sabato 15 novembre 2025

LA RICERCA DI AVERROÈ Estratto da "L'Aleph" Luis Borges



 LA RICERCA DI AVERROÈ 

Estratto da "'L'Aleph"

Luis Borges 

"La ricerca di Averroè" è un racconto del 1947 dello scrittore argentino Jorge Luis Borges. Originariamente pubblicato sulla rivista Sur, è stato poi incluso nella sua seconda antologia di racconti, El Aleph.

[...] Ricordai Averroè, che chiuso nell'ambito dell'Isiam non potè mai sapere il significato delle voci tragedia e commedia. Presi a narrare il caso; a misura che procedevo, sentivo quel che dovette sentire quel dio di cui parla Burton, il quale s'era proposto di creare un toro e creò un bufalo. Sentii che l'opera si burlava di me..[...]


 LA RICERCA DI AVERROÈ 

S'imaginant que la tragèdie riest autre chose que Vari de louer...

ERNEST RENAN: Averroès, 48 (1861)

Abulgualid Mohammed Ibn-Ahmed Ibn-Moham-med Ibn-Rushd (un secolo avrebbe impiegato questo lungo nome a divenire Averroè, passando per Ben-raist e per Avernriz, per Aben-Rassed e Filius Rosadis) stendeva l'undicesimo capitolo dell'opera Tahafut-ul-Tahafut [Distruzione della distruzione] nel quale si afferma, contro l'asceta persiano Ghazali, autore di Tahafut-ul-Falasifa [Distruzione dei filosofi], che la divinità conosce solo le leggi generali dell'universo, quel che si riferisce alla specie, non all'individuo. Scriveva con lenta sicurezza, da destra a sinistra; l'esercizio di formare sillogismi e di concatenare vasti paragrafi non gl' impediva di sentire con benessere la fresca e spaziosa casa che lo circondava. Il meriggio risuonava del roco tubare di amorose colombe; da un patio invisibile si levava il rumore d'una fontana; qualcosa nella carne di Averroè, i cui antenati venivano dai deserti d'Arabia, era grato al fluire dell'acqua. In basso erano i giardini, l'orto; in basso, il Guadalquivir percorso da imbarcazioni e l'amata città di Cordova, non meno illustre di Bagdad o del Cairo, simile a un complesso e delicato strumento, e intorno (anche questo sentiva Averroè) si ampliava fino alle frontiere la terra di Spagna, nella quale sono poche cose, ma dove ciascuna sembra starvi in modo sostanziale ed eterno.

La penna scorreva sul foglio, gli argomenti si intrecciavano, irrefutabili, ma una lieve preoccupazione offuscò la felicità di Averroè. Non la causava il Tahafut, lavoro fortuito, ma un problema d'indole filologica, connesso con l'opera monumentale che lo avrebbe giustificato davanti al mondo: il commento di Aristotele. Questo greco, fonte di tutta la filosofia, era stato dato agli uomini affinchè insegnasse loro tutto ciò che si può conoscere; interpretare ì suoi libri, come gli ulema interpretano il Corano, era l'arduo proposito di Averroè. Poche cose registrerà la storia più belle e più patetiche di questo consacrarsi di un medico arabo ai pensieri di un uomo dal quale lo separavano quattordici secoli. Alle difficoltà intrinseche dobbiamo aggiungere che Averroè, non conoscendo il siriaco e il greco, lavorava sulla traduzione di una traduzione. Il giorno prima, due parole dubbie lo avevano arrestato al principio della Poetica. Le parole erano tragedia e commedia. Le aveva trovate, anni prima, nel terzo libro della Rettorica; nessuno, nell'ambito dell'Isiam, aveva la più piccola idea di quel che volessero dire. Invano aveva sfogliato le pagine di Alessandro di Afrodisia, invano compulsato le versioni del nestoriano Hunain Ibn-Ishaq e di Abn-Bashar Mata. Quelle due parole arcane pullulavano nel testo della Poetica; impossibile evitarle. Averroè depose la penna. Si disse (senza troppa fiducia) che quel che cerchiamo suole trovarsi vicino, mise da parte il manoscritto del Tahafut e si diresse allo scaffale dove si allineavano, copiati da calligrafi persiani, i molti volumi del Moham del cieco Abensifla. Non si poteva supporre che non li avesse consultati, ma lo tentò l'ozioso piacere di sfogliare le loro pagine. Da tale distrazione lo distrasse una strana melodia. Guardò attraverso l'inferriata del balcone: giù, nel piccolo patio, giocavano alcuni ragazzi seminudi. Uno, in piedi sulle spalle di un altro, faceva evidentemente da muezzin con gli occhi chiusi, salmodiava: "Non c'è altro dio che Allah." Quello che lo sosteneva, immobile, faceva da minareto; un terzo, inginocchiato nella polvere, rappresentava i fedeli. Il giuoco durò poco; tutti volevano essere il muezzin, nessuno i fedeli e il minareto. Averroè li udì litigare in dialetto volgare, cioè nel primitivo spagnolo della plebe musulmana della penisola. Apri il Quitab-ul-Ain di Jalil e pensò con orgoglio che in tutta Cordova (e forse in tutto Al-Andalus) non esisteva una copia dell'opera perfetta quanto quella che l'emiro Yacub Almansur gli aveva mandata da Tangeri. Il nome di questo porto gli ricordò che il mercante Abulcasim Al-Ashari, ch'era appena tornato dal Marocco, avrebbe cenato con lui quella sera in casa del tal coranista Farach. Abulcasim diceva di aver toccato i regni dell'impero di Sin (la Cina); i suoi detrattori, con la speciale logica dell'odio, giuravano che non aveva mai toccato la Cina, e che nei templi di quel paese aveva bestemmiato Allah. La riunione sarebbe durata certamente alcune ore; Averroè si affrettò pertanto a riprendere il manoscritto del Tahafut. Lavorò fino al crepuscolo.

Il dialogo, in casa di Farach, passò dalle incomparabili virtù del governatore a quelle di suo fratello l'emiro; più tardi, nel giardino, parlarono di rose. Abulcasim, che non le aveva neppure guardate, giurò che non c'erano rose come quelle che ornano le ville andaluse. Ma Farach non si lasciò corrompere; osservò che il dotto Ibn Qutaiba descrive una straordinaria varietà della rosa perpetua, che nasce nei giardini dell'Indostan e i cui petali, d'un rosso acceso, recano caratteri che dicono: "Non c'è altro dio che Allah, e Maometto è il suo profeta." Aggiunse che Abulcasim probabilmente aveva visto quelle rose. Abulcasim lo guardò allarmato. Se rispondeva di si, tutti lo avrebbero giudicato, a ragione, il peggiore degli impostori; se rispondeva di no, l'avrebbero detto un infedele. Optò per mormorare che il Signore possiede le chiavi delle cose occulte e che non c'è sulla terra cosa fresca o appassita che non sia registrata nel suo libro. Queste parole si trovano in una delle prime azore; le accolse un mormorio reverente. Orgoglioso di quella vittoria dialettica, Abulcasim si apprestava a dire che il Signore è perfetto nelle sue opere e inscrutabile. In quel momento Averroè dichiarò, prefigurando le remote ragioni di un ancora problematico Hume: "Mi costa meno ammettere un errore nel dotto Ibn Qutaiba, o nei copisti, che ammettere che la terra dia rose che recano sui petali la professione della fede." "Cosi è. Grandi e vere parole," disse Abulcasim.

"Un viaggiatore," ricordò il poeta Abdalmalik, "parla di un albero i cui frutti sono verdi uccelli. Meno mi costa credere a ciò che a rose con caratteri." "Il colore degli uccelli," disse Averroè, "sembra facilitare il prodigio. Inoltre, frutti e uccelli appartengono al mondo naturale, ma la scrittura è un'arte. Passare da foglia a uccello è più facile che da rose a caratteri." Un altro ospite negò con indignazione che la scrittura fosse un'arte, giacché l'originale del Corano - la madre del Libro - è anteriore alla Creazione ed è conservato nel cielo. Un altro parlò di Chahiz di Basra, il quale disse che il Corano è una sostanza che può assumere la forma d'un uomo o d'un animale, opinione che sembra accordarsi con quella di coloro che gli attribuiscono due facce. Farach espose lungamente la dottrina ortodossa. Il Corano - disse - è uno degli attributi di Dio, come la Sua pietà; lo si copia in un libro, lo si pronuncia con la lingua, lo si ricorda nel cuore; l'idioma, i segni e la scrittura sono opera degli uomini, ma il Corano è irrevocabile ed eterno. Averroè, che aveva commentato la Repubblica, avrebbe potuto dire che la madre del Libro è come il suo modello platonico, ma pensò che la teologia era un tema del tutto inaccessibile ad Abulcasim.

Altri, che avevano pensato lo stesso, pregarono Abulcasim di narrare qualche meraviglia. Allora, come adesso, il mondo era atroce; potevano percorrerlo gli audaci, ma anche i miserabili, che si piegavano a tutto. La memoria di Abulcasim era uno specchio di intime viltà. Che cosa poteva narrare? Inoltre gli chiedevano meraviglie, e la meraviglia è incomunicabile; la luna del Bengala non è uguale alla luna dello Yemen, ma si lascia descrivere con le stesse parole. Abulcasim esitò; poi parlò: "Chi percorre i climi e le città," affermò con compunzione, "vede molte cose che son degne di credito. Come questa, ad esempio, che ho narrata una sola volta, al re dei turchi. Accadde in Sin Kalàn (Canton), dove il fiume dell'Acqua della Vita sbocca nel mare.

Farach chiese se la città si trovava a molte leghe dalla muraglia che Iskandar Zul Quarnain (Alessandro Bicorne di Macedonia) aveva innalzata per fermare Gog e Magog.

"Deserti la separano da essa” disse Abulcasim con involontario orgoglio. "Quaranta giorni impiegherebbe una carovana per scorgere le sue torri e altrettanti per raggiungerla. In Sin Kalàn non ho conosciuto alcuno che la vide o che abbia visto chi la vide." Il timore dell'infinito, del puro spazio, della pura materia, sfiorò per un istante Averroè. Guardò il simmetrico giardino; si seppe invecchiato, inutile, irreale. Abulcasim continuava: "Una sera, i mercanti musulmani di Sin Kalàn mi condussero a una casa di legno dipinto, nella quale vivevano molte persone. Non è possibile descrivere questa casa: era piuttosto una sola stanza, con file di gabbie o di balconi, una sull'altra. In quelle cavità c'era gente che mangiava e beveva, e così anche sul pavimento e sulla terrazza. Le persone che erano sulla terrazza suonavano il tamburo e il liuto, tranne quindici o venti, con maschere di color rosso, che pregavano, cantavano e dialogavano. Erano prigionieri, e non si vedeva la prigione; cavalcavano, ma non si vedeva il cavallo; combattevano, ma le spade erano di canna; morivano, e poi si rialzavano." "Gli atti dei pazzi," disse Farach, "eccedono le previsioni del savio." "Non erano pazzi," spiegò Abulcasim, "rappresentavano, a quanto mi disse un mercante, una storia." Nessuno comprese, nessuno sembrò voler comprendere. Abulcasim, confuso, passò dalla narrazione a rozze spiegazioni. Disse, aiutandosi coi gesti: "Immaginiamo che qualcuno mostri una storia, invece di raccontarla. Per esempio, la storia dei dormienti di Efeso. Li vedremo entrare nella caverna, li vedremo pregare e addormentarsi, dormire con gli occhi aperti, li vedremo crescere mentre dormono, li vedremo ridestarsi dopo trecentonove anni, dare al venditore un'antica moneta, li vedremo ridestarsi nel paradiso. Una cosa del genere mostrarono quella sera le persone sulla terrazza." "Parlavano quelle persone?" domandò Farach.

"Certo che parlavano," disse Abulcasim, convertito in apologista di uno spettacolo che ricordava appena e che lo aveva abbastanza annoiato. "Parlavano, cantavano e peroravano! " "In tal caso," disse Farach, "non occorrevano tante persone. Un solo narratore può riferire qualsiasi cosa, per complessa che sia." Tutti approvarono il giudizio. Furono esaltate le virtù dell'arabo, che è lingua che Dio usa per comandare agli angeli; poi, quelle della poesia araba. Abdalmalik, dopo averla ben vagliata, tacciò di antiquati i poeti che in Damasco o in Cordova si mantenevano ancora fedeli a immagini pastorali e a un vocabolario beduino. Disse ch'era assurdo che un uomo, davanti al cui sguardo si stendeva il Guadalquivir, cantasse l'acqua di un pozzo. Accennò all'opportunità di rinnovare le antiche metafore; disse che quando Zuhair aveva paragonato il destino a un cammello cieco, l'immagine aveva potuto stupire la gente, ma che cinque secoli di ammirazione l'avevano logorata. Tutti approvarono il giudizio, che avevano già ascoltato molte volte, da molte bocche. Averroè taceva. Finalmente parlò, meno per gli altri che per se stesso.

"Con minore eloquenza," disse, "ma con argomenti simili, ho difeso talora l'opinione espressa da Abdalmalik. In Alessandria è stato detto che è incapace di una colpa solo chi l'ha già commessa e s'è pentito; per essere liberi da un errore, possiamo aggiungere, è bene averlo professato. Zuhair, nella sua lirica, dice che nel trascorrere di ottantanni di dolore e di gloria ha visto molte volte il destino colpire all'improvviso gli uomini, come un cammello cieco; Abdalmalik afferma che questa figura non può più meravigliare. A questa osservazione si potrebbero rispondere molte cose. La prima è che, se il fine della poesia fosse la meraviglia, il suo tempo non si misurerebbe a secoli, ma a giorni e a ore, e forse a minuti. La seconda, che un grande poeta è meno inventore che scopritore. Per lodare Ibn-Sharaf di Berja, si è ripetuto che egli soltanto avrebbe potuto immaginare che le stelle all'alba cadono lentamente, come cadono le foglie degli alberi; se ciò fosse vero, dimostrerebbe che l'immagine è futile. L'immagine che un solo uomo può formare non tocca nessuno. Infinite sono le cose sulla terra; una qualunque di esse può essere paragonata a qualunque altra. Paragonare le stelle a foglie non è meno arbitrario che paragonarle a pesci o a uccelli. Tutti, invece, hanno sentito qualche volta che il destino è forte e stupido, innocente e inumano. Per questo sentimento, che può essere passeggero o costante, ma che nessuno elude, fu scritto il verso di Zuhair. Non si dirà meglio quel che li è detto. Inoltre (e questo forse è l'essenziale delle mie riflessioni) il tempo, che dirocca i castelli, aggiunge forza ai versi. Quello di Zuhair, quando questi lo compose in Arabia, servì a paragonare due immagini, quella del vecchio cammello e quella del destino; ripetuto ora, serve a ricordare Zuhair e a confondere il nostro dolore con quello del poeta morto. La figura aveva due termini, ora ne ha quattro. Il tempo amplia l'orizzonte dei versi; ve ne sono alcuni che, come la musica, sono tutto per tutti gli uomini. Cosi, tormentato anni fa in Marrakesh dal ricordo di Cordova, mi compiacevo di ripetere l'apostrofe che Abdurrahmàn rivolse nei giardini di Ruzafa a una palma africana:

O palma! tu pure sei.

in questo suolo straniera...

“Singolare beneficio della poesia: le parole scritte da un re che anelava all'Oriente servirono a me, esiliato in Africa, per esprimere la mia nostalgia della Spagna.” Poi Averroè parlò dei primi poeti, di coloro che nel Tempo dell'Ignoranza, prima dell'Islam, già dissero tutte le cose, nell'infinito linguaggio dei deserti. Allarmato, non senza ragione, per le futilità di Ibn-Sharaf, disse che negli antichi e nel Corano era racchiusa tutta la poesia e condannò come vana e frutto d'ignoranza l'ambizione d'innovare. Gli altri ascoltarono con piacere, poiché difendeva la tradizione.

I muezzin chiamavano alla preghiera della prima luce quando Averroè fece ritorno alla biblioteca. (Nell’harem, le schiave dai capelli neri avevano torturato una schiava dai capelli rossi, ma egli non l'avrebbe saputo che la sera.) Qualcosa gli aveva rivelato il significato delle due parole oscure. Con ferma e curata calligrafia aggiunse al manoscritto queste righe: "Aristù (Aristotele) chiama tragedia i panegirici e commedia le satire e gli anatemi. Mirabili tragedie e commedie abbondano nelle pagine del Corano e nelle iscrizioni del santuario." Senti sonno, e provò freddo. Scioltosi il turbante, si guardò in uno specchio di metallo. Non so quel che videro i suoi occhi, perché nessuno storico ha descritto la forma del suo volto. So che scomparve bruscamente, come folgorato da una vampa senza luce, e che con lui scomparvero la casa e l'invisibile fontana e i libri e i manoscritti e le colombe e le molte schiave dai capelli neri e la tremante schiava dai capelli rossi e Farach e Abulcasim e i roseti e lo stesso Guadalquivir.

Nella storia che precede ho voluto narrare il processo di una sconfitta. Pensai, al principio, a quell'arcivescovo di Canterbury che si propose di dimostrare che c'è un Dio; poi, agli alchimisti che cercarono la pietra filosofale; in seguito, alle vane trisezioni del l'angolo e quadrature del cerchio. Poi riflettei che è più poetico il caso di un uomo il quale si propone un fine che non è vietato agli altri, ma a lui soltanto. Ricordai Averroè, che chiuso nell'ambito dell'Isiam non potè mai sapere il significato delle voci tragedia e commedia. Presi a narrare il caso; a misura che procedevo, sentivo quel che dovette sentire quel dio di cui parla Burton, il quale s'era proposto di creare un toro e creò un bufalo. Sentii che l'opera si burlava di me. Sentii che Averroè, che voleva immaginare quel che è un dramma senza sapere che cos'è un teatro, non era più assurdo di me, che volevo immaginare Averroè senz'altro materiale che qualche notizia tratta da Renan, Lane e Asin Palacios. Sentii, giunto all'ultima pagina, che la mia narrazione era un simbolo dell'uomo che io ero mentre la scrivevo, e che, per scriverla, avevo dovuto essere quell'uomo, e che, per essere quell'uomo, avevo dovuto scrivere quella storia, e cosi all'infinito. (Nell'istante in cui cesso di credere in lui, Averroè sparisce.)