela con l'ennesima sigaretta, domandarsi il significato di questo scrivere su questa macchina, per chi, dimmi tu, per chi che non alzi le spalle e rapidamente classifichi, metta l'etichetta e passi ad altro, a un altro racconto
E poi, Paco, per quale ragione. Lo tralascio, per ora, ma è quanto vi sia di più duro, è questa ribellione e questa nausea contro quanto ti accade. Immagini anche tu che non ti credo all'inferno, ci divertiremmo molto se ne potessimo parlare. Ma ci deve pur essere un perché, non ti pare, tu stesso certamente ti domanderai perché sei vivo lì dove sei se di nuovo morirai, se di nuovo Claudio dovrà venire a cercarmi, se come un momento fa salirò le scale di via Rivadavia per trovarti nella tua camera d’ammalato, con quella faccia esangue e gli occhi come d’acqua, e mi sorriderai con labbra stinte e riarse, dandomi una mano che sembra un pezzettino di carta. E la tua voce, Paco, quella voce tua che conobbi alla fine, quando articolava faticosamente le poche parole di un saluto o di una frase scherzosa. Ovviamente non ti trovi nella casa di via Rivadavia né io a Ginevra ho salito le scale della tua casa di Buenos Aires, tutto ciò non sono che gli utensili del sogno e come sempre al risveglio le immagini si slegano e solo tu rimani da questo lato, tu che non sei un sogno, che sei stato ad aspettarmi in tanti sogni ma come chi si fissa un appuntamento in un luogo neutrale, una stazione o un bar, altri strumenti e utensili che dimentichiamo non appena iniziamo ad andare avanti.
come dirlo, come continuare, fare a pezzi la ragione ripetendo che non è solamente un sogno, che se lo vedo nei sogni come uno qualsiasi degli altri miei morti, lui è un altra cosa, è lì, dentro e fuori, vivo anche se
ciò che vedo di lui, ciò che odo di lui: la malattia lo stringe, lo fissa nell'ultima apparenza sua che è il mio ricordo di lui trentun anni fa; così come ora, così è
Perché vivi se ti sei ammalato un’altra volta, se morirai di nuovo ? E quando morirai, Paco, cosa accadrà fra noi? Saprò che sei morto, sognerò, dato che il sogno è l’unica zona dove posso vederti, che ti seppelliamo di nuovo ? E dopo, smetterò di sognare, saprò che sei veramente morto ? Perché da molti anni ormai, Paco, sei vivo lì dove ci incontriamo, ma d’una vita inutile e appassita, questa volta la tua malattia dura interminabilmente più dell’altra, passano settimane e mesi, passano Parigi o Quito o Ginevra e allora Claudio viene e mi abbraccia, Claudio così giovane e cucciolo piangendo piano sulla mia spalla mi avvisa che stai male, che corra da te, qualche volta si tratta di un caffè ma quasi sempre bisogna salire la stretta scala di quella casa che è già stata abbattuta, da un tassì guardai l’anno scorso quell’isolato di via Rivadavia all’altezza del Once e seppi che la casa non esisteva più o che l’avevano trasformata, mancano la porta e la stretta scala che portava al primo piano, alle stanze dagli alti soffitti e stucchi gialli, passano settimane o mesi e di nuovo so che devo venirti a trovare, o semplicemente ti incontro da qualche parte o so che ti trovi da qualche parte anche se non ti vedo, e niente ha termine, niente ha inizio o termine finché dormo o più tardi in ufficio o qui mentre scrivo, tu vivo a che scopo, tu vivo per quale ragione, Paco, lì, ma dove, vecchio mio, dove e fino a quando.
addurre prove d’aria, mucchietti di cenere come prove, certezze di vuoto; e peggio ancora con parole, da parole incapaci di vertigine, etichette precedenti la lettura, quest’altra etichetta finale
nozione di territorio contiguo, distanza a fianco; tempo a fianco, e al tempo stesso niente di tutto ciò, troppo facile rifugiarsi nel binario; come se tutto dipendesse da me, da una semplice chiave che un gesto o un salto mi darebbero, e sapere che non è così, che la mia vita mi rinchiude in ciò che sono, proprio sul ciglio ma
cercare di dirlo in altro modo, insistere : per speranza, cercando il laboratorio di mezzanotte, un impensabile alchimia, una trasmutazione
Non sono in grado di proseguire oltre, tentare una qualsiasi delle strade che altri seguono alla ricerca dei loro morti, la fede o i funghi o le metafisiche. So che non sei morto, che i tavoli a tre gambe sono inutili; non andrò a consultare veggenti perché anche loro posseggono un codice, e mi guarderebbero come un demente. Posso solo credere in ciò che so, continuare lungo il mio sentiero come fai tu lungo il tuo, rimpicciolito e malato lì dove ti trovi, senza disturbarmi, senza chiedermi niente ma appoggiandoti in un certo senso a me che ti so vivo, a questo anello che ti collega alla zona alla quale non appartieni ma che ti sostiene non so perché, chissà perché. E per questo, penso, ci sono momenti in cui hai bisogno di me ed è allora che arriva Claudio o che improvvisamente ti incontro nel caffè dove giocavamo al biliardo o nella stanza di sopra dove mettevamo dischi di Ravel e leggevamo Federico e Rilke, e la gioia abbagliante che sento di saperti vivo è più intensa del pallore del tuo volto e della fredda debolezza della tua mano; perché in pieno sogno non mi inganno come mi inganno talvolta vedendo Alfredo o Juan Carlos, la gioia non è quell'orribile delusione svegliandosi e capendo che si ha sognato, con te mi sveglio e nulla cambia se non che ho smesso di vederti, so che sei vivo lì dove sei, in una terra che è questa terra e non una sfera astrale o un abominevole limbo; e la gioia continua qui presente mentre scrivo e non contraddice la tristezza di averti visto ancora una volta tanto malato, c’è ancora la speranza, Paco, se scrivo è perché spero, anche se ogni volta è sempre la stessa cosa, la scala che porta alla tua stanza, il caffè dove fra due carambole mi dirai che sei stato malato ma che ora va meglio, mentendomi con un povero sorriso; la speranza che una volta o l'altra avvenga diversamente, che Claudio non debba venire a cercarmi e a piangere abbracciato a me, chiedendomi di venirti a trovare.
anche forse per stare ancora una volta accanto a lui nel momento della morte come in quella notte di ottobre, i quattro amici, la fredda lampada appesa al soffitto, l'ultima iniezione dì coramina, il petto nudo e gelato, gli occhi aperti che uno di noi gli chiuse piangendo
E tu che mi leggi crederai che invento; poco importa, da molto tempo la gente addebita alla mia immaginazione quanto veramente ho vissuto, o viceversa. Vedi, Paco mai lo incontrai nella città di cui ho detto qualche volta, una città che sogno ogni tanto e che è come il recinto di una morte infinitamente differita, di torbide ricerche e di impossibili appuntamenti. Niente di più naturale che vederlo lì, ma lì non Fho mai incontrato né credo che lo incontrerò mai. Lui possiede un suo proprio territorio, gatto nel suo mondo delineato e preciso, la casa di via Rivadavia, il caffè del biliardo, un angolo del Once. Forse se lo avessi incontrato nella città dei portici e del canale del Nord, lo avrei aggiunto alla meccanica delle ricerche, alle interminabili camere dell'albergo, agli ascensori che si spostano orizzontalmente, agli elastici incubi che ogni tanto tornano; sarebbe stato più facile spiegarne la presenza, immaginarla parte di quell’ambiente che l’avrebbe impoverita limandola, incorporandola ai suoi giochi maldestri. Ma Paco sta in ciò che è suo, gatto solitario affacciato alla propria zona senza mescolarsi con altro; coloro che vengono a cercarmi sono solo i suoi, Claudio e suo padre, qualche volta il fratello maggiore. Quando mi sveglio dopo essermi incontrato con lui in casa sua o al caffè, vedendogli la morte negli occhi simili ad acqua, il resto si perde nel fragore della veglia, solo lui rimane con me mentre mi lavo i denti e
ascolto il radiogiornale prima di uscire; non più la sua immagine percepita con la crudele precisione lenticolare del sogno (l'abito grigio, la cravatta azzurra, i mocassini neri) ma la certezza che in modo impensabile è sempre li e soffre.
e neppure speranza nell'assurdo, saperlo nuovamente felice, vederlo in un torneo di pelota, innamorato di quelle ragazze con le quali ballava al club
piccola larva grigia, «animula vagula blandula», scimmietta tremante di freddo sotto le coperte di lana, tendendomi una mano di manichino, a quale scopo, perché
Tutto ciò non avrei potuto fartelo vivere, lo scrivo ugualmente per te che mi leggi perché è un modo di rompere il cerchio, di chiederti di cercare in te stesso se non hai anche tu uno di questi gatti, di questi morti che amasti e che stanno in quel li che ormai mi esaspera nominare con parole di carta. Lo faccio per Paco, nel caso che ciò come qualsiasi altra cosa servisse, lo aiutasse a guarire o a morire, affinché Claudio non torni a cercarmi, o semplicemente per sentire finalmente che tutto è stato un inganno, che semplicemente sogno Paco e che lui vai a sapere perché si afferra un po’ di più alle mie caviglie di quanto faccia Alfredo, di quanto facciano gli altri miei morti. E' quel che tu starai pensando, cos’altro potresti pensare a meno che anche a te sia accaduto così con qualcuno, ma nessuno mi ha mai parlato di cose simili e neppure mi attendo che lo faccia tu, semplicemente dovevo dirlo e sperare, dirlo e un’altra volta andare a dormire e vivere come chiunque altro, facendo il possibile per dimenticare che Paco continua ad essere lì, che nulla ha fine perché domani o Panno prossimo mi sveglierò sapendo come so ora che Paco continua ad essere vivo, che mi ha chiamato perché sperava qualcosa da me, e che non posso aiutarlo perché è malato, perché sta morendo.
Luogo chiamato Kindberg
Chiamato Kindberg, volendo si può tradurre ingenuamente montagna dei bimbi o vederlo come la montagna gentile, la amabile montagna, così o in altro modo un paese al quale giungono di notte da una pioggia che si lava rabbiosamente la faccia contro il parabrezza, un vecchio albergo di profonde gallerie dove tutto è preparato per l’oblio di ciò che fuori continua a battere e a graffiare, il luogo finalmente, potersi cambiare, sapere che si sta tanto bene al riparo; e la minestra nella grande zuppiera d’argento, il vino bianco, spezzare il pane e darne il primo pezzo a Lina che lo riceve nella palma della mano come se fosse un omaggio, e lo è, e allora gli soffia sopra chissà perché ma è bello vedere che la frangetta di Lina si alza un pochino e trema come se il soffio restituito dalla mano e dal pane alzasse il sipario di un minuscolo teatro, quasi come se da quell’istante Marcelo potesse vedere entrare in scena i pensieri di Lina, le immagini e i ricordi di Lina che sorbisce la saporita minestra soffiando sempre sorridendo.
E no, la fronte liscia e infantile non si altera, all’inizio solo la voce che va lasciando cadere frammenti di persona, componendo una prima approssimazione a Lina: cilena, per esempio, e un tema canticchiato di Archie Shepp, le unghie un po’ mangiate ma pulitissime su un abito sporco da autostop e notti in cascine o ostelli della gioventù. La gioventù, ride Lina sorbendo la minestra come un’orsetta, davvero non puoi immaginartelo: fossili, ecco, cadaveri vaganti come in quel film del terrore di Romero1.
Marcelo sta per domandarle quale Romero, mai sentito nominare prima questo Romero, ma forse meglio lasciarla parlare, lo diverte assistere a quella felicità di pranzo caldo, come poco fa quella contentezza per una stanza con il caminetto che aspetta crepitando, la borghese bolla d’aria protettrice di un portafoglio da viaggiatore senza problemi, la pioggia che sta schiantandosi lì fuori contro la bolla d’aria come quella sera contro la faccia bianchissima di Lina sul bordo della strada all’uscita dal bosco nel crepuscolo, che posto per fare l’autostop e nondimeno ecco, ancora un po’ di minestra orsetta, su, che hai bisogno di salvarti dall’influenza, i capelli ancora umidi ma il caminetto che aspetta crepitando nella stanza dal gran letto Asburgo, di specchi fino a terra e tavolini e pendagli di cristallo e tendaggi e perché te ne stavi là sotto la pioggia dimmi un po’, tua madre una sberla non te l’avrebbe risparmiata.
Cadaveri, ripete Lina, meglio viaggiare soli, certo che se piove ma non credere il mio è un impermeabile vero, solo un po’ i capelli e le gambe, tutto li, e al massimo un’aspirina. E fra il cestino del pane vuoto e quello nuovo pieno che l’orsacchiotta già saccheggia, com’è buono questo burro, e tu cosa fai, perché viaggi con quella macchina spaventosa, e tu perché, ah sei argentino ? Doppia ammissione che il caso fa le cose bene, il prevedibile ricordo che se otto chilometri prima Marcelo non si fosse fermato a bere l’orsetta eccola ficcata in un’altra macchina o ancora nel bosco, sono rappresentante di materiali prefabbricati, è un lavoro che obbliga a viaggiare molto ma questa volta vago fra due impegni. Orsacchiotta attenta e quasi grave, che roba è questa dei prefabbricati, comunque argomento noioso, e cosa ci vuoi fare, non può dirle che è domatore di belve o regista cinematografico o Paul McCartney: il sale. Quei suoi modi bruschi di insetto o di uccello anche se orsetta e frangetta danzante, il ritornello ricorrente di Archie Shepp, ne hai i dischi, ma come, ah, bene. E si rende conto, pensa ironicamente Marcelo, che sarebbe normale che lui non avesse dischi di Archie Shepp ed è idiota perché in realtà certo che li ha e qualche volta li ascolta con Marlene a Bruxelles e solo non sa viverli come Lina che all'improvviso ne canticchia un brano fra due bocconi, il suo sorriso è free-jazz e gulash e orsetta umida di autostop, mai avuta tanta fortuna, sei stato buono. Buono e coerente, intona Marcelo in una rivincita bandoneón, ma è in fuori gioco, è un’altra generazione, è un’orsetta Shepp, non tango, vecchio mio.
Naturalmente resta ancora il solletichio, quasi un crampo agrodolce all'arrivo a Kindberg, il parcheggio dell’albergo nell’enorme vecchio capannone, la donna con una lanterna d’epoca che gli illumina la strada, Marcelo valigia e cartelle, Lina zaino e goccioloni, l’invito a cena accettato prima di Kindberg, così facciamo quattro chiacchiere, la notte e la mitraglia della pioggia, imprudente proseguire, meglio fermarsi a Kindberg e ti invito a cena, oh si grazie che bello, così ti si asciugano gli abiti, meglio fermarsi qui fino a domani, oh si disse Lina, e allora il parcheggio, le gallerie risonanti gotiche fino all’atrio, che bel calduccio in questo albergo, che fortuna, una goccia d’acqua, l’ultima appesa alla frangetta, lo zaino appeso orsacchiotta girl-scout con zietto buono, vado a fissare le camere così ti asciughi prima di cenare. E il solletichio, quasi un crampo lì in basso, Lina guardandolo tutta frangetta, le camere che stupidaggine, fissane una sola. E lui non guardandola ma gradevolmente sgradevole quel solletichio, allora è una delizia, allora orsetta minestra caminetto, allora ancora un’altra e che fortuna caro mio perché è davvero carina. Ma dopo, mentre la guarda prendere dallo zaino gli altri blue-jeans e il pullover nero, dandole le spalle chiacchierando che caminetto, che buon odore, fuoco profumato, cercando le aspirine in fondo alla valigia fra vitamine e deodoranti e after-shave e fin dove pensi di arrivare, non lo so, ho una lettera per certi hippies di Copenaghen, dei disegni che mi ha dato Cecilia a Santiago, mi ha detto che sono tipi fantastici, e il paravento di raso e Lina che appende gli abiti bagnati, rovesciando indescrivibile lo zaino sulla tavola francescogiuseppe dorata e arabeschi James Baldwyn kleenex bottoni occhiali neri scatole di cartone Pablo Neruda confezioni igieniche pianta della Germania, ho fame, Marcelo mi piace il tuo nome suona bene e ho fame, allora andiamo a mangiare, lavata ti sei già lavata, finirai dopo di riordinare lo zaino, Lina alza bruscamente la testa, guardandolo: io non riordino mai niente, a che scopo, lo zaino è come me e questo viaggio e la politica, tutto mescolato e che importanza ha. Mocciosa, pensò Marcelo crampo, quasi solletichio (darle l' aspirina al momento del caffè, effetto più rapido) ma a lei davano fastidio quelle distanze verbali, quei tu tanto giovane e com’è possibile che viaggi così sola, a metà minestra si era messa a ridere: la gioventù, fossili, ecco, cadaveri vaganti come in quel film di Romero. E il gulash e a poco a poco con il caldo e Por-sacchiotta di nuovo contenta e il vino, il solletichio nello stomaco cedeva a una specie di allegria, a una pace, dicesse pure stupidaggini, continuasse pure a spiegargli la sua visione di un mondo che forse era stata anche la sua visione una volta, ma chi se lo ricordava più in quel momento, che lo guardasse pure dal teatro della sua frangetta, improvvisamente seria e quasi preoccupata e poi ecco di nuovo bruscamente Shepp, dicendo che bello qui, sentirsi asciutta e dentro la bolla e invece una volta ad Avignone cinque ore aspettando un passaggio con un vento che portava via le tegole, ho visto un uccello schiantarsi contro un albero, è caduto come uno straccetto: il pepe per favore.
Allora (stavano portando via il piatto di portata, vuoto) pensi di proseguire fino in Danimarca sempre così ma hai un po’ di soldi o no? Certo che proseguo, non mangi l'insalata? Allora passamela, ho ancora fame, e che maniera tutta sua di piegare le foglie con la forchetta e masticarle lentamente canticchiando Shepp con ogni tanto una bollicina argentea plop sulle labbra umide, bocca graziosa ritagliata che finiva esattamente dove doveva, quei disegni del rinascimento, Firenze in autunno con Marlene, quelle bocche che pederasti geniali avevano amato tanto, sinuosamente sensuali sottili eccetera, ti sta dando alla testa questo Riesling sessanta-quattro e intanto l'ascolta fra bocconi e canticchi non so come mi sono laureata in filosofia a Santiago, vorrei leggere molto, ora è il momento di cominciare a leggere. Prevedibile, povera orsetta tanto contenta tra insalata e piano di digerirsi Spinoza in sei mesi mescolandolo ad Allen Ginsberg e ancora Shepp: quanti luoghi comuni sarebbero sfilati fino al caffè (non dimenticarsi di darle l’aspirina, se mi comincia a starnutire è un problema, mocciosa dai capelli bagnati la faccia tutta frangetta appiccicata la pioggia che la schiaffeggia lungo la strada) ma parallelamente fra Shepp e la fine del gulasch tutto stava come girando a poco a poco, cambiando, le frasi sempre le stesse e poi Spinoza o Copenaghen e al tempo stesso tutto era diverso, Lina lì di fronte a lui, spezzando il pane bevendo il vino guardandolo contenta, vicina e lontana nello stesso tempo, cambiando con il girar della notte, anche se vicino e lontano non era una spiegazione, altro, qualcosa come un mostrare, Lina che gli mostrava qualcosa che non era lei ma allora cosa, vorrei saperlo. E due tagli al gruviera, perché non mangi Marcelo, sapessi quanto è buono, non hai mangiato niente, sciocco, un signorone come te, perché sei un signore, no ? e lì fumando mando mando mando senza mangiar niente, senti, e ancora una goccia di vino, la vorresti, no ? perché con questo formaggio, bisogna, figurati, dargli una spintina, su, mangia un pochino: pane, per piacere, incredibile, vero, quanto pane mangio, tutti mi hanno sempre profetizzato che diventerò grassa, proprio così, il fatto è che ho già un po’ di pancetta, non sembra ma è così, giuro, Shepp.
Inutile sperare che parlasse di qualcosa di sensato, e poi perché sperarlo (perché tu sei un signore, no ?) orsacchiotta tra i fiori del dolce guardando abbagliata e nello stesso tempo con occhi calcolatori il carrello pieno di torte conserve meringate, un po’ di pancetta, sì, le avevano profetizzato che sarebbe diventata grassa, sic, questa con più crema, e perché non ti piace Copenaghen, Marcelo. Ma Marcelo non aveva detto che non gli piaceva Copenaghen, solo che era un po’ assurdo viaggiare con tutta quella pioggia per settimane e zaino per poi scoprire molto probabilmente che gli hippies erano già in California, ma non capisci che non ha alcuna importanza, ti ho già detto che non li conosco, devo consegnargli i disegni che mi hanno dato Cecilia e Marcos a Santiago e un disco dei Mothers of Invention, credi che qui abbiano un giradischi, così te lo faccio sentire ?, probabilmente troppo tardi e Kindberg, capisci, ancora se si trattasse di violini zigani ma quelle madri, figurati, al solo pensiero, e Lina risata con molta crema e pancetta sotto il pullover nero, entrambi ridendo all'idea delle madri ululanti a Kindberg, la faccia dell' albergatore e quel calore che aveva cominciato a sostituire il solletichio nello stomaco, domandandosi se non avrebbe fatto la difficile, se alla fine la leggendaria spada nel letto, comunque il guanciale arrotolato e ciascuno dalla sua parte, barriera morale spada moderna, Shepp, eccoci, cominci a starnutire, prendi l'aspirina che ora portano il caffè, ora ordino un po’ di cognac che riattiva il salicilico, l'ho imparato da buona fonte. E infatti lui non aveva detto che non gli piaceva Copenaghen ma pareva che l'orsetta intendesse più il tono della sua voce che le parole, come lui quando si era innamorato a dodici anni della maestra, che importanza avevano le parole in confronto a quella ninna-nanna, quella cosa che nasceva dalla voce come un desiderio di calore, coperte e carezze sui capelli, tanti anni dopo la psicanalisi: angoscia, bah, nostalgia dell'utero primordiale, tutto in fin dei conti, dal principio, galleggiava sulle acque, si rilegga la Bibbia, cinquantamila pesos per guarire dalle vertigini e ora quella mocciosa lo stava quasi sbranando, Shepp, ma per forza, se la trangugi senza bere come vuoi che non ti rimanga nella gola, sciocchina. E lei rimescolando il caffè, di colpo alzando degli occhi attenti e guardandolo con un rispetto nuovo, certo che se cominciava a prenderla in giro gliela avrebbe fatta pagare cara il doppio ma no, davvero Marcelo, mi piaci quando fai il dottore e il paparino, non arrabbiarti, dico sempre quel che non dovrei, non arrabbiarti, ma se non mi arrabbio, fintone, si ti sei arrabbiato un pochino perché ti ho dato del dottore e del paparino, non volevo dire proprio questo ma ti giuro che si nota subito quanto sei buono a ricordarmi l’aspirina, e bada, ti sei anche ricordato di cercarla e di portarla a tavola, io me ne ero già dimenticata, Shepp, e come ne avevo bisogno, e un po’ comico lo sei perché mi guardi proprio come un dottore, non ti arrabbiare, Marcelo, com’è buono questo cognac con il caffè, perfetto per una buona dormita, lo sai, no. Certo, in strada dalle sette del mattino, tre auto e un camion, abbastanza bene tutto sommato eccetto alla fine il temporale, ma poi Marcelo e Kindberg e il cognac Shepp. E lasciare la mano molto quieta, la palma in su sulla tovaglia piena di briciole quando lui gliela carezzò lievemente per dirle che no, che non era arrabbiato perché adesso sapeva che era vero, che davvero era rimasta commossa da quella piccola attenzione, la compressa che lui aveva tirato fuori dalla tasca con le istruzioni relative, molta acqua affinché non rimanesse attaccata in gola, caffè e cognac; di colpo amici, ma sul serio, e il fuoco doveva star riscaldando sempre meglio la stanza, la cameriera aveva già preparato il letto come sempre a Kindberg, una cerimonia antica di benvenuto al viaggiatore stanco, alle stupide orsette che volevano bagnarsi fino a Copenaghen e poi, ma che importanza aveva poi, Marcelo, te l’ho già detto che non voglio legarmi con le mie stesse mani non voglio non voglio, Copenaghen è come un uomo che si incontra e si lascia (ah), un giorno che passa, non credo nel futuro, la mia famiglia non fa che parlare di futuro, mi rompono le palle con il loro futuro, e anche per lui lo zio Roberto convertitosi in affettuoso tiranno di Marcelo orfano di padre e ancora tanto piccolo, poverino, bisogna pensare al futuro figliolo mio e quella ridicola pensione dello zio Roberto, un governo forte ci vuole, altrimenti, la gioventù d’oggi non pensa che a divertirsi, cazzo, ai miei tempi invece, e l’orsacchiotta che gli lascia la mano sulla tovaglia e perché mai quella stupida suzione, quel tornare a una Buenos Aires degli anni trenta o quaranta, meglio Copenaghen, vecchio mio, meglio Copenaghen e gli hippies e la pioggia ai bordi della strada, ma lui non aveva mai fatto l’autostop, praticamente mai, una o due volte prima dell’università, dopo avere avuto di che tirare avanti, vivacchiare e vestirsi, e tuttavia una volta avrebbe potuto, gli amici avevano progettato di prendere tutti insieme un veliero che impiegava tre'mesi per arrivare a Rotterdam, carichi e scali, tutto per seicento pesos più o meno, dando naturalmente una mano all’equipaggio, divertendosi, ma certo che ce la faremo, al caffè Rubì, dell’Once, certamente, Scimmietta, bisogna raggranellare i seicento sacchi, non era facile, tutto il tuo stipendio ti va via in sigarette e qualche ragazza, un giorno non si videro più, del veliero nemmeno una parola, bisogna pensare al futuro, figliolo, Shepp. Ah, di nuovo; vieni, devi riposare, Lina. Sì dottore, ma ancora un momentino, ne è rimasto ancora un goccino di questo cognac che dà tepore, assaggialo, senti che bel tepore. E basta doveva aver detto lui senza rendersene conto mentre gli tornava alla memoria il Rubì perché di nuovo Lina con quel suo modo di interpretargli la voce, ciò che veramente la sua voce diceva e non ciò che stava dicendo che era sempre un’idiozia e aspirina e devi riposare e a che scopo andare a Copenaghen per esempio mentre adesso, con quella sua manina bianca e calda sotto la sua, tutto poteva chiamarsi Copenaghen, tutto avrebbe potuto chiamarsi veliero se quei seicento pesos, se i coglioni, se la poesia. E Lina intanto lo guardava e poi chinava rapidamente gli occhi come se tutte quelle cose fossero li sulla tavola, fra le briciole, ormai rifiuti del tempo, come se lui le avesse parlato di tutte quelle cose invece di ripeterle vieni, devi riposare, senza osare il plurale più logico, vieni andiamo a dormire, e Lina che si leccava le labbra e rammentava dei cavalli (o erano mucche, solo la fine della frase ascoltava), dei cavalli che attraversavano i campi come se qualcosa lì avesse spaventati di colpo: due cavalli bianchi e un sauro, nella proprietà di mio zio non sai quel che voleva dire galoppare la sera contro il vento, tornare tardi e stanca e naturalmente essere sgridata, maschiaccio, adesso vengo, aspetta che finisca quest’ultimo sorso, sì, adesso vengo, e lo guarda con tutta la frangetta al vento come se fosse a cavallo, nella proprietà degli zii soffiandosi sul naso perché il cognac è fortissimo, doveva essere un vero idiota a farsi dei problemi quando era stata lei nel grande corridoio scuro, lei gocciolante e contenta, due camere che sciocchezza, chiedine una sola, assumendosi tutta la responsabilità, naturalmente, di quell’economia, sapendo e magari abituata e aspettandoselo alla fine di ogni tappa, ma e se invece non finiva in quel modo dato che non sembrava, se finiva con una sorpresa, il letto diviso dalla spada, se finiva bruscamente sul divano in un angolo, allora lui, certo, un gentiluomo, non dimenticarti la sciarpa, non ho mai visto una scala tanto ampia, certamente in passato era un palazzo, con conti che davano feste al lume di candela e tutto, e le porte, guarda quella porta, ma è la nostra, decorata con cervi e pastori, non è possibile. E il fuoco, le rosse salamandre sfuggenti e il letto aperto bianchissimo enorme e le tende sommergenti le finestre, ah che meraviglia, che bello, Marcelo, che bella dormita faremo, aspetta che almeno ti mostri il disco ha una copertina stupenda, a loro piacerà, è qui in fondo con le lettere e le mappe, mica lo avrò perso, Shepp. Me lo mostrerai domani, un raffreddore non te lo toglie più nessuno, svestiti in fretta, è meglio che spenga così vediamo il fuoco, oh sì Marcelo, che braci, tutti i gatti insieme, guarda le scintille, si sta bene nel buio, peccato dormire, e lui intanto mette la giacca sulla poltrona, si avvicina all’orsacchiotta accovacciata vicino al caminetto, togliendosi le scarpe vicino a lei, chinandosi per sedersi di fronte al fuoco, vedendole correre la luce e le ombre sui capelli sciolti, aiutandola a togliersi la camicetta, cercandole la chiusura del reggiseno, la bocca già sulla spalla nuda, le mani andando a caccia fra le scintille, piccola mocciosa, orsacchiotta sciocchina, a un certo punto nudi in piedi di fronte al fuoco e baciandosi, freddo il letto e bianco e improvvisamente più niente, un fuoco totale lungo la pelle, la bocca di Lina sui suoi capelli, sul suo petto, le mani lungo la schiena, e i corpi si lasciano trasportare e conoscere e un gemito appena, una respirazione affannosa e doverle dire perché questo sì doveva dirglielo, prima del fuoco e del sonno doveva dirglielo, Lina, non è per ringraziarmi che lo fai, vero ? e le mani perdute sulla schiena salendo come una sferzata fino in faccia, fino alla gola, stringendolo furiose, inoffensive, dolcissime e furiose, piccole e rabbiosamente conficcate, quasi un singhiozzo, un gemito di protesta e negazione, una rabbia anche nella voce, come puoi, come puoi Marcelo, e allora così, così, bene così, perdonami amor mio perdonami dovevo dirtelo perdonami dolcezza perdonami, le bocche, l’altro fuoco, le carezze dai rosati bordi, la piccola bolla che trema fra le labbra, fasi della conoscenza, silenzi in cui tutto è pelle o lento scorrere di capelli, ventata di palpebra, negazione e richiesta, bottiglia di acqua minerale che si beve a garganella, che passa in un’unica sete da una bocca all’altra, terminando nelle dita che tastano il tavolino da notte, che ne accendono la lampada, e c’è il gesto di coprirne il paralume con uno slip, con qualsiasi cosa, di dorare l’aria per cominciare a guardare Lina di schiena, l’orsacchiotta di fianco, l’orsetta bocconi, la pelle sottile di Lina che gli chiede una sigaretta, che si siede appoggiata ai cuscini, sei ossuto e pelosissimo, Shepp, aspetta che ti copra un pochino se trovo la coperta, è lì ai piedi, mi pare che abbia i bordi smangiucchiati, Shepp.
Poi il fuoco lento e basso nel caminetto, in loro, decrescendo e dorandosi, l’acqua già bevuta, le sigarette, i corsi universitari erano uno schifo, quanto mi annoiavano, ho imparato molto di più e meglio nei caffè, leggendo prima di andare al cinema, parlando con Cecilia e con Pirucho, e lui ascoltandola, il Rubì così simile al Rubi vent’anni addietro, Arlt e Rilke e Eliot e Borges, solo che Lina, sì, sì sul suo vascello d’autostop, sui suoi traghetti Renault o Volkswagen, l'orsacchiotta tra foglie secche e pioggia sulla frangetta, ma perché di nuovo il veliero e il Rubì, lei non ne sapeva nulla, non era neppure nata, piccola cilena mocciosa vagabonda Copenaghen, perché fin dal principio, fin dalla minestra e dal vino bianco quel suo sbattergli in faccia inconsapevolmente tante cose passate e perdute, cane sepolto, veliero per seicento pesos, mentre Lina lo guarda dal dormiveglia, scivolando sui cuscini con un sospiro da animaletto soddisfatto, cercandogli la faccia con le mani, mi piaci sai, ossuto, tu li hai già letti tutti i libri, Shepp, voglio dire che con te si sta bene, ne sai di cose, hai mani grandi e forti, c’è vita dietro a te, tu non sei vecchio. E così l’orsacchiotta lo sentiva vivo nonostante, più vivo dei ragazzi suoi coetanei, i cadaveri del film di Romero e cosa rappresentava costui dietro la frangetta dove il piccolo teatro ora scivolava umido verso il sonno, gli occhi socchiusi e rivolti verso di lui, e allora prenderla dolcemente ancora una volta, sentendola e contemporaneamente lasciandola, ascoltare il suo ronron di mezza protesta, ho sonno, Marcelo, così no, sì amore, sì, il suo corpo leggero e sodo, i muscoli tesi, l’attacco restituito raddoppiato senza tregua, non come Marlene a Bruxelles, le donne come lui, calme e sicure, con tutti i libri letti, lei l’orsacchiotta, con una maniera tutta sua di accogliere la sua forza e di rispondervi ma dopo, ancora sul limite di quel vento pieno di pioggia e di grida, scivolando a sua volta nel dormiveglia, capire che anche tutto quello era veliero e Copenaghen, la sua faccia fra i seni di Lina era la faccia del Rubì le prime notti adolescenti con Mabel o con Nélida nell’alloggio imprestato dalla Scimmietta, le raffiche furiose ed elastiche e quasi immediatamente perché non andiamo a fare una passeggiata in centro, dammi i confetti, se mamma lo viene a sapere. Allora neppure così, neppure nell' amore veniva abolito quello specchio rivolto all’indietro, il vecchio ritratto di se stesso giovane che Lina gli metteva dinanzi accarezzandolo e Shepp e adesso dormiamo e dammi un po’ d’acqua per favore; come essere stato lei, iniziando da lei in ogni cosa, insopportabilmente assurdo irreversibile e alla fine il sonno fra le ultime carezze mormorate e tutti i capelli dell’orsacchiotta sul volto come se qualcosa in lei sapesse, come se volesse cancellare tutto affinché si risvegliasse un’altra volta Marcelo, come si svegliò alle nove e Lina canticchiava pettinandosi sul divano, già vestita e pronta per altre strade e altra pioggia. Non parlarono molto, fu una colazione breve e c’era il sole, a molti chilometri da Kindberg si fermarono a bere un caffè, Lina quattro zollette di zucchero e la faccia come lavata, assente, una specie di felicità astratta, e allora sai, no, non arrabbiarti, dimmi che non ti arrabbierai, ma no, certamente, parla, se hai bisogno di qualcosa, arrestandosi giusto prima del luogo comune perché la parola stava per rendersi concreta come i biglietti nel suo portafogli, pronti per essere usati e stava già per dirla quando la mano di Lina timida nella sua, la frangetta sugli occhi furono un chiedergli se poteva proseguire ancora un pochino con lui anche se andava da un’altra parte, che importanza aveva, proseguire ancora un pochino con lui perché era bello, far durare ancora un poco, con questo sole, dormiremo in un bosco, ti mostrerò il disco e i disegni, solo fino a stasera se vuoi, e sentire che anche lui voleva così, sì, non c’era nessuna ragione di non volerlo, e lentamente allontanare la mano e dirle no, meglio di no, sai, qui troverai facilmente, è un incrocio importante, e l’orsacchiotta obbediente come l’avessero all’improvviso colpita, lontana, mangiando a capo chino le zollette di zucchero, guardandolo pagare e alzarsi e darle lo zaino e baciarle i capelli e voltarle le spalle e perdersi in un furioso cambio di marce, cinquanta, ottanta, cento-dieci, la strada aperta per i rappresentanti di materiali prefabbricati, la strada senza Copenaghen e piena solo di velieri marci nelle cunette, di impieghi sempre meglio pagati, del mormorio porteno del Rubì, dell’ombra del platano solitario nella curva, del tronco dove si incrostò a centosessanta con la faccia nel volante come Lina aveva chinato la sua, perché così la chinano le orsacchiotte per mangiare lo zucchero.
Note
1 Allusione al film La notte dei morti viventi (1968) di George A. Romero.
Le fasi di Severo
In memoriam Remedios Varo
Tutto stava come in quiete, come in un certo senso congelato nel suo proprio movimento, odore e forma che tali continuavano a essere cambiando con il fumo e la conversazione sottovoce fra sigarette e bicchieri. Il Bebe Pessoa aveva già dato la cosa per sicura, la sorella di Severo cuciva le quattro monete agli angoli del fazzoletto per quando in Severo fosse sopraggiunto il sonno. Non eravamo in molti, ma di colpo una casa diventa piccola, bastano due frasi per costruire il cubo trasparente di due o tre secondi di sospensione, e in momenti simili anche altri oltre a me dovevano sentire che tutto quel che stava succedendo, per quanto inevitabile fosse, ci colpiva e feriva per Severo, la moglie di Severo e gli amici di tanti anni.
Alle undici di sera circa eravamo arrivati con Ignacio, il Bebe Pessoa e mio fratello Carlos. Eravamo un po’ di famiglia, soprattutto Ignacio che lavorava nello stesso ufficio di Severo, ed entrammo senza che si accorgessero molto di noi. Il figlio maggiore di Severo ci invitò a passare nella camera da letto, ma Ignacio disse che era meglio aspettare un attimo nella camera da pranzo; c’era gente dappertutto in quella casa, amici o parenti che come noi non volevano dare troppo disturbo e che via via andavano a sedere in un angolo o si riunivano attorno a un tavolo o vicino a una credenza per chiacchierare o guardarsi. Ogni tanto i figli o la sorella di Severo portavano del caffè e della grappa, e quasi sempre in quei momenti tutto tornava in quiete come se si fosse congelato nel suo proprio movimento e nel ricordo cominciava ad aleggiare la frase idiota: «Passa un angelo», ma anche se dopo io avessi fatto qualche commento a proposito di quel che aveva detto il negro Acosta a Palermo, o Ignacio avesse accarezzato i capelli crespi del figlio minore di Severo, tutti sentivamo che nel profondo l'immobilità era la medesima, che stavamo come aspettando cose già accadute o che tutto ciò che poteva accadere era forse un’altra cosa o niente, come nei sogni, anche se eravamo svegli e di quando in quando, senza volerlo, udivamo il pianto della moglie di Severo, quasi timido in un angolo della sala dove credo le tenessero compagnia alcuni parenti più stretti.
In questi casi uno dimentica l'ora, o come disse ridendo il Bebe Pessoa, capita il contrario ed è l’ora che dimentica uno, ma a un certo momento venne il fratello di Severo per dire che stava cominciando il sudore, e schiacciammo i mozziconi delle sigarette e cominciammo ad entrare uno alla volta nella camera da letto dove stavamo quasi tutti perché i familiari avevano tolto i mobili e non c’erano che il letto e un comodino. Severo era seduto sul letto, sostenuto dai cuscini, e ai piedi aveva una coperta di stoffa leggera turchina e un asciugamano celeste. Non v’era alcuna necessità di stare zitti e i fratelli di Severo ci invitavano con gesti cordiali (tutti gran brave persone) ad avvicinarci al letto, ad attorniare Severo che teneva le mani incrociate sulle ginocchia. Persino il figlio minore, così piccolo, ora era accanto al letto e guardava il padre con faccia assonnata.
La fase del sudore era sgradevole perché alla fine occorreva cambiare le lenzuola e il pigiama, persino i cuscini ne erano intrisi e pesavano come enormi lacrime. A differenza di altri che secondo Ignacio avevano la tendenza a spazientirsi, Severo si manteneva immobile, senza neppure guardarci, e quasi subito il sudore gli ricopriva la faccia e le mani. Le sue ginocchia si disegnavano simili a due macchie scure, e sebbene sua sorella gli tergesse continuamente il sudore dalle guance, la traspirazione riprendeva nuovamente e cadeva sul lenzuolo.
- Bisogna veramente dire che tutto fila liscio, - insistette Ignacio rimasto vicino alla porta. - Sarebbe peggio se si muovesse, le lenzuola si appiccicano da far paura.
- Papà è un uomo tranquillo, - disse il figlio maggiore di Severo. - Non è di quelli che dànno fastidi.
- Adesso finisce, - disse la moglie di Severo, entrata alla fine portando un pigiama pulito e un paio di lenzuola. Penso che tutti l’ammirammo moltissimo in quel momento, perché sapevamo che poco prima piangeva e invece ora era capace di accudire al marito con volto tranquillo e sereno, persino energico. Suppongo che qualche parente disse frasi di incoraggiamento a Severo, io mi trovavo di nuovo nell’ingresso e la figlia minore mi offriva una tazza di caffè, Mi sarebbe piaciuto intrattenerla per distrarla, ma altri stavano già entrando e Manuelita è un po’ timida, magari pensa che mi interessi a lei, perciò preferisco mantenermi neutrale. Invece il Bebe Pessoa è di quelli che vanno e vengono per casa e fra la gente, e lui, Ignacio e il fratello di Severo avevano già formato gruppo con alcune cugine e le loro amiche, parlando di preparare un mate amaro che a quell'ora era quel che ci voleva per aiutare la digestione. Risultò però impossibile, in uno di quei momenti in cui ci ritrovavamo immobili (insisto che nulla cambiava, continuavamo a gesticolare o a parlare ma era esattamente così e bisogna pur trovare un modo di dire che cosa accadeva e trovare una ragione o un nome), il fratello di Severo arrivò con una lampada ad acetilene e dalla porta ci annunciò che stava per cominciare la fase dei salti. Ignacio bevette il caffè d’un fiato e disse che quella sera tutto pareva andare più in fretta; fu di quelli che si sistemarono vicino al letto, con la moglie di Severo e il figlio minore che rideva perché la mano destra di Severo oscillava come un metronomo. La moglie gli aveva fatto indossare un pigiama bianco e il letto era di nuovo impeccabile; sentimmo il profumo dell’acqua di colonia e il Bebe fece un gesto di ammirazione verso Manuelita perché, credo, era stata un’idea sua quella dell’acqua di colonia. Severo fece il primo salto e ricadde seduto sul bordo del letto guardando sua sorella che lo incoraggiava con un sorriso un po’ stupido e di circostanza. Perché poi, pensai io che amo le cose chiare e nette; e cosa poteva importare a Severo che la sorella lo incoraggiasse o meno.
I salti si succedevano ritmicamente: seduto sul bordo del letto, seduto contro la testiera, seduto sul bordo opposto, in piedi nel bel mezzo del letto, in piedi sul pavimento fra Ignacio e il Bebe, accovacciato per terra fra sua moglie e suo fratello, seduto nell’angolo della porta, in piedi al centro della stanza, sempre fra due amici o due parenti, cadendo esattamente nel vuoto fra le due persone mentre nessuno si muoveva e solo gli occhi lo seguivano continuamente, in piedi contro la testiera, accucciato nel bel mezzo del letto, seduto $ul bordo del letto, fermo fra Ignacio e Manuelita, in ginocchio fra il figlio minore e me, seduto ai piedi del letto. Quando la moglie di Severo annunciò la fine della fase, tutti cominciarono a parlare contemporaneamente e a rallegrarsi con Severo, che appariva un po’ stranito; non ricordo più chi lo riaccompagnò a letto perché stavamo uscendo tutti insieme commentando la fase e cercando qualcosa da bere per calmare la sete, e io andai con il Bebe nel patio a respirare l’aria della notte e a bere una birra direttamente dalla bottiglia.
Nella fase seguente ci fu una sostituzione, ricordo, perché secondo Ignacio doveva essere quella degli orologi e invece udimmo piangere ancora una volta la moglie di Severo nella sala e quasi subito entrò il figlio maggiore per dirci che le tarme cominciavano già ad entrare. Ci guardammo alquanto stupiti io, il Bebe e Ignacio, ma non era escluso che potessero esserci sostituzioni e il Bebe disse le solite cose a proposito dei fattori e del loro ordine; penso che a nessuno piacesse quella sostituzione nelle fasi ma facemmo finta di niente entrando di nuovo e sistemandoci attorno al letto di Severo, che i familiari avevano messo com’era necessario al centro della stanza.
Il fratello di Severo arrivò ultimo con la lampada ad acetilene, spense il lampadario che pendeva dal soffitto e spostò il comodino ai piedi del letto; quando posò la lampada sul comodino facemmo silenzio e non ci muovemmo più, gli occhi su Severo che si era rizzato a metà fra i cuscini e non appariva troppo stanco dalle fasi precedenti. Le tarme cominciarono ad entrare dalla porta, e quelle che si trovavano già sui muri o sul soffitto si unirono alle altre e cominciarono a volteggiare attorno alla lampada ad acetilene. Ad occhi spalancati Severo seguiva il turbinio color cenere che aumentava continuamente, e pareva concentrare tutte le proprie forze in quella contemplazione senza battere ciglia. Una delle tarme (era molto grossa, veramente credo fosse una falena ma in quella fase era invalso l'uso di parlare unicamente di tarme e nessuno avrebbe discusso quella denominazione) si staccò dalle altre e volò verso la faccia di Severo; vedemmo che si appiccicava alla guancia destra e che Severo per un attimo chiudeva gli occhi. Una dopo l’altra le tarme abbandonarono la lampada e volarono da Severo, attaccandosi ai suoi capelli, alla sua bocca e alla sua fronte fino a trasformarlo in una enorme maschera tremolante in cui solo gli occhi erano sempre i suoi e guardavano con ostinazione la lampada ad acetilene attorno alla quale una tarma si era intestardita a girare cercando di entrarvi. Sentii che le dita di Ignacio mi si inchiodavano nell’avambraccio e solo allora mi accorsi che anch’io tremavo e che la mia mano premeva sulla spalla del Bebe. Qualcuno gemette, una donna, probabilmente Manuelita che non sapeva dominarsi quanto gli altri, e in quel medesimo attimo l’ultima tarma volò sulla faccia di Severo, e si perdette nella massa grigia. Gridammo tutti insieme, abbracciandoci e dandoci grandi manate mentre il fratello di Severo correva ad accendere il lampadario che pendeva dal soffitto; una nuvola di tarme cercava pigramente l’uscita e Severo, nuovamente la faccia di Severo, continuava a guardare la lampada ormai inutile e muoveva con cautela la bocca come se temesse di avvelenarsi con la polvere d’argento che gli copriva le labbra.
Non rimasi là perché dovevano lavare Severo e già qualcuno aveva parlato di una bottiglia di grappa in cucina, a parte il fatto che in certi casi è sempre sorprendente come le improvvise ricadute nella normalità, se così si può dire, distraggano e quasi ingannino. Seguii Ignacio che conosceva tutti gli angoli della casa, e ci dedicammo alla grappa con il Bebe e il figlio maggiore di Severo. Mio fratello Carlos si era lasciato cadere su una panca e fumava a testa china, respirando forte; gli portai un bicchiere e bevette la grappa tutta d’un fiato. Il Bebe Pessoa si ostinava a farne bere un sorso a Manuelita, e persino le parlava di film e di corse; io mi servivo una grappa dopo l’altra senza voler pensare ad altro, finché non ne potei più e cercai Ignacio che sembrava aspettarmi a braccia conserte.
- Se l’ultima tarma avesse scelto... - cominciai.
Ignacio fece un lento gesto di diniego con la testa. Certo, inutile farsi domande; per lo meno in quel momento non era il caso di farsi domande; non so se compresi fino in fondo, ma ebbi la sensazione di un gran vuoto, qualcosa come una cripta vuota che in qualche parte della memoria pulsava lentamente con uno sgocciolio di infiltrazioni. Nel gesto di diniego di Ignacio (e di lontano mi era parso che il Bebe Pessoa negasse anche lui con la testa, e che Manuelita ci guardasse con ansia, troppo timida per negare pure lei) v’era come una sospensione del giudizio, un non voler andare oltre; le cose erano così nel loro presente assoluto, esattamente come stavano accadendo. Allora potevamo continuare, e quando la moglie di Severo entrò in cucina per avvisarci che Severo stava per dire i numeri, lasciammo i bicchieri mezzo pieni e ci affrettammo, Manuelita fra il Bebe e me, Ignacio dietro a noi con mio fratello Carlos che arriva sempre tardi ovunque.
I parenti si erano già ammonticchiati nella camera da letto e non restava molto posto per sistemarci. Io ero appena entrato (in quel momento la lampada ad acetilene ardeva sul pavimento, accanto al letto, ma il lampadario era sempre acceso) quando Severo si alzò, si mise le mani nelle tasche del pigiama, e guardando il figlio maggiore disse: «6», guardando la moglie disse: «20», guardando Ignacio disse: «23 », con voce tranquilla e fonda, senza fretta. A sua sorella disse 16, al figlio minore 28, ad altri parenti disse via via i numeri quasi sempre alti, finché a me disse 2 e sentii che il Bebe mi sbirciava e stringeva le labbra, aspettando il suo turno. Ma Severo si mise a dire numeri ad altri parenti e amici, quasi sempre superiori al 5 e senza mai ripeterli. Quasi alla fine al Bebe disse 14, e il Bebe aprì la bocca e sussultò come se gli passasse un gran vento fra le ciglia, si fregò le mani e poi se ne vergognò e le nascose nelle tasche dei calzoni esattamente quando Severo diceva 1 a una donna dalla faccia molto rossa, probabilmente una lontana parente venuta sola e che quasi non aveva rivolto parola a nessuno quella sera, e di colpo il Bebe e Ignacio si guardarono e Manuelita si appoggiò allo stipite della porta e mi sembrò che tremasse, che si dominasse per non gridare. Gli altri non badavano ormai più ai loro numeri, Severo li diceva ma loro avevano cominciato a chiacchierare, persino Manuelita non appena si fu ripresa e fece due passi avanti e le toccò il 9, più nessuno mostrava interesse e i numeri terminarono in un vuoto 24 e un 12 toccati a un parente e a mio fratello Carlos; lo stesso Severo pareva meno concentrato e con l’ultimo numero si gettò indietro e si lasciò coprire dalla moglie, chiudendo gli occhi come uno che si disinteressa di tutto o vuole dimenticare.
- Naturalmente è questione di tempo, - mi disse Ignacio quando uscimmo dalla camera da letto. I numeri in sé non dicono niente, caro mio.
- Credi ? - gli domandai bevendo d’un fiato il bicchiere che mi aveva portato il Bebe.
- Ma certo, vecchio mio, - disse Ignacio. - Pensa che dall' 1 al 2 possono passare anni, magari dieci o venti, poniamo.
- Esatto, - sostenne il Bebe. - Io al posto tuo non me ne farei un problema.
Pensai che mi aveva portato da bere senza che glielo avessi chiesto, disturbandosi ad andare fino in cucina, con tutta quella gente. E a lui era toccato il 14 e ad Ignacio il 23.
- Senza contare gli orologi, - disse mio fratello Carlos che mi si era messo al fianco e mi aveva posato una mano sulla spalla. - Non è una cosa molto comprensibile, ma forse ha la sua importanza. Se ti toccasse di essere indietro...
- Vantaggio addizionale... - disse il Bebe, prendendomi di mano il bicchiere vuoto come se temesse che lo lasciassi cadere.
Eravamo nell’ingresso vicino alla camera da letto, e per questa ragione entrammo fra i primi quando il figlio maggiore di Severo venne a direi che cominciava proprio la fase degli orologi. Mi sembrò che la faccia di Severo rivelasse un’improvvisa stanchezza, ma sua moglie aveva appena finito di pettinarlo e profumarlo con l’acqua di colonia che sempre ispira fiducia. Attorno a me erano mio fratello, Ignacio e il Bebe quasi volessero farmi animo, invece nessuno si curava della parente cui era toccato l’1 e che si era messa ai piedi del letto con la faccia più rossa che mai, con la bocca e le palpebre tremanti. Senza neppure guardarla Severo disse al figlio minore di mettere avanti, e il ragazzino non capi e si mise a ridere ma quasi subito smise perché la madre lo afferrò per un braccio e gli tolse l’orologio dal polso. Sapevamo che era un gesto simbolico, bastava semplicemente mettere avanti o indietro le lancette senza badare al numero delle ore o dei minuti, dato che appena usciti dalla camera avremmo rimesso a posto gli orologi secondo l’ora esatta. Già a molti toccava di mettere avanti o indietro, Severo distribuiva le indicazioni quasi meccanicamente, senza alcun interesse particolare; quando toccò a me mettere indietro, mio fratello nuovamente mi conficcò le dita nella spalla; questa volta gliene fui riconoscente, pensando come il Bebe che poteva essere un vantaggio addizionale anche se non ne ero del tutto sicuro; e anche alla parente dalla faccia rossa toccò mettere indietro, e quella poveretta si asciugava lacrime di riconoscenza, forse completamente inutili in fin dei conti, e usciva nel patio per dar sfogo a un bell’attacco di nervi tra i vasi di fiori; ce ne pervenne l’eco, dopo, in cucina, fra nuovi bicchieri di grappa e rallegramenti di Ignacio e di mio fratello.
- Presto verrà il sonno, - ci disse Manuelita, - la mamma manda a dire che vi prepariate.
Non c’era di che prepararci, tornammo lentamente nella camera da letto, trascinandoci dietro la stanchezza della notte; presto si sarebbe fatto giorno e giorno di lavoro, ci aspettava il lavoro fra le nove e le nove e mezzo; di colpo sentimmo che cominciava a far freddo, la brezza gelata dal patio si infilava nell’atrio ma nella camera da letto le luci e la gente riscaldavano l’aria, quasi non si parlava e bastava guardarci per farci posto l’un l’altro, sistemandoci attorno al letto di Severo dopo aver spento le sigarette. La moglie di Severo era seduta sul letto, gli aggiustava i cuscini, ma si alzò e si mise al capezzale; Severo guardava in alto, ignorandoci guardava il lampadario acceso, senza batter ciglio, con le mani sul ventre, immobile e indifferente guardava senza battere ciglio il lampadario acceso e allora Manuelita si avvicinò al bordo del letto e tutti le vedemmo in mano il fazzoletto con le monete legate ai quattro angoli. Non restava che aspettare, sudando in quel-"l'Tatmosfera chiusa e calda, sentendo contenti l’acqua ai colonia e pensando al momento in cui finalmente avremmo potuto rincasare e fumare chiacchierando per strada, discutendo o non discutendo i fatti di quella notte, probabilmente non discutendone ma fumando fino all’ultimo saluto. Quando le palpebre di Severo cominciarono ad abbassarsi lentamente, cancellandogli a poco a poco l’immagine del lampadario acceso, sentii vicino all’orecchio il respiro affannoso del Bebe Pessoa. All’improvviso un cambiamento, un rilassamento, lo sentivamo quasi fossimo un solo corpo di innumerevoli gambe e mani e teste che si rilassasse di colpo, comprendendo che era finito tutto, il sonno di Severo aveva inizio, e il gesto di Manuelita nel chinarsi sul padre e coprirgli la faccia con il fazzoletto, disponendo i quattro angoli in modo che lo sostenessero naturalmente, senza pieghe né spazi scoperti, era contemporaneamente quel sospiro trattenuto che tutti ci avvolgeva, ci copriva tutti con quello stesso fazzoletto.
- E adesso dormirà, - disse la moglie di Severo. - Si è già addormentato, guardate.
I fratelli di Severo si erano posati un dito sulle labbra ma era gesto superfluo, nessuno avrebbe pronunciato una parola, cominciavamo a muoverci in punta di piedi, appoggiandoci l’uno all’altro per uscire senza far rumore. Alcuni guardavano ancora indietro il fazzoletto sulla faccia di Severo, come se volessero accertarsi che Severo si fosse addormentato. Sentii contro la mia mano destra capelli crespi e duri, era il figlio minore di Severo che un parente aveva tenuto vicino a sé perché non si muovesse né parlasse, e che adesso si era messo al mio fianco, giocando a camminare in punta di piedi e guardandomi dal basso con occhi interrogativi e stanchi. Gli feci una carezza sul mento, sulle guance, tenendolo accanto a me uscii nell’ingresso e nel patio, fra Ignacio e il Bebe che già stavano tirando fuori i pacchetti delle sigarette; il grigio dell’alba con un gallo laggiù lontano stava restituendo ciascuno di noi alla propria vita, al futuro già installato in quel grigio e in quel freddo, orribilmente bello. Pensai che la moglie di Severo e Manuelita (forse i fratelli e il figlio maggiore) erano rimasti nella casa a vegliare il sonno di Severo, ma noi stavamo già per uscire in strada, lasciavamo dietro a noi la cucina e il patio.
- Non giocate più? - mi domandò il figlio di Severo, cadendo dal sonno ma con l’ostinazione di tutti i ragazzini.
- No, ora bisogna andare a dormire, - gli dissi. - La mamma ti metterà a letto, va’ dentro che fa freddo.
- Era un gioco, vero Julio ?
- Sì caro, un gioco. Vai a dormire, ora.
Con Ignacio, il Bebe e mio fratello arrivai al primo angolo della strada, accendemmo un’altra sigaretta senza parlare molto. Altri si erano già allontanati, alcuni erano ancora fermi davanti alla porta della casa, consultandosi su tram e tassi; noi conoscevamo bene quel quartiere, potevamo proseguire insieme per alcuni isolati, poi il Bebe e mio fratello sarebbero andati a sinistra, Ignacio avrebbe proseguito per qualche isolato ancora e io sarei salito nella mia stanza e avrei potuto prepararmi un mate caldo, tutto sommato non valeva la pena di coricarsi per così poco tempo, meglio mLe fasi di Severo
In memoriam Remedios Varo
Tutto stava come in quiete, come in un certo senso congelato nel suo proprio movimento, odore e forma che tali continuavano a essere cambiando con il fumo e la conversazione sottovoce fra sigarette e bicchieri. Il Bebe Pessoa aveva già dato la cosa per sicura, la sorella di Severo cuciva le quattro monete agli angoli del fazzoletto per quando in Severo fosse sopraggiunto il sonno. Non eravamo in molti, ma di colpo una casa diventa piccola, bastano due frasi per costruire il cubo trasparente di due o tre secondi di sospensione, e in momenti simili anche altri oltre a me dovevano sentire che tutto quel che stava succedendo, per quanto inevitabile fosse, ci colpiva e feriva per Severo, la moglie di Severo e gli amici di tanti anni.
Alle undici di sera circa eravamo arrivati con Ignacio, il Bebe Pessoa e mio fratello Carlos. Eravamo un po’ di famiglia, soprattutto Ignacio che lavorava nello stesso ufficio di Severo, ed entrammo senza che si accorgessero molto di noi. Il figlio maggiore di Severo ci invitò a passare nella camera da letto, ma Ignacio disse che era meglio aspettare un attimo nella camera da pranzo; c’era gente dappertutto in quella casa, amici o parenti che come noi non volevano dare troppo disturbo e che via via andavano a sedere in un angolo o si riunivano attorno a un tavolo o vicino a una credenza per chiacchierare o guardarsi. Ogni tanto i figli o la sorella di Severo portavano del caffè e della grappa, e quasi sempre in quei momenti tutto tornava in quiete come se si fosse congelato nel suo proprio movimento e nel ricordo cominciava ad aleggiare la frase idiota: «Passa un angelo», ma anche se dopo io avessi fatto qualche commento a proposito di quel che aveva detto il negro Acosta a Palermo, o Ignacio avesse accarezzato i capelli crespi del figlio minore di Severo, tutti sentivamo che nel profondo l'immobilità era la medesima, che stavamo come aspettando cose già accadute o che tutto ciò che poteva accadere era forse un’altra cosa o niente, come nei sogni, anche se eravamo svegli e di quando in quando, senza volerlo, udivamo il pianto della moglie di Severo, quasi timido in un angolo della sala dove credo le tenessero compagnia alcuni parenti più stretti.
In questi casi uno dimentica l'ora, o come disse ridendo il Bebe Pessoa, capita il contrario ed è l’ora che dimentica uno, ma a un certo momento venne il fratello di Severo per dire che stava cominciando il sudore, e schiacciammo i mozziconi delle sigarette e cominciammo ad entrare uno alla volta nella camera da letto dove stavamo quasi tutti perché i familiari avevano tolto i mobili e non c’erano che il letto e un comodino. Severo era seduto sul letto, sostenuto dai cuscini, e ai piedi aveva una coperta di stoffa leggera turchina e un asciugamano celeste. Non v’era alcuna necessità di stare zitti e i fratelli di Severo ci invitavano con gesti cordiali (tutti gran brave persone) ad avvicinarci al letto, ad attorniare Severo che teneva le mani incrociate sulle ginocchia. Persino il figlio minore, così piccolo, ora era accanto al letto e guardava il padre con faccia assonnata.
La fase del sudore era sgradevole perché alla fine occorreva cambiare le lenzuola e il pigiama, persino i cuscini ne erano intrisi e pesavano come enormi lacrime. A differenza di altri che secondo Ignacio avevano la tendenza a spazientirsi, Severo si manteneva immobile, senza neppure guardarci, e quasi subito il sudore gli ricopriva la faccia e le mani. Le sue ginocchia si disegnavano simili a due macchie scure, e sebbene sua sorella gli tergesse continuamente il sudore dalle guance, la traspirazione riprendeva nuovamente e cadeva sul lenzuolo.
- Bisogna veramente dire che tutto fila liscio, - insistette Ignacio rimasto vicino alla porta. - Sarebbe peggio se si muovesse, le lenzuola si appiccicano da far paura.
- Papà è un uomo tranquillo, - disse il figlio maggiore di Severo. - Non è di quelli che dànno fastidi.
- Adesso finisce, - disse la moglie di Severo, entrata alla fine portando un pigiama pulito e un paio di lenzuola. Penso che tutti l’ammirammo moltissimo in quel momento, perché sapevamo che poco prima piangeva e invece ora era capace di accudire al marito con volto tranquillo e sereno, persino energico. Suppongo che qualche parente disse frasi di incoraggiamento a Severo, io mi trovavo di nuovo nell’ingresso e la figlia minore mi offriva una tazza di caffè, Mi sarebbe piaciuto intrattenerla per distrarla, ma altri stavano già entrando e Manuelita è un po’ timida, magari pensa che mi interessi a lei, perciò preferisco mantenermi neutrale. Invece il Bebe Pessoa è di quelli che vanno e vengono per casa e fra la gente, e lui, Ignacio e il fratello di Severo avevano già formato gruppo con alcune cugine e le loro amiche, parlando di preparare un mate amaro che a quell'ora era quel che ci voleva per aiutare la digestione. Risultò però impossibile, in uno di quei momenti in cui ci ritrovavamo immobili (insisto che nulla cambiava, continuavamo a gesticolare o a parlare ma era esattamente così e bisogna pur trovare un modo di dire che cosa accadeva e trovare una ragione o un nome), il fratello di Severo arrivò con una lampada ad acetilene e dalla porta ci annunciò che stava per cominciare la fase dei salti. Ignacio bevette il caffè d’un fiato e disse che quella sera tutto pareva andare più in fretta; fu di quelli che si sistemarono vicino al letto, con la moglie di Severo e il figlio minore che rideva perché la mano destra di Severo oscillava come un metronomo. La moglie gli aveva fatto indossare un pigiama bianco e il letto era di nuovo impeccabile; sentimmo il profumo dell’acqua di colonia e il Bebe fece un gesto di ammirazione verso Manuelita perché, credo, era stata un’idea sua quella dell’acqua di colonia. Severo fece il primo salto e ricadde seduto sul bordo del letto guardando sua sorella che lo incoraggiava con un sorriso un po’ stupido e di circostanza. Perché poi, pensai io che amo le cose chiare e nette; e cosa poteva importare a Severo che la sorella lo incoraggiasse o meno.
I salti si succedevano ritmicamente: seduto sul bordo del letto, seduto contro la testiera, seduto sul bordo opposto, in piedi nel bel mezzo del letto, in piedi sul pavimento fra Ignacio e il Bebe, accovacciato per terra fra sua moglie e suo fratello, seduto nell’angolo della porta, in piedi al centro della stanza, sempre fra due amici o due parenti, cadendo esattamente nel vuoto fra le due persone mentre nessuno si muoveva e solo gli occhi lo seguivano continuamente, in piedi contro la testiera, accucciato nel bel mezzo del letto, seduto $ul bordo del letto, fermo fra Ignacio e Manuelita, in ginocchio fra il figlio minore e me, seduto ai piedi del letto. Quando la moglie di Severo annunciò la fine della fase, tutti cominciarono a parlare contemporaneamente e a rallegrarsi con Severo, che appariva un po’ stranito; non ricordo più chi lo riaccompagnò a letto perché stavamo uscendo tutti insieme commentando la fase e cercando qualcosa da bere per calmare la sete, e io andai con il Bebe nel patio a respirare l’aria della notte e a bere una birra direttamente dalla bottiglia.
Nella fase seguente ci fu una sostituzione, ricordo, perché secondo Ignacio doveva essere quella degli orologi e invece udimmo piangere ancora una volta la moglie di Severo nella sala e quasi subito entrò il figlio maggiore per dirci che le tarme cominciavano già ad entrare. Ci guardammo alquanto stupiti io, il Bebe e Ignacio, ma non era escluso che potessero esserci sostituzioni e il Bebe disse le solite cose a proposito dei fattori e del loro ordine; penso che a nessuno piacesse quella sostituzione nelle fasi ma facemmo finta di niente entrando di nuovo e sistemandoci attorno al letto di Severo, che i familiari avevano messo com’era necessario al centro della stanza.
Il fratello di Severo arrivò ultimo con la lampada ad acetilene, spense il lampadario che pendeva dal soffitto e spostò il comodino ai piedi del letto; quando posò la lampada sul comodino facemmo silenzio e non ci muovemmo più, gli occhi su Severo che si era rizzato a metà fra i cuscini e non appariva troppo stanco dalle fasi precedenti. Le tarme cominciarono ad entrare dalla porta, e quelle che si trovavano già sui muri o sul soffitto si unirono alle altre e cominciarono a volteggiare attorno alla lampada ad acetilene. Ad occhi spalancati Severo seguiva il turbinio color cenere che aumentava continuamente, e pareva concentrare tutte le proprie forze in quella contemplazione senza battere ciglia. Una delle tarme (era molto grossa, veramente credo fosse una falena ma in quella fase era invalso l'uso di parlare unicamente di tarme e nessuno avrebbe discusso quella denominazione) si staccò dalle altre e volò verso la faccia di Severo; vedemmo che si appiccicava alla guancia destra e che Severo per un attimo chiudeva gli occhi. Una dopo l’altra le tarme abbandonarono la lampada e volarono da Severo, attaccandosi ai suoi capelli, alla sua bocca e alla sua fronte fino a trasformarlo in una enorme maschera tremolante in cui solo gli occhi erano sempre i suoi e guardavano con ostinazione la lampada ad acetilene attorno alla quale una tarma si era intestardita a girare cercando di entrarvi. Sentii che le dita di Ignacio mi si inchiodavano nell’avambraccio e solo allora mi accorsi che anch’io tremavo e che la mia mano premeva sulla spalla del Bebe. Qualcuno gemette, una donna, probabilmente Manuelita che non sapeva dominarsi quanto gli altri, e in quel medesimo attimo l’ultima tarma volò sulla faccia di Severo, e si perdette nella massa grigia. Gridammo tutti insieme, abbracciandoci e dandoci grandi manate mentre il fratello di Severo correva ad accendere il lampadario che pendeva dal soffitto; una nuvola di tarme cercava pigramente l’uscita e Severo, nuovamente la faccia di Severo, continuava a guardare la lampada ormai inutile e muoveva con cautela la bocca come se temesse di avvelenarsi con la polvere d’argento che gli copriva le labbra.
Non rimasi là perché dovevano lavare Severo e già qualcuno aveva parlato di una bottiglia di grappa in cucina, a parte il fatto che in certi casi è sempre sorprendente come le improvvise ricadute nella normalità, se così si può dire, distraggano e quasi ingannino. Seguii Ignacio che conosceva tutti gli angoli della casa, e ci dedicammo alla grappa con il Bebe e il figlio maggiore di Severo. Mio fratello Carlos si era lasciato cadere su una panca e fumava a testa china, respirando forte; gli portai un bicchiere e bevette la grappa tutta d’un fiato. Il Bebe Pessoa si ostinava a farne bere un sorso a Manuelita, e persino le parlava di film e di corse; io mi servivo una grappa dopo l’altra senza voler pensare ad altro, finché non ne potei più e cercai Ignacio che sembrava aspettarmi a braccia conserte.
- Se l’ultima tarma avesse scelto... - cominciai.
Ignacio fece un lento gesto di diniego con la testa. Certo, inutile farsi domande; per lo meno in quel momento non era il caso di farsi domande; non so se compresi fino in fondo, ma ebbi la sensazione di un gran vuoto, qualcosa come una cripta vuota che in qualche parte della memoria pulsava lentamente con uno sgocciolio di infiltrazioni. Nel gesto di diniego di Ignacio (e di lontano mi era parso che il Bebe Pessoa negasse anche lui con la testa, e che Manuelita ci guardasse con ansia, troppo timida per negare pure lei) v’era come una sospensione del giudizio, un non voler andare oltre; le cose erano così nel loro presente assoluto, esattamente come stavano accadendo. Allora potevamo continuare, e quando la moglie di Severo entrò in cucina per avvisarci che Severo stava per dire i numeri, lasciammo i bicchieri mezzo pieni e ci affrettammo, Manuelita fra il Bebe e me, Ignacio dietro a noi con mio fratello Carlos che arriva sempre tardi ovunque.
I parenti si erano già ammonticchiati nella camera da letto e non restava molto posto per sistemarci. Io ero appena entrato (in quel momento la lampada ad acetilene ardeva sul pavimento, accanto al letto, ma il lampadario era sempre acceso) quando Severo si alzò, si mise le mani nelle tasche del pigiama, e guardando il figlio maggiore disse: «6», guardando la moglie disse: «20», guardando Ignacio disse: «23 », con voce tranquilla e fonda, senza fretta. A sua sorella disse 16, al figlio minore 28, ad altri parenti disse via via i numeri quasi sempre alti, finché a me disse 2 e sentii che il Bebe mi sbirciava e stringeva le labbra, aspettando il suo turno. Ma Severo si mise a dire numeri ad altri parenti e amici, quasi sempre superiori al 5 e senza mai ripeterli. Quasi alla fine al Bebe disse 14, e il Bebe aprì la bocca e sussultò come se gli passasse un gran vento fra le ciglia, si fregò le mani e poi se ne vergognò e le nascose nelle tasche dei calzoni esattamente quando Severo diceva 1 a una donna dalla faccia molto rossa, probabilmente una lontana parente venuta sola e che quasi non aveva rivolto parola a nessuno quella sera, e di colpo il Bebe e Ignacio si guardarono e Manuelita si appoggiò allo stipite della porta e mi sembrò che tremasse, che si dominasse per non gridare. Gli altri non badavano ormai più ai loro numeri, Severo li diceva ma loro avevano cominciato a chiacchierare, persino Manuelita non appena si fu ripresa e fece due passi avanti e le toccò il 9, più nessuno mostrava interesse e i numeri terminarono in un vuoto 24 e un 12 toccati a un parente e a mio fratello Carlos; lo stesso Severo pareva meno concentrato e con l’ultimo numero si gettò indietro e si lasciò coprire dalla moglie, chiudendo gli occhi come uno che si disinteressa di tutto o vuole dimenticare.
- Naturalmente è questione di tempo, - mi disse Ignacio quando uscimmo dalla camera da letto. I numeri in sé non dicono niente, caro mio.
- Credi ? - gli domandai bevendo d’un fiato il bicchiere che mi aveva portato il Bebe.
- Ma certo, vecchio mio, - disse Ignacio. - Pensa che dall' 1 al 2 possono passare anni, magari dieci o venti, poniamo.
- Esatto, - sostenne il Bebe. - Io al posto tuo non me ne farei un problema.
Pensai che mi aveva portato da bere senza che glielo avessi chiesto, disturbandosi ad andare fino in cucina, con tutta quella gente. E a lui era toccato il 14 e ad Ignacio il 23.
- Senza contare gli orologi, - disse mio fratello Carlos che mi si era messo al fianco e mi aveva posato una mano sulla spalla. - Non è una cosa molto comprensibile, ma forse ha la sua importanza. Se ti toccasse di essere indietro...
- Vantaggio addizionale... - disse il Bebe, prendendomi di mano il bicchiere vuoto come se temesse che lo lasciassi cadere.
Eravamo nell’ingresso vicino alla camera da letto, e per questa ragione entrammo fra i primi quando il figlio maggiore di Severo venne a direi che cominciava proprio la fase degli orologi. Mi sembrò che la faccia di Severo rivelasse un’improvvisa stanchezza, ma sua moglie aveva appena finito di pettinarlo e profumarlo con l’acqua di colonia che sempre ispira fiducia. Attorno a me erano mio fratello, Ignacio e il Bebe quasi volessero farmi animo, invece nessuno si curava della parente cui era toccato l’1 e che si era messa ai piedi del letto con la faccia più rossa che mai, con la bocca e le palpebre tremanti. Senza neppure guardarla Severo disse al figlio minore di mettere avanti, e il ragazzino non capi e si mise a ridere ma quasi subito smise perché la madre lo afferrò per un braccio e gli tolse l’orologio dal polso. Sapevamo che era un gesto simbolico, bastava semplicemente mettere avanti o indietro le lancette senza badare al numero delle ore o dei minuti, dato che appena usciti dalla camera avremmo rimesso a posto gli orologi secondo l’ora esatta. Già a molti toccava di mettere avanti o indietro, Severo distribuiva le indicazioni quasi meccanicamente, senza alcun interesse particolare; quando toccò a me mettere indietro, mio fratello nuovamente mi conficcò le dita nella spalla; questa volta gliene fui riconoscente, pensando come il Bebe che poteva essere un vantaggio addizionale anche se non ne ero del tutto sicuro; e anche alla parente dalla faccia rossa toccò mettere indietro, e quella poveretta si asciugava lacrime di riconoscenza, forse completamente inutili in fin dei conti, e usciva nel patio per dar sfogo a un bell’attacco di nervi tra i vasi di fiori; ce ne pervenne l’eco, dopo, in cucina, fra nuovi bicchieri di grappa e rallegramenti di Ignacio e di mio fratello.
- Presto verrà il sonno, - ci disse Manuelita, - la mamma manda a dire che vi prepariate.
Non c’era di che prepararci, tornammo lentamente nella camera da letto, trascinandoci dietro la stanchezza della notte; presto si sarebbe fatto giorno e giorno di lavoro, ci aspettava il lavoro fra le nove e le nove e mezzo; di colpo sentimmo che cominciava a far freddo, la brezza gelata dal patio si infilava nell’atrio ma nella camera da letto le luci e la gente riscaldavano l’aria, quasi non si parlava e bastava guardarci per farci posto l’un l’altro, sistemandoci attorno al letto di Severo dopo aver spento le sigarette. La moglie di Severo era seduta sul letto, gli aggiustava i cuscini, ma si alzò e si mise al capezzale; Severo guardava in alto, ignorandoci guardava il lampadario acceso, senza batter ciglio, con le mani sul ventre, immobile e indifferente guardava senza battere ciglio il lampadario acceso e allora Manuelita si avvicinò al bordo del letto e tutti le vedemmo in mano il fazzoletto con le monete legate ai quattro angoli. Non restava che aspettare, sudando in quel-"l'Tatmosfera chiusa e calda, sentendo contenti l’acqua ai colonia e pensando al momento in cui finalmente avremmo potuto rincasare e fumare chiacchierando per strada, discutendo o non discutendo i fatti di quella notte, probabilmente non discutendone ma fumando fino all’ultimo saluto. Quando le palpebre di Severo cominciarono ad abbassarsi lentamente, cancellandogli a poco a poco l’immagine del lampadario acceso, sentii vicino all’orecchio il respiro affannoso del Bebe Pessoa. All’improvviso un cambiamento, un rilassamento, lo sentivamo quasi fossimo un solo corpo di innumerevoli gambe e mani e teste che si rilassasse di colpo, comprendendo che era finito tutto, il sonno di Severo aveva inizio, e il gesto di Manuelita nel chinarsi sul padre e coprirgli la faccia con il fazzoletto, disponendo i quattro angoli in modo che lo sostenessero naturalmente, senza pieghe né spazi scoperti, era contemporaneamente quel sospiro trattenuto che tutti ci avvolgeva, ci copriva tutti con quello stesso fazzoletto.
- E adesso dormirà, - disse la moglie di Severo. - Si è già addormentato, guardate.
I fratelli di Severo si erano posati un dito sulle labbra ma era gesto superfluo, nessuno avrebbe pronunciato una parola, cominciavamo a muoverci in punta di piedi, appoggiandoci l’uno all’altro per uscire senza far rumore. Alcuni guardavano ancora indietro il fazzoletto sulla faccia di Severo, come se volessero accertarsi che Severo si fosse addormentato. Sentii contro la mia mano destra capelli crespi e duri, era il figlio minore di Severo che un parente aveva tenuto vicino a sé perché non si muovesse né parlasse, e che adesso si era messo al mio fianco, giocando a camminare in punta di piedi e guardandomi dal basso con occhi interrogativi e stanchi. Gli feci una carezza sul mento, sulle guance, tenendolo accanto a me uscii nell’ingresso e nel patio, fra Ignacio e il Bebe che già stavano tirando fuori i pacchetti delle sigarette; il grigio dell’alba con un gallo laggiù lontano stava restituendo ciascuno di noi alla propria vita, al futuro già installato in quel grigio e in quel freddo, orribilmente bello. Pensai che la moglie di Severo e Manuelita (forse i fratelli e il figlio maggiore) erano rimasti nella casa a vegliare il sonno di Severo, ma noi stavamo già per uscire in strada, lasciavamo dietro a noi la cucina e il patio.
- Non giocate più? - mi domandò il figlio di Severo, cadendo dal sonno ma con l’ostinazione di tutti i ragazzini.
- No, ora bisogna andare a dormire, - gli dissi. - La mamma ti metterà a letto, va’ dentro che fa freddo.
- Era un gioco, vero Julio ?
- Sì caro, un gioco. Vai a dormire, ora.
Con Ignacio, il Bebe e mio fratello arrivai al primo angolo della strada, accendemmo un’altra sigaretta senza parlare molto. Altri si erano già allontanati, alcuni erano ancora fermi davanti alla porta della casa, consultandosi su tram e tassi; noi conoscevamo bene quel quartiere, potevamo proseguire insieme per alcuni isolati, poi il Bebe e mio fratello sarebbero andati a sinistra, Ignacio avrebbe proseguito per qualche isolato ancora e io sarei salito nella mia stanza e avrei potuto prepararmi un mate caldo, tutto sommato non valeva la pena di coricarsi per così poco tempo, meglio mettersi le pantofole e fumare e prendere il mate, tutte cose che aiutano.ettersi le pantofole e fumare e prendere il mate, tutte cose che aiutano.
Collo di gattino nero
D’altra parte non era la prima volta che gli capitava, comunque era sempre stato Lucho a prendere l'iniziativa, posando la mano come distrattamente per sfiorare quella di una ragazza bionda o rossa che gli andava, approfittando degli scossoni in curva del metro, e allora arrivava la risposta, l’aggancio, un ditino restava impigliato un momento prima dell’espressione di fastidio e di sdegno, tutto dipendeva da molte cose, qualche volta tutto filava liscio, il resto rientrava nel gioco come via via entravano le stazioni nei finestrini del vagone, ma quella sera era diverso, per prima cosa il fatto che Lucho era gelato e con i capelli pieni di neve che si era sciolta sulla banchina e che gli stava entrando in fredde gocce nella sciarpa, aveva preso il metro alla stazione di Rue du Bac senza pensare a niente, un corpo stretto a tanti altri aspettando che a un certo punto si arrivasse alla stufa, al bicchiere di cognac, alla lettura del giornale prima di mettersi a studiare il tedesco fra le sette e mezzo e le nove, dunque tutto come sempre eccetto quel guantino nero sulla sbarra di sostegno, fra mucchi di mani e gomiti e cappotti un guantino nero aggrappato alla sbarra metallica e lui con il suo guanto marrone bagnato fermo sulla sbarra per non finire addosso alla donna dei pacchetti e alla bambina piagnucolante, di colpo la coscienza che un dito piccolino stava salendo come a cavallo sul suo guanto, e che ciò proveniva da una manica di pelle di coniglio piuttosto logora, la mulatta sembrava molto giovane e guardava in giù come se fosse estranea a tutto, semplicemente un dondolio in più fra il dondolio di tanti corpi pigiati; a Lucho era parso uno sviamento dalla regola piuttosto divertente, e non mosse la mano, senza rispondere, immaginando che la ragazza fosse distratta, che non si fosse accorta di quel lieve cavalcare sulla groppa bagnata e quieta. Gli sarebbe piaciuto avere spazio sufficiente per prendere il giornale dalla tasca e leggere i titoli con le notizie sul Biafra, Israele e gli Studenti di La Piata, ma il giornale si trovava nella tasca destra e per prenderlo avrebbe dovuto staccare la mano dalla sbarra, perdendo così il necessario appoggio nelle curve, ragion per cui era meglio mantenersi immobile e creare un piccolo spazio precario fra cappotti e pacchi affinché la bambina fosse meno triste e la madre non continuasse a parlarle con quel tono da esattore del fisco.
Quasi non aveva guardato la ragazza mulatta. Solo ora le sospettò il ciuffo di capelli crespi sotto il cappuccio del cappotto e pensò criticamente che con il caldo che faceva nel vagone avrebbe ben potuto buttare indietro il cappuccio, esattamente quando il dito gli accarezzava di nuovo il guanto, prima un dito e poi due che si arrampicavano sul cavallo umido. La curva prima di Montparnasse-Bienvenue spinse la ragazza contro Lucho, la sua mano scivolò dal cavallo per stringersi alla sbarra, così piccola e così sciocchina accanto al gran cavallo che naturalmente le faceva adesso il solletico con il piccolo muso, due dita, senza forzare, divertito e ancora lontano e umido. La ragazza parve accorgersene di colpo (ma anche la sua distrazione, prima, aveva avuto qualcosa di repentino e brusco), e allontanò un po’ di più la mano, guardando Lucho dal buco buio del cappuccio per poi fissarsi sulla propria mano come se non fosse d’accordo o studiasse le distanze della buona educazione. Molta gente era scesa a Montparnasse-Bienvenue e Lucho adesso poteva prendere il giornale, solo che invece di prenderlo rimase a studiare il comportamento della manina inguantata con attenzione un po’ burlona, senza guardare la ragazza che di nuovo teneva gli occhi fissi sulle scarpe ora ben visibili sul pavimento sporco dove improvvisamente era venuta a mancare la bambina piagnucolona e tanta altra gente che stava scendendo a Falguière. Lo strattone della partenza obbligò i due guanti a contrarsi sulla sbarra, separati e agendo per conto proprio, ma il treno era fermo alla stazione Pasteur quando le dita di Lucho cercarono il guanto nero che non si ritirò come la prima volta, ma parve allentarsi sulla sbarra, diventare ancora più piccolo e morbido alla pressione di due, di tre dita, di tutta la mano che saliva in un lento possesso delicato, senza premere troppo, prendendo e lasciando nello stesso tempo, e nel vagone quasi vuoto ora che si aprivano le porte sulla stazione Volontaires, la ragazza girando poco a poco su un piede si mise di fronte a Lucho senza alzare la faccia, quasi guardandolo dal guantino coperto da tutta la mano di Lucho, e quando finalmente lo guardò, scossi entrambi da un sobbalzo fra Volontaires e Vaugirard, i suoi grandi occhi immersi nell’ombra del cappuccio stavano li in attesa, fissi e gravi, senza alcun sorriso o rimprovero, senza altra cosa che una interminabile speranza che vagamente fece male a Lucho.
- Sempre così, - disse la ragazza. - Niente da fare con loro.
- Ah, - disse Lucho, accettando il gioco ma domandandosi perché non lo divertiva, perché non lo sentiva gioco sebbene non potesse essere altro che un gioco, non c’era alcuna ragione per immaginare che fosse qualcos’altro.
- Niente da fare, - ripetè la ragazza. - Non intendono ragione o non vogliono, chissà, ma non si può fare se non quel che vogliono.
Stava parlando al guanto, guardando Lucho senza vederlo stava parlando al guantino nero quasi invisibile sotto il grande guanto marrone.
- Anche a me capita la stessa cosa, - disse Lucho. -Sono incorreggibili, non c’è dubbio.
- Non è la stessa cosa, - disse la ragazza.
- Oh, sì, ha visto.
- Inutile parlarne, - disse lei, chinando la testa. -Mi scusi, la colpa è mia.
Era il gioco, certo, ma perché non era divertente, perché non lo sentiva gioco sebbene non potesse essere altra cosa, non c’era alcuna ragione per immaginare che fosse qualcos’altro.
- Diciamo che la colpa è loro, - disse Lucho scostando la mano per sottolineare il plurale, per denunciare le colpevoli alla sbarra, le inguantate silenziose distanti quiete alla sbarra.
- E' diverso, - disse la ragazza. - A lei pare che sia la stessa cosa, invece è tanto diverso.
- Beh, ce n’è sempre una che incomincia.
- Si, sempre una.
Era il gioco, non c’era altro da fare che obbedire alle regole senza stare a pensare se si trattava d’altro, una specie di verità o di disperazione. Perché fare il tonto invece di seguire la corrente se così andava bene a lei.
- Ha ragione, - disse Lucho. - Bisognerebbe fare qualcosa, non permetterglielo.
- Niente da fare, - disse la ragazza.
- Evidentemente, non appena uno si distrae, abbiamo visto.
- Sì, - disse lei. - Anche se lei lo dice per scherzo.
- Oh no, lo dico seriamente, come lei. Le guardi.
Il guanto marrone giocava a sfiorare il guantino nero immobile, gli passava un dito sul cinturino, lo abbandonava, andava fino all’estremità della sbarra e vi si fermava a guardarlo, aspettando. La ragazza chinò ancor più la testa e Lucho tornò a domandarsi perché tutto questo non era divertente ora che non restava altro che continuare a giocare.
- Se fosse sul serio, - disse la ragazza, ma non si rivolgeva a lui, non si rivolgeva a nessuno nel vagone quasi vuoto. - Se fosse sul serio, allora magari.
- E' sul serio, - disse Lucho, - ed è vero, niente da fare.
Allora lei lo guardò negli occhi, come svegliandosi;
il metro entrava nella stazione Convention.
- La gente non può capire, - disse la ragazza. -Quando poi si tratta di un uomo, allora, subito immagina che...
Banale, indubbiamente, e inoltre bisognava affrettarsi perché mancavano solo tre stazioni.
- Peggio ancora se è una donna, - stava dicendo la ragazza. - Mi è già capitato e dire che le sorveglio fin dal momento in cui salgo, continuamente, ma ha visto.
- Si, - accettò Lucho. - Ma arriva sempre il momento in cui uno si distrae, è tanto naturale, e allora loro se ne approfittano.
- Non parli per lei, - disse la ragazza. - Non è la stessa cosa. Mi scusi, la colpa è stata mia, scendo a Corentin Celton.
- Si, certo che la colpa è sua, - scherzò Lucho. - Io avrei dovuto scendere a Vaugirard, e, visto, mi ha fatto proseguire per due stazioni.
La curva li buttò contro la porta, le mani scivolarono fino a unirsi all'estremità della sbarra. La ragazza continuava a parlare, scusandosi scioccamente; Lucho senti nuovamente le dita del guanto nero arrampicarsi sulla sua mano e stringerla. Quando lei lo lasciò bruscamente mormorando un saluto confuso non c’era che una cosa da fare, seguirla lungo il corridoio della stazione, mettersi al suo fianco e cercarle la mano quasi smarrita a testa in giù alla fine della manica, a dondolarsi senza scopo.
- No, - disse la ragazza. - Per favore, no. Mi lasci andare da sola.
- Ma certo, - disse Lucho senza liberare la mano. -Ma non mi piace che se ne vada così, adesso. Se avessimo avuto più tempo nel metro...
- A che scopo ? Cosa serve aver più tempo ?
- Forse avremmo finito per trovare qualcosa, insieme. Qualcosa da fare, contro di loro, voglio dire.
- Ma lei non capisce, - disse la ragazza. - Lei pensa che...
- E chi lo sa che cosa penso, - disse onestamente Lucho. - Chi lo sa se c’è da queste parti un caffè dove fanno un buon caffè, e se esiste questo caffè, perché questo quartiere quasi non lo conosco.
- C’è un caffè, - disse lei, - ma è cattivo.
- Non neghi che l’abbia fatta sorridere.
- Non lo nego, ma il caffè è cattivo.
- Comunque esiste un caffè da queste parti.
- Si, - disse lei, e questa volta lo guardò sorridendo. - Esiste un caffè ma il caffè è cattivo, e lei crede che io...
- Io non credo niente, - disse lui, ed era maledetta-mente vero.
- Grazie, - disse incredibilmente la ragazza. Respirava come se la scala l’affaticasse, e a Lucho sembrò che tremasse, ma ancora il guanto nero piccolo dondolante tiepido inoffensivo assente, ancora e di nuovo lo sentiva vivere fra le sue dita, torcersi, stringersi avvitarsi muoversi stare bene essere tiepido essere contento accarezzante nero guantino dita due tre quattro cinque uno, dita cercando dita e guanto in guanto, nero in marrone, dito fra dito, uno fra uno e tre, due fra due e quattro. Questo succedeva, si dondolava lì vicino alle sue ginocchia, niente da fare, era piacevole e niente da fare o era spiacevole ma ugualmente niente da fare, questo accadeva lì e non era Lucho che stava giocando con la mano che infilava le dita fra le sue e si avvitava e si muoveva, e neppure la ragazza che ansimava arrivando in cima alle scale e alzava la faccia contro la pioggerella come se la volesse lavare dell’aria immobile e calda delle gallerie del metro.
- Abito lì, - disse la ragazza, indicando una finestra alta fra tante finestre di tanti caseggiati uguali sul marciapiede opposto. - Potremmo farci un nescafé, meglio che andare in un bar, penso.
- Oh sì, - disse Lucho, e ora erano sue le dita che stavano chiudendosi lentamente sul guanto come sul collo di un gattino nero. La stanza era abbastanza grande e molto riscaldata, con un’azalea e una lampada a stelo e dischi di Nina Simone e un letto in disordine che la ragazza vergognandosi e chiedendo scusa rifece frettolosamente. Lucho la aiutò a mettere tazze e cucchiai sulla tavola vicino alla finestra, fecero un nescafé forte e zuccherato, lei si chiamava Dina e lui Lucho. Contenta, come sollevata, Dina parlava della Martinica, di Nina Simone, certe volte dava una lieve impressione di zitella dentro quel vestito semplice color rosso ceralacca, la minigonna le stava bene, lavorava presso un notaio, le fratture alle caviglie erano dolorose però sciare in febbraio nell’Alta Savoia, ah. Due volte si era fissata a guardarlo, aveva cominciato a dire qualcosa con il tono di quando era aggrappata alla sbarra del metro, ma Lucho aveva scherzato, deciso a dire basta, a passare ad altro, inutile insistere nello stesso tempo ammettendo che Dina soffriva, che forse le faceva male rinunciare così presto alla commedia come se in quel momento ciò avesse una qualche importanza. E la terza volta, quando Dina si era chinata per versare l’acqua calda nella sua tazza, mormorando di nuovo che non era colpa sua, che solo qualche volta le capitava, che lui stesso poteva ora vedere come tutto era diverso, l’acqua e il cucchiaino, l’obbedienza di ogni singolo gesto, allora Lucho aveva capito, ma chissà cosa, di colpo aveva capito e tutto era diverso, si trovava dall’altro lato, la sbarra aveva significato, il gioco non era stato un gioco, le fratture alle caviglie e lo sci potevano andare al diavolo ora che Dina aveva ripreso a parlare senza essere interrotta o distratta da lui che la lasciava dire, la sentiva, quasi l’aspettava, credendo perché assurdo, a meno che non fosse semplicemente perché era Dina con quel visino triste, i seni minuti che smentivano il tropico, semplicemente perché Dina. Forse bisognerebbe rinchiudermi, aveva detto Dina con sincerità, capita in qualsiasi momento, lei è lei, ma altre volte. Altre volte cosa. Altre volte insulti, pacche sul sedere, a letto subito, bimba, perché perdere tempo. Ma allora. Allora cosa. Ma allora, Dina.
- Ho pensato che avesse capito, - disse Dina, aspra.
- Quando le dico che forse bisognerebbe rinchiudermi.
- Sciocchezze. Ma io, in principio...
- Lo so. Come non poteva, in principio. Esattamente così, in principio chiunque si sbaglia, logico. Logicissimo, logicissimo. E anche rinchiudermi sarebbe logico.
- No, Dina.
- Ma sì, cazzo. Mi scusi. Ma si. Sarebbe meglio piuttosto che quelle altre cose. E quante volte. Ninfo non so cosa. Puttanella, drittona. Sarebbe molto meglio in fin dei conti. O che me le tagliassi io stessa con un’ascia da macellaio. Ma non posseggo un’ascia da macellaio, - disse Dina sorridendogli come se cercasse ancora una volta il suo perdono, così assurda ripiegata sulla poltrona, lasciandosi scivolare smarrita, stanca, con la minigonna sempre più su, dimentica di se stessa, guardandole prendere una tazza, mettervi il nescafé, obbedienti ipocrite laboriose dritte puttanelle ninfo non so cosa.
- Non dica sciocchezze, - ripetè Lucho, smarrito in un qualcosa che giocava a qualsiasi cosa ora, a desiderio, sfiducia, protezione. - So che non è normale, bisognerebbe scoprirne le cause, bisognerebbe che. Comunque perché spingersi tanto oltre. Voglio dire, la reclusione o l’ascia.
- Chissà, - disse lei. - Forse bisognerebbe spingersi molto oltre, andare fino in fondo. Forse sarebbe l’unico modo per uscirne.
- Cosa vuol dire con quell’oltre ? - domandò Lucho, stanco. - E qual è il fondo ?
- Non so, non so niente. Solo che ho paura. Anch’io perderei la pazienza se qualcuno mi parlasse così, ma ci sono giorni che. Sì, giorni. E notti.
- Ah, — disse Lucho avvicinando il fiammifero alla sigaretta. - Perché anche di notte, già.
- Sì.
- Ma non quando è sola.
- Anche quando sono sola.
- Anche quando è sola. Ah.
- Mi capisca, voglio dire che.
- Ottimo, - disse Lucho, bevendo il caffè. - Ottimo, molto caldo. Quel che ci vuole per tutti e due con una giornata come questa.
- Grazie, - disse lei semplicemente, e Lucho la guardò perché non aveva voluto ringraziarlo di qualcosa, molto semplicemente sentiva quel momento di riposo come una ricompensa e che la sbarra finalmente fosse scomparsa.
- E dire che non era brutto né sgradevole, - disse Dina quasi avesse indovinato. - Non importa che non mi creda, ma per me non era né brutto né sgradevole, la prima volta.
- La prima volta cosa ?
- Che non fosse né brutto né sgradevole.
- Che si mettessero a... ?
- Si, che di nuovo si mettessero a, e che non fosse né brutto né sgradevole.
- Le è forse capitato di essere arrestata per questo ?
- domandò Lucho, facendo scendere la tazza fino al piattino con un movimento lento e preciso, guidando la propria mano affinché la tazza atterrasse esattamente al centro del piattino. Contagioso, caro mio.
- No, mai, invece... Si tratta di altro. Glielo ho già detto, c’è chi pensa che lo faccia deliberatamente e allora anche loro cominciano. Come lei. O si infuriano, le donne per esempio, e bisogna scendere subito alla prima stazione o uscire di corsa dal negozio o dal bar.
- Non piangere, - disse Lucho. - Non ci si guadagna niente a piangere.
- Non voglio piangere, - disse Dina. - Ma mai avevo potuto parlare con qualcuno così, dopo che... Nessuno mi crede, nessuno può credermi, anche lei non mi crede, solo che lei è buono e non vuole farmi del male.
- Adesso ti credo, - disse Lucho. - Fino a due minuti fa ero come gli altri. Forse dovresti ridere invece di piangere.
- Ma non lo vede, - disse Dina, chiudendo gli occhi. - Non vede che è inutile. Neppure lei, anche se dice di credermi, anche se ci crede. E' troppo stupido.
- Ti sei fatta visitare ?
- Sì. Sai, calmanti e cambiamento d’aria. Per un po’ di giorni ti illudi, pensi che...
- Sì, - disse Lucho, porgendole il pacchetto delle sigarette. - Aspetta. così. Vediamo cosa fa.
La mano di Dina prese la sigaretta con il pollice e l’indice, e contemporaneamente l’anulare e il mignolo cercarono di avvitarsi alle dita di Lucho che manteneva il braccio teso, guardando fissamente. Libere dalla sigaretta, le sue cinque dita scesero fino ad avvolgere la piccola mano scura, la strinsero appena, iniziando una lenta carezza che scivolò via fino a lasciarla libera, tremante nel vuoto; la sigaretta cadde nella tazza. Di colpo le mani salirono fino alla faccia di Dina, piegata sulla tavola, spezzata in un singhiozzo come di vomito.
- Per favore, - disse Lucho, alzando la tazza. - Per favore, non così. Non piangere così, è talmente assurdo.
- Non voglio piangere, - disse Dina. - Non dovrei piangere, anzi, ma vedi.
- Prendi, ti farà bene, è caldo; ne farò un altro per me, un attimo che vado a lavare la tazza.
- No, faccio io.
Si alzarono contemporaneamente, si trovarono di fronte accanto alla tavola. Lucho rimise la tazza sporca sulla tovaglia; le loro mani pendevano lungo il corpo; solo le loro labbra si sfiorarono, Lucho guardandola e Dina con gli occhi chiusi, le lacrime.
- Forse, - mormorò Lucho - forse è questo che dobbiamo fare, l’unica cosa che possiamo fare, e allora.
- No, no, per favore - disse Dina, immobile e senza aprire gli occhi. - Non sai quello che... No, meglio di no, meglio di no.
Lucho le aveva abbracciato le spalle, la stringeva lentamente a sé, la sentiva respirare contro la sua bocca, un respiro caldo che sapeva di caffè e di pelle scura. La baciò in piena bocca, affondando in essa, cercandole i denti e la lingua; il corpo di Dina cedeva fra le sue braccia, quaranta minuti prima la sua mano aveva accarezzato quella di lui sulla sbarra di un metro, quaranta minuti prima un guantino nero su un guanto marrone. La sentiva resistere appena, ripetere il no nel quale c’era stato come un inizio di prevenzione, ma tutto in lei cedeva, in entrambi, ora le dita di Dina salivano lentamente lungo la schiena di Lucho, i suoi capelli gli entravano negli occhi, il suo odore era un odore senza parole e prevenzioni, la coperta azzurra contro i loro corpi, le dita obbedienti in cerca delle cerniere, sparpagliando indumenti, obbedendo agli ordini, le sue e quelle di Dina sulla pelle, fra le cosce, le mani come le bocche e le ginocchia e ora i ventri e le vite, una preghiera mormorata, una pressione cui si resiste, un gettarsi indietro, un istantaneo movimento per passare dalla bocca alle dita e dalle dita ai sessi, quella calda spuma che tutto spianava, che in un unico movimento univa i loro corpi e li lanciava nel gioco. Quando accesero le sigarette nel buio (Lucho aveva voluto spegnere la lampada e la lampada era caduta a terra con un rumore di vetri rotti, Dina si era rizzata come atterrita, rifiutandosi di stare al buio, aveva detto di accendere almeno una candela e di scendere a comperare un’altra lampadina, ma lui l’aveva riabbracciata nel buio e ora fumavano e si intravedevano ad ogni boccata, e si baciavano di nuovo) fuori pioveva ostinatamente, la stanza riscaldata lì racchiudeva nudi e stanchi, sfiorandosi con mani e fianchi e capelli stavano lì, si accarezzavano interminabilmente, si vedevano con un tatto ripetuto e umido, sentivano il loro odore nel buio mormorando una felicità di monosillabi e diastole. A un certo momento le domande sarebbero tornate, le scacciate che il buio tratteneva negli angoli o sotto il letto, ma quando Lucho volle sapere, lei gli si gettò addosso con la pelle umida e gli chiuse la bocca di baci, di dolci morsi, solo molto più tardi, con altre sigarette fra le dita, gli disse che viveva sola, che nessuno le durava, che era inutile, che dovevano accendere una luce, che dal lavoro a casa, che nessuno le aveva mai voluto bene, e quel male, tutto come se in fondo non avesse importanza o fosse troppo importante perché le parole servissero a qualcosa, o chissà come se tutte quelle cose non dovessero durare oltre la notte e lei potesse fare a meno delle spiegazioni, una cosa appena iniziata su una sbarra di metro, una cosa per la quale soprattutto si doveva accendere una luce.
- Da qualche parte ci deve essere una candela, - aveva insistito con monotonia, rifiutando le sue carezze.
- Ormai è tardi per scendere a comperare una lampadina. Lasciami andare a cercarla, deve essere in qualche cassetto. Dammi i fiammiferi.
- Non accenderla ancora, - disse Lucho. - Stiamo tanto bene così, senza vederci.
- Non voglio. Si sta bene, ma capisci, ma capisci. Magari.
- Per favore, - disse Lucho, tastando per terra alla ricerca delle sigarette, - per un attimo che ci eravamo dimenticati... Perché ricominci? Stavamo bene, così.
- Lascia che vada a cercare la candela, - disse Dina.
- Cercala, non importa, - disse Lucho dandole i fiammiferi. La fiamma ondeggiò nell’aria stagnante della stanza disegnando il corpo appena meno scuro del buio, un brillio di occhi e di unghie, di nuovo tenebra, un altro fiammifero sfregato, buio, sfregare un altro fiammifero, movimento brusco della fiamma che si spegne in fondo alla stanza, una breve corsa come soffocata, il peso del corpo nudo che cade di traverso sul suo, facendogli male alle costole, il suo respiro affannoso. L’abbracciò stretta, baciandola senza sapere di che o perché doveva calmarla, le mormorò parole di conforto, la stese contro di sé, sotto di sé, la possedette dolcemente e quasi senza desiderio dal profondo di una lunga fatica, la penetrò e la montò sentendola contrarsi e cedere e aprirsi e così, così, sì, così, ecco, sì, e la risacca che li restituiva a un riposo supino con gli occhi sul nulla, intenti al battito della notte con un sangue di pioggia là fuori, interminabile gran ventre della notte che li proteggeva dalle paure, da sbarre di metro e lampade rotte e fiammiferi che la mano di Dina non aveva voluto reggere e che aveva piegato in basso per bruciarsi e bruciarla, quasi per caso perché nel buio lo spazio e le posizioni cambiano e si è maldestri come un bambino, ma dopo il secondo fiammifero schiacciato fra due dita, granchio rabbioso che si bruciava pur di distruggere la luce, allora Dina aveva cercato di accendere un ultimo fiammifero con l’altra mano ed era stato peggio, non poteva dirlo neppure a Lucho che la udiva da una vaga paura, da una sigaretta sporca. Non capisci che non vogliono, rieccoci. Rieccoci cosa. Questo. Questo cosa. No, niente, bisogna trovare la candela. La cerco io, dammi i fiammiferi. Sono caduti là, in quell’angolo. Non ti muovere, aspetta. No, non andare, per favore non andare. Lasciami, li troverò. Insieme, è meglio. No, li troverò, dimmi dove può essere quella maledetta candela. Lì, non so, sulla mensola, se accendessi un fiammifero, forse. Non si vedrà niente ugualmente, faccio io. Respingendola lentamente, slegando le mani che gli stringevano la vita, alzandosi a poco a poco. Lo strattone al sesso lo fece gridare più per la sorpresa che per il dolore, cercò come uno staffile il pugno che lo legava a Dina stesa di spalle e gemente, ne apri le dita e la respinse violentemente. La udiva chiamarlo, chiedendogli di tornare, dicendo che non l’avrebbe fatto più, che era per colpa sua, di Lucho, perché si era troppo ostinato. Orientandosi verso quello che credeva essere l’angolo della stanza si piegò su una cosa che poteva essere la tavola e tastò cercando i fiammiferi, credette di averne trovato uno ma era troppo lungo, forse uno stuzzicadenti, e la scatola non c’era, le palme delle mani percorrevano il vecchio tappeto, in ginocchio si trascinava sotto la tavola; trovò un fiammifero, poi un altro, ma non la scatola; così sul pavimento, tutto era più buio, sapeva di chiuso e di tempo. Sentì gli uncini percorrergli la schiena, salendo fino alla nuca e ai capelli, si rizzò con un salto respingendo Dina che gridava contro di lui e parlava della luce sul pianerottolo della scala, aprire la porta e la luce della scala, ma certo, come mai non gli era venuto in mente prima, dov’era la porta, lì di fronte, impossibile dato che la tavola era in un angolo, sotto la finestra, ti dico che è li, allora vacci tu, andiamoci insieme, non voglio restare sola ora, lasciami o ti do uno schiaffo, no, no, ti ripeto di lasciarmi. Lo spintone lo lasciò solo di fronte a un respiro affannoso, una cosa che tremava al suo fianco, vicinissima; stendendo le braccia avanzò cercando un muro, immaginando una porta; toccò una cosa calda che lo evitò con un grido, l’altra sua mano si chiuse sulla gola di Dina come se stringesse un guanto o il collo di un gattino nero, la bruciatura gli lacerò la guancia e le labbra, sfiorandogli un occhio, si gettò indietro per liberarsi da ciò che continuava ad afferrare la gola di Dina, cadde di spalle sul tappeto, si trascinò da una parte sapendo ciò che sarebbe accaduto, un vento caldo su di lui, Pintrico di unghie sul ventre e il costato, te l’ho detto, te l'ho detto che era impossibile, che accendessi la candela, cerca la porta subito, la porta. Trascinandosi lontano dalla voce sospesa in un punto dell'aria nera, in un singhiozzo di asfissia che si ripeteva e ripeteva, sbattè contro il muro, lo segui raddrizzandosi e senti uno stipite, una tenda, l'altro stipite, la serratura, un’aria gelata si mischiò al sangue che gli riempiva le labbra, tastando cercò l'interruttore della luce, udì dietro a sé la corsa e Furio di Dina, il colpo contro la porta socchiusa, doveva aver sbattuto contro l’uscio con la fronte, con il naso, mentre la porta si chiudeva alle sue spalle quando premeva l'interruttore. Il vicino che spiava dalla porta di fronte lo guardò e con un’esclamazione soffocata rientrò e sbarrò la porta, Lucho nudo sul pianerottolo lo maledisse e si passò le dita sulla faccia bruciante mentre tutto il resto, era il freddo del pianerottolo, i passi che salivano correndo dal primo piano, apri, apri immediatamente, per Dio apri, la luce è accesa, apri, la luce è accesa. Dentro il silenzio e un’attesa, la vecchia avvolta in una vestaglia viola che guardava da sotto, uno strillo, svergognato, a quest’ora, vizioso, polizia, tutti uguali, madame Roger, madame Roger! «Non mi aprirà, - pensò Lucho sedendo sul primo scalino, pulendosi il sangue dalla bocca e dagli occhi, - è svenuta per il colpo ed è caduta, non mi aprirà, sempre la stessa cosa, fa freddo, fa freddo». Cominciò a dar colpi alla porta mentre sentiva le voci nell' appartamento di fronte, la corsa della vecchia che scendeva chiamando madame Roger, la casa che si svegliava ai piani inferiori, domande e rumori, un momento di sospensione, nudo e coperto di sangue, un pazzo furioso, madame Roger, aprimi Dina, apri, non importa che sia sempre stato così ma aprimi, eravamo un’altra cosa noi, Dina, avremmo potuto trovare insieme, perché te ne stai lì per terra, cosa ti ho fatto, perché ti sei sbattuta contro la porta, madame Roger, se mi aprissi troveremmo una via di uscita, hai visto prima, hai visto come tutto andava bene, semplicemente accendere la luce e cercare insieme, ma non vuoi aprire, stai piangendo, miagolando come un gatto ferito, ti sento, ti sento, sento madame Roger, la polizia, e lei figlio di mille puttane mi spia da quella porta, aprimi Dina, possiamo ancora trovare la candela, ci laveremo, ho freddo, Dina, adesso arrivano con una coperta, è tipico, un uomo nudo lo si avvolge in una coperta, dovrò dire che sei lì per terra, che portino un’altra coperta, che abbattano la porta, ti puliscano il viso, ti curino e ti proteggano perché io non ci sarò più, ci separeranno immediatamente, vedrai, ci faranno scendere separati e ci condurranno lontani l’uno dall’altro, quale mano cercherai, Dina, quale faccia graffierai ora che ti portano via stretta fra tutti loro e madame Roger.