POVERO ME!
Pascal Bruckner
Perché le vittime sono i nuovi eroi
Recensione
[...] Perché il terreno di coltura del vittimismo è così fertile? Nell’Occidente edonistico, la sofferenza è diventata, paradossalmente, un nuovo culto che lascia attoniti. Un tempo era la sorte comune della condizione umana; ora è un passaporto che ostentiamo per impressionare i nostri contemporanei. Ci fornisce un’identità presa in prestito, trasformandoci in esseri eccezionali che possono giganteggiare senza troppa fatica agli occhi del pubblico. È questo il messaggio del nostro tempo: siete tutti diseredati e avete tutti diritto a piangervi addosso. Il sogno ultimo sarebbe diventare martiri senza aver mai patito altro che la disgrazia di essere nati.[...]
Il vittimismo è diventato una strategia di legittimazione sociale e politica capace di sovvertire gerarchie tradizionali e trasformare la sofferenza in un nuovo status di potere. Le vittime di questo nuovo status di potere sono diventate una sorta di nuovi “eroi” contemporanei. Ecco la terribile conseguenza della società dei perennemente offesi e dei vittimisti: il risentimento che gronda dai loro cuori si trasforma in desiderio di vendetta, in violenza. Come ha scritto il filosofo Byung-chul Han, l'Occidente rifiuta il negativo, la sofferenza, il dolore. Ha paura della fatica e della difficoltà, che però sono caratteristiche ineliminabili dell'esistenza. Qui sta il punto: se si è inadatti a sopportare la fatica, il solo fatto di stare al mondo ci qualifica come vittime. La vittimizzazione come ricatto verso gli altri è il contrario di questo progresso. ll suo stadio finale è la rimozione dei veri sfortunati a tutto vantaggio di paria carnevaleschi che si affermano solo grazie alle loro reti di conoscenze e alla loro notorietà. Imparano a parlare la lingua degli oppressi per usurpare una posizione. Ingaggiano una guerra contro le parole, le prendono in ostaggio le rapiscono. Da un capo all'altro della scala sociale, ognuno brandisce il proprio attestato di vittima, anche quando è fasulla.
POVERO ME!
PROLOGO
Il Pantheon capovolto
L’8 dicembre 2015, l’Eliseo ha annunciato che il presidente François Hollande stava valutando la possibilità di conferire la Legione d’onore postuma alle centotrenta vittime degli attentati del 13 novembre al Bataclan e nelle strade circostanti. Il gran cancelliere ha espresso disaccordo. La Legione d’onore è assegnata fin dalla sua istituzione (da parte di Napoleone Bonaparte il 19 maggio 1802) ai militari e ai civili che hanno reso servizi eccezionali alla nazione. I centotrenta innocenti falciati dalla barbarie jihadista, che hanno avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, meritavano l’omaggio della nazione, ma in mille altri modi.
La Spagna, nel 1999, ha introdotto una decorazione speciale per le vittime degli attacchi terroristici. E gli Stati Uniti hanno eretto un monumento ai caduti dell’11 settembre. Ma la Legione d’onore non è né una ricompensa per la tragedia, né un risarcimento per il lutto: ha la funzione di premiare il merito. Una cosa è che il Paese renda omaggio alle vittime, un’altra è dar loro un riconoscimento riservato agli atti di eroismo. È come se si volesse esorcizzare la tragedia inghirlandando le donne e gli uomini trucidati con decorazioni repubblicane. Per essere decorati, bisogna aver combattuto valorosamente, non basta essere stati ammazzati a caso.
Alla fine, l’Eliseo ha abbandonato il progetto e il 12 luglio 2016 ha istituito la Medaglia nazionale di riconoscenza alle vittime del terrorismo, la quinta decorazione più importante nell’ordine del protocollo, davanti alla Medaglia della Resistenza e alla Croce di guerra. Ma la nuova decorazione non è stata ben accolta da alcuni settori dell’opinione pubblica, né dall’esercito. Il fatto di venire aggrediti o assassinati da individui radicalizzati avrebbe dunque la precedenza rispetto all’omaggio ai combattenti in armi? La nazione includerebbe tutti i suoi figli, ma alcuni più di altri. Dal 1990, i decorati in quanto vittime di terrorismo sono considerati «vittime civili di guerra» e i loro figli sono candidabili al titolo di pupilli della nazione. Sono tutti sintomi significativi di una confusione molto contemporanea che all’indomani della Seconda guerra mondiale aveva provocato il seguente dibattito tra partigiani e deportati: le torture subite meritano più considerazione delle imprese compiute? Lo sventurato è più eroico del valoroso?
INTRODUZIONE
Tucidide e Gesù Cristo
Nella Guerra del Peloponneso, resoconto del conflitto tra Atene, Sparta e le città greche, lo storico ateniese Tucidide (460-395 a.C.) stabilisce la seguente legge: «La giustizia entra in gioco nei ragionamenti degli uomini solo se le forze da entrambe le parti sono uguali; in caso contrario, i forti esercitano il loro potere e i deboli devono cedere». È una legge senza tempo: i potenti comandano, i miseri chinano il capo. È stata la rivelazione cristiana, preannunciata dal giudaismo, a rovesciare questo paradigma, con grande disappunto dei pagani, spaventati dall’esaltazione di un Dio che si lascia crocifiggere come uno schiavo per salvare l’umanità. «Era degno di un Dio lasciarsi legare e condurre via come un criminale? Ancor meno opportuno era che fosse abbandonato, tradito da chi gli era vicino e lo seguiva come un messia, Figlio e inviato del buon Dio»1 esclamò il filosofo romano Celso nel II secolo. Per un uomo dell’antichità è folle che Gesù proclami il comandamento di amare i propri nemici e insegni ai credenti che bisogna dare la precedenza agli infermi, ai poveri, ai diseredati. È un terremoto antropologico che innalza ciò che stava in basso, ponendo l’ignobile al di sopra del nobile, e contro il quale Friedrich Nietzsche, grande adoratore della forza e dell’aristocrazia, non ha mai smesso di combattere.
Patria comune
Nel racconto della Passione, Gesù offre la sua sofferenza come patria comune a tutti gli umiliati e porta loro il conforto della croce. È questo il colpo di genio del cristianesimo e la sua assoluta singolarità, il nuovo concordato proposto al genere umano: l’invenzione di un uomo dio che possiede le debolezze del primo e la trascendenza del secondo. I contemporanei si stupiscono che questa oscura setta avesse tanto successo presso la schiera di fanatici, zeloti e guaritori che popolavano la Galilea del tempo. Il Figlio dell’uomo non predica ai ricchi o ai giusti, ma ai peccatori, alle donne di malaffare, ai ladri e ai disgraziati. Si è fatto umile tra gli umili. La sua intransigenza non è di questo mondo, fa saltare tutte le istituzioni, anche quelle delle Chiese. Con quel misto di dolcezza e aggressività che caratterizza i Vangeli, Gesù ha chiamato all’insurrezione contro i potenti, gesto che ha plasmato l’intero mondo occidentale, comprese le grandi dottrine secolari della modernità. Che cos’è la classe operaia di Marx se non il corpo di Cristo costituitosi in blocco rivoluzionario per sovvertire la Storia e instaurare la società perfetta? Cosa sono le minoranze nel «wokismo» se non tante immagini di Cristo da venerare sopra ogni cosa? È la loro disgrazia che le legittima, soprattutto quando questa disgrazia si moltiplica attraverso la cosiddetta «intersezionalità» (Kimberlé Crenshaw),2 che indica un crocevia di diverse oppressioni. Il cristianesimo inverte le gerarchie e conferisce ai vinti il primato sui bruti. Il linguaggio del vincitore dice: ho ragione perché sono il più forte. Il linguaggio della vittima dice invece: la mia debolezza è la mia arma e il mio diritto. C’è in lei una trascendenza e quasi una santità: la sua ferita è la mia, la sua indigenza mi impone di venirle in aiuto.
Sappiamo che questa quasi-divinità delle persone vulnerabili è una prerogativa della civiltà. Nel bene e nel male siamo gli eredi della rivoluzione cristiana, che negli ultimi due millenni, spesso contro il parere delle Chiese, ha dato fondamento ai diritti delle donne, dei bambini, degli sfruttati, degli schiavi e dei colonizzati. Ma su questa invenzione si è poi innestata una strategia secondaria: il vittimismo, che si osserva tanto a livello personale quanto a livello degli Stati e che sembra più forte nei Paesi ricchi, dediti ai piaceri materiali e strutturalmente insoddisfatti della loro sorte. Il nostro pantheon è composto interamente da persone afflitte o tormentate. Sono le sole con cui possiamo simpatizzare, e ne troviamo di nuove ogni giorno. È la nostra grande passione democratica: anche i privilegiati vogliono giocare a fare i maledetti. La libertà, la capacità di ciascuno di vivere come meglio crede, è soprattutto il permesso, dato a tutti, di lamentarsi del proprio destino.
Rispetta il mio dolore
La parola «vittima» è polisemica: essere il bersaglio di un furto o di uno stupro, di un incidente o di una tortura non è la stessa cosa. Ma in questo campo si fa in fretta a estremizzare, il che favorisce la confusione. Ciascuno equipara la propria condizione a quella di chi è più colpito. «Rispettate il mio dolore» chiede il cittadino. «Dimostraci che stai soffrendo» gli rispondono lo Stato, le compagnie di assicurazione, l’opinione pubblica e i media. Che fare di coloro che non soffrono abbastanza, né troppo poco, in altre parole, la maggioranza? Tradizionalmente, lo status di vittima si otteneva dagli storici o dalla giustizia: i primi descrivevano la realtà di un massacro, i tribunali ufficializzavano questa realtà e ne traevano le conseguenze. Erano i tempi lunghi del riconoscimento pubblico, spesso sancito dagli Stati o dai governi attraverso cerimonie ufficiali. Ma oggi, in un’epoca di impazienza amplificata dai social network, gli individui vogliono autoincoronarsi martiri, velocizzando il processo. Si prendano, per esempio, i «grievance studies»3 sorti negli Stati Uniti, dipartimenti universitari dedicati alle lagnanze provenienti da ogni sorta di categoria, persone grasse, donne, minoranze, queer, lesbiche, trans ecc. che si attribuiscono questo titolo a priori, per così dire. Gli armeni, i deportati, gli schiavi, i colonizzati, gli harki, gli omosessuali, hanno dovuto scalpitare a lungo prima di vedersi riconosciuti. Nessuno ha più il coraggio di aspettare, vogliamo essere riconosciuti immediatamente come reietti. Che cos’è il vittimismo? Un’identità narrativa che attribuiamo a noi stessi e che ci aspettiamo sia confermata dagli altri. È una patologia del riconoscimento, il desiderio di essere identificati senza doversi presentare.
L’intensa epopea eroica del XIX e del XX secolo ha lasciato il posto all’intensa fantasia vittimistica del XXI secolo come conseguenza di tre capovolgimenti. La frenetica ricerca della felicità si trasforma in frenetica ossessione per la tristezza. La sofferenza annette al suo impero territori sempre più ampi anche in aree che sfuggivano alla sua giurisdizione. E la promessa democratica, sempre delusa, esaspera l’insoddisfazione ponendo la lamentela al centro della psicologia contemporanea. In altre parole, l’ideologia vittimistica commette un triplice peccato: scredita lo stoicismo spontaneo di ciascuno di fronte al male; inverte le priorità e col pretesto di proteggere i vulnerabili introduce di soppiatto false vittime che mettono in ombra i veri dannati; infine, diventa un alibi per gli assassini che indossano le sue vesti per commettere i loro crimini.
L’elezione maledetta
In passato, il sacrificio delle vittime, uomini o donne, si consumava attraverso il fuoco, l’impiccagione o il linciaggio, per rinsaldare una comunità lacerata. Venivano immolate e a volte santificate. Oggi accade il contrario: prima si santifica, poi si immola. Dopo il 1945 e l’Olocausto, la figura dell’ebreo è stata posta su un piedistallo, poi spodestata quando è diventata quella dell’israeliano, accusato di tutti i mali: colonialismo, razzismo e imperialismo. La condizione di eletto è diventata una maledizione. Da modello, l’ebreo è diventato il rivale che bisogna eliminare per prendere il suo posto.
Si consuma su scala globale una sorta di competizione fra le disgrazie dove ciascuna deve gridare più forte delle altre. Alla fratellanza tra gli sconfitti subentra la cacofonia dei lamentosi, che promuovono la figura del martire e alimentano le due grandi passioni della vendetta e del risentimento. Suprematisti bianchi o neri, islamisti radicali, virilisti rancorosi, neofemministe rabbiose, ecologisti furiosi, slavofili revanscisti, neo-ottomani vendicativi: ognuno fa leva su una gloria o su una tragedia passata per incolpare i propri nemici. Quanti imperi sconfitti (Russia, Turchia, Iran, Cina) si agghindano con gli orpelli dei dannati per abbandonarsi all’arroganza della riconquista? Quanti Stati indipendenti invocano le ex potenze coloniali per continuare a sfruttare il proprio popolo? L’inclinazione naturale di qualsiasi persona perseguitata, una volta salita al potere, è di trasformarsi in persecutore. Il vittimismo è guerrafondaio: più ci si autocommisera, più ci si sente giustificati a punire coloro che designiamo come nemici. Le lacrime sono gonfie di rabbia e rancore.
La preoccupazione per gli umiliati è la grandezza dell’umanesimo. La vittimizzazione come ricatto verso gli altri è il contrario di questo progresso. Il suo stadio finale è la rimozione dei veri sfortunati a tutto vantaggio di paria carnevaleschi che si affermano solo grazie alle loro reti di conoscenze e alla loro notorietà. Imparano a parlare la lingua degli oppressi per usurpare una posizione. Ingaggiano una guerra contro le parole, le prendono in ostaggio, le rapiscono. Da un capo all’altro della scala sociale, ognuno brandisce il proprio attestato di maledizione per innalzarsi al di sopra dei propri simili. Strana figura quella del miserabile di professione che pullula nei nostri Paesi in tutte le classi sociali. Come faremo a distinguere i disonesti e gli imbroglioni dagli altri?
Questo saggio è diviso in tre parti. Nella prima cerchiamo di comprendere come il messaggio dell’Illuminismo e della Rivoluzione, quello di un mondo migliore libero dal fatalismo e dal fanatismo, si sia tradotto in una società dei singhiozzi e della fragilità, in altre parole della rassegnazione. Nella seconda parte, vediamo come lo status di paria permetta di cumulare potenzialmente tutti i diritti, in particolare il diritto di accusare e opprimere in nome delle proprie ferite. Nella sezione finale esaminiamo le due figure del boia e dell’eroe. Tanto l’eroe quanto la vittima producono unanimità, ciascuno a modo suo. Mentre il primo rassicura una società in preda al dubbio, il secondo rifonda il contratto sociale attraverso le sue lacerazioni. Entrambi hanno bisogno di un pubblico adorante. Ci circondiamo di sfortunati proprio come esaltiamo i coraggiosi che rafforzano la nostra immagine. Ma ci abbuffiamo anche, inorriditi e insieme affascinati, dei mostri che uccidono sadicamente o si travestono da martiri per commettere i loro crimini.
Perché il terreno di coltura del vittimismo è così fertile? Nell’Occidente edonistico, la sofferenza è diventata, paradossalmente, un nuovo culto che lascia attoniti. Un tempo era la sorte comune della condizione umana; ora è un passaporto che ostentiamo per impressionare i nostri contemporanei. Ci fornisce un’identità presa in prestito, trasformandoci in esseri eccezionali che possono giganteggiare senza troppa fatica agli occhi del pubblico. È questo il messaggio del nostro tempo: siete tutti diseredati e avete tutti diritto a piangervi addosso. Il sogno ultimo sarebbe diventare martiri senza aver mai patito altro che la disgrazia di essere nati.
PARTE PRIMA
Di fronte alla sventura
1
«Un giorno tutto andrà bene,
ecco la nostra speranza»
Nessuno soffre invano.
SANT’AGOSTINO
L’età classica è resistente alla fatica, almeno se vogliamo credere all’insegnamento delle sue élite. Nei secoli XVI e XVII le persone erano ricche delle loro miserie, bisognava solo dedicarsi a sopportarle e persino a ostentarle. Il significato ultimo dell’esistenza, che a quel tempo era breve (trentacinque anni per i principi e la nobiltà di toga, ventisette per il resto della popolazione, con alcune eccezioni degne di nota: per esempio, Luigi XIV visse quasi settantasette anni), era una preparazione alla morte. Bisognava affrontare il Giudice Supremo e mondarsi dei propri peccati. Quando la maggior parte dell’Europa era cristiana, la paura della dannazione doveva soverchiare la paura della morte. La morte doveva essere un passaggio verso la beatitudine divina o verso le fiamme dell’inferno. Il XVII secolo abbonda di testi mirabili sulla necessità che i credenti accolgano le disgrazie come prova di purificazione interna, mentre si preparano alla Grande Partenza. Per i greci e i latini era una fatalità inevitabile, per i primi cristiani, invece, la sofferenza era il riscatto della Caduta, la remissione del peccato originale. Il destino è ingiusto, il male colpisce a caso gli innocenti e i bambini, ma, come nel libro di Giobbe, Dio darà la felicità a chi la merita.1 La morte non è una fine, ma un ponte verso l’ignoto del Giudizio universale.
La ricompensa del peccato
Per nostra fortuna, Dio ha sacrificato il suo unico figlio per liberare l’umanità dal male e dalla morte. La passione di Cristo è la narrazione fondante della fede: ogni credente, nel suo dolore, prende parte a questa epopea e trova in Gesù una guida e un amico che lo aiuta. Legato alla croce come un ladro, il Figlio di Dio contempla la morte in faccia e la annulla con la speranza della resurrezione. La sofferenza diventa così un alleato, è il fallimento che prepara la vittoria, dice Martin Lutero, è il segno del nostro declino e della nostra possibile ascesa.
Il cristianesimo rifiuta tanto l’eroismo aristocratico, che disprezza i poveri, quanto la morale stoica, che raccomanda di sopportare lutti e malattie senza gemere. Quest’ultima si spinge fino a invitare il saggio a subire torture e smembramenti col sorriso: persino nel Toro di Falaride, ad Agrigento, una scultura vuota in ottone arroventato in cui i torturati venivano rinchiusi, il saggio doveva rimanere lieto e far fronte a patimenti atroci. Blaise Pascal stigmatizza l’insolenza di Epitteto e Marco Aurelio vedendovi un grande crimine: l’affermazione di una libertà umana inconsapevole della sua miseria. Secondo Pascal, bisogna riconoscere il proprio calvario e, dal profondo di questo svilimento, innalzarsi al Creatore. «Nessuno è puro dal peccato davanti a Dio, nemmeno il bambino che ha un solo giorno di vita sulla terra» scriveva sant’Agostino nelle Confessioni. Le Chiese svilupperanno una preoccupazione molto concreta per gli sfortunati, unita a una predilezione per le disgrazie. Lo dimostrano l’estetica dei supplizi e del sangue in un certo cattolicesimo, perlopiù spagnolo, il fascino del corpo smembrato e la capacità propria a questo monoteismo di allestire una fabbrica di martiri (ai nostri tempi è stato superato dall’islam, che produce in serie gli shahid,2 noti anche come terroristi).
Ma nel racconto evangelico, la disgrazia perde la sua caratteristica peggiore: la gratuità. Finalmente acquista un senso, e del resto tutte le religioni sono sature di senso, esistono solo per rendere sopportabili il dolore, il lutto e la scomparsa, inserendoli in un disegno superiore. Lo stesso buddismo, attraverso la nozione di karma, fa della sfortuna il risultato di errori commessi nelle vite precedenti. Come dice la formula di rito, le frecce che abbiamo scoccato in passato tornano a noi come giusta punizione dei nostri peccati. Concetto crudele (ognuno merita il proprio destino, soprattutto i più poveri) ma altamente consolatorio. Una giustizia immanente promuove la condivisione, fin dalla nascita, tra chi è svantaggiato e chi è avvantaggiato. Perciò tanto l’induismo quanto il buddismo, per altri aspetti molto diversi (il secondo, per esempio, non riconosce le caste), prevedono due tipi di salvezza: una salvezza intramondana che si guadagna attraverso le reincarnazioni e che permette di migliorarsi da una generazione all’altra, e una salvezza extramondana che consente di sottrarsi al ciclo maledetto delle rinascite. Col cristianesimo, la sofferenza diventa il mistero centrale che ciascuno deve svelare soffrendo in prima persona. I teologi hanno fatto sfoggio di sofismi per legittimare l’esistenza del dolore, delle malattie e della morte dei bambini senza intaccare la bontà divina.
Valle di lacrime, valle di rose
Questo dispositivo di giustificazione dell’infelicità non doveva essere poi così convincente, visto che nel tempo è stato considerato il breviario della rassegnazione. I progressi dell’agricoltura, la diversificazione delle diete (anche tra i più poveri), la scoperta di alcaloidi e oppiacei per lenire i tormenti fisici, che hanno generato tra i medici le prime controversie intorno all’oppio,3 hanno spazzato via le affabulazioni dei sacerdoti sul dolore come necessaria punizione divina. Alla fine del Medioevo si fa strada un feroce desiderio di vivere e di sfuggire alla fatalità dei tormenti. Se poche gocce di laudano permettono di scacciare una fitta insopportabile o di provare un benefico torpore, allora i sermoni sulla giusta punizione risuonano a vuoto. L’algofilia cristiana viene rifiutata sul piano pratico. Il più grande benefattore dell’umanità rimane John Collins Warren, che nel 1846 inventò l’anestesia con etere negli Stati Uniti.
A cavallo tra XVII e XVIII secolo, l’Illuminismo si pone un semplice obiettivo: sostituire l’ossessione per la salvezza con la ricerca della felicità, porre fine agli infiniti cicli della disgrazia e dell’arbitrio che caratterizzavano l’Ancien Régime. La vita non è soltanto una valle di lacrime, è possibile trasformare questo mondo in un giardino fertile e lieto. Se il Male persiste, possiamo abolire molti dei mali inutili che hanno schiacciato gli esseri umani per secoli. L’idea di progresso sostituisce quella di eternità, l’avvenire diventa il rifugio della speranza, il luogo dove l’uomo può riconciliarsi con se stesso. «Un giorno tutto andrà bene, è la nostra speranza; tutto va bene oggi, è la nostra illusione» (Voltaire, Candido). Questo cambiamento di sensibilità si estende, nel dibattito pubblico, anche alla sofferenza animale, con la teoria della «catena degli esseri» che postula una parentela tra tutte le forme viventi. La filosofia sensista di Condillac colloca gli animali in una comunità di destino con gli esseri umani: «Concludiamo che se le bestie sentono, sentono come noi».4 I tormenti causati dai combattimenti tra animali, la castrazione dei cavalli, la brutalità dei mattatoi e della caccia, le fiere selvatiche ingabbiate nei serragli risvegliano gradualmente una vera e propria religione della compassione nei confronti dei nostri fratelli minori, soprattutto quando gli esseri umani si affezionano ad alcuni animali domestici per i quali provano un affetto sincero, pari a quello che provano per gli altri membri della famiglia.
Nel concetto di progresso convergono le felicità individuali e quelle collettive, come dimostra l’utilitarismo anglosassone, che aspira a mettere la felicità al servizio dell’umanità. Le calamità che ci colpiscono svaniranno domani se le affrontiamo con impegno. La marcia dello spirito umano può essere più o meno veloce, il suo processo è inesorabile. Ma la terra promessa del futuro rimane a lungo una terra compromessa con il vecchio mondo, a cui assomiglia in modo strano. Il progresso è un’ambizione ambigua: alimenta la speranza di riuscire dove le generazioni precedenti avevano fallito, ma rimanda l’Eden a una dimensione futura. L’infelicità non scompare affatto, si limita a cambiare sede. Il domani torna a rappresentare l’eterna categoria della speranza. Non si contano le dottrine secolari che consigliano di pazientare prima dell’avvento della società perfetta. Non avremo nessun trionfo dello spirito per Hegel, nessuna rivoluzione proletaria per Marx, senza un lungo periodo di sanguinose tribolazioni, di guerre di ogni sorta. Il Meglio emerge nella Storia attraverso il caos, la violenza è la grande levatrice del futuro. Nietzsche non è stato da meno, esaltando la crudeltà e le orde selvagge per migliorare la specie umana attraverso la selezione dei più forti. Altrettante dottrine per le quali il male è un momento necessario del bene: in ogni calamità è all’opera una ragione segreta. I peggiori orrori che gli uomini si infliggono l’un l’altro dovrebbero contribuire alla realizzazione di tutti. Gli eredi laici del cattolicesimo fanno ancora più baccano sull’altare del dolore. Le nostre società si ritengono scristianizzate, ma le nostre passioni restano pienamente cristiane: non è vero che il pensiero religioso sta tornando, in realtà non è mai scomparso. Cova come una brace sotto i nostri proclami secolaristi.
L’inizio del XXI secolo ha visto in Europa una proliferazione di promesse. Ogni epoca si vanta della propria capacità nel risolvere le crisi dell’epoca precedente. L’era digitale, con i suoi profeti miliardari, i sommi sacerdoti dell’immortalità e dell’intelligenza artificiale, non fa eccezione. È un’umanità rigenerata e purificata quella che dovrebbe entrare nel terzo millennio, certa di aver cacciato gli ultimi germi dell’inferno. La morte, la vecchiaia e le malattie dovevano essere spazzate via come arcaismi. Ma all’ebbrezza del transumanesimo sono seguite la sbornia del Covid e l’elevata mortalità di questo periodo che ha evidenziato i limiti della medicina. La fine della Storia, unita ai progressi della democrazia e ai vantaggi del mercato, doveva spingere l’avventura umana verso nuove vette. L’Europa sarebbe stata l’unico continente in cui la tragedia non avrebbe più avuto luogo, secondo le profonde parole di Susan Sontag, pronunciate all’epoca della guerra nella ex Jugoslavia. Ogni dieci anni, dall’inizio di questo secolo, assistiamo alle stesse promesse da ubriachi, alle stesse speranze che ritornano, specularmente accompagnate dagli annunci apocalittici dei millenaristi sulla fine del mondo. L’ubriacatura degli utopisti è pari solo al panico dei catastrofisti.
La sindrome del pisello
L’ottimismo delle grandi filosofie è stato spazzato via, almeno in Occidente, dal cumulo di conflitti, genocidi e crimini di massa che ci hanno resi più scettici sui fini ultimi della Storia. L’umanità si è disincantata di fronte a tanti crimini abominevoli e non ha più fiducia nelle proprie risorse. Sembra che si stia muovendo contemporaneamente verso il peggio e verso il meglio. La fiducia nel futuro vacilla, almeno in Occidente. Tanto più che la democrazia è quasi per definizione il regime dell’insaziabilità giuridica: alimenta una sete che non può estinguere, acuisce le febbri, esaspera le rivalità. Si nutre di indignazione e ribellismo, ma anche di invidia e gelosia. Fa di ciascuno un cittadino che si tormenta più per ciò che non ha che per ciò che ha. La prosperità degli altri alimenta una permanente gelosia basata sul confronto, anche tra i più avvantaggiati. Marx scriveva: «Una casa può essere grande o piccola, ma finché le case che la circondano sono della stessa dimensione, essa soddisfa tutto ciò che è socialmente richiesto a un luogo in cui vivere. Non appena le si erige accanto un palazzo, la casetta si accartoccia e diventa solo una capanna». La frustrazione è ancora più forte in quanto nei Paesi più sviluppati è già garantito un certo livello di comfort che temiamo di perdere da un momento all’altro. Ciò che pensavamo superato continua a tormentarci. Le epidemie ci decimano, le guerre fanno ritorno, i fenomeni climatici estremi devastano le campagne e l’imbarbarimento dei cittadini riaffiora in società che credevamo pacificate.
Noi europei e americani del XXI secolo siamo diventati ipersensibili al minimo fastidio. Siamo collettivamente affetti dalla sindrome della principessa sul pisello,5 il personaggio di Andersen che passa una notte insonne a causa di una piccola biglia infilata sotto il materasso. La nostra emotività aumenta proprio mentre la medicina migliora le nostre condizioni di vita. Si tende a spiegare la mitologia della vittima additando il divario tra le promesse della modernità e i suoi risultati. Ma se fosse vero il contrario? Se fossero gli innegabili successi della scienza e della tecnologia ad avere accentuato la nostra impazienza? Abbiamo sconfitto così tante malattie e abolito così tante ingiustizie, che sembra assurdo non poterle eliminare tutte all’istante. La civiltà, suo malgrado, crea tanta sofferenza quanta ne allevia: produce una sfasatura tra aspirazioni e realtà che può portare al disincanto. Facendo del benessere e della salute le condizioni minimali della vita, rende la loro assenza ancor più intollerabile. Tutto ciò che ostacola i nostri desideri diventa un disagio: aspiriamo a una condizione sempre migliore, a rischio di promuovere le nostre piccole miserie a privazioni intollerabili. L’allergia nei confronti dei problemi cresce all’aumentare della speranza di risolverli.
A differenza del cristianesimo, che non si è mai proposto di sradicare il male sulla terra («è vano, uomini, cercare in voi stessi il rimedio alle vostre miserie» diceva Pascal), le due rivoluzioni, americana e francese, ispirate ai diritti dell’uomo, ambivano a rigenerare la specie umana attraverso gli sforzi congiunti della conoscenza, dell’industria e dell’emancipazione. Col tempo sarebbe stato possibile superare quasi tutti i mali, la fame, la povertà e la superstizione. Purtroppo, non esiste un progresso generale, esistono soltanto progressi parziali e locali, non privi di ambiguità e portatori di passi indietro e gravi danni. Come possiamo, ancora oggi, partecipare alla santa messa del produttivismo e dello scientismo, i cui danni sono evidenti, senza parlare dei numerosi «incidenti» come la crisi della mucca pazza, quella dell’amianto, quella del sangue contaminato, quella della levotiroxina e quella del fentanyl? Abbiamo pagato gli innegabili passi avanti compiuti negli ultimi tre secoli con terrificanti battute d’arresto. Ogni conquista è anche una sconfitta, ogni dimostrazione di forza un’ammissione di debolezza.
Sarebbe comunque un errore credere che la nostra fede nel progresso sia morta e sepolta. Anche il più convinto detrattore dell’idea di progresso prende un antidolorifico non appena sente dolore da qualche parte e, se ne va della sua vita, si sottopone al bisturi del chirurgo. Il miglior rimedio per i mali del progresso è un ulteriore progresso che correggerà gli effetti del precedente. All’uomo sottomesso del cristianesimo e a quello arrogante della modernità, succede l’uomo perplesso dei nostri giorni. Siamo diventati dei credenti sobri che aspirano a progressi controllati o localizzati.
Cancellare il male?
I moderni si sono talvolta trastullati con il folle desiderio di abolire i disturbi di ogni tipo, di considerare irreale la sofferenza o di passarla sotto silenzio. In Sulla felicità (1925), il filosofo Alain vede nell’igiene e nella ginnastica i migliori rimedi al dolore. Si burla di Pascal per essersi spaventato del silenzio degli spazi infiniti, dicendo che probabilmente aveva preso un raffreddore stando alla finestra.6 Secondo lui, le malattie mortali, e persino le guerre, derivano da un fallimento in campo educativo: bisogna imparare a essere felici, è il dovere delle persone educate. La serenità è un obbligo che a volte viene ostacolato da certi geni maligni: lo stesso dicasi dell’ostilità tra Germania e Francia, «bambini robusti, tormentati, fino a perdere la testa, da un pugno di ragazzi cattivi».7 Quanto all’uomo che va alla ghigliottina sul suo carretto, non deve far altro che contare i dossi della strada per distrarsi dalla scadenza fatale! Lo storico Philippe Ariès fa notare che il lutto e il dolore, nell’Occidente del dopoguerra, sono diventati attività solitarie come la masturbazione.8Mentre la morte dei nostri cari continua a devastarci, le usanze funebri che regolavano la vita dei superstiti sono scomparse. La morte non è più un episodio della vita se non quando colpisce una persona famosa, come Elisabetta d’Inghilterra la cui morte (nel settembre 2022) ha commosso il mondo intero, compresa la Francia: per tre settimane, abbiamo letteralmente preso in prestito la regina della Gran Bretagna per riscoprire lo splendore della monarchia. I necrologi sulle riviste vengono divorati ancor più avidamente in quanto toccano una sorta di proibizione. Non portiamo più il lutto né indossiamo abiti scuri, i funerali si possono seguire in rete, il dolore rimane un fatto privato, la morte di un amico o di un parente stretto non deve turbare la marcia trionfale della vita. Ora vogliamo introdurre la «morte positiva», reincantarla, farla finita con le «facce da funerale»,9 vogliamo svanire con un sorriso. E persino le cure palliative, a sentire la pubblicità, devono essere simpatiche e amichevoli.10 E perché non farsi compostare per ridurre la propria impronta ecologica, come propone l’associazione Humo Sapiens?11
L’edonismo dominante, nel suo tentativo di nascondere il negativo, rafforza ciò che cercava di occultare: la sempiterna paura del dolore, sia fisico che morale. La società della felicità obbligatoria è anche una società che parla costantemente il linguaggio dell’angoscia. Attraverso un rovesciamento perverso, favorisce la diffusione dell’infelicità, che prolifera come la gramigna. Mentre non è vero che tutti gli esseri umani cercano la felicità, è invece verissimo che tutti vogliono evitare le disgrazie. Mentre gli antichi, attraverso le scuole stoiche ed epicuree, miravano a limitare la sofferenza mediante la comprensione del suo meccanismo, il cristianesimo la esaltava in vista del riscatto della creatura; noi ci illudiamo di vivere negandola, nella folle speranza che si dissolva se la priviamo di ogni espressione pubblica. Risultato: i gruppi di afflitti crescono in maniera esponenziale, le recriminazioni pubbliche e private non sono mai state così numerose. I giovani dei Paesi ricchi dell’Occidente sono stati definiti «generazione fiocco di neve»12 per descrivere la loro estrema fragilità. Nuove consorterie di «vulnerabili» si formano online per condividere la loro desolazione o le loro paure.
Il benessere come fonte di ansia?
Siamo diventati collettivamente accoglienti? È ciò che pensavano molti nostalgici dei tempi andati. Nietzsche, inorridito dall’umanitarismo del suo secolo, ha portato alle estreme conseguenze la visione di un essere umano plasmato con il martello come l’argilla dalla durezza:
La disciplina formativa del dolore, del «grande» dolore – non sapete voi che soltanto «questa» disciplina ha creato fino ad oggi ogni eccellenza umana? Quel tendersi dell’anima nella sventura, per cui si educa la sua forza, il suo brivido allo spettacolo della grande rovina, la sua ingegnosità e valentia nel sopportare, nel perseverare, nell’interpretare, nell’utilizzare la sventura, e tutto quanto in profondità, mistero, maschera, spirito, astuzia, grandezza a essa toccò in dono – non lo ricevette forse in mezzo ai dolori e alla disciplina plasmatrice del grande dolore?13
Sembra di leggere le regole di un riformatorio per ragazzi cattivi. Sulla stessa linea, il sociologo britannico di origine ungherese Frank Furedi critica la creazione di unità di emergenza medico-psicologiche per far fronte al minimo incidente o evento difficile, e sottolinea che le popolazioni del Sud-Est asiatico, vittime dello tsunami del 2004, non hanno avuto bisogno degli esperti convocati d’urgenza dagli organismi internazionali.14 Furedi mette inoltre in discussione la nuova entità nosologica della post-traumatic stress disorder (disturbo da stress post-traumatico), sviluppata dalla psichiatria americana in seguito al ritorno a casa dei veterani del Vietnam e che ormai si applica ai discendenti della Shoah come a quelli della ex Jugoslavia o del Ruanda.15 Già negli anni Trenta del secolo scorso, era stato pubblicato un manifesto dolorista che protestava contro la «tirannia dei sani» e contro l’ammorbidimento delle cure mediche. Eppure in Francia, il mondo medico è stato a lungo riluttante a prescrivere la morfina, anche in caso di malattie gravi. Abbiamo dovuto attendere il 2001 perché diventasse obbligatoria. Questo dibattito è assurdo: possiamo sia detestare il dolore inutile e al tempo stesso celebrare la forza d’animo degli individui di fronte alle avversità. Tra orgoglio e viltà, esiste un’intera gamma di modi di comportarsi meno estremi.
Ma oggi molte persone considerano la durezza, il silenzio e la forza d’animo come atteggiamenti retrogradi: bisogna compatire e commiserare. Al minimo incidente, soprattutto se coinvolge dei bambini, chiamiamo a raccolta schiere di psicologi per timore di postumi irreversibili. Ogni volta l’emozione prevale sull’analisi e l’immedesimazione con la persona colpita regna sovrana. Ciò che è cambiato rispetto ai secoli passati non è la somma totale dei flagelli di cui soffriamo, ma il nostro atteggiamento nei loro confronti. L’età classica in Europa poteva essere pessimista, si accontentava di confermare il dogma del peccato originale: crimini, orrori, atrocità fornivano la prova della nostra colpa redenta da Dio. La tragedia è iniziata nel Rinascimento: con la speranza di un mondo migliore, tutto ricade sulle spalle degli esseri umani, che diventano responsabili dei loro fallimenti. Questa promessa di costruire un Eden ragionevole con le armi dello Stato sociale, dell’educazione e della legge è per sua natura incompleta e quindi deludente. Qualunque cosa facciamo per sostenerci, non è mai abbastanza, ci sono sempre ostacoli e impedimenti. Più cerchiamo di semplificarci la vita, più le difficoltà che rimangono assomigliano a muri insormontabili. Viviamo, soprattutto in Francia dove lo Stato sociale è obeso quanto inefficace, con aspettative che vengono costantemente alimentate e deluse. Non siamo mai abbastanza soddisfatti, amati o gratificati: «Soffriamo sempre di più degli effetti di una protezione generalizzata» (Jean-François Laé).16
Si soffriva meno in passato?
Le nostre società si trovano di fronte a un dilemma permanente: per eliminare l’ingiustizia sono costrette innanzitutto a nominarla, correndo il rischio di darle una consistenza indesiderata. Le nostre sfide più importanti, la promozione delle categorie svantaggiate, la preoccupazione per il benessere devono muoversi da uno stato di imperfezione a cui occorre riferirsi per meglio superarlo. Contrapponiamo mentalmente lo stato deplorevole di ieri alle possibilità, di gran lunga preferibili, che abbiamo oggi. E guardiamo ai Paesi poveri o sottosviluppati come se incarnassero gli arcaismi che vogliamo gettarci alle spalle. Un tempo c’era un’accettazione collettiva del male, perché i rimedi erano più rozzi, la medicina rudimentale. I rimedi che abbiamo adesso non esistevano, la soglia di tolleranza si è spostata. Tutta la saggezza del mondo viene meno di fronte a un mal di denti o a un dolore lancinante: il dolore che ci lacera esige un sollievo immediato. Sapere che la cura esiste ma che non ne potremo beneficiare è inaccettabile. Un bambino che muore per mancanza di cure è uno scandalo assoluto. Gli esseri umani hanno sempre odiato il dolore e nel XVI secolo, ci dice la storica Roselyne Rey, molti preferivano aspettare la morte piuttosto che subire un’amputazione o un’ablazione (l’anestesia non esisteva ancora). In ogni pena, è l’intima dimensione dell’inammissibile che va presa in considerazione. Certe persone chiudono gli occhi per un esame del sangue, altri si lasciano massacrare senza battere ciglio. Il coraggio fisico varia da una persona all’altra, ma varia anche, per ognuno di noi, a seconda dei diversi momenti della nostra vita. Nonostante le atrocità delle guerre e delle epidemie, nulla sembra suggerire che le società del passato fossero più agguerrite: erano più rassegnate e le persone morivano molto giovani.17
Ci sono sempre stati esempi di sovrumana resistenza che hanno catturato l’immaginazione in ogni epoca: come il ragazzo di Sparta, citato da Montaigne, che ha preferito farsi mangiare il fegato da una volpe piuttosto che ammettere la sua truffa (l’educazione dei giovani prevedeva la padronanza del furto) o l’alpinista americano Aron Ralston che, intrappolato da un masso nello Utah nel 2003, si è amputato l’avambraccio per liberarsi e si è salvato in extremis (è poi tornato sul luogo sei mesi dopo per spargere le ceneri del suo arto cremato). Bisogna distinguere le prove a cui ci sottoponiamo per scelta da quelle che sopportiamo contro voglia. I soldati di Napoleone in fuga da Mosca, i deportati nella Germania nazista o gli zek nei Gulag sono stati sottoposti ad abomini che ci lasciano a bocca aperta, giustamente.
In contrasto con questi tormenti, nelle democrazie liberali lo Stato si prende cura di noi, accogliendo i cittadini sotto la propria ala e assicurando loro che la nazione non li dimenticherà. La società della sollecitudine ci assiste dalla nascita alla morte, dal mattino alla sera, ci tiene per mano, ci guida fuori dai pericoli e ci indica la via. Bisogna ridurre il più possibile, soprattutto in Francia dove prevale il principio di precauzione, l’esposizione alle avversità. In altre parole, il rischio, «la possibilità di incorrere in un male con la speranza, se si scampa, di ottenerne un bene» (Condillac) è ormai sospetto o limitato ad attività specifiche. Ma la paura aumenta quanto più cerchiamo di proteggerci da tutti i pericoli. In campo educativo, sappiamo che i bambini troppo protetti non sono in grado di affrontare il caos del mondo. Al primo segnale di difficoltà, cercano l’aiuto del padre o della madre e si ritrovano smarriti, incapaci di stare in piedi da soli. L’iperprotezione li rende più vulnerabili. Le piccole crisi di panico nell’animo del bambino sono normali, e il dovere degli educatori è quello di stare attorno ai ragazzi e alle ragazze per accompagnarli verso la maturità. Il bambino passa dalla sottomissione alla separazione, dall’obbedienza alla graduale emancipazione. Diventa padrone di se stesso imparando a conoscere la sua nuova libertà. Non c’è niente di più esaltante a qualsiasi età che superare le proprie paure e spostare i propri limiti.
Al contrario, la frugalità eretta a principio politico produce gli stacanovisti dello sforzo o gli entusiasti dell’abisso. Vediamo persone comuni sottoporsi a tormenti disumani, attraversare il Polo, l’Atlantico o il Pacifico su un guscio di noce, compiere scalate impossibili su pareti verticali, vediamo funamboli che passeggiano sopra un canyon o sopra le strade delle nostre città camminando su una fettuccia sospesa nel vuoto. Per non parlare dei corsi aziendali volti a «indurire i dipendenti», sottoposti a prove come camminare sui carboni ardenti o fare bungee jumping in incontri di formazione a volte folli che ricordano il RAID (Ricerca, assistenza, intervento, dissuasione) o il GIGN (Gruppo di Intervento Gendarmeria Nazionale). O per non parlare, ancora, dei reality show in cui un uomo e una donna vengono spediti a sopravvivere nudi in una giungla ostile, armati unicamente di un coltello, alla mercé di serpenti, tarantole e coccodrilli.18
Cerchiamo la «sofferenza buona» autoinflitta per scelta rispetto alla sofferenza cattiva subita dall’esterno, come se la prima potesse annullare la seconda; ci imponiamo deliberatamente mortificazioni e sfide che ci danno l’illusione di essere padroni e fautori del nostro destino. Gli unici vincoli che ci piacciono sono quelli a cui ci obblighiamo in vista di un obiettivo più alto, come sfida alla nostra finitezza. Alla fragilità di una maggioranza di cittadini coccolati dalle istituzioni fa da contraltare la caparbietà di una minoranza intrepida. Tra questi due estremi, le persone comuni, uomini e donne, giovani e vecchi, scelgono i rischi alla propria portata, senza gli eccessi delle teste calde. Ma la sfortuna colpisce sempre in modo inaspettato e ci sottopone alle sue leggi: anche un temerario può uccidersi stupidamente sulle scale dopo una vita spesa a sfidare la morte. La sfortuna è accettabile solo se riusciamo a darle un senso. Che si vinca o meno, almeno avremo resistito fino alla fine.
PICCOLE CONSOLAZIONI
Quando il gioco si fa duro, c’è sempre una consolazione praticabile: possiamo fare confronti. L’incidente cui sono appena scampato poteva essere peggiore. Avrei potuto perdere entrambe le gambe o la vita. Il cancro che mi ha colpito è fortunatamente curabile se preso in tempo eccetera. Pongo a confronto i danni patiti con quelli che temevo e mi ritrovo quasi soddisfatto del mio destino. Sono scampato al peggio. È quanto cercano di dirci con pudore coloro che ci amano, per rassicurarci, ed è quello che spieghiamo loro quando sono costretti a letto. La parola rassicurante è quella che ci aiuta a ridimensionare le cose.
I media sono un altro fattore di consolazione: attraverso le storie di disastri, guerre, alluvioni, verifichiamo con un senso di vergogna che gli altri sono da compatire più di noi. Chi si lascia deprimere dalle cattive notizie non considera la funzione lenitiva del telegiornale: abbiamo bisogno dell’angoscia altrui per verificare che il nostro destino non è poi così crudele. Un sentimento meschino ma rassicurante. Come quelle persone tristi che cercano l’ascolto di altre persone sfortunate per sentirsi meno sole. La vostra felicità li offenderebbe. Questo parallelo può spingersi fino all’apice del cattivo gusto, come nel film indiano Bawaal di Nitesh Tiwari (2023), in cui una giovane coppia in crisi si reca in Europa per ritrovare i luoghi della Seconda guerra mondiale e i due si riconciliano solo quando arrivano ad Auschwitz, immaginando di finire gasati nelle docce. «Ogni relazione passa attraverso la sua Auschwitz» dice il personaggio femminile al culmine della sua illuminazione.
Il nostro dolore è un assoluto per noi, ma un aneddoto per gli altri. Fare confronti è una salvaguardia psicologica. Quando malediciamo il nostro Paese, il nostro sistema politico, non è inutile guardare alle vere dittature per capire i privilegi di cui godiamo. Ci rendiamo conto di quanto siamo fortunati? Ma il sollievo non dura a lungo, e appena interrompiamo questo esercizio mentale, torniamo alla litania delle nostre geremiadi. Se la gioia è comunicativa e ci espande verso le dimensioni dell’universo, la sofferenza ci confina nel piccolo recinto dei nostri tormenti, ci rende impermeabili all’empatia e alla pietà.
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La confusione nei disagi
È dolce pensare di essere infelici,
quando si è solo vuoti e annoiati.
MUSSET, Confession d’un enfant du siècle
Appena un secolo fa, in una Francia repubblicana e laica che usciva da una mostruosa Grande Guerra, il duro lavoro e la resistenza erano la norma per tutti. Rappresentavano la disciplina minima a cui uomini e donne dovevano sottoporsi per avere successo. Bisognava avere un carattere forte, soprattutto nelle classi lavoratrici, per farcela. Oggi le condizioni di vita sono diventate generalmente più dolci e ci rendono meno tolleranti di fronte alle difficoltà. Lo sforzo, la determinazione e persino i fastidi più comuni ci risultano insopportabili. Non è forse sintomatico che il fentanyl, una droga sintetica a basso costo prodotta dai cartelli messicani e originariamente creata per dare sollievo ai pazienti affetti da cancro, sia diventato il narcotico più letale negli Stati Uniti (71.030 morti solo nel 2021) perché allevia anche l’infelicità e la depressione?1 È come se il desiderio di abolire ogni preoccupazione portasse a un’euforia fatale. È questa la novità del secolo appena cominciato: i labili confini fra i luoghi della sofferenza e i luoghi della non sofferenza. Sorgono sempre nuove ferite rispetto alle quali abbiamo scarsa resistenza. Il cambiamento è particolarmente accentuato tra le generazioni, in quanto gli anziani riescono a sopportare violazioni che i giovani considerano scioccanti: era già così per i baby-boomer nei confronti dei loro genitori i quali avevano vissuto la Seconda guerra mondiale o la guerra d’Algeria. Sembra che ogni generazione porti con sé nuove sensibilità che distribuiscono dolori e piaceri in modo diverso.
Lo sforzo non è dolore
Un antico dibattito divide la sinistra, almeno dai tempi di Karl Marx e di suo genero Paul Lafargue, autore del Diritto all’ozio (1883), tra i sostenitori del lavoro emancipatore e i critici del lavoro alienante. Per alcuni il lavoro sarebbe un valore «di destra», mentre per altri ha contribuito, a partire dall’Illuminismo, a emancipare le persone dall’ignoranza. Lavorare significa trasformare se stessi trasformando il mondo. Molti si oppongono a questa visione ottimistica, sostenendo che il colore della pelle o l’origine sociale sono ostacoli insormontabili quando si tratta di trovare un buon impiego. Anche se è stata confutata da numerosi studi (Gérald Bronner, Arnaud Lacheret),2 questa concezione, molto à la Bourdieu, si colloca, come per la destra conservatrice, sotto il segno dell’inesorabile. Pierre Bourdieu non era un professore di resistenza ma un professore di fatalità, e affermava di essere la migliore confutazione del suo stesso sistema. È strano che una certa sinistra, massimalista a parole, sia diventata, attraverso un rovesciamento delle sue premesse, la patria del fatalismo; denuncia un certo numero di ingiustizie solo per meglio sottomettervisi. Dato che non possiamo cambiare tutto in una volta, tanto vale non cambiare nulla. Il partito del progresso si è capovolto nel partito della rinuncia, nonostante la retorica incendiaria.
Voler eliminare le difficoltà a ogni costo significa correre il rischio di peggiorare le cose, ossessionandosi con un male che non fa che crescere quanto più lo si rincorre. Una categoria tradizionale come l’attività fisica, se non nella forma ludica dello sport o del fitness, viene rifiutata: i lavori di fatica nell’edilizia, nella costruzione di strade, nella ristorazione o nel turismo, ma anche il baby-sitting, la sicurezza, le consegne a domicilio e i lavori domestici sono affidati ormai, nelle nostre società, agli immigrati. Che cos’è un immigrato? Qualcuno disposto a eseguire le mansioni umili che noi non ci sobbarchiamo più.3 Quando le giovani generazioni, in Francia o altrove, chiedono un lavoro dotato di senso, dimenticano, in questa nobile richiesta, di prendere in considerazione i servizi pubblici, l’umile mestiere che garantisce la pulizia delle strade, che permette ai ristoranti di funzionare e di avere qualcuno che accudisca i nostri bambini. I lavori difficili sono riservati agli stranieri che non lesinano la loro fatica. I bambini viziati, che rifiutano di sporcarsi le mani, hanno bisogno di schiavi, anche se poi si dichiarano solidali con gli «sfruttati», soprattutto quando questa scelta professionale va di pari passo con la scelta di non fare figli, per non rinunciare al proprio comfort. Già Cicerone ci ammoniva a non confondere lo sforzo col dolore: mentre il primo consiste nella realizzazione di un’impresa difficile, il secondo consiste in un urto brutale che scuote i sensi.4
L’allergia ai vincoli
Qual è la ragione della nostra avversione per gli obblighi, a cominciare da quelli del lavoro? Il cittadino delle democrazie moderne è un re bambino che ha beneficiato di un’educazione piuttosto liberale e al tempo stesso un cliente monarchico i cui desideri sono quanto di più sacro sul piano commerciale. I nostri genitori vivevano in un regime di aspettative e godimenti differiti. Dopo il 1968, abbiamo conosciuto solo gratificazioni multiple e istantanee, accelerate dalla trasformazione digitale. L’individuo democratico non concepisce né la frustrazione, né la pazienza, che sono viste come un affronto. Anche quando diventa adulto, rimane «Sua Maestà il Bambino» a cui bisogna concedere tutto subito, come diceva Sigmund Freud. Il diritto di avere alcuni diritti si trasforma nel diritto di averli tutti, e questi vengono confusi con il mio piacere: ogni limitazione o rifiuto fa di me una vittima e giustifica la mia collera.5 Il cittadino ideale, al tempo stesso «legislatore e suddito», per usare l’espressione di Kant, accetta come autoevidente la separazione tra diritti e doveri: questi ultimi, ridotti a una dose congrua, sono vissuti ormai come nuovi abusi. La formula democratica, così bella e così vaga, Libertà, uguaglianza, fraternità, alimenta tutte le speranze e acuisce ogni sintomo di esasperazione.6 Siamo vecchi adolescenti capricciosi che non sopportano la minima catena e che confondono i vincoli con ceppi intollerabili. Da qui la preferenza dei nostri contemporanei, perlomeno in Francia ma la tendenza è evidente anche negli Stati Uniti, per la settimana lavorativa più corta possibile, eventualmente a parità di salario; e la spontanea avversione alle politiche di limitazione, come quelle che invitano, per esempio, a ridurre la velocità delle automobili, a creare zone a bassa emissione all’interno delle città (che penalizzerebbero i veicoli più vecchi). Il ricordo della rivolta dei Gilet Gialli nel 2019 è troppo fresco per toccare un mezzo di trasporto che rimane essenziale per la maggioranza. Vietare qualcosa in democrazia, senza un lungo lavoro di educazione preliminare, equivale ancora a un suicidio politico. Ce ne siamo dimenticati, ma l’uso obbligatorio delle cinture di sicurezza aveva suscitato furiose polemiche all’epoca della sua introduzione.
Persino lo studio viene talvolta equiparato all’oppressione. Nel tentativo di risparmiare ai nostri figli ogni vessazione, la scuola, dopo gli anni Settanta, ha spesso rinunciato a insegnare: i voti equivalgono a una violenza intollerabile, sono stati sostituiti da lettere altrettanto penalizzanti, bisogna aiutare gli studenti a espandersi, anziché sommergerli di conoscenze inutili. E quando insegniamo i classici, dobbiamo consentire agli studenti di scansare le difficoltà linguistiche, gli anacronismi che spengono la curiosità, le formule pompose, senza dimenticare la rappresentazione degradata delle donne o delle minoranze, per non ferire le loro anime fragili. Risultato: gli standard si abbassano, l’analfabetismo avanza, le scuole private che puntano ancora sull’eccellenza e sulla competizione prosperano. Il sospetto nei confronti del duro lavoro deriva in primo luogo dall’edonismo imperante, che detesta la perseveranza. Chi si impegna viene visto come un faticatore senza talento: il mito del genio imbranato ha sempre fornito una scusa già pronta per i pessimi allievi. Non passano gli esami, ma ne usciranno a testa alta. Trionfa insomma la cultura della vita facile, trainata dai nuovi mestieri della rete: blogger, youtuber, instagrammer, influencer, che non richiedono alcuna competenza, ma solo un fisico attraente, una buona parlantina e un talento nel mettersi in mostra. Questo denaro facile svaluta il duro lavoro, la ricerca assidua pagata una miseria. Ma solo la perseveranza e la concentrazione consentono di fare passi avanti. Come ci insegna Rousseau, siamo esseri imperfetti e quindi perfettibili, sempre protesi al miglioramento di sé. In tal senso, non si dà educazione che non comporti dolore, espansione dello spirito attraverso l’esperienza dell’alterità. L’insegnamento di una nuova disciplina, che sia matematica, fisica o musica, o di una lingua straniera è sempre una violenza inflitta a un bambino per strapparlo al morbido bozzolo dell’ignoranza. L’estensione di sé dona un piacere inebriante, ma solo al prezzo di inglobare intere zone di un universo sconosciuto.
Al sogno infantile di un’esistenza in cui le vette si raggiungono senza sforzo, bisogna rispondere che troppa facilità uccide il piacere quando viene meno il pimento della resistenza. Affinché la gioia di vivere sia completa bisogna prodigarsi negli anni, far maturare i progetti a lungo, evitare di prendere sempre la via più facile. Non chiamiamo sofferenza ciò che è soltanto incompletezza: chiamiamola manna dal cielo, felice sorpresa, opportunità per tutti di cercare di migliorarsi. Abbiamo bisogno di prove che ci ricarichino di forza proprio mentre ci sfidano. L’ostacolo che scoraggia gli uni, galvanizza gli altri. Il dispiacere nasce quando il danno patito si discosta dai tormenti ordinari della condizione umana: invecchiare è una triste fatalità, non è uno scandalo che merita un risarcimento o una denuncia nei confronti dello Stato (un olandese nel 2018 ha fatto causa al governo del suo Paese perché l’età indicata sul suo stato civile lo penalizzava sul piano professionale e nella vita sentimentale). Il dolore è sempre stato un codice nelle varie società, ma un codice che continua a cambiare a seconda dei periodi. La cartografia dell’infelicità, se mai è esistita, è scomparsa, il confine tra normale e patologico si muove di continuo. E corriamo il rischio di perdere il senso delle proporzioni, di prendere per calamità insuperabili le battute d’arresto provvisorie.
L’autocommiserazione
Anziché competere sul piano dell’eccellenza e del talento, gli uomini e le donne del nostro tempo fanno a gara troppo spesso nel vantare le disgrazie, si premurano di dirsi oggetto di terribili tormenti. Negli Stati Uniti, per esempio, il «trauma essay» è un genere molto diffuso per accedere all’università. Ogni studente deve scrivere un saggio abbastanza originale da ghermire l’attenzione degli esaminatori sovraccarichi di lavoro, e raccontare le difficoltà superate durante gli studi, specialmente se appartiene a una minoranza. Può sembrare, a prima vista, un esercizio di scoperta della propria maturità, che mette in luce capacità e talenti e trasforma la vita dello studente in un romanzo in cui l’eroe è lui; un altro modo per costruire un narcisismo positivo intessuto di disinvoltura e fiducia in se stessi. Molti candidati, però, hanno confessato di essersi scervellati per rivangare un trauma che forse li aveva sconvolti o per ingigantire un incidente. Non amano più essere ridotti alla loro «razza», ossia non vogliono più esporre la loro cosa più impersonale, le loro caratteristiche etniche o il colore della pelle, anziché mettere in evidenza la loro individualità unica.7 Si vedono quindi costretti ad amplificare le contrarietà per essere presi sul serio. Un po’ come accade nella confessione cattolica, dove ci si inventa qualche peccato pur di compiacere il confessore. Con una tipica conseguenza: invece di incoraggiare i candidati, li trasformiamo in persone segnate dalle loro tribolazioni e non libere, né protese verso una meta. L’io buono diventa un io sofferente, mai un io conquistatore. Come faremo a trarre nuova forza da noi stessi se siamo continuamente indotti a coltivare le nostre vulnerabilità? Il passato ci vincola ai nostri determinismi, non è una rampa di lancio, né una tappa verso un futuro da costruire. Il dolore diventa il palcoscenico obbligato sul quale bisogna competere esponendo i propri lutti.
La sofferenza vende più del sesso. Basta guardare i «misery memoirs» (2007), autofiction singhiozzanti in cui le persone fanno a gara per compatirsi a vicenda. Gli autori, uomini e donne, descrivono le percosse, gli abusi sessuali, la povertà, i genitori alcolizzati e violenti che hanno dovuto subire. Il genere è tutt’altro che nuovo, essendo sorto nel XVIII secolo, nella letteratura sentimentale inglese e francese, di cui il marchese de Sade si era già preso gioco. Il romanzo imperniato sui minori maltrattati ha tirature elevate e influenza il sistema giudiziario. In queste opere molto codificate bisogna dosare gli effetti, stando attenti a non passare dalla pietà al ridicolo: «il gioco consiste nel dipingerci come vittime mentre ci vendiamo come sopravvissuti» (John Crace). Un cancro in fase terminale potrà commuovere i lettori solo se si muore, ma in quel caso non potremo godere del successo.8 Questa tendenza sterilizza la fertilità della letteratura: quando si riduce a una serie di confessioni tutte uguali non ha più niente di creativo, è mera nosografia, una nomenclatura di stati d’animo luttuosi. Ognuno nella propria nicchia intona il suo piccolo lamento. Se bastasse soffrire per avere talento, sarebbe fatta!
Non c’è nulla, in effetti, che le nostre società amino più di una persona, uomo o donna, che abbia sopportato grandi tragedie, che abbia sfiorato la morte e sia poi risorta. Come lo scrittore Sylvain Tesson, dato per morto dopo essere caduto dal tetto di uno chalet a Chamonix nel 2014. La caduta che lo ha sfigurato lo ha anche trasfigurato. La «resilienza», concetto americano ormai contestato, applicato dapprima ai materiali fisici, quindi rielaborato e ampliato in Francia da Boris Cyrulnik, ha reso esemplari questi miracolati: è il solo caso, come vedremo, in cui il vittimismo va a braccetto con l’eroismo. La vittimologia è una soteriologia, una scienza della salvezza. Cerchiamo la nostra redenzione mondana anche attraverso lo status di sopravvissuti, di truffatori della morte.
L’USO CORRETTO DELLE MALATTIE?
Nel suo «Prière pour demander à Dieu le bon usage des maladies» pubblicato nel 1664, Blaise Pascal si rallegra della distruzione del proprio corpo se questo gli permette di salvare la sua anima. Ha abusato della propria salute e Dio lo ha giustamente punito.
Lo leggiamo con timore, soprattutto quando confessa una specie di gioia sotterranea per essere stato scelto dal Creatore. Il dolore è un anticipo del purgatorio, la gioia di essere spezzati per la gloria suprema dell’Altissimo. Il nostro rapporto contemporaneo con la malattia non è meno ambiguo. Quando Nietzsche scrive, in modo provocatorio, che «oggi gli ‘agenti morbosi’ ci sembrano anche più necessari di un qualsiasi sciamano e ‘salvatore’»,9 non è molto distante da Blaise Pascal, anche se altrove castiga la guerra dei malati, i vendicativi contro i sani e i robusti.10 A partire dai Romantici, la malattia diventa un segno di distinzione: Hans Castorp, l’eroe della Montagna incantata di Thomas Mann, è stato «consacrato» dalla tubercolosi contratta nel sanatorio. Passa da una salute ingenua a una salute riflessiva che è consapevolezza della fragilità del corpo e della pace, visto che nel frattempo è scoppiata la Prima guerra mondiale. Per Dostoevskij, la sua epilessia era un’afflizione mistica da trattare con rispetto. Per tutta la vita, Proust ha odiato e in ugual misura amato gli attacchi d’asma che lo affliggevano, ma che guidavano anche la sua scrittura. «Ci sono disturbi da cui non bisogna cercare di guarire perché ci proteggono da quelli più gravi.»
Quando il corpo diventa nostro nemico, ci fa ansimare, ci rende miserevoli, ci riduce alla sopravvivenza. La malattia ci svela un essere che non sospettavamo, soprattutto quando si manifesta nell’infanzia; rappresenta il gemello estraneo che sgorga dalle profondità del nostro corpo e ci espelle da noi stessi. Ci «prendiamo» un malanno che il corpo in realtà ha tratto da se stesso, e facciamo di questa patologia la nostra cosa, il nostro possesso. È un padrone che ci impone i suoi orari, ci dà una ragione d’essere, perché «la vita ammette riparazioni che sono vere e proprie innovazioni fisiologiche» (Georges Canguilhem). Oggi i pazienti non rimangono più in un timoroso testa a testa con un mandarino onnipotente, ma condividono le loro esperienze per aiutarsi a vicenda, per agire collettivamente. La malattia «giusta» è quella che ti tormenta senza distruggerti, quella che si doma con il passare degli anni e che ti perseguita a intervalli regolari. Una compagna fastidiosa ma fedele. Può completarvi, ma vi avrà concesso una lunga sospensione. Con essa firmiamo armistizi temporanei e usciamo da ogni crisi ringiovaniti, felici della tregua.
Ci sono persone la cui unica identità è legata alla malattia. Negli ospizi e nelle sale d’attesa, ci si imbatte in questi fagottini di sventura che recitano le loro litanie a chiunque voglia ascoltare. Quando l’esistenza si riduce all’enumerazione dei nostri guai, è davvero l’anticamera della fine. Allora ti chiedi: quando sarà il mio turno mi comporterò anch’io come un pappagallo logorroico, o avrò il pudore di seppellire le mie grane in silenzio? Anche se progredisce, la medicina rimane, per le patologie gravi, il luogo del verdetto e dell’agonia. Certe tragedie possono essere rimandate, ma non abolite. L’uso migliore delle malattie sarebbe quello di relegarle alle ultime stagioni della vita. Se questo non è possibile, dovremo sopportare la monotona sfilata dei loro assalti, il genio diabolico con cui ci riducono a un campo di battaglia, fino all’abisso.