Antonio Scurati
Recensione
Ho letto il pamphlet di Scurati "Fascismo e populismo. Mussolini oggi"
Intanto va detto che il suo approccio è romanzesco: usa metafore suggestive (Mussolini "stuprò e sedusse l'Italia") che privilegiano il racconto "giornalistico" sul rigore storiografico, rischiando di confondere propaganda e analisi. Questo rende la storia uno strumento per allarmare il presente, non per capirlo.
Scurati postula una discendenza diretta del populismo contemporaneo dal "Mussolini populista", individuando nei leader sovranisti di oggi (da Meloni a Trump) meccanismi ereditati dal fascismo degli anni Venti, come la personalizzazione autoritaria, la polemica antiparlamentare e la "politica della paura". Questo legame, secondo Scurati, rende la democrazia non scontata, richiedendo un "nuovo antifascismo".
Questa è semplificazione storica, allarmismo ideologico e strumentalizzazione politica.
Scurati usa il fascismo come "spauracchio" per demonizzare avversari politici, ignorando che il populismo ha radici trasversali. In Italia, questo alimenta una "zona grigia" del consenso democratico, ma non un ritorno al fascismo: i "rifiutanti" odierni non sono ribelli anti-sistema come nel 1922, ma disillusi all'interno del sistema.
I populismi nascono da contraddizioni della globalizzazione (disuguaglianze, migrazioni), non da un "fiume carsico" fascista. Scurati idealizza il parlamentarismo liberale come "piena democrazia", ma ignora che esso stesso genera esclusione, favorendo populismi "anti-pluralisti". Inoltre le istituzioni democratiche sono più resilienti oggi: il fascismo non è "rivivibile" nei contesti moderni. Scurati sottovaluta questa resilienza: la sua "politica della paura" (odio contro il nemico) è comune a molte ideologie, non esclusiva del fascismo, e i populismi non ricorrono alla violenza fisica sistematica.
FASCISMO E POPULISMO
I.
FASCISMO
Viene un momento in cui non è più lecito nascondersi. Chi vuole raccontare la Storia – quella con la maiuscola, la vicenda collettiva dei popoli nel corso del tempo, quel tempo che diventa umano soltanto entrando in un racconto – deve riconoscersi come parte di essa. Chi aspira a questo genere di narrazione deve dichiararsi colpevole.
Colpevole di cosa? Di essere uno dei tanti. Di essere come tutti. Come tutti coinvolto, implicato, partecipe. Di non poter – come insegnò il poeta – distinguere il danzatore dalla danza. Di non potere né di volerlo fare.
Aver smarrito il sentimento della Storia è causa di una delle grandi menomazioni spirituali della nostra epoca, epoca per molti altri aspetti privilegiata.
A partire dalla Rivoluzione francese, dieci generazioni di donne e di uomini si sono succedute vivendo nell’orizzonte della Storia, orizzonte immenso, terribile e promettente. Per due secoli, uomini e donne hanno potuto alzare lo sguardo verso quella linea lontana e sentire la propria piccola esistenza individuale come parte di un racconto più vasto, di una narrazione tumultuosa, a momenti forsennata, spesso sanguinosa, capace però di donare loro un senso e una direzione. Di notte, come una stella polare, la Storia brillava luminosa nel cielo che dimora eterno sui nostri affanni.
A partire dalla Rivoluzione francese, per due secoli dieci generazioni si sono appellate al futuro per ottenere giustizia: davanti al tribunale della Storia, millenni di schiene spezzate e di sofferenze senza nome avrebbero finalmente trovato riscatto. Riscatto e risarcimento. Persino vendetta. Dieci generazioni di madri e padri hanno creduto con magnanima fiducia che la vita dei figli sarebbe stata migliore della loro e che l’esistenza dei nipoti sarebbe stata migliore di quella dei figli. E si sono fatti trovare pronti a lottare per questo, a morire e persino a uccidere. Ecco la promessa della Storia, la promessa che promette se stessa: il futuro ci attende, il futuro ci appartiene. Il futuro è uno di noi. Ecco l’impegno della Storia: la storia non è mai scritta una volta e per tutte, la storia è sempre lotta per la storia. La storia siamo noi.
Poi, però, quell’orizzonte è svanito, la stella della redenzione si è spenta. In un qualche pomeriggio triste di fine secolo e millennio, in una stanza ben ammobiliata e male illuminata dallo schermo azzurrognolo di un televisore sintonizzato su di un canale morto, abbiamo smesso di credere nella Storia. Le nostre esistenze di occidentali si sono improvvisamente ristrette, sono diventate tutte una questione privata, una solitudine planetaria. Abbiamo cominciato a misurare ogni esperienza sul metro corto del presente, un metro su cui le grandi scene dell’esistenza individuale e collettiva non trovano posto. Abbiamo perso la capacità di sentirci attraversati da un tempo grande, che viene da lontano e va lontano, siamo diventati sordi alla voce che, nei momenti di disperazione, ci rincuorava sussurrandoci: coraggio, avanti, non sei il primo, non sei l’ultimo, non sei solo; insieme a te marciano legioni di esseri umani vissuti ed estinti prima che tu nascessi e marcia insieme a te una schiera ancora più numerosa, quella delle donne e degli uomini non ancora nati.
Eppure per chi, come me, voglia ritrovare quel sentimento perduto della Storia non è lecito nascondersi. Il romanziere che voglia andare in cerca in un tempo lontano di “fratelli che non sono più”, deve riconoscere che, come insegnava Enzensberger, per i popoli l’unica storia che conti è quella tramandata come saga, come epos, come racconto collettivo da un brusio di voci anonime in un fascio di libere versioni che risultano appassionanti perché sono tutte appassionate, che ci coinvolgono perché sono tutte coinvolte, che ci commuovono perché sono tutte commosse.
E allora, questa sera, ho deciso di non nascondermi, cioè di non nascondere innanzitutto a me stesso il fatto che l’invito a questa prestigiosa serie di conferenze sulla pace – che si tiene fin dal 1946 – ha per me un significato storico e anche una profonda valenza esistenziale.
Il significato storico rimanda inevitabilmente al fatto che nel mio Paese, l’Italia, il Paese da cui stamattina sono giunto qui in treno, attraversando questi magnifici paesaggi alpini, in quel Paese che sta al di là dei monti che ci separano ma non dividono, pochi giorni fa i miei concittadini – non tutti, una maggioranza relativa ma consistente – hanno espresso la volontà che a governare l’Italia sia un partito di estrema destra i cui esponenti di vertice hanno una storia personale, biografica e politica che proviene dal neofascismo.
Noi sappiamo, anche per esperienza vissuta, che la Storia è tale proprio perché è un divenire e, quindi, lascia alle spalle alcune cose, alcune opinioni, alcune idee, ne trova e ne incontra di nuove, le trasforma, a volte le rinnega, o le dimentica, però non consente il riavvolgimento del nastro. Avere una storia non significa necessariamente avere un destino, nel senso che quel passato decide irreparabilmente del tuo futuro: eppure esso è qualcosa di incancellabile. “Non si può restituire il biglietto d’ingresso alla vita,” diceva un grande pensatore; non si può cancellare la propria storia, la si porta con sé. Questo apre per me – e credo dovrebbe aprire per tutti gli italiani e non solo per gli italiani – un momento di seria riflessione, approfondit0, accorato e pericoloso.
Chi giunga a governare un Paese da un passato di militanza politica neofascista ha davanti a sé un bivio. O scioglie definitivamente – attraverso un discorso pubblico, trasparente, dirimente – i nodi che lo avvincono a quel passato oscuro oppure si prepara a revisionare l’intera storia d’Italia tentando di cambiare di segno a quel passato, per gettare su di esso una sedicente nuova luce che ne neghi e disconosca l’oscurità. Poiché il dibattito pubblico mirato a sciogliere i nodi, a elaborare nella coscienza collettiva l’oscuro passato fascista e neofascista è completamente mancato, è facile prevedere che verrà battuta la seconda strada, quella del revisionismo fazioso e odioso.
In questo frangente storico si colloca la mia riflessione.
Ciò che situa esistenzialmente le mie parole, invece, è il fatto che io abbia dedicato gli ultimi anni della mia ricerca letteraria, ormai un decennio, a studiare e raccontare attraverso la forma del romanzo il periodo fascista.
Cominciai con Il tempo migliore della nostra vita, un romanzo biografico dedicato a Leone Ginzburg, il grande intellettuale – il grande eroe intellettuale, oserei dire – che consacrò la propria esistenza alla lotta contro il fascismo e poi pagò con la vita il proprio irremovibile antifascismo. La genesi di quel libro credo dica qualcosa di una vicenda generazionale, non soltanto relativa al mio personale percorso intellettuale.
Nato alla fine degli anni sessanta, io appartengo, infatti, all’ultima generazione di ragazzi del secolo scorso. Gli ultimi, cioè, a vivere compiutamente la propria giovinezza nell’atmosfera sociale e culturale del Ventesimo secolo. E anche gli ultimi, dunque, a ricevere la propria formazione intellettuale, etica e politica nell’alveo dell’antifascismo novecentesco. Non fu per caso, quindi, che progettai di scrivere un giorno un romanzo sui partigiani fin da quando, ancora ragazzo, fantasticavo di diventare uno scrittore. Sebbene, molti anni più tardi, io abbia deciso di dedicare tutte le mie energie a un ciclo romanzesco incentrato su Benito Mussolini, le mie aspirazioni letterarie coincisero, fin da principio, con il desiderio di raccontare gli antifascisti, non certo i fascisti. Formatomi nella cultura antifascista del tardo Novecento, incentrata sul “mito resistenziale”, cioè sul racconto della Resistenza al nazifascismo come narrazione fondativa della nostra democrazia, non ho mai subito la fascinazione – nemmeno sul piano meramente intellettuale o artistico – della figura del duce del fascismo. Tutt’altro: perfettamente allineato alla narrativa egemone del secondo dopoguerra, la quale prescriveva che il fascismo fosse raccontato dal punto di vista delle sue vittime, aspiravo ad aggiungere anche il mio contributo a quella letteratura resistenziale che tanto mi ispirava. Mai avrei immaginato, allora, di diventare celebre come autore di un romanzo su Mussolini.
E, infatti, al romanzo su Mussolini giunsi attraverso il romanzo su Leone Ginzburg. Non avrebbe potuto essere altrimenti. Per me, “ultimo ragazzo del secolo scorso”, e per l’intera cultura del secondo Novecento di cui ero figlio, era possibile arrivare a riflettere sul persecutore soltanto dopo essersi soffermati a lungo sul perseguitato, sul perpetratore della violenza soltanto dopo aver considerato la sua vittima, a comprendere il fascismo soltanto attraverso l’antifascismo.
Fu per questi motivi che prima di M – anzi, quando M non era nemmeno concepibile – scrissi Il tempo migliore della nostra vita. Progettando quel romanzo su Ginzburg, decisi arbitrariamente – ma onestamente, almeno lo spero – di accostare la vita di quell’uomo straordinario alla vita di persone del tutto ordinarie sue contemporanee o addirittura sue coetanee. Uomini e donne “comuni” che vissero negli stessi anni epici e terribili, sotto la stessa dittatura, posti dinnanzi alla medesima scelta. Uomini e donne ordinari ma non persone qualunque.
Le vite delle persone ordinarie a cui pensai di dover accostare, nel mio racconto, quella del personaggio storico erano, infatti, le vite dei miei nonni paterni e materni. Ero alla ricerca del terreno comune su cui sorgono tanto le esistenze eccezionali quanto quelle normali; cercavo anche, a mio modo, di gettare un ponte tra la mia generazione di vacui edonisti e quella tragica e formidabile dei nostri nonni; provavo a pormi l’unica domanda che secondo me conta davvero quando ci eleviamo a una meditazione sulla storia, osservando dalle bassure del presente le vicende di uomini e donne ai quali toccò in sorte di vivere epoche tragiche e gloriose: dove sono io in quella corrente?
Mi parve, allora, di poter rispondere con una sconcertante ovvietà: ma io c’ero! C’ero perché c’era quel mio nonno di cui porto il nome, quel tornitore dell’Alfa Romeo di Milano Portello che aveva enormi mani sapienti e una severa riservatezza spinta fin quasi al mutismo, quell’uomo così diverso da me che con me, probabilmente, oggi non avrebbe preso nemmeno un caffè e dal quale, pure, io discendo.
Fu, insomma, soltanto dopo aver scritto il romanzo resistenziale, vagheggiato fin da ragazzo, che giunsi al romanzo sul fascismo; anzi, accadde proprio passando attraverso di esso.
Ricordo con precisione il momento nel quale concepii il progetto letterario poi diventato M. Mi stavo ancora documentando per raccontare nella forma del romanzo-verità la vita di Leone Ginzburg. Fu allora che, guardando uno di quei famosi filmati in cui Mussolini parla alle “folle oceaniche” dal balcone di Palazzo Venezia – sequenze di immagini cristallizzate da una memoria sopita che abbiamo guardato troppe volte e, forse, proprio a causa di ciò, smesso di vedere – credetti di avere una intuizione. “Questo non lo ha mai raccontato nessuno!” mi dissi con un misto di eccitazione e costernazione.
Non ero impazzito (non del tutto, per lo meno). Esistevano – ne ero perfettamente consapevole – intere biblioteche di studi storici, saggi e memoriali su Mussolini e il fascismo, eppure nessuno scrittore delle generazioni successive agli accadimenti lo aveva mai raccontato nella forma popolare ed eminentemente democratica del romanzo. Nessuno, inoltre, lo aveva mai raccontato dal di dentro. È stato così che, dopo il romanzo su Ginzburg e sui miei nonni, ho dedicato diversi anni di studio e di scrittura a quel progetto che si proponeva di narrare l’intero arco della vicenda fascista attraverso i fascisti stessi e, in primis, attraverso il “capo”, come lo chiamavano loro: Benito Mussolini.
Raccontare il fascismo attraverso i fascisti – lo dico per i più giovani – non significa affatto aderire all’ideologia fascista, ma, al contrario, per me ha significato cercare di spingere il lettore italiano, e non solo, a fare finalmente i conti con il fascismo. Quei conti, infatti, a mio modo di vedere (e non soltanto mio), nonostante fossero trascorsi cento anni dal suo avvento e settanta dalla sua caduta, non erano mai stati fatti. Qui tocchiamo un punto cruciale e controverso, nel quale la genesi di M interseca la storia culturale e politica dell’Italia del tardo dopoguerra, un lunghissimo dopoguerra che, per certi aspetti, dura ancora oggi.
In precedenza accennavo alla mia giovinezza di aspirante scrittore plasmata dall’antifascismo novecentesco. Ebbene, proprio negli anni in cui mi affacciavo alla vita adulta, ricevevo la mia formazione intellettuale e coltivavo le mie aspirazioni letterarie, proprio allora la storia cinquantennale che aveva identificato democrazia e antifascismo, che aveva anzi fondato la democrazia italiana ed europea sull’antifascismo militante culminato nella Resistenza, si avviava a declinare. Ciò avveniva, grossomodo, al giro del secolo e del millennio.
Dopo di allora, infatti, la cultura antifascista ereditata dai nostri padri e nonni – quella visione del mondo, della società e della storia sulla quale, è bene non dimenticarlo, si fondano la nostra costituzione, repubblica e democrazia, vale a dire la nostra civiltà – cominciò a perdere terreno, per poi velocemente tramontare. I segni di quel tramonto cominciarono presto a farsi numerosi e vistosi: giornali mainstream davano voce a polemiche storiografiche revisioniste, gruppi dichiaratamente neofascisti uscivano allo scoperto facendo proselitismo nelle scuole, leader politici di una destra sedicente liberale in cerca di nuovi consensi pronunciavano in pubblico frasi di Mussolini che fino a pochi anni prima gliene avrebbero fatti perdere parecchi. Lentamente, quasi inavvertitamente, veniva attraversata una soglia epocale nella storia della coscienza nazionale. Il sentimento democratico dei nostri padri e delle nostre madri, formatosi nella lotta antifascista delle nostre nonne e dei nostri nonni, e fondato su di essa, stava smottando. Iniziava proprio allora, non a caso, l’irresistibile ascesa di movimenti, partiti e leader che avremmo in seguito imparato a definire populisti.
La possibilità stessa di concepire un romanzo che avesse per protagonista Benito Mussolini sorgeva a valle di quella frana. Prima di allora, finché era stata in vigore la pregiudiziale antifascista e la correlata prescrizione a raccontare il fascismo dal punto di vista delle sue vittime, un romanzo del genere sarebbe stato impensabile. Non a caso nessuno lo aveva pensato. Proprio allora, però, diventava possibile e perciò, a mio giudizio, necessario. Le medesime ragioni storiche che andavano erodendo le fondamenta della democrazia basata sull’antifascismo militante reclamavano che si cercassero nuove forme di narrazione democratica capaci di ereditare il lascito del secondo Novecento superandone, se possibile, le contraddizioni. Quelle stesse contraddizioni che avevano impedito agli italiani di fare fino in fondo i conti con il passato fascista, come i rigurgiti di inizio millennio stavano a suggerire.
Nel lessico della lingua tedesca esiste una parola composta, coniata appositamente per descrivere il lungo processo di riflessione critica condotto dai tedeschi del dopoguerra sulle terribili colpe del nazismo e, in parte, anche la lenta, faticosa emancipazione dal senso di colpa per i crimini di esso. Il termine è Vergangenheitsbewältigung, traducibile letteralmente con “superamento del passato”.
Nella lingua italiana non c’è nessuna locuzione analoga. Il motivo, a mio modo di vedere, è che quel processo di superamento del passato, pur avviato, non si è mai compiuto. Le ragioni sono, come sempre in questi casi, numerose e peculiari della nostra storia politica.
Quando concepii il progetto di M mi parve che tra esse andasse annoverata anche una conseguenza secondaria non voluta del “mito resistenziale”, una sorta di suo effetto collaterale. Rendersi conto del proprio nefasto passato presuppone, infatti, una preliminare e radicale assunzione di responsabilità. Per riuscire a guardare fino in fondo nell’abisso è necessario vedere l’abisso dentro di sé. Se ciò non è avvenuto nella coscienza collettiva del popolo italiano, oltre che alle numerose altre cause da ricercare nella storia politica del nostro dopoguerra, lo si deve anche alla narrazione del fascismo rimasta egemone fino ad anni recenti. La prescrizione – quasi un diktat culturale – a raccontare il fascismo attraverso l’antifascismo, e dunque la tendenza di un intero popolo a identificarsi con la posizione simbolica della vittima, ha ostacolato l’assunzione di responsabilità narrativa indispensabile a fare i conti con il passato. Affinché ciò potesse avvenire, sarebbe stato indispensabile partire dal presupposto che noi, gli italiani, eravamo stati fascisti, che il fascismo era stata un’invenzione del nostro popolo, che il fascismo era stato e sarebbe rimasto non una deviazione dal suo corso regolare ma il momento centrale della nostra storia contemporanea. Qualora questa rivoluzione narrativa non fosse avvenuta, il fascismo sarebbe rimasto il grande rimosso della coscienza nazionale e, come in un racconto di spettri, avrebbe continuato a infestare la nostra casa comune.
Questo pensavo quando concepii il progetto di M, questo penso ancora oggi. E, se non vado errato, la recente cronaca politica mi sta purtroppo dando ragione.
Non vi nascondo, quindi, e soprattutto non mi nascondo che il fatto di trovarmi qui ad affrontare questo argomento nel momento in cui la maggioranza dei miei concittadini ha eletto un governo di destra di cui molti membri provengono dal neofascismo non mi lascia per niente indifferente, e nemmeno neutrale (non potrei esserlo nemmeno volendo, visto che in Italia sono oggetto di attacchi personali volgari, insultanti e violenti da parte della stampa di destra). Ciò che ho detto e che dirò non pretende, dunque, di essere neutrale, distaccato, impersonale, non ambisce a parlare in nome di una presunta “terzietà del sapere” (ammesso che esista qualcosa del genere nell’ambito del discorso culturale). No. No. Tre volte no. Le mie parole presuppongono, invece, una mia partecipazione biografica, esistenziale e persino storica a ciò che sto dicendo. Sono personalmente coinvolto in quello che vi dico. Lo dichiaro, lo proclamo e lo rivendico.
Negli ultimi anni mi è stato chiesto spesso – una di quelle domande giornalistiche un po’ impossibili – di trovare una parola che riassumesse l’intero fascismo. È un gioco a perdere: si potrebbe dire “violenza” ma, poi, bisognerebbe specificare quale tipo di violenza e, anche allora, rimarrebbero escluse tante altre caratteristiche essenziali. Quasi trent’anni fa, in una sua celebre conferenza, Umberto Eco sostenne che la diffusione e l’influenza del fascismo italiano nel mondo e nel tempo sarebbe dipesa dal fatto di “non possedere alcuna quintessenza, e neppure una singola essenza”, caratteristica che lo avrebbe reso un “totalitarismo fuzzy”, vale a dire un insieme sfumato, dai contorni imprecisi; un gioco che poteva, quindi, “essere giocato in molti modi”, anche diversi tra loro, e che al suo stesso interno presentava numerose incongruenze, confusioni e contraddizioni. Questa peculiarità del fascismo renderebbe possibile, secondo Eco, l’indicare una lista di caratteristiche, non suscettibili di venire “irregimentate in un sistema”, tipiche di ciò che ebbe a definire “Ur-Fascismo” o “fascismo eterno”. Sarebbe sufficiente che una sola di esse sia presente per “far coagulare una nebulosa fascista”.
Ebbene, io vorrei, insieme a voi, cercare di gettare uno sguardo dentro a questa singolare forma di “eternità” generata dalla storia e per la storia che, a mio modo di vedere, sarebbe più appropriato intendere come eredità del fascismo storico nel presente storico. È, infatti, in relazione all’attuale scenario politico che cercherò di stilare la mia lista di caratteristiche durature o ritornanti del fascismo italiano degli anni venti e trenta del Ventesimo secolo, nella convinzione che la “superstizione fascista” (nel senso di sopravvivenza di credenze e pratiche di un tempo lontano) stia di nuovo facendo la storia contemporanea d’Italia e d’Europa, quella storia che proviene dal fascismo come suo evento centrale.
Prima di accingermi a questo tentativo, è necessaria un’ultima premessa. Non sono mai appartenuto a quella schiera di intellettuali, artisti, attivisti politici che negli ultimi anni hanno lanciato l’allarme per un presunto ritorno del fascismo, quando quell’allarme ha indicato un pericolo per la sopravvivenza della democrazia dovuto a un ipotetico ritorno dei fascisti dichiarati. Esiste in Italia, al pari che in molti altri Stati europei e americani, una galassia di associazioni, gruppi, movimenti dichiaratamente neofascisti e neonazisti (ormai, purtroppo, quando si dichiarano neofascisti sono anche quasi sempre dichiaratamente neonazisti, perché il neofascismo degli ultimi anni e decenni assume quasi sempre una curvatura neonazista). Sono, per intenderci, persone che festeggiano il compleanno di Hitler. È una galassia semisommersa, piuttosto estesa; è complessa e articolata, non particolarmente numerosa, ma non del tutto marginale e residuale. È una galassia che in Italia negli ultimi anni, soprattutto nelle elezioni politiche del 2018, ha stretto in alcune sue punte un’alleanza comprovata con alcuni partiti di governo.
Nonostante il fatto che gli esponenti di questa galassia spesso compiano degli atti violenti – di violenza fisica, non solo verbale – io non ho mai ritenuto, e non ritengo nemmeno oggi, che il vero pericolo per la democrazia provenga da loro, cioè dal ritorno, per intenderci, delle camicie nere, di chi si dichiara apertamente fascista nel Ventunesimo secolo, di chi gira con il cranio rasato e fa il saluto romano, di chi picchia e bastona. Sono fenomeni, ovviamente, nefandi e che vanno trattati secondo quanto la legge prevede. A mio avviso, questi militanti estremisti e violenti non rappresentano, come a loro piace pensare, una avanguardia. Non marciano alla testa di processi storici in cammino verso un prossimo futuro. Sono, al contrario, ancora e sempre una retroguardia. Una chiassosa, violenta, eterna retroguardia.
Personalmente, invece, ritengo che oggi la sfida alla democrazia non minacci la sua stessa sopravvivenza, non comporti, cioè, un pericolo esistenziale. Non ho mai creduto che il centesimo anniversario della marcia su Roma, ricorrente il 28 di ottobre del 2022, potesse annunciare il rischio di un secondo assassinio della nostra democrazia, di una sua soppressione. Il paragone tra la vittoria elettorale di Fratelli d’Italia e la conquista del potere da parte di Benito Mussolini cento anni prima, presentato da alcuni come una “seconda marcia su Roma”, mi è sempre parso suggestivo ma infondato. Essendo stato, a mio giudizio, il fascismo primo-novecentesco un fenomeno eminentemente storico, cioè un movimento politico della storia nella duplice accezione soggettiva e oggettiva del genitivo – cioè un prodotto della storia e, simultaneamente, un momento di brusco mutamento nella storia – non è suscettibile di ripresentarsi nella medesima forma.
Osservo, però, insieme a tantissimi altri, da alcuni anni, anche ben prima che la vicenda politica italiana conducesse un partito postfascista a governare il Paese, delinearsi all’orizzonte del nostro presente un nuovo pericolo per la qualità della democrazia. Ribadisco: si tratta di una minaccia per la qualità della vita democratica, non per la sua sopravvivenza. Un pericolo che proviene da quella vasta area di partiti e movimenti di massa, con un seguito quindi molto numeroso, non minoritario e talvolta addirittura maggioritario, che noi convenzionalmente chiamiamo “populisti” e “sovranisti”. Ed è qui, io credo, che va rintracciata anche la linea di discendenza tra il fascismo storico e la politica odierna. Non si tratta affatto di una linea diretta, bensì di una linea tortuosa, a scorrimento carsico, che per decenni avanza sommersa per poi riemergere, una discendenza in molti casi illegittima, nel senso che non autorizza il riconoscimento certo ed esplicito di Mussolini come padre.
Questa è la mia tesi: i movimenti, i partiti e soprattutto i leader politici che oggi sfidano la democrazia nella forma che noi abbiamo conosciuto fino a ora, cioè la piena democrazia, la democrazia parlamentare liberale, teorizzando o praticando formule intimamente contradditorie quali quella di “democrazia autoritaria”, siano essi italiani, spagnoli, francesi, tedeschi, brasiliani o statunitensi, non discendono dal Mussolini fascista. Essi discendono, invece, dal Mussolini populista.
Vi è, infatti, una seconda tesi, correlata alla prima: Mussolini non fu soltanto l’inventore del fascismo, il fondatore dei Fasci di combattimento e del Partito nazionale fascista; fu anche l’ideatore di quella prassi, comunicazione e leadership politica che noi oggi chiamiamo populismo sovranista.
Questo fa sì che la discendenza dal Mussolini populista non debba essere necessariamente una discendenza consapevole, biografica, cioè scritta nelle vite politiche di questi leader, dichiarata o rivendicata, ma può anche essere una discendenza inconsapevole, indiretta. In taluni casi una paradossale forma di successione che percorre a ritroso il corso del tempo, configurando una filiazione per ascendenza. Si tratta, nondimeno, di una parentela che, se noi analizziamo le forme della prassi politica attuata dai leader dei movimenti populisti e sovranisti odierni, ritroviamo a chiare lettere, ben leggibile nei loro pensieri, parole, azioni e omissioni.
Per illustrare questa mia tesi voglio partire da due aneddoti.
Il primo risale al 10 novembre del 1918. La Prima guerra mondiale è finita da pochi giorni, quest’apocalisse che ha trascinato con sé nel fango e nel sangue l’intera civiltà europea. Un trauma collettivo ben descritto dal grande poeta francese Paul Valéry quando, all’indomani del conflitto, scrisse: “Oggi le civiltà sanno di essere mortali.”
Ebbene, la carneficina è finita, l’Italia, dopo aver pagato un costo altissimo in termini di vite umane, figura tra i Paesi vincitori, e a Milano, la città laboratorio politico del nuovo secolo, il pensiero della gente va alle Cinque giornate. Le Cinque giornate furono l’insurrezione della popolazione milanese nel 1848 contro l’occupante austriaco, uno dei momenti sorgivi di quel processo di risveglio che condurrà all’unificazione d’Italia, cioè alla nascita della nazione italiana, cinque giorni gloriosi nei quali il popolo di tutti i ceti sociali, a malapena armato, insorse quasi spontaneamente, disseminò le strade cittadine di barricate riversando all’esterno, nello spazio pubblico, buona parte dei beni che avevano servito e impreziosito fino alla vigilia gli spazi privati (arredi, macchinari, suppellettili) e, con la sola forza di una magnanima disperazione, sconfisse sul campo una guarnigione del più potente e temuto esercito dell’epoca.
In quel novembre di settanta anni dopo, al termine di una nuova, mostruosa guerra contro gli austriaci – che era stata propagandata come il capitolo finale del Risorgimento – a Milano, intorno al monumento delle Cinque giornate, se ne ricorda la scintilla iniziale, l’eroismo all’origine della nazione. In questa cornice, un ancora giovane politico e giornalista d’assalto, il quale, fino a prima della guerra, era stato uno dei leader più amati dall’ala radicale del Partito socialista rivoluzionario italiano e poi era stato espulso dallo stesso con ignominia proprio per aver abbandonato le posizioni pacifiste dell’Internazionale socialista onde passare nelle file dell’interventismo, si trova in piazza insieme ai milanesi. Questo giovane leader politico in cerca di una nuova strada verso il potere, di un nuovo popolo dopo che il popolo socialista lo ha ripudiato mutando l’amore iniziale in odio feroce, si chiama Benito Mussolini. Benito Mussolini è, in questo momento, un randagio in cerca di una nuova casa, un attore in cerca di un pubblico, un avventuriero con tutta la flotta bruciata alle spalle e di fronte a sé un muro d’odio alzato dagli ex compagni socialisti. Lo accompagna l’amara consapevolezza dell’impossibilità di tornare indietro e, al contempo, l’eccitante sensazione di vivere un’epoca tumultuosa – crepuscolo e alba simultanee – nella quale tutto, letteralmente tutto, è possibile. Anni formidabili, in cui “un giorno esci di galera e il giorno dopo sei presidente del Consiglio”. Ebbene, sotto il monumento che celebra le Cinque giornate attraverso la personificazione dei loro momenti più eroici, Mussolini ha una delle tante sue – va riconosciuto – folgoranti intuizioni. Cosa fa? All’improvviso, sale sul camion degli Arditi.
Chi sono questi Arditi? E cosa ha significato il gesto di prendere posto accanto a loro su quel mezzo da guerra? Gli Arditi erano truppe d’assalto, corpi speciali dell’esercito italiano che, negli anni della Prima guerra mondiale, erano stati celebrati dalla propaganda patriottica come veri e propri eroi. Gli Arditi erano al tempo stesso una élite guerriera e la feccia dell’esercito. Spesso reclutati tra le file dei criminali comuni, cui veniva offerta l’alternativa tra l’arruolamento e la galera, non facevano regolare vita di trincea insieme alla truppa, non conoscevano la annichilente, terrificante esperienza di albe e notti infinite nel fango sanguinolento della prima linea, in un paesaggio umano e fisico desertificato da anni di assalti e bombardamenti, una waste land popolata da un’umanità alienata, una landa disseminata di crateri lunari. A loro era concesso di fare la “bella vita nelle retrovie” – donne di guarnigione, ubriacature di naufragi, gozzoviglie furibonde – a patto che poi si facessero trovare pronti quando i camion scoperti venivano a prelevarli per condurli a spericolate azioni di commando spesso suicide. Gli Arditi venivano, dunque, glorificati proprio per quelle presunte virtù guerriere che negavano alla radice le caratteristiche del buon soldato. Si era costruito, infatti, un vero e proprio mito dell’arditismo.
Basti pensare che, a distanza di più di un secolo, nella lingua italiana sono ancora in uso modi di dire che riecheggiano il mito degli Arditi anche nell’inconsapevolezza di chi li usa. Per esempio, quando qualcuno intende proclamare di essere determinato, agguerrito, da noi si dice di avere “il coltello tra i denti”: “Andrò a sostenere questo esame con il coltello tra i denti”; “Marcherò il centravanti avversario con il coltello tra i denti”. Perché si dice così? Perché nella retorica iconografica l’Ardito veniva rappresentato come colui che andava all’assalto della postazione nemica con la camicia aperta sul petto – cioè contravvenendo le norme dell’abbigliamento militare –, con una granata da lancio in una mano, una pistola nell’altra e il coltello – “arma latina per eccellenza” avrebbe detto Mussolini –, tra i denti.
In quel pomeriggio del novembre 1918 il mito dell’arditismo è, però, in fase crepuscolare. Gli Arditi sono stati celebrati e osannati durante la guerra dalla propaganda nazionalista come eroi, però, tornata la pace, sono stati invece emarginati e addirittura sottoposti a una forma di congedo umiliante, lasciati a marciare per settimane sotto la pioggia prima della dismissione, proprio loro, ai quali non era mai stato chiesto di fare la trincea, di marciare, di sottoporsi alla dura e ottusa disciplina militare; infine, sono stati salutati senza nessuna celebrazione, senza nessun rito onorifico, quasi di nascosto. Cacciati come si licenzia una serva infedele, dirà Mussolini.
Perché è accaduto? Perché sono dei professionisti della violenza, non sempre ma spesso sono delinquenti comuni ai quali, come si è detto, veniva lasciata la scelta tra andare in galera o andare nei corpi d’assalto; perché, se si addestrano degli uomini a vivere di violenza, poi è difficile reintegrarli nella pacifica vita civile. Ecco perché vengono messi in disparte, nascosti, persino umiliati. La Patria ora non ha più bisogno delle loro bombe a mano, delle loro pistolettate a bruciapelo, dei coltelli tra i loro denti. E quasi se ne vergogna.
Ma Benito Mussolini non ha un popolo, è in cerca di un nuovo pubblico, di una nuova strada verso il potere. Gli Arditi si trovano al monumento delle Cinque giornate su uno di quei camion aperti con cui venivano portati al fronte quando si trattava di assaltare le postazioni nemiche, imbandierati con quelle loro bandiere lugubri, bandiere nere, con quei loro emblemi orrorifici, un teschio che morde un pugnale. Ed ecco l’intuizione: questi professionisti della guerra che adesso nessuno più vuole perché c’è la pace, precipitati improvvisamente dalla condizione di eroi a quella di reietti, questi violenti apparentemente irriducibili a qualsiasi ordinata disciplina, sono in realtà dei mastini della guerra in cerca di un padrone. Soprattutto – questa la metà più innovativa e lungimirante, purtroppo, dell’intuizione mussoliniana – il popolo di cui il futuro duce va in cerca può e deve essere un esercito. Esercito politico, personale e privato. Una milizia nella quale il militante e il militare coincidano pienamente. Una macchina da guerra da tempo di pace, votata non a preservare quest’ultima ma a prolungare la prima portando le trincee nelle strade cittadine. E, allora, Benito Mussolini chiama a sé quei cagnacci, sale sul loro camion, ci sale proprio fisicamente, non soltanto metaforicamente.
Che cosa succede dopo? La scena successiva – perdonate il romanziere – si svolge in osteria. Osteria, grandi bicchierate di vino, canti, cori militari, riti camerateschi, gesti di lealtà virili, le mani sulle spalle, le mani nelle mani, giuramenti degli Arditi che promettono la propria fedeltà a Mussolini (tenete conto che Mussolini era un personaggio molto noto, era un celebre tribuno, quindi, diciamo, era famoso). E Mussolini, che in seguito tradirà tutto e tutti sistematicamente, a cominciare da se stesso, si proclama fedele per la vita a quei guerrieri senza più uno scopo e insiste a difenderli dal suo giornale – era titolare di un giornale, Il Popolo d’Italia, ci ritorneremo in seguito – dalla sua tribuna personale, deprecando il trattamento ingeneroso e inglorioso che lo Stato italiano, la Patria ingrata ha riservato a loro. Una polemica giornalistica che, al tempo stesso, alimenterà e si gioverà del senso di delusione e di tradimento enormemente diffuso tra i reduci italiani – ex soldati di un esercito vittorioso che si sentono però degli sconfitti – riassunto magistralmente dall’immagine della “vittoria mutilata”, geniale invenzione linguistica dovuta a Gabriele D’Annunzio, al quale non a caso Mussolini contenderà con accanimento il ruolo di leader degli sbandati.
Eccoci, dunque, al cospetto di una delle radici del fascismo, quella più canonica: il legame d’origine tra fascismo e violenza politica sistematica, ostentata, omicida. Questi professionisti della guerra, aizzati dall’odore del sangue come cani da punta, incapaci di riconvertirsi alla vita pacifica, alla vita civile, che vivono ormai di violenza e per la violenza, diventeranno, infatti, il primo nucleo delle squadre fasciste.
Per rendersi conto di quale importanza venne riconosciuta agli Arditi nella fondazione del movimento fascista, basti pensare che la leggenda delle origini aveva battezzato con il nome numinoso di “covo numero 1” la sede milanese dell’Associazione degli Arditi d’Italia (si trovava nel retro di una bottiglieria in via Cerva, nel quartiere allora malfamato del Bottonuto), mentre alla sede de Il Popolo d’Italia in via Paolo da Cannobio, il quotidiano in cui Mussolini aveva il proprio ufficio e organo ufficiale del fascismo, spettava l’onore minore di esser stato il “covo numero 2”. Per comprendere, poi, quale ruolo attivo e decisivo essi ebbero nella nascita del fascismo, basti pensare che quando, nella tarda primavera del 1924, da Roma si deciderà di far fuori Giacomo Matteotti, ultimo, tenace oppositore parlamentare a viso aperto, l’uomo incaricato di eseguire il lavoro sporco, Amerigo Dùmini, convocherà quattro famigerati ex Arditi milanesi della sede di via Cerva.
Torniamo, però, al momento del gesto fondativo. La cronologia è eloquente: 10 novembre 1918, al termine del corteo della vittoria sotto il monumento delle Cinque giornate, Mussolini sale sul carro degli Arditi. Pochi mesi dopo, 23 marzo 1919, atto di nascita ufficiale del fascismo con la fondazione dei Fasci di combattimento in piazza San Sepolcro a Milano, in una sala presa in affitto dal Circolo dell’Alleanza industriale e commerciale.
Quante persone partecipano a questa prima assemblea fondativa del movimento fascista? Cento. Cento a malapena. Cioè meno di quanti noi siamo oggi qui dentro. Così nasce il fascismo. Con un fiasco. Un tale insuccesso da costringere gli organizzatori a disdire la sala del Teatro Dal Verme, capace di mille posti, inizialmente prenotata. Va detto che tra quei cento figuravano anche personaggi noti, qualche piccolo imprenditore, persino alcuni artisti ma, accanto a essi e a una manciata di sindacalisti rivoluzionari e gazzettieri disperati, ci sono soprattutto loro, gli ex Arditi, i professionisti della violenza.
La violenza rimarrà sempre il bagliore primigenio del fascismo e lo accompagnerà in ogni momento della sua storia, fino alla fine, fino al crepuscolo apocalittico della Seconda guerra mondiale. La violenza, alfa e omega del fascismo.
Il punto di partenza, il covo numero uno del fascismo va cercato lì, nella sede degli Arditi, In principio è, dunque, la violenza. All’origine del fascismo, a suo fondamento, c’è l’esperienza delle trincee, ci sono tre anni trascorsi da giovani maschi a mangiare, bere, fumare e dormire nella poltiglia dei cadaveri in decomposizione dei propri commilitoni. Il Männerbund, il legame virile tra maschi uniti nella fratellanza d’armi, quella fu l’esperienza fondante dell’antropologia fascista (e questo è anche il principale motivo per il quale il fascismo nella sua forma novecentesca non può ripresentarsi nell’Europa occidentale odierna, benedetta da settant’anni di pace e popolata da tre generazioni ignare della violenza bellica).
Ebbene, questo legame d’origine tra fascismo e violenza disegna un tratto essenziale che non va mai dimenticato né trascurato. Se però ci fermassimo soltanto a esso, non capiremmo il fascismo. Non lo capiremmo perché se il fascismo si fosse limitato all’esercizio di una nuova forma di violenza politica sistematica, non avrebbe mai conquistato il potere. Mussolini – è vero, verissimo, indubbio – stuprò l’Italia con gli Arditi divenuti squadristi, ma non si limitò a stuprarla, la sedusse anche. Le due azioni furono simultanee: il futuro duce sedusse l’Italia mentre i suoi cani della guerra la stupravano.
La violenza insita nello stupro non fu, inoltre, affatto estranea all’opera di seduzione. Non ci fu da un lato la violenza e dall’altro la seduzione. Al contrario, quella peculiare forma di violenza fascista divenne, purtroppo, a sua volta seducente, divenne un oggetto di desiderio politico per moltissimi esponenti della piccola borghesia nazionale che in essa, pur restandone inorriditi, vagheggiavano la soluzione di una crisi sociale altrimenti irrisolvibile. Lo squadrismo orchestrato da Mussolini sedusse prima l’Italia e poi il mondo. Non dobbiamo dimenticare, per esempio, che il fondatore del fascismo fu il modello di Adolf Hitler, così come lo fu per tanti altri leader di movimenti politici autoritari europei e americani.
C’è, dunque, una seconda origine, una seconda radice del fascismo che non possiamo ignorare, salvo correre il rischio di non comprenderlo: c’è la seduzione, accanto, insieme e durante la violenza. Questa seconda origine è racchiusa in un altro aneddoto.
È il 17 novembre del 1919, cioè pochi mesi dopo la riunione fondativa dei Fasci di combattimento. Si tengono in Italia le prime elezioni politiche libere del dopoguerra (libere fino a un certo punto, visto che votano solo i maschi e questo già basterebbe abbondantemente, dal nostro punto di vista, a ritenerle non democratiche). Il clima, come dicevamo in principio, è quello di chi sente che tutto è possibile, di chi si sente sul punto di “dare l’assalto alla storia” (per citare una formula tipica del fascismo e del suo rapporto con la Storia, ma pienamente condivisibile dai “nemici” socialisti). È appena finita la guerra mondiale, tre antichi Imperi sono appena crollati e, insieme a essi, tre dinastie che hanno governato l’Europa per secoli sono cadute nell’arco di poche settimane; il movimento socialista annuncia la rivoluzione mondiale; in Russia l’ha già fatta vittoriosamente. Tutto può accadere? È uno di quei rari momenti nei quali – come disse Italo Calvino a proposito del secondo dopoguerra – ci si sente depositari di “un senso della vita come qualcosa che può ricominciare da zero”. Il clima è febbrile, il succedersi degli avvenimenti traduce sussulti apocalittici, come nelle notti in trincea.
Mussolini, dopo aver predicato a lungo il disprezzo per la finta democrazia elettorale e affermato il rifiuto dei fascisti di prendere parte a quella commedia, attuando uno dei tanti opportunistici e spregiudicati cambi di direzione tipici del suo modo di fare politica (lo vedremo tra poco), si è candidato per la prima volta con una lista del movimento che ha fondato con sole cento persone in piazza San Sepolcro pochi mesi prima. Non è ancora il Partito nazionale fascista, è per ora solo il movimento dei Fasci di combattimento. In questa lista improvvisata in tutta fretta nel tentativo di contendere a D’Annunzio (di nuovo in auge dopo l’impresa di Fiume) la leadership sui reduci della Grande guerra, figurano anche delle personalità di spicco: non c’è solo Mussolini; c’è Filippo Tommaso Marinetti, l’inventore del futurismo, un uomo a suo modo geniale; c’è Arturo Toscanini, il grande direttore d’orchestra, un maestro già celeberrimo che di lì a pochi anni diventerà uno dei simboli internazionali dell’antifascismo ma che nel clima febbricitante di questi giorni guarda con interesse e simpatia a quei giovani irruenti determinati a cambiare il mondo, a spazzare via il vecchiume del potere ottocentesco, addirittura li finanzia.
Attenzione. Come si chiama la lista con cui i primi fascisti si candidano alle elezioni? Si chiama “Blocco Thévenot”, con tanto di simbolo. Che cos’era la Thévenot? Era una bomba a mano, una granata da lancio, per la precisione. I fascisti si candidano, quindi, alle elezioni democratiche con una lista il cui simbolo elettorale è una bomba a mano che usavano le truppe d’assalto durante la Prima guerra mondiale. I loro intenti non potrebbero essere più espliciti.
Quali esiti danno le elezioni per Mussolini? Un disastro, una sconfitta bruciante. La lista dei Fasci di combattimento ottiene in tutta Italia soltanto 4657 voti. 4657. Pochissimi. Nessun eletto, nemmeno Mussolini. Il capolista ottiene soltanto 2427 preferenze. In tutta Italia.
E dall’altra parte? Qual è il responso delle urne per l’altra formazione dichiaratamente rivoluzionaria, decisa a usare provvisoriamente lo strumento elettorale del sistema democratico solo in vista della sua successiva soppressione? Il Partito socialista italiano, che è il partito da cui Mussolini proveniva, da cui è stato espulso e che è adesso il suo principale nemico, ottiene più di 1.800.000 voti. Vedete la sproporzione. Avete su una mano 1.800.000 voti, un successo travolgente, le masse popolari che marciano sotto una comune bandiera, la bandiera rossa della rivoluzione proletaria, e dall’altra questi pochi reduci scalcagnati, forsennati, violenti. Frustrati. Soltanto 4657 voti. Una granata da lancio in una mano e l’altra a stringere un pugno di mosche.
A questa data molti ritengono che Benito Mussolini sia un politico finito. Gli ex compagni socialisti inscenano un finto funerale a bara aperta in via Paolo da Cannobio, sotto le finestre del direttore de Il Popolo d’Italia. Vanno a sfottere il traditore, l’ex compagno sconfitto, vanno a prenderlo per i fondelli. Benito Mussolini è costretto a sbirciare dalla finestra, nascosto dietro le tendine di mussola, un fantoccio con le sue fattezze portato in processione sull’onda di canti goliardici, sarcastici e trionfali. Sull’Avanti!, il giornale simbolo del socialismo, il quotidiano che il fondatore del fascismo aveva orgogliosamente diretto fino al novembre del 1914, compare un piccolo trafiletto con una fake news – diremmo noi oggi – derisoria: “Ritrovato nel Naviglio un cadavere sconosciuto. Alcuni ritengono sia il cadavere di Benito Mussolini.”
Quello sberleffo fasullo suona a tutti come un autentico epitaffio funebre su una carriera politica finita. Pensate che Luigi Albertini, il proprietario e direttore del Corriere della Sera, uno dei più importanti esponenti del pensiero liberale italiano dell’epoca, intercede presso Francesco Saverio Nitti, il presidente del Consiglio, affinché Benito Mussolini, che si trova in galera, venga liberato.
Perché Mussolini è in galera? Cosa è accaduto? È accaduto che il giorno seguente le elezioni, durante un’irruzione dei carabinieri nell’ufficio de Il Popolo d’Italia, sono rinvenute pistole, mazze e bombe a mano. Benito Mussolini viene, perciò, arrestato con l’accusa, fondatissima, di aver costituito delle bande armate (proprio in quelle ore, Albino Volpi, famigerato ex ardito milanese e protosquadrista fascista, futuro assassino di Giacomo Matteotti, scaglierà due di quelle bombe nel mezzo del corteo dei socialisti festanti, colpendo anche donne e bambini).
Ecco, dunque, dopo la cocente sconfitta elettorale, il colpo di grazia che avrebbe potuto (o dovuto?) porre fine al fascismo al suo inizio. Il fascismo è sul punto di morire sul nascere. Purtroppo, però, Luigi Albertini, dando prova di una forma di accecamento nei confronti della minaccia fascista che si manifesterà molte volte negli anni a seguire da parte dei pensatori liberali, corre in soccorso del nemico illiberale. Dai suoi uffici eleganti di via Solferino a Milano, circondato da legni pregiati e squisiti ferri fioriti in stile Liberty, Albertini telefona a Roma al presidente del Consiglio: “Senta, Nitti,” gli dice, “liberate quel Mussolini. È già un rudere. Non facciamone un martire.” E loro da Roma lo liberano. È il 19 novembre 1919.
Non sono soltanto Albertini, Nitti e i socialisti a ritenere Benito Mussolini un uomo politicamente finito. È lui il primo a pensarla così. Ne è testimone la sua principale amante e mentore dell’epoca, Margherita Sarfatti, esponente dell’alta borghesia milanese, moglie di un noto avvocato infatuato del socialismo, figlia di un ricchissimo imprenditore ebreo veneziano, donna di raffinata cultura, di frequentazioni altolocate, collezionista ed esperta d’arte, che da tempo patrocina l’ascesa politica di quel “selvaggio” venuto dalla provincia, dirozzandolo, acculturandolo come può e introducendolo negli ambienti della Milano che conta. Con lei, nel segreto dell’alcova, Mussolini sfoga la propria frustrazione: “Basta, basta con la politica! Non ne posso più, ne ho fatta fin troppa: cambio mestiere. Posso fare il violinista girovago,” (Mussolini sapeva strimpellare il violino), “posso scrivere commedie, posso scrivere un romanzo” (chissà perché, quando uno non sa cosa fare, pensa di scrivere un romanzo). Margherita Sarfatti lo consola, lo consiglia, lo sprona e Mussolini ritorna sui suoi passi.
Riprendiamo dunque in mano la cronologia degli eventi. 19 novembre 1919: Mussolini è ritenuto da tutti, a cominciare da se stesso, un politico finito. 28 ottobre 1922: due anni e undici mesi più tardi, Mussolini, dopo aver minacciato la rivoluzione violenta con i suoi squadristi accampati alle porte di Roma ma viaggiando comodamente in vagone letto da Milano perché convocato ufficialmente dal re d’Italia Vittorio Emanuele III, sale le scale di marmo del Quirinale – una reggia – e riceve, lui, figlio di un fabbro, nato in una frazione di uno sperduto paese della provincia italiana, a soli trentanove anni, riceve da Sua Maestà l’incarico legale di formare il suo primo governo. Ciò accade, è bene ribadirlo, al culmine della cosiddetta marcia su Roma – una insurrezione armata che l’esercito avrebbe potuto agevolmente stroncare se soltanto il Re glielo avesse ordinato – a fine ottobre del 1922, quindi soltanto tre anni dopo le disastrose elezioni del 1919, l’arresto di quel cialtronesco agitatore fallito e la certificazione quasi unanime del suo decesso politico.
La questione sollevata da questa seconda origine del fascismo è, dunque, la seguente: come è stato possibile che un uomo piuttosto rozzo e ignorante, giovane per quei tempi – nell’ottobre del 1922 Mussolini aveva trentanove anni e questo faceva di lui il più giovane capo di governo d’Europa, forse del mondo –, figlio di un fabbro, cioè figlio del popolo, con quasi niente alle spalle, venuto dal nulla, espulso dal Partito socialista, ritenuto da tutti un politico fallito soltanto tre anni prima, come è stato possibile, dunque, che si sia issato al potere, un potere ricevuto ufficialmente e legalmente dalle mani auguste del re d’Italia?
La risposta si potrebbe trovare nell’aneddoto del novembre 1918, in quel balzo grazie al quale Mussolini sale sul camion degli Arditi: la violenza, la violenza ideologicamente orientata di una milizia armata per la prima volta identificata con un partito politico, la minaccia della violenza omicida. E si tratta sicuramente di una risposta pertinente che non va mai dimenticata né sottovalutata. Eppure io credo che non sia sufficiente per spiegare cos’è accaduto, per spiegare l’inspiegabile. Se vogliamo davvero capire, non dobbiamo, come dicevo, guardare soltanto al Mussolini stupratore dell’Italia, ma anche al Mussolini suo seduttore. E il Mussolini seduttore non si specchia nella grinta terrificante dello squadrista, non coincide con il fascista in senso stretto, ma con il suo volto populista. È solo ritrovando, al di sotto delle espressioni marziali della maschera fascista, anche i tratti suadenti del populista, che giungeremo a spiegarci, oggi come allora, la fulminea scalata nei consensi che conduce l’emarginato di ieri alla travolgente conquista del potere di oggi, o di domani.
II.
POPULISMO
Populismo è una parola vaga, generica, usata spesso in maniera imprecisa, talvolta persino equivoca; una parola-amuleto, cui si ricorre per esorcismi linguistici quando ci si trova di fronte a una realtà sfuggente e inquietante, fantasmatica e minacciosa; la portiamo in giro in processione come si faceva anticamente con la statua del santo patrono nei paesi del Sud di fronte a un cataclisma o a una carestia; dobbiamo maneggiarla con cautela (e persino con parsimonia).
Per parte mia, da diversi anni a questa parte, mentre mi sforzavo di comprendere narrativamente Mussolini dal punto di vista di uno scrittore del Ventunesimo secolo, ho visto delinearsi alcune caratteristiche capaci di definire la fisionomia politica del populismo e, soprattutto, la forma della sua leadership. Sono affiorate ai miei occhi entro uno sguardo bifocale, rivolto simultaneamente al passato e al presente, assumendo l’aspetto di vere e proprie regole, cioè di riferimenti normativi dell’agire. Sono i precetti, i procedimenti, le tecniche politiche che cento anni fa consentirono al duce del fascismo, unite alla violenza squadrista, di sedurre l’Italia dopo averla stuprata e, persino, mentre la stuprava.
Personalizzazione autoritaria
“Io sono il popolo”. È questa la prima regola del populismo mussoliniano. Il Mussolini populista – e, dopo di lui, tutti i leader populisti fino ai nostri giorni – inizia da questa affermazione. Un’affermazione che sarebbe già di per sé prepotente, pretenziosa e illogica. Ma lui non si limita a questo. Del tutto indifferente al crampo logico-grammaticale in cui incorre, afferma anche l’inverso: “Il popolo sono io.” Se la prima affermazione si avventura in una sineddoche (la parte per il tutto) spropositata e già pericolosa, la seconda opera la violenta riduzione di una numerosissima pluralità alla singolarità del leader carismatico.
Il termine “populista” configura uno di quei casi in cui la parola dice tutto. Tutto e niente. Ribattezzando il singolo con il nome di un’entità collettiva, riduce il tutto al quasi-niente del singolo individuo: “populista”, io sono il popolo, il popolo sono io.
Questo “io” onnivoro precede ogni pensiero, argomentazione, programma; comporta una fortissima accentuazione di tipo personalistico dell’intera proposta politica. Nel caso di Benito Mussolini, l’ingresso in politica di questo “io onnivoro” viene annunciato da una rivoluzione nel linguaggio giornalistico. La si scopre se si vanno a rileggere i suoi articoli, efficacissimi, formidabili a modo loro, che rivoluzionarono il giornalismo del tempo. E, soprattutto, se li si confronta con i testi imbevuti di cultura letteraria ottocentesca che ancora dominavano la stampa italiana di inizio Novecento.
Benito Mussolini non dimenticò mai di aver cominciato come giornalista (conservò durante l’intero ventennio della dittatura la proprietà e, per interposta persona, la direzione della testata da lui fondata). Nemmeno noi dovremmo dimenticarlo. L’agitatore di Predappio debuttò, infatti, sulla scena nazionale come giornalista. Prima di fondare Il Popolo d’Italia, nel 1912 fu chiamato a Milano dalla provincia a dirigere l’Avanti!, l’organo di stampa del socialismo, lo stesso giornale che gli squadristi proto-fascisti assaltarono e incendiarono nell’aprile del 1919.
Il futuro duce si era guadagnato quella promozione con una sensazionale apparizione al convegno nazionale socialista di Reggio Emilia attaccando con brutale veemenza alcuni anziani patriarchi dell’ala moderata del partito, rei di aver reso visita al re ferito in un attentato. Li aveva inchiodati alle loro contraddizioni, li aveva insolentiti e persino insultati. Aveva mescolato estasi retoriche a gestualità esasperate. Aveva berciato e sbraitato, picchiato i pugni sulla tribuna e bestemmiato a più riprese.
Il pubblico si era diviso. Alcuni avevano visto in lui un folle (“L’è matt,” avevano sentenziato). Altri avevano visto in lui il futuro (“Benito Mussolini, segnati questo nome: è lui l’uomo del futuro,” aveva scritto l’avvocato Cesare Sarfatti, delegato di Milano, a sua moglie Margherita, la quale non si era fatta pregare).
Fatto sta che Mussolini era stato incaricato di dirigere il giornale del socialismo e non è certo un caso se, sette anni più tardi, la prima azione violenta degli squadristi fascisti, uniti ai nazionalisti, agli Arditi e ai futuristi, con la passiva complicità delle forze dell’ordine, fu di attaccare e incendiare proprio la sede dell’Avanti! a Milano, causando morti e feriti. Gli assalitori ne portarono, a mo’ di trofeo, come bandiera strappata al nemico, l’insegna a Mussolini, il quale, come sua abitudine, attendeva l’esito dell’azione senza esporsi personalmente, nel suo ufficio di direttore de Il Popolo d’Italia, distante soltanto poche strade. “Questa data segna il primo giorno della nostra guerra civile,” affermò quel giorno il futuro dittatore, entusiasta, calpestando il cadavere del suo recente passato, quando ebbe tra le mani l’effigie del suo vecchio giornale e di fronte un manipolo di scalmanati assassini.
Ecco, probabilmente, una terza scena madre dell’avventura fascista. Più in particolare, l’origine della seduzione populista che sempre l’ha accompagnato. questo e tutti gli altri eb0oks free cercand0 eurcadl su g0ogIe. Vi compaiono insieme i rappresentanti simbolici delle due armi principali grazie alle quali Benito Mussolini conquistò il potere: la forza fisica della violenza squadrista e l’efficacia retorica delle comunicazioni di massa. Manganello e carta stampata.
Guardiamo, allora, alla rivoluzione linguistica che Mussolini porta nel giornalismo.
Innanzitutto, frasi brevi. Brevi, brevissime e sintatticamente elementari. Soggetto, verbo, complemento oggetto. Ogni frase un detto memorabile, ogni frase interamente citabile, ogni frase uno slogan. Ma non è tutto. Ogni frase doveva anche essere agevolmente estrapolabile dal suo contesto. Il linguaggio del Mussolini giornalista si voleva libero, sfrenato, irrelato, emancipato da ogni obbligo di coerenza: i suoi articoli non manifestarono mai alcuna preoccupazione per la coerenza storica con quello che era stato detto da lui stesso un giorno prima, un mese prima, un anno prima, né con ciò che avrebbe affermato il giorno seguente e quello successivo; e nessuna preoccupazione di coerenza ontologica, cioè relativa all’ancoraggio delle parole alla realtà. Inoltre, tutte quelle affermazioni altisonanti, gridate, spesso roboanti, erano sempre precedute dal pronome personale singolare: io dico, io prometto, io minaccio… io, io, io. Di nuovo il personalismo. Il personalismo linguistico questa volta si sostituisce al complesso, controverso, faticoso pluralismo discorsivo. Il volontarismo soggettivo al ragionamento oggettivo di tipo razionale. Il leader carismatico al posto dell’amara realtà. Qualcuno potrebbe dire che quegli articoli furono gli antesignani della politica fatta a colpi di tweet. E non sbaglierebbe.
Io. Io sono il popolo. E Mussolini era indubbiamente figlio del popolo. Appena arrivato a Milano a dirigere l’Avanti!, con tipico gesto demagogico si decurta lo stipendio, inizia a scrivere parlando apparentemente la lingua del popolo e quadruplica le vendite.
Prima del figlio del popolo, a dirigere il giornale c’era stato Claudio Treves, alto esponente della dirigenza nazionale, colto e raffinato intellettuale di estrazione borghese. Uno dei non pochi privilegiati che in quegli anni si innamorarono e sposarono la causa degli oppressi. Se vi andate a leggere gli articoli di Treves, capirete meglio la novità dirompente introdotta dal populismo linguistico di Mussolini. Treves scriveva in nome del popolo ma lo faceva sciorinando una prosa colta, dotta, complessa, un periodare ricco di consecutive e subordinate. Scriveva, insomma, in nome del popolo ma in un modo che il popolo stentava a capire. Mussolini, invece, anche quando, ben presto, comincerà a mettere il fascismo al servizio di industriali e agrari sfruttatori del proletariato, scagliando i propri strali e i propri squadristi contro i rappresentanti delle classi popolari, continuerà a parlare una lingua perfettamente comprensibile dai popolani. (Treves e Mussolini, i due antitetici antagonisti, si odiarono al punto da sfidarsi a duello in piena Prima guerra mondiale. Il duello si svolse feroce in un cascinale diroccato in zona Bicocca alla periferia di Milano. I contendenti si diedero l’un l’altro ben sei assalti, rimanendo entrambi feriti).
Io. Io sono il popolo. Attenzione, come abbiamo detto di questa affermazione vale sempre anche l’inverso: il popolo sono io. Il popolo, le milioni di vite ridotte prima a massa e poi compresse dentro una sola persona. È ovvio, dunque, che basta già questa prima regola a definire il populismo mussoliniano come forte tendenza antidemocratica. Popolare, iperpopolare, quindi antidemocratica. Perché se io sono il popolo e il popolo sono io, chiunque non sia con me, chiunque non appartenga al popolo, sarà contro il popolo, fuori dal popolo, suo nemico.
Fedele alla sua prima regola, il leader populista stigmatizzerà ogni posizione politica a lui contraria non soltanto come contraria agli interessi nazionali, ma addirittura come estranea alla comunità nazionale. Antitaliana, antiamericana, antifrancese e via dicendo. Ciò basterà a dichiarare illegittima, quando non illegale, quella posizione antinazionale. I suoi rappresentanti riceveranno non soltanto critiche, ma attacchi sul piano personale, saranno insultati, additati come nemici del popolo, indicati a bersagli della sua ira violenta in qualità di traditori. Nei casi estremi saranno dichiarati “uccidibili”.
Polemica antiparlamentare
Prima di giungere a quel punto, però, nella sua fase ascendente, il populismo mussoliniano porta con sé una accanita polemica antiparlamentare. L’attacco retorico alla democrazia passa attraverso la propaganda contro il parlamentarismo. Perché? Perché il Parlamento rappresenta la moltitudine nella molteplicità: è il luogo delle mille differenze, degli interessi contrastanti, delle tante posizioni, una contro l’altra, avversarie, distinte, irriducibili. Il Parlamento è il sacrario della lenta, lunga arte della democrazia, il tempio della sua fragile bellezza. Ma, se io sono il popolo e il popolo sono io, il Parlamento diventa, allora, una perdita di tempo, un luogo di corruzione, di degenerazione patologica, di inadeguatezza, ruberie, privilegi di casta, il centro di un inutile caos cronico. Lo attende il destino dei deboli, degli inetti.
Non a caso, la violenta polemica antiparlamentare, che dipinge il Parlamento come un’inutile complicazione, un luogo di corruzione e inganno, un freno al processo di decisione politica, si ritrova all’origine di tutti i movimenti populisti, di ieri e di oggi, di destra e di sinistra.
L’archetipo di ogni successivo leader populista, Benito Mussolini, già nel 1919 definisce il movimento neonato dei Fasci di combattimento un “antipartito”, formula che riecheggia identica a cento anni di distanza nel nostro presente; il fondatore del fascismo dice di se stesso “io non faccio politica, io faccio l’antipolitica”, slogan di un secolo fa ancora ampiamente circolante nel nuovo millennio; dipinge il Parlamento di Roma come lugubre edificio funebre affollato dalle “mummie di Montecitorio”, che lui dichiaratamente si propone di “mettere in liquidazione” (altra espressione riecheggiante nella nostra recente cronaca politica). Persino l’immagine della classe politica liberale raffigurata come una “casta” chiusa nei propri privilegi, autoreferenziale e sorda al richiamo del popolo, che tanta fortuna ha avuto in tempi recenti e continua ad avere, risale a cento anni fa. La paternità di essa non spetta a Mussolini ma a Gabriele D’Annunzio (“una casta di maraja indiani rinchiusi nei lussi dei loro palazzi”), alla cui inventiva il futuro duce attinse a piene mani per allestire l’immaginario fascista.
A differenza dei populisti odierni, i quali si limitano – per così dire – a un’opera di discredito, di lenta erosione dei fondamenti parlamentari della democrazia liberale, il populismo fascista mussoliniano dichiarò fin da principio il suo disprezzo per il Parlamento, per il sistema democratico a esso collegato e l’intenzione di abbatterlo.
Lo scherno sprezzante riservato al sistema elettorale – “Noi disprezziamo la medaglietta elettorale,” erano soliti ripetere i fascisti delle origini, contrapponendo l’onore fasullo di rappresentare il popolo in Parlamento alla gloria autentica delle medaglie guadagnate sui campi di battaglia – non impedì allo spregiudicato opportunismo di Mussolini di candidare il proprio movimento alle elezioni non appena lo ritenne utile; ma il fatto di sedere in Parlamento insieme a quella masnada di “mummie”, vecchi imbalsamati, scollegati dalla realtà, corrotti e decrepiti, non gli impedì di concludere nel 1922 la sua conquista del potere con una marcia reale e simbolica sulla capitale, un attacco al cuore stesso della democrazia (la cosiddetta marcia su Roma). Nemmeno gli impedì, una volta ottenuto dal re il mandato a formare il suo primo governo, di umiliare, nel corso del suo primo discorso da presidente del Consiglio alla Camera dei deputati, l’istituzione che avrebbe dovuto rappresentare, onorare e difendere, definendola, con formula memorabile, “aula sorda e grigia”, costantemente minacciata dalla sua sempre possibile riduzione a “bivacco di manipoli”, vale a dire alla sua soppressione da parte delle milizie fasciste.
Guidare seguendo
L’antiparlamentarismo del leader carismatico prefigura un suo rapporto con la base popolare diverso e opposto a quello previsto dalle mediazioni della democrazia rappresentativa. Come abbiamo visto, il leader populista non si limita a rappresentare il popolo, egli pretende di essere il popolo. Resta, perciò, da chiedersi quale sia il rapporto che questo “capo” stabilisce con il corpo elettorale di cui si vorrebbe incarnazione verticale. Qui incontriamo la terza regola, o legge, del populismo inventato da Benito Mussolini.
Si è spesso sottolineato il tatticismo assoluto di Mussolini, il suo spregiudicato opportunismo, il pragmatismo cinico di un leader pronto a ogni trasformismo e camaleontismo, a qualsiasi cambio di rotta, di posizione, di alleanze. Tutto vero. Ma questo suo “immoralismo” sistematico non può essere ridotto a mera questione morale perché l’intera linea di condotta del Mussolini “animale politico” discendeva da una lungimirante intuizione su ciò che sarebbe diventata la politica nell’era delle masse, che allora si apriva e oggi prosegue nella sua fase matura.
Alla fine della Prima guerra mondiale, Mussolini è tra i primi a intuire che nell’era delle masse, esse saranno guidate da un leader che non starà dinnanzi a loro, che non le precederà, come la parola inglese “leader” suggerirebbe – to lead, condurre stando davanti – ma anzi le dominerà seguendole, stando un passo dietro a loro. La terza legge del populismo mussoliniano impone, cioè, un nuovo tipo di leader, il condottiero che guida le masse non precedendole ma seguendole.
Pensiamo a uno dei più celebri e altisonanti motti del fascismo (il quale, in realtà, aveva la sua origine storica nella Rivoluzione francese, anzi, nella controrivoluzione vandeana). Uno slogan spesso scritto sui muri, sulle case cantonali.
Se avanzo, seguitemi.
Se arretro, uccidetemi.
Se cado, vendicatemi.
Che cosa proclamava il duce del fascismo con queste parole? A una prima lettura sembrano evocare un Mussolini che guida il popolo come un ufficiale in battaglia, avanzando alla sua testa. No. Questa era la retorica ufficiale. La verità sulla sua leadership dobbiamo cercarla in un’altra sua frase, sussurrata non proclamata a gran voce.
Benito Mussolini diceva di sé: “Io sono l’uomo del dopo.” E lo diceva con orgoglio, vantando la propria scaltrezza politica. Io sono l’uomo del “dopo”, cioè io arrivo un attimo dopo sulla scena dell’evento politico. Non precedo, seguo. Fuor di metafora, cosa significa? Significa che il leader populista, com’è il Mussolini delle origini, non ha e non deve avere idee proprie, non ha convinzioni irrinunciabili, non ha fedeltà, non ha lealtà, non ha strategie di lungo periodo, non guida le masse verso un obiettivo lontano, alto, che lui scorge ma le masse non vedono. Al contrario, quel leader conosce solo tattica e nessuna strategia, solo occasioni e nessuna convinzione, solo prassi e nessuna teoria. Quel leader non ha e non vuole avere alcun contenuto, è un uomo cavo, è un vaso vuoto, un dispositivo efficacissimo nell’esercitare la supremazia tattica del vuoto.
Sì, perché se tu sei vuoto, se non hai principi, non hai fedi, non hai lealtà, non hai programmi irrinunciabili, non hai obiettivi strategici prefissati, non hai orizzonti imprescindibili, se consideri sacrificabile tutti i tuoi alleati, in politica sarai tatticamente vincente. Sarai vincente perché quel vaso vuoto di volta in volta si riempirà di ciò che si orecchia nelle conversazioni da bar, di ciò che si annusa in un giorno di mercato, di ciò che si percepisce stando dietro la folla, venendo un attimo dopo.
Esattamente questo fu il Mussolini delle origini. Noi, quando pensiamo al dittatore fascista, tendiamo a rievocare la sua immagine degli anni trenta, quando dal balcone di Palazzo Venezia ostentava una ben strutturata dottrina dell’uomo nuovo (mai nato), un articolato programma per l’Italia del futuro (mai realizzato), una visione del mondo (sfociata nella fine del mondo). Invece il Mussolini dei primi anni venti era un avventuriero facile a ogni travestimento, ripensamento e tradimento: prima fervente repubblicano e poi disposto a coabitare per vent’anni con la monarchia, prima profeta del libero amore e poi pronto a sposarsi in chiesa per convenienza, prima accanito anticlericale e poi sottoscrittore dei Patti lateranensi con il Vaticano, prima socialista consacrato alla riscossa del proletariato e poi alleato dei poteri forti che lo opprimevano. Nel volgere di pochi anni, Benito Mussolini tradì tutti: i pacifisti, i socialisti, i repubblicani, D’Annunzio che lo aveva ispirato, i liberali giolittiani che lo avevano portato in Parlamento, i camerati squadristi della vigilia che gli avevano spianato la strada a forza di manganellate. Soprattutto tradì se stesso, diventando l’uomo che aveva odiato da ragazzo.
Questa sistematica infedeltà del tiranno fascista si combinava, però, con una paradossale forma di coerenza. A ogni nuova brusca svolta del suo cammino, a ogni nuova promessa tradita, l’animale politico rimaneva coerente con la regola aurea del populista; rimaneva fedele a quell’intuizione secondo cui il leader nell’era delle masse avrebbe potuto governarle soltanto seguendole, non precedendole, solo a patto di non avere principi o idee propri a ostacolarlo, a patto di non avere criteri o programmi di governo a vincolarlo; rimaneva fedele al turbolento, confuso, spregiudicato tribuno delle origini, sempre pronto a ostentare disprezzo per i programmi. “I programmi sono carta straccia,” diceva quell’arruffapopolo. “Lasciamoli ai socialisti, alle loro interminabili discussioni teoriche. Io non so che farmene di dottrine e programmi; io, anzi, me ne devo disfare, perché devo potermi riempire degli umori della gente.”
Politica della paura
La supremazia politica dell’umoralità è gravida di conseguenze. Quando si riduce la vita, anche quella privata ma soprattutto quella politica, ai suoi umori – non alle sue idee, ai suoi ragionamenti, alle sue convinzioni, ai suoi principi, ai suoi sentimenti ma ai suoi umori –, la si riduce, infatti, quasi sempre ai suoi malumori. Fateci caso: il buon umore è, per fortuna, una disposizione d’animo non poco diffusa a livello individuale ma, quanto al temperamento collettivo, soprattutto nei periodi di crisi economica e sociale, il malumore predomina decisamente.
E qual è il carattere dominante della vita ridotta ai suoi umori neri? Una mescola di biliosità e malinconia, uno stato d’animo di vaga tristezza, alimentato dall’indugio compiaciuto in sentimenti di inquietudine e delusione amalgamati a risentimenti collerici. All’origine e al centro di tutto sta la paura. La quarta regola del populismo fascista riguarda proprio questo stato emotivo di apprensione e repulsione in prossimità di un pericolo vero o presunto: un leader populista pratica una politica della paura; un leader populista non si appella quasi mai alle speranze del suo popolo ma quasi sempre alle sue paure.
Qui cade un’altra intuizione lungimirante e vincente del Mussolini populista. Mussolini, l’abbiamo detto, veniva dal Partito socialista, e il Partito socialista era il partito della speranza, il partito di chi prometteva agli uomini comuni: “la vita dei tuoi figli potrà finalmente essere migliore della tua, e quella dei tuoi nipoti migliore di quella dei tuoi figli.” Il simbolo mondiale del socialismo era il Sole dell’Avvenire, l’astro raggiante che splendeva su di un domani migliore. Il socialismo prometteva alle masse degli umiliati e offesi della storia un domani di speranza, un futuro di riscatto e giustizia.
Mussolini quella promessa la conosceva benissimo, ma ne era stato escluso, bandito, espulso, e sapeva benissimo, dunque, di non poter praticare una politica della speranza. La politica della speranza gli era preclusa e lui, allora, smanioso di trovare una diversa strada che lo conducesse al potere, comprese che esisteva, come esiste tuttora, un’unica passione politica più potente della speranza: la paura.
Nel 1919, milioni di donne e di uomini speravano in un futuro migliore e sentivano prossimo il tempo dell’avvento, il momento in cui quel futuro avrebbe fatto irruzione nel presente. Ma moltissimi tra quei milioni di donne e di uomini, soprattutto di uomini, avevano anche vissuto di paura gli ultimi quattro anni delle loro esistenze nelle trincee della Prima guerra mondiale, dove il nemico lo vedevi di rado e solo quando ti piombava addosso per sventrarti con la baionetta, dove la morte ti pioveva in testa dal cielo nei bombardamenti senza che tu potessi rendertene conto, dove addirittura la morte era invisibile e impalpabile, insufflata nei tuoi polmoni attraverso il gas. Per anni quegli uomini avevano mangiato, fumato, bevuto paura, e quella paura ora li seguiva come un’ombra nella vita civile del mondo riappacificato, determinando il tono umorale di fondo attraverso cui andavano incontro al loro giorno.
Ma di cosa avevano paura quei reduci della grande paura una volta tornati alle loro case? Delle speranze degli altri. La piccola borghesia, che aveva faticosamente guadagnato qualcosa nei primi anni del nuovo secolo, e la grande borghesia, che aveva molto da perdere, avevano paura della speranza dei socialisti, cioè della rivoluzione. Avevano paura di quel futuro di redenzione dei torti. Mussolini allora, bandito dalla speranza socialista, nella sua propaganda postbellica scommette la sua intera posta sul suo contrario; soffia sulla paura, la alimenta, la ingigantisce: il socialismo è una barbarie, il socialismo è una pestilenza, il socialismo è l’orda di un invasore straniero che minaccia dall’interno il nostro Paese.
Chiunque avrebbe potuto ribattere: “Invasore straniero? Ma come? I socialisti sono italiani, sono cresciuti a fianco a te, ci hai giocato insieme in cortile, tu stesso eri un socialista fino a ieri!” E lui avrebbe replicato: “I socialisti non sono né saranno mai italiani, perché anche i socialisti nati in Italia hanno come modello, come ideale, la Rivoluzione russa e, quindi, sono portatori di un morbo infettivo, di una epidemia letale.” Quella epidemia, non a caso, che la propaganda fascista dei primi anni venti definiva “peste asiatica”. I nemici socialisti, gli italianissimi portatori della peste di cui il populismo fascista invitava ad aver paura, erano rappresentati come invasori stranieri accampati nel territorio della nazione.
Il fascismo fu una strategia della paura integrale e totale, sia sul versante che oggi definiremmo populista sia su quello specificamente fascista. La sistematica e micidiale violenza esercitata dalle squadre fasciste su vasta scala generava, infatti, paura e terrore. E Mussolini ne faceva un uso deliberato, calcolato e cinico, alternandola a dosi di rassicurazione e lusinghe. Il dispositivo fascista si servì, dunque, della paura generata dalla violenza squadrista per raggiungere i propri obiettivi politici (tattica culminata nella cosiddetta marcia su Roma quando fu sufficiente la minaccia della violenza, che da sola non sarebbe mai bastata, a far sì che Mussolini vincesse la partita abilmente condotta su due tavoli).
Ma se il “duce” poté conquistare il potere fu perché oltre alla paura diffusa dei fascisti riuscì a capitalizzare la paura diffusa dai fascisti. Se con una mano il fascismo seminava paura, con l’altra il populismo fascista fu capace di fugarla trasformandola.
Commutare la paura in odio
E qui incontriamo un piccolo comma – piccolo ma decisivo, quasi una legge a sé. Un codicillo della regola che prescrive di sostituire una politica della paura alla politica della speranza: dopo aver seminato la paura, i leader populista deve essere capace di operare una sorta di commutazione alchemica della paura in odio.
Prima Mussolini insinua la paura, soffia sulle ansie della gente, sulle passioni tristi, sul senso di delusione, di sconfitta, di tradimento, sul risentimento e sul rancore che moltissimi provavano, dopo aver combattuto, una volta tornati a casa, dove ciò che era stato loro promesso non veniva dato, dove non trovavano lavoro, dove i prezzi salivano alle stelle, dove si faceva fatica a trovare la benzina, a riempire il piatto di minestra.
Il Mussolini populista prima soffia sulla paura. Poi, però, fa questa seconda mossa. Dice: “La minaccia è gravissima, è incombente, è mortale; il pericolo sono i socialisti; sono stranieri, vogliono invadere il nostro Paese; sono stranieri, ma sono accampati sul nostro territorio. Tu devi averne paura.” E con voce maligna aggiunge: “Ma tu non ti devi limitare ad averne paura, devi odiarli; non basta temere, bisogna odiare.”
Il vangelo populista invitava, quindi, a passare da un sentimento passivo, ripiegato, depressivo, quale è la paura, a un sentimento attivo, espansivo ed euforizzante come l’odio. Avete mai provato a odiare qualcuno? Quando odi qualcuno ti senti vivo – come quando lo ami e, forse, persino di più. È questa una triste verità: ma se noi non riconosciamo questi meccanismi che presiedono alle nostre azioni e reazioni, non capiamo il fascismo nazionalista di allora e nemmeno i populisti sovranisti di oggi.
Semplificare la vita moderna
E qui viene lo schema di gioco vincente, ed è la sesta regola del populismo mussoliniano. Si intitola “brutale semplificazione della complessità della vita moderna”.
Mussolini fu tra i primi a intuire le vaste implicazioni politiche del senso di oppressione provocato in tutti noi dall’enorme complessità della vita moderna, come già grandi pensatori dall’Ottocento avevano compreso filosoficamente. Teniamo presente, ad esempio, la metafora di Hegel, il quale, nella Fenomenologia dello spirito, paragona l’affannarsi del soggetto moderno a un moscerino preso nella tela di ragno della eccessiva complessità della vita: più si muove e più il viluppo si stringe intorno a lui. Mussolini, che non aveva alcuna propensione per il ragionamento filosofico, spostò questa intuizione sul piano della prassi politica. Capì che il fascismo non disponeva soltanto della violenza che annienta l’avversario fisicamente, ma poteva altresì avvalersi della brutalizzazione della vita politica capace di annientare il pensiero; avrebbe potuto valersene con enorme guadagno di seguito, perché tutto ciò sarebbe stato di enorme sollievo per le masse.
Così la propaganda del populismo fascista batté insistentemente su questo tasto: la realtà non è complessa come te la presentano i vecchi liberali che predicano l’idea della rappresentanza proporzionale parlamentare; la realtà non è complicata come te la raccontano i socialisti con le loro astruse teorie, la dottrina marxista, la struttura, la sovrastruttura eccetera; la realtà è molto più semplice. No.
Tutto è riconducibile a un unico problema.
Quell’unico problema è riducibile a un nemico.
Quel nemico viene individuato in uno straniero, straniero invasore.
Lo straniero invasore è uccidibile.
Problema risolto.
Secondo questa visione, lo straniero invasore può essere ucciso a manganellate oppure, alternativamente, lasciato annegare al largo delle nostre coste, quando non ributtato a mare. Non ci si può nascondere, infatti, giunti a questo punto, che cent’anni fa il populismo fascista individuò il “nemico semplificatore” nel socialista allo stesso modo in cui oggi il populismo sovranista lo individua nell’immigrato.
L’intera vita politica, se riletta entro questa prospettiva, si riduce al fatto di avere un nemico da temere e da odiare. E qui interviene un ribaltamento di prospettiva, l’ultima mossa conclusiva dello schema di gioco vincente. La vocina seducente e maligna del populismo sussurra: non ti devi guardare alle spalle, non devi scrutare con terrore il cielo sopra di te, il bosco di fianco a te. La morte non arriva da tutte le parti, invisibile, ignota, intangibile come nelle trincee. Devi solo guardare davanti a te. Lì c’è il tuo unico problema, il tuo nemico, lo straniero invasore: invece qui, al tuo fianco, ci sono io, il fascista col manganello. Tutta la realtà si riduce a questo.
Che sospiro di sollievo! È così semplice la vita: è sufficiente odiare il socialista; c’è qui di fianco a me il fascista con il manganello pronto a picchiarlo. A che serve il Parlamento con la sua faticosa complessità?
Con questa formula, al tempo stesso potente e consolatoria, cento anni fa Mussolini sedusse l’Italia mentre i suoi squadristi la violentavano. E tutta la loro violenza, al cospetto della grande paura, si ridimensionava, assumeva anzi agli occhi di adulti tornati bambini, di cittadini degradati a sudditi, l’aspetto tristemente necessario del provvedimento del buon padre di famiglia.
In quel duplice gesto, oggi come allora, palpita il cuore nero di ogni tentazione autoritaria.
Comunicare al corpo con il corpo
Giunti alla fine, ritorniamo al principio.
L’insieme di questi principi delinea il profilo di una preferibilità dell’autoritarismo alla democrazia; preferibilità che Mussolini dichiara apertamente mentre i populisti di oggi la negano (o la dissimulano, come preferite), pur non esimendosi dall’erodere le istituzioni democratiche.
La differenza tra i populisti sovranisti di oggi e i nazionalisti fascisti di Mussolini sono molte e cruciali, a cominciare dall’uso della violenza fisica, sistematicamente praticato dai secondi ma non dai primi. A differenza dei fascisti del primo Novecento, i populisti di oggi, pur coltivando la tendenza a discreditare e, talora, a modificare le istituzioni democratiche in senso illiberale (si vedano i casi di Ungheria e Polonia), non eliminano con la violenza fisica i loro avversari politici; rimangono, quanto a questo, all’interno del perimetro delle regole democratiche; arrivano a controllare il Parlamento vincendo le elezioni (salvo, di quando in quando, attaccarlo, com’è accaduto negli Stati Uniti e in Brasile). Non è affatto una differenza di poco conto, sia ben chiaro. Rimane, però, il fatto che i populisti di ieri e di oggi sono accomunati dal rappresentare una minaccia per la qualità e la pienezza della vita democratica liberale, una minaccia riassunta nella centralità autoritaria del “capo”, del leader in cui il popolo s’incarnerebbe, quel capo che non precede ma segue, che pratica una politica della paura, che poi la commuta in odio, che attua una brutale semplificazione della complessità della realtà. E che parla al corpo elettorale attraverso il proprio corpo.
Questa è l’ultima lungimirante invenzione di Mussolini. Già negli anni venti del Novecento il duce fu il primo a mettere il corpo al centro della scena politica. Sono celebri le immagini del capo fascista a petto nudo che trebbia il grano in mezzo ai contadini (“Camerata macchinista, che la trebbiatura abbia inizio!”), che nuota osservato dalla folla, che gesticola in un modo che a noi oggi sembra grottesco. Questo, tra l’altro, genera uno dei principali equivoci riguardo a un terribile dittatore troppo spesso liquidato come personaggio ridicolo. Niente affatto: anche nel gesticolare, Mussolini sta esercitando il suo malefico genio politico; capisce che nell’era delle masse la comunicazione politica non passerà da testa a testa ma sarà un’interazione quasi fisica, che passa dal corpo del leader al corpo elettorale. “Alla pancia degli elettori”, come si è soliti dire.
Il duce del fascismo, però – si potrebbe obiettare – esibiva un corpo maschio, potente e mirabile, almeno secondo i canoni del machismo fascista di allora! Oggi qualcosa di analogo è osservabile in forme di potere autocratico e atavico ma estraneo alla tradizione occidentale, com’è nel caso di Putin.
Qui bisogna fare attenzione. Non lasciarsi fuorviare dalle differenze tra presente e passato, pur significative: affinché la comunicazione corporea sia efficace, il corpo del leader non deve essere bello, prestante, poderoso e nemmeno virile. Non lasciamoci ingannare. Prendiamo in considerazione Donald Trump, quest’omaccione sgraziato, sgradevole, goffo. Eppure non sono queste sue qualità che contano. Quel che conta è che il silenzio del corpo, la sua stolida fisicità, la sua emozionalità irrazionale s’introni al centro della comunicazione politica. Qui non è in gioco il valore estetico della bellezza del corpo o la sua prestanza: è il fatto di anteporre la comunicazione fisica, corporale, quasi viscerale a ogni tipo di comunicazione intellettuale incentrata sul ragionamento, sulla riflessione e sull’analisi. È un tipo di comunicazione preriflessiva, emotiva, prepotente. Ed è vincente perché lancia un appello basale alla animalità umana. È vincente proprio perché non esibisce nessuna supposta superiorità, è vincente perché non tutti abbiamo un dottorato in Scienze politiche, ma tutti abbiamo un corpo. Qui, in questa massa di materia cieca e vibrante, coincidente con il corpo del leader, più o meno grande, più o meno giovane, maschile o femminile che sia, qui termina e culmina l’antisublimazione del percorso iniziato affermando “io sono il popolo e il popolo sono io”: il popolo si incarna nella mia fisicità, in quest’uomo qua, in questa trippa qua, in questa donna, nel mio metro e settanta, o nel mio metro e novanta, o nel mio metro e cinquanta.
Non c’è niente di stupido in questo. È un processo che riattiva nella storia bisogni, stati d’animo e sentimenti primari, esperienze di vita ancestrali, addirittura preistoriche. Se liquidiamo questo atavismo con una smorfia di sufficienza, gli stupidi siamo noi. Né c’è niente di buffo o di divertente. Se ne ridiamo, non rideremo a lungo.
Il fascismo non fu commedia, fu tragedia. Quando, infatti, la vita collettiva di un Paese viene instradata lungo la via dove tutto si incarna nel corpo del leader, ciò che accade è che quel corpo non lo puoi toccare, non lo puoi raggiungere, non lo puoi analizzare. Soprattutto, non lo puoi discutere. Lo puoi soltanto adorare, come milioni di italiani fecero con Mussolini, oppure lo puoi odiare, odiare e massacrare. Come pure gli italiani fecero con il loro duce alla fine della sua parabola.
III.
DEMOCRAZIA
Consentitemi di concludere con un altro ricordo personale.
Quando crollò il muro di Berlino avevo vent’anni. Ricordo un sabato sera a una festa in casa di amici. Ero in cucina insieme a un compagno di bevute a rabboccare le caraffe dello spritz, l’aperitivo tipico di Venezia, la città in cui ero cresciuto e vivevo. Mentre miscelavo, spensierato, vino bianco e bitter, il mio amico mi fece cenno con la testa verso un punto in fondo alla cucina: “Guarda quel mona col picón!”
Mi voltai. Sullo schermo di un piccolo televisore dimenticato in un angolo cieco della stanza, un individuo sconosciuto prendeva a picconate con grande foga un muro scrostato. Ci soffermammo su quella bizzarria per qualche secondo, poi, impugnate le caraffe con il nostro drink preferito, tornammo allegramente ai nostri svaghi.
In quei colpi di piccone la democrazia trionfava sui suoi nemici eppure noi, ragazzi degli anni ottanta, non avevamo occhi per contemplarla. Un evento chiave del secondo Novecento ci aveva sorpresi a preparare lo spritz ma non era riuscito a catturare la nostra attenzione per più di pochi istanti. La grande Storia, con il suo carico di tragedia e di epopea, ci aveva a malapena sfiorati riducendosi per noi, giovani privilegiati dell’Occidente europeo pacificato, satollo e vacuo, a un breve momento di ilarità. Pochi attimi, ed era già tempo di tornare alla nostra festa.
Ho rivendicato, in apertura di questo discorso, di appartenere all’ultima generazione educata nei miti e nei valori dell’antifascismo novecentesco. Ed è vero. Ma è altrettanto vero che quella formazione culturale non impedì a me e ai miei coetanei di affacciarci alla vita adulta in un clima di edonistico disimpegno, di individualistica indifferenza ai destini generali e di diffusa ripulsa per la politica. Dopo le tempeste della accanita militanza ideologica dei settanta, l’onda di riflusso degli anni ottanta ci aveva trascinati a galleggiare mollemente in un mare calmo, piacevole e all’apparenza sconfinato. Il mare di un’eterna vacanza.
Non si trattò soltanto di incoscienza giovanile. In quella tiepida fin de siècle l’intero Occidente s’illuse, insieme a noi, di essere entrato in un’età dell’oro: la Guerra fredda era stata vinta dal capitalismo liberale, i profitti crescevano in modo esponenziale, la globalizzazione si allargava all’intero orbe terrestre sotto gli auspici di divinità benigne.
Fu un cambio d’epoca gaio e menzognero. Tra i tanti inganni che abbagliarono la nostra vita leggera di ultimi ragazzi del secolo, ve ne fu uno che oggi, a distanza di vent’anni, ci appare particolarmente colpevole: l’illusione della democrazia eterna.
Noi ragazzi di fine Novecento, nati in Europa occidentale nella terza generazione dopo la conclusione della Seconda guerra mondiale, appartenevamo alla porzione – piccolissima porzione – di umanità più agiata, sana, sicura, longeva e protetta che avesse mai calcato la faccia della Terra. Questo privilegio di nascita ci confuse al punto da farci credere che la democrazia fosse quasi una condizione naturale, un beneficio acquisito una volta e per tutte, una sorta di vitalizio di cui poter godere irresponsabilmente.
Pur conoscendone la storia, trasmessa a noi dagli ultimi testimoni viventi, preferivamo dimenticare la battaglia terribile che le generazioni passate avevano dovuto combattere per consegnare a noi il dono raro, tardivo, sempre precario della democrazia. A furia di scandire il tempo con gli aperitivi, stavamo dimenticando una verità semplice ma esatta, incontrovertibile e fondamentale, riguardo alla natura stessa della democrazia: la democrazia non è figlia del caso ma nemmeno della necessità; non è un dono del cielo, è una conquista; la storia della democrazia è, fuor di ogni dubbio, la storia della lotta per essa.
Di lì a pochi anni, il nuovo secolo e millennio, iniziati la mattina dell’11 settembre del 2001, si sarebbe incaricato di ricordarcelo atrocemente. Nuovi nemici cominciarono a premere ai confini della democrazia, confini frastagliati di sangue. Il terrorismo integralista delle teocrazie islamiche, l’ascesa ai vertici del potere economico globale di nazioni estranee ai sistemi democratici e, infine, la guerra d’aggressione scatenata in Europa, contro l’Europa, dalla Russia di Putin.
Si palesava così, dopo la sbornia edonistica di fine secolo, un’epoca di profonda crisi della democrazia liberale. Una crisi aggravata dalla presenza di vecchi, nuovi e numerosi nemici interni. A ogni nuovo, periodico collasso di un sistema economico governato dallo sciagurato capitalismo finanziario, a ogni nuova manifestazione di impotenza verso i suoi nemici esterni, a ogni nuova travolgente ondata migratoria, facevano eco parole di sfiducia e discredito nei confronti del sistema democratico. Parole sibilate dai nostri connazionali, da esponenti politici che avrebbero dovuto vigilare sulla democrazia, ma anche dall’uomo della strada: “Democrazia. È il regime nel quale si dà al popolo l’illusione intermittente di essere sovrano.” E poi: “Il parlamento è il circo agonale della democrazia… Le promesse dei programmi elettorali sono tra le più sconce manifestazioni della truffa politica. Il candidato darebbe l’anima al diavolo per riuscire eletto. I suoi tentativi di adescamento dell’opinione pubblica e di quella degli elettori non hanno misura”; e ancora: “La democrazia, in fondo, non può che parlare. Vive della parola e per la parola. Ma, in tempi di crisi, i popoli non domandano di essere propagandati, vogliono, invece, essere comandati. Il tempo della inutile discussione deve cedere, allora, il passo al tempo dell’obbedienza.”
Quante volte in questi anni abbiamo udito questa vocina cinica, e insieme consolatoria, sussurrare queste medesime parole alla coscienza dei nostri giorni più tristi, disillusi, arresi? E quante volte quella mormorazione notturna, in Italia come altrove, è divenuta voce pubblica, intonata alta e forte, retorica ufficiale di leader e movimenti politici che, pur muovendosi all’interno del gioco democratico, miravano (e mirano) al potere ostentando il disprezzo per la democrazia?
Le conosciamo fin troppo bene queste parole. Sono quasi diventate colonna sonora del nostro sfiduciato presente, ci siamo quasi assuefatti a esse. Eppure sono tutte parole di Benito Mussolini, pronunciate negli anni venti e trenta del secolo scorso, il secolo della lotta mortale tra la democrazia e i suoi nemici. Parole che, indubbiamente e purtroppo, non hanno smesso di parlarci. Di tentarci. Di sedurci.
E allora mi chiederete voi, giunti a questo punto: che cosa possiamo fare?
La mia risposta è, al tempo stesso, semplicissima da dare e difficilissima da mettere in pratica: dobbiamo riprendere la lotta. Una volta liberi dalla sciagurata illusione di una sua supposta eternità, dobbiamo riappropriarci della storia della democrazia, tornare a essere parte attiva di quella storia che coincide lungo il suo intero corso con la lotta per essa. Lotta quotidiana, interminabile, inesausta.
Detto altrimenti, dobbiamo ereditare l’antifascismo dei nostri padri e dei nostri nonni. Un’eredità come questa, infatti, non ci piove addosso, bisogna guadagnarsela, meritarsela, bisogna farla propria.
Credo però anche che, per poter divenire eredi dell’antifascismo novecentesco, si debba rinnovarlo. Oggi è finalmente possibile un antifascismo civico, non più ideologico, un antifascismo che non imponga ad alcuni lo schieramento sotto bandiere ben tinte, ma a tutti di prendere posizione sotto la bandiera della democrazia. La democrazia di tradizione europea, liberale, piena e compiuta. Non ne esiste un’altra. Oggi, consumate le sanguinose diatribe politico-ideologiche novecentesche, è finalmente possibile un antifascismo di tutti, di tutti i sinceri democratici, qualunque sia il loro personale orientamento politico. Possibile e necessario.
Un albero ad alto fusto. Così siamo abituati a pensare la democrazia. La immaginiamo come una quercia, un pino, un pioppo. Per questo motivo siamo anche indotti a pensare che possa solo essere abbattuta, dall’ascia o dal fulmine.
La democrazia è, invece, più simile alla pianta della vite e come la vite richiede cura costante, sapiente, richiede amore e devozione. La vite deve essere innestata, potata, innaffiata, protetta dai parassiti e legata ai supporti da mani gentili e forti. È un lavoro quotidiano, questo: il lavoro di una vita. Soltanto allora quella pianta fragile e meravigliosa darà il dolce, inebriante vino della democrazia.