Adoro il Bellow/Herzog. Herzog è incapace di conformarsi, a prescindere. E poi Herzog è imbranato, sempre fuori luogo, sprovveduto (quindi simpatico) un pasticcione, un uomo-bambino, un uomo che cerca di ricostruire la sua coscienza, anche se sa che niente è comprensibile, meno che mai il proprio Io. ”L’uomo è cosa vana, cosa vana. Follia e peccato sono tutto il suo gioco”.
Herzog si sente depresso e a disagio per non riuscire a trovare il significato dello stare al mondo e si sente incapace a sopportare le sue bassezze culturali.. ma nello stesso tempo è una persona sensibile che si affligge per i soprusi, i bambini maltrattati, le guerre ingiuste, la corsa agli armamenti. "Che terribile handicap avere un'anima". Discute con i grandi filosofi sui temi esistenziali, o con i grandi uomini con i quali discute di politica, attraverso la scrittura di finte lettere. Vivi o morti non fa differenza, lui scrive lettere come fossero da spedire. Herzog si convince della sua ineluttabilità di uomo destinato a soffrire per propria scelta ma allo stesso tempo sono le piccole cose - gli affetti familiari, le incredibile meraviglie della natura, una buona cena, il corpo generoso di Ramona - a dare un senso all'esistenza. Trovi in questo libro una miniera di spunti e riflessioni. Da leggere e rileggere, per gustare le delizie disseminate lungo la narrazione.
Chi si aspetta un romanzo che descriva una storia ricca di avvenimenti e di azione rimarrà deluso. Qui siamo di fronte a un’analisi approfondita del pensiero, dei sentimenti, delle schizofrenie e delle idiosincrasie di un personaggio/intellettuale, che non trova più alcuna collocazione in un mondo eccessivamente meccanicistico e materialista: quello che in qualche modo ha rappresentato Woody Allen nei suoi migliori film.
La prima questione che ci si pone é se considerare Herzog eroe o vittima del dramma che sta vivendo. Il fallimento della sua vita sentimentale, due divorzi, numerose relazioni occasionali, fanno di lui il modello dello psicotico depresso; saranno i suoi insuccessi, il suo annientamento come uomo/amante la molla che lo indurrà ad iniziare il suo viaggio spirituale che dovrà condurlo alla sua Terra Promessa. E certamente la scelta del nome Moses non è casuale. Né il personaggio Moses disdegna di essere considerato addirittura pazzo: d’altronde nella tradizione letteraria anglosassone spesso la follia viene considerata il mezzo attraverso il quale si può giungere alla conoscenza del vero. Non si dimentichi il Lear di Shakespeare, uno per tutti.
Saul Bellow
HERZOG
Traduzione di Letizia C. Miller
CAPITOLO I
Se sono matto, per me va benissimo, pensò Moses Herzog. C’era della gente che pensava che fosse toccato, e per qualche tempo persino lui l’aveva dubitato. Ma adesso, benché continuasse a comportarsi in maniera un po’ stramba, si sentiva pieno di fiducia, allegro, lucido e forte. Gli pareva d’essere stregato, e scriveva lettere alla gente più impensata. Era talmente infatuato da quella corrispondenza, che dalla fine di giugno, dovunque andasse, si trascinava dietro una valigia piena di carte. Se l’era portata, quella valigia, da New York a Martha’s Vineyard.
Ma da Martha’s Vineyard era riscappato indietro subito; due giorni dopo aveva preso l’aereo per Chicago, e da Chicago era filato in un paesino del Massachusetts occidentale. Lì, nascosto in mezzo alla campagna, scriveva a più non posso, freneticamente, ai giornali, agli uomini pubblici, ad amici e parenti e finì per scrivere pure ai morti, prima ai suoi morti e poi anche ai morti famosi.
Era estate alta nelle Berkshires. Herzog viveva da solo nella casa grande e antica. Lui che di solito era così schizzinoso per il cibo, ora mangiava pan carré in cellophan, fagioli in scatola e formaggini. Ogni tanto coglieva dei lamponi nel giardino invaso dalle erbacce, scostando gli spinosi arboscelli con distratta cautela; quanto al dormire, dormiva sul materasso senza lenzuola - sull’abbandonato letto matrimoniale - o nell’amaca coprendosi soltanto col cappotto. Alte canne di yucca, alberelli d’acero e carrubi lo assediavano d’ogni parte, in giardino. Di notte, se apriva gli occhi, le stelle erano vicinissime, simili a corpi spirituali. Fuochi, certo; gas - minerali, calore, atomi - ma alle cinque del mattino, per un uomo che giace in un’amaca avvolto nel proprio cappotto, cose piene d’eloquenza.
Quando un pensiero nuovo gli assaliva il cuore correva in cucina, suo quartier generale, e ne prendeva nota. Dalle pareti l’intonaco si scrostava e ogni tanto Herzog, con la manica, era costretto a pulire dal tavolo le caccole dei topi, chiedendosi, tranquillamente, perché mai ai topi di campagna piacessero tanto la cera e la paraffina. Perforavano la paraffina che ricopriva le conserve; rosicchiavano le candeline per la torta di compleanno, fino allo stoppino. Un ratto si era mangiucchiato un pan carré, lasciando dentro ogni fetta la forma del proprio corpo. Era anche capace di fare a mezzo coi topi.
E tuttavia un cantuccio della sua mente restava ancora aperto al mondo esterno. La mattina udiva i corvi. Quei loro gridi rauchi, lui li trovava deliziosi. Sull’imbrunire sentiva i tordi.
Di notte c’era una civetta. Quando camminava per il giardino, innervosito da una lettera che gli ronzava per la mente, vedeva le rose attorcigliarsi intorno alla grondaia; o le more dei gelsi - e sul gelso ingozzarsi gli uccelli. Le giornate erano calde, le sere rosse e polverose. Guardava ogni cosa con ingordigia, eppure gli pareva d’essere mezzo cieco.
Il suo amico, anzi il suo ex amico Valentine, e sua moglie, la sua ex moglie Madeleine, avevano messo in giro la voce che avesse smarrito la ragione. Che fosse vero?
Nel fare un giro intorno alla casa deserta, vide il proprio viso riflesso nel vetro grigio e velato di ragnatele di una finestra. Aveva un’aria stranamente riposata. Un raggio gli partiva dal centro della fronte, percorreva il naso diritto e scendeva sulle labbra carnose, mute.
* * *
A primavera inoltrata Herzog si era sentito sopraffatto dal bisogno di spiegare, di mettere in chiaro, di giustificare, di collocare in prospettiva, di fare ammenda.
A quell’epoca insegnava agli adulti di una scuola serale di New York. Per tutto aprile era stato ancora abbastanza lucido, ma a fine maggio aveva cominciato a vaneggiare. Gli studenti capirono presto che non avrebbero mai imparato molto da lui sulle “Origini del romanticismo”, ma che c’erano invece da vedere e sentire cose strane. I formalismi accademici caddero uno dopo l’altro. Il professor Herzog aveva la inconsapevole franchezza di un uomo profondamente preoccupato. E verso la fine del corso, nelle sue lezioni si produssero lunghe pause. Si fermava, borbottando “scusatemi”, cercando la penna nella tasca interna della giacca.
Sul tavolo che cigolava, scribacchiava dei foglietti con mano sospinta da un’urgenza imperiosa; era distratto, aveva gli occhi cerchiati. Il pallore del suo viso diceva tutto - tutto.
Ragionava, discuteva, soffriva, gli era venuta in mente un’idea nuova, brillante - l’orizzonte gli si apriva, si richiudeva; i suoi occhi, la sua bocca, dicevano davvero tutto, senza bisogno di parole: aspirazioni, desideri, pregiudizi, amare collere. Vi si poteva leggere proprio tutto. La classe aspettava quattro o cinque minuti nel silenzio più profondo.
Dapprincipio, gli appunti che prendeva non seguivano nessun ordine. Erano frammenti - mezze parole senza senso, esclamazioni, proverbi e citazioni aggrovigliate o, nello yiddish di sua madre morta da tanto tempo, Trepverter - tardive repliche di uno che già sta ruzzolando per le scale.
Scriveva, per esempio: Morte - morire - rivivere - tornare a morire - vivere.
Senza persona, niente morte.
E: Sulle ginocchia della tua anima? Tanto vale rendersi utili. Frega il pavimento.
E ancora: Rispondi allo stolto come si conviene alla sua follia, ché talora non gli paia di essere savio.
Non rispondere allo stolto secondo la sua follia, ché talora anche tu non gli sia uguale.
Sceglierne uno.
Annotò anche: Leggo, in Walter Winchell, che J.S. Bach si metteva i guanti neri per comporre una messa da requiem.
Herzog non sapeva bene che cosa pensare di quegli scarabocchi. Si abbandonava all’eccitazione che li dettava, e sospettava, talora, che fossero un sintomo di disgregazione. Non che la cosa lo spaventasse. Sdraiato sul sofà del monolocale più servizi che aveva preso in affitto nella 17a Strada, qualche volta si immaginava di essere un’industria per la produzione di racconti autobiografici, e si ripassava in rassegna completamente, dalla nascita alla morte. Su un foglietto arrivò ad ammettere:
Non trovo giustificazione.
Riconsiderando la propria intera esistenza, s’accorse di aver sbagliato tutto - tutto. La sua era una vita - come si suol dire, rovinata. Ma siccome neppure agli inizi era stata un gran che, perché prendersela? Riandando, su quel sofà puzzolente, ai secoli del passato, all’ottocento, al cinquecento, al settecento, si sovvenne di un detto settecentesco che gli piaceva:
Il dolore, o Signore, è una sorta di ozio.
Continuò a tirare le somme, bocconi sul sofà. Era un furbo o un idiota? Be’, in quel momento non poteva certo sostenere di essere furbo. Un tempo, forse, aveva avuto la stoffa di un furbacchione: invece aveva deciso di fare il sognatore e i più svelti di lui se l’erano mangiato vivo. E poi, cosa? Gli cadevano i capelli.
Leggeva la pubblicità della ditta Thomas, specialista del cuoio capelluto, con l’esagerato scetticismo di chi ha una profonda, disperata voglia di crederci. Specialisti del cuoio capelluto! Eh già... era un ex bell’uomo. La sua faccia denunciava le batoste ricevute. Ma quelle batoste se le era volute lui, anzi aveva persino dato una mano ai suoi aggressori. Da quelle riflessioni fu portato a fare un’analisi del proprio carattere. Che tipo era?
Be’, per dirla con una definizione moderna, era un narcisista; un masochista; e anacronistico. Il suo era il quadro clinico del depressivo - non grave: non maniaco depressivo. Ce n’erano di conciati peggio, in giro. A dover dar retta a quelli che credono, e al giorno d’oggi pare convinzione generale, che l’uomo è l’animale ammalato, allora lui cos’era? vistosissimamente malato, smisuratamente cieco, straordinariamente degenerato? No. Era intelligente? Il suo intelletto avrebbe certo reso di più, se egli avesse potuto avere un carattere paranoide aggressivo, avido di potere. Era invidioso, ma non eccezionalmente competitivo, non era un vero paranoide. E la sua cultura? A questo punto era costretto a ammettere di non essere una gran cima, nemmeno come professore. Oh, certo era onesto e volonteroso, era dotato di generosa sincerità, anche se un po’ immatura, ma sistematico probabilmente non sarebbe riuscito a diventarlo mai. L’esordio era stato brillante, con una bella tesi su “Lo stato di natura nella filosofia politica inglese e francese del seicento e del settecento”. Vantava al suo attivo numerosi articoli, un libro, Romanticismo e cristianesimo, ma gli altri progetti ambiziosi si erano, uno alla volta, rinsecchiti tutti. In virtù di quei primi successi non aveva mai incontrato difficoltà per avere una cattedra o per vincere una borsa di studio. La Narragansett Corporation gli aveva versato, durante un certo numero di anni, quindicimila dollari perché continuasse i suoi studi sul romanticismo. I risultati stavano dentro un armadio, chiusi in una vecchia valigia: ottocento pagine di discorsi caotici che non avevano mai trovato il modo di venire a fuoco. Se ci pensava, gli veniva la rabbia.
Accanto a lui, sul pavimento, giacevano dei pezzi di carta, e di tanto in tanto si inchinava a scribacchiare qualcosa.
Ora annotò: Non una lunga malattia è stata la mia vita; la mia vita è stata piuttosto una lunga convalescenza. Ripensamento dei principi liberal-borghesi, illusione di migliorare, veleno della speranza.
Si ricordò per un attimo di Mitridate, il cui organismo aveva imparato a prosperare col veleno. Trasse in inganno i propri assassini, che fecero l’errore di propinargliene a piccole dosi, e così, invece di distruggerlo, lo insaporirono.
Tutto fa brodo.
Riprendendo l’autoesame, ammise di essere stato un cattivo marito: e non una volta, ma due. La prima moglie, Daisy, l’aveva proprio trattata da cane. Invece Madeleine, la seconda, era stata lei che aveva tentato di fargliela. Con i suoi due figli, il maschio e la femmina, era stato un padre affettuoso, ma non un buon padre. Nei confronti dei suoi genitori era stato un figlio ingrato. Verso il suo paese un cittadino indifferente. Con i fratelli e la sorella, affezionato, ma distante. Con gli amici, un egoista. In amore, pigro. Nel brio, smorto. Nell’uso del potere, passivo. Nei confronti della propria anima, evasivo.
Soddisfatto della propria severità, seriamente compiaciuto della propria durezza e rigorosa concretezza di giudizio, se ne stava disteso sul sofà con le braccia incrociate dietro la testa, a gambe allungate, inerte.
Eppure, come siamo ancora simpatici, nonostante tutto.
Papà, poveretto, sapeva incantare gli uccelli sugli alberi, i coccodrilli nel fango. E anche Madeleine, che fascino aveva, e che bella donna, e che intelligenza brillante. Il suo amante, Valentine Gersbach, che uomo affascinante era anche lui, benché in una maniera più greve, più brutale. Aveva mento tozzo, capelli rame, fiammeggianti, che gli sprizzavano letteralmente dalla testa (non aveva bisogno lui, di specialisti del cuoio capelluto), aveva una gamba di legno e camminava inchinandosi e raddrizzandosi con grazia, come un gondoliere. Ma anche Herzog, eh, possedeva la sua non indifferente dote di fascino, benché la sua sessualità fosse stata seriamente danneggiata da Madeleine. E senza capacità di attrazione nei confronti delle donne, come avrebbe potuto rimettersi in sesto? Era soprattutto da questo punto di vista che si sentiva convalescente.
La meschinità di questi tornei sessuali.
Con Madeleine, molti anni prima, Herzog si era rifatto una vita. L’aveva vittoriosamente strappata alla Chiesa - quando si erano conosciuti lei era una convertita di fresco. Con i ventimila dollari ereditati da quel simpatico di suo padre, per compiacere alla nuova moglie aveva abbandonato una rispettabilissima carriera universitaria e comperato una casa grande e antica a Ludeyville, nel Massachusetts. Nella serena atmosfera delle Berkshires, dove aveva degli amici (Valentine Gersbach e sua moglie), avrebbe dovuto essergli facile scrivere il secondo volume sulle idee sociali dei romantici.
Herzog non aveva abbandonato la carriera universitaria perché era un fallito. Godeva anzi di una bella reputazione. La sua tesi di laurea veniva considerata un importante contributo scientifico, l’avevano tradotta anche in francese e in tedesco.
Il suo primo libro, benché all’atto della pubblicazione non avesse avuto grandi recensioni, figurava però ora in molte bibliografie e gli storici della generazione più giovane lo prendevano a modello di un nuovo genere storiografico, «la storia che ci interessa da vicino» - molto personale, engagée - quel tipo di storiografia che considera il passato con aperta e decisa tendenza a ritrovarvi diretti riferimenti alla nostra epoca.
Finché Moses era stato sposato con Daisy, aveva condotto l’esistenza, rispettata e stabile, di un normalissimo incaricato.
Il suo primo lavoro aveva messo in evidenza, con grande obiettività scientifica, ciò che il cristianesimo avesse rappresentato per il romanticismo. Nel secondo libro tendeva invece a farsi più reciso, più assertivo, più ambizioso. C’era effettivamente parecchia ruvidezza nel suo carattere. Aveva una forte volontà e talento per la polemica, e il gusto per la filosofia della storia. Sposando Madeleine e dando le dimissioni dall’università (perché lei era convinta che fosse bene), rintanandosi a Ludeyville, diede prova di possedere anche un certo gusto e talento per il rischio e per l’estremismo, per l’eterodossia, per le situazioni complicate, una fatale attrazione verso «la città della distruzione». Quella che aveva in mente era una storia che tenesse davvero conto delle risoluzioni e delle agitazioni di massa del ventesimo secolo, accettando con il Tocqueville l’universale e irreversibile sviluppo dell’egualitarismo, il progredire della democrazia.
Ma, a proposito di lavoro: c’era poco da illudersi. Stava perdendo la fiducia, sul serio. Le sue ambizioni avevano subìto una dura umiliazione. Hegel gli dava molto filo da torcere. Dieci anni prima era convinto di averne capito le idee sul consensus e la società civile, ma poi qualcosa era andato storto. Era abbattuto, spazientito, infuriato. E nello stesso tempo, le cose tra lui e sua moglie si erano messe in modo stranissimo. Lei era insoddisfatta. Prima, non aveva voluto che fosse un professore qualunque; poi, dopo un anno di vita in campagna, aveva cambiato idea. Madeleine si considerava troppo giovane, troppo intelligente, troppo piena di vita, troppo socievole per seppellirsi nelle remote Berkshires. Si mise in testa di finire i suoi studi di slavistica, che aveva cominciato all’università.
Herzog scrisse a Chicago per cercar lavoro. Doveva anche trovare un posto a Valentine Gersbach. Valentine faceva l’annunciatore alla radio di Pittsfield, presentava un programma di dischi. Non la si può mica piantare in asso, gente come Valentine e Phoebe, soli, in una lugubre campagna come questa, aveva detto Madeleine.
Avevano scelto Chicago perché Herzog vi era cresciuto, e là aveva delle buone conoscenze. Così, lui diede un corso di lezioni al Downtown College e Gersbach diventò capo dei programmi culturali di una stazione a modulazione di frequenza nell’ambitissima zona del Loop. La casa di Ludeyville fu chiusa - una casa da ventimila dollari - con i libri, le porcellane inglesi, gli elettrodomestici nuovi di zecca abbandonati in balìa dei ragni, delle talpe e dei topi di campagna - poveri sudati soldi di papà!
Gli Herzog emigrarono dunque nel Midwest, ma dopo neanche un anno di questa nuova vita a Chicago, Madeleine decise che, fatti tutti i conti, tra lei e Moses non funzionava proprio - e chiese il divorzio. E lui glielo dovette concedere, che poteva fare? E che pena fu il divorzio. Di Madeleine era innamorato, dalla bambina non sapeva sopportare di separarsi. Ma Madeleine rifiutava recisamente di essere sua moglie, e i desideri della gente vanno rispettati. La schiavitù è morta.
Il colpo di quel secondo divorzio fu troppo, per Herzog. Sentì che andava in pezzi - crollava - e il dottor Edvig, lo psichiatra di Chicago che aveva in cura entrambi i coniugi Herzog, riconobbe che forse per Herzog la cosa migliore era lasciar la città, cambiar aria. Lui si mise d’accordo con il rettore del Downtown College che sarebbe potuto tornare quando si fosse sentito meglio. E con il denaro che gli prestò suo fratello Shura partì per l’Europa. Mica tutti i minacciati da un esaurimento nervoso possono permettersi il lusso di un viaggio in Europa per distrarsi. La maggior parte della gente deve continuare a lavorare; timbrano il cartellino tutti i giorni, continuano a prendere la metropolitana. Oppure si danno al bere, vanno al cinema, entrano e si mettono seduti, a soffrire. Herzog avrebbe dovuto essere riconoscente. A meno che uno non sia proprio crepato del tutto, c’è sempre qualcosa per cui essere riconoscente. E lui, in realtà, era riconoscente.
Né è da dire che, giunto in Europa, se ne fosse stato con le mani in mano, poi. Aveva compiuto una tournée culturale per conto della Narragansett Corporation, dando conferenze a Copenaghen, a Varsavia, a Cracovia, a Berlino, a Belgrado, Istanbul e Gerusalemme. Ma in marzo, quando tornò a Chicago, le sue condizioni erano peggiori che a novembre. Al rettore disse che probabilmente gli avrebbe fatto meglio vivere a New York.
Madeleine, durante quella visita, non la vide. Il suo comportamento fu così strano e, a suo modo di vedere, così minaccioso, che lei lo fece avvertire, attraverso Gersbach, di non azzardarsi nemmeno ad avvicinarsi ad Harper Avenue. La polizia era in possesso di una sua fotografia e l’avrebbe arrestato, se si fosse fatto vedere da quelle parti.
Ora sì che diventava chiaro ad Herzog, individuo assolutamente incapace di pianificazione, con quanta cura Madeleine si fosse preparata a liberarsi di lui. Sei settimane prima di metterlo alla porta, gli aveva fatto affittare una casa vicino alla Midway, a duecento dollari al mese. Come vi entrarono, lui costruì le librerie, ripulì il giardino, e riparò la porta del garage; aveva pure messo le doppie finestre. Soltanto una settimana prima di chiedere il divorzio, lei gli aveva fatto lavare e stirare tutto il guardaroba, ma il giorno in cui lui se ne andò di casa, gli ficcò tutta la roba in una scatola di cartone e poi la fece ruzzolare per le sale della cantina. Le serviva più spazio negli armadi. E ne accaddero altre di cose, tristi, comiche, crudeli, a seconda dei punti di vista. Fino all’ultimissimo giorno, il tono dei rapporti di Herzog con Madeleine era stato improntato a grande serietà - cioè, ciascuno rispettava e discuteva le idee, la personalità, i problemi dell’altro. Quando lei, per esempio, gli diede la famosa notizia, si espresse con dignità, con la sua solita magistrale eleganza.
Ci aveva riflettuto, guardando la questione proprio da tutti gli angoli, disse, e non le restava che ammettere la propria sconfitta. Evidentemente, non erano in grado di farcela. Lei era pronta ad accollarsi la sua parte di colpa. Herzog, si capisce, un po’ ci era preparato. Ma aveva creduto sul serio che le cose stessero migliorando.
Tutto questo accadde in un luminoso e pungente giorno d’autunno. Lui stava nel giardinetto dietro casa a mettere le doppie finestre. I primi geli già avevano intaccato i pomodori.
L’erba era fitta e soffice, di quella bellezza speciale che assume quando arrivano le giornate fredde e alla mattina vi si posa sopra una lieve ragnatela; la rugiada è spessa, e dura a lungo. I tralci dei pomodori s’erano anneriti e le rosse sfere erano scoppiate.
Aveva visto Madeleine alla finestra del piano di sopra mettere June a letto per il sonnellino del pomeriggio, e dopo un po’ aveva sentito scorrere l’acqua nella vasca, in bagno. Ora lei lo chiamava dalla porta della cucina. Una folata di vento venendo dal lago fece tremare tra le mani di Herzog il vetro dell’impannata. Lo appoggiò con precauzione contro il portico e si tolse i guanti di tela, ma non il basco, come se lo sentisse, di dover, di lì a un attimo, partire per un gran viaggio.
Madeleine odiava violentemente suo padre, ma voleva pur dir qualcosa essere figlia di un famoso impresario - di uno che ogni tanto veniva chiamato lo Stanislavskij americano. Aveva inscenato l’avvenimento con un certo geniaccio teatrale. S’era messa calze nere, scarpe col tacco alto, un vestito lilla in broccato d’artigianato indio del Centramerica. S’era messa i suoi orecchini d’opale, i suoi braccialetti, e si era profumata; si era divisa i capelli con una scriminatura nuova, netta, e le sue grandi palpebre rilucevano d’un cosmetico azzurrognolo. Aveva gli occhi azzurri, ma il curioso era vedere come la profondità del loro colore mutasse al variare di toni del bianco. Il naso, che le scendeva in una elegante linea diritta dalle sopracciglia, quando era particolarmente nervosa le tremava un poco. Per Herzog anche quel tic aveva un suo valore. C’era, nel suo amore per Madeleine, un certo gusto d’asservimento. Siccome lei era dispotica, e siccome lui era innamorato, non gli restava altro scampo che mandar giù il fiele che gli veniva porto. In quello scontro nel salotto in disordine si confrontavano due generi d’egotismo, ed Herzog dal suo sofà di New York ora li contemplava: quello di lei, trionfante (aveva architettato una scena madre, stava per compiere il gesto che più desiderava: vibrare il colpo), e l’egotismo di lui, vacante, totalmente convertito in passività. Ciò che stava per patire, l’aveva meritato; aveva peccato molto e a lungo; se l’era guadagnato.
Questa era la volta buona.
Nel riquadro della finestra, su mensole di vetro, era allineata una collezione di bottiglie ornamentali, veneziane e svedesi. Già c’erano, quando avevano preso la casa in affitto. Il sole ora vi si era posato. Trafitte dalla luce. Herzog vide le onde, i fili di colore, e le intersecanti linee dello spettro, e soprattutto una gran chiazza di bianco accecante nel centro della parete, sopra il capo di Madeleine. Lei stava dicendo: «Non possiamo più vivere insieme».
Il suo discorso andò avanti per vari minuti. Le sue frasi erano ben costruite. Era stato provato e riprovato, quel discorso, e anche lui sembrava che se l’aspettasse, quel levar del sipario sopra questa rappresentazione.
Non era un matrimonio che potesse durare. Madeleine non lo aveva mai amato. Del resto, glielo stava appunto dicendo. «È doloroso dover dire che non ti ho mai amato. E nemmeno ti amerò mai» disse lei. «A cosa serve dunque, andare avanti?»
Herzog disse: «Ma io ti amo, Madeleine».
Grado a grado, Madeleine acquistava distinzione, brillantezza, perspicacia. Si fece più colorita, e le sopracciglia, e quel suo naso bizantini si inarcarono, s’animarono; i suoi occhi azzurri s’avvantaggiarono del rossore che diventava sempre più acceso, salendole dal petto e dalla gola. Era in un’estasi di coscienza.
Ad Herzog venne da pensare che così duramente lei lo aveva sconfitto e tanto pienamente era stato soddisfatto il suo orgoglio, che ora nella sua intelligenza c’erano vigore e forza a profusione. Si rese conto di stare assistendo ad uno dei più grandi momenti della vita di sua moglie.
«Dovresti aggrapparti a questo sentimento» diceva lei. «Credo che sia vero. Tu mi ami. Ma penso che tu capisca anche quale umiliazione sia per me ammettere la mia sconfitta in questo matrimonio. Vi avevo riposto tutto quello che possedevo. Ne sono annientata.»
Annientata? Mai aveva avuto un’aria più radiosa. C’era un elemento di teatralità in quel suo aspetto, ma più ancora di passione.
E Herzog, uomo solido e ben messo, per quanto pallido e sofferente, disteso sul suo sofà nell’indugiante sera di una primavera newyorchese, sullo sfondo la tremula energia della città, un sentore e un sapore d’acqua di fiume, una stria di sudicio, contributo del New Jersey all’abbellimento e drammatizzazione del tramonto, Herzog, chiuso nel suo guscio, e ancora nel pieno delle forze (la sua salute aveva proprio del miracoloso: aveva fatto di tutto per ammalarsi), cercava di immaginarsi cosa sarebbe successo se quel giorno invece di dare ascolto a Madeleine con tanta attenzione e partecipazione, le avesse dato una bella sberla in faccia. Se l’avesse buttata per terra, presa per i capelli, trascinata per la stanza mentre lei gridava e si dibatteva, e gliene avesse date tante da farle sanguinare il sedere? E se l’avesse fatto? Avrebbe dovuto strapparle le vesti, strapparle la collana, prenderla a pugni in testa. Respinse quella violenza mentale, sospirando. Temeva d’essere segretamente portato davvero a questo genere di brutalità. Ma immaginiamo invece che fosse stato lui a dirle di andarsene fuori di casa. Dopotutto, era casa sua. Se lei non poteva più vivere con lui, perché non se ne andava? Lo scandalo?
E c’era bisogno di farsi spaventare da uno scandaletto? Penoso, grottesco finché si voleva, ma uno scandalo alla fin dei conti era una specie di servigio reso alla comunità. Solo che non gli era mai venuto in mente, ad Herzog, in quel salotto di lampeggianti bottiglie, di puntare i piedi. Forse pensava ancora di poter vincere facendo appello alla passività, alla propria personalità, al fatto di essere, dopotutto, Moses: Moses Elkanah Herzog - uomo buono e benefattore particolare di Madeleine. Aveva fatto tutto per lei - tutto!
«Hai discusso questa decisione con il dottor Edvig?» le chiese.
«Che cosa ne pensa?»
«Cosa vuoi che m’importi, la sua opinione. Non può mica dirmi cosa fare e cosa non fare. Può soltanto aiutarmi a capire... Sono andata da un avvocato» lei rispose.
«Che avvocato?»
«Be’, Sandor Himmelstein. Perché è amico tuo. Dice che puoi stare da lui, finché non ti sarai trovato una nuova sistemazione.»
La conversazione era finita, ed Herzog ritornò alle sue doppie finestre nell’ombra e nel verde umido del giardinetto - al suo oscuro sistema di idiosincrasie. Individuo dalle tendenze irregolari, praticava l’arte di girare in cerchio tra fatti disparati per piombare poi all’improvviso sugli essenziali.
Spesso pensava di cogliere gli essenziali di sorpresa, con un divertente stratagemma. Ma non accadde nulla del genere mentre manovrava i vetri tintinnanti, ritto tra i tralci di pomodoro cadenti e bruciati dalla gelata, legati ai loro sostegni con listarelle di stracci. L’odore che veniva dalla pianta era forte.
Lui continuò a lavorare alle finestre, perché non poteva permettersi di sentirsi ridotto in pezzi. Temeva l’abisso di sentimenti che avrebbe dovuto prima o poi affrontare, quando non avesse più potuto cercar scampo nelle sue eccentricità.
Nella sua posizione di collasso, sul sofà, braccia abbandonate al di sopra del capo e gambe allungate, sdraiato con non maggior classe d’uno scimpanzè, guardava, con occhi d’una lucidità superiore al normale, se stesso lavorare nel giardinetto, con distacco, come se avesse guardato in un telescopio alla rovescia una minuscola, nitida immagine.
Quel pagliaccio che soffre.
* * *
Dunque, due punti: Lui sapeva che il suo scribacchiare, la sua epistolomania erano ridicoli. Erano involontari. Le sue eccentricità lo avevano in pugno.
C’è qualcuno dentro di me. Sono in suo potere. Quando ne parlo, me lo sento dentro il cervello che batte perché vuole ordine. Mi rovinerà.
Hanno scritto sui giornali, scrisse, che più d’una équipe di cosmonauti russi s’è perduta; disintegrati, presumibilmente. Uno lo si udì chiamare: «SOS... SOS a tutto il mondo». I sovietici non hanno mai confermato la notizia.
Cara mamma, sul perché non sia venuto a visitare la tua tomba da tanto tempo... Cara Wanda, Cara Zinka, Cara Libbie, Cara Ramona, Cara Sono, ho grandissimo bisogno di aiuto. Ho paura di andare a catafascio.
Caro Edvig, il fatto è che anche la pazzia mi è stata negata. Non so poi perché dovrei scriverle, a Lei. Gentile signor Presidente degli Stati Uniti, le norme per la denuncia fiscale ci faranno diventare un popolo di ragionieri. La vita di ogni cittadino sta diventando un problema contabile. Questa, a mio avviso, è una delle peggiori interpretazioni del senso della vita umana che la storia abbia mai visto. La vita di un uomo non è un’impresa commerciale.
E come la firmerò questa? pensò Moses. Un cittadino che protesta? L’indignazione fa così presto a logorarsi che andrebbe tenuta da parte e riservata solo per le ingiustizie di fondo.
Cara Daisy, scrisse alla sua prima moglie, so che questa volta tocca a me andare a trovare Marco al campeggio il Giorno dei Genitori, ma temo che quest’anno la mia presenza potrebbe essere per lui motivo di turbamento. Gli ho scritto più volte e mi sono tenuto al corrente delle sue attività. Purtroppo è vero, però, che Marco dà la colpa a me della rottura con Madeleine ed è persuaso che io abbia piantato in asso anche la sua sorellina. È ancora troppo piccolo per capire la differenza tra i due divorzi. Qui Herzog si domandò se fosse opportuno discutere ulteriormente la questione con Daisy, e immaginandosi la bella e adirata faccia di lei mentre leggeva quella sua lettera ancora da scrivere, decise di non farlo. Continuò così: Credo sia meglio che Marco non mi veda. Sono stato ammalato - in cura da un medico. Notò con disgusto il trucchetto per ispirar simpatia.
Ogni personalità ha i suoi metodi. A Herzog la sua personalità non piaceva tanto, e poi in quel momento pareva che non potesse far niente per frenarne gli impulsi. Mi sto ricostituendo piano piano forze e salute - in quanto donna di principi solidi e positivi, moderna e di vedute progressiste, quelle notizie del suo (se vero) miglioramento avrebbero dovuto farle piacere. In quanto vittima di quegli impulsi, forse starà già cercando il suo necrologio sui giornali.
La forte costituzione di Herzog opponeva ostinata resistenza alla sua ipocondria. Ai primi di giugno, quando il generale rinascere della vita crea difficoltà a molte persone, quando le nuove rose, persino nelle vetrine dei negozi, ricordano alla gente i suoi fallimenti, la sterilità e la morte, Herzog andò a farsi fare una visita di controllo. Andò a trovare il dottor Emmerich, un vecchio profugo che abitava sul West Side, di fronte a Central Park. Un portinaio sciatto, con addosso una puzza di vecchiume, e il berretto di una guerra balcanica di mezzo secolo prima, lo fece entrare nell’atrio a volta, sbreccato e scalcinato. Herzog si svestì nella saletta per le visite - un verde torbido, orrendo; le pareti scure sembravano intumidite dal morbo dei palazzi vecchi di New York. Non era un omone, ma era ben piantato, coi muscoli ben sviluppati per tutto il lavoro pesante che aveva fatto in campagna. La vanità lo faceva andar fiero dei suoi muscoli, dell’ampiezza e della forza delle sue mani, della levigatezza della sua pelle, ma lui vedeva anche oltre, e temeva di farsi prendere in castagna, nella parte del bell’uomo presuntuoso che invecchia. Vecchio scemo, si chiamò, distogliendo lo sguardo dal piccolo specchio, dai capelli che andavano ingrigendo, dalle rughe del piacere e dell’amarezza. Di tra le fessure delle serrande guardò invece alle rocce scure e brune del parco, chiazzate di mica, e al verde ottimistico e prepotente di giugno. Si sarebbe estenuato presto quel verde, mentre le foglie crescevano e New York depositava la sua fuliggine sull’estate. Comunque, com’era bello in quel momento, vivido in tutti i particolari - i rametti, le lanceole e le forme appena appena gonfie del verde. La bellezza non è un’invenzione umana. Il dottor Emmerich, curvo ma energico, lo visitò, gli bussò dorso e torace, gli accese la luce avanti agli occhi, gli prelevò il sangue, gli sentì la glandola della prostata, gli applicò i fili per l’elettrocardiogramma.
«Dunque, lei è un uomo sano - non ha più vent’anni, ma è forte.»
Herzog ascoltava con soddisfazione, naturalmente, e tuttavia un po’ ne rimase anche scontento. Aveva sperato in una malattia precisa che lo mandasse per qualche tempo all’ospedale. Così non avrebbe dovuto pensare a sé. I suoi fratelli, che più o meno a lui ci avevano rinunciato, gli si sarebbero subito raccolti intorno, in tal caso, e forse sua sorella Helen sarebbe venuta ad assisterlo. Sarebbe stata la famiglia a pensare alle spese e a pagare per Marco e June. Ma oramai, escluso. Salvo per la piccola infezione che s’era presa in Polonia, la sua salute era a posto, e anche quell’infezione, adesso guarita, non era stata niente di particolare. Poteva essere dipesa dallo stato in cui si trovava, dalla depressione e dalla stanchezza, non da Wanda. Per tutto un orribile giorno aveva pensato che fosse gonorrea. Doveva scrivere a Wanda, pensò mentre s’infilava nei pantaloni i lembi della camicia e si abbottonava i polsi delle maniche. Chère Wanda, cominciò, bonnes nouvelles. T’en seras contente. Un altro dei suoi loschi romanzetti d’amore in francese. Per quale altro motivo aveva tanto sgobbato sul Frazer e Squair alla media, e letto Rousseau e de Maistre in college? I suoi successi non erano stati soltanto culturali, ma anche sessuali. Ed erano poi successi? In lui, prima era l’orgoglio a soddisfarsi. Poi la carne si prendeva quel che avanzava.
«E allora che cos’è che non va?» disse il dottor Emmerich.
Anziano, capelli anche lui brizzolati, viso lungo e arguto: lo guardava negli occhi, di sotto in su. Herzog credette di capire.
Il dottore gli stava dicendo che in quello studio in rovina lui visitava i deboli veri, ammalati disperati, donne distrutte, uomini moribondi. E allora che voleva Herzog da lui? «Lei mi sembra molto agitato» disse Emmerich.
«Già, proprio. Mi sento agitato.»
«Vuole un po’ di Miltown? Della serpentaria? Soffre d’insonnia?»
«Non molto» disse Herzog. «I miei pensieri schizzano da tutte le parti.»
«Vuole che le indichi uno psichiatra?»
«No, la mia dose di psichiatria l’ho già avuta tutta, grazie.»
«E allora che ne direbbe di una vacanza? Si porti una ragazza in campagna, al mare. Lei ha ancora quella casa nel Massachusetts?»
«Se ho voglia di riaprirla.»
«Quell’amico suo vive ancora lassù? L’annunciatore radiofonico. Come si chiama quell’omone coi capelli rossi, con la gamba di legno?»
«Si chiama Valentine Gersbach. No, s’è trasferito a Chicago quando io... quando ci trasferimmo noi.»
«È un uomo molto divertente.»
«Sì. Molto.»
«Ho sentito del suo divorzio... chi è che me l’ha detto? Me ne dispiace.»
Cercare la felicità... si dovrebbe essere preparati ai risultati negativi.
Emmerich si mise gli occhiali a lenti bifocali e scrisse qualche parola sulla scheda. «La bambina è con Madeleine a Chicago, immagino» disse il dottore.
«Sì...»
Herzog cercò di far dire ad Emmerich cosa ne pensava di Madeleine. Era stata anche lei sua paziente. Ma Emmerich non avrebbe detto niente. Certo, che non lo diceva; un medico non deve spettegolare sui pazienti. Eppure, una qualche opinione si poteva dedurre dagli sguardi che il dottore dava a Moses.
«È una violenta, un’isterica» disse a Emmerich. Vide, dalle labbra del vecchio, che stava per rispondergli; ma poi Emmerich decise di non dire nulla, e Moses, che aveva la curiosa abitudine di completare le frasi della gente, prese mentalmente nota della propria sconcertante personalità.
Che strano cuore. Io stesso non riesco a spiegarmelo.
Ora si rendeva conto di essere venuto da Emmerich per accusare Madeleine, o semplicemente per parlare di lei con qualcuno che la conosceva e che potesse averne una immagine realistica.
«Ma lei deve avere altre donne» disse Emmerich. «Non ce n’è qualcuna? Cena da solo stasera?»
* * *
Herzog aveva Ramona. Era una donna deliziosa, ma anche con lei c’erano dei problemi, si capisce - problemi ce ne sono sempre, per forza. Ramona era una donna d’affari, aveva un negozio di fiori a Lexington Avenue. Non era giovane - probabilmente sui trenta; a Moses, l’età giusta non gliela diceva - era, però, attraentissima - lievemente straniera, con una buona cultura.
Quando aveva ereditato il negozio, studiava storia dell’arte alla Columbia University. Anzi, era iscritta al corso serale di Herzog. Per principio, lui era contrario alle relazioni con le studentesse, persino con studentesse come Ramona Donsell, che, chiaramente, erano fatte apposta.
Fare tutte le cose che fa un uomo senza scrupoli, notò, mentre si continua a rimanere una persona seria. Terribilmente seria.
Naturalmente era proprio quella serietà che attraeva Ramona. Le idee la eccitavano. Le piaceva moltissimo parlare. Era anche un’ottima cuoca, e sapeva fare i gamberetti all’Arnaud, che serviva con Pouilly Fuissé. Herzog cenava con lei parecchie sere la settimana. Nel taxi che li portava dalla squallida aula al grande appartamento di Ramona sul West Side lei gli aveva proposto di sentire come le batteva il cuore. Lui aveva fatto per prenderle il polso, ma lei aveva detto: «Non siamo mica bambinetti, professore», e gli aveva messo la mano altrove.
Dopo qualche giorno Ramona gli diceva che quella non era una delle solite relazioni. Riconosceva che Moses si trovava in uno stato particolare, ma c’era in lui qualcosa di così caro, diceva, così amabile, così sano, e fondamentalmente così stabile - come se, essendo sopravvissuto a tanti orrori, fosse stato purificato di tutte le sciocchezze nevrotiche - che in tutto quel tempo forse gli era mancata soltanto la donna giusta. Il suo interessamento a lui presto si fece serio, e, di conseguenza, lui cominciò a preoccuparsi, a rimuginare. Qualche giorno dopo la visita da Emmerich le disse che il dottore gli aveva consigliato di prendersi una vacanza. Allora Ramona rispose: «Ma certo che hai bisogno di una vacanza. Perché non vai a Montauk? Io ho una casa laggiù, e potrei venire nei week-end. Forse potremmo stare insieme tutto luglio».
«Non sapevo che possedessi una casa» disse Herzog.
«Era in vendita qualche anno fa, e in verità era troppo grande per me, da sola, ma avevo appena divorziato da Harold, e avevo bisogno di un diversivo.»
Gli fece vedere delle diapositive della villetta. Tendendo l’occhio al visore, le disse: «È molto graziosa. Tutti quei fiori». Ma si sentiva un peso sul cuore - tremendo.
«Si possono passare delle giornate meravigliose laggiù. E tu dovresti veramente prenderti degli abiti estivi un po’ allegri. Perché porti della roba così smorta? Hai ancora una figura giovanile.»
«Sono dimagrito l’anno scorso, in Polonia e in Italia.»
«Sciocchezze - perché parli così? Lo sai anche tu di essere un bell’uomo. E ne sei pure fiero. In Argentina ti chiamerebbero macho - tipo maschio. A te piace fare l’agnellino umile umile e buono buono, per nascondere il diavolo che è in te. E perché reprimerlo quel diavoletto? Perché non ci fai amicizia, invece eh? perché no?»
Anziché risponderle, egli scrisse mentalmente: Cara Ramona carissima Ramona, tu mi piaci moltissimo - mi sei cara, una vera amica. Potrebbe anche continuare. Ma com’è che io, che sono professore, non posso sopportare che gli altri mi facciano la lezione? Credo che sia la tua saggezza a darmi fastidio. Perché tu possiedi la saggezza completa. Forse persino eccessiva. Non che io rifiuti di essere corretto. Anzi, ho bisogno di essere corretto in moltissime cose. In quasi tutto. E so riconoscere la fortuna quando me la trovo davanti... Era la verità, letteralmente, parola. Ramona gli piaceva sul serio.
Era di Buenos Aires. Veniva da una famiglia cosmopolita spagnoli, francesi, russi, polacchi ed ebrei. Aveva fatto le scuole in Svizzera e parlava tuttora con un leggero accento, molto affascinante. Era piccola, ma aveva una figura piena, sostanziosa, un bel didietro rotondo, i seni sodi (tutte cose importanti per Herzog; poteva anche pensarsi un moralista, ma la forma dei seni in una donna aveva grande importanza per lui).
Ramona non si sentiva tanto sicura del suo mento, ma riponeva invece tutta la sua fiducia nella bellissima gola che aveva, e quindi teneva il capo piuttosto eretto. Camminava con svelta efficienza, battendo i tacchi con l’energico stile castigliano.
Herzog da quel picchiettare era inebriato. Lei entrava in una stanza in modo provocante, pavoneggiandosi un poco, con una mano sulla coscia, come se portasse un coltello nel reggicalze. Sembra che così si usi a Madrid, e Ramona ci godeva a fare, per gioco, la parte della femminuccia spagnola che la sa lunga - una navaja en la liga; gli aveva insegnato quell’espressione. Lui pensava spesso a quel coltello immaginario quando la osservava in déshabillée: aveva indumenti intimi stravaganti e neri, un affare senza bretelline che si chiamava Vedova Allegra, si stringeva in vita e lasciava cadere tanti nastrini rossi. La pelle si scuriva nei punti compressi dall’elastico. E pendevano striscioline di seta, e fibbie di giarrettiera. I suoi occhi erano castani, sensibili e furbi, erotici e calcolatori. Sapeva bene quello che voleva. L’odore caldo, la leggera peluria delle braccia, il bel petto e i denti bianchi e perfetti e le gambe lievemente arcuate - tutto sortiva l’effetto giusto. Moses, soffrendo, soffriva con classe. La sua buona fortuna non lo abbandonava mai totalmente.
Forse era più fortunato di quanto credesse. Ramona cercò di dirglielo: «Quella carogna t’ha fatto un favore» disse. «Starai molto molto meglio.»
Moses! egli scrisse, che vinci quando piangi, e piangi quando vinci. Evidentemente non puoi credere nelle vittorie.
Appendi la tua sofferenza a una stella.
Ma nel silenzioso istante in cui si trovò ad affrontare Ramona egli scrisse, incapace di rispondere in altro modo se non con una lettera mentale: Tu mi sei di grande conforto. Noi abbiamo a che fare con elementi più o meno stabili, più o meno controllabili, più o meno folli. È vero. C’è in me uno spirito selvaggio, benché sembri docile e mite. Tu sei convinta che tutto quello che questo spirito vuole è il piacere sessuale e visto che noi questo piacere sessuale glielo diamo, perché non dovrebbe andar tutto bene?
Poi si rese improvvisamente conto che Ramona aveva fatto di sé una specie di professionista (o di sacerdotessa) del sesso.
Lui, negli ultimi tempi, aveva sempre trattato con infime dilettanti. Non sapevo che me la sarei potuta fare con una vera artista del letto.
Ma è dunque questa la mèta segreta del mio vago pellegrinaggio?
Vedo dunque me stesso, dopo tanti spropositi, come un figlio non riconosciuto di Sodoma e Dioniso - un tipo orfico? (A Ramona piaceva parlare di tipi orfici.) Un dionisiaco piccolo-borghese?
Annotò: E basta con tutte queste categorie!
«Sì, forse mi comprerò qualche cosa per l’estate» rispose a Ramona.
Non è che a me non piacciano gli abiti eleganti, continuò. Un tempo, quand’ero bambino, mi lucidavo le scarpe di coppale nere col burro. La mia mamma, che era russa, mi chiamava “krasavitz”. (1) E quando divenni un giovane studente malinconico, con un bel viso morbido, e sprecavo il mio tempo in sguardi arroganti, passavo molto tempo a pensare a pantaloni e camicie. È stato solo più tardi, da professore, che sono diventato trasandato. L’anno scorso mi sono comprato un gilet sgargiante, alla Burlington Arcade, e un paio di scarponcini svizzeri di quelli che adesso, a quanto vedo, hanno adottato i finocchi del Village. Scorato? Sì, andò avanti a scrivere, ma ben vestito. Però la vanità non mi darà oramai più troppa corda, e a dire la verità nemmeno questo cuore torturato mi fa grande impressione. Comincia a sembrarmi un’altra perdita di tempo.
Ragionando con calma, Herzog decise che sarebbe stato meglio non accettare l’offerta di Ramona. Avrà trentasette, trentotto anni, calcolò astutamente, e ciò significa che è in cerca di marito. Il che, in se stesso, non era né male, né tanto meno ridicolo. Le semplici e generali condizioni umane prevalevano fra la gente apparentemente più sofisticata. Ramona non aveva imparato quelle sue moine erotiche su un manuale, ma nell’avventura, nella confusione, a volte, probabilmente, a cuore stretto, in amplessi brutali e spesso indifferenti. Per cui ora agognerà a mettersi stabile. Voleva dare il suo cuore una volta per tutte, ed essere onesta, fare sul serio con un uomo per bene, diventare moglie di Herzog e smetterla di essere quella buona a letto, che ci andava facile. Aveva spesso un’aria grave. I suoi occhi lo commuovevano profondamente.
Mai ozioso, l’occhio della sua mente vide Montauk - spiagge bianche, luce folgorante, cavalloni rilucenti, granchi a ferro di cavallo che morivano rinchiusi nella loro armatura, pettirossi marini e pesci palla. Herzog aveva una gran voglia di starsene sdraiato in mutandine da bagno a scaldarsi il tartassato ventre sulla sabbia. Ma come poteva? Accettare troppi favori da Ramona era pericoloso. Per poi magari pagarli con la libertà. Certo, adesso, di quella libertà non aveva bisogno; aveva bisogno di riposarsi. Tuttavia, dopo essersi riposato, avrebbe potuto volere di nuovo la sua libertà. Non era poi sicuro neppure di quello.
Era, comunque, una buona possibilità.
Qualche giorno di vacanza mi darebbe più forza da immettere nella mia esistenza di nevrotico.
Eh sì, però, rifletté Herzog, che faccia tremenda, tutta incavata; stava perdendo altri capelli, e quel rapido deterioramento lui lo considerava un arrendersi a Madeleine e al suo amante Gersbach, e a tutti i suoi nemici. Aveva più nemici e più odi di quanti chiunque potesse immaginare giudicando dalla sua espressione riflessiva.
Il corso serale stava per finire, ed Herzog si persuase che la cosa più saggia era di allontanarsi anche da Ramona. Decise di andare alla Vineyard, ma pensando che fosse male starsene completamente da solo, inviò un telegramma-notte a una donna al Vineyard Haven, una vecchia amica (una volta avevano persino pensato di avere un flirt, ma la cosa non si era mai concretizzata, e conservavano invece una tenera stima l’uno per l’altra). Nel telegramma spiegò la situazione, e la sua amica Libbie Vane (Libbie Vane-Erikson-Sissler; si era appena sposata per la terza volta e la sua casa all’Haven apparteneva a suo marito, un chimico industriale) gli telefonò immediatamente e, profondamente commossa e sincera, lo invitò ad andare da loro e a rimanere quanto volesse.
«Prendimi una stanza in affitto vicino alla spiaggia» le chiese Herzog.
«Vieni a stare da noi.»
«No, no. Non potrei. Ma scusa, vi siete appena sposati.»
«Oh, Moses - non essere così romantico, per favore. Sono tre anni che Sissler ed io viviamo insieme.»
«Comunque, è sempre una luna di miele, no?»
«Oh, finiscila con queste sciocchezze. Guarda che me ne ho a male se non stai qui. Abbiamo sei camere da letto. Vieni, e basta, ho sentito che brutti momenti hai passato.»
Alla fine - era inevitabile - accettò. Sentì, però, che si stava comportando male. Con quel telegramma l’aveva praticamente obbligata ad invitarlo. Circa dieci anni prima lui aveva molto aiutato Libbie, e sarebbe stato più contento di se stesso se non glielo avesse fatto pagare. Lo sapeva benissimo che era meglio non chiedere aiuto. Stava diventando seccante - si comportava da debole, da corrotto.
Ma per lo meno, pensò, non devo peggiorare le cose. Non seccherò Libbie con i miei guai, non passerò la settimana a piangere sul suo seno. Li porterò tutti e due fuori a cena, lei e il suo nuovo marito. Bisogna lottare per la propria vita. Questa è la condizione prima per potere tirare avanti. E allora perché titubare? Ramona ha ragione. Prenditi degli abiti estivi. Ti puoi far prestare altri quattrini dal fratello Shura - a lui gli fa piacere, e sa che glieli ridarai. Questo vuol dire vivere secondo il comandamento - rimetti i tuoi debiti.
* * *
Per cui, andò a comprarsi dei vestiti. Esaminò la pubblicità e le réclame sul «New Yorker» e su «Esquire». Ora presentavano anche uomini maturi dai visi segnati, oltre a giovani executives e atleti. Poi, dopo essersi rasato con maggior cura del solito ed essersi spazzolato i capelli (avrebbe potuto sopportare di vedersi nei lucenti, triplici specchi di un negozio di abbigliamento?), prese l’autobus diretto a uptown. Cominciando dalla 59a Strada, scese per la Madison Avenue fino alle strade intorno al 40 ritornando poi indietro verso il Plaza e la 5a Avenue. Allora nubi grigie si aprirono davanti al sole lancinante. Le vetrine scintillarono, ed Herzog vi guardò dentro vergognoso ed eccitato. I nuovi modelli gli sembravano vistosi e arditi - giacche di madras, shorts con esplosioni di colori fusi, alla Kandinsky, in cui uomini di mezza età o con un po’ di pancia dovevano apparire ridicoli. Meglio il riserbo puritano che l’esibizione di penose ginocchia raggrinzite e vene varicose, pance da pellicano e l’inverecondia di facce sparute sotto berretti sportivi. Indubbiamente, Valentine Gersbach, che l’aveva vinto con Madeleine, sormontando l’handicap di una gamba di legno, poteva portarle, quelle belle righine smaglianti.
Valentine era un dandy. Aveva il viso grosso e le mascelle pesanti; Moses pensava che in qualche modo assomigliasse a Putzi Hanfstängl, il pianista personale di Hitler. Ma Gersbach aveva un paio d’occhi straordinari per un uomo coi capelli rossi, occhi marroni, profondi, infuocati, pieni di vita. Le ciglia, anche, erano vivide, bruno-rossicce, lunghe, da bambino. E i capelli folti un po’ da orso. Valentine, inoltre, aveva una fiducia assoluta nel proprio aspetto fisico. Si vedeva. Lui lo sapeva, di essere un uomo terribilmente bello. Si aspettava che le donne tutte le donne - andassero pazze per lui. E molte ci perdevano la testa, no? Compresa la seconda signora Herzog.
«Mettermi questa? Io?» disse Herzog al commesso di un negozio della 7a Avenue. Però se la comprò: una giacca a righine bianche e cremisi. Poi disse al commesso, parlandogli al di sopra della spalla, che “a casa”, in Europa, la sua famiglia aveva portato gabardine neri lunghi fino a terra.
Il commesso aveva la pelle ruvida; si vede che aveva sofferto di acne giovanile. La faccia era rossa come un garofano, l’alito gli sapeva di carne, un alito di cane. Fu un tantino maleducato con Moses, perché quando gli chiese la misura della vita e Moses rispose: «Ottantasei», quello disse: «Non si dia arie». Gli era scappato, e Moses era troppo signore per inquietarsene. Il suo cuore, in un certo modo, funzionava trovando penosa soddisfazione nel riserbo. Ad occhi bassi, percorse il tappeto grigio fino allo stanzino di prova, e là, svestendosi e infilandosi i pantaloni nuovi senza togliere le scarpe, scrisse un bigliettino a quel tizio. Senti bello, trattare con poveri fessi tutto il giorno. Orgoglio maschile. Sfacciataggine. Presunzione. Tu obbligato a essere simpatico e accondiscendente. Un lavoro difficile se per caso uno è un tipo che nutre rabbia, rancori. Il candore della gente, a New York! Che tu sia benedetto, non sei gentile. Però in una situazione falsa, come tutti noi. Ti tocca spremere un po’ di buone maniere. Una situazione vera potrebbe magari rivelarsi insopportabile per tutti noi. Per colpa dell’urbanità, vedi, io adesso ho qualcosa in pancia che mi duole. E in quanto ai gabardine, mi rendo benissimo conto che ci sono barbe e gabardine in abbondanza appena svoltato l’angolo, nel quartiere dei diamanti. Oh Signore! concluse, perdona tutte queste trasgressioni. Non m’indurre in Penn Stazione. (2)
Con indosso i pantaloni italiani col risvolto, e una giacchetta sportiva bianca e rossa coi reversmolto stretti, evitò di esibirsi in piena luce nello specchio a tre ante. Il suo corpo non sembrava toccato dalle disavventure, sopravviveva a tutti i colpi. Devastato era il viso, particolarmente intorno agli occhi; vedersi in uno specchio lo faceva impallidire.
Il commesso, preoccupato, fra le silenziose file di indumenti, non sentì i passi di Herzog. Stava rimuginando. Gli affari andavano a rilento. Un’altra piccola recessione. Solamente Moses spendeva oggi. Soldi che intendeva farsi prestare dal fratello che faceva soldi. Shura non era tirato. Neppure suo fratello Willie, quanto a questo. Ma per Moses era più facile prenderli da Shura, anche lui un po’ peccatore, anziché da Willie, più rispettabile.
«Cade bene dietro?» si girò Herzog.
«Sembra fatto su misura» rispose il commesso.
A quello non gliene importava niente. Era chiarissimo. Non riesco a destare il suo interesse, riconobbe Herzog. Allora ne farò a meno, e che vada a farsi fottere, poi. Deciderò per conto mio. È una decisione che prendo io. E rianimato da questo pensiero, avanzò di qualche passo fra gli specchi, guardando unicamente alla giacca. Poteva andare.
«Me la incarti» disse. «Prendo anche i pantaloni, però li voglio oggi. Adesso.»
«Non si può. Il sarto ha da fare.»
«Oggi, o nisba» disse Herzog. «Devo partire.»
Bisogna essere in due per fare questo gioco.
«Vedo se posso sollecitare» disse il commesso.
Andò, ed Herzog si sbottonò i bottoni a sbalzo. Si erano serviti della testa di un qualche imperatore romano per adornare la giacca di un qualche cacciatore di piacere, notò. Solo soletto, tirò fuori la lingua e si fece una boccaccia e quindi si ritrasse dallo specchio triplo. Si ricordò di quanto piacere provasse Madeleine a provarsi i vestiti nei negozi e quanta passione e orgoglio ci fossero in lei quando si guardava negli specchi, toccandosi, aggiustandosi, il viso tutto illuminato, ma severo, anche, con i grandi occhi azzurri, la frangetta svelta, il profilo da medaglione. La soddisfazione che trovava in se stessa era decisamente al plurale - imperiale. E durante una delle loro crisi, aveva detto a Moses di esser tornata a guardarsi allo specchio, nuda. «Ancora giovane» disse, facendo l’inventario «giovane, bella, piena di vita. Perché dovrei sprecare tutto con te?»
Perché? Non sia mai! Herzog cercò qualcosa per scrivere un appunto, avendo lasciato carta e matita nella saletta di prova. Buttò giù sul retro del taccuino del commesso: Una carogna col passar del tempo produce disprezzo.
Frugando fra cataste di indumenti per spiaggia, ora ridendo tra sé in silenzio come se il cuore gli nuotasse verso l’alto, verso la superficie, Herzog si comprò un paio di calzoncini per la Vineyard, e poi la sua attenzione fu attratta da una fila di cappelli di paglia fuori moda, e decise di prendersi anche uno di quelli.
Stava comprandosi tutte quelle cose, si chiese, perché il vecchio Emmerich gli aveva prescritto un po’ di riposo? O si stava preparando ad altre pazziate - stava anticipando qualche altra complicazione alla Vineyard? Con chi? E che ne sapeva lui, con chi. Di donne ce n’erano un sacco dappertutto.
A casa, si provò i nuovi acquisti. Le mutandine da bagno gli stavano un po’ strette. Ma il cappello di paglia, ovale, gli piaceva, sospeso sui capelli che, ai lati, crescevano ancora folti. Con quel cappello assomigliava al cugino di suo padre, Elias Herzog, il commerciante di farina che negli anni venti aveva fatto il commesso viaggiatore in tutta l’Indiana settentrionale per conto dei General Mills. Elias, con la sua faccia americanizzata, sempre rasata di fresco, schietta, mangiava uova sode e beveva birra del proibizionismo - “piva” polacca fatta in casa. Dava un colpettino preciso alle uova sulla ringhiera del portico e le sbucciava scrupolosamente. Portava elastici variopinti alle maniche e un colabrodo come quello lì, messo su quello stesso tipo di capigliatura che aveva avuto anche il suo di padre, il rabbino Sandor-Alexander Herzog, che aveva anche una bellissima barba, una barba fulgente, a larghe ciocche, che gli nascondeva la linea del mento e il colletto di velluto della redingote. La madre di Herzog aveva avuto un debole per gli ebrei con delle belle barbe. Anche nella sua famiglia, tutti gli uomini anziani o maturi avevano barbe fluenti e ricche, piene di religione. Lei voleva che Moses diventasse rabbino, e ora, orripilato, notava di somigliare assai poco a un rabbino con quei calzoncini e la paglietta, il viso appesantito dalla tristezza, dal desiderio stolto, immenso, e dal quale si sarebbe potuto purificare con una vita religiosa. Quella bocca! - pesante di desiderio e d’ira irriducibile, il naso diritto, a volte arcigno, gli occhi scuri! E la sua figura! Le lunghe vene che si attorcigliavano lungo le braccia e riempivano le mani penzoloni: un organismo antico, più antico degli stessi ebrei. Il cappello piatto, una crosta di paglia, aveva una fascetta bianca e rossa, che accompagnava la giacca. Tolse la carta velina dalle maniche e la indossò, rigonfiandone le righe. A gambe nude, sembrava un indù.
Guardate come crescono i gigli del campo, si rammentò, essi non faticano e non filano. E pure io vi dico che Salomone stesso, con tutta la sua gloria, non fu vestito come loro...
Aveva otto anni, ed era nel reparto pediatrico del Royal Victoria Hospital di Montreal, quando aveva imparato quelle parole. Una signora cristiana veniva una volta la settimana e gli faceva leggere la Bibbia a voce alta. Leggeva: Date, e vi sarà dato; buona misura, premuta, scossa, e traboccante, vi sarà data in seno.
Dal tetto dell’ospedale pendevano ghiaccioli come denti di pesce, gocce chiare che bruciavano alle punte. Accanto al letto la signora goysche (3) sedeva in veste lunga e stivaletti abbottonati. Lo spillone del cappello le spuntava da dietro il capo come l’asta di un tram. I suoi abiti emanavano un odore di colla. E poi gli faceva leggere: Lasciate che i pargoli vengano a me. A lui pareva una buona signora. La sua faccia, però, era tirata e imbronciata.
«Dove abiti, piccolo?»
«In Napoleon Street.»
Dove abitano gli ebrei.
«Che cosa fa tuo padre?»
Mio padre fa il contrabbandiere di liquori. Ci ha una distilleria a Point St. Charles. I piedipiatti gli stanno alle costole. Non ci ha un soldo.
Solo che, naturalmente, Moses queste cose non le avrebbe mai dette. Anche a cinque anni la sapeva già lunga. Era stata la madre a insegnarglielo. «Non lo devi dire mai.»
* * *
V’era una certa saggezza in tutto ciò, pensò, come se barcollando potesse recuperare l’equilibrio, o ammettendo un pochino di pazzia potesse tornare in senno. E ci provava gusto a farsi uno scherzo. Ora, per esempio, lui aveva messo in valigia questi abiti estivi che non poteva permettersi e stava preparando la fuga da Ramona. Sapeva come si sarebbero messe le cose se fosse andato a Montauk con lei. Lei lo avrebbe condotto, come un orso addomesticato, a Easthampton, da un cocktail party all’altro. Poteva facilmente immaginarlo - Ramona che rideva, parlava, le spalle nude in una delle sue camicie alla paesana (erano spalle meravigliose, femminilissime, questo doveva ammetterlo), quei suoi capelli a riccioli neri, il viso, la bocca, dipinti; poteva sentirne il profumo. Nella profondità dell’essere di un uomo c’era qualche cosa che reagiva con un gracidante «quack» a un profumo come quello. «Quack!» Riflesso della sessualità che non ha nessun rapporto con l’età o la raffinatezza d’animo, la saggezza, l’esperienza, la storia, Wissenschaft, Bildung, Wahrheit. Da malato o da sano, appena senti la fragranza della pelle femminile, profumata, ecco far eco puntuale il vecchio «quack-quack!». Eh già, Ramona lo avrebbe pilotato mentre lui sorseggiava un Martini, coi suoi pantaloni nuovi e la giacchetta a righe.
I Martini per Herzog erano veleno e non poteva sopportare le quattro chiacchiere da aperitivo. E così sarebbe stato costretto a stare in piedi, su piedi doloranti, tirando la pancia in dentro - lui, il professore prigioniero, lei la donna matura, la donna di successo, ridanciana, sexy. «Quack! Quack!»
La valigia era fatta, chiuse le finestre e tirò giù le tapparelle. Sapeva che l’appartamento avrebbe puzzato ancora più di muffa, al ritorno da quella vacanza da scapolo. Due matrimoni, due figli, e stava per partire per una settimana di “spensierato” riposo. Che pena per il suo istinto, per il suo sentimento ebraico della famiglia, che i suoi figli dovessero crescere senza di lui. Ma cosa ci poteva fare? Al mare! Al mare! - Ma quale mare? Era la baia - tra East Chop e West Chop non era mare; era acqua cheta.
Uscì, combattendo la tristezza di quella vita solitaria. Gonfiò il torace, e trattenne il respiro. «Cristo santo, non piangere, idiota che non sei altro! Vivi o muori, ma non avvelenarti tutto.»
Perché poi quella porta dovesse avere una chiusura speciale di sicurezza, non lo sapeva proprio. La delinquenza era in aumento, ma lui non possedeva niente che valesse la pena di rubare. Solo qualche ragazzetto esaltato poteva pensarlo, e appostarsi, in agguato, “caricato” a dovere, per dargli una mazzata in testa. Herzog infilò l’asta di metallo nella fessura del pavimento e girò la chiave. Poi si assicurò di non aver dimenticato gli occhiali. No, erano nella tasca interna della giacca. Aveva le sue penne, il blocco, il libretto degli assegni, un pezzo di asciugamano di carta, da cucina, che aveva strappato per farne un fazzoletto, e il tubetto di plastica delle pillole di Furadantin. Le pillole erano per l’infezione che si era preso in Polonia. Adesso era guarito, ma per ogni evenienza, ogni tanto trangugiava lo stesso una pillola. Che momento spaventoso a Cracovia, in quella camera d’albergo, quando era comparso il primo sintomo. Aveva pensato: “Addio, lo scolo! Adesso arriva! Dopo tutti questi anni. A questo punto della vita!”. Si sentì stringere il cuore.
Andò da un dottore inglese, che lo rimproverò aspramente. «Ma cosa ha combinato? È sposato?»
«No.»
«Ebbene, non è scolo. Si tiri su i calzoni. Suppongo che vorrà un’iniezione di penicillina. Tutti gli americani la vogliono. Ebbene, io non gliela farò. Prenda questi sulfamidici. Niente bere, mi raccomando. Beva tè.»
Sono inesorabili loro, verso le trasgressioni sessuali. Quel tizio era arrabbiato, mordace, un altezzoso dottore albionico. Ed io così vulnerabile, pesante di colpa.
L’avrei dovuto sapere che una donna come Wanda non mi avrebbe mai attaccato la gonorrea. È sincera, leale, devota al corpo, alla carne. Ha la religione delle persone civili, che è il piacere, piacere creativo e polimorfo. La sua pelle è sottile bianca, serica, animata.
Cara Wanda, scrisse Herzog. Ma lei non sapeva una parola d’inglese, e passò al francese. Chère Princesse, je me souviens assez souvent... Je pense à la Marszalskowska, au brouillard.
Qualsiasi uomo di terza, quarta, decima categoria al mondo sapeva fare la corte a una donna in francese, e quindi anche Herzog. Sebbene non ne fosse il tipo. I sentimenti che voleva esprimere erano genuini. Era stata estremamente cortese con lui quando lui era malato, angustiato, e a rendere la sua cortesia ancor più significativa era la bellezza polacca, radiosa e prosperosa, di quella donna. Aveva capelli pesanti, dorati-rossicci, e un naso leggermente in su, ma dalle bellissime linee, e una punta straordinariamente delicata e leggiadra per una persona così in carne. Il suo colore era bianco, ma un bianco forte, sano. Portava, come la maggior parte delle donne a Varsavia, calze nere e scarpe italiane, lunghe e affusolate; la sua pelliccia, però, era tutta lisa e spelacchiata.
Addolorato com’ero, sapevo quello che facevo?annotò Herzog su un altro foglio di carta, mentre aspettava l’ascensore. La Provvidenza, aggiunse, ha cura di coloro che hanno fede. Io lo sentivo che avrei incontrato una persona del genere. Ho avuto una fortuna tremenda. “Fortuna” era sottolineato varie volte.
Herzog aveva visto il marito. Era un pover’uomo con un’espressione di biasimo scritta in faccia, malato di cuore. L’unica mancanza che Herzog aveva trovato in Wanda era che insistesse per fargli conoscere Zygmunt. Moses non aveva ancora afferrato che significato potesse avere. Wanda respingeva l’idea del divorzio. Era perfettamente soddisfatta del suo matrimonio. Diceva che era tutto quello che un matrimonio poteva essere.
Ici tout est gâché.
Une dizaine di jours à Varsovie - pas longtemps. Se si potevano chiamare giorni quegli intervalli di inverno nebbioso. Il sole era rinchiuso in una bottiglia ghiacciata. L’anima rinchiusa dentro di me. Enormi tendaggi di feltro riparavano il vestibolo dell’albergo dalle correnti d’aria. I tavoli di legno erano macchiati, gonfi, bruciacchiati dal tè.
La sua pelle era bianca e rimaneva bianca attraverso ogni mutamento d’emozione. Pareva che i suoi occhi verdastri fossero cuciti in una pence in quel suo viso di polacca (natura, sartora). Donna piena, dal petto morbido, troppo robusta per quelle eleganti e appuntite scarpe italiane. In piedi, senza tacchi, con le sue calze nere, era veramente una figura più che solida. Gli mancava, adesso. Quando lui le prese la mano, lei gli disse. «Ah, ne tuscé pas. C’est dansgeré». Ma non faceva affatto sul serio. (Che passione aveva lui per i propri ricordi! Che strano animale sensuale era! Un po’ anormale, forse, per le rimembranze? Ma perché usare parole dure. Era quello che era.)
Eppure, durante tutto il tempo aveva avuto ben coscienza di quella Polonia squallida, gelida e desolata e ovunque grigiorossastra, con le pietre che sapevano ancora degli assassinii del tempo di guerra. Credette di sentirlo, l’odore del sangue. Tornò e ritornò, a visitare le rovine del ghetto. Wanda gli aveva fatto da guida.
Scosse il capo. Ma che cosa poteva fare lui? Premette di nuovo il pulsante dell’ascensore, questa volta con lo spigolo della valigetta Gladstone. Udì il fruscio di un morbido movimento nella tromba delle scale - cavi ingrassati, potenze, nero efficiente meccanismo.
Guéri de cette petite maladie. Non avrebbe dovuto dirglielo a Wanda, s’era tanto impressionata e dispiaciuta. Pas grave du tout, scrisse. L’aveva fatta piangere.
L’ascensore si fermò, e lui concluse: J’embrasse ces petites mains, amie.
Come si dice piccole nocche bionde e tonde, in francese?
CAPITOLO II
Nel taxi, per strade infuocate dove s’ammassavano edifici di mattone e arenaria, Herzog si reggeva al sostegno ed i suoi grandi occhi erano fissi sullo spettacolo di New York. Erano vive, non inerti quelle forme squadrate: gli comunicavano una sensazione di movimento carico di significato, d’intimità, quasi.
In qualche modo si sentiva parte di tutto ciò - delle stanze, dei negozi, degli scantinati - e allo stesso tempo avvertiva il pericolo di quei multipli eccitamenti. Ma se la sarebbe cavata.
Era sovreccitato. Doveva calmare quei nervi galoppanti, estenuati, spegnere il tenebroso fuoco che si sentiva dentro.
Moriva di voglia di Atlantico - sabbia, il sapore di salmastro, la terapia dell’acqua fredda. Sapeva che avrebbe pensato meglio, pensieri più chiari, dopo un bagno a mare. Sua madre aveva creduto negli effetti benefici del bagno. Ma era morta così giovane. Lui non poteva ancora permettersi di morire. I suoi figli avevano bisogno di lui. Era suo dovere vivere. Essere sano di mente, e vivere, e aver cura dei bambini. Per questo ora fuggiva dalla città surriscaldata, con gli occhi che gli facevano male. Scappava da tutti gli obblighi, da tutte le questioni pratiche, scappava anche da Ramona. Ci sono dei momenti in cui uno sente il bisogno di andare a rintanarsi, come un animale.
Sebbene non sapesse cosa lo aspettava, salvo il treno che gli avrebbe imposto per forza il riposo (non si può mica correre, in treno) attraverso il Connecticut, il Rhode Island e il Massachusetts, fino a Woods Hole, il suo era un ragionamento quadrato. Le spiagge fanno bene ai pazzi - purché non lo siano troppo. Si sentiva prontissimo. I panni allegri erano nella valigetta sotto i suoi piedi; e il cappello di paglia con la fascia bianca e rossa? Ce l’aveva in testa.
Ma tutto d’un tratto, sul sedile del taxi che si scaldava al sole, si accorse che lo spirito irato gli aveva dato di fuori un’altra volta, e che stava di nuovo per scrivere lettere. Caro Smithers, cominciò, l’altro giorno, a pranzo - questi pranzi burocratici che orrore, per me; le terga mi si paralizzano, il sangue mi si riempie di adrenalina; e il cuore! Mi sforzo di assumere un’aria dignitosa e per bene ma il viso mi si sbianca di noia, la mia fantasia sbrodola zuppa e salsa su tutti, e ho voglia di urlare o di svenire - ci chiesero di suggerire degli argomenti per nuovi corsi ed io dissi, perché non tenere una serie di lezioni sul matrimonio? Tanto valeva che avessi detto “ribes” o “uva spina”. Smithers è felicissimo della sua sorte.
Nascere è un bel rischio. Chi può dire che cosa ti può capitare, nascendo? Ma lui aveva avuto in sorte dal destino di essere Smithers ed era una bella fortuna. Assomiglia a Thomas E. Dewey.
La stessa fessura fra gli incisivi, i baffi precisi. Senti, Smithers, io ce l’ho una buona idea per un nuovo corso. I tuoi organization men debbono dipendere da tipi come me. La gente che viene ai corsi serali soltanto in apparenza cerca cultura. Il loro maggior bisogno, la loro fame, è di buon senso, chiarezza, verità - gliene basta anche un atomo. La gente muore - non è una metafora - per mancanza di qualcosa di reale da portarsi a casa quando la giornata è finita. Guarda come sono disposti ad accettare le scemenze più inverosimili. O Smithers, baffuto fratello mio! che responsabilità sosteniamo in questo nostro grasso paese! Pensa a quello che potrebbe significare l’America per il mondo. E poi guarda quello che è. Che schiatta avrebbe potuto produrre! Ma guarda noi - te, me. Leggi il giornale, se riesci a digerirlo.
Ma il taxi aveva superato la 54a Strada e sull’angolo c’era una tabaccheria dove un anno prima Herzog era entrato per comprare una stecca di Virginia Rounds per la suocera, Tennie, che viveva una strada più su. Si ricordava di essere entrato in una cabina telefonica per avvertirla che stava salendo. C’era buio là dentro, e il rivestimento di metallo operato, in certi punti, era diventato nero per l’uso. Cara Tennie, forse ci faremo una chiacchierata, al mio ritorno dal mare. Il messaggio che mi mandasti per mezzo dell’avvocato Simkin, che non capivi perché non venivo più a trovarti, è, a dir poco, arduo da intendere. Lo so che la tua vita è stata dura. Senza marito.
Tennie e Pontritter erano divorziati. Il vecchio impresario abitava nella 14a Strada, dove teneva una scuola di recitazione, e Tennie aveva due camere sulla 17a, che assomigliavano a un fondale di teatro ed erano piene di ricordi dei trionfi del marito. Su tutti i manifesti dominava il nome di lui:
Eugene O’Neill e Cechov
nella regia di
PONTRITTER
Benché non fossero più marito e moglie, continuavano a frequentarsi. Pontritter portava Tennie a fare dei giri nella sua Thunderbird. Andavano insieme alle prime, andavano fuori a cena.
Lei era una donna snella di cinquantacinque anni, leggermente più alta di Pon. Lui, invece, era solido, imperioso, v’era una certa stizzosa possanza nel suo viso scuro. Gli piaceva la moda spagnola, e l’ultima volta che Herzog l’aveva visto, portava dei pantaloni di tela bianchi tagliati alla torero, e delle alpargatas. Vigorosi, rari fili di ruvidi capelli bianchi gli spuntavano dalla cute abbronzata. Madeleine ne aveva ereditato gli occhi.
Senza marito. Senza figlia, aveva scritto Herzog. Ma ricominciò da capo: Cara Tennie, sono stato da Simkin a proposito di una certa cosa, e lui mi ha detto: «Sua suocera è offesa con lei».
Simkin, seduto nel suo ufficio, occupava una superba poltrona Sykes, sotto enormi file di testi giuridici. Un uomo nasce per restar orfano e per lasciarsi dietro degli orfani, ma una sedia come quella, se uno se la può permettere, è pur sempre una grande consolazione. Simkin non stava neanche seduto, stava sdraiato, in quella sedia. Con la grande schiena massiccia e le cosce piccole, la testa arruffata e aggressiva, e le mani, piccole e timide, appoggiate sulla pancia, parlava ad Herzog con un tono diffidente, un po’ sottomesso. Lo chiamava “professore”, ma non per canzonarlo. Sebbene fosse un avvocato abile e ricchissimo, Simkin aveva soggezione di fronte ad Herzog. Aveva un debole per gli intellettuali pasticcioni con forti impulsi morali, come Moses. Un caso disperato! Molto probabilmente, in Moses vedeva un uomo rimasto bambino e addolorato che cercava di non perdere la dignità. Notò il libro che Herzog teneva sulle ginocchia, poiché Herzog, tipico, si portava sempre un libro da leggere nella metropolitana o in autobus. Che libro era, quel giorno? Un Simmel sulla religione? Teilhard de Chardin? Whitehead? Sono anni che non sono più capace di concentrarmi davvero. Comunque, ecco lì Simkin, basso ma anche massiccio, gli occhi incoronati di peli contorti, che lo guardava. In conversazione, la sua voce era misuratissima, sommessa, quasi fievole, ma quando rispondeva al segnale della segretaria e apriva il citofono, improvvisamente aumentava di volume, diceva, a voce alta e secca: «Siih?».
«C’è il signor Dienstag al telefono.»
«Chi? Quello shmock? (4) Sto aspettando quella dichiarazione scritta, io. Gli dica che la parte lesa lo prende a calci nel culo se non la presenta. È meglio che la porti oggi pomeriggio, ‘sto ridicolo d’uno shmeghegghy!» (5) Amplificati, i suoi toni di voce divenivano oceanici. Poi richiuse, e riassunse umiltà per dire a Herzog: «Vei, vei! Sono talmente stufo di questi divorzi! Che situazione! La corruzione dilaga. Dieci anni fa pensavo di potercela ancora fare. Mi sentivo abbastanza uomo di mondo per queste cose - realistico, cinico. Ma mi sbagliavo. È troppo. Questo babbaleo d’un pedicure - che peste d’una strega s’è sposato questo qui. Prima dice che non vuole figli, poi che li vuole, poi no, poi sì. Alla fine gli ha buttato in faccia il pessario. È andata alla banca. S’è presa trenta bigliettoni dalla cassetta di sicurezza che apparteneva a tutti e due. Ha detto che lui ha tentato di buttarla sotto una macchina. Ha litigato con la madre di lui per un anello, le pellicce, una gallina, Dio sa che cosa. E poi il marito ha trovato delle lettere indirizzate a lei da un altro tizio». Simkin si sfregava con le manucce il capoccione astuto, imponente. Poi mostrò i dentini, regolari, forti come il ferro, pareva che stesse per sorridere, e invece non era che un preliminare meditativo. Tirò un sospiro di compassione. «Sa, professore, Tennie è dispiaciuta del suo silenzio.»
«Me l’immagino. Ma ancora non me la sento di andarci.»
«Una cara signora. E che famiglia di scatenati! Io mi limito semplicemente a trasmetterle il messaggio, dato che la signora me l’ha chiesto.»
«Sì.»
«Molto per bene, Tennie...»
«Lo so. Mi ha fatto una sciarpa. Ci ha messo un anno. L’ho avuta per posta circa un mese fa. Dovrei ringraziare.»
«Sì, perché non lo fa? Non è una nemica, guardi.»
Simkin lo trovava simpatico; Herzog non ne dubitava. Ma da buon realista pratico, uno come Simkin doveva pur tenersi in esercizio, ed era una certa dose di malizia a mantenerlo in forma. Un tipo come Moses Herzog, un tantino sciocco o con poco senso pratico, ma intellettualmente ambizioso, leggermente arrogante, pure, un tipo coccolato, inefficiente, cui era stata appena soffiata la moglie in circostanze buffissime (molto più buffe del caso del pedicure, che faceva torcere le manine a Simkin con gridolini di finto orrore) - questo Moses era un soggetto irresistibile per uno come Simkin che amava compatire e schernire al medesimo tempo. Era un Insegnante di Realtà, lui. E quanti come lui. Sono io che li faccio venir fuori. Himmelstein è un altro, però crudele. È la crudeltà che mi fa rabbia, non il realismo. Naturalmente Simkin sapeva tutto della relazione di Madeleine con Valentine Gersbach, e quello che non sapeva lui, glielo dicevano i suoi amici Tennie e Pontritter.
Tennie aveva fatto la bohème per trentacinque anni, seguendo il marito come se avesse sposato un droghiere e non un genio teatrale, ed era rimasta una donna garbata, tipo sorella maggiore, con delle lunghe gambe. Ma le gambe le si erano imbruttite, e i capelli tinti s’erano induriti come penne d’oca.
Portava degli occhiali a farfalla, e gioielli “astratti”.
E se fossi venuto a trovarti? domandò Herzog. Mi sarei seduto nel tuo salotto a fare il carino mentre dentro scoppiavo per i torti fattimi da tua figlia. Gli stessi torti che tu hai accettato da Pontritter, e che gli hai perdonato. È lei che gli riempie i moduli per la tributaria. Gli tiene in ordine tutti i documenti, gli lava i calzini. La volta scorsa ho visto i calzini di lui ad asciugare sul radiatore del bagno, in casa di lei. E pensare che fino a un momento prima mi stava dicendo quant’era felice adesso, da divorziata - libera di fare a modo suo e di dar sfogo alla propria personalità. Mi dispiace per te, Tennie.
Ma quella bellissima e furbissima figlia tua è venuta, sì o no, a casa tua con Valentine, e ti ha mandata, sì o no, con la nipotina allo zoo mentre loro facevano l’amore nel tuo letto? Lui con la sua cascata di capelli rossi, e lei sotto, coi suoi occhi azzurri. E che dovrei fare adesso - venire a sedermi da te e chiacchierare di commedie e ristoranti? Tennie gli avrebbe detto di quel locale greco sulla 7a Avenue. Gliene aveva già parlato cinque o sei volte. «Un amico» (sempre Pontritter, naturalmente) «mi ha portato a cena al Marathon. Veramente molto originale. Sai, i greci cucinano la carne macinata e il riso dentro foglie di vite, con delle spezie molto interessanti. E se uno ne ha voglia, può mettersi a ballare degli assolo. I greci sono assolutamente disinibiti. Dovresti vedere quei ciccioni togliersi le scarpe e mettersi a ballare di fronte a tutta quella gente.»
Tennie gli parlava con una dolcezza e un affetto da ragazzina, oscuramente tenera verso di lui. I suoi denti erano buffi e patetici come quelli di un bambino di sette anni quando ha perso i denti di latte e gli sono appena spuntati i nuovi.
Ah, sì, pensò Herzog. Sta peggio di me, poveretta. Divorziata a cinquantacinque anni, e ancora mostra le gambe, senza accorgersi che si son rinsecchite. E col diabete. E la menopausa.
Bistrattata dalla figlia. Se Tennie, per autodifesa, ha un po’ di cattiveria, d’ipocrisia e d’astuzia, come si può fargliene una colpa? È vero che ci regalò, o prestò - qualche volta si trattava di un prestito e qualche volta di un regalo di nozze quel servizio messicano di posate lavorate a mano, e ora lo rivuole indietro. È per questo che m’ha mandato a dire da Simkin che era dispiaciuta. Non vuole rimetterci le sue posate. Ma non si tratta poi neanche del tutto di cinismo. Vuole rimanere in amicizia, ma rivuole pure le posate. È il suo capitale. Il servizio è nella cassetta di sicurezza, a Pittsfield. Troppo pesante per portarmelo dietro a Chicago. Lo restituirò, naturalmente. Pian pianino. Non ho mai potuto provare attaccamento per i preziosi - l’argento, l’oro. Per me, i soldi non sono un mezzo. Sono io il mezzo dei soldi. Passano attraverso di me - tasse, assicurazioni, ipoteche, mantenimento dei figli, affitti, parcelle legali. Tutto questo dignitoso sbagliare costa un occhio. Se sposassi Ramona, sarebbe più facile, forse.
Il taxi fu bloccato dagli autocarri nel rione dell’abbigliamento. Il macchinario elettrico rintronava sotto le volte delle fabbriche, ne tremava l’intera strada. Sembrava che la stoffa venisse strappata, non cucita. La strada era sommersa, affogata da queste ondate di tuono. Un negro passava spingendo un carrello verticale carico di cappotti da donna. Aveva una bellissima barba e suonava una trombetta dorata. Ma chi lo sentiva?
Poi il traffico diradò un poco, il taxi ruggì in prima e poi balzò in seconda. «Cristo santo, sbrighiamoci» disse l’autista.
Girarono a precipizio per Park Avenue, e Herzog si resse forte alla maniglia rotta del finestrino. Non funzionava. Ma se avesse funzionato e il finestrino si fosse aperto, una gran polvere si sarebbe riversata all’interno. Stavano demolendo e innalzando altri edifici. L’avenue era piena di camion con le betoniere, di odor di sabbia bagnata e di cemento grigio e polveroso. Sotto, un grande strepito, tonfi per conficcare i piloni delle fondamenta, più in alto, strutture d’acciaio, che salivano interminabilmente e irosamente nell’azzurro più fresco e delicato. Travi color arancione pendevano dalle gru come cannucce per bibite. Ma giù per la strada dove gli autobus eruttavano la loro velenosa fumata di combusta benzina scadente, e le auto si stipavano, era asfissiante, lacerante, il fracasso delle macchine e della folla disperatamente tesa alle sue mete - orrendo! Andarsene al mare, dove almeno si respira. Avrebbe dovuto prenotarsi un posto d’aereo. Ma ne aveva avuto abbastanza degli aerei, l’inverno prima, specialmente di aerei polacchi. Vecchi apparecchi. Era partito dall’aeroporto di Varsavia seduto sul primo sedile davanti di un bimotore LOT, puntando i piedi sulla paratìa che gli stava di fronte, e reggendosi il cappello. Niente cintura di sicurezza. Le ali erano ammaccate, i cofani bruciacchiati. Alle sue spalle, sacchi di corrispondenza e cassette che scivolavano.
Avevano volato attraverso furibonde nuvole di neve roteante, sopra bianche foreste polacche, prati, burroni, fabbriche, fiumi che pedinavano i propri argini, dentro, fuori, dentro, e un terreno di diagrammi bianchi e bruni.
Ad ogni modo, una vacanza deve sempre cominciare con un viaggio in treno, come quand’era bambino, a Montreal. Tutta la famiglia che prendeva il tram fino alla Grand Trunk Station con un canestro (di un legno fragile, che si scheggiava) di pere, già troppo fatte, comprate d’occasione da Jonah Herzog al mercato di Rachel Street, frutta macchiata, pronta per le vespe, a un pelo dall’essere fradicia, però stupendamente fragrante. E nel treno, sul crine verde e logoro dei sedili, papà Herzog sedeva sbucciando la frutta col suo coltellino russo dal manico di madreperla. Sbucciava e girava e tagliava con abilità europea.
Nel frattempo, la locomotiva berciava e i vagoni incastonati di ferro cominciavano a muoversi. Il sole e le travi spartivano geometricamente la fuliggine. Vicino alla fabbrica crescevano sporche erbacce. Dalle fabbriche di birra veniva un odore di malto.
Il treno attraversava il San Lorenzo. Moses premeva il pedale e attraverso l’imbuto macchiato del gabinetto vedeva il fiume che schiumava. Poi si metteva al finestrino. L’acqua luccicava e s’impennava su grandi lastre di roccia, turbinando in una gran spuma alle cascate Lachine, dove faceva risucchio rombando.
Sull’altra riva c’era Caughnawaga, dove gli indiani vivevano in capanne costruite su palafitte. Poi venivano i campi riarsi dall’estate. I finestrini erano aperti. L’eco del treno rimbalzava attutita dalle stoppie come una voce filtrata attraverso una barba. La locomotiva seminava ceneri e fuliggini sui fiori di fuoco e sulle gobbe pelose delle erbacce.
Ma era roba di quarant’anni prima. Adesso il treno era congegnato per la velocità, tubo segmentato di lucente acciaio.
Niente pere, adesso; niente Willie, niente Shura, niente Helen, niente mamma. Scendendo dal taxi, pensò a come sua madre inumidiva con la saliva il fazzoletto e poi gli ripuliva il viso.
Non aveva nessun diritto di mettersi lì a stuzzicare quei ricordi, lo sapeva, e si diresse verso la Grand Central col suo cappello di paglia. Ora apparteneva alla generazione matura, ed era lui a dover fare qualcosa della sua vita, se ne era capace.
Ma non aveva dimenticato l’odore della saliva di sua madre sul fazzoletto quella mattina d’estate nella stazione canadese tozza e infossata, il ferro nero e l’ottone sublime. Tutti i bambini hanno le guance e tutte le madri adoperano la saliva per pulirli teneramente. Queste cose o contano o non contano. Dipende dall’universo, da cos’è. Ricordi così acuti probabilmente sono sintomo di disordine. Per lui, pensare sempre alla morte era peccato. Passa col carro e l’aratro sulle ossa dei morti.
* * *
In mezzo alla folla della Grand Central Station, Herzog, malgrado tutti gli sforzi per cavarsela meglio che poteva, non riusciva a mantenersi razionale. Sentiva che tutto gli sfuggiva via nel rombo sotterraneo dei motori, delle voci e dei passi nelle gallerie con le luci che parevano gocce di grasso in un brodo giallo, e l’odore forte, soffocante, della New York sotterranea. Il colletto si bagnò e il sudore gli colò giù dalle ascelle lungo le costole mentre comperava il biglietto, e poi prese una copia del «Times», e stava per comprarsi una tavoletta di Cadbury’s Caramello, ma se la vietò, pensando al denaro che aveva speso per i nuovi vestiti che poi, se avesse mangiato troppi carboidrati, non gli sarebbero entrati più. Sarebbe stato come dar vittoria all’altra parte, se si fosse permesso d’ingrassare, se gli fosse venuta la pappagorgia, se si fosse impigrito, coi fianconi larghi e la pancia, il respiro corto.
Nemmeno a Ramona sarebbe piaciuto, e che piacesse a Ramona aveva parecchia importanza. Considerò seriamente la possibilità di sposarla, malgrado proprio in quel momento avesse tutta l’aria di stare comprando un biglietto per scappar via. Ma era anche nell’interesse suo, di Ramona, se lui era così confuso - mezzo visionario e mezzo melmoso come ora si sentiva, febbricitante, menomato, arrabbiato, litigioso e malfermo. Le avrebbe telefonato al negozio: ma tra gli spiccioli aveva soltanto un nichelino, neanche una monetina da dieci cents. Avrebbe dovuto cambiare un biglietto da un dollaro, e non aveva voglia né di cioccolata né di gomma. Allora pensò di telegrafarle, ma si rese conto che mandandole un telegramma avrebbe fatto la figura del debole.
Giunto all’afosa banchina della Grand Central aprì il voluminoso «Times» con i suoi bordi sfilacciati, dopo essersi messo la valigetta tra i piedi. I carrelli elettrici, silenziosi, gli passavano accanto con le sacche della corrispondenza, e lui fissò gli occhi sulle notizie con sforzo particolare. Era una brodaglia ostile di stampa nera Corsa - luna - Berlino - Krusc - mette - guard - comitato - galass - raggiX - Suv - anna - fuma. Venti passi più in là colse il viso soffice e bianco e lo sguardo emancipato di una donna, con un cappellino di paglia nera lucida che le ombreggiava la fronte e gli occhi, e sentì quello sguardo raggiungerlo, pur in quella oscurità punteggiata di segnali, con una forza di cui la donna non avrebbe mai potuto essere consapevole. Quegli occhi potevano essere blu, forse verdi, persino grigi - va’ a sapere. Ma erano occhi da troia, quello era sicuro. Esprimevano una sorta di prepotenza femminile che ebbe un immediato potere sessuale su di lui; tornò a sperimentarlo proprio in quell’istante - un viso tondo, lo sguardo chiaro di occhi pallidi da troia, un paio di gambe fiere di sé.
Devo scrivere a zia Zelda, decise improvvisamente. Non credano di passarla liscia - prendermi per scemo così, approfittarsi in quel modo. Piegò il pesante giornale e si precipitò sul treno. La ragazza dagli occhi di troia era sull’altro binario, e meno male che se l’era levata di torno. Andò in un vagone diretto a New Haven, e le porte rosa-scuro gli si chiusero alle spalle scorrendo su cardini pneumatici, rigidi e sibilanti. L’aria all’interno era gelida, aria condizionata. Era il primo passeggero e poteva scegliersi il posto che voleva.
Si sedette in una posizione scomodissima, premendosi contro il petto la valigetta, la sua scrivania viaggiante; scriveva rapidamente nel blocco notes. Cara Zelda, è chiaro che tu devi stare dalla parte di tua nipote. Io non sono che un estraneo. Lo dicevate tu ed Herman che ero uno della famiglia. Ma se (alla mia età) fossi ancora tanto gnoccolone da lasciarmi impressionare da questo genere di “sentite” cretinate di famiglia, be’, allora mi meriterei quello che m’è successo. Ero lusingato dall’affetto di Herman, per via delle sue ex conoscenze nei bassifondi. Ero invaso di felice orgoglio all’idea che mi trovasse “un tipo normale”. Significava che la mia confusa vita intellettuale, nella mia qualità di povero milite della cultura, non aveva rovinato la mia umana simpatia. E anche se avevo scritto un libro sui Romantici? Un esponente politico della federazione democratica della Cook County, ben ammanigliato col Syndicate, con gli Uomini Chiave, coi Re della Politica, con Cosa Nostra, e con tutti gli imbroglioni, mi trovava ancora di buona compagnia, heimish, (6) e mi portava con sé alle corse, alle partite di hockey. Macché: Herman nel Syndicate è anche più marginale di quanto lo sia il povero Herzog nel mondo pratico e tutti e due si sentono a proprio agio in un bell’ambiente heimish e adorano il bagno russo e il tè e il pesce affumicato e alla fine le aringhe. Con a casa donne irrequiete che tramano.
Fino a che ero il buon marito di Mady, ero una persona simpaticissima. Tutto ad un tratto, poiché Madeleine ha deciso di farla finita - di colpo sono diventato un cane furioso. La polizia è stata avvertita sul mio conto e si è pure parlato di rinchiudermi in una casa di cura per malati di mente. So che il mio amico, e avvocato di Mady, Sandor Himmelstein, ha chiamato il dott. Edvig per domandargli se non mi riteneva pazzo abbastanza da spedirmi a Manteno o a Elgin. Tu hai creduto a Madeleine circa lo stato delle mie condizioni mentali e così hanno fatto altri.
Eppure tu sapevi cosa stava combinando lei - sapevi perché aveva lasciato Ludeyville per Chicago, perché a Valentine Gersbach avevo dovuto trovare un lavoro, a Chicago, sapevi che avevo cercato casa per i Gersbach e che avevo fatto io tutte le pratiche per mandare il piccolo Ephraim Gersbach ad una scuola privata. Quanto profondo e primitivo dev’essere quello che la gente - le donne - provano contro un marito ingannato, e adesso so che chiedendo ad Herman di portarmi alla partita di hockey, tenevi bordone a tua nipote.
Herzog non era arrabbiato con Herman - era convinto che lui non facesse parte del complotto. Blackhawks contro Maple-Leafs. Lo zio Herman, mite, buono, furbo, ordinato, coi mocassini neri e i pantaloni senza cintura, la camicia con una piccola garguglia sul taschino. Nella pista i giocatori si incrociavano come vespe veloci, imbottiti, giallo-neri, rossi, correndo, fendendo, turbinando sul ghiaccio. Al di sopra della pista il fumo di tabacco era sospeso come una nuvola di magnesio esplosivo. Dagli altoparlanti la direzione dello stadio pregava gli spettatori di non tirare monetine che intralciassero i pattini dei giocatori.
Herzog (che occhiaie aveva!) cercava di distrarsi in compagnia di Herman. Vinse perfino una scommessa, e lo portò a mangiare la torta di formaggio di Fritzl. C’erano tutti i grossi nomi di Chicago, là. Cosa avrà pensato zio Herman? Credi che lo sapesse anche lui che intanto Madeleine e Gersbach stavano insieme?
Malgrado il freddo dell’aria condizionata del vagone di New Haven, Herzog si sentì la faccia coperta di sudore.
Il marzo scorso tornai dall’Europa che ero tutto un fascio di nervi malati, e quando arrivai a Chicago per vedere cosa mi restava da fare, se pure minimamente possibile, per riportare un po’ d’ordine, stavo proprio mal combinato. In parte sarà stato il tempo, e il cambiamento di fuso orario. In Italia era primavera. Palmizi in Turchia. In Galilea, anemoni rossi fra le pietre. Ma a Chicago mi imbattei in una tempesta di neve, a marzo. Mi venne a prendere Gersbach, che continuava ad essere per me sempre l’amico più caro, anche allora; e mi guardava con compassione. Portava il trench pesante, da bufera, calosce nere, una sciarpa verde bandiera, e aveva June in braccio. Mi abbracciò. June mi diede un bacio in faccia. Andammo nella sala d’aspetto ed io tirai fuori dalla valigia i balocchi e i vestitini che avevo comperato, e un portafoglio fiorentino per Valentine e una collana di ambra polacca per Phoebe Gersbach.
Poiché l’ora in cui Junie doveva andare a letto era già passata e la neve stava venendo giù con forza, Gersbach mi accompagnò al Surf Motel. Disse che non aveva potuto farmi una prenotazione al Windermere, più vicino a casa, dieci minuti di strada. La mattina dopo la neve era alta trenta centimetri. Il lago era gonfio e illuminato dal riverbero della neve bianca fino a un vicino orizzonte di grigio tempestoso. Telefonai a Madeleine, ma lei riattaccò; a Gersbach, ma era fuori ufficio; al dottor Edvig, ma fino al giorno dopo non mi poteva fissare un appuntamento.
Famiglia, sorella, matrigna, Herzog li evitò. Andò dalla zia Zelda.
Non c’erano taxi quel giorno. Andò in autobus, morendo di freddo quando smontava da uno per salire su un altro, nella sua giacchetta di lanetta e i mocassini di suola sottile. Gli Umschand abitavano in un sobborgo nuovo, a casa del diavolo, oltre Palos Park, ai margini delle Riserve Forestali. Quando ci arrivò, la bufera aveva smesso, ma il vento era tagliente, e dai rami cadevano tocchi di neve. Il gelo suggellava le vetrine. Al negozio di vini e liquori, Herzog, che non era mai stato un gran bevitore, prese una bottiglia di Guckenheimer, 43 gradi. Era presto, la giornata appena cominciava, ma lui aveva il sangue gelato. Così parlò a zia Zelda col fiato pregno di whisky.
«Ti scaldo il caffè. Devi essere tutto di ghiaccio» disse lei.
Nella cucina suburbana, di smalto e rame, bianche forme femmineamente modellate sporgevano da ogni lato. Il frigorifero, che pareva avesse un cuore, e la macchina del gas con fiamme color genziana sotto la caffettiera. Zelda s’era truccata e indossava un paio di pantaloni dorati con delle pantofoline dal tacco di plastica - trasparente. Si sedettero. Attraverso il piano di vetro del tavolo, Herzog poteva vedere che le mani di lei erano strette fra le ginocchia. Quando lui cominciò a parlare, lei abbassò gli occhi. Aveva una carnagione da bionda, ma le palpebre erano più scure, più calde, più brune, sbiadite, ma ridisegnate a matita con una grossa linea blu. Quei suoi occhi bassi, da principio Moses li prese per un segno di consenso o di simpatia; ma si rese conto di come si fosse sbagliato quando le osservò il naso. Trasudava diffidenza. Dal modo in cui si muoveva, capì che lei non accettava niente di quel che lui le stava dicendo. Ma lui sapeva di essere esasperato - anzi peggio, temporaneamente squilibrato. Tentò di riprendere il controllo.
Mezzo sbottonato, con gli occhi rossi, non rasato, aveva un aspetto sgradevole. Indecente. Stava esponendo a Zelda il suo lato della faccenda. «Lo so che ti ha messo contro di me - che t’ha avvelenato il cervello, Zelda.»
«No, lei ti rispetta. Non era più innamorata di te: ecco tutto. Alle donne succede di non provare più amore.»
«Amore? Madeleine mi amava? Tu sai che queste sono solo stupidaggini borghesi.»
«Era pazza di te. Lo so io, se un tempo non ti adorava, Moses.»
«No, no! Non mi fare di queste manfrine, guarda. Lo sai che non è vero. È malata. È una donna malata - e io ho avuto molta premura per lei.»
«Questo lo ammetto» disse Zelda. «Quello che è vero è vero. Ma quale malattia...»
«Ah!» disse Herzog aspro. «Allora tu ami la verità!»
Ci vedeva lo zampino di Madeleine; era lei che parlava sempre e continuamente di verità. Non poteva sopportare la menzogna.
Niente faceva montare la mosca al naso a Madeleine con tanta furia come una bugia. Ed ora aveva spinto Zelda sulla sua strada - Zelda, con quei capelli tinti, aridi come trucioli da imballaggio e quelle righe violette sulle palpebre, quelle forme da bruco - “Oh!” pensò Herzog, in treno “la roba che si mettono le donne sulla pelle. E noi dobbiamo collaborare, dobbiamo guardare, ascoltare, prestare la nostra attenzione, annusare.” E adesso Zelda, il viso un pochino segnato, le narici morbide e possenti, dilatate dal sospetto, e affascinata dal suo stato (v’era della realtà in Herzog, adesso, che non si vedeva quando era affabile), gli stava facendo la solita predica sulla verità.
«Non sono sempre stata leale con te?» diceva. «Io non sono mica una della tante Hausfrau dei sobborghi, sai.»
«Lo dici perché Herman si vanta di conoscere quel ruffiano di Luigi Boscolla?»
«Non far finta di non capire...»
Herzog non voleva offenderla. Tutto d’un tratto era evidente che cos’era che la faceva parlare in quel modo. Madeleine aveva convinto Zelda di essere anche lei una donna eccezionale. Tutti quelli vicino a Madeleine, tutti quelli coinvolti nel dramma della sua vita divenivano esseri eccezionali, altamente dotati, brillanti. Era accaduto anche a lui. Ma una volta cacciato dalla vita di Madeleine, rispedito nell’oscurità, era ridiventato uno spettatore. Ma vedeva che zia Zelda era ispirata da un sentimento nuovo di se stessa. Herzog le invidiò persino quella intimità con Madeleine!
«Sì, lo so, che non sei come le altre mogli qui intorno...»
Diversa è la tua cucina, diverse le tue lampade a stelo, i tuoi tappeti, i tuoi mobili stile Direttorio americano, la tua Westinghouse, il tuo visone, il tuo country club, i tuoi salvadanai pro poveri paralitici.
Sono sicuro che sei sincera. Che non sei falsa. La vera falsità è difficile da trovare.
«Io e Madeleine siamo sempre state più come due sorelle» diceva Zelda. «Le ho sempre voluto bene, comunque si comportasse. Ma sono lieta di poter dire che è formidabile, serissima.»
«Balle!»
«Seria come te, per lo meno.»
«Che ti rispedisce un marito come si rende un vassoio o un asciugamano difettoso ai Magazzini Field.»
«È che non andava. Anche tu hai le tue colpe. Sono certa che non vorrai negarlo.»
«E come potrei?»
«Prepotente, musone. Non facevi che brontolare.»
«In un certo senso, è vero.»
«Con un sacco di pretese. Che tutto si facesse a tuo modo. M’ha detto che l’avevi sfinita, a furia di chiedere aiuto, sostegno.»
«È tutto esatto. E c’è anche di peggio. Sono precipitoso, irascibile, viziato. E poi?»
«Che non ti sei fatto tanti scrupoli in fatto di donne.»
«Da che Madeleine mi ha cacciato di casa, può anche darsi. Ho cercato di riconquistare il rispetto di me stesso.»
«No, quando ancora eravate sposati.» Zelda strinse le labbra.
Herzog si sentì arrossire. Un senso d’oppressione denso, caldo, morboso gli riempì il petto. Il cuore gli fece male e la fronte tutt’a un tratto gli si inumidì.
Borbottò: «Ma anche lei mi aveva reso la vita difficile. Dal punto di vista sessuale».
«Be’, essendo più vecchio... Ma sono cose passate» disse Zelda.
«Il tuo grande sbaglio è stato di andarti a seppellire in campagna con quell’idea di finire il tuo lavoro - quel saggio su coso come si chiama. Non ne sei mai arrivato a capo, no?»
«No» disse Herzog.
«E allora perché tutta quella storia?»
Herzog provò a spiegarle qual era il perché della storia: che quel suo saggio doveva, nelle intenzioni, finire per dare una nuova visione della condizione dell’uomo moderno, dimostrare come la vita possa essere vissuta rinnovando continuamente il sistema di rapporti universale; abbattere l’ultimo degli errori dei romantici sull’unicità dell’Io; correggere la vecchia ideologia faustiana dell’Occidente e indagare sul significato sociale del Nulla. E c’era dell’altro. Ma si frenò, perché vide che lei non capiva, e che questo la offendeva, convinta com’era, soprattutto, di non essere una qualunque Hausfrau. Lei disse: «Ha l’aria di una cosa grossa. E sarà certo anche importante. Ma il punto non sta qui. Sei stato uno sciocco a seppellirti con una donna giovane nelle Berkshires, e senza nessuno con cui scambiar due parole».
«Tranne Valentine Gersbach, e Phoebe.»
«Eh già. È stato un male. Soprattutto d’inverno. Avresti dovuto aver più giudizio. Quella casa è stata una prigione per lei. Dev’essere stato davvero atroce lavare, cucinare e far star zitta la bimba perché se no, dice, tu facevi l’inferno. Dice che non ti riusciva di pensare se June piangeva, e che allora ti precipitavi fuori dalla tua stanza sbraitando.»
«Sì, sono stato uno stupido - uno scervellato. Ma vedi, era proprio quello uno dei problemi su cui stavo lavorando: che adesso la gente ha la possibilità di essere libera, ma la libertà non ha contenuto. È come un vuoto fatto di urla. Credevo che Madeleine condividesse i miei interessi - è una studiosa.»
«Lei dice che eri un dittatore, un tiranno in piena regola. La comandavi a bacchetta.»
Eh sì, ce l’ho l’aria di un monarca caduto dal trono, pensava, com’era stato il babbo, emigrante di nobile stirpe e contrabbandiere d’alcol di valore zero. Era proprio una brutta vita, a Ludeyville: tremenda, lo ammetto. Ma quella casa non l’avevamo comprata perché lo voleva lei, e non ce ne siamo andati quando lei lo ha voluto? E non ho sistemato io tutto - anche per i Gersbach - in modo da poter partire dalle Berkshires tutti insieme?
«E poi, di cos’altro s’è lamentata?» chiese Herzog.
Zelda l’osservò per un attimo come per rendersi conto se fosse abbastanza forte da reggere il colpo, e poi disse: «Che eri un egoista».
Ah, quello! Capì subito. La ejaculatio praecox! Il suo sguardo si rabbuiò, il cuore cominciò a battergli forte e disse: «Ci sono state delle difficoltà, per qualche tempo. Ma negli ultimi due anni, no. E del resto con altre donne, quasi mai». Che spiegazioni umilianti. Zelda non era obbligata a crederci, il che lo metteva in posizione di autodifesa e quindi in un tremendo svantaggio. Né poteva certo prenderla e portarsela in camera da letto, per darle una dimostrazione, o presentarle degli attestati con le firme di Wanda o di Zinka. (Ricordando, sul treno ancora fermo, l’impacciata e furiosa smania di quei tentativi di spiegazione, gli venne da ridere. Ma non passò sul suo volto che un pallido sorriso.) Che farabutte erano - Madeleine, Zelda... le altre. A certe donne non importa il male, il danno che ti fanno.
Una ragazza, secondo Zelda, ha il diritto di aspettarsi dal marito notturno soddisfacimento erotico, sicurezza, denaro, l’assicurazione, pellicce, gioielli, serve e servitori, tendaggi, vestiti, cappelli, night club, country club, automobili e teatri!
«Nessun uomo può soddisfare una donna, se lei non lo vuole» disse Herzog.
«Be’, è la risposta che cercavi, no?»
Moses fece per parlare, ma sentì che stava per sbottare e per mettersi un’altra volta stupidamente a gridare. Impallidì di nuovo e tenne la bocca chiusa. Soffriva terribilmente. La pena era così acuta che ormai aveva superato anche lo stadio in cui gli sarebbe piaciuto vedersi riconoscere una particolare capacità di sofferenza, come altre volte. Restò seduto in silenzio e udì al piano di sotto il rumore d’una centrifuga in funzione.
«Moses» disse Zelda «voglio mettere in chiaro una cosa.»
«Che cosa?»
«I rapporti fra noi due.» Lui non le guardava più le palpebre scurite con l’ombretto, ma la fissava negli occhi, luminosi e castani. Le narici le si irrigidirono lievemente. Gli mostrò il suo viso comprensivo. «Noi siamo ancora amici, vero?» disse.
«Be’...» disse Moses. «Sono affezionato, a Herman. A te.»
«Io ti sono amica. E sono una persona sincera.»
Lui si vide riflesso nel finestrino del treno, riudiva nitidamente le proprie parole. «Penso che tu sia onesta.»
«Mi credi, vero?»
«Sono dispostissimo.»
«Devi credermi. E mi stanno a cuore anche i tuoi interessi, sai. Ci bado, sai? alla piccola June.»
«Te ne sono grato.»
«Madeleine, però, è una buona mamma. Non devi stare in pensiero. Non se ne va in giro con uomini. Pensare che non fanno che telefonarle, starle dietro di continuo. Be’ - è una bella donna, e poi è un tipo che non si incontra facilmente, intelligente com’è. In quell’ambiente di Hyde Park, appena s’è saputo del divorzio, non ti immagini nemmeno quanti hanno cominciato a telefonarle.»
«Amici miei, vuoi dire.»
«Se fosse una di quelle farfallone, non avrebbe che l’imbarazzo della scelta. Ma tu lo sai, com’è seria. E poi, gente come Moses Herzog non cresce mica sugli alberi. Col tuo cervello e la tua simpatia, non sarà facile sostituirti. Ad ogni modo, lei se ne sta sempre a casa. Ci sta pensando su - sta ripensando a tutta la sua vita. E non c’è proprio nessun altro. Tu lo sai, che a me puoi credere.»
Certo che se tu mi giudicavi pericoloso, era tuo dovere mentire. E lo so, che avevo un brutto aspetto, con la faccia tutta gonfia e gli occhi rossi e spiritati. Eppure la falsità femminile è una cosa che meriterebbe di essere studiata a fondo.
Il brivido della scaltrezza fraudolenta, il gusto per l’intrigo, la complicità del sesso, il piacere di entrare a poco a poco nel gioco. T’ho osservata, mentre gli facevi una testa così a Herman, perché ti comprasse la seconda macchina, e lo so bene che peste sei capace di diventare! Pensavi che avrei potuto ucciderli, Mady e Valentine. Ma quando ho scoperto come stava tutta la faccenda, perché non sono andato da un rigattiere e non ho comperato una pistola? Ancora più semplice: mio padre nella sua scrivania ha lasciato un revolver, è ancora lì. È che io non sono un assassino, non ne ho la stoffa; anzi, ho perfino paura di me stesso. Ad ogni modo, Zelda, vedo che mentire a cuore gonfio ti ha dato un tremendo piacere e una doppia eccitazione.
All’improvviso il treno si staccò dal marciapiede ed entrò nel tunnel. Rimasto di colpo al buio, Herzog non ripose la penna, continuò a tenerla in mano. In silenzio trascorrevano i muri gocciolanti. Dentro nicchie polverose brillavano piccole lampade.
Senza religione. Poi ci fu una lunga salita e il treno emerse da sottoterra e corse, nella luce improvvisa, alto sul terrapieno, al di sopra delle povere case del quartiere intorno al tratto superiore di Park Avenue. In una delle strade dopo la 16a Ovest c’era un idrante aperto che buttava acqua, e bambinetti con le mutandine fradicie tutte appiccicate che saltavano e gridavano.
Adesso veniva l’Harlem spagnolo, tetro, scuro e infocato. E a destra, in distanza, Queens, fitto verbale di atti in mattone rosso, annebbiato dalla sozzura atmosferica.
Herzog scrisse: Non capirò mai che cosa vogliono le donne. Che cosa diavolo vogliono. Mangiano verdura cruda, e bevono sangue umano.
Lungo lo stretto di Long Island l’aria si schiarì. A poco a poco si fece purissima. L’acqua era piatta e immobile, d’un delicato celeste. L’erba smagliante, variegata di fiori di campo - c’era moltissimo mirto fra quegli scogli, e fragole in fiore.
Ora la so tutta, la bella, schifosa, immonda verità su Madeleine. Da pensarci su per un pezzo. Ed ora, era finita.
* * *
Ma con la stessa vertiginosa rapidità, Herzog passò ad altro registro, scrivendo a un vecchio amico di Chicago, Lucas Asphalter, zoologo dell’università. Ma che t’ha preso? Mi capita di frequente di leggere i trafiletti della cronaca bianca sui giornali, ma non m’aspetterei mai che riguardassero i miei amici. Ti puoi immaginare l’impressione che mi ha fatto vedere il tuo nome sul «Post». Sei diventato matto? Lo so, che l’adoravi, quella tua scimmia, e mi spiace che sia morta. Ma avresti dovuto avere un po’ più di buon senso, altro che provare a rianimarla con la respirazione bocca a bocca. Tanto più che Rocco è morto di tbc e dev’essere stato letteralmente formicolante di germi.
Aveva un curioso attaccamento per quei suoi animali. Herzog sospettava persino che tendesse un po’ ad umanizzarli. Quel suo macaco, Rocco, era tutt’altro che una creatura divertente, anzi una bestia ostinata, irascibile, con un coloraccio smorto, da vecchio zio ebreo immusonito. Ma già visto che se ne stava lentamente morendo di consunzione, non poteva certo avere un’aria molto allegrotta. Asphalter, invece, era tutto gaiezza e indifferenza per le cose pratiche: insegnava anatomia comparata, ma non aveva mai preso la libera docenza, e così era sempre rimasto un po’ alla periferia del mondo accademico. Portava scarpe con suola di para altissima, e un camice tutto macchiato; aveva completamente perso i capelli, e anche la giovinezza, povero Luke. L’improvvisa caduta dei capelli lo aveva lasciato con un solo ricciolo sulla fronte, che gli faceva sembrare più sporgenti i begli occhi e le sopracciglia arcuate e più scure e più pelose le narici. Speriamo che non abbia respirato i bacilli di Rocco. Si dice che ce ne siano in giro d’una specie nuova, più mortifera, e pare che la tubercolosi stia tornando. Asphalter aveva quarantacinque anni, scapolo. Il padre aveva una pensioncina di infima categoria in Madison Street. Da giovanotto, Moses c’era andato spesso, a far visita. Ma per un dieci o quindici anni la loro era stata appena una conoscenza superficiale. Poi, tutto a un tratto, lui e Asphalter s’erano scoperte moltissime cose in comune. Anzi, era stato proprio da Asphalter che Herzog aveva saputo tutto della tresca di Madeleine, e della parte che Gersbach aveva avuto nella sua vita.
«Guarda, Moses, figurati se non mi scoccia dirtelo» gli aveva detto Asphalter nel suo studio: «ma ti sei andato a impelagare con dei pazzi furiosi.»
S’era di marzo, un paio di giorni dopo quella gran nevicata.
Non si sarebbe mai detto che solo all’inizio della settimana era ancora inverno rigido. I battenti della finestra erano spalancati: si vedeva il Quadrangle. Tutti quei pioppi sporchi erano rifioriti e le brattee dischiuse davano sfogo a rossi gattini. Ne pendevano dappertutto, profumando il cortile grigio e la sua luce mortificata dal poco spazio. Rocco, con occhi da malato, stava seduto sulla sua sedia di paglia con un’aria spenta e il pelo di un colore di cipolla bollita.
«Non posso vedere che ti rovini» continuava Asphalter. «È meglio che te lo dica: qui da noi abbiamo un’assistente di laboratorio che fa da baby-sitter alla tua bambina; è lei che m’ha raccontato di tua moglie.»
«Di mia moglie?»
«E di Valentine Gersbach. Sta sempre lì, in Harper Avenue.»
«Certo. Lo so. È l’unica persona per bene di quell’ambiente. Di lui mi fido. S’è dimostrato un buon amico, sul serio.»
«Sì, lo so... Io so, lo so» disse Asphalter. Il suo viso pallido e tondo era cosparso di lentiggini, e gli occhi erano grandi, liquidi, scuri e, nei confronti di Moses, amaramente sfuggenti. «Vuoi che non lo sappia? Valentine ha portato un qualche cosa di più nell’ambiente di Hyde Park, o meglio, in quel poco che resta di vita sociale. Chissà come abbiamo fatto fin qui, senza di lui. È così cordiale - così rumoroso, con quelle sue imitazioni scozzesi e giapponesi, e quella voce scordata. Mette a tacere ogni altra conversazione. Pieno di vita! Oh, se è pieno di vita. E come! E visto che sei tu che l’hai portato qui, credono tutti che sia il tuo amico del cuore. Lo dice anche lui. Solo che...»
«Solo che cosa?»
Teso, sottovoce, Asphalter gli chiese: «Non lo sai?». Era diventato pallidissimo.
«Che cosa dovrei sapere?»
«Veramente io davo per scontato che, con tutta l’intelligenza che hai - una vera eccezione al continuum - tu sapessi già o per lo meno sospettassi.»
Qualcosa di spaventoso stava per piombargli addosso. Herzog si fece forza.
«Dici Madeleine? Mi rendo conto, naturalmente, che un giorno o l’altro, dato che è ancora giovane, deve... dovrà...»
«No, no» disse Asphalter «non un giorno o l’altro.» E sputò il rospo: «Già da un pezzo».
«Ma chi?» disse Herzog. Di colpo gli montò il sangue al cervello, e non meno di colpo ne defluì. «Vuoi dire Gersbach?»
«Già.» Asphalter, ora, non riusciva più a dominare i nervi della faccia; il dolore gliel’aveva inflaccidita. La sua bocca sembrava tutta screpolata, solcata da linee nere.
Herzog cominciò a gridare: «Non puoi parlare così! Non puoi dire questo!». Sgranava gli occhi in faccia a Lucas, furibondo.
Si sentiva invadere da una sensazione di malore, oscura e sottile. Gli pareva che il corpo gli si stesse restringendo, improvvisamente prosciugato, svuotato, tramortito. Quasi perdette conoscenza.
«Slàcciati il colletto» disse Asphalter. «Mio Dio, non starai mica per svenirmi, eh?» Cercò, a forza, di fargli chinare il capo. «Metti la testa tra le ginocchia» diceva.
«Lasciami» disse Moses. Ma aveva il fuoco nella testa, la fronte gli sudava, e restò piegato in due, mentre Asphalter gli prestava soccorso.
Per tutto quel tempo, lo scimmione bruno era rimasto a guardarli fissamente, a braccia conserte, con gli occhi rossi e asciutti, silenziosamente disseminando la sua tetraggine. La morte, pensò Herzog. Ecco cos’era. Quell’animale stava per morire.
«Ti senti meglio?» chiedeva Asphalter.
«Basta che apri la finestra. Questi istituti di zoologia puzzano.»
«La finestra è aperta. Qua, bevi un po’ d’acqua.» Gli porse un bicchiere di carta. «Prendi una di queste. Prima questa, e poi quella bianca e verde. Prozina. Non mi riesce di togliere l’ovatta dal flacone. Tremano le mani a me, figurati.»
Herzog rifiutò le pillole. «Luke... ma è proprio vero, di Madeleine e di Gersbach?» chiese.
Nervosissimo, pallido, affettuoso, guardandolo con i suoi occhi scuri, il viso chiazzato, Asphalter disse: «Cristo! Non crederai che me la inventi, una cosa del genere, no? Forse mi sono comportato con poco tatto. Credevo che oramai te ne fossi già fatto un’idea abbastanza precisa... Ma per esser vero, è assolutamente vero». Asphalter, in quel suo camice sporco, gliene diede la dimostrazione facendo un gesto complicato e insieme scoraggiato, come dicesse: “T’ho messo tutto davanti agli occhi”.
Aveva il fiato grosso. «Ma proprio non ne sapevi niente?»
«No.»
«Ma non ti risulta? Non ti torna tutto chiaro, adesso?»
Herzog si appoggiò con tutto il suo peso alla scrivania, intrecciando strette le dita, con forza. Guardava fissamente i gàttini dei pioppi penzolare, sanguigni e violacei. Tutto quello che poteva sperare in quel momento era, non di scoppiare o di morire, ma di farcela a sopravvivere. «Chi te lo ha detto?» chiese.
«Geraldine.»
«Chi?»
«Gerry: Geraldine Portnoy. Credevo la conoscessi. La babysitter di Mady. Sta giù in sala d’anatomia.»
«Cosa...»
«Anatomia umana, a Medicina, qua all’angolo. Ci esco insieme. Anzi, la conosci di certo. Era in uno dei tuoi corsi. Vuoi parlarle?»
«No» disse con violenza Herzog.
«Be’, tanto ti ha scritto una lettera. L’ha data a me e ha detto che lasciava a me decidere, se consegnartela o no.»
«Adesso non ce la faccio a leggerla.»
«Prendila» disse Asphalter. «Forse ti verrà voglia di leggerla più tardi.»
Herzog si ficcò la busta in tasca.
Si chiedeva, seduto sul divanetto imbottito nello scompartimento del treno che si allontanava da New York a cento all’ora, con la valigetta-scrittoio sulle ginocchia, come mai non fosse scoppiato a piangere nello studio di Asphalter. Eppure aveva la lacrima facile e con Asphalter non si sentiva in soggezione, erano amici da tanto tempo, così simili nel loro tipo di vita: stesse origini, stesse abitudini, stesso carattere. Ma quando Asphalter aveva alzato il coperchio e rivelato la verità, qualcosa di maligno s’era sprigionato in quel suo studio affacciato sul Quadrangle; come un odore, caldo ed aspro; una strana emanazione d’umanità, quasi palpabile. Non c’era posto per le lacrime. Era una causa troppo sbagliata, e nello stesso tempo così poco congruente con gli interessati. E poi, anche, c’era il fatto che Gersbach era uno che piangeva a ogni suon di campanino e sempre facendo sfoggio di grande pateticità. La calda lacrima era sempre lì pronta, in quei suoi occhi rosso-bruni pieni di magnanimità. Solo pochi giorni prima, quando Herzog, sceso dall’aereo a O’Hare, era corso ad abbracciare la figlioletta, Gersbach era lì, imponente e massiccio, con gli occhi umidi di pietose lacrime. Ma allora costui, pensò Moses, s’è sprecato persino a piangere per me. In certi momenti mi secca di avere una faccia, un naso, due labbra, se penso che ce li ha anche lui.
Sì, in quel momento, era l’ombra della morte che era scesa su Rocco.
«È antipatico forte, certo» diceva Asphalter. Tirò un paio di boccate e poi spense la sigaretta. Il portacenere era pieno di lunghissimi mozziconi - faceva fuori due o tre pacchetti al giorno. «Beviamo qualcosa. Andiamo a mangiare insieme stasera. Porto Geraldine su al Beachcomber. Da solo tu non te ne puoi fare un’idea.»
Ma ora Herzog doveva considerare anche certe stranezze di Asphalter. È possibile che l’abbia influenzato, che la mia facilità alle emozioni gli si sia trasmessa. Ci s’era molto affezionato a quel mutrione peloso di un Rocco. E se no, come giustificare tanta agitazione: arrivare a prendersi Rocco in braccio e aprirgli a forza le labbra, insufflandogli il fiato bocca a bocca. Ho il sospetto che Luke sia combinato molto, ma molto male. Devo provare, pensando a lui, a prenderlo com’è: stranezze e tutto.
Sarà meglio che ti faccia la prova della tubercolina. Non avevo idea che tu... Herzog si interruppe. Uno steward della carrozza ristorante passò suonando la campanella per annunciare la colazione, ma Herzog non aveva tempo per mangiare. Si accingeva infatti a un’altra lettera.
Caro professor Byzhkovski, la ringrazio per la cortesia usatami durante la mia visita a Varsavia. A causa delle mie condizioni di salute, il nostro incontro dev’essere stato per lei una delusione. Ero seduto nel suo appartamento e mentre lui cercava di avviare la conversazione, io facevo barchette e cappelli di paglia con la «Trybuna Ludu». Il professore - un uomo alto e poderoso, in abito da caccia, di un tweed color sabbia, calzoni alla zuava e casacca - dev’essere rimasto sbalordito. Son convinto che sia d’indole gentile. Ha occhi celesti, da buono.
Faccia carnosa, ma ben fatta, pensosa e virile. E io che continuavo a far cappelli di carta: si vede che pensavo ai bambini. Madame Byzhkovski mi chiese se volevo della marmellata nel tè, chinandosi sopra di me con fare ospitale. I mobili erano ben lucidati, antichi, di un’epoca mitteleuropea oramai tramontata - ma se è per questo, anche l’epoca presente sta tramontando di già, e forse più in fretta delle altre. Spero che lei vorrà perdonarmi. Ho avuto modo solo ora di leggere il suo saggio sulla occupazione americana nella Germania occidentale. Ci sono molti fatti spiacevoli. Però la mia opinione, a me, non l’hanno mai chiesta né il presidente Truman, né il signor McCloy. Le confesserò di non aver mai dedicato, come avrei dovuto, molta attenzione alla questione tedesca. Penso che nessun governo sia in buona fede. E c’è anche un problema della Germania est, ma nella sua monografia lei non lo affronta neppure.
Ad Amburgo ho girato per il quartiere dei postriboli. Cioè, mi avevano detto che dovevo vederlo. C’erano prostitute, in biancheria intima di pizzo nero, che calzavano stivali militari tedeschi e ti chiamavano battendo sui vetri delle finestre con il manico del frustino. Femmine dalle carnagioni rosse, che ti chiamavano e ti facevano sorrisetti. Una giornata fredda, poco felice.
Gentile signore, scrisse Herzog, lei ha sempre avuto molta pazienza con gli accattoni della Bowery che entrano nella sua chiesa, crollano lunghi distesi ubriachi, defecano tra i banchi, spaccano le bottiglie sulle pietre tombali, e commettono tante altre sconvenienze. Vorrei suggerirle, dato che dalla porta della sua chiesa si può vedere Wall Street, di preparare un opuscolo che spieghi come la Bowery dia un senso nuovo e più sicuro al sistema capitalistico. I bassifondi costituiscono l’istituzione contrastante, e quindi necessaria. Ricordi loro Lazzaro e Epulone. Per via di Lazzaro, Epulone ricava dal proprio lusso un piacere extra, un premio speciale. No, io non credo che Epulone se la passi poi tanto bene neanche lui. E se poi vuole la libertà, lo aspetta il fatto dei bassifondi. Se in America esistesse una povertà bella, una povertà morale, sarebbe un fatto sovversivo. Per cui dev’essere per forza brutta. Per cui gli accattoni lavorano per Wall Street - proseliti della stessa fede.
Ma il Reverendo Beasley dove li prende, lui, i quattrini?
Abbiamo riflettuto troppo poco su questo.
Poi scrisse: Ufficio contabilità clienti, Marshall Field & Co.. Non assumo più nessuna responsabilità per i debiti contratti da Madeleine P. Herzog. A partire dal 10 marzo u.s. abbiamo cessato di essere marito e moglie. Perciò, non mi mandate più fatture da pagare - l’ultima mi ha tramortito: più di 400 dollari. E per acquisti fatti dopo la separazione. Va bene che avrei dovuto scrivere prima - a quello che si chiama il centro nervoso della contabilità clienti - Esisterà una cosa del genere? Dove si troverà mai? - ma avevo momentaneamente perso la trebisonda.
Caro professore Hoyle, non credo di aver capito esattamente come funziona la teoria Gold-Pore. Come i metalli più pesanti il ferro, il nichel - arrivino al centro della terra, credo di capirlo. Ma la concentrazione dei metalli più leggeri? Inoltre, nella sua spiegazione della formazione dei pianeti minori inclusa questa nostra tragica Terra - lei parla di materiali adesivi che legano gli agglomerati di materia precipitata... Sotto a lui le ruote delle carrozze rombavano. Boschi e pascoli si avvicinavano e retrocedevano, le rotaie dei binari di raccordo fasciati di ruggine, i fili che si tuffavano in corsa, e a destra l’azzurro dello Stretto, più fondo, più intenso che mai. Poi le conchiglie smaltate delle automobili dei piccoli borghesi che fanno due volte al giorno il viaggio da New York ai sobborghi, e le carcasse accatastate delle macchine rotte, le forme delle vecchie fabbriche del New England dalle finestre strette, austere; villaggi, conventi; rimorchiatori che si muovono nell’acqua rigonfia come stoffa; e poi piantagioni di pini, e tutti gli aghi disseminati su una terra di un fertile color rosso ruggine. E così, pensò Herzog, riconoscendo che la sua immaginazione dell’universo era elementare, le novae che esplodono e i mondi che nascono, gli invisibili raggi magnetici in virtù dei quali i corpi celesti si mantengono vicendevolmente in orbita. Da come la raccontano gli astronomi, si direbbe che tutta la faccenda si riduca a mettere dei gas in una beuta e poi ad agitarli. Infine, passano miliardi e miliardi di anni, anniluce, ed ecco che una creatura infantile ma tutt’altro che innocente, con un cappelluccio di paglia in testa e in petto un cuore metà puro e metà malvagio, tenta di farsi una propria tremolante immagine di tutta questa stupenda ragnatela.
Gentile dottor Bhave, ricominciò, ho letto sull’«Observer» della sua attività, e in quel momento ho pensato che mi sarebbe piaciuto far parte del suo movimento. Ho sempre molto desiderato di condurre una vita morale. Ma non sapevo da dove cominciare.
Uno non può mica mettersi a fare l’utopista. Sarebbe come accrescere la già grande difficoltà di sapere quali sono davvero i nostri doveri. Tuttavia, se si riuscisse a persuadere i grandi latifondisti a dare un po’ della loro terra ai contadini poveri... Quegli uomini scuri che attraversano a piedi l’India.
Nella sua immaginazione Herzog vedeva rilucere i loro occhi, ardere dentro di loro la luce dello spirito. Bisogna cominciare dalle ingiustizie che ciascuno di noi conosce, non dalle grandi prospettive storiche. Recentemente ho visto il filmPather Panchali. Lo conoscerà, immagino, dato che ha per tema l’India contadina. Due cose mi hanno fatto una grandissima impressione: la vecchia che tira su la polenta con le mani e più tardi va a morire nell’erba; e la morte della fanciulla sotto la pioggia.
Quando era cominciata quell’isterica nenia funebre e la madre della bambina s’era messa a piangere, anche Herzog aveva pianto, quasi solo, in quel cinema della 7a Avenue. C’era uno che suonava un corno d’ottone indiano, e ci cavava dei veri e propri singhiozzi, sull’aria d’una melopea stridula e funeraria. Pioveva anche a New York, come nell’India contadina. Gli faceva male il cuore. Anche lui aveva una figlia, e anche sua madre era stata una donna povera. Lui aveva dormito su lenzuola fatte di sacchi per la farina. La marca migliore per quell’uso era la Ceresota.
Gli ronzava una vaga idea per la testa di offrire casa e proprietà di Ludeyville al movimento Bhave. Ma che cosa se ne sarebbe fatto il Bhave? Mandare gli indù nelle Berkshires? Non sarebbe stato corretto verso gli indù. Comunque, tanto c’era un’ipoteca. Per fare una donazione ci vuole quella che si chiama “proprietà indiscussa”, ma in questo caso dovrei mettere insieme altri ottocento bigliettoni, e la Tributaria non mi accorderebbe nessuna detrazione. Probabilmente le beneficenze all’estero non contano. Però che favore gli farebbe Bhave. Quella casa era uno dei suoi sbagli più grandi. Comprata in un sogno di felicità, una vecchia bicocca, ma con immense possibilità - grandi alberi antichi, giardinetti ben disegnati che lui a tempo libero avrebbe potuto rimettere in ordine. Era nell’abbandono da anni.
Cacciatori di anitre e coppie di amanti vi entravano e se ne servivano; e quando Herzog affisse un cartello che ne annunciava la proprietà, gli amanti e i cacciatori gli cominciarono a fare scherzi. Qualcuno era venuto di notte, era entrato e aveva lasciato, sotto un piatto, sulla scrivania dove lui teneva fasci e fasci di appunti per i suoi studi sul romanticismo, un assorbente usato. Fu quella l’accoglienza che gli fecero gli indigeni. Un fuggevole bagliore d’autoironia gli passò sul viso mentre il treno sfrecciava attraverso prati e abeti bagnati dal sole. Supponiamo che accettassi. Potrei essere Moses, il vecchio ebreo di Ludeyville, con la barba bianca, che taglia l’erba sotto la cordicella dei panni con la mia antiquata falciatrice a rotella. E mangia marmotte.
Scrisse a suo cugino Asher, a Beerseva. Ti parlai di una vecchia fotografia di tuo padre in uniforme zarista. Ho chiesto a mia sorella Helen di cercarla. Asher aveva combattuto nell’Armata Rossa ed era stato ferito. Adesso faceva il saldatore elettrico ed era un uomo dall’aria corrucciata e dai gran dentoni. Aveva fatto un viaggio al Mar Morto con Moses. Faceva un caldo afoso. Si sedettero all’ingresso di una cava di sale per rinfrescarsi un po’. Asher disse: «Non hai una fotografia di mio padre?».
Egregio signor Presidente, ho ascoltato alla radio il suo recente messaggio pieno d’ottimismo e ho pensato che, almeno per quel che riguarda le tasse, v’era poco da giustificare l’ottimismo. La nuova legislazione è altamente discriminatoria e molti ritengono che accelerando l’automazione non farà altro che aggravare i problemi della disoccupazione. Questo significa che un numero sempre più grande di imberbi teppisti spadroneggeranno per le strade della città, sorvegliati da un numero sempre meno sufficiente di poliziotti. Gravi problemi di sovrappopolazione, problema razziale... Caro Doktor Professor Heidegger, vorrei sapere che cosa intende con l’espressione “caduta nel quotidiano”. Quando ha avuto luogo questa caduta? Dove stavamo noi quand’è avvenuta?
Signor Emmett Strawforth, Ufficio Americano della Sanità pubblica, scrisse. Caro Emmett, ti ho visto in televisione e hai fatto proprio una figura da cretino. Siccome siamo stati compagni di scuola al College (M.E. Herzog, maturità del ‘38) mi sento libero di dirti quello che penso del tuo modo di ragionare.
Herzog cancellò questo pezzo e cambiò l’intestazione della lettera indirizzandola al «New York Times». Ancora una volta uno scienziato governativo, il dottor Emmet Strawforth, si è fatto avanti con la Teoria del Rischio nella polemica sulla pioggia radioattiva, a cui si è aggiunto adesso il problema dei pesticidi chimici, della contaminazione dell’acqua nel terreno, ecc.. Io sono non meno preoccupato delle elucubrazioni eticopolitiche degli scienziati, che di queste altre forme di avvelenamento. Il dottor Strawforth che parla di Rachel Carson, il dottor Teller sugli effetti genetici della radioattività.
Recentemente il dottor Teller ha sostenuto che la nuova moda dei pantaloni attillati, elevando la temperatura del corpo, potrebbe aver effetto sulle ghiandole riproduttive più della stessa pioggia radioattiva. Individui rispettatissimi dai loro contemporanei si rivelano spesso dei pazzi pericolosi. Prendete il maresciallo Haig. Fece affogare centinaia di migliaia di ragazzi nella melma delle Fiandre. Lloyd George fu costretto a sostenerlo perché Haig era un personaggio di primissimo piano.
C’è gente a cui dobbiamo, ahimè, lasciar fare tutto quello che gli salta in mente. E il paradossale è che se un tizio prende l’eroina, gli possono dare 20 anni per il male che fa in definitiva solo a se stesso... A buon intenditor... Il dottor Strawforth dice che, per quel che riguarda la radioattività, dobbiamo adottare la sua Teoria del Rischio. Da Hiroshima in poi (e Truman chiama “piagnone” chi ha dei dubbi sulla decisione di Hiroshima) la vita dei paesi civili poggia le sue fondamenta sul rischio (poiché sopravvivono solo attraverso l’equilibrio del terrore). Così sostiene il dottorStrawforth. Ma poi paragona la vita umana al Rischio Calcolato del mondo degli affari. Che idea! I grossi affari non corrono rischi, come è stato rivelato dalla recente inchiesta sui grandi azionisti.
Vorrei richiamare la loro attenzione su una profezia di Tocqueville. Egli credeva che nelle democrazie moderne sarebbero diminuiti i delitti, e aumentati i vizi privati. Forse avrebbe dovuto dire che avremmo avuto meno delitti privati, e più delitti collettivi. Gran parte di questi delitti collettivi o di organizzazione sono perpetrati col preciso obiettivo di ridurre il rischio. Ora io so bene che non è cosa da niente governare questo pianeta con i suoi 2 miliardi e più di popolazione. Già il numero è qualcosa di impensabile e basta da sé a dare un’aria sorpassata a tutte le idee pratiche. Sono pochi gli intellettuali che hanno colto i principi sociali contenuti in questa trasformazione quantitativa.
La nostra è una civiltà borghese. Non uso questo termine nel senso in cui l’usava Marx. Fifone! Nel moderno lessico dell’arte e della religione, è borghese considerare che l’universo sia stato fatto per il nostro placido uso e consumo e per darci conforto, comodità e sostegno. La luce non viaggia a 300 mila km al secondo solo per permetterci di vedere mentre ci pettiniamo o per leggere sul giornale che gli ossi di prosciutto oggi costano meno di ieri. Tocqueville considerava l’impulso verso il benessere come uno degli impulsi più forti in una società democratica. Non gli possiamo rimproverare d’aver sottovalutato i poteri distruttivi generati da tale impulso. Ma sei matto, scrivere al «Times» in questa maniera? Esistono milioni di volterriani inaciditi con l’animo rigurgitante di satire rabbiose, che non fanno altro che cercare le parole più aspre e più velenose. Mandagli invece una poesia, imbecille che sei. Perché dovresti avere più ragione tu per puro squilibrio, che non loro per virtù d’organizzazione? Viaggi sui loro treni, no? La ferrovia non è stata costruita con lo squilibrio. Avanti, scrivi una poesia e annientali col tuo acidume. Ne stampano pure, delle poesiole, quando devono riempire un buco in coda all’articolo di fondo. Nonostante tutto continuò la sua lettera: Nietzsche, Whitehead e John Dewey hanno tutti scritto sul problema del Rischio... Dewey ci dice che il genere umano diffida della propria natura e tenta di ritrovare una stabilità al di là o al di sopra di essa, nella religione o nella filosofia. Per l’uomo, “passato” significa spesso “errato”. Ma qui si arrestò.
Vieni al punto. Ma qual è il punto? Il punto era che esistevano individui che avevano il potere di distruggere il genere umano e che questi individui erano degli sciocchi e dei prepotenti, dei pazzi, e dovevano essere fermamente pregati di non farlo. I nemici della vita facciano un passo avanti. E ora ogni uomo esamini il proprio cuore. Senza un profondo cambiamento di mentalità, non mi fiderei neanche di me stesso, se mi mettessero in un posto di responsabilità. Lo amo io il genere umano? Lo amerei abbastanza da risparmiarlo, se mi trovassi in posizione tale da poterlo mandare in pezzi? Dunque, ricopriamoci tutti dei nostri sudari e marciamo su Washington e Mosca. Sdraiamoci per terra, uomini, donne e bambini, e piangiamo. «Facciamo in modo che la vita continui - forse non la meritiamo, ma non dobbiamo permettere che si spenga.»
In ogni comunità c’è una categoria di persone altamente pericolose per gli altri. Non sto parlando di delinquenti. Per essi esistono sanzioni punitive. Dico i “leaders”. Invariabilmente, gli individui più pericolosi cercano di impadronirsi del potere. Mentre nei salotti dell’Indignazione al cittadino che la pensa giusta gli scoppia il cuore dalla rabbia.
Signor Direttore, noi siamo destinati ad essere schiavi di coloro che hanno il potere di distruggerci. Qui non sto più parlando di Strawforth. Lo conoscevo a scuola. Giocavamo a pingpong al Reynolds Club. Aveva una faccia bianca da natica con svariati nei, e due pollicioni grassi rivoltati in su che imprimevano una piroetta a inghippo alla palla. Clìccheteclac sul tavolo del ping-pong verde. Non credo poi che il suo Q.I. fosse granché alto (ma è anche possibile), però sgobbava sodo in matematica e chimica. Mentre io sviolinavo nei campi. Come le cavallette in quella canzone che piaceva tanto a Junie:
Tre cavallette suonavano il violone
senza pagare un soldo di pigione
per tutto il giorno col braccio piegato
cavata, archeggio, tremolo e staccato
la canzoncina del Tantirullera
la canzoncina del Tantirullà.
Messo di buonumore, Moses cominciò a sorridere. Il viso gli s’increspò di tenerezza al pensiero dei suoi bambini. Come capiscono bene che cos’è l’amore, i bambini! Marco stava entrando nell’età dei silenzi e delle scontrosità con il padre, ma Junie era esattamente come era stato Marco una volta. Gli saliva in piedi sulle ginocchia per pettinarlo. I suoi piedini gli pesticciavano le cosce. Lui si abbracciava quelle ossicine con fame paterna mentre l’alito di lei sul suo viso lo commuoveva fin nel profondo.
Aveva portato la bambina a spasso in carrozzina per la Midway, salutando studenti e colleghi di facoltà con un colpetto della mano alla tesa del cappello di velours verde, un verde più muschioso di quello dei pendii e dei prati a conca davanti alle case. Sotto le falde della cuffietta di velluto, la piccola aveva gli stessi lineamenti del papà - così pensava lui. Le sorrideva con grandi increspature nella pelle, gli occhi scuri, recitandole strofette e poesiole:
C’era una volta una vecchina
che volava in un canestro
diciassette volte più in alto della luna.
«Ancora» diceva la bambina.
E dove andasse
nessuno sapeva
perché cavalcava un manico di scopa.
«Ancora, ancora!»
Il vento caldo del lago sospingeva Moses verso ponente, oltre i grigi casamenti neogotici. Per lo meno, lui aveva la piccina, mentre mamma e il suo amante si stavano spogliando in qualche camera da letto. E se quei due, pur in quell’amplesso di lussuria e infedeltà, avevano dalla loro vita e natura, lui si sarebbe tirato silenziosamente da parte. Sì, avrebbe fatto una riverenza, e sarebbe uscito di scena.
* * *
Il controllore (d’una specie in via d’estinzione, l’antica razza dei controllori dalla faccia grigia) prese il biglietto dal nastro del cappello di Herzog. Mentre lo bucava, sembrava stesse per dire qualche cosa. Forse il cappello di paglia gli aveva fatto tornare in mente i vecchi tempi. Ma Herzog correva ormai verso la conclusione della sua lettera. Anche se fosse il re dei filosofi, perché dare a Strawforth il potere di manomettere le basi genetiche della vita, di inquinare l’atmosfera e le acque della terra? So che è da malati di fegato fare gli indignati. Tuttavia...
Il controllore infilò un talloncino di cartone, bucato, sotto la targhetta di metallo col numero del posto, e se ne andò, lasciando Moses che continuava a scrivere sulla sua valigia.
Certo, sarebbe potuto andare nella carrozza bar, dove c’erano dei tavoli, ma avrebbe dovuto ordinare da bere, parlare con la gente.
E poi aveva da scrivere una lettera importantissima, quella al dottor Edvig, lo psichiatra di Chicago.
Allora, Edvig, scrisse Herzog, ti riveli pure tu un mascalzone, che pietà! Eh no, non era quello il modo per esordire. Ricominciò da capo. Mio caro Edvig, ho qualche notiziola da darle. Sì, sì, molto meglio così. Una cosa che lo esasperava, in Edvig, era che si comportava come se lui fosse l’unico ad avere notizie da dare: quest’anglo-celtico d’un Edvig, nordico e protestante, con la sua barbettina brizzolata, i capelli ondulati, rigonfi, sapientemente pettinati, e gli occhiali, rotondi, puliti e luccicanti. Lo ammetto, quando mi son presentato da lei ero mal ridotto. Madeleine mi aveva imposto, come condizione perché restassimo insieme, il trattamento psichiatrico. A lei disse, se ricorda bene, che mi trovavo in condizioni mentali pericolose. Lo psichiatra, però, mi fu concesso di sceglierlo come volevo io. Naturalmente ne presi uno che aveva scritto su Barth, Tillich, Brunner, ecc..
Soprattutto perché mia moglie, benché ebrea, aveva avuto una fase cristiana, convertendosi al cattolicesimo, e io speravo che lei potesse aiutarmi a comprenderla. Invece, mise anche lei gli occhi su Madeleine. Proprio così, non lo potrà mica negare; più io le venivo raccontando com’era bella, e che cervello brillante e equilibrato aveva, e per giunta com’era religiosa, e più lei se ne sentiva attratto. E intanto quella donna e Gersbach dirigevano e pianificavano ogni mio passo. Pensavano che un conciateste mi avrebbe potuto aiutare a ritrovare la calma - ero un malato, un uomo tremendamente nevrotico, forse un caso disperato. E se non altro la cura mi avrebbe tenuto occupato, assorbito tutto nel mio caso personale. Quattro pomeriggi alla settimana, così, sapevano dove ero: su un divano - mentre loro se ne stavano tranquilli nel letto. Ero sull’orlo della crisi il giorno che venni da lei: tempo umido, neve gocciolante, l’autobus surriscaldato. Né di certo aveva giovato molto la neve a raffreddarmi le idee. La strada ingombra di foglie gialle. E quella vecchia col cappelluccio di felpa verde, un verde tranquillo, che le stava in testa come un sacco afflosciato a pieghe morbide. Ma non era poi una giornata così brutta. Edvig mi disse che non era vero, che non avevo affatto perso la bussola.
Ma, semplicemente, che ero un tipo reattivo-depressivo.
«Eppure Madeleine dice che sono pazzo. Che io...» Tremante di passione, con l’angoscia che gli contraeva il volto, gli serrava la gola, l’addolorava. Però fu incoraggiato dalla gentilezza del barbuto sorriso di Edvig. Fece del suo meglio perché Edvig si sbottonasse, ma che cosa poteva mai rispondergli Edvig, seduta stante? Soltanto che i depressi tendono a crearsi angosciose situazioni di dipendenza dagli altri, e che se si sentono tagliati fuori, se si sentono minacciati da una perdita, diventano isterici. «Evidentemente» aggiunse «da quanto lei mi dice, neppur lei è senza macchia. Sua moglie pare comunque una persona collerica. Quand’è che ha lasciato la Chiesa?»
«Con certezza, non lo so. Ero convinto che fosse ormai una cosa del passato remoto. Senonché, l’ultimo mercoledì delle Ceneri, le ho scoperto la fronte sporca di fuliggine. Le ho detto: “Madeleine, credevo che non fossi più cattolica. Invece, cosa vedo tra i tuoi occhi: è cenere?”. Lo sa cosa m’ha risposto? “Non so di cosa tu stia parlando.” Ha cercato di farmi passare per visionario, insomma. Ma non era un’allucinazione. Quella era una macchia. Giuro che per lo meno era un mezza macchia di sporco. Ma evidentemente lei pensa che un ebreo come me, cosa può saperne di queste faccende?»
Herzog s’avvedeva che Edvig si beveva affascinato ogni parola che riguardasse Madeleine. Ad ogni frase, annuendo, alzava la testa, sollevava il mento, si toccava la barba ordinata, le lenti che luccicavano, sorrideva. «Crede che sia cristiana?»
«È che lei mi considera un fariseo. Lo dice pure.»
«Ah sì?» ribatté Edvig vivacemente.
«Come: ah sì?» disse Moses. «È d’accordo con mia moglie?»
«Ma come potrei? La conosco appena, caro signore. Piuttosto cosa ne pensa, lei, della questione?»
«E lei crede che un cristiano del ventesimo secolo ha diritto di parlare di ebrei farisei? Da un punto di vista ebraico, sa, quello attuale non è stato uno dei periodi migliori della storia del cristianesimo.»
«Ma lei crede che sua moglie abbia una concezione cristiana del mondo?»
«Io credo che mia moglie abbia una concezione molto raffazzonata dei problemi spirituali.» Herzog si tirò a sedere più eretto sulla sedia e pronunciò quelle parole con un tono, forse, leggermente funereo. «Io non sono d’accordo con Nietzsche che Gesù Cristo abbia introdotto la malattia nel mondo, che lo abbia ammorbato con la sua morale da schiavo. Ma anche Nietzsche aveva una visione cristiana della storia, perché vedeva il presente sempre come crisi, come momento di decadenza dalla grandezza classica, come corruzione o male da cui bisogna salvarsi. Questa, per conto mio, è concezione cristiana. Ed è il modo di vedere di Madeleine, appunto. In un certo senso, anche di molti di noi. Pensiamo di dover guarire dagli effetti di qualche veleno, di aver bisogno di salvarci, di redimerci. Madeleine vuole un redentore, e io per lei sono tutto tranne che un redentore»
Era proprio quello che Edvig s’era aspettato da Moses.
Stringendosi nelle spalle e sorridendo, prese tutto come materiale buono per l’analisi e parve molto compiaciuto. Era un uomo giusto, pacato; le sue spalle avevano una certa esile quadratura. I suoi occhiali all’antica, con una montatura rosa quasi sbiadita, gli davano un’aria dimessa, umile, riflessiva e dottorale.
A poco a poco, non so neanche con precisione come accadde, Madeleine diventò la figura principale dell’analisi, e la dominò, proprio come dominava me e, poi, finì per dominare anche lei.
Cominciai ad accorgermi che lei moriva dalla voglia di conoscerla. Mi disse che, dati gli aspetti insoliti del caso, le sarebbe stato utile avere un colloquio con mia moglie. Di lì a poco, lei si trovò impegolato in tremende discussioni religiose con Madeleine. E alla fine prese in cura anche mia moglie. Mi disse che capiva come avesse potuto affascinarmi, e io a rispondere: «Gliel’avevo detto che è una donna straordinaria. È brillante, quell’arpia. Fa paura, tant’è brillante!». E così, se non altro, adesso lo sapeva anche lei, che se mi ero rincitrullito, non era stato per una donna qualunque. Quanto a Mady, menando per il naso anche lei, non fece altro che arricchire il proprio curriculum. Ne ricavò qualche vantaggio in profondità. E siccome stava preparandosi alla libera docenza, credo, in storia delle religioni russe, lei, caro il mio dottore, le ha fornito per parecchi mesi, con le sue sedute a venticinque bigliettoni a botta, un corso completo di lezioni sul cristianesimo orientale. Dopo di che, Madeleine cominciò a manifestare strani sintomi.
Prima di tutto, accusò Moses di avere assunto un detective per spiarla. Esordì nel suo atto d’accusa con quell’accento leggermente britannico che lui aveva ormai imparato a riconoscere come sicuro annuncio di burrasca. «Eppure avrei creduto» cominciò col dirgli «che tu fossi troppo furbo per assumere un tipo così banale.»
«Assumere?» aveva ribattuto Herzog. «Ma chi ho assunto?»
«Mi riferisco a quel tipo orrendo: quel grassone puzzolente con la giacca sportiva.» Madeleine, assolutamente sicura di sé, gli aveva lanciato uno dei suoi terribili sguardi. «Ti sfido a negarlo. Ed è una cosa semplicemente ignobile.»
Vedendo com’era pallida, Moses si impose di star calmo e soprattutto di non tirare in ballo la pronuncia britannica. «Ma Mady, il tuo è semplicemente un errore.»
«Macché errore. Non mi sarei mai sognata che tu fossi capace di questo.»
«Ma se non so nemmeno di che cosa stai parlando.»
La voce di Madeleine ora cominciò a farsi più acuta e tremante.
Inferocita, disse: «Sei un figlio di puttana! E non farmi di queste moine, sai. Io li conosco tutti, i tuoi trucchetti del cazzo». Poi urlò: «Questo deve finire! Non voglio piedipiatti che mi vengano dietro, capito?». Quegli occhi meravigliosi, sgranati, s’erano fatti tutti rossi.
«Ma perché mai dovrei farti pedinare, Mady? Non capisco. E per venire a sapere cosa, poi?»
«Senti, quell’uomo mi ha seguita passo passo dentro il FField’s, per tutto il pomeriggio.» Parlando, spesso incespicava, quand’era infuriata. «Ho aspettato mezz’ora nella to-toletta, e quando sono uscita, quello stava ancora là. E poi sotto il tunnel della metropolitana... mentre m’ero fermata a comprare dei f-ffiori.»
«Sarà stato, forse, uno che ti voleva abbordare. Cosa c’entro io?»
«Quello era un piedipiatti!» Strinse i pugni. Le sue labbra ora erano sottilissime, e il corpo le tremava tutto. «Era seduto sulla veranda della casa qui accanto, quando sono tornata a casa oggi pomeriggio.»
Moses, pallido, disse: «Fammelo vedere, Mady. Ci andrò io... Basta che tu me lo indichi».
Edvig lo definì un episodio di paranoia, ed Herzog disse: «Ma davvero?». Prese un momento in considerazione la cosa, e quindi esclamò, in un impeto di sentimento, guardando il dottore a occhi sbarrati: «Così lei crede veramente che sia stata un’allucinazione? Come dire che ha la mente sconvolta? che è pazza?».
Edvig rispose, cautamente, misurando le parole: «Un incidente del genere non significa pazzia. Intendevo esattamente quel che ho detto: un episodio di paranoia».
«Ma è lei dunque che è malata, più malata di me.»
Ah povera ragazza! Era un caso clinico. Ma sì, era vero, stava poco bene. Per i malati, Moses sentiva sempre una particolare compassione. Rassicurò Edvig: «Se sul serio è nello stato che lei dice, bisognerà che stia attento. Devo cercare di aver cura di lei».
La carità, come se non fosse già abbastanza complicata nei tempi in cui ci troviamo, desterà sempre il sospetto di essere qualcosa di morboso - sado-masochismo, o chissà che perversione. Le tendenze elevate o morali destano sempre il sospetto di essere imbrogli. Ci limitiamo ad onorarle con parole vetuste, ma le tradiamo o le smentiamo senza minimamente scomporci. Comunque, Edvig non si congratulò con Moses per essersi preso l’impegno d’occuparsi di Madeleine.
«È mio dovere» si limitò a dire «informare la signora di questa sua tendenza.»
Ma Madeleine non parve molto scossa dal fatto che un medico la mettesse in guardia contro le allucinazioni paranoiche. Disse che sentirsi dare dell’anormale non le risultava affatto nuovo. Anzi, prese la cosa con calma. «Così, almeno, non ci sarà un momento di noia» si limitò a rispondere a Herzog.
E i guai infatti non erano ancora finiti. Per un paio di settimane, il furgoncino delle consegne dei magazzini Field’s continuò a recapitare gioielli, scatole per sigarette, soprabiti e vestiti, lumi, tappeti, quasi quotidianamente. Madeleine non riusciva a ricordarsi di aver fatto quegli acquisti. In dieci giorni arrivò a mettere insieme un conto per mille e duecento dollari. Erano tutti articoli di primissima qualità, bellissimi almeno un motivo di soddisfazione c’era. Faceva le cose in grande stile, lei, anche quando era un po’ squilibrata. Nel rimandare indietro tutte quelle cose Moses sentiva una gran tenerezza per sua moglie. Edvig predisse che non sarebbe mai caduta in una vera psicosi, ma che per tutto il resto della vita avrebbe avuto, di tanto in tanto, parentesi del genere. Una tristezza, per Moses; ma forse quei suoi sospiri esprimevano anche un po’ di soddisfazione. Chissà.
Quel diluvio di acquisti cessò presto. Madeleine tornò ai suoi studi di libera docenza. Ma una notte che Herzog, in mezzo al disordine della camera da letto, e già nudi tutti e due, nel sollevare il lenzuolo, si lasciò scappare un rimbrotto un po’ aspro a proposito dei libracci vecchi che ci aveva trovato sotto (volumoni polverosi di una vecchissima enciclopedia russa), lei perdette le staffe. Cominciò a urlare e a inveire, a buttarsi sul letto, a stracciare le federe e le lenzuola, a sbattere i libri sul pavimento, e poi ficcò le unghie nei guanciali, emettendo urla strozzate, selvagge. Sul materasso c’era una fodera di plastica, lei l’afferrò e la torse, sempre inveendo contro di lui a strilli, a grida inarticolate, con una strana bava bianca agli angoli della bocca.
Herzog tirò su la lampada ribaltata. «Madeleine, non credi che faresti bene a prendere qualcosa... per questo?» Stupidamente, allungò una mano per cercare di calmarla, ma nello stesso istante lei si rialzò e lo percosse in faccia, ma troppo maldestramente per fargli male. Lo aggredì a pugni, non picchiando a piccoli scatti come fanno le donne, ma dandoci dentro come una scazzottatrice da strada, con le nocche. Herzog si rigirò e si prese quei colpi sulla schiena. Cosa poteva fare? Era malata.
Forse è stato meglio non averla picchiata. Avrei potuto farla rinnamorare. Ma posso dirle che quella mia remissività durante le sue crisi la rendeva furiosa, come se io stessi cercando di vincerla al gioco della religione. So bene che con lei Madeleine ha discusso d’agape e d’altri simili sublimi concetti, ma bastava che ne scorgesse anche il minimo indizio in me, e andava in bestia. Diceva che recitavo la commedia. Dato che nella sua testa di paranoica io ero un uomo disintegrato nei suoi elementi base.
È per questo che avanzo l’ipotesi che se le avessi dato una bella frustata, il suo modo di fare sarebbe potuto cambiare.
Forse la paranoia è lo stato mentale normale nei selvaggi. E se anche la mia anima provava, fuori tempo e fuori luogo, emozioni così elevate, come si poteva farmi credito? Lei, certo non me ne avrebbe fatto, dottore, sospettoso com’è verso le buone intenzioni. Ho letto quella roba che lei ha scritto sul realismo psicologico di Calvino. Spero che non se l’abbia a male se le dico che rivela uno schifoso, vigliacco e maligno concetto della natura umana. È così che io lo vedo, il suo freudismo protestante.
Edvig era rimasto tranquillamente seduto, durante tutta la descrizione che Herzog gli aveva fatto della rissa nella camera da letto, appena sorridendo un poco. Quindi disse: «Per quale ragione suppone che sia avvenuta?».
«Per qualcosa che riguardava i libri, forse. Interferenza con i suoi studi. Se io dico che la casa è sporca, che puzza, lei si crede che io denigri la sua intelligenza e che la voglia costringere a tornare ai fornelli. Mancanza di rispetto dei suoi diritti come persona...»
Ma le reazioni emotive di Edvig non gli diedero nessuna soddisfazione. Quando aveva bisogno di uno slancio di sentimento, Herzog lo doveva andare a cercare in Valentine Gersbach. E così, andò a esporgli le sue tribolazioni. Ma la prima cosa che dovette affrontare, suonando il campanello di Gersbach, fu la freddezza (non riusciva a spiegarsela) di Phoebe Gersbach, che venne ad aprirgli. Era molto sciupata, rinsecchita, pallida, tesa.
Naturale - il paesaggio del Connecticut galoppava, si impennava, si inarcava, schiudeva le proprie profondità e rilucevano le acque dell’Atlantico - naturale, Phoebe sapeva che il marito dormiva con Madeleine. E Phoebe aveva un solo interesse nella vita, uno scopo solo, tenersi il marito e proteggere il figlio.
Al suono del campanello, andò ad aprire la porta a quel povero gonzo sentimentalone d’un Herzog dei sette dolori. Era venuto a vedere l’amico.
Phoebe non era una donna forte: la sua energia era limitata; doveva aver sorpassato la fase dell’ironia. E in quanto alla pietà, perché avrebbe dovuto aver pietà di lui? Non per l’adulterio subìto - era una cosa troppo banale per esser presa sul serio dall’una o dall’altro. In tutti i modi, per lei, possedere un corpo come quello di Madeleine non avrebbe mai potuto significare gran che. Avrebbe potuto aver pietà delle stupide maniere da intellettualone di Herzog, del suo goffo modo di collocare i suoi dispiaceri in categorie astrattamente cerebrali; o anche solo della sua sofferenza. Ma probabilmente aveva capacità sentimentale sufficiente solo per tirare avanti la propria esistenza, e basta. Moses sapeva bene che lei lo incolpava di aver montato la testa a Valentine - il personaggio Gersbach, il poeta Gersbach, l’intellettuale della televisione, quello che teneva conferenze su Martin Buber alle pie dame dell’Hadassàh. Era stato proprio Herzog ad introdurlo nella Chicago culturale.
«Val è in camera sua» gli disse. «Scusa, devo preparare il bambino per il Tempio.»
Gersbach stava montando delle mensole per una libreria.
Massiccio, pesante, lento nei movimenti. Gersbach misurava il legno, la parete, e segnava cifre sul muro. Maneggiava la livella con grande disinvoltura, esaminava i tenditori. Col suo faccione spesso, rubizzo, giudizioso, il torace ampio e la gamba artificiale che lo faceva stare inclinato, era tutto concentrato nella scelta d’una punta per il trapano elettrico, mentre ascoltava Herzog che gli raccontava dello strano scoppio di violenza di Madeleine.
«Stavamo andando a letto.»
«Be’?» Faceva sforzi per essere paziente.
«Nudi tutti e due.»
«Le hai fatto delle avances?» disse Gersbach, e c’era una nota di severità nella sua voce.
«Io? No. S’è costruita intorno una muraglia di libri russi, lei. Vladimiro re di Kiev, il patriarca Tichon Zadonskij. Nel mio letto! Non basta che quelli m’hanno perseguitato gli antenati! Fa man bassa in biblioteca, lei. Roba che va a scovare in cima a scaffali a cui nessuno da cinquant’anni mette più mano. Le lenzuola sono piene di briciole di carta ingiallita.»
«Tu hai ricominciato con le lamentele?»
«Forse, un po’. Gusci d’uovo, ossi di cotolette, barattoli di latta sotto il tavolo, sotto il divano... È un cattivo esempio per June.»
«È qui il tuo sbaglio! Proprio qui - lei non lo manda giù quel tono da vittima, quel brontolare. Se tu pretendi ch’io ti aiuti a raddrizzare questa faccenda, bisogna che te lo dica. Tu e lei non è un segreto per nessuno - siete le due persone a cui voglio più bene. Sicché ti debbo avvertire, chavèr, (7) falla finita con tutti questi dettagli dell’accidente. Metti da parte tutta questa merda, vieni al sodo e cerca di essere più franco e serio che puoi.»
«Lo so» disse Herzog «Madeleine sta attraversando una lunga crisi - alla ricerca di se stessa. E so pure che, a volte, io ho un tono antipatico. Ne ho discusso anche con Edvig. Ma domenica sera...»
«Sei sicuro di non averle fatto un’avance?»
«Ma no, avevamo fatto l’amore anche la notte prima.»
Gersbach sembrò arrabbiatissimo. Guardò Moses con i suoi occhi rossicci tutti infuocati, e disse: «Non t’ho chiesto questo. La mia domanda si riferiva soltanto a domenica sera. Ma impara a stare in tema, per Dio! Se tu non sei franco con me, io non posso fare un porcaccio d’accidenti per te».
«E perché non dovrei essere franco con te?» Moses era strabiliato da quella veemenza, dallo sguardo lampeggiante e feroce di Gersbach.
«No, che non lo sei. Sei evasivo come un accidente.»
Moses rifletté a quell’accusa, sotto il cupo sguardo rossobruno di Gersbach. Aveva occhi da profeta, gli occhi di uno shofèt, (8) sì, di un giudice d’Israele, di un re. Che tipo misterioso, questo Valentine Gersbach. «Avevamo fatto l’amore la sera prima. Ma appena finito, lei aveva acceso la luce, aveva preso uno di quei volumoni russi polverosi, se l’era piantato sul petto, e giù a leggere a tutto spiano. Non m’ero ancora staccato dal suo corpo e lei già allungava il braccio per prendere il libro. Non un bacio. Non un’ultima carezza. Solo il naso, che faceva dei piccoli movimenti a scatti.»
Valentine ebbe un pallido sorriso. «Forse fareste bene a dormire separati.»
«Mi potrei trasferire nella camera della bambina, mettiamo. Ma è una bambina già tanto nervosa. La notte gira per casa col suo pigiamino a tuta. Mi sveglio e me la trovo accanto al letto. Spesso bagnata. Risente della tensione, capisci.»
«Ah no, lascia stare la bambina, adesso. Non approfittartene, per tuo comodo, in questa faccenda.»
Herzog chinò il capo. Si sentiva minacciato dalle lacrime.
Gersbach sospirò e cominciò a camminare lungo la parete, lentamente, piegandosi e raddrizzandosi come un gondoliere. «Ti ho spiegato la settimana scorsa...» disse.
«È meglio che tu me lo dica un’altra volta. Sono in uno stato tale...» disse Herzog.
«Senti me, adesso. Ritorneremo su tutta la faccenda.»
Il dolore alterava profondamente - feriva, addirittura - il bel volto di Herzog. Tutti coloro che egli aveva mai offeso con la sua presunzione potevano ritenersi vendicati, ora, vedendo com’era devastato. Il mutamento era quasi comico. E la concione che Gersbach s’era messo a fargli, così energica, così veemente, grossolana, comica anch’essa, parodia della nostalgia che ha l’intellettuale per un senso più alto, più profondo, più nobile.
Moses sedeva accanto alla finestra, in pieno sole, e ascoltava.
Le tende e le bacchette dorate giacevano sul tavolo, insieme con le mensole e i libri. «Di una cosa puoi star certo, bruder» (9) disse Valentine. «Io non ci ho nessuno interesse. Non ho preconcetti, io, in questa faccenda.» Valentine amava usare espressioni yiddish, usarle a sproposito, anzi. L’ambiente yiddish in cui Herzog era cresciuto aveva più classe. Non era senza un’istintiva snobberia che udiva l’accento da macellaio, da carrettiere, da persona ordinaria, di Valentine, e se ne sentiva mortificato - Oddio! quegli antichi pregiudizi familiari, quelle assurdità di un mondo perduto.
«Bando a ogni shtick» (10) diceva Gersbach. «Facciamo conto che tu sia un farabutto. Facciamo conto che tu sia un criminale. Niente - capisci? niente! - potresti fare per minare la nostra amicizia. E questa non è merda, lo sai bene! E io posso anche mandarlo giù, quello che m’hai fatto.»
Moses, nuovamente strabiliato, chiese: «E che t’ho fatto?».
«Oh, al diavolo, chi se ne importa. Hob es in dr’erd. (11) Lo so che Mady è una carogna. Ma cosa credi, che io non abbia mai avuto voglia di prendere Phoebe a calci nel sedere? Quella kljippa! (12) Ma questa è la natura femminile.» Fece un movimento brusco con la testa per rimettersi a posto l’abbondante capigliatura, che aveva toni cupamente fiammeggianti. Sul collo, però, era tagliata con molta rozzezza. «Tu l’hai aiutata per un po’, e va bene. Lo so, lo so. Ma se lei ha un padre schifoso e una kwetch (130) di madre, che ci può fare un uomo? E in più non si può nemmeno aspettare niente in cambio.»
«Be’, si capisce. Però io in poco più d’un anno, ci ho speso ventimila dollari. Tutto quello che avevo ereditato. Adesso ci ritroviamo in questo buco schifoso sul Lake Park coi treni della metropolitana che passano avanti e indietro tutta la notte. Le tubature che puzzano. La casa che è tutta sporcizia e mondezza e libri russi e roba della bambina da lavare. E io che porto indietro al negozio i vuoti della Coca Cola, passo l’aspirapolvere, brucio le cartacce e dappertutto raccolgo ossi di cotoletta.»
«Quella stratega ti sta mettendo alla prova. Tu sei un professore importante, invitato ai congressi, hai una corrispondenza internazionale. Lei vuole che tu ammetta anche la sua importanza. Tu sei un ferimmter mensch.»
Moses, Dio ne scampi, quello non poteva lasciarlo passare.
Disse placidamente: «Berimmter». (141)
«Fe-be, chi se ne frega. Forse non è tanto la tua reputazione quanto il tuo egoismo. Tu potresti essere un vero mensch. Ci hai la stoffa. Ma stai sputtanando tutto con il tuo egoismo di merda. Capirai - una persona così di pregio che muore d’amore. Dolore. Tutte fregnacce!»
Avere a che fare con Valentine era come trattare con un re.
Aveva una presa di ferro. Avrebbe potuto tenere uno scettro. Era un re, lui, un re dei sentimenti, e il suo regno era in fondo al cuore. Si appropriava di tutte le emozioni che lo circondavano, come per un diritto divino o spirituale. Sapeva farle rendere di più, lui, perciò se le accollava. Lui era grande, grosso, troppo grande per qualsiasi cosa che non fosse la verità. (E dài, la verità!) Herzog aveva un debole per la grandezza, e persino per la grandezza fasulla (era mai totalmente fasulla?).
Uscirono a schiarirsi un po’ le idee nell’aria fresca dell’inverno. Gersbach col suo cappottone imbottito e impermeabile e con cinta, a capo scoperto, esalante vapore, scalciava fra la neve con quella sua gambona che pareva un maglio. Moses si teneva calata, con la mano, la tesa del cappello di velours verde smorto. I suoi occhi non sopportavano il riflesso.
Valentine parlò come uno emerso da terribili sconfitte, un sopravvissuto a sofferenze che pochi riuscivano nemmeno a immaginare. Il padre era morto di arteriosclerosi. Anche a lui sarebbe venuta, se l’aspettava quella morte. Parlava della morte con maestà - non c’è altra parola - con occhi tanto spiritati, che ti stupivano: occhi grandi, pieni di cose, vivissimi, o, pensò Herzog, come il brodo della sua anima, caldi e lucenti.
«Come quando ho perduto la gamba» disse Gersbach. «Avevo sette anni, a Saratoga Springs, e correvo dietro all’uomo dei palloni; lui suonava il suo piccolo faifel. (152) Quando ho preso quella scorciatoia per i depositi dei carri merci, sgattaiolando sotto i vagoni. Fortuna che il frenatore s’accorse di me appena la ruota mi tranciò via la gamba. M’involtò nel suo cappotto e si precipitò all’ospedale. Quando rinvenni, mi colava il sangue dal naso. Solo nella stanza.» Moses ascoltava, bianco, da non cambiare il colore col ghiaccio. «Mi piego in avanti» continuò Gersbach, come se raccontasse un miracolo. «Una goccia di sangue cade sul pavimento, e mentre s’allarga vedo un topolino sotto il letto che sembra fissare la chiazza. Indietreggia, muove la coda, e i baffi. E la camera era tutta dorata di sole...» (ci sono tempeste anche di sole, ma qui tutto è pacifico e temperato, pensò Moses). «Era un piccolo mondo, quello là sotto il letto. E solo dopo mi resi conto che la mia gamba non c’era più.»
Valentine non avrebbe mai ammesso che erano lacrime di autocompassione, quelle che aveva negli occhi. No: ma chi se ne frega, avrebbe detto. Non per sé. Erano per il ragazzino d’allora. Anche Moses aveva aneddoti personali che aveva raccontato cento volte: come lamentarsi perciò se Gersbach si ripeteva? Ogni uomo ha il suo piccolo repertorio. Ma Gersbach quasi sempre dava nella lacrima, ed era una cosa curiosa, perché allora le lunghe ciglia ramate gli si appiccicavano e impastavano; era tenerello, ma con un’aria rude, con la faccia larga e ruvida, coi peli, forti, e il mento decisamente brutale.
E Moses, per non smentirsi, ammetteva che sì, l’uomo più ha sofferto e più è speciale, e concedeva volentieri che Gersbach aveva sofferto più aspramente di lui, e che quella tortura sotto le ruote del vagone merci doveva essere stata assai più acuta di qualunque sofferenza avesse mai patito lui. Il viso tormentato di Gersbach era bianco di gesso, trafitto dai peli rilucenti della sua barba rossa. Il labbro inferiore era quasi scomparso sotto quello superiore. Il suo grande, incandescente dolore! Dolore liquefatto!
* * *
Dott. Edvig, scrisse Herzog, è sua opinione, più volte ripetuta, che Madeleine possegga una natura profondamente religiosa. Al tempo della sua conversione, prima che ci sposassimo, io sono andato in chiesa con lei più di una volta. Ricordo chiaramente... A New York...
Per insistenza di lei. Una mattina, che Herzog l’aveva accompagnata in taxi fin sulla soglia della chiesa, lei gli disse che doveva entrare. Doveva. Disse che tra loro non era possibile alcun rapporto se lui non rispettava la sua fede. «Ma io non me ne intendo di chiese» disse Moses.
Lei scese dal taxi e cominciò a salire le scale in fretta, sicura che lui l’avrebbe seguita. Lui pagò l’autista e la raggiunse. Lei aprì la porta a vento sospingendola con la spalla.
Mise la mano nell’acquasantiera e si segnò, come se l’avesse fatto tutta la vita. L’aveva imparato al cinema, probabilmente.
Ma quell’aria di terribile convinzione e perplessità commista a supplica dipintale sul viso - quella da dove le veniva? Madeleine col tailleurino grigio col collo di scoiattolo, e il grande cappello, si avviava frettolosamente verso l’interno della chiesa sui suoi tacchi alti. Lui le andò dietro piano, tirandosi sul collo il bavero del soprabito sale e pepe, mentre si toglieva il cappello. Il corpo di Madeleine sembrava tutto raccolto in alto, nel petto e nelle spalle, e il suo viso era rosso di eccitazione.
I capelli erano raccolti indietro e tirati sotto il cappello, ma ne scappavano via piccole ciocche che le formavano dei riccioli lungo le gote. La chiesa era una costruzione nuova - piccola, fredda, buia, la vernice brillava crudamente sui banchi di quercia, e macchie di fiamma si ergevano immobili vicino all’altare. Madeleine si genuflesse nel passaggio tra le due file di banchi. Solo che era più di una genuflessione. Si lasciò cadere, si accasciò in terra, voleva stendersi sul pavimento e premere il cuore su quelle tavole - lui lo capiva. Facendosi ombra sul viso da ambo i lati, come un cavallo coi paraocchi, egli si sedette ad un banco. Che ci faceva lui lì? Lui era un marito, un padre. Era sposato, era ebreo. Perché era in chiesa?
Le campanelle tintinnarono. Il prete, veloce e arido, snocciolò il suo latino. Nelle risposte, la voce nitida di Madeleine guidava le altre. Si fece il segno della croce. Si genuflesse nel corridoio. E poi si ritrovarono in strada e il viso di lei aveva ripreso il suo colore normale. Sorrise e disse: «Andiamo in qualche bel posto a fare colazione».
Moses disse all’autista di portarli al Plaza.
«Ma non ho il vestito adatto» disse lei.
«In questo caso, ti porterò in latteria, da Steinberg’s, tanto io lo preferisco comunque.»
Ma Madeleine si stava già mettendo il rossetto, si aggiustava gli sbuffi della camicetta, si assicurava che il cappello le stesse bene. Come sapeva essere bella, Madeleine! Il suo viso era allegro e tondo, rosato, l’azzurro dei suoi occhi limpido e chiaro. Molto diverso dal gelo terrificante delle sue furie mestruali, lo sguardo dell’assassina. Il guardaporte, dal suo rifugio rococò, ci venne incontro di corsa all’ingresso del Plaza. Il vento tirava forte. Lei scivolò nell’atrio. Palme e tappeti dalle sfumature rosa, dorature, valletti.
Non capisco bene cosa lei voglia dire con “religiosa”. Una donna religiosa può scoprire di non amare l’amante o il marito.
Ma, e se lo odiasse? Che cosa accadrebbe se ella ne desiderasse di continuo la morte? E se la desiderasse più fervidamente proprio mentre fanno l’amore? E se durante l’atto d’amore lui scorgesse nei suoi occhi azzurri risplendere quel desiderio? come una preghiera verginale? Ora, io non sono uno sciocco, dott. Edvig. Spesso mi piacerebbe esserlo. Non serve a molto avere una mente complessa senza effettivamente essere un filosofo. Non pretendo che una donna religiosa sia un’amabile e santa gattina.
Ma mi piacerebbe sapere come ha fatto lei a stabilire che era profondamente religiosa.
Mi sono trovato, non so come, nel mezzo di una gara a chi era più religioso. Lei, Madeleine, Valentine Gersbach, tutti che mi parlavano di religione - e così mi ci sono provato. Per vedere come ci si sentiva ad agire con umiltà. Come se quella passività idiota o quello strisciare masochistico o quella vigliaccheria fossero umiltà, o obbedienza, e non terribile decadenza.
Obbrobrioso! Ah, paziente Griselda Herzog! Ho installato le doppie finestre come un atto d’amore, ho lasciato la mia piccola ben provvista per tutte le necessità, pagato l’affitto e il riscaldamento e il telefono e l’assicurazione, e ho fatto le valigie. E appena me ne andai, Madeleine, la Santa, come dice lei, dottore, mandò la mia fotografia agli sbirri. Se mai osavo rimettere piede sulla veranda di casa nostra per vedere mia figlia, lei chiamava la polizia. Aveva pronto il mandato di cattura. La bimba veniva condotta da me, e riaccompagnata a casa da Valentine Gersbach, che mi offriva anche consigli e consolazioni, religione. Mi portava dei libri (di Martin Buber).
Mi impose di studiarli. Mi misi a leggere Tu ed io, Fra Dio e l’Uomo, La fede profetica, con una febbre di nervosismo. Poi li discutevamo insieme.
Certamente lei conoscerà il pensiero di Buber. È un errore mutare un uomo (soggetto) in una cosa (oggetto). Attraverso il dialogo spirituale, il rapporto Io-Esso diventa una relazione IoTu. Dio va e viene nell’anima dell’uomo. E gli uomini vanno e vengono nelle anime degli altri uomini. Ma qualche volta vanno e vengono anche nei letti degli altri uomini. Tu con un uomo hai un dialogo. Con la moglie ci dormi. A quel poveretto gli tieni la mano. Lo guardi negli occhi. Lo consoli. E durante tutto questo tempo, provvedi a sistemargli la vita. Gli prepari persino un preventivo di spese per gli anni a venire. Lo privi di sua figlia. E non si sa come, viene tutto misteriosamente tradotto in profondità religiose. E alla fine anche il tuo dolore, la tua sofferenza sono più grandi dei suoi, perché tu sei un peccatore più grande. E così, con quell’andirivieni, è nelle tue mani. Lei mi disse che la mia sospettosa ostilità per Gersbach era infondata, addirittura, così lei mi fece capire, paranoica. Lo sapeva lei che Gersbach era l’amante di Madeleine? Glielo aveva detto Madeleine? No, altrimenti non mi avrebbe detto così.
Madeleine aveva delle buone ragioni per temere di essere pedinata da un investigatore privato. Non c’era proprio niente di nevrotico in questo. Madeleine era sua paziente, ma le diceva solo quel che le pareva e piaceva. Lei non sapeva niente. Lei non sa un bel niente. Quella donna s’è presa gioco di lei nel modo più completo. E lei pure s’innamorò di Madeleine, vero? Proprio come Madeleine si era prefissa. Voleva essere aiutata a buttarmi fuori. Tanto l’avrebbe fatto in qualsiasi caso. Senonché trovò in lei un utilissimo strumento. E in quanto a me, io ero un suo paziente...
CAPITOLO III
Caro Governatore Stevenson, scrisse Herzog, reggendosi al sedile del treno traballante. Mi permetta una parola, caro amico. Io ho votato per lei nel 1952. Come molti altri, pensavo che il nostro paese fosse maturo, sul piano internazionale, per avere anch’esso un suo “grand siècle” e che una volta tanto l’intelligenza potesse affermarsi nelle cose dello Stato - sempre farina del sacco dell’American Scholar di Emerson: gli intellettuali che finalmente ottengono il ruolo che gli spetta.
Invece la reazione istintiva degli elettori fu di respingere lo spirito oggettivo, le sue immagini e le sue idee, diffidandone, forse, come di prodotti stranieri. Preferirono concedere la loro fiducia ai beni visibili. E così le cose continuano come prima, con gente che pensa molto e non combina nulla, e gente che non pensa affatto e fa, evidentemente, tutto. Tanto varrebbe, dico io, che lei lavorasse per loro. Certo che deve essere stata penosa la parte del Coriolano; quel continuo dover leccare il culo agli elettori, e specie in Stati freddi come il New Hampshire. È probabile che la sua esperienza abbia avuto tuttavia una sua utilità, in questi ultimi dieci anni, se non altro perché ha ridato evidenza al vigore spirituale ed etico dell’”umanista” vecchio stampo, a quel tipo d’”uomo intelligente” che soffre a veder sacrificata la propria vita privata al servizio del pubblico. Bah! Il Generale ha vinto perché esprimeva il più infimo e universale amore di patata.
Be’, Herzog, che cosa pretendi? Un angelo dal ciel? Questo treno lo metterebbe sotto.
Cara Ramona, non devi credere che siccome io, per un breve periodo, me la sono squagliata, ciò significhi che non m’importi di te. Me ne importa, invece! Ti sento vicina a me, in molti dei miei momenti. E la settimana scorsa, a quel party, quando ti ho vista al lato opposto della sala con il tuo cappello fiorato, i capelli sciolti lungo le gote luminose, ho avuto la balenante intuizione di cosa potrebbe significare amarti.
Esclamò mentalmente: Sposami! Diventa mia moglie! Metti fine alle mie pene! - e rimase sbigottito dalla sua smania di correre, dalla sua debolezza, dalla tipicità di quello scoppio d’emozioni, poiché capì quanto fosse da nevrotico, e da lui. Dobbiamo essere quelli che siamo. È una necessità. E che cosa siamo? Ebbene, eccolo tentar di attaccarsi a Ramona proprio mentre ne fuggiva. E pensando che stesse legandola a sé, e era invece lui che si legava mani e piedi e la conclusione di questa gran balorda furbizia era magari di ritrovarsi un’altra volta in trappola.
Sviluppo della personalità, presa di coscienza, felicità - ecco le rubriche sotto cui queste follie venivano catalogate. Ah, poveretto! - ed Herzog per un momento si unì al mondo obiettivo, e da quell’altezza guardò giù, a se stesso. Anche lui poteva sorridere di Herzog e disprezzarlo. Ma rimaneva sempre il fatto.
Io sono Herzog. Io sono obbligato ad esserequest’uomo. Nessun altro lo può fare al posto mio. Poteva sorridere, ma poi doveva tornare al proprio Se Stesso e menare la faccenda fino in fondo.
E invece toh, eccolo, il lampo di genio: una terza signora Herzog! Ecco cosa ti combinano le ossessioni infantili, i traumi della prima età di cui un uomo non può disfarsi e che non può abbandonare su un cespuglio come fa la cicala con la sua muda.
Non è ancora esistito un individuo vero, capace di vivere, capace di morire. Soltanto ammalati, sciocchi e tragici, o lugubri e ridicoli, che a volte hanno persino sperato di arrivare all’ideale per mezzo d’un Miracolo, con la semplice forza del grande desiderio di arrivarci. Ma di solito costringendo l’intero genere umano a credere in loro con la prepotenza.
Sotto molti punti di vista, Ramona era davvero una moglie desiderata. Comprensiva. Colta. Ben introdotta a New York. Soldi.
E, sessualmente, un capolavoro della natura. Che seni! Belle spalle, ampie. Ventre profondo. Gambe non lunghe e un pochino arcuate ma proprio per quella ragione particolarmente attraenti.
Aveva tutto. Soltanto che lui non l’aveva ancora finita, altrove, con l’amore e con l’odio. Herzog aveva delle faccende in sospeso.
Cara Zinka, la settimana scorsa t’ho sognata. Nel sogno, tu ed io facevamo una passeggiata per Lubiana, e io dovevo comprare il biglietto per Trieste. Mi dispiaceva di partire. Ma era meglio per te che lo facessi. Nevicava. Ma sì, nevicava davvero, e non soltanto nel sogno. Anche all’arrivo a Venezia. Quest’anno ho fatto un mezzo giro del mondo, e ho veduto tanta di quella gente che mi sembra di avere visto proprio tutti, salvo i morti. Che forse andavo cercando. Gentile signor Nehru, credo di avere una cosa importantissima da dirle. Gentile signor King, i negri dell’Alabama mi hanno colmato d’ammirazione. L’America bianca sta correndo il pericolo della spoliticizzazione. Auguriamoci che l’esempio fornito dai negri dissipi la trance ipnotica della maggioranza. Il problema della politica nelle democrazie moderne è un problema di realtà dei problemi pubblici. Ove tutti divenissero problemi di fantasia, il vecchio ordine politico sarebbe finito. Io, per conto mio, desidero rendere noto che riconosco dignità morale al suo gruppo. Ma non ai vari Powell, non meno vogliosi di farsi corrompere dei demagoghi bianchi; e tantomeno ai Musulmani neri, fomentatori d’odio.
Caro Commissario Wilson - l’anno scorso, durante il Convegno sugli stupefacenti, io ero seduto accanto a lei - Herzog, un uomo robusto, occhi scuri, cicatrice sul collo, brizzolato, vestito Ivy League (scelto dalla moglie), di taglio sbagliato (decisamente troppo giovanile per la mia figura). Mi permette di fare qualche osservazione sulle forze di polizia? Non è colpa di nessuno in particolare se in una comunità non è possibile mantenere l’ordine. Tuttavia sono preoccupato. Ho una figlioletta che abita vicino a Jackson Park, e lei sa bene quanto me che i parchi pubblici non sono adeguatamente sorvegliati dalla polizia.
Con quelle bande di delinquenti ci si rimette la pelle a passare per i parchi. Gentile signor Alderman, l’Esercito deve proprio avere il suo centro di missili Nike al Point? Perfettamente futile, secondo me, sorpassato, e inoltre ruba spazio. Ce ne sono tante altre di località in città. Perché non si trasferisce tutta questa robaccia inutile in qualche zona abbandonata?
Presto, presto, ancora! Il treno correva veloce attraverso il paesaggio. Di gran carriera oltrepassò New Haven. Avanzava a tutta forza verso il Rhode Island. Herzog adesso, appena guardava fuori dal finestrino colorato, fisso, ermeticamente chiuso, sentiva la propria angoscia traboccare e sprigionarsi con impeto fuori di sé, in parole, in giudizi chiari, puntuali e acuti, in formulazioni esplicative definitive, in enunciazioni rigidamente necessarie. Si sentiva in un’estasi turbinosa. E nello stesso tempo si rendeva conto che i suoi giudizi rivelavano la prepotenza illimitata, l’ostinazione infondata, la mania di lamentarsi e di protestare insite nella sua costituzione mentale.
Caro Moses E. Herzog, quand’è che hai cominciato a prendere tanto interesse alle questioni sociali, al mondo esterno? Fino a qualche tempo fa, conducevi un’esistenza di innocente accidia. Ma ecco che improvvisamente uno spirito faustiano di scontentezza e di riforma universale si impossessa di te. Fustighi. Lanci invettive.
Egregi Signori, l’USIS è stato così gentile da inviarmi un pacco da Belgrado contenente indumenti invernali. Non mi sono voluto portare i mutandoni di lana in Italia, paradiso degli esuli, e me ne sono pentito. Nevicava, al mio arrivo a Venezia.
Non sono riuscito a salire sul vaporetto con la valigia.
Gentile signor Udall, un ingegnere petrolifero che ho conosciuto recentemente su un jet della Northwest mi ha detto che le riserve nazionali di petrolio sono quasi esaurite e che si è progettato di fare saltare le calotte polari con le bombe all’idrogeno, al fine di estrarre il petrolio contenuto in quei terreni. Dico io!
* * *
Shapiro!
Herzog gliene doveva spiegare di cose a Shapiro, e lui le stava certamente aspettando, quelle spiegazioni. Shapiro non era un tipo troppo facile e gioviale, sebbene avesse la faccia d’un bonaccione. Il naso era aguzzo e arcigno, e sembrava che le labbra, sorridendo, consumassero ira. Le guance erano bianche e paffute, e i capelli radi erano pettinati all’indietro, imbrillantinati, alla Rodolfo Valentino o alla Ricardo Cortez degli anni venti. Aveva una figura insaccata, ma era sempre vestito a puntino.
Comunque, Shapiro questa volta aveva ragione. Shapiro, avrei dovuto scriverti prima per dirti... per scusarmi... per fare ammenda... Ma ho una scusa stupenda - guai, malattie, disordine, afflizioni. Hai scritto una bellissima monografia. Spero di averlo detto chiaramente nella mia recensione. Su un dato punto ho avuto però una totale caduta di memoria, e così Giovacchino da Fiore l’ho sbagliato in pieno. Tu e Giovacchino mi dovete perdonare. Ero in uno stato terribile. Essendosi preso l’impegno di recensire il saggio di Shapiro prima che cominciassero i guai, Herzog non poté più svicolare. S’era trascinato dietro quel volumone per tutta l’Europa, in valigia. Gli fu causa di forti dolori al fianco; diede origine a timori che gli venisse l’ernia, e fece anche salire considerevolmente il suo conto spese per eccedenza di carico. Per amor di disciplina, Herzog continuò a leggerlo, con crescente senso di colpa. E persino nel letto del Metropol a Belgrado, tra bottiglie di slivovitz e carrozze di tram che sferragliavano nella notte gelata. Finalmente, a Venezia, mi misi al tavolo e scrissi la recensione.
Segue la scusa per lo strafalcione: Immagino, dato che lui si trova a Madison, nel Wisconsin, che tu abbia saputo della grave crisi che ho avuto l’ottobre scorso, a Chicago. Avevamo lasciato la casa di Ludeyville da qualche tempo. Madeleine aveva poi deciso di andare avanti con i suoi studi di lingue e letterature slave. Doveva seguire circa una decina di corsi di linguistica, e cominciò a interessarsi anche di sanscrito. Puoi immaginare con quanta foga ci si mette, lei, a fare le cose - i suoi interessi, le sue passioni. Ricordi che quando tu venisti a trovarci in campagna, due anni fa, ci mettemmo a parlare di Chicago? Se fosse stato sicuro vivere in quei bassifondi.
Shapiro con il suo elegantissimo completo nero a righine sottilissime, le sue scarpe a punta, come se fosse vestito per un pranzo, sedeva sul prato di Herzog. Shapiro ha il tipico profilo dei magri. Ha un naso appuntito ma la gola gli casca un po’ e le guance gli pendono sulle labbra. Shapiro è un gran corteggiatore.
E fu subito molto colpito da Madeleine. La riteneva così bella, così intelligente. Be’, lo è. La conversazione fu animatissima.
Shapiro era venuto per vedere Moses, ufficialmente per farsi “consigliare” - in effetti per chiedergli un piacere - ma in tutti i modi la compagnia di Madeleine gli piaceva. Lo eccitava e beveva la sua acqua tonica e rideva. La giornata era calda, ma lui non si allentò la cravatta conformista. Le scarpe nere appuntite brillavano; e ha piedi grassocci, con il collo rigonfio. Herzog sedeva sull’erba, falciata da lui, con indosso dei pantalonacci di tela tutti strappati. Stuzzicato dalla presenza di Madeleine, Shapiro era particolarmente vivace quel giorno, quasi stridulo quando rideva, e le sue risate si facevano sempre più frequenti, più sfrenate, più ingiustificate. Allo stesso tempo i suoi modi diventavano più compìti, misurati, accorti. Parlava facendo lunghi periodi, proustiani, avrà pensato lui - in realtà teutonici, e zeppi di incredibile magniloquenza.
«Tutto sommato, non dovrei avventurarmi ad analizzare il merito di questa tendenza senza dedicarvi una più matura considerazione» diceva. Povero Shapiro! Che bruto era! Quella sua risata sfrenata, che t’assaliva all’improvviso, e quella schiuma bianca che gli si formava intorno alle labbra mentre dava addosso a Tizio e Caio. Anche Madeleine era rimasta molto colpita da lui, e colpita era stata soprattutto in lei la gran signora. Si trovavano entrambi straordinariamente stimolanti.
Lei venne dalla casa con bottiglie e bicchieri su di un vassoio - formaggio, pâté, crackers, ghiaccio, aringhe. Indossava dei pantaloni turchini e una blusetta gialla, alla cinese, e poi il cappello da coolie che le avevo comprato in 7a Avenue. Diceva che andava soggetta a colpi di sole. Muovendosi rapidamente avanzò dall’ombra della casa nell’erba risplendente, con il gatto che le saltava intorno, le bottiglie e i bicchieri che tintinnavano. Si affrettava perché non voleva perdere niente della conversazione. Mentre lei si chinava a ordinare le varie cose sul tavolino da giardino, Shapiro non poté fare a meno di tenerle gli occhi sul didietro fasciato dall’aderente tessuto di cotone.
Madeleine, “relegata tra i boschi”, era avidissima di conversazioni erudite. Shapiro conosceva tutto quanto si scriveva in ogni campo - lui le leggeva tutte, le pubblicazioni; aveva conti aperti con le librerie di tutto il mondo. Quando scoprì che Madeleine non era soltanto una bellezza ma che si stava anche preparando alla libera docenza in slavistica, esclamò: «Oh, che incanto!». Lui stesso sapeva, tradendo quella sua conoscenza con l’affettazione, che per un ebreo russo del West Side di Chicago, dire «Che incanto!» era una stonatura. Ancora ancora sarebbe stato permesso a un ebreo tedesco di Kenwood - denaro d’antica data, nel commercio della merceria e dell’abbigliamento fin dal 1880. Ma il padre di Shapiro era uno che non aveva il becco di un quattrino, e vendeva mele fradicie per la strada, su un carrettino, partendo da South Water Street. C’era più verità di vita in quelle mele ammaccate e marce, e nel vecchio Shapiro che puzzava di cavallo e di ortaggi, che in tutte quelle citazioni erudite.
Madeleine e il loro compassato ospite stavano parlando della Chiesa russa, di Tichon Zadonskij, di Dostoevskij e di Herzen.
Shapiro faceva grandissimo sfoggio di dotte citazioni, pronunciando sempre correttamente le parole straniere, francesi, tedesche, serbe, italiane, ungheresi, turche o danesi che fossero, sgranandole a mitragliatrice e ridendo - con quella risata sonora, ringhiosa, a risucchio, immotivata, i denti umidi, la testa gettata indietro, incassata nelle spalle. Ah! Le spine crepitavano. («Perciocché, quale è il romore delle spine sotto la caldaia, tale è il ridere dello stolto.») Le cicale cantavano in nutritissime schiere. Nascevano dalla terra, quell’anno.
Sotto quegli stimoli, il viso di Mady si comportava in modo strano. La punta del naso le si muoveva, e le sopracciglia, che non avevano bisogno di cosmetici, si sollevavano con nervosa attenzione, ripetutamente, come se stesse cercando di schiarirsi la vista. Il dott. Edvig diceva che era un sintomo diagnostico di paranoia. Sotto gli immensi alberi, circondati dai clivi delle Berkshires, senza case all’orizzonte che sciupassero il paesaggio, l’erba era fresca e folta, erba sottile, leggera, di giugno. Le cicale, tozze forme vividamente colorate, erano ancor tutte fradicie per la fresca muda, stillanti, immobili; ma mentre si asciugavano, arrancavano, saltellavano, rotolavano, volavano, e in cima agli alberi alimentavano una catena ininterrotta di canti, lancinante.
La cultura, le idee avevano preso il posto della Chiesa nel cuore di Mady (che strano organo dev’essere!). Herzog stava seduto a pensare ai propri pensieri sull’erba di Ludeyville, coi pantaloni tutti grinzosi e i piedi nudi, ma il volto era quello di un signore ebreo colto, con delle belle labbra e gli occhi scuri. Osservava la moglie, che amava alla follia (con cuore tormentato, iroso: altra rara varietà di cuore, la sua) e intanto svelava a Shapiro la ricchezza della propria intelligenza.
«Il mio russo non è come dovrebbe» diceva Shapiro.
«Ma quanto sa, lei, del mio argomento!» rispondeva Madeleine.
Era molto felice. Il sangue le risplendeva in volto, e i suoi occhi azzurri erano caldi e lucenti.
Aprirono un nuovo tema di discussione - la rivoluzione del 1848. Shapiro aveva macchiato di sudore il colletto inamidato.
Solo un metalmeccanico croato impazzito per i dollari si sarebbe comprato una camicia a righe del genere. E cosa ne pensava, di Bakunin, di Kropotkin? Conosceva le opere di Comfort? Sì, le conosceva. E conosceva Poggioli? Sì. A suo parere Poggioli non aveva dato giusto risalto a certe figure importanti - a Rozanov, per esempio. Anche se Rozanov per certe cose era un po’ fissato, per esempio, per il bagno rituale ebraico, era pur sempre una grande figura, ed il suo misticismo esoterico era proprio originale - originalissimo. Eh, bisognava lasciarli fare quei russi. Cosa non avevano fatto per la Civiltà Occidentale, proprio mentre ripudiavano l’Occidente e lo mettevano in burletta!
Madeleine, pensò Herzog, stava eccitandosi in modo quasi pericoloso. Dalla voce che le diventava metallica, dall’ugola che le suonava (senza scherzi) come un clarinetto, lui sapeva che traboccava di idee e di sentimenti. E se Moses non partecipava, se se ne stava seduto come un ciocco (così diceva lei), annoiato e risentito, dimostrava proprio di non aver rispetto per l’intelligenza di sua moglie. Invece Gersbach tuonava sempre a tutto andare, in conversazione. E con uno stile così enfatico, con occhiate così decise, con un’aria così arguta che ci si dimenticava persino di verificare se diceva cose sensate.
Il prato si trovava su un dosso da cui si godeva la vista dei campi e dei boschi. Aveva la forma di una grande goccia di verde, e nella curva più stretta c’era un olmo grigio; la corteccia di quell’enorme albero, che stava morendo di malina olandese, era d’un grigio violaceo. Rade foglie, per un albero così cresciuto.
Il nido di un rigogolo, a forma di cuore bigio, pendeva dai rami.
Il velo di Dio steso sopra le cose ne fa degli enigmi. Se non fossero tutte così minuziosamente particolareggiate, e così inesauribilmente ricche, forse mi riposerebbero di più. Ma io sono prigioniero della percezione, testimone obbligato. La realtà è troppo appassionante. E intanto dimoro in questa casa fatta d’assi scolorite. Herzog era preoccupato per l’olmo. Tagliarlo?
Era un’idea che non gli andava giù. E nel frattempo le cicale si pizzicavano la corda di chitarra che avevano dentro la pancia, fascia cornea in una speciale camera di risonanza. Dai boschetti che attorniavano il prato quei miliardi di occhi scrutavano tutt’intorno, fissavano la terra, e le stridule ondate di quel suono affogavano il pomeriggio estivo. Raramente Herzog aveva udito qualcosa di tanto bello come quella continua e massiccia discordanza.
Shapiro fece il nome di Solovëv - il giovane. Aveva avuto sul serio una visione al British Museum? e perché poi proprio al British Museum? Si dava appunto il caso che Madeleine avesse scritto un saggio sul giovane Solovëv, ecco dunque l’occasione buona. Ormai si fidava abbastanza di Shapiro per parlare liberamente - ne sarebbe stata genuinamente apprezzata. Tenne così una breve conferenza sulla vita e sul pensiero di quel russo trapassato. Il suo sguardo offeso passò su Moses. Si lagnava che non la ascoltasse mai veramente. Voleva sempre far bella figura solo lui. Ma no, ma no. La verità era che lui l’aveva sentita tener cattedra su quell’argomento centinaia di volte, e fino a ore piccole. Dire che aveva sonno, non osava. Comunque, date le circostanze - seppelliti com’erano in quelle sperdute Berkshires - era giocoforza fare delle concessioni visto che lui non aveva altri che lei con cui discutere i punti più aggrovigliati di un Rousseau e di uno Hegel. Del giudizio intellettuale di lei si fidava infatti ciecamente. Prima che di Solovëv, aveva parlato soltanto di Joseph de Maistre. E prima di de Maistre - Herzog fece l’elenco - della Rivoluzione francese, di Eleonora d’Aquitania, degli scavi di Schliemann a Troia, della percezione extrasensoriale, poi dei tarocchi, poi della Christian Science, e, prima ancora, di Mirabeau; o di libri gialli (Josephine Tey), o di fantascienza (Isaac Asimov). E tutto naturalmente sempre ad altissima pressione. Se tra i suoi intensi interessi ce n’era uno costante, era per i “gialli” col morto. Ne divorava tre o quattro al giorno.
Nera e calda sotto la verzura, la terra emanava umidità. Herzog se la sentiva nei piedi nudi.
Da Solovëv, Mady, evidentemente, non poteva che passare a Berdjaev, e parlando di Schiavitù e libertà - il concetto di Sobornost - aprì il barattolino delle aringhe sotto aceto. Sulle labbra di Shapiro schiumò la saliva. Veloce, si premette il fazzoletto piegato agli angoli della bocca. Herzog se lo ricordava come un mangiatore ingordo. Nel bugigattolo che avevano diviso insieme, a scuola, aveva l’abitudine di masticarsi i suoi sandwich di pane nero e cipolla, a bocca aperta. Ora all’odore di spezie e d’aceto gli occhi di Shapiro s’inumidirono benché riuscisse a mantenere, premendosi il fazzoletto sulla pappagorgia rasata, un’espressione distinta, raffinata e cordiale, culminante nel naso a punta. La mano grassoccia, senza peli - le dita tremanti. «No, no» disse «molte grazie, signora Herzog. Stupendo! Ma io sono delicato di stomaco.» Delicato! Le ulcere ci aveva. La vanità gli impediva di dirlo; ciò implicava, psicosomaticamente, cose che non gli davano troppo lustro. Più tardi, quel pomeriggio, vomitò nel lavandino. Doveva aver mangiato i calamari, pensò Herzog a cui era toccato di ripulire il tutto. Ma perché non s’era servito del gabinetto - troppo tozzo per piegarsi?
Ma questo faceva parte del periodo post-visita Shapiro. Prima, Moses ricordò, c’era stata una visita dei Gersbach. Valentine e Phoebe. Avevano fermato la loro macchinetta sotto l’albero di catalpa - in piena fioritura, malgrado dai rami pendessero ancora i baccelli dell’anno prima. Ne era sceso Valentine, col suo passo oscillante, e poi Phoebe, pallida a tutte le stagioni dell’anno, che lo chiamava con la sua voce lagnosa, «Val-va-al». Veniva a restituire una pentola che si era fatta prestare, una delle fantastiche casseruole smaltate di Madeleine, rosse come la crosta di un’aragosta. - Descoware, made in Belgium. Queste visite davano spesso a Herzog un senso di depressione che non riusciva a giustificare. Madeleine lo mandò a prendere altre sedie pieghevoli. Forse era l’effetto di quella fragranza di miele andato a male che emanava dalle campanule della catalpa bianca. Tinte leggerissimamente di rosa all’interno, pesanti di polvere di polline, crollavano sulla ghiaia. Troppo belle! Il piccolo Ephraim Gersbach stava facendo un mucchietto di campanule. Moses era contento di dover andare a prendere le sedie, nel disordine di casa che sapeva un po’ di muffa, giù nella sorda sicurezza pietrosa della cantina. Se la prese comoda, con quelle sedie.
Quando ritornò, gli altri stavano parlando di Chicago.
Gersbach, in piedi con le mani nelle tasche posteriori dei pantaloni, il viso appena rasato e i capelli come ciuffi di piume svelanti cupe profondità di rame, stava dicendo che lui consigliava di piantarla, di tagliare la corda da quel postaccio dimenticato da Dio. Non era successo più niente di interessante dai tempi della battaglia di Saratoga su quelle colline, Cristo santo! Phoebe, pallida e stanca, fumava la sua sigaretta, sorridendo a fior di labbra con la speranza, probabilmente, che la lasciassero in pace. Fra gente colta, dogmatica, o eloquente, sembrava sentire la propria sciattaggine e insufficienza. In realtà era tutt’altro che stupida. Aveva dei begli occhi, petto, un bel paio di gambe. Se solo non avesse fatto di tutto per sembrare un’infermiera-capo, lasciando che le fossette le si allungassero in solchi disciplinari!
«Chicago, senz’altro!» disse Shapiro. «È lì che si fanno gli studi di specializzazione. Una donnina come la signora Herzog, tra l’altro, è proprio quel che ci manca.»
E rièmpiti quella boccaccia di aringhe, Shapiro! pensò Herzog, e pensa agli affaracci fottuti tuoi. Madeleine diede un rapido sguardo di sguincio al marito. Era lusingata, felice. Voleva che lui si ricordasse, in caso se lo fosse dimenticato, in quale alta considerazione la tenevano gli altri.
Ad ogni modo, caro Shapiro, non mi sentivo certo dell’umore adatto per il tuo Giovacchino da Fiore e l’oscuro destino dell’Uomo. Non c’era poi nulla che sembrasse tanto oscuro - era tutto chiaro da far paura. Sta’ a sentire, tu molto tempo fa dicesti, già pomposo com’eri da studentello, che un giorno noi due “saremmo venuti ai ferri corti”, volendo dire che anche allora tra noi due esistevano differenze importanti. Credo che debba essere cominciato durante quel seminario su Proudhon e quelle lunghe discussioni che facemmo - su e giù col vecchio Larson - suldecadimento delle basi religiose della civiltà. Ma le tradizioni sono dunque tutte finite, i credi esauriti, la coscienza delle masse non è ancora pronta per la successiva tappa di sviluppo? È questa la crisi piena della dissoluzione? È giunto dunque il lurido momento in cui il sentimento morale muore, la coscienza si disintegra, e il rispetto per la libertà, la legge, la convivenza civile e tutto il resto, crollano, si mutano in codardia, decadenza, sangue? Le visioni di oscurantismo e di male avute dal vecchio Proudhon non possono venire ignorate.
Ma non dobbiamo dimenticare neppure con quanta rapidità le intuizioni di un genio diventano prodotti in scatola per intellettuali. I crauti in scatola del “Socialismo prussiano” di Spengler, i luoghi comuni della visione del mondo quale Terra Desolata, i dozzinali stimolanti mentali dell’Alienazione, tutti gli sproloqui che fanno questi omuncoletti sulla Inautenticità e la Desolazione. Io questo sciocco squallore non lo posso accettare. Qui si sta parlando della vita dell’umanità intera.
L’argomento è troppo grande, troppo profondo per tanta meschinità e codardia - troppo profondo, troppo grande, Shapiro. Mi fa rabbia vederti così fuori strada. Non sei altro che un esteta della storia moderna! Con tutte le guerre e le uccisioni in massa che ci sono state! Tu sei troppo intelligente per questo. Tu hai ereditato sangue ricco, buono. Tuo padre vendeva le mele per la strada.
Non è che pretenda, d’altra parte, che la mia sia una posizione facile. Noi, in quest’era, siamo dei superstiti, cui le teorie del progresso mal si addicono; ne conosciamo troppo bene il prezzo! Quando ti rendi conto che sei un superstite, è un colpo terribile! La presa di coscienza di questa sciagurata elezione, ti fa scoppiare in lacrime. I morti se ne vanno per la loro strada, tu vorresti chiamarli, ma loro si allontanano in una nera nuvola di facce, di anime. Escono fumigando dalle ciminiere dello sterminio, e ti lasciano nella limpida luce del successo storico - il successo tecnico dell’Occidente. Allora tu sai con uno schianto del sangue che l’umanità ce la sta facendo - ce la sta facendo gloriosamente malgrado sia rintronata dalle esplosioni sanguinose. Unificati da guerre orrende, resi edotti della nostra brutale stupidità da rivoluzioni, da carestie architettate e dirette da “ideologi” (eredi di Marx e Hegel e addestrati nell’astuzia della ragione), forse noi, umanità moderna (ma può essere?), quasi quasi siamo riusciti a fare l’impossibile, cioè ad imparare qualche cosa. Tu sai che le civiltà in declino e in estinzione si rifiutano di seguire il modello dell’antichità. I vecchi imperi sono distrutti ma quegli stessi che un tempo avevano il potere sono più ricchi di prima. Non dico che la prosperità della Germania sia poi tanto piacevole da contemplare.
Eppure eccola lì, a meno da vent’anni da che il nichilismo demoniaco di Hitler la distrusse. E la Francia? L’Inghilterra?
No. L’analogia col tramonto e la caduta del mondo classico non varrà per noi. Sta accadendo qualche altra cosa, e questo qualche cosa è più vicino alla visione di Comte - i risultati del lavoro razionalmente organizzato - che a quella di Spengler. Di tutti i mali della standardizzazione nella vecchia Europa borghese di Spengler, il peggiore era forse la pedanteria standardizzata dei vari Spengler stessi - la volgare truculenza nata al Gymnasium, in esercitazioncelle culturali amministrate da una burocrazia ammuffita.
In campagna mi ero proposto di scrivere un altro capitolo sulla storia del Romanticismo come forma assunta dall’invidia e dall’ambizione plebee nell’Europa moderna. Le emergenti classi plebee lottarono certo per il cibo e per la conquista del potere, e dei privilegi sessuali. Ma lottarono anche per ereditare la dignità aristocratica degli antichi regimi, che nell’età moderna avrebbero potuto arrogarsi il diritto di parlare di tramonto.
Nella sfera della cultura le nuove classi colte venute alla ribalta crearono confusione tra giudizi estetici e giudizi morali. Cominciarono con l’arrabbiarsi per la monotonia dei paesaggi industriali (le inglesi Vales of Tempe di Ruskin) e finirono col perdere di vista le ottocentesche intonazioni morali dei vari Ruskin. Arrivarono infine al punto di negare l’umanità delle masse industrializzate, “banalizzate”. Fu facile per questi uomini della Terra Desolata venire assimilati dal totalitarismo.
Qui la responsabilità degli artisti deve essere ancora valutata.
L’aver supposto, ad esempio, che il deterioramento del linguaggio e la sua degradazione fossero tutt’uno con la disumanizzazione, portò dritto dritto al fascismo culturale.
Volevo anche prendere in esame la questione dei modelli, dell’imitatio, nella storia della civiltà. Dopo lunghi studi sull’ancien régime ero pronto ad arrischiare una teoria degli effetti delle alte tradizioni cortigiane, della politica, del teatro di Luigi Xiv, sulla personalità francese (e quindi europea). Circostanze legate alla “privacy” borghese nell’era moderna privarono gli individui dello slancio e della prospettiva necessaria alle Grandi Passioni, ed è qui che si sviluppa una delle più affascinanti ma meno simpatiche tendenze dei Romantici.
(Una delle risultanze di questa specie di dramma personale è che, agli occhi del mondo coloniale, la Civiltà Occidentale si presentava come civiltà aristocratica.) Quando tu venisti a farci visita, io stavo lavorando a un capitolo che doveva intitolarsi appunto “Il gentiluomo americano”, una breve storia dell’arrampicamento sociale. E non me ne stavo io stesso a Ludeyville, io, lo Squire Herzog? Il Graf Pototsky delle Berkshires? C’è stata una buffissima svolta negli avvenimenti, Shapiro. Mentre tu e Madeleine stavate lì a rompervi la testa, a civettare, a vantarvi, a mettere in mostra i vostri denti aguzzi e puliti - a passare in rassegna insomma l’intero repertorio dei vostri lazzi da sapientoni - io cercavo di capire quale fosse la mia posizione. Compresi che l’ambizione di Madeleine era di prendere il mio posto nel mondo della cultura. Di superarmi.
Aspirava all’apoteosi finale: regina degli intellettuali, “basbleus” di ferro. E il tuo amico Herzog intanto si contorceva sotto quel tacco appuntito ed elegante.
Ah, Shapiro, il vincitore di Waterloo si appartò per versare lacrime amare sui suoi morti (uccisi per ordine suo). Ma non la mia ex signora. Lei non vive tra due Testamenti contrastante. È più forte di Wellington, lei. Lei vuole vivere nelle professioni deliranti, come le chiama Valéry - occupazioni il cui strumento principale è rappresentato dall’opinione che si ha di se stessi e la materia prima è la fama o la posizione di cui uno gode.
In quanto al tuo libro, c’è dentro troppa storia immaginaria.
Gran parte di esso è pura fantascienza. È un parere che non cambierò mai. Ciò nonostante, ho trovato ottime le tue idee su millenarismo e paranoia. Madeleine, fra parentesi, mi ha poi trascinato fuori dal mondo della cultura, c’è entrata lei, m’ha sbattuto la porta in faccia, e sta ancora là dentro a spettegolare su di me.
Non era poi granché originale, quell’idea di Shapiro, però aveva fatto un buon lavoro, chiaro. Nella mia recensione ho tentato di dire che gli psicologi clinici potrebbero scrivere storie affascinanti. Da mandare a spasso gli scrittori di professione. La megalomania nei Faraoni e nei Cesari. La melanconia del Medio Evo. La schizofrenia del Settecento. E poi quel bulgaro, Banovic, che vede le lotte di potere sempre in termini di mentalità paranoica - un cervello curioso, raccapricciante, quello lì, convinto com’è che sia sempre stata la pazzia a governare il mondo. Il Dittatore deve disporre di folle di vivi e in più anche di una folla di cadaveri. La visione del genere umano come un mucchio di cannibali, che corrono in mute, farfugliando incomprensibilmente, piangendo sui propri assassinii, disfandosi del mondo vivente come si trattasse di escrementi morti. Non t’illudere, mio caro Moses Elkanah, con filastrocche infantili e storie di Mamma Oca. I cuori che tremano d’esile carità a buon mercato o di sbrodoloso amor di patata non hanno mai fatto la storia. I denti rapaci di Shapiro, la sua ingordigia salivante, il dardo di un’ulcera in pancia, gli forniscono anche vere intuizioni, possibilità di capire. Fontane di sangue umano che hanno zampillato da tombe fresche! Massacri sconfinati! Io non l’ho mai capito!
Recentemente mi son fatto dare un elenco dei sintomi della paranoia da uno psichiatra - gli chiesi di scrivermeli su un pezzo di carta. Mi sarebbero potuti servire a capire, pensai. Lo fece volentieri. Misi il foglietto nel portafoglio e me lo studiai come fossero le piaghe d’Egitto. Proprio come il “Dom, S’Fardeia, Kinnim” dell’Haggadàh. (16) Vi si leggeva: «Orgoglio, Ira, Razionalità eccessiva, Tendenze omosessuali, Senso di competizione, Diffidenza per le emozioni, Incapacità di accettare critiche, Proiezioni ostili, Visioni». C’è tutto - tutto! Ho pensato a Mady per ogni categoria, e anche se il ritratto non è del tutto completo, non posso mica lasciarle in mano una bimbetta. Mady non è mica Daisy. Daisy è una donna pedante, lunatica, però di lei ci si può fidare. Con Marco se l’è cavata abbastanza bene.
Abbandonata la lettera a Shapiro - gli suscitava troppi pensieri dolorosi, e quella era proprio la cosa da evitare se non voleva perdersi il beneficio della vacanza - si rivolse al fratello Alexander. Caro Shura, scrisse, credo di doverti ancora 1500 dollari. Che ne diresti se arrotondassimo la cifra a 2000? Mi servono. Per tutte le operazioni necessarie a rimettermi in piedi.Shura era un fratello generoso. Gli Herzog avevano i loro difetti di famiglia, ma non la tirchieria. Moses sapeva che il fratello ricco avrebbe premuto un bottone e detto alla segretaria: «Mandi un assegno a quello svitato di Moses Herzog».
Il suo bel fratellone gagliardo, coi capelli bianchi, abito senza prezzo, cappotto di vicuña, cappello italiano, rasatura da un milione di dollari e dita rosee e mani ben curate cariche di anelloni, che si affacciava dalla limousine lanciando occhiate di principesca superbia. Shura conosceva tutti, se li comprava tutti. Nei riguardi di Moses il suo disprezzo era attutito dalla solidarietà familiare. Shura era un vero discepolo di Thomas Hobbes. Le preoccupazioni universali erano idiozie. Cosa chiedere di meglio che prosperare nella pancia del Leviatano e dare alla comunità un esempio d’edonismo? Shura si divertiva al fatto che il fratello Moses gli volesse così bene. Moses voleva bene ai parenti molto scopertamente e addirittura senza riserve. Voleva bene al fratello Willie, alla sorella Helen, persino ai cugini.
Era infantile, e lo sapeva. Che ci poteva fare, se non piangere su se stesso e rammaricarsi d’essere così mal sviluppato in quel pur importante lato della propria natura? A volte cercava di pensare se quello non potesse essere, con terminologia sua propria, il suo lato arcaico, preistorico. Tribale, insomma.
Connesso all’adorazione ancestrale, al totemismo.
E poi, siccome ho dei pasticci di carattere legale, non puoi suggerirmi un buon avvocato?Magari uno dell’ufficio legale di Shura, così non gli avrebbe mandato la parcella.
* * *
Ora a mente compose una lettera a Sandor Himmelstein, l’avvocato di Chicago che si era occupato di lui l’autunno precedente, dopo che Madeleine l’aveva cacciato di casa.
Sandor! L’ultima volta che siamo stati in contatto, ti scrissi dalla Turchia. Pensa un po’! E invece era proprio quel che ci voleva per un tipo come Sandor, in un certo senso; paesaggio da Mille e una notte, tanto che da uno di quei bazar t’aspettavi di veder uscire da un momento all’altro lo stesso Sandor, anche se sapevi benissimo che aveva lo studio al quattordicesimo piano del Burnham Building, poco più su del Municipio. Herzog l’aveva conosciuto a un bagno turco al Postl’s Health Club, fra Randolph e Wells Street. Basso, tutto distorto per la perdita di una parte del torace. In Normandia, diceva sempre. Probabilmente quand’era andato volontario doveva essere stato una specie di grosso nano.
Si vede che, se entra a far parte dell’ufficio del Tribunale Militare, anche un nano può diventare ufficiale. Dinanzi a lui, Herzog si sentiva sempre un po’ a disagio, forse per il fatto d’esser stato scartato dalla Marina a causa della sua asma e di non esser dunque mai andato al fronte. Mentre quel nano, quel gobbo, era stato mutilato da una mina subito fuori dalla testa di sbarco. La ferita lo aveva tutto aggobbito. Sia come sia, ecco: questo era Sandor, con un viso fiero, appuntito, bello, la bocca pallida e la pelle giallognola, un gran naso, i capelli grigi e fini. In Turchia me la stavo passando brutta. In parte, era un’altra volta colpa del tempo. La primavera stava faticosamente facendosi strada, quando i venti cambiarono. Il cielo si chiuse sulle grandi moschee. Nevicò. Le turche mascoline, con tanto di pantaloni, si velarono i volti alteri. Chi si sarebbe immaginato che camminassero con passo così marziale? Il carbone era stato scaricato sulla strada, ma gli operai che dovevano raccoglierlo e ammonticchiarlo in cantina, non s’erano visti, e così la caldaia era rimasta spenta. Herzog andava al caffè a bere tè e slivovitz, e si fregava forte le mani e cercava di muovere il più possibile le dita dei piedi dentro le scarpe per mantenere il sangue in circolazione. A quel tempo era preoccupato per la circolazione.
Vedere i primi fiori coprirsi di neve accrebbe la sua malinconia.
Ti mandai quella letterina di ringraziamento, per esprimere la mia riconoscenza a te e a Bea che mi avevate accolto sotto il vostro tetto. Eppure eravamo solo dei conoscenti, mica vecchi amici. Sarò stato certo un ospite terribile. Malato e arrabbiato - spezzato da quel dolore schifoso. Che prendevo pillole contro l’insonnia, e non riuscivo lo stesso a dormire, che me ne andavo in giro drogato, e il whisky mi faceva venire la tachicardia.
M’avrebbero dovuto mettere in una cella imbottita. Gratitudine! Vi ero grato fin in fondo all’anima. Ma era la gratitudine politica del debole, del sofferente, pieno di livore sotto la gratitudine. Sandor mi venne a prendere e mi accompagnò. Io non ero più capace di niente, inerte. Mi traslocò a casa sua, giù a sud della città, dieci strade dalla stazione Illinois Central.
Mady s’era tenuta la macchina, dicendo che le serviva per Junie, per portarla allo zoo e cose del genere.
Sandor disse: «Mica ti dispiace dormire vicino alla sgnappa, eh?», dato che la brandina era già stata aperta accanto al bar.
La stanza era piena di compagni di scuola di Carmel Himmelstein.
«Fuori!» gridò Sandor con voce stridula a quei ragazzi. «Non si riesce manco a vederci, con questo fumo della malora! Guarda quante bottiglie di Coca piene di cicche, guarda.» Accese l’apparecchio dell’aria condizionata e Moses, ancora rosso per il freddo di quel giorno, ma con gli occhi cerchiati di bianco, stava lì, con la valigia in mano, quella stessa valigetta che adesso si teneva posata sulle ginocchia. Sandor tolse i bicchieri da vari scaffali. «Disfa la valigia, figlio» gli disse. «Metti la tua roba qui. Mangiamo tra venti minuti. Rancio buono stasera. Sauerbraten. (17) Specialità di Bea.»
Obbediente, Moses tirò fuori la sua roba - lo spazzolino da denti, il rasoio, la polvere Desenex, il sonnifero, i calzini, la monografia di Shapiro, e una vecchia edizione tascabile delle poesie di Blake. Il foglietto di carta su cui il dott. Edvig gli aveva elencato i tratti della paranoia faceva da segnalibro.
Dopo cena, durante quella prima notte passata nel salotto degli Himmelstein, Herzog cominciò, seppure con riluttanza, a capire che accettando l’ospitalità di Sandor aveva commesso un altro dei suoi errori.
«Ti passerà, vedrai. Andrà tutto bene. Ce la farai» diceva Sandor. «Ci scommetto la testa. E vedrai che la scommessa non la perdo.»
E Beatrice, coi suoi capelli neri e la boccuccia graziosa, rosa, che non aveva bisogno di trucco, gli disse: «Moses, noi comprendiamo quello che senti».
«Una carogna va e un’altra viene, da’ retta» diceva Sandor. «Ho una gran pratica io, di queste carogne. Dovresti vedere quel che non combinano, e quel che non succede in questa città di Chicago.» Scosse il capo pesante e le labbra si serrarono nella pressione del disgusto. «Se se ne vuole andare, che vada a farsi fottere! Lasciala andare! Tu te ne starai benissimo. E va be’, sarai stato un babbeo! Capirai! Tutti gli uomini sono babbei, con un certo genere di sgualdrinelle. Io ci ho sempre preso mazzate in testa da quelle cogli occhi celesti. Però ho avuto il buon senso d’innamorarmi di questo bel paio d’occhi castani, vedi. Non è fantastica?»
«Ah sì, certo.» Dirlo era obbligo. E in realtà neanche troppo difficile. Moses non aveva vissuto quaranta e più anni senza aver imparato a sbrigarsela in simili circostanze. Tra gretti puritani è dire una bugia; ma fra gente educata è solo buona educazione.
«Chissà cosa ci ha visto in uno sgorbio come me. Ad ogni modo, Moses, tu per un po’ te ne stai con noi, e basta. In un momento come questo, non te ne devi rimanere senza amici. Sì, lo so, che ci hai la famiglia in questa città. Vedo i tuoi fratelli da Fritzl. Ho parlato col mezzano proprio l’altro giorno.»
«Willie.»
«Una bravissima persona - molto attivo anche nella vita israelita» disse Sandor. «Non come quel macher (18) di Alexander che è sempre immischiato in qualche scandalo. Adesso sta in mezzo alla camorra delle lotterie illegali, poi si mette con Jimmy Hoffa, poi con quelli di Dirksen. Be’, va bene, i tuoi fratelli sono pezzi grossi. Però ti farebbero mangiare il cuore, sai. Qui, almeno, nessuno ti chiederà niente.»
«Con noi ti puoi lasciare andare» disse Beatrice.
«Cosa volete, non capisco più niente» rispondeva Moses, «Mady ed io abbiamo sempre avuto dei momenti difficili, fin dall’inizio, è vero. Ma ora le cose stavano andando meglio. La primavera scorsa abbiamo parlato del nostro matrimonio e se andavamo abbastanza bene da continuare - ed è perfino sorto un problema pratico: se dovevo o no impegnarmi con un contratto per la casa. Lei mi rispose che non appena avesse finito la tesi, avremmo avuto un secondo bambino...»
«Io ti dico una cosa» disse Sandor. «Se vuoi sapere come la penso è anche fottuta colpa tua.»
«Mia? Che vuoi dire?»
«Perché tu, che sei un intellettualone, ti sei sposato una femmina intellettualona. In ogni intellettuale, da qualche parte, c’è sotto una stronza testa di cazzo qualsiasi. C’è gente come voi che non sa neanche rispondere alle proprie domande comunque, però, per te ho buone speranze, Moses.»
«Che speranze?»
«Tu non sei come tutti quegli altri accademici fasulli. Tu sei un mensch. Ma a che servono, che sanno fare tutte queste teste d’uovo del cazzo? Ci vuole un disgraziato ignorante come me per lottare per le cause liberali. Quei borghesi di Yale in calzini di seta potranno pure avere in ufficio il ritratto di Learned Hand, ma quando arriva il momento di darsi da fare e di buttarsi nella mischia a Trumbull Park, o di lottare con quei cacasotto a Deerfield o di sostenere un uomo come Tompkins...» Sandor era fiero della parte che aveva scelto nel caso Tompkins, un impiegato negro delle poste che lui aveva difeso.
«Be’, immagino che fossero tutti pronti a dare addosso a Tompkins perché era negro» disse Herzog. «Però, purtroppo, era un ubriacone. Me l’hai detto tu stesso. E c’erano anche dei dubbi riguardo alla sua competenza.»
«Non andare in giro a ripetere queste cose» disse Sandor. «Se ne serviranno in modo sbagliato, quelli. Ehi, di’, vai a spifferare quello che io t’ho detto in confidenza? Era una questione di giustizia. Come sarebbe? Non ci sono bianchi ubriaconi fra gli impiegati dello Stato? Figuriamoci!»
«Sandor - Beatrice. Sto a terra, è terribile. Un altro divorzio - un’altra volta fuori di casa, senza un tetto, e a questo punto della vita. Non ce la faccio. Non so... mi sembra la morte.»
«Sstt, ma che vai dicendo!» diceva Sandor. «Dispiace per via della piccola, ma tu supererai.»
In quel momento, quando tu pensavi, ed io ero d’accordo, che non sarei dovuto rimanere solo, forse era meglio invece che me ne fossi stato da solo, gli scrisse Herzog.
«Senti, penso a tutto io» gli aveva assicurato Sandor. «Tu uscirai fuori da tutta questa merda profumato come un pezzo d’arrosto. Lascia fare a me, va bene? Non ti fidi di me? Non mi credi leale nei tuoi confronti?»
Avrei dovuto prendermi una stanza al Quadrangle Club.
«Non ti si può mica lasciare abbandonato a te stesso» gli aveva detto Sandor. «Non sei il tipo. Un essere umano? Un mensch! Ci hanno cacato, sul cuore tuo. E ci hai tanto senso pratico tu, quanto mio figlio Sheldon, che ha dieci anni, povero disgraziato che sei.»
«Me lo scrollerò di dosso tutto questo, vedrai. Mi rifiuto di fare la vittima. Io le odio le vittime» gli aveva risposto Moses.
Himmelstein era seduto nella sua poltrona con lo schienale altissimo, i piedi infilati sotto la panca corta. Gli occhi li aveva umidi, del colore di un cetriolo appena affettato, con ciglia sottili. Masticava un sigaro. Le sue brutte unghie erano lustre di smalto. Si faceva fare la manicure alla Palmer House.
«Una troietta col cervello fino» gli spiegava. «Tremendamente bella. Ci ha la passione di prendere decisioni. Una volta che s’è decisa, è decisa per sempre. Che forza di volontà, oh! È un tipo.»
«Eppure, deve averti amato, Moses» gli diceva Bea. Parlava lentissimamente - era il suo modo di parlare. Le sue labbra erano rosa e accese. I suoi occhi marrone scuro incastonati in un’ossatura forte. Moses non voleva incontrare il suo sguardo; avrebbe dovuto sostenerlo a lungo e intensamente e non ne sarebbe risultato niente. Sapeva che quella donna provava della pietà per lui, ma che non l’avrebbe mai potuto approvare.
«Non credo che mi amasse» rispondeva Moses.
«Io invece ne sono sicura.»
Era la solidarietà della donna di classe media, che difende una brava ragazza da un’accusa di malvagità e calcolo. Le brave ragazze si sposano sempre per amore. Ma il giorno che non dovessero essere più innamorate, devono essere libere di amare un altro. Non c’è marito che tenga, per opporsi al cuore. Concezione ortodossa. Non del tutto riprovevole. Ma un’ortodossia nuova, comunque. In tutti i modi, pensò Moses, non era il momento più adatto per bisticciare con Beatrice. Stava in casa sua, accettava di farsi consolare da lei.
«Voi non conoscete Madeleine» diceva. «Quando l’ho conosciuta io aveva un gran bisogno di aiuto. Di quell’aiuto che solo un marito può dare...»
Io so quanto sono lunghe - infinitamente lunghe - le storie della gente quando ha dei dispiaceri. E quanto sono noiose.
«Per conto mio la trovo simpatica» diceva Bea. «Da principio mi sembrava boriosa e che si comportasse in modo sospettoso, ma poi quando l’ho conosciuta meglio s’è dimostrata simpaticissima, affabile. Fondamentalmente, dev’essere una brava persona.»
«Eh, merda! E chi non è simpatico, scusa? Quasi tutti, per quello. Basta dargliene la possibilità» ribatteva Sandor, terreo e possente.
«Ma Mady aveva già architettato tutto» spiegava Herzog. «Perché non ha mandato tutto a monte prima che io firmassi il contratto?»
«Eh, perché bisogna pure che tenga un tetto sulla testa della ragazzina, no?» disse Sandor. «Ma che ti credi?»
«Che mi credo?» Herzog si alzò in piedi, cercando faticosamente le parole adatte. Aveva il viso bianco, gli occhi dilatati, fissi. Guardò dritto Sandor, che se ne stava seduto come un sultano, i piccoli talloni raccolti sotto la pancia protuberante. Poi si rese conto che Beatrice con quel suo aspetto grazioso, poco appariscente, quasi spento, gli stava facendo cenno di non far arrabbiare Sandor. La pressione poteva salirgli in modo pericoloso, quando s’arrabbiava.
Herzog scriveva: Vi ero riconoscente per l’amicizia che mi dimostravate. Però ero ridotto in uno stato... in uno di quegli stati per cui uno ha delle grandi esigenze, esigenze impossibili. Quand’è presa dall’ira, la gente diventa prepotente. Difficile da sopportare. Mi sentivo intrappolato, là da voi. A dormire accanto al bar. Il mio cuore andava al povero Tompkins. Sfido io che s’attaccò alla bottiglia quando Sandor prese le redini della faccenda.
«Non ti metterai mica a litigare per la custodia della piccola, no?» Sandor chiese a Herzog.
«E se lo facessi?»
«Be’» disse Sandor «parlando da avvocato, ti vedo, a te, davanti a una giuria. Quelli guarderanno prima Madeleine, florida e bella, poi te, smunto, coi capelli grigi, e tàffete!, ecco che ti sei bell’e giocata la richiesta di custodia. È così che si comportano le giurie, sai. Più cretini degli uomini delle caverne, quei bastardi - lo so che per te dover star a sentire una cosa del genere non è facile, ma è meglio che te la dica lo stesso. Gli uomini della nostra età, caro mio, bisogna che guardino in faccia i fatti.»
«Fatti!» disse Herzog, sfinito, brancolante, fuori di sé.
«Lo so» continuò Sandor. «Io ho dieci anni più di te. Ma dopo i quaranta è tutta la stessa cosa. Se ce la fai a alzarlo una volta la settimana, puoi ringraziare Iddio.»
Beatrice cercò di frenare Sandor, ma lui disse: «Statti zitta».
Poi si volse a Moses di nuovo, scuotendo il capo fino a che a poco a poco affondò nel torace sfigurato, le scapole protese all’indietro, la caracoide che si vedeva attraverso la camicia bianca operata. «Che cazzo ne sa lui di quello che significa guardare in faccia i fatti. Lui pretende solo che tutti gli vogliano bene. Se no, attacca a urlare e strepitare. E va bene! Dopo lo sbarco in Normandia, io mi sono trovato tutto maciullato in quell’ospedalaccio inglese di merda - uno storpio ero! Cristo, oh, se ce l’ho fatta a uscire è stato solo a forza di volontà. E quell’altro bel tomo d’amicone suo, Valentine Gersbach? Quello sì ch’è un uomo! Quello sciancato testa rossa lui sì che lo sa sul serio che cos’è la sofferenza. Però lui se la gode - tre uomini con sei gambe non se la caverebbero come se la cava quel pirla di gamba di legno. Ma no, lasciami dire, Bea - queste cose Moses le può sentire. Se no, sarebbe uno dei tanti Professori Fessi, e basta. E io non ci sprecherei nemmeno tempo con ‘sto figlio di puttana.»
Herzog non connetteva più dalla rabbia. «Ma che cosa vuoi dire? Che dovrei crepare perché ho i capelli grigi? E la bambina?»
«Ora, non te ne stare lì a strofinarti le mani come un cretino della malora - Cristo, io li odio i cretini» gridò Sandor. I suoi occhi verdi si erano violentemente schiariti, le labbra gli si tendevano continuamente. Doveva essere convinto di riuscire in quel modo a liberare l’anima di Herzog dal peso morto dell’inganno, e le sue dita lunghe, bianche, pollici e indici, si muovevano nervosamente.
«Che?! Crepare? Ma che diavolo stai farfugliando? Ho solo detto che darebbero la ragazzina a una madre giovane.»
«È Madeleine che t’ha istigato. Ha predisposto pure questo, lei. Per impedirmi di farle causa.»
«Ma piantala! Lei non c’entra! Sto cercando di dirtelo per il tuo bene, e basta. Questa volta è lei che conduce il gioco. Lei vince, e tu perdi. Può essere che lei voglia qualcun altro.»
«Ah sì? Te l’ha detto lei?»
«Non m’ha detto niente. Ho detto può essere. Adesso calmati. Dagli qualche cosa da bere, Bea. Dalla bottiglia sua. Lo scotch non gli piace, a lui.»
Beatrice andò a prendere la bottiglia di Guckenheimer a 43 gradi che aveva portato Herzog.
«E adesso» disse Sandor «smettila con queste frescacce. Non fare il buffone, amico mio.» La sua espressione cambiò, e si lasciò andare a un po’ di gentilezza. «Be’, quando tu soffri, sei uno che soffre sul serio. Sei il vero tipo dell’ebreo di vecchio stampo, genuino, che ci scava nelle emozioni. Questo te lo riconosco. E ti capisco. Io sono cresciuto in Sangamon Street, ricòrdatelo, quando un ebreo era ancora un ebreo. Io la conosco la sofferenza - siamo sulla stessa modulazione di frequenza noi due.»
Il passeggero Herzog annotò: Ti giuro sulla vita mia che non riuscivo a capire. Spesso pensavo che mi sarebbe venuto un colpo apoplettico, che sarei scoppiato. Più consolazione mi offrivi, più vicino io mi sentivo alla soglia della morte. Cosa stavo facendo? Perché mi trovavo in casa tua?
Dev’essere stato buffo come soffrivo. A guardare dalla mia camera le pianticelle senza foglie sul retro della casa. Bruni, delicati profili e gramigne. L’asclepias con i baccelli svuotati, aperti in due. Oppure a fissare la faccia grigioscura della televisione.
La domenica mattina, presto, Sandor chiamò Herzog nel soggiorno. «Oh, senti amico» gli disse «t’ho scovato una polizza d’assicurazione coi fiocchi.»
Moses, che stava ancora allacciandosi la vestaglia mentre emergeva dal suo letto accanto al bar, non capiva.
«Come?»
«Ti possiamo rimediare una polizza fantastica per pensare alla piccola.»
«Ma che cos’è questa faccenda?»
«Te l’ho detto l’altra settimana, ma tu stavi pensando chissà che. Se tu t’ammali, se hai un incidente, se perdi un occhio, e anche se ti dà di volta il cervello, Junie sarà protetta.»
«Ma io vado in Europa e ho un’assicurazione di viaggio.»
«Se muori. Ma qui, vedi, pure se ti viene un bell’esaurimento nervoso e devi andare in clinica, la bambina riceve lo stesso il suo assegno mensile.»
«E chi lo dice che mi verrà un esaurimento?»
«Sta’ a sentire, ma cosa credi, che faccia questo per mio interesse? Qui io mi trovo nel mezzo, sai» disse Sandor, picchiando un piede scalzo sul folto spessore del tappeto.
Domenica, con la nebbia grigia del lago e le navi da carico che muggivano come bestiame nell’acqua. Si poteva sentire il vuoto delle stive. Chissà cosa avrebbe dato Herzog per essere uno stivatore imbarcato per Duluth.
«O vuoi i miei consigli legali o non li vuoi» disse Sandor.
«Desidero solo fare la cosa migliore per tutti voi. Vero o no?»
«Be’, sono qui per provarlo. Mi hai preso in casa tua.»
«Va bene, allora parliamo un po’ sul serio. Con Madeleine nessuna difficoltà. A lei gli alimenti non toccano. Quella si risposa presto. L’ho portata a pranzo da Fritzl, e certi tizi che a Sandor H. per anni non l’hanno manco guardato in faccia, si sono precipitati uno sull’altro, tutti arrapati. E incluso pure il rabbino del mio tempio. È un pezzo di ragazza appetitosa, quella.»
«Tu sei mentecatto. Lo so io quello che è lei.»
«Ma che dici - è molto meno puttana di tutte le altre. Siamo tutti puttane a questo mondo, e non te lo scordare. So benissimo d’essere anch’io una puttana. E tu sei un fesso eccezionale, vado scoprendo. Per lo meno così mi dicono tutti gli intellettualoidi. Però ci scommetto un vestito completo che pure tu sei una puttana.»
«Lo sai che cos’è un uomo massa, Himmelstein?»
Sandor aggrottò le ciglia. «Che, che stai dicendo?»
«Un uomo massa. Un uomo della folla. L’anima della moltitudine. Ridurre tutti ai minimi termini.»
«Macché anima della moltitudine! Non cominciare a far voli, tu! Io sto parlando di fatti, non di merda.»
«E tu ti credi che un fatto sia ciò che è brutto, odioso.»
«I fatti sono brutti.»
«Tu pensi che siano veri perché sono brutti.»
«E tu - per te è tutto troppo. E chi te l’ha detto che sei un principino? Tua madre si faceva il bucato da sola, sai; prendevate la gente a pensione; tuo padre era un contrabbandiere da quattro soldi. Vi conosco voi Herzog e i vostri yiches. (19) Non mi venire a fare tutti questi sci-sci a me. Sono un giudeo pure io e il diploma me lo sono preso in una fetente scuola serale. Oh, va bene? E adesso piantiamola tutti e due con queste fregnacce, caro il mio sognatore.»
Herzog, sottomesso, molto scosso, non seppe ribattere.
Perché c’era venuto, in quella casa? Per essere aiutato? Era in cerca di un foro per la sua ira? Indignazione per le sue ingiustizie? Ma quello era il foro di Sandor, non il suo. Quel nano feroce dai denti sporgenti e solchi profondi sul viso. Il torace rattorto gli spuntava dalla giacca del pigiama verde. Ma quello era lo stato cattivo, arrabbiato di Sandor, pensò Herzog.
Sapeva anche essere simpatico, generoso, conviviale, persino spiritoso. La lava di quel cuore poteva aver spinto quelle costole fuori posto, e la forza di quella lingua infernale gli aveva fatto andare i denti in fuori. Molto bene, Moshe Herzog se tu vuoi ispirare compassione, se vuoi chiedere aiuto e soccorso, non potrai mai fare a meno di cacciarti nelle mani di questi spiriti furenti. Che ti romperanno le orecchie, ti schianteranno con la loro “verità”. Questo significa il tuo masochismo, main zisse n’shàmele. (20) I buoni vengono attratti dalle percezioni degli altri e non pensano per proprio conto.
Purifica i cancelli della visione con la conoscenza di te stesso, con l’esperienza. A parte il fatto che l’opposizione è vera amicizia. Così dicono, almeno.
«Vuoi o non vuoi aver cura della tua bambina?» disse Sandor.
«Certo. Ma tu l’altro giorno m’hai detto che era meglio che me ne dimenticassi, perché sarebbe cresciuta come un’estranea per me.»
«Giusto. Già la prossima volta che la vedi non ti riconoscerà più.»
Sandor pensava a quelle talpe dei suoi figli; non a mia figlia, che è fatta di argilla più fine. Non si dimenticherà di me, lei.
«Non ci credo» disse Herzog.
«Come avvocato, io ho un obbligo sociale verso la bambina. La devo proteggere per forza.»
«Tu? Sono io il padre.»
«Ma tu puoi uscire di cervello. Oppure morire.»
«Anche Mady può morire. Perché non facciamo l’assicurazione su di lei?»
«Non te la farà mai fare, lei. Non spetta alla donna. Spetta all’uomo.»
«Non a quest’uomo qui. Madeleine è prepotente quanto un uomo. Tutte queste decisioni le ha prese lei per tenersi la bambina e buttar me sulla strada. Si crede di poter fare da madre e da padre. Io pagherò i premi sulla sua vita.»
Tutto d’un tratto Sandor cominciò a sbraitare. «A me non me ne frega niente di lei! Non me ne frega niente di te! Io mi sto occupando del bene della bambina.»
«E come fai ad essere così sicuro ch’io morrò per primo?»
«E questa sarebbe la donna che tu ami?» Sandor disse con un tono più basso. Si era evidentemente ricordato dei rischi della pressione alta. Il segno di una fatica complessa s’incise nei suoi occhi pallidi e sulle labbra, e gli scavò un solco nel mento. Disse, con maggiore pacatezza: «La prenderei io quella polizza, se sapessi di potermela cavare alla visita medica. Mi farebbe piacere a me, crepare e far diventare la mia Bea ricca vedova. A me piacerebbe».
«Così se ne potrebbe andare a Miami e tingersi i capelli.»
«Eh già. Io nella bara divento verde come un soldo vecchio, e intanto quella va in giro a fottere di qua e di là. Ah, mica me la prendo.»
«Va bene, Sandor» disse Herzog. Voleva finirlo quel discorso.
«In questo momento non me la sento di prendere degli impegni e di fare preparativi per la mia morte.»
«E che c’è di tanto grande nella tua sporcaccia morte della malora?» gridò Sandor. La sua figura si eresse. Era quasi arrivato all’altezza di Herzog, che un po’ impaurito da quelle grida stridule guardava dall’alto, con occhi sgranati, il viso del suo ospite. Aveva lineamenti forti e nella sua rozzezza belli. I baffetti erano irti, un iroso veleno verde, lattiginoso, gli salì agli occhi; la bocca gli si contorse. «Io mi ritiro, mi ritiro!» cominciò a urlare Himmelstein.
«Ma che hai?» disse Herzog. «Dov’è Beatrice? Beatrice!»
Ma la signora Himmelstein si limitò a chiudere la porta della sua camera da letto.
«Andrà da qualche pirata, vedrai!»
«Per amor di Dio, smettila di urlare!»
«Ti ammazzeranno.»
«Sandor, finiscila.»
«Ti succhiano vivo, quelli. Ti strappano la pelle di dosso.»
Herzog si premeva le orecchie. «Basta, basta.»
«Ti fanno i nodi alle budella, quelli. Figlio d’un cane. Ti applicano un contatore al naso e ti mettono in conto pure quanto respiri. Ti metteranno il lucchetto davanti e di dietro. E allora sì che penserai alla morte. Pregherai, che venga. Una cassa da morto ti sembrerà più bella d’una macchina sportiva.»
«Ma non sono io che ho lasciato Madeleine.»
«Anch’io ho fatto cose del genere a certi tizi, sai.»
«Che cosa le ho fatto di male?»
«Al tribunale che vuoi che gliene importi. Tu hai firmato delle carte - le hai lette?»
«No, mi sono fidato della tua parola.»
«Quelli andranno a tirare fuori tutte le colpe del codice. La madre è lei - lei è la femmina. Le zinne ce l’ha lei. Ti schiacceranno sotto i piedi, a te.»
«Ma io non sono colpevole di niente.»
«Lei ti odia.»
Sandor non urlava più. Era tornato al suo normale registro acuto. «E tu saresti un uomo istruito? Meno male che il povero padre mio non ci aveva i quattrini per mandarmi all’Università di Chicago. Io ho lavorato ai Magazzini Davis e sono andato alla John Marshall. Istruzione? Da ridere! Tu non lo sai, come succedono le cose.»
Moses era molto turbato. Cominciò a riconsiderare il tutto. «Va bene» disse.
«Che va bene?»
«Mi farò una polizza sulla vita.»
«Ma non per fare un favore a me!»
«Non per farti un favore...»
«È una botta grossa - quattrocentodiciotto bigliettoni.»
«Li troverò, i soldi.»
Sandor disse: «E va bene, figlio. Finalmente ci si capisce qualche cosa con te. Che ne diresti, adesso, di fare colazione preparo un po’ di porridge». Nel suo pigiama verde a piccoli arabeschi stampati Himmelstein s’avviò verso la cucina coi lunghi piedi senza pantofole. Mentre anche lui s’avviava per il corridoio, Herzog udì un grido che proveniva da Sandor, già ritto davanti all’acquaio di cucina. «Guarda che sozzeria! Non c’è un tegame - non c’è un piatto - non c’è un cucchiaio pulito. Puzza di mondezza. È una fogna qui, proprio una fogna!» Il vecchio cane, obeso e spelato, fuggì intimorito, raspando con le unghie sulle mattonelle - clic, clic, clic, clic. «Porche scialacquone!» gridò alle donne di casa sua. «Sanguisughe fregate! Tutto quello che sanno fare è muovere il culo davanti ai negozi di vestiti e pomiciare tra le frasche. Poi vengono a casa, si rimpinzano di torta e lasciano i piatti sporchi di cioccolata nel lavandino. Gli vengono così, i peticelli.»
«Càlmati, Sandor.»
«Ma che, chiedo molto, io? Il vecchio reduce storpio corre su e giù per City Hall, da un tribunale all’altro - poi giù fino alla 26a. Per loro! Che gliene importa a loro che mi debba leccare tutto il campionario universale delle teste di cazzo per rimediare un affare?» Sandor cominciò a vuotare l’acquaio. Buttò gusci d’uovo e bucce d’arancia nell’angolo, accanto al bidone della spazzatura - e fondi di caffè. Si montò tanto, dalla rabbia, che cominciò a fracassare piatti e bicchieri. Le sue ditone da gobbo afferravano i piatti sporchi di zucchero caramellato, di salse dolci. Senza togliere - incredibile! bellezza al gesto, li scagliava contro il muro. Scaraventò via lo scolapiatti e il detergente e poi attaccò a piangere di rabbia. E anche su di sé, che doveva avere quei sentimenti, quelle emozioni. La bocca aperta coi denti sporgenti! Lunghi peli gli uscivano dal petto rattrappito.
«Moses - queste mi ammazzano! Ammazzano il padre!»
Le figlie erano a letto nelle loro camere, in ascolto. Il piccolo Sheldon era a Jackson Park con la sua truppa di scout.
Beatrice non si fece vedere.
«Non dobbiamo mica mangiare il porridge per forza» disse Herzog.
«No, lavo un tegame.» Stava ancora versando lacrime. Sotto il rubinetto torrenziale le sue dita sfregarono l’alluminio con la paglietta di ferro.
Quando si fu calmato, disse: «Lo sai, Moses, sono stato da uno psichiatra per questi stronzi di piatti. Mi costano venti dollari all’ora. Moses, ma che faccio io con questi figli miei? Sheldon se la caverà. Tessie non è poi tanto male. Ma Carmel! Non so come regolarmi con lei, come la devo trattare. Ho paura che i ragazzi già gli vanno dentro le mutande a quella. Senti, professore, mentre stai qui da noi, io non ti chiedo niente» (in cambio di letto e pasti, intendeva dire) «ma ti sarei grato se t’interessassi un po’ a come farle funzionare la testa. È la sua occasione per conoscere un intellettuale - una persona famosa un’autorità. Ci parlerai?»
«Di che cosa?»
«Libri - idee. Portala a fare una passeggiata. Per favore, Moses, ti prego, guarda!»
«Be’, certo che le parlerò.»
«L’ho domandato al rabbino - ma a che servono questi rabbini riformati? Io lo so che sono un volgaraccio bastardo, il Signor Caratteraccio. Ma io lavoro per questi ragazzini...»
Spreme i poveri. Si ricompra le cambiali dei negozianti che vendono articoli di lusso a rate alle prostitute del South Side.
E perdere una figlia e lasciarla ad altri per me deve andare benissimo, però i suoi talponi, no, a loro bisogna fargli discorsi elevati.
«Se Carmel fosse un po’ più grande, ti direi: sposala.»
Moses, pallido ed esterrefatto, si schermì. «È una ragazza molto piacente. Ma decisamente troppo giovane, è chiaro.»
Sandor mise il suo lungo braccio attorno alla vita di Herzog e se lo tirò vicino. «E non fare tanto la trottola, professore. Comincia a fare una vita normale. E dove diavolo non sei stato, tu - Canada, Chicago, Parigi, New York, Massachusetts. I tuoi fratelli se la sono cavata bene pure qui, in questa città. Naturalmente, quello che va bene per Alexander e per Willie non va altrettanto bene per un macher (21) come te. Moses E. Herzog neanche un centesimo in banca, però il suo nome lo potete trovare in biblioteca.»
«Speravo che Madeleine ed io ci saremmo sistemati.»
«Ma dove, in mezzo alla foresta? Ma non fare lo scemo. Con quella pupa? Ma vuoi scherzare? Torna alla tua culla. Tu sei un ebreo del West Side. Quand’eri piccolo ti vedevo sempre al Jewish People’s Institute. Rallenta un pochetto. Smettila d’ammazzarti. Io voglio più bene a te che alla porca famiglia mia. Su di me non l’hai mai provato il tuo fasullo armamentario di Harvard. Stattene vicino alla gente come si deve - ai cuori buoni. All’affetto. Gesù! Eh? Che ne dici?» Allontanò un poco la sua gran testa imponente e terrea per fissare Herzog negli occhi, ed Herzog sentì che il suo cerchio d’affetto tornava a richiudersi di nuovo. Il viso di Himmelstein con i suoi lunghi solchi gialli sprizzava gioia. «Non la puoi vendere quella topaia nelle Berkshires?»
«Potrei.»
«All’inferno allora, è fatta. Pèrdici qualche cosa se è necessario. Hanno rovinato Hyde Park, ma tanto non vorrai mica abitare insieme a quegli stronzetti di capelloni. Prenditi una casa in affitto qui nel quartiere mio.»
Nonostante fosse stanchissimo, e soffrisse come un pazzo, Herzog lo stava a sentire: un bambino che ascolta una favola.
«Prenditi una governante più sulla tua età. E buona anche a letto. Che c’è di male? Oppure te ne troviamo una di quelle bellissime di pelle scura, eh? Ma basta con le nipponiche.»
«Che vuoi dire?»
«Lo sai che voglio dire. O forse quello che ti serve, a te, è una ragazza sopravvissuta ai campi di concentramento, che sarebbe riconoscente di trovare una buona casa. E te e io ci facciamo la vita. Ce ne andiamo al bagno russo a North Avenue. M’hanno rovinato a Omaha Beach, ma chi se ne frega, io funziono lo stesso. Ce la godremo, noi due. Ci troviamo una shul (22) ortodossa - basta con tutta questa robaccia del Tempio. Io e te ci rimedieremo un buon chazàn...» (23) Atteggiando le labbra in modo che i baffetti filiformi quasi non si vedevano più, Sandor cominciò a cantare: «Mi p’nei chatoenu golino m’artzenu». E per i nostri peccati noi fummo cacciati in esilio dalla nostra terra. «Io e te, un bel paio di ebrei vecchio stampo.» Soggiogava Moses con i suoi occhi verde-rugiada. «Tu sei il mio ragazzo. Il mio ragazzo innocente di buon cuore.»
E diede un bacio a Moses. Moses sentì l’amore di patata.
Amorfo, dilagante, affamato, indiscriminato, codardo amore di patata.
«Oh, scimunito che sei» Moses gridava a se stesso in treno.
«Cretino!»
Ti lasciai del denaro per eventuali necessità. Tu lo hai dato tutto a Madeleine per comprarsi dei vestiti. Eri l’avvocato mio, o suo?
Avrei potuto capirlo, dal modo con cui parlava delle sue clienti femminili e da come assaliva tutti gli uomini. Ma Dio santo! come ho fatto ad andarmi a immischiare in quel pasticcio?
Perché mi andai a impegolare con lui, eh? Devo esser stato io a volere che mi succedessero delle cose così assurde. Ero talmente sprofondato nell’idiozia che persino loro, quegli Himmelstein, ne sapevano più di me. E mi mostrarono i fatti della vita, e m’insegnarono la verità.
Rivendicato con l’odio delle mie orgogliose imbecillità.
Nel tepore del fine pomeriggio, più tardi, accanto all’acqua di Woods Hole, in attesa del traghetto, guardò, oltre l’oscurità verde, la rete di riflessi luccicanti sul fondo. Gli piaceva moltissimo pensare alla potenza del sole, alla luce, all’oceano.
La purezza dell’aria lo commuoveva. Non v’era macchia nell’acqua dove nuotavano branchi di latterini. Herzog sospirò e disse fra sé: “Lode al Signore - Lode al Signore”. Il suo respiro s’era fatto più libero. Il suo cuore provava una grandissima commozione a quell’orizzonte aperto: i colori fondi; il leggero odore pungente di iodio dell’Atlantico che si sollevava dalle erbe e dai molluschi; la sabbia bianca, fine, pesante; ma soprattutto la trasparenza verde mentre guardava il fondo pietroso intersecato di linee dorate. Mai immobile. Se la sua anima avesse potuto proiettare un riflesso così rilucente, e così intensamente tenero, avrebbe forse potuto chiedere a Dio di servirsi di lui in quella guisa. Ma sarebbe stato troppo semplice. Sarebbe stato troppo puerile. La vera sfera non è limpida come questa, ma turbolenta, adirata. Vi si recita una vasta rappresentazione umana. La morte sta a guardare. Perciò se hai un po’ di felicità nascondila. E quando il tuo cuore è colmo, chiudi anche la bocca.
* * *
Aveva dei momenti di lucidità, ma non riusciva a mantenere a lungo l’equilibrio. Arrivò il traghetto, vi salì, reggendosi forte il cappello nel vento marino, un tantino vergognoso perché gli piaceva molto quel momento della vacanza. Le automobili venivano caricate a bordo in una nuvola di sabbia e marna mentre Herzog guardava in basso dal ponte superiore. Durante la traversata accomodò i piedi sulla valigetta poggiata verticalmente, prendendo il sole, guardando le barche con gli occhi socchiusi.
Giunto a Vineyard Haven, sul molo prese un taxi. Questo girò a destra sullo stradone parallelo al porto, fiancheggiato da grandi alberi - acqua, vele sulla destra, e l’asfalto che scorreva sotto foglie piene di sole. Grosse lettere dorate brillavano sulle facciate rosse dei negozi. Il centro commerciale era lucente come una scena teatrale. Il taxi andava piano, come se il vecchio motore avesse un vizio cardiaco. Oltrepassò la biblioteca pubblica, e i vialetti adorni di colonnine che conducevano alle case private, grandi olmi in forma di lira, e sicomori con grandi chiazze di corteccia bianca - notò i sicomori. Quegli alberi occupavano un posto importante nella sua vita. Il verde della sera stava scendendo, e l’azzurro dell’acqua, quando gli occhi si distoglievano dalle ombre dell’erba, sembrava sempre più pallido.
Il taxi voltò di nuovo a destra, verso la spiaggia, ed Herzog scese, perdendosi, mentre pagava, metà delle indicazioni dell’autista. «Giù per le scale - poi di nuovo su. Ho capito. Okay.» Scorse Libbie che aspettava sul portico con un vestito a tinte vivaci, e le fece un cenno di saluto con la mano. Lei gli tirò un bacio.
Immediatamente capì di aver fatto uno sbaglio. Vineyard Haven non era il posto per lui. Era bellissimo, e Libbie era carina, simpatica, una delle donne più carine del mondo. Ma non sarei mai dovuto venire. Non è proprio il caso, ora, pensò. Dava l’impressione di stare cercando i gradini di legno sulla rampa, esitando, un uomo dall’aspetto forte, che reggeva la valigia con tutt’e due le mani come un giocatore di baseball che stia per fare un lancio. Le sue mani erano grandi, con tante vene fortemente segnate; non mani di un uomo con un’occupazione di cervello, ma di un muratore o di un pittore. La brezza gonfiava i suoi abiti leggeri e poi glieli riappiccicava al corpo. E che espressione aveva - che viso! In quel momento particolare il suo modo di esistere era così curioso che non poteva, lui stesso, fare a meno di accorgersene - intenso, accorato, fantastico, pericoloso, impazzito e, fino alla morte, “comico”. Ce n’era abbastanza perché un uomo pregasse Iddio di liberarlo da quel grande, insostenibile peso del sé e dell’evoluzione del sé, e che restituisse se stesso, esperimento fallito, alla “specie”, per una cura radicale. Ma ormai quello stava diventando un modo corrente, quasi convenzionale, di considerare la vita del singolo. In quell’ordine di idee il corpo stesso, con le sue due braccia e la sua lunghezza verticale, veniva paragonato alla Croce, su cui si conosceva l’agonia della coscienza e dell’esistere separati. Se era per questo, lui quella cura radicale la era andata facendo, regolata e diretta da Madeleine, da Sandor, e da tutti gli altri; così che le sue recenti sventure potevano essere viste come un piano collettivo, con se stesso nel ruolo di partner, diretto a distruggere la propria vanità e la propria ambizione ad avere una vita personale, per dargli modo solo di potersi disintegrare e soffrire e odiare, come tanti altri, non appeso a una cosa tanto pregiata come una croce, ma giù nella melma del post-Rinascimento, post-Umanesimo, nella dissoluzione post-cartesiana, a un passo dal Vuoto. C’erano tutti, dentro. La “Storia” elargiva a tutti un viaggio gratuito.
Gli stessi Himmelstein, che non avevano mai letto un libro di metafisica, gonfiavano, cercavano di smerciare il Vuoto come si trattasse di un immobile in vendita. Questo demonietto era impregnato di idee moderne, ed una in particolare eccitava il suo terribile cuoricino; bisogna che tu sacrifichi la tua povera, sbraitante, striminzita individualità - tanto può darsi benissimo che non sia (da un punto di vista analitico) niente di più che una persistente megalomania infantile o (da un punto di vista marxista) una piccola fetente proprietà borghese - alla necessità storica. E alla verità. E la verità è vera soltanto perché porta più sventure e più desolazione sugli esseri umani, di modo che se rivela qualsiasi altra cosa che non sia il male è illusione, e non verità. Ma naturalmente lui, Herzog, che, com’era da aspettarsi, non s’era rassegnato a quelle tendenze, aveva, con la cieca ostinazione tipica del suo carattere, spavaldamente ma senza tutto il coraggio o l’intelligenza necessari, tentato di essere un Herzog meraviglioso, un Herzog deciso a tentare, forse goffamente, di vivere doti meravigliose appena vagamente afferrate. Era chiaro che aveva esagerato, che s’era spinto oltre i suoi limiti e le sue capacità, ma quella era la crudele difficoltà di un uomo che aveva forti impulsi, persino fede, ma a cui mancavano idee chiare. E anche se aveva fallito? Significava davvero che non esistevano fedeltà, generosità, nessuna sacra virtù? Doveva forse essere un Herzog comune, senza ambizioni? No.
E Madeleine un tipo simile non l’avrebbe mai sposato. Quello che lei era andata cercando, per mari e per monti, era precisamente l’Herzog ambizioso. Per fargli lo sgambetto, trascinarlo in basso, buttarlo a terra e calpestargli il cervello con piede assassino, carogna che era. Ah, che confusione che aveva combinato - che spreco d’intelligenza e di sentimenti! Quando pensava al tedio interminabile, ansioso, del periodo del corteggiamento e del matrimonio, con tutto ciò che vi aveva investito di preparativi - per non parlare che delle misure d’ordine pratico, treni e aeroplani e alberghi e grandi magazzini, e le banche dove aveva svolto le sue operazioni, e cliniche, dottori e medicine, debiti; e, più personalmente, le notti di rigida insonnia, i gialli noiosi pomeriggi, le prove affrontate nel combattimento sessuale, e tutta l’orrenda egomania in esso implicata, si meravigliava addirittura di esserne sopravvissuto. Si meravigliava, persino, d’aver avuto ancora voglia di sopravvivere. Altri della sua generazione si riducevano allo sfinimento, si esaurivano, morivano d’apoplessia, di cancro, volevano la propria morte, probabilmente. Ma lui, malgrado tutti i suoi sfondoni, inciampicone del cacchio che non era altro, ecco che astuto lo era, però. Era sopravvissuto. Ma per che cosa? Cosa ci rimaneva a fare? Per continuare in quella gara di relazioni personali fino allo stremo delle forze. Solo per essere un acclamato campione nel regno dell’intimità, un re di cuori?
Herzog amoroso, cercatore d’amore, che abbracciava le sue Wande, Zinke e Ramone, una dopo l’altra? Ma questa è un’impresa da donne. Questi abbracci e struggimenti sono roba da donne. L’uomo deve occuparsi del dovere, dell’utile, della coscienza civile, della politica in senso aristotelico. Ma allora, perché adesso arrivo qui, a Vineyard Haven, e per giunta in vacanza! Affranto e agghindato, coi miei pantaloncini acchittati e le mie stilograficucce, e il mio dolore - a disturbare e affliggere la povera Libbie, a sfruttare il suo affetto, costringendola a ripagarmi d’esser stato così gentile e buono al tempo in cui il suo ultimo marito, Erikson, perdette la bussola completamente e tentò di pugnalarla e poi di suicidarsi col gas? Nel quale tempo, sì, le fui di grande aiuto. Ma se lei non fosse stata così bella, così attraente, e, s’intende, attratta verso di me, sarei poi stato un amico e un consolatore così sollecito? E c’è poi molto da compiacersi del fatto che adesso venga a infastidirla, sposa di pochi mesi, con tutti i miei guai? Sono venuto a pretendere il do ut des? Fai marcia indietro, Moshe-Hanan, e prendi il prossimo traghetto. Ti serviva un viaggetto in treno. Bene. Infatti ha funzionato.
Libbie corse giù per il vialetto a salutarlo, e gli diede un bacio. Era già vestita da sera, con un abito da cocktail color arancio o papavero. A Moses ci volle un paio di secondi per determinare se il profumo che sentiva proveniva dalla vicina aiuola di peonie o dal collo e dalle spalle della donna. Non c’erano dubbi: era sinceramente felice di vederlo. Con mezzi più o meno leali, si era fatto un’amica.
«Come stai?»
«Non rimango, guarda» disse Herzog. «Non è il caso.»
«Ma che dici? Hai fatto un viaggio di ore. Entra, ti presento Arnold. Mettiti a sedere e bevi qualcosa. Ma sei buffo, sai?»
Rise, e lui si sentì obbligato a ridere con lei. Sissler comparve sul portico, sulla cinquantina, sciamannato e insonnolito, ma allegro, e cominciò a emettere suoni di benvenuto con il suo vocione profondo. Portava un paio di pantaloni larghi, rosa, con l’elastico in vita.
«Dice che già vuol ripartire, Arnold. Te l’ho detto che era buffo.»
«E ha fatto tutta questa strada per dircelo? Venga dentro entri. Stavo per accendere il fuoco. Fra un’ora farà più freddo e viene gente a cena. Che ne dice di qualche cosa da bere? Scotch o bourbon? Preferirebbe farsi una nuotata, invece?» Sissler gli fece un sorrio grande, simpatico, rugoso, da occhi neri. Questi occhi erano piccoli, e aveva delle fessure tra i denti; era calvo, e i capelli che aveva sulla nuca erano folti e rigonfi come uno di quei grossi funghi da albero che crescono sui fianchi muschiosi dei tronchi. Libbie s’era sposata un vecchio cane saggio e confortevole, di quelli che poi si scopre sempre che hanno vaste riserve di comprensione e umanità. Quando furono nella luce più forte dell’ala della casa rivolta verso il mare, Herzog constatò che Libbie stava straordinariamente bene, sembrava felice, aveva il viso abbronzato e liscio. Sulla bocca portava un rossetto color papavero, al polso braccialetti di maglia dorata, al collo una pesante catena d’oro. Era un po’ invecchiata - doveva avere trentotto, trentanove anni, all’apparenza, ma i suoi occhi scuri, accostati, che le davano uno sguardo fluido e assorto (aveva un bel naso, delicato), non li aveva mai visti così limpidi. Era in quel periodo della vita quando comincia l’azione più tarda dell’ereditarietà, quando traspaiono le imperfezioni degli avi - una macchia, o l’approfondirsi delle rughe, che in un primo momento accrescono invece di diminuire la bellezza della donna. La morte, artista lentissima, che dà i primi tocchi. Ma tutto questo a Sissler non importava proprio. Lo aveva già accettato, lui, e avrebbe continuato a parlottare col suo accento russo e essere sempre lo stesso uomo d’affari, forte e deciso, fino al giorno della sua morte. E allorché quel momento fosse venuto, avrebbe dovuto morire disteso su un fianco per via di quei suoi capelli cespugliosi sulla nuca.
Idee che spopolano il mondo.
Ma mentre Herzog accettava un drink, e udiva se stesso dir grazie con voce chiara, e notò che stava sedendosi in una poltrona ricoperta di chintz, la sua capacità d’interpretazione psicologica gli suggerì che poteva non essere di Sissler il cataletto che vedeva nella sua proiezione visiva, bensì quello di un qualche altro che aveva una moglie. Forse era proprio lui che stava morendo nella sua fantasia. Lui aveva avuto una moglie due mogli - ed era stato anche lui oggetto di simili saporite fantasie mortuarie. Ora: il primo requisito di stabilità in un essere umano è che il detto essere umano desideri realmente di esistere. Dice Spinoza. È necessario per la felicità (felicitas). Egli non può comportarsi bene (bene agere), o vivere bene (bene vivere), se lui stesso non vuole vivere. Ma se è anche naturale, come dice la psicologia, uccidere mentalmente (un pensiero-omicidio al giorno tiene lontano lo psichiatra), allora il desiderio di esistere non è abbastanza costante per sorreggere una buona vita. Voglio esistere o voglio morire? Ma in quel momento di vita associata non poteva pensare di poter rispondere a domande del genere, ed inghiottì, invece, del bourbon gelido dal bicchiere tintinnante. Il whisky andò giù, bruciandogli piacevolmente dentro il petto come una serpentina di fuoco. Sotto di sé, vide la spiaggia butterata, e il tramonto fiammeggiante sull’acqua. Il traghetto tornava indietro. Mentre il sole scendeva la gran valva della baia improvvisamente si riempì di luci elettriche. Nel calmo cielo un elicottero si diresse verso Hyannis Port, dove stavano i Kennedy. Grandi cose, là, una volta. La potenza delle nazioni. Che cosa ne sappiamo?
Moses sentì una fitta acuta al pensiero del Presidente scomparso.
(Mi domando che cosa gli direi a un Presidente durante una vera conversazione.) Sorrise un poco ricordandosi di sua madre che si vantava di lui con zia Zipporah. «Che linguetta che ci ha. Moshele saprebbe dire il fatto suo al Presidente.» Ma a quell’epoca presidente era Harding. O Coolidge? Intanto la conversazione continuava. Sissler stava cercando di mettere Moses a suo agio - devo evidentemente avere un’aria stravolta - e Libbie sembrava preoccupata.
«Ah, non vi date pensiero per me» disse Moses. «Sono solo un pochino eccitato dalle varie cose.» Rise. Libbie e Sissler si scambiarono un’occhiata, ma perdettero un po’ del loro nervosismo. «È una bella casa questa qui. In affitto?»
«È mia» disse Sissler.
«Ah, davvero. Un posto magnifico. Per l’estate soltanto, vero? La potreste attrezzare per l’inverno senza nessuna difficoltà.»
«Costerebbe quindici bigliettoni, se non di più» disse Sissler.
«Così tanto? Immagino che mano d’opera e materiali siano più cari su quest’isola.»
«Potrei farmela da solo, certamente» disse Sissler. «Ma noi veniamo qui per riposarci. So che anche lei ha una proprietà.»
«Ludeyville, nel Massachusetts» disse Herzog.
«Da che parte?»
«Berkshires. Dove fa angolo col Connecticut.»
«Dev’essere una campagna bellissima.»
«Ah, sì, è bellissimo, eccome. Troppo isolato, però. Lontano da tutto.»
«Un altro drink?»
Forse Sissler pensava che l’alcool l’avrebbe calmato.
«Moses probabilmente si vorrà rinfrescare un po’, dopo il viaggio» disse Libbie. «Gli faccio vedere la sua stanza.»
Sissler portò la valigia di Herzog di sopra.
«Questa è una bella scala antica» disse Moses. «Oggi per farne una così non basterebbero migliaia di dollari. Ci hanno fatto un bel po’ di lavoro, per una casa d’estate.»
«Sessant’anni fa c’erano ancora gli artigiani» disse Sissler.
«Dia uno sguardo alle porte - acero marezzato. Ecco, qui sta lei. Penso che ci sia tutto quel che le serve - asciugamani, sapone. Stasera vengono dei vicini. Anche una signora sola. Cantante. La signorina Elisa Thurnwald. Divorziata.»
La camera era ampia e comoda, con vista sulla baia. I fari azzurrastri dei due capi, East e West Chop, erano accesi.
«È proprio un bel posto» disse Herzog.
«Disfi la valigia. Faccia con comodo. Non abbia fretta di andarsene. Io so che lei è stato per Libbie un buon amico in un momento brutto. M’ha raccontato come l’ha protetta da quel pazzoide di Erikson. Provò persino a pugnalarla, quella poverina. Se non avesse avuto lei...»
«Quanto a questo anche Erikson non aveva nessuno.»
«E che c’entra?» disse Sissler, voltando un po’ di sbieco la sua facciona robusta, ma non più del tanto necessario perché i suoi occhietti furbi potessero scorgere Herzog dalla visuale necessaria alla più comoda considerazione. «Lei le ha dato forza. E per me è tutto. Non soltanto perché voglio bene alla ragazza, sa, ma perché ci sono tanti di quei tipacci in circolazione. Lei è nei guai, lo vedo. Le sprizza da tutti i pori. Lei ha un’anima - vero, Moses?» Scosse il capo, fumando la sigaretta con due dita macchiate premute contro la bocca, la voce ridotta a un brontolio. «Fosse possibile mandarla al diavolo ‘sta figlia di puttana, vero? Che terribile handicap, quest’anima.»
Moses rispose a voce bassa: «Non sono nemmeno sicuro di avercela ancora».
«Io direi di sì. Be’...» Girò il polso per cogliere l’ultima luce sul suo orologio d’oro. «Ha il tempo per riposarsi un pochino.»
Se ne andò, e Moses stette per un poco sdraiato sul letto - un buon materasso, un’imbottita pulita. Stette così per un quarto d’ora senza pensare, labbra schiuse, braccia e gambe distese, respirando tranquillamente e guardando le figure della carta da parati fino a che gliele nascose l’oscurità. Quando si tirò in piedi non fu per lavarsi e vestirsi, ma per buttar giù un bigliettino di saluti sullo scrittoio di acero. Nel cassetto c’era della carta da lettere.
Bisogna che torni a casa. Non ce la faccio a sorbirmi gentilezze in questo momento. Sentimenti, cuore, tutto sottosopra, Lavoro da finire. Siate benedetti tutti e due. E tanta felicità. A fine estate, forse: se mi concedete il buono di ritorno. Con riconoscenza, Moses.
Sgattaiolò fuori. I Sissler erano in cucina. Lui stava facendo un gran chiasso con i vassoietti del ghiaccio. Moses scese di corsa le scale e a velocità frenetica uscì dalla porta a reticella. Senza rumore. Scavalcò la siepe e passò nella proprietà accanto. Su per il sentierino, e giù di nuovo all’imbarcadero. Prese un taxi e si fece condurre all’aeroporto.
A quell’ora non c’era che un volo per Boston. Lo prese, e all’aeroporto di Boston riuscì a saltare su un aereo per Idlewild. Alle 11 di sera se ne stava nel proprio letto, a bere latte caldo e mangiare un sandwich di burro di noccioline. Gli era costato una bella sommetta, quel viaggio.
* * *
Teneva sempre la lettera di Geraldine Portnoy sul comodino, e prima di addormentarsi la prese e la rilesse. Tentò di ricordarsi quel che aveva provato nel leggerla la prima volta, a Chicago, dopo qualche esitazione.
Gentile signor Herzog, sono Geraldine Portnoy, l’amica di Lucas Asphalter. Forse lei ricorderà...Ricorderà? Moses aveva letto più in fretta (la scrittura era femminile - lo stampatello da scuola progressiva diventato corsivo, e i puntini sulle i erano dei curiosi circoletti aperti), nel tentativo di mandar giù tutta la lettera in un sol colpo, girando le pagine per vedere se per caso il nocciolo della questione fosse sottolineato in qualche paragrafo. Sta di fatto che ho seguito il suo corso sui Romantici come filosofi della società. Non ci trovavamo d’accordo su Rousseau e Karl Marx. Successivamente mi sono convinta che aveva ragione lei e che Marx aveva formulato delle ipotesi metafisiche sul futuro del genere umano. Prima prendevo troppo alla lettera ciò che egli aveva detto del materialismo. Che avevo ragione io! Ma se è opinione corrente! E perché poi mi vuole tenere in sospeso a questo modo - perché non si decide?
Aveva tentato di nuovo di trovare il fulcro della questione, ma tutti quei puntini a cerchietto gli cadevano come neve sulla vista e mascheravano il messaggio. Probabilmente lei non mi ha mai notato, ma lei mi piaceva, e come amica di Lucas Asphalter che proprio l’adora, e dice sempre che lei è, nientemeno, un portento d’umanità - evidentemente ho molto sentito parlare di lei, anche perché sono cresciuta nel vecchio quartiere di Lucas, e del fatto che lei giocava a pallacanestro alla Fraternità dei Ragazzi della Repubblica, in Division Street, nella Chicago dei bei tempi andati. Un mio zio acquisito è stato suo allenatore Jules Hankin. Sì, credo di ricordarmelo Hankin. Aveva un golf blu, e portava la scriminatura in mezzo. Non mi fraintenda. Non mi voglio immischiare nei suoi affari privati. Né sono una nemica di Madeleine. Capisco anche la sua situazione. È così vivace, intelligente, ed è così simpatica, affascinante, è stata così cara e aperta con me. L’ho ammirata a lungo, ed essendo più giovane, ero assai compiaciuta che mi facesse delle confidenze.
Herzog arrossì. Confidenze che avranno incluso i suoi infortuni sessuali. Certo, come sua ex allieva, io ero curiosissima della sua vita privata, e tuttavia mi sorpresero la franchezza e decisione di Madeleine nel parlarne; non tardai ad accorgermi del resto che cercava, chissà perché, di accattivarsi le mie simpatie. Lucas mi mise in guardia che non ci fosse per caso in quegli approcci qualcosa di “particolare”, ma è anche vero che di un qualsiasi sentimento appena appena un po’ intenso fra persone dello stesso sesso si fa in fretta a sospettare ingiustamente. La mia educazione scientifica mi induce a generalizzazioni più caute e a resistere alla crescente mania di psicoanalizzare il comportamento comune della gente. Però non c’era dubbio che lei facesse tutto il possibile per conquistarsi le mie simpatie, anche se era troppo furba per venirmelo a spiattellare sul muso, come si usa dire. Di lei, mi raccontò che aveva ottime qualità umane e intellettuali, malgrado fosse un intollerabile e irascibile nevrotico, cosa che spesso le faceva paura. Tuttavia, aggiungeva Madeleine, lei sapeva anche esser grande, e dopo due matrimoni sbagliati e senza amore, non era improbabile che avesse ormai soltanto voglia di dedicarsi al lavoro per cui era portato.
Ma nei rapporti sentimentali, la accusava di non avere grandi capacità. Non mi ci volle molto a capire che Madeleine non si sarebbe mai data a un uomo che mancasse di intelligenza o sensibilità superiori. Madeleine mi disse che era la prima volta in vita sua che sapeva con chiarezza cosa stava facendo. Fino a quel momento la sua vita era stata tutta una confusione e c’erano persino dei periodi di cui non riusciva a render conto. Quando aveva sposato lei, si trovava appunto in un caos di quelli e se non interveniva qualche fatto nuovo a cambiar tutto, poteva correre il rischio di rimanerci. Parlare con Madeleine è straordinariamente eccitante, ti sa dare il senso di un incontro importante - con la vita - una persona brillante, meravigliosa, con un destino personalissimo. Le sue esperienze sono ricche, o pregne... Cosa, cosa? - era passato per il capo ad Herzog - non vorrà mica venirmi a dire che Madeleine sta per avere un figlio?
Figlio di Gersbach! No! Oh che meraviglia! - oh che fortuna per me! Se avesse un bambino fuori del matrimonio e prima del divorzio, un figlio illegittimo, potrei richiedere la custodia di Junie. Aveva divorato con impazienza il resto della pagina, aveva girato il foglio. No, Madeleine non era incinta. Era troppo furba per fare succedere una cosa del genere. Se era sopravvissuta, lo doveva alla sua intelligenza. L’essere astuta faceva parte del suo tipo di malattia. Dunque non era incinta. Non ero più soltanto una laureanda che le dava una mano a badare alla piccola, ero una confidente. La sua bambina mi è attaccatissima, ed io la trovo una piccina veramente straordinaria. Eccezionale, davvero. Il modo in cui io voglio bene a Junie supera di molto, oh moltissimo, l’affetto che di solito si sente per i bambini conosciuti da baby-sitter. Mi dicono che gli italiani siano, di tutta la civiltà occidentale, i più premurosi verso l’infanzia (basta vedere la raffigurazione di Gesù bambino nella pittura italiana), ma non c’è dubbio che anche noi americani abbiamo il nostro tipo di fissazione in fatto di psicologia dell’infanzia.
Si fa tutto per i bambini, a quanto pare. Per essere giusti, credo che Madeleine, fondamentalmente, non sia una cattiva madre con la piccola June. Ha la tendenza ad essere autoritaria. Il signor Gersbach, che ha una posizione ambigua in questa casa, fa divertire molto la bambina, nel complesso. Junie lo chiama zio Val, e vedo che spesso lui la porta a cavalluccio, e le fa fare i salti. A questo punto Herzog aveva stretto i denti, arrabbiato, subodorando il pericolo. Devo però riferirle una cosa spiacevole, e ne ho anche discusso con Lucas. Ed è che, arrivando a Harper Avenue, l’altra sera, ho sentito piangere la bambina.
Stava dentro la macchina di Gersbach, non poteva uscire, e, poverina, tremava e piangeva. Io pensai che si fosse chiusa dentro mentre giocava, ma era già buio da parecchio, e non riuscivo a capire come mai stesse fuori casa, sola, all’ora di andare a letto. Il cuore di Herzog, a quelle parole, s’era messo a battere con forti, pericolosi colpi. Ho dovuto calmarla, e poi ho scoperto che la mamma e lo zio Val stavano bisticciando dentro casa, e lo zio Val l’aveva presa per la mano e l’aveva portata fuori, nella macchina, e le aveva detto di giocare per un poco. L’aveva chiusa dentro e se n’era tornato in casa. Mi par di vederlo che sale i gradini mentre Junie urla impaurita. Io l’ammazzo - Dio m’è testimone, se non lo faccio! Rilesse le righe finali. Luke dice che lei ha diritto di sapere queste cose. Voleva telefonargliele, ma io ho pensato che sarebbe stato un brutto colpo e che le avrebbe fatto male sentire queste cose per telefono. Una lettera dà la possibilità di riflettere - di ripensare alle cose, e di giungere a un giudizio più equilibrato. E badi che non credo che Madeleine sia una cattiva madre, in realtà.
CAPITOLO IV
La mattina dopo, eccolo di nuovo a scrivere lettere. La piccola scrivania presso la finestra era nera, a rivaleggiare col nero della scaletta antincendio, quei profilati intinti nel pesante cosmetico nero dell’asfalto, scure linee equidistanti ma in regola con la prospettiva. Aveva delle lettere da scrivere. Era occupato, occupato a rincorrere oggetti che soltanto adesso, e debolmente, cominciava a capire. Il suo primo messaggio, oggi, iniziato nella semicoscienza del risveglio, era indirizzato a Monsignor Hilton, il sacerdote che aveva condotto Madeleine in seno alla Chiesa. Sorbendosi il suo caffè nero, Herzog, nella vestaglia di cotone stampato, strinse gli occhi e si schiarì la gola, già conscio della rabbia, dell’indignazione dilagante che provava. Che sapesse una buona volta, quel Monsignore, quale effetto aveva sulla gente del cui destino s’immischiava. Io sono il marito, o ex marito di una giovane donna che lei ha convertito, Madeleine Pontritter, la figliola del noto impresario. Come forse ricorderà, qualche anno fa venne da lei per ricevere la necessaria catechesi e lei la battezzò. Da poco laureata a Radcliffe, e molto bella... Madeleine era davvero quella gran bellezza, o l’averla perduta lo faceva esagerare rendeva forse la sua sofferenza più singolare? - Lo consolava sapere che una donna bella l’avesse piantato? Ma lei l’aveva fatto per quello sbracione ganimede agguantaculi di un Gersbach, brutto che era. Non c’è niente da fare con i gusti delle donne, in fatto di sesso. Questa è saggezza antica. Né con quelli degli uomini. Obiettivamente parlando, però, era una bella donna. E anche Daisy, al tempo suo. Io pure, una volta, ero bello, ma mi sono imbruttito a forza di presunzione... Di carnagione sana e rosea, bei capelli scuri raccolti in una crocchia e una frangetta sulla fronte, collo esile, gravi occhi azzurri e naso bizantino, che le scendeva in una linea diritta dalle sopracciglia. La frangetta nascondeva una fronte di considerevole potenza intellettuale, una volontà da demonio, o magari dichiarato disordine mentale. Aveva un gran senso dello stile. Appena cominciò a venire a lezione di catechismo da lei comperò croci e medaglie e rosari e abiti acconci. Ma d’altro canto non era che una ragazzina, in realtà, appena uscita dal college. Eppure, io credo che capisse molte cose, meglio di quanto non le capissi io. E voglio che lei sappia, Monsignore, che non le scrivo per denunciare Madeleine, o per prendermela con lei. Credo semplicemente che le possa interessare sapere cosa può accadere, ovvero quello che in effetti accade, quando la gente si vuol salvare dal... suppongo che la parola sia: nichilismo.
Dunque, allora, che cos’è che accadde? Che cosa accadde in effetti? Herzog cercò di capire, guardando fisso le pareti di mattoni tra le quali era tornato a rifugiarsi, scappando dalla Vineyard. Io avevo quella stanza a Filadelfia - quel lavoro per un anno - e andavo avanti e indietro a New York tre o quattro volte la settimana sul treno della Pennsylvania, per far visita a Marco. Daisy giurava che non mi avrebbe concesso il divorzio. E, per un certo tempo, me la feci con Sono Oguki, a casa sua, però non era quel che cercavo. Non era abbastanza seria. Nel lavoro non combinavo gran che. Le lezioni a Filadelfia, ordinaria amministrazione. Gli studenti s’annoiavano con me, e io con loro.
Papà ebbe sentore della mia vita dissoluta, e s’arrabbiò. Daisy gli scrisse tutto, ma non erano affari di papà. Che cosa accadde, veramente? Rinunciai all’usbergo di un’esistenza ordinata, legale, con uno scopo, perché m’annoiava, e capivo che non era altro che un’esistenza da scansafatiche. Sono voleva che mettessi le tende a casa sua, con lei. Ma io pensavo che così mi sarei trasformato in un bravo ometto casalingo. Perciò presi le mie carte, i miei libri, la mia Remington da ufficio col cofano nero, i miei dischi, il mio oboe e la mia musica e me ne andai a Filadelfia.
Trascinarsi su e giù in treno, stancarsi come una bestia: che migliore sacrificio poteva offrire? Andava a vedere il suo bambino, e affrontava l’ira della sua ex moglie. Daisy faceva l’ottusa. Ci rimetteva in bellezza. Aspettava Moses in cima alle scale, a braccia incrociate, tutta d’un pezzo, con gli occhi verdi e i capelli tagliati a zazzeretta, apposta per dirgli che doveva riportare Marco a casa entro due ore. Lui aveva orrore di quegli incontri. Naturalmente lei sapeva sempre esattamente quel che lui faceva, chi vedeva, e di tanto in tanto gli diceva: «Come va il Giappone?» oppure: «Come sta il Papa?». C’era poco da ridere. Aveva tante buone qualità, Daisy, ma il senso dell’umorismo, no.
Moses si preparava, per le sue uscite con Marco. Altrimenti il tempo non passava mai. In treno s’imparava a memoria i fatti della guerra civile - date, nomi, battaglie - così mentre Marco si mangiava il suo hamburger alla cafeteria del Giardino Zoologico, dove andavano sempre, potevano parlare un po’.
«Stavolta ti racconterò di Beauregard» diceva. «Questa parte è molto emozionante.» Ma Herzog riusciva a stento a concentrare l’attenzione sul generale Beauregard o sull’Isola numero 10 o su Andersonville. Pensava a come comportarsi con Sono Oguki, che già s’accingeva a disertare per Madeleine - almeno, aveva l’aria d’una diserzione. La ragazza non aspettava altro che lui la chiamasse; e lui lo sapeva. Spesso era tentato, specie quando Madeleine era troppo occupata con la Chiesa, e si rifiutava di vederlo, di andarci un momento e fare due chiacchiere, niente di più, con Sono. Era una situazione orrendamente confusa, e lui si disprezzava per averla creata. Tutto qui il lavoro che un uomo poteva trovare da fare?
Perdere il rispetto di sé! Non avere idee chiare!
Marco simpatizzava, lui lo capiva, con quel suo papà così confuso. Stava al gioco con Moses, chiedendogli altre cose della guerra civile, non per altro ma perché era tutto quello che suo padre aveva da offrirgli. Il bambino non avrebbe mai respinto un dono fatto con tanta buona intenzione. C’era amore in quell’atteggiamento, pensò Herzog, avvolto nella sua vestaglia di cotone, col caffè che si stava facendo freddo. Io e quel bambino ci amiamo. Ma che cosa posso dargli? Marco lo guardava con i suoi occhi chiari, la sua pallida faccia infantile, la faccia degli Herzog, lentigginosa, coi capelli tagliati corti corti, come voleva lui, eppure un po’ estraneo. Aveva la bocca della nonna Herzog. «Be’, va bene, piccolo, mi tocca tornare a Filadelfia adesso» diceva Herzog. Sentiva, al contrario, che non c’era niente di necessario in quel suo ritorno a Filadelfia. Filadelfia era uno sbaglio completo. Che bisogno c’era di prendere quel treno? Era necessario, per esempio, vedere Elizabeth e Trenton?
Come se stessero ad aspettare di farsi vedere da lui! O lo aspettava forse il suo lettino a una piazza, a Filadelfia? «È quasi ora del treno, Marco.» Tirava fuori il suo orologio da taschino, regalo del padre vent’anni prima. «Stai attento sulla metropolitana. E anche vicino a casa, capito? Non entrare nel Morningside Park. Ci sono i banditi.»
Reprimeva l’impulso di fare il numero di Sono Oguki da una cabina sul marciapiede e prendeva invece la metropolitana che lo portava alla Penn Station. Nel suo lungo cappotto marrone, stretto di spalle e tutto sformato dai libri che s’infilava in tasca, percorreva il tunnel sotterraneo pieno di negozi - fiori, posate, whisky, doughnuts e salsicce alla griglia, il gelo ceroso dell’aranciata. Con fatica risaliva nell’atrio pieno di luce della stazione, le grandissime finestre che spartivano polverosamente il sole autunnale - l’aggobbito sole del quartiere dell’abbigliamento. Lo specchio della macchinetta delle gomme da masticare rivelava a Herzog che brutta cera avesse: pallida e malaticcia - fili e ciuffi del cappotto e della sciarpa di lana, del cappello e delle sopracciglia, contorti e fiammeggianti in fuori nella luce pienissima che metteva a fuoco la sfera del suo viso, viso d’un uomo che voleva mantenere una facciata. Herzog sorrise a quella precedente incarnazione della sua vita, all’Herzog vittima, all’Herzog aspirante amante, all’Herzog uomo su cui il mondo contava per un determinato lavoro intellettuale, per cambiare la storia, per influenzare lo sviluppo delle civiltà. Varie scatole di cartone piene di carta stantia sotto il suo letto a Filadelfia avrebbero prodotto questo risultato altamente significativo.
Così, traversato il cancelletto estensibile di ferro con la sua placca color cremisi, a lettere dorate, Herzog, con in mano il suo biglietto non bucato, s’avviava al treno. I lacci delle scarpe strisciavano sul pavimento. I fantasmi di un’antica fierezza fisica erano ancora quasi visibili in lui. Al livello inferiore, i vagoni, di un rosso fumoso, stavano aspettando.
Andava o tornava? Certe volte non lo sapeva.
I libri che aveva in tasca erano la breve storia della guerra civile del Pratt e svariati volumi di Kierkegaard. Sebbene avesse smesso il vizio del tabacco, Herzog si sentiva ancora attratto dalla carrozza per fumatori. Gli piaceva l’odor di fumo. Seduto su un sudicio sedile imbottito, tirava fuori un libro e leggeva: Poiché morire significa che tutto è finito, ma morire la morte significa sperimentare la morte, cercando di pensare a cosa potesse mai significare. Se... Sì... No... d’altra parte, se l’esistenza è nausea allora la fede è un sollievo incerto. O altrimenti - fatti demolire dalla sofferenza e sentirai il potere di Dio mentr’egli ti ristora. Belle letture per un depressivo!
Herzog, alla sua scrivania, sorrideva. Si lasciava cadere il capo tra le mani, mezzo ridendo, silenziosamente. Ma in treno studiava duro, serissimo. Tutti coloro che vivono, vivono immersi nella disperazione (?). E questa è la malattia mortale (?). Il fatto è che un uomo si rifiuta di essere quello che è (?).
Chiudeva il libro mentre il treno raggiungeva i cumuli di rifiuti del New Jersey. Sentiva caldo alla testa. Trovava refrigerio premendo contro la gota il grosso bottone-distintivo pro-Stevenson che portava appuntato al bavero. Il fumo nella carrozza era dolce, putrido, pastoso. Lo inghiottiva a grandi boccate, lo inspirava nei polmoni - una sozzura eccitante; rapito inalava l’umidore dei vecchi tubi. Le ruote stavano accelerando con un clamore acuto, mordendo i binari. Il freddo sole d’autunno fiammeggiava sulle fabbriche del New Jersey. Forme vulcaniche di scorie metalliche, canneti, scarichi d’immondizia, raffinerie, torce fantomatiche e subito dopo boschi e prati. Le querce basse erano rigide come metallo. I prati si facevano azzurri. I mattoni opachi di Elizabeth sparivano, lasciati indietro. All’imbrunire Trenton si avvicinava come il cuore di un fuoco di carbone.
Herzog leggeva l’insegna municipale - TRENTON PRODUCE, IL MONDO CONSUMA!
Al cader della notte, in un freddo luccichio elettrico, sopraggiungeva Filadelfia.
Pover’uomo, la salute non andava proprio.
Herzog ridacchiava al pensiero delle pillole che aveva preso e al latte che aveva bevuto durante la notte. Accanto al suo letto, a Filadelfia, spesso si trovava una decina di bottiglie.
Sorseggiava latte per calmarsi lo stomaco.
Vivere in mezzo a grandi idee e grandi concetti, insufficientemente rilevanti rispetto alle condizioni della vita americana attuale, quotidiana. Vede, Monsignore, se lei si presenta alla televisione con gli antichi camici e cotte della Chiesa cattolica, nei bar almeno vi sono abbastanza irlandesi, polacchi e croati che la guardano e la capiscono, mentre solleva con eleganza le braccia al cielo e rotea gli occhi come un divo del cinema muto - Richard Barthelmess o Conway Tearle; la classe lavoratrice cattolica è fiera di lui. Ma io, erudito specializzato in storia della cultura, impedito da confusione emotiva... Resistendo all’argomento secondo cui il pensiero scientifico avrebbe messo a soqquadro tutte le considerazioni basate sui valori... Convinto che l’estensione dello spazio universale non distrugga i valori umani, che il regno dei fatti e quello dei valori non siano separati eternamente. E con la singolare idea in testa (testa ebrea) che, quanto a questo, era ancora tutto da vedere! Anzi, con la mia vita avrei dimostrato una tesi totalmente diversa. Stufo e stanco dello storicismo moderno che nella nostra civiltà vede la sconfitta delle migliori speranze della religione e del pensiero occidentali, ciò che Heidegger chiama la seconda Caduta dell’Uomo nel quotidiano e nel banale. Nessun filosofo sa bene che cos’è il banale, nessuno c’è mai caduto dentro abbastanza a fondo. Il problema dell’esperienza umana banale è il problema principale dei secoli moderni, come Montaigne e Pascal, altrove in disaccordo, videro con chiarezza. - La forza della virtù o delle capacità spirituali dell’uomo misurata sulla sua esistenza banale.
In un modo o nell’altro mi venne l’idea, senza dubbio pazzesca, che i miei atti personali avessero importanza storica, e dunque sulla base di questa (fantasia?) - che la gente che mi faceva del male metteva, secondo me, i bastoni tra le ruote di un esperimento di grande importanza.
Herzog che sorseggiava tragicamente il suo latte a Filadelfia, fragile pazzoide sorretto dalla speranza, che inclinava il recipiente di cartone per calmare lo stomaco e affogare la mente inquieta, facendo la corte al sonno. Pensava a Marco, a Daisy, a Sono Oguki, a Madeleine, ai Pontritter, e di tanto in tanto alla differenza tra la tragedia antica e quella moderna secondo Hegel, l’esperienza interiore del cuore e l’approfondimento del carattere individuale nell’era moderna. Il suo carattere individuale, a volte, era tagliato fuori sia dai fatti che dai valori. Ma il carattere moderno è incostante, combattuto, vacillante, gli manca la certezza ferrea dell’uomo arcaico, ed è privo, per di più, persino delle solide idee del diciassettesimo secolo, teoremi chiari, precisi.
Moses voleva fare il possibile per migliorare la condizione umana, nel peggiore dei casi prendendo una compressa di sonnifero a scopo di autoconservazione. Nell’interesse di tutti. Ma quando, la mattina, si trovava di fronte la classe, a Filadelfia, riusciva appena a leggere gli appunti preparati per la lezione.
Aveva gli occhi gonfi e la testa addormentata, ma il suo cuore ansioso batteva più in fretta che mai.
Il padre di Madeleine è una grossa personalità, un’intelligenza di prima qualità, anche se in lui ci sono molte delle grottesche vanità tipiche della New York teatrale; mi disse che sarei stato di grande giovamento a sua figlia. M’aveva detto: «Be’, era ora che mia figlia la piantasse di andare in giro con i froci. Come tante di queste cerebralone di college, anche i suoi amici sono tutti omosessuali. Ha più finocchi tra i piedi lei che sterpi Giovanna d’Arco sul rogo. È un buon segno che adesso si interessi a lei». Ma il vecchio lo considerava anche un povero babbeo. Quell’ostacolo psicologico non si dava neppure la pena di nasconderlo. Moses era andato a trovare Pontritter in studio - Madeleine gli aveva detto: «Mio padre insiste per parlarti. Vorrei che tu ci facessi un salto un momento». Trovò Pontritter che ballava la samba o il cha-cha-cha (Herzog non li distingueva) con la sua insegnante, una filippina di mezza età che una volta aveva fatto parte d’una famosa coppia di ballerini di tango (Ramòn y Adelina). Adelina si era ingrassata di vita, ma le lunghe gambe le aveva ancora snelle. Il trucco che portava non schiariva molto il suo viso scuro.
Pontritter, un omaccione immenso con delle isolate fibre bianche che gli crescevano sulla cute abbronzata (faceva bagni solari con la lampada al quarzo tutto l’inverno), stava facendo dei passettini con le sue scarpette di tela a suola di corda. I pantaloni, col dietro sceso, si muovevano ondeggiando mentre lui oscillava le grosse anche. I suoi occhi azzurri erano severi. La musica suonava, pestando e risucchiando, ritmi fievoli, grattati, picchiettati, da steel-band. Quando la musica finì, Pontritter disse con un interesse un po’ distaccato: «Lei sarebbe Moses Herzog?».
«Appunto.»
«Innamorato di mia figlia?»
«Sì.»
«Non le giova troppo alla salute, vedo.»
«Non sono stato troppo bene, signor Pontritter.»
«Mi chiamano tutti Fitz. Questa è Adelina - Moses. Si porta a letto mia figlia. Pensavo che non avrei fatto in tempo a vederlo questo benedetto giorno. Dunque, congratulazioni... Spero che la Bella Addormentata nel Bosco si svegli.»
«Allò, guapo» disse Adelina. In quel saluto non c’era nulla di personale. Gli occhi di Adelina erano concentrati sulla sigaretta che si stava accendendo. Prese un fiammifero dalla mano di Pontritter. Herzog si ricordò di aver pensato quanto fosse meramente esteriore quel gioco dei fiammiferi sotto il soffitto a vetrata dello studio. Calore artificiale, o addirittura niente.
Un po’ più tardi, quello stesso giorno, parlò con Tennie Pontritter. Mentre Tennie parlava della figlia, gli occhi le si riempirono rapidamente di lacrime. Aveva l’espressione tranquilla di una che ha molto sofferto, sempre un po’ larmoyante anche quando sorrideva, e mestissima quando la si incontrava per caso, come accadde una volta a Moses per Broadway, che si vide la faccia di lei - era più alta della media - venirgli incontro, grande, liscia, gentile, con due permanenti solchi di sofferenza ai lati della bocca. Lo invitò a sedersi con lei in Verdi Square, presso l’aiuola d’erba recintata, tutta calpestata e sempre circondata da una massa di vecchi moribondi d’ambo i sessi che stavan lì seduti sulle panchine, da mendicanti storpi, da lesbiche gironzolanti con l’aria spavalda di camionisti, e da fragili omosessuali neri coi capelli tinti e gli orecchini.
«Non ho molta influenza su mia figlia» diceva Tennie. «Le voglio un gran bene, naturalmente. Non è stato facile. Dovevo stare dalla parte di Fitz. È stato sulla lista nera per anni. Non potevo essergli infedele. Dopo tutto, è un grande artista...»
«Lo credo...» bisbigliò Herzog. La donna aveva fatto una pausa per lasciargli il tempo di ammetterlo.
«È un titano» disse Tennie. Aveva imparato a dire cose di quel genere con assoluta convinzione. Soltanto un’ebrea proveniente da un buon ambiente, rispettoso della cultura - il padre era sarto ed era socio dell’Arbeiter-Ring (24) e yiddishista - poteva sacrificare la propria vita a un grande artista come aveva fatto lei. «In una società di massa!» disse poi. Lo guardò, sempre con la stessa gentilezza e grazia da buona sorella. «In una società adoratrice del denaro!» Lui era rimasto perplesso. Madeleine, asprissima verso i suoi genitori, gli aveva detto che il vecchio aveva bisogno di cinquantamila dollari all’anno, e che li trovava pure, come no, quel vecchio Svengali; glieli davano le donne e i cretinetti innamorati del teatro. «E invece Mady crede che io l’abbia abbandonata. Non capisce - odia suo padre. Io le posso dire questo, Moses, lei è un uomo in cui la gente ha fiducia, istintivamente, credo. Vedo che Mady ha fiducia, e badi che è tutt’altro che una ragazza che si fida. Perciò credo che sia proprio innamorata di lei.»
«Io, di lei, lo sono» aveva risposto Moses, emozionato.
«Lei deve amarla - io credo di sì... Ma le cose sono così complicate.»
«Perché io sono più vecchio - e sposato? È questo che vuol dire?»
«Non le farà del male, non è vero? La pensi come vuole, sono sempre sua madre. Io ho un cuore di madre, checché ne dica Mady.»
Si mise a piangere, piano. «Oh, signor Herzog... Mi trovo sempre in mezzo, tra quei due. So che non siamo stati genitori convenzionali. È persuasa che io non abbia fatto altro che scaricarla e buttarla per il mondo. E cosa posso fare io? Niente. Sta a lei, Herzog. È lei che dovrà dare alla bimba l’unica cosa che la può aiutare.» Tennie si tolse gli elaboratissimi occhiali, non facendo ormai più nessuno sforzo per nascondere il pianto. Il suo viso, il suo naso arrossato, gli occhi che a Moses sembrarono atteggiati a un’invocazione ambigua, si offuscarono di lacrime.
V’erano ipocrisia e calcolo nel metodo di Tennie, ma dietro, tuttavia, c’era del vero sentimento e affetto per la figlia e per il marito; e dietro questo autentico sentimento v’era qualcosa di ancora più significativo e di più triste. Herzog era fin troppo consapevole dei plurimi strati della realtà: detestabilità, arroganza, inganno, e poi - che Dio ne scampi tutti! - persino la verità. E capiva anche di venir manovrato da una madre preoccupata dell’avvenire della figlia. Dopo trent’anni da moglie bohémienne, frusti ormai i luoghi comuni di quell’ideologia, cinicamente sfruttata dal vecchio Pontritter, Tennie rimaneva fedele al suo personaggio, incatenata agli opachi gioielli “astratti” che portava.
Ma a sua figlia bisognava evitare quel destino, per quanto stava in suo potere. E altrettanto decisa era Madeleine. Ed era a questo punto che entrava in scena Moses, sulla panchina in Verdi Square. Faccia rasata, camicia pulita, unghie pulite, gambe un po’ appesantite alle cosce, accavallate; ed egli ascoltava Tennie con attenzione grandissima - grandissima almeno per un uomo il cui cervello aveva smesso di funzionare. Era troppo preso dai suoi grandiosi progetti per pensare chiaramente una qualsiasi cosa. Naturalmente capiva che Tennie lo stava incastrando, e che lui era proprio il tipo che ci cascava con quell’invocazione che gli stava rivolgendo. Lui aveva un debole per le buone azioni, e lei ne lusingava la debolezza, chiedendogli di salvare quella testarda, quell’illusa di sua figlia. Pazienza, gentilezza affettuosa e virilità avrebbero prodotto il miracolo. Ma Tennie lo lusingò in modo anche più astuto. Stava dicendo a Moses che lui poteva portare stabilità nella vita di quella ragazza nevrotica e guarirla con la sua costanza. In quella folla di vecchi, di moribondi, e di storpi, il fatto che Tennie invocasse aiuto da Moses fomentò violentemente le sue impure simpatie. Che schifo! Che crepacuore! «Io adoro Madeleine, Tennie» disse. «Lei non deve preoccuparsi. Farò tutto il possibile.»
Un tipo volenteroso, precipitoso, impressionabile, ipersensibile, comico.
Madeleine aveva un appartamento in un vecchio edificio, ed Herzog, quando era in città, stava da lei. Dormivano insieme sul sofà dello studio, rivestito di marocchino. Moses le pigiava il corpo tutta la notte, con fervore, con esaltazione. Lei non era così fervida, forse perché dopo tutto s’era appena convertita. E poi, un amante è sempre più ardente dell’altro. A volte le salivano lacrime di rabbia e di dolore agli occhi e si lamentava dei suoi peccati. Eppure, lo voleva anche lei.
La mattina alle sette, come se anticipasse la sveglia d’un secondo, lei si irrigidiva, e quando la sveglia suonava era già lì pronta ad esclamare, con rabbia soffocata: «Accidenti!» e a correre a gran passi verso il bagno.
In quella casa infissi e rifiniture erano antiquati. Erano stati appartamenti di lusso intorno al 1890. I rubinetti con la bocca larghissima lanciavano un getto violento di acqua fredda.
Lei lasciava cadere la giacca del pigiama e rimaneva nuda fino alla vita: si lavava con un quadrato di spugna, purificandosi con vigore furente, e il viso, dai begli occhi azzurri, diventava rosso, i seni rosa. Zitto, scalzo, con il trench per vestaglia, Herzog entrava e si sedeva sul bordo della vasca, a guardarla.
Le mattonelle erano color ciliegia sbiadito, e il portaspazzolini, le mensole e il resto, di vecchio nichel cesellato. L’acqua veniva giù tempestosamente dai rubinetti, ed Herzog osservava Madeleine trasformarsi in una donna più adulta.
Aveva un impiego all’Università Fordham, (25) e il primo requisito, in mente sua, era di apparire sobria e matura, una persona già da un pezzo in seno alla Chiesa. La sfrontata curiosità di lui, il fatto che dividesse familiarmente il bagno con lei, la sua nudità sotto il trench, la sua pallida faccia mattutina in quell’ambiente d’un lusso vittoriano decaduto tutto questo la stizziva. Mentre faceva i suoi preparativi, non lo degnava di uno sguardo. Sopra reggiseno e sottoveste si metteva un pullover dal collo alto, e per proteggere le spalle del golf si metteva una mantellina di plastica. Così il trucco non avrebbe sporcato la lana. A questo punto cominciava ad applicare i suoi cosmetici - le bottiglie e le ciprie e polveri varie gremivano la mensola sopra il gabinetto. Qualsiasi cosa facesse, lo faceva con rapidità ed efficienza, senza esitazioni, ci si buttava a capofitto, ma con la sicurezza di un’esperta. Gli incisori, i pasticcieri, gli acrobati sui trapezi lavorano a quella maniera. Lui pensava che fosse troppo sbadata - che andasse troppo in fretta, s’aspettava sempre il ruzzolone, ma non succedeva mai. Prima si spalmava uno strato di crema sulle gote, massaggiando e facendola penetrare sulla pelle del naso diritto, del mento infantile e della morbida gola. Era certa roba grigia, d’un azzurro perla. La base. Con un asciugamano a mo’ di ventaglio se l’asciugava. E poi sopra si metteva il trucco.
Lavorava con dei batuffoli di cotone, sotto l’attaccatura dei capelli, intorno agli occhi, sull’alto delle guance e sulla gola.
Malgrado le soffici pieghe di carne femminile c’era già qualcosa di visibilmente dittatoriale in quella gola tesa. Non permetteva che Herzog le carezzasse il viso all’ingiù - faceva male ai muscoli. Seduto sul bordo dell’elegantissima vasca, senza smettere d’osservare, lui s’infilava i pantaloni, si metteva dentro la camicia. Lei non gli faceva caso; cercava, in qualche modo, di liberarsi di lui, ora che cominciava la sua esistenza diurna.
Si metteva una pallida cipria con il piumino, sempre alla stessa velocità da gara, alla disperata. Poi si girava in fretta ad esaminare il proprio lavoro - profilo destro, profilo sinistro - aggrappandosi allo specchio, con entrambe le mani, come se volesse sostenersi il petto senza però toccarlo. Della cipria era soddisfatta. Si metteva un pochino di vasellina sulle palpebre.
Si tingeva le ciglia con un minuscolo spazzolino. Moses partecipava a tutto ciò, intensamente, silenziosamente. Sempre senza pause o esitazioni, si applicava un poco di nero all’angolo esterno di ciascun occhio, e ridisegnava la linea delle sopracciglia per renderla vivida e diritta. Poi prendeva un paio di forbicioni da sarto e se le metteva vicino alla frangetta.
Sembrava che non avesse bisogno di prendere le misure; la propria immagine era già fissa nella sua volontà. Tagliava come se sparasse una pistolettata, ed Herzog provava urti di spavento, come colpito da un cortocircuito. La decisione di lei lo affascinava, e in quell’esserne affascinato scopriva il proprio infantilismo. Lui, uomo agile, seduto sul bordo di quella vecchia vasca pomposa con lo smalto tutto percorso da geroglifici simili a capigliature color del rabarbaro cotto, tutto assorto in quella trasformazione del volto di Madeleine. Prima si preparava la superficie delle labbra con della roba cerosa, poi se le dipingeva di un rosso opaco: così si metteva sulle spalle qualche altro anno. Quella bocca di cera era più o meno il tocco finale.
Si inumidiva un dito sulla lingua, e si dava qualche altro colpetto conclusivo. Ecco, era a posto. Guardava con gravità, tenendo le sopracciglia ben distese, nello specchio, e pareva soddisfatta. Sì, ecco, andava proprio bene. S’infilava una lunga gonna pesante, di tweed, che le nascondeva le gambe. I tacchi alti le incurvavano leggermente le gambe. E adesso il cappello.
Era grigio, a cupola bassa, tese larghe. E appena se lo calzava sulla bella testa lustra, diventava una donna di quarant’anni una qualunque donna bianca, isterica, ipocondriaca, che si genufletteva nelle navate delle chiese. L’ampia falda sulla fronte ansiosa, la sua fanciullesca intensità, il suo timore, la sua caparbietà religiosa - che pietà tutto questo! E a lui, intanto, ebreo peccatore, esausto, non rasato, che s’ostinava a mettere a repentaglio la sua redenzione - faceva male il cuore.
Ma lei, sì e no che gli concedeva uno sguardo. Si era messa la giacca col collo di scoiattolo e adesso vi infilava una mano per sistemare le imbottiture delle spalle. Quel cappello! Era fatto come un cestino, una spirale formata da un unico nastro grigio, largo circa due centimetri, come il cappello che portava quella signora cristiana che gli veniva a leggere la Bibbia nella corsia dell’ospedale di Montreal. «Il vento soffia ove esso vuole, e tu odi il suo suono...» C’era persino uno spillone. Il lavoro era terminato. Il suo viso era levigato e di mezza età. Solo il bianco degli occhi non era stato ritoccato, e sembrava che stessero per spuntarvi le lacrime. Era inquieta - furiosa. Era lei che voleva che passasse lì la notte. Gli prendeva pure la mano, quasi con rancore, e se la metteva sul seno mentre si addormentava. Ma al mattino avrebbe voluto che lui sparisse. E lui non ci era abituato; era abituato ad essere il favorito. Ma si trovava a che fare con una nuova generazione femminile, questo andava dicendo a se stesso. Per lei era un seduttore paziente, paterno, sulla via d’incanutire (non ci poteva credere, lui!). Ma le parti erano state distribuite. Lei aveva il suo viso bianco da convertita e Herzog non poteva rifiutarsi di fare il ruolo che gli corrispondeva.
«Dovresti mangiare qualcosa per colazione» le diceva.
«No. Faccio tardi.»
I vari impasti s’erano asciugati sulla sua pelle. Si metteva una grande croce sul petto. Era cattolica da solo tre mesi, e già non poteva confessarsi, a causa di Herzog, e comunque non dal Monsignore.
La conversione fu un avvenimento teatrale per Madeleine. Il teatro - arte propria dei nuovi arrivati, degli opportunisti, degli aspiranti aristocratici. Lo stesso Monsignore era un attore. Un ruolo solo, ma grosso. Era chiaro che aveva sentimento religioso, ma prestigio e scalata sociale erano più importanti. Lei è famoso per le sue conversioni di celebrità, e Madeleine venne da lei. Sempre e solo la migliore qualità per la nostra Mady. L’interpretazione ebraica della signora e del signore cristiano di elevato sentire costituisce un capitolo curioso nella storia del teatro sociale. Le Cariche di Alto Dignitario ricoperte continuamente da gente bassa. E da dove potrebbe venire mai un tipo insigne se non dalla massa? Con la devozione e il fuoco del risentimento trascendente. Non nego che non abbia contato anche molto per me. Si è riflesso assai favorevolmente su di me l’aver avuto a che fare con un problema di siffatta natura.
«Ti ammalerai se vai a lavorare a stomaco vuoto. Fai colazione con me e ti pagherò il taxi alla Fordham.»
Decisa, ma con una certa goffaggine, uscì dalla stanza da bagno, i passi impediti dalla lunga e brutta gonna. Avrebbe voluto volare, ma con quel cappello a ruota, i tweed, le pie medaglie, la grossa croce pettorale, il cuore pesante, non era facile alzarsi da terra. Lui le andò dietro per la stanza tappezzata di specchi, passando davanti a riproduzioni incorniciate di pale d’altare fiamminghe, ori, verdi, e rossi. Le maniglie delle porte e le serrature erano immobilizzate da parecchi strati di vernice. Madeleine tirava a gran strattoni, impaziente. Herzog sopraggiungendo alle sue spalle spalancò con un colpo la bianca porta d’ingresso. Percorsero il pianerottolo su cui gli inquilini lasciavano i sacchi di carta pieni d’immondizia, depositandoli su quello che una volta era un elegantissimo tappeto, e poi giù, nell’ascensore decrepito, uscendo dal tanfo di rinchiuso della nera tromba delle scale nell’aria della facciata di porfido dell’atrio muffito, e poi nella strada affollata.
«Ma non vieni? Che fai?» disse Madeleine.
Forse non era ancora completamente sveglio. Herzog per un momento s’era fermato vicino al negozio di pesce, attirato dall’odore. Un negro magro, muscoloso, stava versando secchi pieni di ghiaccio triturato dentro la profonda vetrina. Il pesce era ammassato, i dorsi si arcuavano come se nuotassero in quel ghiaccio tritato, fumante, bronzo sanguinolento, verde-nero melmoso, oro-grigio - le aragoste erano tutte pressate contro il vetro, le antenne piegate. La mattinata era calda, grigia, umida, fresca, odorava di fiume. Fermandosi un attimo sulla soglia metallica del montacarichi, Moses avvertì attraverso le suole sottili il disegno a rilievo dell’acciaio; come il Braille. Ma non scoprì nessun messaggio. Sembrava che i pesci, nel ghiaccio bianco, macinato, spumoso, si fossero fermati all’improvviso, nell’atteggiamento di quand’erano vivi. La strada era bassa di nubi, calda e grigia, intima, poco pulita, insaporita dal fiume inquinato, odore di marea, di salmastro, sessualmente eccitante.
«Non posso mica aspettare te, Moses» disse Madeleine, perentoria, parlandogli da sopra la spalla.
Entrarono nel caffè e si sedettero al tavolo di formica gialla.
«Che stavi facendo, a perdere il tempo in questo modo?»
«Be’, sai, mia madre veniva dai Baltici. Il pesce le piaceva moltissimo.»
Ma Madeleine non aveva nessuna voglia d’interessarsi di mamma Herzog, morta da vent’anni, per quanto madrediretta potesse essere l’anima nostalgica di quel signore. Moses, riflettendo, si rimproverò. Lui, per Madeleine, era già un tipo paterno - non poteva pretendere che lei prendesse in considerazione anche sua madre. Era una persona morta e stramorta, una di quelle che non possono fare più nessun effetto sulla nuova generazione.
Sul tavolo rivestito di giallo c’era un fiore rosso. Le chiazze vive della corolla in un portafiori, o meglio strozzafiori di metallo, affondavano fino al collo. Curioso se anche quello fosse di plastica, Herzog lo toccò. Scoprendolo reale, ritrasse velocemente le dita. Madeleine lo stava osservando.
«Lo sai bene che ho fretta» disse.
Le piacevano tanto gli english muffins. (26) Lui li ordinò.
Lei gridò dietro alla cameriera: «Li rompa con le mani, i miei, non li tagli col coltello». Inclinò poi il mento verso Moses, e disse: «Moses, il trucco sta bene, è messo bene? E sul collo?».
«Con la tua carnagione, non hai bisogno di niente, tu.»
«Ma si vedono i contorni?»
«No. Ci vediamo più tardi?»
«Non lo so, di sicuro. Sono stata invitata a prendere un cocktail giù alla Fordham - per uno dei missionari.»
«Ma dopo... Posso prendere un treno tardi per Filadelfia.»
«Ho promesso a mia madre... È di nuovo nei guai col vecchio.»
«Pensavo che avessero già deciso... non dovevano divorziare?»
«Ma è una schiava tale!» disse Madeleine. «Non riesce a mollare, e lui nemmeno. Gli conviene. Lei continua ad andare a quell’orrenda scuola di recitazione, a sera tardi, e gli tiene la contabilità. Lui è la cosa grande della sua vita - un secondo Stanislavskij. Lei si è sacrificata e se lui non è un gran genio, cosa l’ha fatto a fare? capisci? E quindi lui è per forza un grande genio...»
«Ho sentito dire che era un regista veramente di classe.»
«Sì, qualche cosetta ce l’ha» disse Madeleine. «Un tipo di perspicacia quasi femminile. La gente, lui la droga - è perfido come lo fa. Tennie dice che spende circa cinquantamila dollari l’anno solo per sé, da solo. Adopera tutto il suo genio per mandare in fumo quei soldi.»
«A me sembra che la contabilità lei gliela tenga per il tuo bene - sta cercando di salvare quello che può per te.»
«Quello non lascerà altro che debiti e cause...» Affondò i denti nel muffin tostato - denti corti, da ragazzina. Ma poi, non mangiò. Posò il muffin, e gli occhi le si incupirono, in quel suo modo strano.
«Che cosa c’è? Mangia.»
Ma lei no, scansò il piatto. «T’ho chiesto di non telefonarmi alla Fordham. Mi mette in agitazione. Io le voglio tener separate queste due cose.»
«Mi spiace. Non lo farò più.»
«Non sono più io, da un po’ di tempo. Mi vergogno di andarmi a confessare dal Monsignore.»
«E da un altro prete?»
Lei posò la tazza con un crac brusco di pesante porcellana da caffetteria. Sul bordo c’era una pallida impronta di rossetto.
«L’ultimo m’ha fatto il diavolo a quattro: per te. M’ha chiesto da quanto tempo facevo parte della Chiesa. E perché m’ero battezzata, se solo dopo pochi mesi già dovevo comportarmi così.»
I bellissimi occhi della donna di mezza età in cui si era trasformata, lo accusavano. Il suo viso bianco era traversato dalle sopracciglia diritte che si era imposte. A lui ogni tanto pareva di riuscire a scorgere il disegno vero sotto la matita.
«Dio! Mi dispiace» disse Moses. Aveva l’aria contrita. «Io non voglio causare difficoltà.» Il che certamente non era vero. Al contrario, aveva tutte le intenzioni di causare difficoltà. Era persuaso, anzi, che le difficoltà fossero l’unico obiettivo di Madeleine. Voleva che Moses e il Monsignore si battessero per lei. Aumentava l’eccitazione sessuale. Lui a letto combatteva la sua apostasia. E certamente Monsignore convertiva le donne con i suoi occhioni ardenti.
«Sono tanto infelice - tanto infelice» disse lei. «Presto saranno le Ceneri, e io non potrò fare la Comunione se prima non mi confesso.»
«Certo è seccante...» Moses provava realmente simpatia per i suoi problemi, ma non le avrebbe certo regalato un abbandono di scena.
«E il matrimonio? Come facciamo a sposarci?»
«Si può trovare una soluzione - la Chiesa è un’istituzione antica e saggia.»
«In ufficio parlavano di Joe Di Maggio, quando voleva sposare Marilyn Monroe. E c’è il caso Tyrone Power - uno dei suoi ultimi matrimoni è stato celebrato da un principe della Chiesa. Anche l’altro giorno c’era una cosa nella rubrica di Leonard Lyons sui divorzi cattolici.» Madeleine leggeva tutte le rubriche di pettegolezzi. I suoi segnalibri in Sant’Agostino e nel messale erano costituiti da ritagli del «Post» e del «Mirror».
«Favorevole?» chiese Moses, mettendo le sue due metà del muffin una sopra l’altra - c’era troppo burro.
I grandi occhi violetti di Madeleine sembravano un po’ gonfi.
La sua mente si affaticava dietro a quelle difficoltà, già più volte analizzate. «Ho un appuntamento con un sacerdote italiano alla Società di Propaganda Fide. È un esperto in diritto canonico. Gli ho telefonato ieri.»
Era in seno alla Chiesa da sole dodici settimane, e già sapeva tutto.
«Sarebbe più facile se fosse Daisy a chiedere il divorzio» disse Herzog.
«Ma lei te lo deve concedere, per forza, il divorzio.» La voce di Madeleine si elevò di tono, brusca e aspra. Herzog si trovò a guardare quel viso acconciato per piacere ai gesuiti dell’uptown.
Ma era accaduto qualcosa - qualche filo era stato tirato e aggrovigliato nel suo petto, e la sua figura s’irrigidì. Le punte delle dita le si sbiancarono mentre le mani premevano il bordo del tavolo e lei lo fissava, con le labbra assottigliate e il colore incupito sotto il pallore tubercolare del trucco. «Ma cosa credi, ch’io voglia stare in concubinaggio con te tutta la vita? Voglio che si faccia qualcosa, subito.»
«Ma Mady - tu lo sai come la penso, quel che sento...»
«Sento? Non mi venire a fare la storia fritta e rifritta dei sentimenti. Io non ci credo in Dio - il peccato - la morte perciò non mi venire a commuovere con queste fregnacce sentimentali.»
«No - guarda, senti.» Si mise il cappello, come se sperasse di ricavarne qualche autorità.
«Voglio essere sposata» disse lei. «Tutto il resto sono coglionerie e basta! Mia madre è stata costretta a vivere una vita da bohémienne. Lei lavorava, mentre Pontritter se la spassava. Mi corrompeva con i nichelini quando io lo vedevo con una delle sue donnine. Lo vuoi sapere come ho imparato l’abc? Da Stato e Rivoluzione di Lenin. Quella gente è pazza!»
Molto probabile, convenne mentalmente Herzog. E adesso ecco Madeleine che vuole i Bianchi Natali e le Uova di Pasqua e forse vuole abitare in una di quelle strade di case meschinette, a mattoni, unite a due a due nella tediosa landa sconfinata di Queens, persa dietro i vestiti della Prima Comunione, con un fedele marito irlandese che spazza le briciole alla fabbrica di biscotti.
«Può darsi ch’io sia diventata una fanatica del conformismo» disse Madeleine. «Però mi rifiuto di accettare un’altra soluzione. Tu ed io ci dobbiamo sposare in chiesa, altrimenti ti pianto subito. I nostri figli saranno battezzati e educati in seno alla Chiesa.» Moses fece un mezzo cenno di assenso, muto. In confronto a lei si sentiva statico, privo di carattere. La fragranza incipriata del viso di lei lo commuoveva (la mia devozione per l’arte - era quella la riflessione che gli veniva sul momento per qualsiasi forma d’arte).
«La mia infanzia è stata un incubo» continuò lei. «M’hanno fatto prepotenze, m’hanno presa con la forza, si sono app-appapp...» balbettava.
«Approfittati?»
Annuì. Già una volta glien’aveva parlato. Ma lui non riusciva a farle portare a galla quel segreto della sua vita sessuale.
«Si trattava di un uomo maturo» diceva lei. «Mi diede dei soldi perché non si risapesse.»
«Ma chi era?»
Aveva gli occhi grandi di risentimento e la sua bella bocca anelava disperatamente la vendetta, ma restava silenziosa.
«Succede a molte, a moltissime donne» le disse Moses. «Non si può far dipendere tutta una vita da questo. Non ha poi tanta importanza.»
«Cosa, cosa? Un anno intero di amnesia non ha molta importanza? Il mio quattordicesimo anno è interamente cancellato.»
Non poteva accettare la consolazione che cercava di offrirle Herzog con le sue ampie vedute. Forse le sembrava indifferenza.
«I miei genitori, c’è mancato poco che mi distruggessero. Va bene - adesso non ha più importanza» disse. «Credo nel mio Salvatore, in Gesù Cristo. Non ho paura della m-morte, adesso, Moses. Pon diceva che saremmo morti tutti e saremmo marciti nella tomba. Dire così a una bambina di sei o sette anni. Dovrebbe venir punito anche solo per questo, lui. Ma adesso voglio continuare a vivere, e mettere al mondo dei bambini, purché abbia qualcosa da dirgli quando mi chiedono della morte e della tomba. Ma non ti credere ch’io vada avanti nel solito modo disordinato - senza regole. No! O queste regole, o niente!»
Moses la osservava come se fosse sommerso, attraverso la distorsione vitrea dell’acqua profonda.
«Mi senti?»
«Ah, sì» disse lui. «Sì, sì. Ti sento.»
«Adesso debbo andare. Padre Francis non è mai in ritardo neanche d’un minuto.» Prese la borsa e si allontanò in fretta, le gote scosse dall’impetuosità dei passi. Le piacevano i tacchi altissimi.
Salendo di corsa sulla metropolitana una di quelle mattine, le si era impigliato il tacco nell’orlo della gonna, era caduta e si era fatta male alla schiena. Zoppicando era risalita in strada, ed era andata in ufficio in taxi, ma Padre Francis l’aveva mandata dal medico, che la bendò abbondantemente e le disse di tornarsene a casa. Là trovò Moses, ancora mezzo svestito, che si stava sorbendo, riflettendo, una tazzona di caffè (pensava e pensava di continuo, ma non ne risultava mai nulla di chiaro).
«Aiutami!» disse Madeleine.
«Che è successo?»
«Sono caduta nella metropolitana. Mi son fatta male.» Aveva una voce lacerante.
«Meglio che ti stenda un po’» le disse. Le tolse gli spilloni dal cappello, e con grande attenzione le sbottonò la giacca e il golf, le tolse la gonna e la sottoveste. Il colore chiaro, rosa, del suo corpo si rivelò sotto il margine del trucco alla base del collo. Le tolse la croce che portava sul petto.
«Prendimi il pigiama.» Aveva i brividi. Quelle larghe bende mandavano un forte odore di medicinali. Lui la guidò verso il letto e vi si adagiò con lei, per riscaldarla e confortarla, proprio come voleva lei. Era marzo e c’era la neve, quel brutto giorno. Lui non tornò a Filadelfia.
«Sono stata punita per i miei peccati» ripeteva Madeleine.
Ho pensato che le potesse interessare apprendere la vera storia di una delle sue convertite, Monsignore. Bambole ecclesiastiche - vesti intessute d’oro, lamentose canne d’organo.
Il mondo vero, per non dir nulla dell’universo infinito, esigeva un carattere più fermo, un carattere realmente maschile.
Come quello di chi? pensò Herzog. Il mio, per esempio? E invece di concludere quella lettera al Monsignore, trascrisse per intero, ad uso personale, una delle filastrocche preferite di Junie.
Io amo la gattina, tanto caldo è il suo mantello,
s’io non le faccio male, a me non ne farà.
Le dò un po’ da mangiare accanto al focherello.
Siccome sono buona, la gattina mi amerà.
Eh, così va molto meglio, pensò. Sì. Devi puntare l’immaginazione anche verso di te, diritto al centro.
Ma quando fu tutto detto e tutto fatto, Madeleine non si sposò secondo il precetto della Chiesa, né battezzò la figlia. Anche il cattolicesimo prese la strada delle cetre tirolesi e delle carte dei tarocchi, del pane fatto in casa e della civiltà russa. E della vita in campagna.
* * *
Quello con Madeleine era il secondo tentativo fatto da Herzog di vivere in campagna. Per essere un ebreo di città, era strana quella sua passione per la vita in campagna. Aveva forzato Daisy a sopportare un gelido inverno nel Connecticut orientale dove lui s’era rifugiato a scrivere Romanticismo e cristianesimo, in un cottage dove le tubature dovevano essere sgelate con le candele e raffiche ghiacciate penetravano nelle pareti di compensato mentre Herzog meditava sul suo Rousseau o studiava l’oboe. Lo strumento l’aveva ereditato alla morte di Aleck Hirshbein, suo compagno di stanza a Chicago, ed Herzog col suo strano senso di devozione (quanto possente amore in Herzog! il dolore non passava presto, per lui) imparò da solo a suonare l’oboe e, a pensarci bene, quella musica triste doveva aver oppresso Daisy anche più che tutti quei mesi di fredda nebbia. Forse anche il carattere di Marco era stato influenzato da quell’esperienza; a volte gli si scopriva una vena di malinconia.
Ma con Madeleine le cose sarebbero andate in modo del tutto diverso. La ragazza lasciò la Chiesa, e dopo aver lottato con Daisy, gli avvocati di lei e quelli suoi, e sotto la pressione di Tennie e di Madeleine, Moses divorziò e si risposò. Il pranzo di nozze fu preparato da Phoebe Gersbach. Herzog, alla sua scrivania, lo sguardo immerso in grandi ghirigori di nuvole (un cielo insolitamente chiaro per New York), si ricordò del budino Yorkshire e della torta fatta in casa. Phoebe faceva delle torte di banana incomparabili, leggere, sugose, con la rivestitura di zucchero caramellato. I pupazzetti della sposa e dello sposo. E
Gersbach, esuberante, con gran risatone tonanti, che versava whisky, vino, pestava sul tavolo, ballava strascicando, con la sposa. Portava una delle sue camicie sportive preferite, larghe, che gli si apriva sul gran petto e gli scivolava pian piano dalle spalle. Décolleté maschile. Non c’erano altri ospiti.
La casa a Ludeyville fu comprata quando Madeleine rimase in stato interessante. Sembrava il posto ideale per risolvere i problemi di Herzog da quando s’era cominciato a interessare a La fenomenologia dello spirito - l’importanza della “legge del cuore” nella tradizione occidentale, le origini del sentimentalismo morale e cose affini, su cui lui aveva idee nettamente diverse da Hegel. Se lo sarebbe sviscerato per benino l’argomento - sorrideva segretamente adesso, ammettendolo - e avrebbe mandato a gambe per aria i vari baccalari, gli avrebbe fatto vedere come stavano sul serio le cose, li avrebbe sbalorditi, avrebbe smascherato la loro futilità una volta per tutte. E sotto non c’era solo vanità, ma un senso di responsabilità. Se non altro poteva dirlo. Lui era un tipo bien pensant. Prendeva sul serio l’osservazione di Heinrich Heine, secondo cui le parole di Rousseau si erano trasformate nelle macchine sanguinarie di Robespierre, e che Kant e Fichte erano più letali di un esercito. Aveva una piccola borsa di studio conferitagli da una fondazione, e l’eredità di papà Herzog (ventimila dollari) fu investita nella casa di campagna.
Si trasformò in amministratore, ragioniere, geometra. Ventimila e più se ne sarebbero andati in fumo, se lui non si fosse buttato a corpo morto a fare tutto quel lavoro - i risparmi di papà, quarant’anni di vita miseranda in America. Ma com’è stato possibile, pensava Herzog. Devo aver avuto una fretta spaventosa, quando scrissi quell’assegno. Non ci guardai nemmeno.
Ma dopo che tutti gli incartamenti furono firmati, ispezionò la casa come fosse la prima volta. E scoprì che non era verniciata, che era triste, con tutti ornamenti vittoriani in rovina. Al pianterreno c’era solo un buco immenso, sembrava il cratere di una bomba. L’intonaco si stava staccando - dalle assi delle pareti penzolavano sfilacce muffite e nauseabonde. L’impianto elettrico, antiquato, era un pericolo continuo. Le fondamenta perdevano mattoni. Dalle finestre filtrava l’aria.
Herzog imparò a fare il muratore, il vetraio, lo stagnino. Alla sera stava su a studiarsi l’Enciclopedia del Do-It-Yourself, e con passione isterica dipingeva, accomodava, incatramava grondaie, stuccava buchi e fessure. Due mani di vernice passavano come acqua sul legno vecchio, granuloso. Nel bagno i chiodi non erano stati ben battuti e le capocchie si facevano strada tra le mattonelle di vinile, che s’allentavano come carte da gioco. La stufetta a gas asfissiava. Lo scaldabagno elettrico faceva saltare le valvole. La vasca da bagno era un relitto: poggiava su quattro piedistalli di metallo, che sembravano giocattoli.
Bisognava sedervisi tutti accovacciati e bagnarsi con la spugna.
Eppure, Madeleine era tornata dal negozio di Sloane (Tutto per il bagno) con accessori di grandissimo lusso, portasaponi d’argento a forma di conchiglia, saponette Écusson, spessi asciugamani di spugna. Herzog trafficava nello scivolume rugginoso del sifone del gabinetto, cercando di far funzionare la valvola e il galleggiante. La notte sentiva lo sgocciolio del cassone che si svuotava.
Ci volle un intero anno di lavoro per salvare la casa dalla rovina.
In cantina c’era un altro gabinetto con muri erti come quelli di un bunker. D’estate era il rifugio preferito dei grilli, e anche quello di Herzog. Qui si dilungava su un Dryden e Pope d’occasione (10 centesimi). Da una fessura vedeva la mattinata infuocata di piena estate, il verde spinoso e perverso dei rampicanti, e le belle chiome raccolte delle rose selvatiche, l’olmo immenso sul davanti, che gli stava morendo, il nido dell’oriuolo, grigio e a forma di cuore. Leggeva: «Sono il cane di Sua Altezza a Kew». Ma Herzog aveva un pochino d’artrite al collo e quell’umida cella di pietra diventò una pena. Rimosse il coperchio del serbatoio con un rumore grattante e tolse il tappo di gomma per far scorrere liberamente l’acqua. I pezzi erano arrugginiti, induriti.
...di Sua Altezza il cane a Kew,
prego, dimmi, mio Signore:
e di chi sei il cane tu?
Le mattine cercava di riservarle al lavoro di concetto. Era in corrispondenza con la Biblioteca Widener per trovare le Abhandlungen der Königlich-Sächsischen Gesellschaft der Wissenschaft. La sua scrivania era coperta di conti non pagati, di lettere senza risposta. Per rimediare un po’ di soldi si mise a fare qualche lavoretto per gli editori. Le case editrici universitarie inviavano manoscritti su cui volevano un giudizio.
Giacevano a fasci, legati insieme, ancora da aprire. Il sole divenne torrido, il terreno era umido e nero, ed Herzog guardava con disperazione al lussureggiare e dilagare di tutte quelle piante. Aveva da esaminare tutta quella carta, senza nessuno che gli desse una mano. La casa aspettava - immensa, vuota, urgente.
QUOS VULT PERDERE DEMENTAT, scrisse a stampatello nella polvere.
Gli dèi si stavano occupando di lui, ma non lo avevano ancora reso demente abbastanza.
Quando doveva commentare quelle monografie, era addirittura la mano che gli si ribellava. Era da cinque minuti su una lettera che già gli veniva il crampo dello scrivano. L’espressione gli si faceva di legno. Tutte le possibili scuse stavano ormai per esaurirsi. Mi rincresce per il ritardo. Una brutta orticaria mi ha tenuto lontano dal mio tavolo di lavoro. I gomiti sulle carte, Moses fissava le pareti dipinte a metà, i soffitti scoloriti, le finestre sudicie. Gli era successo qualcosa in quegli ultimi tempi. Una volta riusciva a tener un buon ritmo, ma ora lavorava a circa il due per cento di efficienza, su ogni pezzo di carta ci ritornava cinque, dieci volte, e poi buttava tutto sottosopra. Basta! Stava riducendosi male.
Imparò a suonare l’oboe. Nel suo studio buio, coi rampicanti che s’aggrappavano alla reticella antinsetti tutta bombuta, Herzog suonava Händel e Purcell - gighe, bourrées, controdanze, il viso enfiato, le dita agili sui tasti, la musica che balzava e ruzzolava, triste e distratto. Al piano di sotto, la lavatrice era in funzione, due movimenti a destra, secondo il giro delle lancette dell’orologio, un movimento in senso inverso. La cucina era così lurida che i topi ci facevano razza. Tuorli d’uovo secchi sui piatti, caffè che diventava verde sui fondi delle tazze - toast, pop-corn, vermi che crescevano nel midollo degli ossi, moschini della frutta, mosche domestiche, dollari, francobolli e bollini premio inzuppati sul bagnaticcio del piano di formica.
Madeleine, per liberarsi della sua musica, sbatteva la porta esterna munita di zanzariera, sbatteva lo sportello della macchina. Il motore rombava. La Studebaker aveva la marmitta rotta. S’avviava giù per la discesa. A meno che uno si ricordasse di tenersi tutto sulla destra, lo scappamento strusciava sulle pietre. Herzog suonava più in sordina aspettando il rumore. Quel silenziatore uno di quei giorni si sarebbe staccato, ma lui aveva smesso di dirglielo. Insisteva troppo con argomenti di quel genere. Le davano ai nervi. Attraverso una cortina di caprifoglio che faceva piegare in dentro la zanzariera della finestra, lui guardava fuori aspettando che la moglie riapparisse alla seconda curva della discesa. La gravidanza le aveva appesantito i lineamenti ma era ancora molto bella. Quella bellezza che tramuta gli uomini in procreatori, stalloni e servi. Mentre guidava, il naso le vibrava involontariamente sotto la frangia di capelli che le oscurava la vista (faceva tutto parte del movimento necessario per girare lo sterzo). Le sue dita, qualcuna elegante, qualcuna con le unghie mangiate, agguantavano il volante d’agata. Lui sosteneva che guidare era pericoloso per una donna in stato interessante. Almeno avesse preso la patente. Lei rispondeva che se la polizia la fermava, se la sarebbe cavata con quattro moine.
Partita lei, lui asciugava l’oboe, controllava le ance, chiudeva l’astuccio imbottito, tutto logoro e sporco. Portava al collo un paio di binocoli. Di tanto in tanto provava a osservare un uccello. Di solito volava via prima ancora che lui avesse avuto il tempo di metterlo a fuoco. Nell’abbandono più completo, si sedeva sulla scrivania - un battente di porta posato su gambe di ferro battuto. Dalla base della sua lampada, i filodendri fuoruscivano attorcigliandosi intorno al metallo. Con un elastico lanciava palline di carta ai tafani sulle finestre striate di vernice. Non era granché come imbianchino. Da principio aveva provato con uno spruzzatore, fissandolo alla parte posteriore dell’aspirapolvere, che si rivelò una turbina efficientissima.
Con la faccia imbacuccata negli stracci per difendersi i polmoni, Moses spruzzava i soffitti, ma lo spruzzatore macchiava anche le finestre e le ringhiere delle scale, e tornò quindi al pennello.
Trascinandosi dietro scala e secchi e stracci e acquaragia, raschiando col suo scalpellino, copriva imperfezioni e pitturava, sporgendosi a sinistra, a destra, allungandosi verso l’alto, quella striscia, più in là, giù giù in fondo, nell’angolo, sulle cornici, con la mano tesa che cercava di tracciare una riga diritta, applicando la tinta a larghe pennellate oppure in uno strazio di minuzia. E quando la frenesia si spegneva, si ritrovava tutto inzaccherato e grondante di sudore, e andava in giardino. Si lasciava cadere nell’amaca completamente nudo.
Intanto Madeleine girava per gli antiquari con Phoebe Gersbach, oppure portava a casa cataste di provviste dai supermercati di Pittsfield. Moses le stava continuamente alle costole per i soldi. Nel cominciare i rimproveri, cercava di mantenere la voce bassa. A dare lo spunto era sempre qualche cosa di insignificante: un assegno tornato indietro perché il conto era scoperto, un pollo andato a male nella ghiacciaia, una camicia nuova strappata per farne stracci. Ma col passare del tempo le sue reazioni furono più feroci.
«Ma quando la smetterai di portare a casa questa robaccia, Madeleine - questi canterani scassati, questi arcolai?»
«Lo dobbiamo ammobiliare questo posto, no? Non posso sopportare di vedere queste stanze vuote.»
«Ma dove vanno a finire i quattrini? Io m’ammazzo di lavoro.»
Dentro era nero, dalla rabbia.
«Mi limito a pagare i conti - che ti credi che ci faccia?»
«Hai detto che dovevi imparare a maneggiare i soldi. Che nessuno s’era mai fidato di te. Be’, adesso ce l’hai chi si fida, e stacchi assegni scoperti. La boutique ha appena telefonato Milly Crozier. Cinquecento dollari per un vestito premaman. Ma chi è che deve nascere - Luigi quattordicesimo?»
«Già, lo so che quel tesoro di tua madre si vestiva coi sacchi di farina.»
«Non c’è nessun bisogno che tu abbia un ostetrico della Park Avenue. Phoebe Gersbach è andata alla clinica di Pittsfield. Come ti ci porto io a New York da qui? Ci vogliono tre ore e mezzo.»
«Ci andremo con dieci giorni d’anticipo.»
«E il lavoro?»
«Il tuo Hegel te lo puoi portare in città. Tanto sono mesi che non apri un libro. Ma non vedi che è tutto un fatto di nevrosi? Queste montagne d’appunti. È grottesco come sei disorganizzato. Tale quale un tossicomane: proprio malato di astrazioni. Ma poi, che vadano al diavolo, sai?, Hegel e questa catapecchia vecchia e lurida. Ci vorrebbero quattro domestici, qui, e tu vuoi che faccia tutto io.»
Herzog si rintontiva a forza di ripetersi cos’era giusto. Anche lui era indisponente. Se ne rendeva conto. Pareva che sapesse già come tutto doveva andare a finire, fin nei minimi dettagli (sotto la categoria dello «spirito libero che si fa obiettivo», fraintendimento di un universale da parte della coscienza nel suo sviluppo - e la realtà che si oppone alla «legge del cuore», la necessità estranea che opprime orribilmente l’individualità, undsoweiter). Oh, Herzog ammetteva i suoi torti. Ma gli sembrava di non chieder poi niente più che un briciolo di cooperazione ai suoi sforzi, e che sarebbe stato un vantaggio per tutti, lavorare per una vita che avesse senso. Hegel era singolarmente ricco di significati ma anche profondamente assurdo. Ma si capisce. Era tutto lì il punto. Più semplice e senza tante complicate tiritere metafisiche, la Prop. XXXVII di Spinoza: è dell’uomo desiderare che anche gli altri gioiscano del bene di cui noi godiamo, non di costringere gli altri a vivere secondo il nostro modo di pensare - ex ipsius ingenio.
Herzog ruminava queste idee, mentre tutto solo pitturava le sue pareti a Ludeyville, costruendosi la sua Versailles e insieme anche la sua Gerusalemme nelle verdi calde estati delle Berkshires. Più di una volta il telefono lo costringeva a scendere dalla scala. Erano gli assegni di Madeleine che tornavano indietro protestati.
«Cristo santo!» gridava. «Non dirmi che ci risiamo, Mady!»
Lei lo aspettava con una casacca verde-bottiglia premaman e calze fino al ginocchio. Stava diventando enorme. Il medico l’aveva avvisata di non mangiare cioccolata. Di nascosto, divorava voracemente immense tavolette di Hershey, quelle da trenta centesimi l’una.
«Ma non le sai fare le addizioni? Non c’è un accidente di ragione al mondo per cui debbano tornare indietro questi assegni.» Moses le sgranava addosso gli occhi.
«Uh - adesso ricominciamo con le solite stupidaggini.»
«Ma non sono stupidaggini. Sono cose serie, per la miseria...»
«Immagino che adesso riattaccherai con la solfa di come sono stata educata - e che schifo è la mia famiglia di bohémien imbroglioni e sbafatori. E che tu m’hai dato un nome onorato. La so a memoria, questa canzonetta.»
«Io mi ripeto? Be’, anche tu, Madeleine, con questi assegni.»
«Perché spendo i soldi del tuo defunto padre. Babbino caro! È questo che t’imbestialisce. Be’, era padre tuo, mica mio. Io non ti vengo a chiedere di spartire con me il mio orribile padre. Perciò non cercare di farmi ingozzare il tuo.»
«Dobbiamo avere un po’ d’ordine, in quest’ambiente.»
Madeleine gli rispose, tutto d’un fiato, con fermezza, e spiccicando bene le parole. «L’ambiente che vuoi tu, non lo avrai mai. Quello appartiene al dodicesimo secolo o giù di lì. Sempre a piangere per la vecchia casa e il tavolo di cucina con sopra l’incerata e il tuo libro di latino. E va bene - sentiamo la tua vecchia triste solfa. Parlami della tua povera mamma. E di tuo padre. E del vostro pensionante, quello che s’ubriacava. E della vecchia sinagoga, del contrabbando di alcolici, e di tua zia Zipporah... Oh, che fregnacce!»
«Come se anche tu non avessi il tuo passato!»
«Ah, fregnacce! Adesso allora staremo a sentire che tu m’hai SALVATO. Su, sentiamolo un’altra volta. Che cuccioletto spaventato ero io. E che non avevo abbastanza forza per affrontare la vita. Ma tu col tuo gran cuore, m’hai dato l’AMORE, e m’hai salvato dai preti. Sì, m’hai guarito dai crampi mestruali assistendomi e curandomi così bene. Tu m’hai SALVATO. Tu hai SACRIFICATO la tua libertà. Io t’ho strappato alla tua Daisy e al tuo figlioletto, e alla tua scopatina giapponese. Il tuo tempo prezioso, e i tuoi soldi, e la tua premura.» La furia del suo sguardo azzurro era così intensa da farla parere strabica.
«Madeleine!»
«Ah - merda!»
«Rifletti solo un minuto.»
«Riflettere? Che cosa ne sai tu del riflettere?»
«Può darsi che t’abbia sposata per migliorarmi il cervello!» disse Herzog. «Sto imparando.»
«Be’, t’insegnerò, sta’ tranquillo!» disse la bellissima, gravida Madeleine, tra i denti.
* * *
Herzog annotò, da una delle sue fonti preferite: L’opposizione è vera amicizia. Casa, figli, perché no?, tutto ciò che un uomo possiede egli darà in cambio della saggezza.
Il marito - un’anima bella - la moglie eccezionale, la figlia angelica e gli amici perfetti, vivevano tutti insieme nelle Berkshires. Il colto professore si dedicava ai suoi studi... Oh, l’aveva voluto lui. Poiché insistere a fare l’ingénu con un candore da dar lo stringicuore - zisse n’shàmele, animuccia dolce, Tennie aveva chiamato Moses. A quarant’anni, guadagnarsi una reputazione così banale! La fronte gli s’imperlò di sudore.
Tanta stupidità meritava un castigo più severo - una malattia, una condanna alla prigione. Ancora una volta, era solo “fortunato” (Ramona, mangiare e bere, inviti al mare). Tuttavia, nemmeno l’oltraggio estremo di se stesso gli sembrava poi tanto interessante. Non era la cosa più importante. Il non essere uno sciocco poteva non valer la pena di tutte quelle difficili alternative. E comunque, chi era quel non-sciocco? Era l’amante del potere, che piegava il pubblico alla sua volontà l’intellettuale scienziato che amministrava bilanci di milioni di dollari? Occhi chiari, testa quadrata, penetrante acume politico - il realista dell’organizzazione? Eh, non sarebbe bello essere uno di loro? Ma Herzog lavorava in una dimensione diversa - stava compiendo, così credeva, l’opera del futuro. Le rivoluzioni del ventesimo secolo, la liberazione delle masse tramite la produzione, avevano creato una vita privata ma poi non avevano offerto nulla per riempirla. Era a questo punto che quelli come lui entravano in scena. Il progresso della civiltà - anzi, la sopravvivenza della civiltà - dipendeva dai successi dei Moses E. Herzog. E nel trattarlo come lo trattava, Madeleine minava un grande piano. E questo, agli occhi di Moses E. Herzog, era la cosa più grottesca e deplorabile a proposito della esperienza di Moses E. Herzog.
Esiste un tipo specialissimo di pazzoide che pretende di inculcare i suoi principi negli altri. Sandor Himmelstein, Valentine Gersbach, Madeleine P. Herzog, lo stesso Moses. Istruttori di realtà. Vogliono insegnarti la lezione del Reale - e questo per punirti.
Moses, che era un collezionista di fotografie, aveva conservato un ritratto di Madeleine, all’età di dodici anni, in costume di cavallerizza. Aveva posato insieme con il cavallo che stava per montare: bambinetta ben piantata, coi capelli lunghi, i polsi paffuti e disperate ombre scure sotto gli occhi, prematuri segni di sofferenza e di spirito vendicativo. In pantaloni da cavallerizza, stivali e bombetta, aveva la superbia della femminuccia conscia che fra non molto diventerà signorina e avrà anche lei il potere di ferire. Questa è politica mentale. Il potere di fare del male è sovranità. Ne sapeva già più lei a dodici anni, che io a quaranta.
Daisy invece era stata un tipo assai diverso: più fredda, più costante, un’ebrea convenzionale. Anche di lei Herzog conservava fotografie, nel bauletto che teneva sotto il letto, ma non aveva bisogno di fotografie, poteva evocarne il viso quando voleva occhi verdi obliqui, grandissimi, capelli crespi, dorati ma senza lucentezza, pelle chiara. Aveva modi timidi ma anche piuttosto ostinati. Non ebbe difficoltà, Herzog, a rivederla come gli era apparsa una mattina d’estate sotto la sopraelevata, nella 51a Strada a Chicago, e lui era uno studentello di college con libri di testo unti e bisunti - Park e Burgess, Ogburn e Nimkoff. Lei portava un vestitino semplice, di cotone ingualcibile a righine bianche e verdi, con la scollatura quadrata. Al fondo di quella purezza di bucato, portava scarpette bianche, aveva le gambe nude, e i capelli erano trattenuti in cima da un fermaglietto diritto. Il tram rosso veniva dai quartieracci poveri diretto alla parte ovest della città. Sferragliava, ondeggiava, beccheggiava, la carrozza-motrice sprizzava scintille verdi, nella sua scia svolazzavano cartacce. Moses s’era trovato dietro di lei sulla piattaforma che puzzava d’acido fenico, proprio nel momento in cui lei consegnava il biglietto cumulativo al conduttore. Dal suo collo e dalle sue spalle egli inalò una fragranza di mele estive. Daisy era una ragazza di campagna, una buckeye (27) cresciuta dalle parti di Zanesville. Nelle sue cose era puerilmente sistematica. Qualche volta Moses rideva tra sé ricordando come Daisy tenesse uno schedario, e su ogni scheda, con una scrittura goffa a stampatello, descrivesse ogni possibile situazione. Quella sua strana forma di organizzazione aveva avuto un certo fascino su di lui. Da sposati lei gli metteva i contanti per le piccole spese dentro una busta, in un classificatore di metallo verde comperato apposta per i conti di casa. Impegni della giornata, conti da pagare, biglietti per i concerti venivano affissi con puntine da disegno al giornale murale. I calendari erano sempre annotati con molto anticipo. Stabilità, simmetria, ordine, contenutezza erano la forza di Daisy.
Cara Daisy, devo dirti alcune cose. Con la mia irregolarità e la mia turbolenza di spirito ho fatto venire a galla in Daisy il peggio. Sono stato io a rendere così diritte le cuciture delle sue calze, e a farle allacciare i bottoni con tanta simmetria.
Io, solo io ero dietro a quelle tendine rigide e sotto quei tappeti quadrati. Il petto di vitello arrosto tutte le domeniche col ripieno di pangrattato che sembrava cemento era il risultato dei miei disordini, del mio enorme assorbimento - enorme ma evidentemente senza forma alcuna - nella storia del pensiero. Lei si fidava della parola di Moses che le diceva di essere seriamente occupato. Naturalmente il dovere di una moglie era di stargli vicino, di sorreggere questo sconcertante e spesso sgradevole Herzog. Lo faceva con greve neutralità, prendendo nota ogni volta delle proprie obiezioni - ma non più di una volta. Il resto era silenzio - un silenzio pesante come quello che aveva sentito nel Connecticut quando stava terminando Romanticismo e cristianesimo.
Il capitolo su “Romantici ed entusiasti” poco mancò che lo portasse alla tomba - e per poco fu la fine di tutti e due (la reazione degli Entusiasti alla tendenza tipicamente scientifica di sospensione della fede, inconciliabile con le necessità espressive di certi temperamenti). Fu a questo punto che Daisy lo piantò solo soletto nel Connecticut. Doveva ritornare nell’Ohio.
Suo padre stava per morire. Moses si lesse tutta la letteratura dell’Entusiasmo in quel cottage, accanto alla piccola cucina economica con le finiture in nichel. Imbacuccato dentro una coperta come un indiano, ascoltava la radio - dibatteva con se stesso i pro e i contro dell’Entusiasmo.
Fu un inverno con un ghiaccio che sembrava pietra. Il laghetto era come una piastra di alite - ghiaccio verde, bianco, sonoro, che rispondeva arrogantemente sotto le suole. La diga sgocciolante del mulino si ghiacciò in attorte colonnine. Gli olmi, gigantesche forme d’arpa, mandavano rumori di schianti.
Herzog, responsabile verso la civiltà nel suo avamposto ghiacciato, sdraiato sul letto con in testa un casco da aviatore, a stufe spente, metteva insieme Bacone e Locke da una parte, e il Metodismo e William Blake dall’altra. Il suo vicino di casa più prossimo era un religioso, il signor Idwal. L’automobile di Idwal, una Ford modello A, funzionava ancora quando la Whippet di Herzog s’era ormai ghiacciata del tutto. Andavano insieme al negozio di alimentari. La signora Idwal faceva delle torte coi biscotti Graham ripiene di gelatina di cioccolata, e le lasciava, da buona vicina, sul tavolo di Moses. Lui ritornava dalle sue passeggiate solitarie allo stagno, nei boschi, e trovava sul tavolo torte in grosse teglie di pyrex contro cui si riscaldava le guance e le dita intirizzite. Al mattino, mangiando per colazione torte alla gelatina, vedeva Idwal, piccolo e rubicondo, con gli occhiali d’acciaio, nella sua camera da letto, in mutande lunghe, roteare clave e fare flessioni sulle ginocchia. La moglie stava seduta in salotto, con le mani congiunte, e il riflesso del sole le disegnava sulla faccia la ragnatela delle tendine di pizzo. Moses veniva invitato a suonare l’oboe, la domenica sera, per accompagnare la signora Idwal che suonava l’armonium mentre le famiglie dei contadini cantavano gli inni. Ma erano poi contadini? No, erano i poveri di campagna - gente disposta a far qualsiasi lavoro capitasse. Il salottino degli Idwal era afoso, l’aria viziata e gli inni trafitti di ebraica malinconia da Moses e dalle sue ance.
I suoi rapporti con il reverendo e la signora Idwal restarono eccellenti finché il ministro non cominciò a citargli vari e provati casi di rabbini della più ligia ortodossia che avevano abbracciato la fede cristiana. Le fotografie di questi rabbini con cappelli di pelliccia e grandi barbe venivano depositate sul tavolo di cucina insieme con le torte. I grandi occhi di quegli uomini e soprattutto le loro labbra che s’affacciavano da barbe spumose cominciarono ad avere, per Moses, un’aria di follia; e così pensò che fosse tempo di andarsene da quel cottage sepolto nella neve. Temeva per la propria sanità mentale, a vivere in quel modo, specie dopo la morte del padre di Daisy. A Moses pareva di vederlo, d’incontrarlo nei boschi, e quando apriva le porte scorgeva il suocero, vivo e con il suo solito fare, aspettarlo seduto a un tavolo o in bagno.
Herzog fece male a respingere i rabbini di Idwal. Il pastore s’intestardì più che mai di convertirlo: veniva a trovarlo ogni pomeriggio e si fermava ore a discutere di teologia. Finché Daisy non tornò. Triste, cogli occhi chiari, restia a parlare, scontrosa. Ma una moglie. E il bambino! La neve cominciò a sciogliersi - l’ideale per fare i pupazzi. Moses e Marco ne fiancheggiarono tutto il vialetto. Gli occhietti di antracite luccicavano anche alla luce delle stelle. In primavera le tenebre della notte erano piene di striduli cinguettii. I tramonti sanguinosi dell’inverno e tutta quella solitudine erano ormai acqua passata. Non sembravano più neanche così brutti, adesso che era riuscito a sopravvivere.
Sopravvivenza! egli annotò. Fino a quando potremo renderci conto di come stanno le cose. Finché si presenterà l’occasione di esercitare un’influenza positiva. (Responsabilità personale verso la storia, tratto tipico della cultura occidentale, con origine nei Testamenti, Vecchio e Nuovo, l’idea del continuo miglioramento dell’esistenza umana su questa terra. Che cos’altro poteva spiegare il ridicolo accanimento di Herzog?) Signore, sono corso a combattere per la Tua santa causa, ma inciampavo sempre, e al campo di battaglia non ci sono mai arrivato.
* * *
Ma vide chiaro anche in questo. Se non altro, era troppo ricco di malattie, lui, per accontentarsi di quella descrizione.
Dall’altezza mediana delle case di New York, guardando in giù, rimirando la folla dell’ora di pranzo come formiche su un vetro affumicato, Herzog, avvolto nella sua vestaglia sgualcita e sorbendosi un caffè ormai freddo, volontariamente escluso dall’umile fatica quotidiana onde poter raggiungere più alti risultati, ma al momento attuale senza più molta fiducia nella sua “chiamata”, provava di tanto in tanto a rimettersi a lavorare. Gentile dott. Mossbach, sono spiacente che lei non sia rimasto soddisfatto del modo come ho presentato T.E. Hulme e la sua definizione del Romanticismo quale “religione tracimata”.
Non è un’idea da sottovalutare, certo. Hulme voleva le cose chiare, asciutte, scarne, pure, fredde, e dure. Con ciò, credo, possiamo tutti esser d’accordo. Anch’io provo repulsione per l’“umidore”, come lui l’ha chiamato, e per i rigurgiti del sentimento romantico. Mi rendo ben conto che tipaccio fosse Rousseau, e che degenerato (non mi starò a lamentare del fatto che non fosse un gentiluomo; non mi si addice). Ma non vedo cosa gli si possa contestare, quando dice. «Je sens mon coeur et je connais les hommes». Una religione in bottiglia, basata su principi conservatori - ha per scopo di privare il cuore di tali poteri - lei cosa crede? I seguaci di Hulme fecero della sterilità il loro credo, confessando così la loro impotenza. Era questa la loro passione.
Anche quando faceva ogni sforzo per dominarsi, Herzog riusciva abbastanza pesantino nelle sue polemiche. Le sue ben tornite frasi contenevano spesso molto fiele. I suoi modi docili, la sua condotta modesta - no, a se stesso non la faceva. Bastava la pur minima certezza di aver ragione, e un’onda di potenza gli sorgeva nelle viscere e gli ardeva nelle gambe. Strane, le sontuose vittorie dell’ira! C’era satira appassionata in Herzog. Tuttavia sapeva che l’importante non era demolire l’errore. Cominciò ad avere un orrore nuovo di vincere, delle vittorie conseguite da una autonomia senza freni. L’uomo ha una natura, ma quale? Coloro che l’hanno descritta con più sicurezza, Hobbes, Freud, eccetera, per venirci a dire quel che siamo “intrinsecamente”, non sono i nostri più grandi benefattori. Il che vale anche per Rousseau. Posso esser d’accordo con l’attacco sferrato da Hulme contro l’introduzione da parte dei Romantici del concetto di Perfezione nelle cose umane, però non mi piace neppure la sua angustia micragnosa e pedantesca. La scienza moderna, che non si preoccupa minimamente della definizione della natura umana, non conosce soltanto l’attività dell’indagine, ottiene i suoi risultati più profondi attraverso l’anonimato, e non riconosce altro che il brillante funzionamento dell’intelletto. Sulla verità scoperta dalla scienza moderna non si può basare la nostra vita, ma forse, al momento attuale, la cosa migliore è proprio una moratoria delle definizioni della natura umana.
Herzog abbandonò questo tema bruscamente, come era solito fare.
Caro Nachman, scrisse. Lo so: eri tu che ho visto nella 54a Strada lunedì scorso. Hai cercato di svignartela. Il viso di Herzog si rabbuiò. Ma eri tu. Eravamo amici, un quarant’anni fa - compagni di gioco in Napoleon Street. I quartieri poveri di Montreal. Con un berrettino da beatnik, per la strada formicolante di pederasti barbuti come leoni con gli occhi bistrati di verde, ecco che tutto ad un tratto compare l’ex compagno di giochi di Herzog. Nasone, capelli bianchi, occhiali spessi e poco puliti. Il poeta con le spalle curve diede uno sguardo a Moses e scappò via. Su gambette sparute, con grandissima urgenza, fuggì sul marciapiede opposto. Si tirò su il bavero e si mise a guardare fisso la vetrina del negozio di formaggi. Nachman! Cosa credevi? Che ti chiedessi i soldi che mi devi? Roba cancellata, molto tempo fa. Avevano pochissima importanza per me, nella Parigi del dopoguerra. Allora ne avevo.
Nachman era venuto in Europa per scrivere poesie. Abitava nelle topaie degli arabi in rue St.-Jacques. Herzog era sistemato comodamente in rue Marbeuf. Raggrinzito e sudicio, Nachman, col naso rosso dal piangere, la faccia rugosa, una faccia da moribondo, una bella mattina si presenta alla porta di Herzog.
«Che t’è successo?»
«Moses, m’hanno portato via mia moglie - la mia piccola Laura.»
«Un momento - ma che vai dicendo?» Forse in quell’occasione Herzog era stato un po’ freddo, ma le esagerazioni lo disgustavano.
«Il padre. Quel vecchio dell’impresa per il rivestimento dei pavimenti. L’ha ipnotizzata. Quel vecchio stregone. Morirà senza di me, lei. La mia bambina non la sopporta la vita senza di me. E io non posso vivere senza di lei. Bisogna per forza che torni a New York.»
«Vieni dentro. Entra. Non possiamo mica parlare su questo schifo d’un pianerottolo.»
Nachman entrò nel salottino. Era un appartamento ammobiliato nello stile degli anni ‘20 - dispettosamente corretto. Nachman sembrava esitare a sedersi, con quei suoi pantaloni chiazzati dal fango dei rigagnoli. «Sono già stato a tutte le compagnie di navigazione. C’è un posto sull’Hollandia che parte domani. Prestami dei quattrini o sono rovinato. Tu sei l’unico amico che ho a Parigi.»
Onestamente pensai che saresti stato meglio in America.
Nachman e Laura avevano scorrazzato in lungo e in largo per l’Europa, dormendo nei fossi delle campagne di Rimbaud, leggendosi l’un l’altro a voce alta le lettere di Van Gogh - le poesie di Rilke. Nemmeno Laura ci stava troppo col cervello.
Magra, col visetto dolce, gli angoli della bocca pallida voltati all’ingiù. Prese l’influenza in Belgio.
«Ti restituirò fino all’ultimo centesimo.» Nachman si torceva le mani. Le dita gli erano diventate nodose: reumatismi. Il viso era ruvido - infiacchito dalle malattie, dalla sofferenza, dall’assurdo.
Pensai che, a lunga scadenza, rimandarti a New York mi sarebbe costato di meno. A Parigi non t’avrei potuto evitare in nessun modo. Come vedi. non è che finga generosità. Forse, pensò Herzog, s’è spaventato a vedermi. Sono dunque cambiato anche più di quanto sia cambiato lui? Era orripilato Nachman nel vedere Moses? Però non puoi negare che abbiamo giocato per la strada insieme. Ho imparato l’Alef-Beth (28) da tuo padre, Reb Shika.
La famiglia di Nachman abitava nel casamento giallo proprio di fronte a loro. A cinque anni, Moses attraversava Napoleon Street, e poi su, per la scala di legno coi gradini sbilenchi, sformati.
I gatti si rintanavano negli angoli o se la svignavano silenziosamente al piano di sopra. I loro escrementi secchi si sbriciolavano nel buio con una puzza di spezie. Reb Shika aveva un colore giallo, mongolico, era un bell’omino piccino. Portava uno zucchetto di raso nero e un paio di baffi come quelli di Lenin. Il suo torace stretto era ricoperto da una maglia d’inverno - articoli di maglieria di Penman. La Bibbia era aperta sul ruvido tappeto sopra la tavola. Moses vedeva chiaramente i caratteri ebraici - dmei ochicho, - il sangue di tuo fratello.
Sì, ecco cos’era. Dio che parlava a Caino. Il sangue di tuo fratello mi chiama dalla terra.
Alle otto, Moses e Nachman dividevano una panca nella cantina della sinagoga. Le pagine del Pentateuco puzzavano di muffa, i golf dei bambini erano umidi. E il rabbino, con la barba corta e il nasone morbido violentemente bucherellato di comedoni, che li sgridava: «Te, Rozavitch, pigrone. Che cosa dice qui della moglie di Putifar?, Vatipeseu b’vigdò...».
«Ed ella afferrò un...»
«Un che? Beged.»
«Beged. Un cappotto.»
«Un indumento, ladro matricolato che non sei altro. Mamzer! (29) Mi dispiace per tuo padre. Bell’erede! Bel Kaddìsh! (30) Prosciutto e porco mangerai, prima che il suo cadavere sia nella tomba. E tu, Herzog, con quegli occhi spropositati - V’ yaizov bigdo b’yodo.»
«Ed egli lasciò nelle mani di lei.»
«Lasciò che cosa?»
«Bigdo, l’indumento.»
«Te è meglio che stai attento, Herzog, Moses. Tua madre crede che tu sarai un grande lamden - (31) un rabbino. Ma io ti conosco, lo so quanto sei pigro. I cuori alle madri glieli spezzano i mamzeirim come te! Eh! Ti conosco o no, Herzog? A memoria ti conosco.»
L’unico rifugio era il gabinetto, con le palline disinfettanti di canfora che penzolavano nel trogolo verde dell’orinale, e certi vecchi che venivano giù dalla shul con occhi cisposi, mezzo ciechi, sospirando, borbottando brani di liturgia mentre aspettavano che venisse l’acqua. Ottone arrugginito d’orina, verde squamoso. In uno stanzino senza porte, coi calzoni scesi ai piedi, Nachman sedeva suonando l’armonica. It’s a Long, Long Way to Tipperary. Love Sends a Little Gift of Roses. La punta del suo berretto era sbertucciata. Si udiva friggere la saliva nelle fessure dello strumento, mentre lui aspirava e soffiava.
Gli anziani col cappello a bombetta si lavavano le mani e con le dita si davano una ravviatina alla barba. Moses li stava a guardare.
Quasi sicuramente Nachman aveva tentato di sfuggire alla potente memoria dell’amico d’un tempo. Herzog perseguitava tutti con la sua memoria. Era come una macchina spaventosa.
L’ultima volta che ci siamo visti - quanti anni fa è stato? sono venuto con te a far visita a Laura. Laura allora era al manicomio. Herzog e Nachman avevano dovuto cambiare autobus a sei o sette angoli di strada. Saranno state mille fermate, fino giù a Long Island. Dentro l’ospedale donne con degli abiti di cotone verde giravano per i corridoi con scarpe silenziose, bisbigliando. Laura aveva i polsi fasciati. Era il terzo tentativo di suicidio, che Moses sapesse. Stava seduta in un angolo tenendosi i seni fra le braccia, e voleva parlare solamente di letteratura francese. Il suo viso era distratto, ma le labbra si muovevano rapidamente. Moses dovette star lì a dir di sì a discorsi di cui non capiva un’acca: la forma delle immagini in Valéry.
Poi Nachman e lui se ne andarono, al tramonto. Attraversarono il cortile di cemento dopo un acquazzone autunnale.
Dall’ospedale, una folla di fantasmi in uniforme verde guardava i visitatori che se ne andavano. Laura, alla grata della finestra, sollevò il polso bendato, una mano diafana. Arrivederci. La sua lunga bocca sottile diceva silenziosamente: Arrivederci, arrivederci. I capelli lisci le cadevano lungo le gote - rigida figura infantile con turgori femminei. Nachman stava dicendo con voce rauca: «Il mio tesoro innocente. La mia sposa. Me l’hanno rinchiusa, quegli odiosi, quei macher - i nostri padroni. L’hanno imprigionata. Come se amare me fosse una dimostrazione che era matta. Ma io sarò abbastanza forte da proteggere il nostro amore» diceva lo smunto, scavato Nachman. Le sue guance erano infossate. Sotto gli occhi la pelle era gialla.
«Perché continua a tentare di ammazzarsi?» chiese Moses.
«La persecuzione della famiglia. Che ti credi? Il mondo borghese di Westchester! Partecipazioni di nozze, corredo, conti aperti nei negozi, era questo che s’aspettavano da lei la madre e il padre. Ma quella è un’anima pura che capisce soltanto le cose pure. Qui lei è un’estranea. La famiglia vuole solo dividerci. Anche a New York facevamo i girovaghi. Quando tornai - grazie a te, e ti restituirò tutto, lavorerò! - non avevamo neanche i soldi per prendere una stanza in affitto. Come potevo prendere un impiego? Chi si sarebbe occupato di lei? E così gli amici ci hanno dato asilo. Da mangiare. Una brandina su cui riposarci. Fare l’amore.»
Herzog era molto incuriosito, ma si limitò ad esclamare: «Ah».
«A nessuno lo racconterei, salvo a te, che sei un vecchio amico. Dovevamo stare attenti, sai. Nelle nostre estasi dovevamo metterci in guardia a vicenda di essere più moderati. Era come un atto sacro - non dovevamo ingelosire gli dèi...» Nachman parlava con una voce concitata, sempre uguale. «Arrivederci, mio spirito benedetto - mia cara. Arrivederci.» Mandava baci in direzione della finestra con penosa dolcezza.
Mentre s’avviavano all’autobus, continuò a fare discorsi nel suo modo irreale, effervescente e noioso. «Dunque, dietro tutto questo è l’America borghese. Questo è un crudele mondo di fronzoli e d’escrementi. Una civiltà superba e pigra che adora la propria cafonaggine. Tu e io siamo cresciuti nell’antica miseria. Io non so quanto americano tu sia diventato dai vecchi tempi del Canada - hai vissuto qui per molto tempo. Ma io non adorerò mai gli dèi grassi. Io no. Non sono mica marxista, sai. Io conservo il mio cuore per William Blake e Rilke. Però un uomo come il padre di Laura! Ma capisci! Las Vegas, Miami Beach. Loro volevano che Laura si trovasse un marito al Fountainblue, (32) un marito coi soldi. Alla vigilia del giudizio universale, già presso l’ultima tomba del genere umano, quelli staranno ancora a contarsi i soldi. A pregare sui loro rendiconti bancari...»
Nachman continuava con vigore noioso, persistente. Aveva perduto qualche dente, e la mascella gli si era rimpicciolita, sulle guance grigie gli spuntavano i peli della barba. Ad Herzog pareva ancora di vederlo come quando aveva sei anni. Anzi, non riusciva addirittura a liberarsi dalla visione dei due Nachman, uno vicino all’altro. Ma era il bambino con la faccetta fresca, la fessurina sorridente tra gli incisivi, la camicia abbottonata alla russa e i pantaloncini corti, quello che era reale, non questa apparizione sparuta di un Nachman folle che teneva discorsi.
«Forse» stava dicendo adesso «la gente vuole che la vita finisca. L’hanno inquinata, la vita. Coraggio, onore, franchezza, amicizia, dovere, tutto insudiciato. Così noi odiamo il pane quotidiano che prolunga un’esistenza inutile. Ci fu un tempo in cui gli uomini nascevano, vivevano e morivano. Ma tu li chiami uomini questi? Siamo soltanto esseri. La morte stessa si dev’essere stancata di noi. Mi par di vedere la Morte che va al cospetto di Dio e gli dice: “Cosa devo fare? Non c’è più grandezza nell’essere la Morte. Dispensami, o Dio, da questa meschinità”.»
«Non è poi così brutto come pensi tu, Nachman» Moses si ricordò di aver risposto. «So bene che la maggior parte della gente non ha immaginazione, e tu questo lo consideri un tradimento.»
«Ebbene, amico mio d’infanzia, tu hai imparato ad accettare una condizione mista di vita. Ma io ho avuto visioni del giorno del giudizio. Vedo soprattutto un’ostinatezza di storpi. Non amiamo più noi stessi, però persistiamo nella testardaggine. Ogni uomo è testardamente, testardamente se stesso. Soprattutto se stesso, fino alla fine dei tempi. Ognuno di questi esseri ha qualche segreta qualità, e per questa qualità è pronto a fare qualsiasi cosa. Rovescerebbe sottosopra l’universo, ma non cederebbe la sua qualità a nessun altro. Magari lascerebbe che il mondo si riducesse in polvere. Di questo parlano le mie poesie. Tu non hai molta stima dei miei Nuovi Salmi. Sei cieco, vecchio amico mio.»
«Può darsi.»
«Però sei un buon amico, Moses. Abbarbicato a te stesso. Ma un buon cuore. Come tua madre. Uno spirito gentile. L’hai preso da lei, e tu ce l’hai. Io avevo fame e lei m’ha dato da mangiare. Mi lavava le mani e m’aiutava a sedermi a tavola. Questo me lo ricordo. Era l’unica che fosse gentile con mio zio Ravitch, l’ubriacone. Qualche volta dico una preghiera per lei.»
Yirskòr, Elohìm, es nishmàs Imi... Ricorda, Signore, l’anima di mia madre.
«È morta da tanto tempo.»
«E prego pure per te, Moses».
L’autobus su ruote giganti avanzava attraverso pozzanghere colorate di tramonto sopra foglie e ramoscelli di ailanto. Il giro che faceva era interminabile, lungo una bassa, ammattonata, suburbana, popolosa vastità. Ma quindici anni dopo, nella 54a Strada, Nachman lo ha sfuggito. Mentre si precipita verso la bottega del formaggiaio, non è che un vecchio, un derelitto, curvo, storto. Dove sarà mai sua moglie? E lui dev’essersi squagliato per evitare spiegazioni. Il suo pazzoide senso di buona educazione gli deve aver suggerito di evitare un incontro del genere. O s’è dimenticato tutto? O forse gli piacerebbe poterselo dimenticare. Ma con la mia memoria - morti e matti stanno sotto la mia tutela, ed io sono la nemesi degli aspirantidimenticati. Io lego gli altri ai miei sentimenti, e li opprimo.
Ravitch era veramente tuo zio, oppure semplicemente un landtsman? (330) Non ne sono mai stato sicuro.
Ravitch stava a pensione dagli Herzog in Napoleon Street. Come un attore tragico del teatro yiddish, con un naso diritto da ubriacone e una bombetta che gli pigiava le vene della fronte, Ravitch, col grembiule, nel 1922 lavorava dal fruttivendolo vicino a Rachel Street. Là, al mercato, con un freddo sotto zero, scopava un mischietto di neve e segatura. La vetrina era coperta da grandi felci di brina e di ghiaccio, e contro il vetro si assiepavano le arance sanguigne e le mele ruggine. E quello era il melanconico Ravitch, rosso di vino e di freddo. Il gran progetto di tutta la sua vita era di mandare a chiamare la famiglia, la moglie e due bambini che erano ancora in Russia.
Prima avrebbe dovuto trovarli, perché si erano sperduti durante la Rivoluzione. Di quando in quando si metteva un pochino in ordine e andava alla Società per l’Assistenza degli Immigrati Ebrei a chiedere come andavano le cose. Ma novità non ce n’erano mai. E lui si beveva la paga - che shicker! (341) Nessuno si giudicava con maggior acredine di lui. Quando usciva dall’osteria si piantava barcollando in mezzo alla strada, a dirigere il traffico, cadendo in mezzo ai cavalli e ai carri nel fanghiglio di neve. La polizia s’era stancata di buttarlo nella cella degli ubriaconi. Lo portavano a casa, fino all’androne degli Herzog, e ve lo spingevano dentro. Ravitch, a notte alta, cantava per le scale gelate con voce singhiozzante:
Alein, Alein, Alein, Alein
elend vi a shtain
mit die zehn Finger - Alein.
Jonah Herzog s’alzava dal letto e accendeva la luce in cucina, ascoltando. Portava un pigiama russo di lino con la giacca pieghettata, l’ultimo capo del suo guardaroba da signore di Pietroburgo. La stufa era spenta, e Moses, nello stesso letto con Willie e Shura, si metteva a sedere, insieme ai fratelli, sotto i quadrati gnoccolosi della coperta trapunta, e guardavano il padre. Stava lì sotto la lampadina, che in fondo aveva una punta come l’elmetto tedesco. Il grande filo sciolto e contorto del tungsteno sfavillava. Urtato e impietosito, papà Herzog, con la testa rotonda e i baffi marroni, guardava in su. Il solco diritto che aveva in mezzo agli occhi andava e veniva. Annuiva e rifletteva.
«Solo, solo, solo, solo
solitario come una pietra
con le mie dieci dita - solo.»
Mamma Herzog parlava dalla sua stanza: «Yonah - aiutalo a entrare».
«Va bene,» diceva papà Herzog, però aspettava.
«Yonah... Fa pietà.»
«Pietà pure su di noi» diceva papà Herzog. «Accidenti a tutto. Tu dormi, per un po’ ti sei liberato del tormento, e lui ti sveglia. Un ubriacone ebreo! Nemmeno quello sa fare bene! Perché non potrebbe essere freilich (352) e giulivo quando beve, eh? No, lui deve piangere e tirarti le corde del sentimento. Be’, accidenti a lui, oh.» Mezzo ridendo, papà Herzog mandava accidenti anche alle corde del sentimento. «Non basta già che debba affittare una stanza a un miserabile shicker?»
«Al tastir pomecho mimeni (363)
sto al verde senza un soldo.
Non nascondere il Tuo volto a noi
che nessuno lo può negare.»
Ravitch, stonato e insistente, piangeva per la scala nera e diaccia.
«O’ Brien
Lo mir trinken a gleisele va-ain (374)
al tastir pomecho mimeni
Sto al verde senza un soldo
che nessuno lo può negare.»
Papà Herzog, zitto e sardonico, rideva fra sé e sé.
«Yonah - ti prego. Genug schon.» (385)
«Oh, dagli tempo. E perché mi dovrei shleppen (396) le budella, scusa.»
«Sveglierà tutta la strada.»
«Sarà coperto di vomito, i calzoni pieni.»
Però ci andava. Aveva anche pena di Ravitch, malgrado Ravitch fosse uno dei simboli della sua mutata condizione. A Pietroburgo aveva avuto dei domestici. In Russia, papà Herzog era stato un signore. Con documenti contraffatti della Prima Corporazione. Ma tanti signori andavano avanti con documenti contraffatti.
I bambini erano ancora lì a guardarsi intorno nella cucina vuota. La stufa nera contro il muro, spenta; la cucinetta a pochi fornelli a gas collegata al contatore con un tubo di gomma. Una stuoia di giunco giapponese proteggeva la parete dalle macchie d’unto.
I ragazzi si divertivano a sentire il padre che con un sacco di moine cercava di persuadere Ravitch ubriaco a rimettersi in piedi. Era teatro di famiglia quello. «Nu, landtsman? Ce la fai a camminare? Si muore dal freddo. Su, metti quei bei piedi storti sul gradino - schneller, schneller.» Rideva senza più ritegno.
«Be’, credo che i tuoi bei pantaloni dreckische (407) li lasceremo qui fuori, eh. Pppùùhh!» I ragazzi si stringevano uno all’altro, nel freddo, sorridendo.
Papà lo accompagnava, sostenendolo, e passavano per la cucina Ravitch coi suoi pantaloni luridi, la faccia rossa, le mani penzoloni, la bombetta, il dolore ebbro dei suoi occhi chiusi.
In quanto al mio sfortunato padre, J. Herzog, non era un omone, era un Herzog d’ossatura piccola, di fattura fina, con il capo tondo, sveglio, nervoso, bello. Nei suoi frequenti scoppi d’impazienza schiaffeggiava i figli, con rapidità, a due mani.
Faceva tutto presto, con esattezza, con abili raffinatezze da europeo orientale: come si pettinava, come si abbottonava la camicia, come affilava i suoi rasoi col manico d’osso, come temperava le matite sul polpastrello del pollice, come reggeva sul petto una forma di pane e l’affettava muovendo il coltello verso di sé, come legava i pacchetti con piccoli nodi ben stretti, come buttava giù artistiche cifre sul suo libro dei conti. Qui, ogni pagina cancellata era stata accuratamente coperta da una X disegnata da lui. I numeri “1” e “7” avevano il filetto e il taglietto e tutti gli svolazzi. Erano come stendardi nel vento del fallimento. Papà Herzog era fallito prima a Pietroburgo: in un anno, s’era prosciugato due doti. A quel tempo importava cipolle dall’Egitto.
Ma, sotto Pobedonostsev, la polizia venne a scoprire che non era in possesso di residenza legale. Fu trascinato in tribunale e condannato. Il resoconto del processo era stato pubblicato in un giornale russo stampato su grossa carta verde. Qualche volta papà Herzog lo tirava fuori ancora e lo leggeva a voce alta all’intera famiglia, traducendo quali provvedimenti legali erano stati presi contro Ilyona Isakovitch Gerzog. La pena non l’aveva mai scontata. Se la svignò. Perché era scattoso, precipitoso, ostinato, ribelle. Venne in Canada, dove viveva la sorella Zipporah Yaffe.
Nel 1913 comperò un pezzo di terra vicino a Valleyfield, Quebec, e fallì come agricoltore. Poi andò in città e fallì come fornaio; fallì nel commercio di articoli per mercerie; fallì come grossista; fallì come fabbricante di sacchi durante la guerra, quando nessun altro falliva. Fallì come rivenditore di materiale di scarto. Poi mise su una agenzia matrimoniale e fallì - troppo impaziente e brusco. E adesso stava fallendo come contrabbandiere di liquori, sempre inseguito dalla Commissione provinciale alcolici. Ma riusciva a rimediare qualche cosa.
Veloce, spavaldo, con la faccia chiara e tesa, camminava con un misto di disperazione e grande distinzione, poggiando il peso un poco goffamente su un tallone, il cappotto, un tempo foderato di volpe, ormai spelacchiato e rinsecchito, la pelle rossa che si screpolava. Il cappotto che gli si apriva mentre camminava (o meglio ancora: mentre marciava la sua marcia ebrea per uomo solo), era impregnato dell’odore della Caporal che fumava mentre di slancio attraversava tutta Montreal: Papineau, Mile-End, Verdun, Lachine, Point St. Charles. Cercava occasioni per combinare qualche affare - fallimenti, vendite speciali, blocchi, fusioni di società, liquidazioni in seguito a incendio, prodotti non lavorati - qualunque attività lo potesse tirar fuori dall’illegalità. Sapeva calcolare le percentuali mentalmente a grandissima velocità, però gli mancava l’immaginativa imbrogliona d’un buon uomo d’affari. E così teneva una piccola distilleria che aveva a Mile-End, dove le capre pascolavano sui terreni da costruzione vicini. Andava e veniva in tram. Vendeva una bottiglia qua e una là e attendeva la grande occasione. Gli incettatori americani di rum comperavano la roba al confine, senza limite di quantitativo, e pagavano subito in contanti, se uno ce la faceva ad arrivare. Intanto fumava sigarette sulle piattaforme dei tranvai. Il fisco stava cercando di acciuffarlo.
Aveva gli scagnozzi alle calcagna. Sulle strade che conducevano al confine erano in agguato i rapinatori dei contrabbandieri d’alcol. Banditi specializzati nel dare l’assalto ai carichi “illegali” d’alcolici. A Napoleon Street aveva cinque bocche da nutrire. Willie e Moses erano malaticci. Helen studiava il piano.
Shura era grasso, ingordo, disobbediente, un ragazzino che ne combinava sempre qualcuna. L’affitto, affitto arretrato, avvisi di pagamenti, conti del dottore da pagare, e lui che non sapeva neanche una parola d’inglese, non aveva amici, non aveva appoggi, un mestiere, nessuna risorsa salvo la sua distilleria - nessun aiuto di nessun genere in tutto il mondo. La sorella Zipporah a St. Anne era ricca, molto ricca, ma questo non faceva che peggiorare le cose.
Nonno Herzog era ancora vivo, allora. Con l’istinto degli Herzog per le cose in grande, nel 1918 si rifugiò nel Palazzo d’Inverno (i bolscevichi per un po’ di tempo lo permisero). Il vecchio scriveva lunghe lettere in ebraico. In quello scompiglio aveva perduto i suoi preziosi libri. Adesso studiare era impossibile. Nel Palazzo d’Inverno bisognava andare su e giù un’intera giornata prima di trovare un minyàn. (418) Certo, c’era anche la fame. Più tardi, predisse che la Rivoluzione sarebbe fallita e cercò di far incetta di moneta zarista, in modo da poter diventare milionario sotto il restaurato governo dei Romanoff. Gli Herzog ricevevano dei pacchetti di rubli senza nessun valore, e Willie e Moses giocavano con immense somme di denaro. Mettevi i gloriosi biglietti contro luce e vedevi Pietro il Grande e Caterina nella filigrana iridata. Nonno Herzog era sugli ottanta, ma ancora forte. La sua intelligenza era vigorosissima, e la sua calligrafia ebraica, elegante. Le sue lettere venivano lette a voce alta da papà Herzog a Montreal descrizioni di freddo, pidocchi, carestia, epidemie, morti. Una volta il vecchio scrisse: «Rivedrò mai i volti dei miei figli? E chi mi darà sepoltura?». Papà Herzog aveva cercato di spiccicare la frase successiva, ci aveva provato due o tre volte, ma non gli era riuscito di ritrovare la voce. Gli veniva fuori soltanto un sussurro. Le lacrime gli erano salite agli occhi e all’improvviso s’era messo una mano sulla bocca baffuta ed era uscito precipitosamente dalla stanza. Mamma Herzog, con gli occhi grandi, era rimasta seduta coi bambini nella squallida cucina dove il sole non entrava mai. Era come una caverna, con l’antica stufa nera, l’acquaio di ferro, le credenze verdi, i fornelli a gas.
Mamma Herzog aveva un suo modo di affrontare il presente voltando un po’ il viso da una parte. Gli andava incontro con il lato sinistro, ma a volte sembrava evitarlo con il destro. Su questo lato schivo ella aveva spesso un’espressione sognante, malinconica, e sembrava rivedesse il Vecchio Mondo - suo padre, famoso mishnàghed, (429) la sua tragica madre, i fratelli vivi e morti, la sorella, e la biancheria e i domestici della casa di Pietroburgo, la dacia in Finlandia (tutto fondato sulle cipolle egiziane). Adesso in Napoleon Street, nel più infimo dei quartieri, faceva da cuoca, lavandaia, sarta. I capelli le erano diventati grigi, e aveva perso i denti, persino le unghie le si erano aggrinzite. Le sue mani puzzavano d’acquaio.
Herzog stava pensando dove mai avesse trovato, però, la forza per viziare i figli. Me, di sicuro, m’ha viziato. Una volta, al calar della sera, mi stava trainando in slitta, sopra un ghiaccio crostoso, con un leggero sfarfallio di neve, saranno forse state le quattro di un breve giorno di gennaio. Vicino al negozio di alimentari incontrammo una vecchia baba con lo scialle, che le disse: «Ma perché lo trascini, figlia!». Mamma aveva gli occhi cerchiati. Il viso affilato e freddo. Respirava ansando. Aveva indosso un cappotto di foca tutto liso e un cappuccetto a punta di lana rossa e degli stivaletti sottili abbottonati. Nel negozio erano appesi grappoli di pesce secco, un odore rancido di zucchero, formaggio, sapone - un’orrenda polvere alimentizia veniva dalla porta spalancata. Il campanello su una bobina di metallo squillava, saltava. «Figlia mia, non sacrificare la tua forza per i bambini» disse la vecchia con lo scialle nel gelido crepuscolo della strada. Io non avevo voglia di scendere dalla slitta. Feci finta di non capire. Una delle cose più difficili della vita, rallentare la facoltà di comprensione quando è per natura rapida. Credo di esserci riuscito, però, pensò Herzog.
Il fratello di mamma, Mickail, morì di tifo a Mosca. Fui io a prendere la lettera dal postino e a portarla di sopra - la lunga cordicella per i panni correva, tutta giunte e nodi, sotto la ringhiera. Era giorno di bucato. Il bollitore di rame appannava la finestra. Lei stava sciacquando e strizzando i panni nella bagnarola. Quando lesse la notizia mandò un grido e svenne. Le labbra le si sbiancarono. Il braccio giaceva nell’acqua, manica e tutto. Eravamo soli noi due a casa. Io ero terrorizzato a vederla riversa in quel modo, le gambe divaricate, i lunghi capelli scarmigliati, le palpebre brune, la bocca senza sangue, come la morte. Però poi si alzò e andò sul letto. Pianse tutto il giorno.
Ma la mattina dopo preparò lo stesso il budino di farina d’avena.
Ci alzavamo presto, noi.
I miei antichi tempi. Più remoti dell’Egitto. Niente alba, negli inverni nebbiosi. Nel buio, la lampadina era accesa. La stufa era fredda. Papà scoteva le grate e sollevava una polvere di cenere. Le grate si lamentavano e protestavano. La paletta, sotto, tintinnava. Le Caporal gli facevano venire una brutta tosse, a papà. I comignoli coi loro elmetti risucchiavano dentro il vento. Poi veniva il lattaio sulla slitta. La neve era tutta rovinata e insozzata di escrementi e rifiuti, ratti morti, cani.
Il lattaio con la giacca di pelle di pecora dava uno strattone alla campanella. Era d’ottone, come la chiavetta per caricare l’orologio. Helen tirava la cordicella che apriva il catenaccio e scendeva con un bricco per il latte. E poi Ravitch, ancora sotto l’effetto della sbronza, usciva dalla sua stanza con un pullover pesante, le bretelle sopra la lana per tenersela più accosto al corpo, la bombetta in testa, rosso in faccia, l’espressione colpevole. Aspettava che gli si dicesse di sedersi.
La luce del mattino non riusciva a liberarsi dalle tenebre e dal ghiaccio. Su e giù lungo tutta la strada, le finestre incavate nei mattoni erano buie, piene di buio, e le scolarette, a due a due, marciavano in direzione del convento con le loro gonnelline nere. E carretti, tregge, slitte per legname, i cavalli che rabbrividivano, l’aria affogata in un verde plumbeo, il ghiaccio chiazzato di sterco, strisce di cenere. Moses e i fratelli si mettevano in testa lo zucchetto e pregavano insieme.
«Ma tovu ohalecha, Yaakov...»
«Come sono belle le tue tende, o Israele.»
Napoleon Street, come un povero balocco, putrida, sudicia e folle, crivellata, flagellata da un tempo inesorabile - i figli del contrabbandiere di liquori che recitavano le loro antiche preghiere. A questo il cuore di Moses restava attaccato con grandissima forza. Lì c’era un raggio di sentimenti umani più vasto di quanto fosse mai più stato capace di trovare. I figli della razza, per un miracolo mai smentito, aprivano gli occhi su mondi uno più strano dell’altro, èra dopo èra, e ciascuno dentro di sé articolava la stessa preghiera, amando appassionatamente quel che trovavano sulla loro strada. Che cos’è che non andava in Napoleon Street? pensò Herzog. Tutto ciò che aveva sempre desiderato, era là. Sua madre faceva i panni, e soffriva. Suo padre era disperato e impaurito, ma lottava ostinatamente. Suo fratello Shura con gli occhi smaliziati, sgranati, tramava di comandare al mondo, di diventare milionario. Suo fratello Willie lottava contro gli attacchi di asma. Nello sforzo di respirare si afferrava al tavolo e si alzava sulla punta dei piedi come un gallo che stesse per cantare. Sua sorella Helen aveva dei lunghi guanti bianchi che lavava in dense saponate. Li indossava per andare alle lezioni al conservatorio, con sottobraccio il rotolo di cuoio per la musica. Il suo diploma pendeva incorniciato al muro. Mlle. Hélène Herzog... avec distinction. La sua delicata e compassata sorellina che suonava il piano.
Le sere d’estate si sedeva a suonare e quelle note chiare uscivano dalla finestra nella strada. Il pianoforte dalle spalle quadre aveva un copritastiera di velluto, color verde muschio, come se il coperchio del pianoforte fosse una pietra di marmo.
Dal copritastiera pendeva una frangia a palline, come tante nocchie. Moses stava in piedi dietro Helen, e guardava fisso quelle vorticose pagine di Haydn e Mozart, e avrebbe voluto uggiolare come un cane. Oh, la musica! pensò Herzog. Combatté l’insidia della nostalgia, perniciosa a New York - emozioni che indeboliscono, che spezzano il cuore, macchie nere, dolci per un attimo ma che lasciano, poi, un pericoloso residuo amaro. Helen suonava. Portava una casacchina alla marinara e una gonna a pieghe, e le sue scarpe a punta si rattrappivano sui pedali, una bambina per bene, vana. Mentre suonava aggrottava le ciglia - la ruga di suo padre compariva anche a lei in mezzo agli occhi.
Aggrottava la fronte come se stesse eseguendo qualcosa di pericoloso. La musica risuonava giù per la strada.
Zia Zipporah criticava quella faccenda della musica. Helen non era una musicista vera. Suonava per commuovere la famiglia. Forse per attrarre un marito. Quello a cui si opponeva zia Zipporah era l’ambizione che mamma nutriva per i suoi figli, perché mamma voleva che diventassero avvocati, signori, rabbini, oppure musicisti. Tutti i rami della famiglia avevano la pazzia di casta dello yiches. Non c’era esistenza tanto squallida e subordinata che non avesse dignità immaginarie, onori, avvenire, prevedibili libertà.
Zipporah voleva mettere un freno alla mamma, concluse Moses, e attribuiva il fallimento di papà in America a quei guanti bianchi e a quelle lezioni di pianoforte. Zipporah aveva un carattere forte. Svelta, scaltra, sempre in guerra con tutti. Aveva un viso magro e acceso, il naso ben fatto, ma stretto e arcigno. Aveva una voce querula, demolitrice, nasale. Aveva i fianchi larghi e camminava a passi grandi e pesanti. Una treccia di capelli spessi e lucidi le pendeva sulle spalle.
Invece zio Yaffe, il marito di Zipporah, era quieto, di poche parole, spiritosamente riservato. Era un uomo piccolo ma forte.
Aveva le spalle larghe, e portava una barbetta nera come quella di re Giorgio V. Gli cresceva fitta e riccioluta sulla faccia bruna. Sul setto nasale aveva un’incavatura. Aveva i denti larghi, e uno era incapsulato d’oro. Moses aveva sentito il sapore aspro dell’alito di suo zio quando giocavano a dama. Al di là della scacchiera, la grande testa di zio Yaffe coi capelli neri corti e mossi, leggermente calva, non era molto stabile. Lo zio aveva un lieve tremore nervoso. Lo zio Yaffe, dal passato, sembrava scoprire il nipote proprio in quell’istante preciso e sogguardarlo con gli occhi marroni di un animale intelligente, buono, satirico. Il suo sguardo lampeggiò furbescamente, ed egli sorrise con contorta soddisfazione degli errori del giovane Moses. Facendomi, affettuosamente, un bel cicchetto.
Nel deposito di rottami di Yaffe, a St. Anne, le lamine frastagliate del metallo di seconda mano sanguinavano ruggine nelle pozzanghere. Qualche volta, al cancello, c’era una fila di robivecchi. Bambini, novellini, vecchie donne irlandesi, o ucraini e pellirosse dalla riserva Caughnawaga arrivavano con carrettini a mano e carriole, portando bottiglie, stracci, vecchi pezzi di tubi e di attrezzature igieniche o elettriche, utensili vari, carta, ruote e ossi da vendere. Il vecchio, col suo gilet di lana marrone si chinava, e le sue forti mani tremanti sceglievano quello che voleva acquistare. Senza neanche raddrizzarsi, sapeva lanciare i rottami di metallo al posto giusto - il ferro qui, lo zinco là, il rame a sinistra, il piombo a destra, e il ferodo vicino alla capanna. Lui e i figli avevano fatto i soldi durante la guerra. Coi soldi, zia Zipporah aveva comprato delle case. Riscuoteva lei gli affitti. Moses sapeva che portava un rotolo di soldi in petto. L’aveva visto.
«Oh be’, tu, tu non hai perso niente, a venire in America» le disse papà.
La sua prima risposta fu di guardarlo fisso, con asprezza, come se lo volesse avvisare. Poi disse: «Non è segreto come abbiamo cominciato, noi. Lavorando. Yaffe ha preso un piccone e una pala e se li è sempre portati dietro alle Ferrovie Canadesi fino a quando non avevamo messo da parte un po’ di capitale. Ma tu! Tu no, tu sei nato con la camicia di seta addosso». Con uno sguardo a mamma, proseguì: «Tu ti sei abituato a fare le cose di lusso, a Pietroburgo, con servitori e cocchieri. Ti vedo ancora che scendi dal treno a Halifax, tutto in ghingheri fra quegli zoticoni. Gott meiner! (430) Piume di struzzo, gonne di taffetà! Greenhorns mit Strauss-Federn! (441) Adesso dimènticatele le piume, i guanti. Adesso...».
«Ah, ormai mi sembra mille anni fa» disse mamma. «Mi sono dimenticata tutto dei servitori. La serva sono io. Die dienst bin ich.» (452)
«Tutti devono lavorare. Non soffrire tutta la vita perché una volta hai fatto un capitombolo. Perché mai i bambini devono andare al conservatorio, alla scuola del Barone de Hirsch, e tutti gli altri bei fronzoli? Mandali a lavorare, come i miei.»
«Lei non vuole che i bambini crescano ignoranti» disse papà.
«I miei mica sono ignoranti. Pure loro sanno una pagina del Ghemarà. (463) E non dimenticate che noi discendiamo dai più grandi rabbini chassidici. Reb Zusya! Herschel Dubrovner! Ricordati solo questo.»
«Nessuno sta dicendo...» disse mamma.
Inseguire il passato a quel modo - amare i morti! Moses stette attento a non cedere tanto profondamente a quella tentazione, a quella particolare debolezza del suo carattere. Lui era un depressivo. I depressivi non possono rinunciare alla loro fanciullezza - nemmeno ai dolori della fanciullezza. Lui comprendeva l’igiene della cosa. Ma il suo cuore s’era, chissà perché, aperto a quel capitolo della sua vita, e non aveva più la forza di chiuderlo. E così era di nuovo una giornata d’inverno a St. Anne, nel 1923 - la cucina di zia Zipporah. Zipporah aveva una vestaglia di crespo di cina rosso cremisi. Sotto di questa si potevano distinguere dei mutandoni gialli, alquanto voluminosi, e una canottiera da uomo. Stava seduta accanto al forno, in cucina, col viso arrossato. La sua voce nasale si alzava spesso in un pungente gridolino d’ironia, di falso sgomento, di terribile umorismo. Poi si ricordò che Mickail, il fratello di mamma, era morto, e disse: «Dunque - tuo fratello - che cos’aveva?».
«Non lo sappiamo» disse papà. «Chi lo può immaginare che annata nera ci avranno, laggiù, a casa.» Dicevano sempre in der heim, (474) però, si ricordò Herzog. «Una masnada di gente gli è piombata in casa. Hanno sfondato, spaccato tutto, per vedere se c’era valuta. (485) E dopo ha preso il tifo, o Dio sa che cosa.»
Mamma teneva una mano sugli occhi, come se cercasse di proteggerli dalla luce. Non disse nulla.
«Mi ricordo che brav’uomo che era» disse zio Yaffe. «Che possa avere un lichtiger Gan-Eden.» (496) Zia Zipporah, che credeva nel potere delle maledizioni, disse: «Maledetti i bolscevichi. Vogliono fare chorev (507) del mondo. Che gli possano cadere mani e piedi. Ma dove stanno la moglie e i figli di Mickail?».
«Nessuno lo sa. La lettera è stata scritta da un cugino, Shperling, che ha visto Mickail all’ospedale. Lo ha riconosciuto appena.»
Zipporah disse qualche altra cosa riverente, e poi in un modo più normale aggiunse: «Be’, era un uomo attivo. Aveva un sacco di soldi, al tempo suo. Chissà che fortuna si portò dietro dal Sud Africa».
«La divise con noi» disse mamma. «Mio fratello aveva la mano generosa.»
«Gli era venuta facile» disse Zipporah. «Non è che avesse dovuto sgobbare per farsela.»
«E tu come lo sai?» disse papà Herzog. «Non ti far trasportare dalla lingua, sorella mia.»
Ma Zipporah ormai non si poteva frenare. «Ha fatto i soldi su quei poveracci neri dei cafri, e chi sa come, poi! E così voi ci avevate una dacia a Sevalovo. Yaffe era sotto le armi nel Caucaso. Io ci avevo un bambino malato da allattare. E tu, Yonah, correvi per Pietroburgo a spenderti le tue doti in una volta. Sì! I primi diecimila rubli te li sei perduti in un mese. Lui te n’ha dati altri diecimila. Io non lo so che altro stava combinando, con tartari, zingari, prostitute, mangiando carne di cavallo, e Dio solo sa che altre bruttezze succedevano.»
«Ma che malignità ci hai nel cuore, tu?» disse papà Herzog, arrabbiato.
«Io non ho niente contro Mickail. A me non mi ha mai fatto nulla di male» disse Zipporah. «Ma lui era un fratello che dava, e io sono una sorella che non dà.»
«Nessuno ha detto questo» disse papà Herzog. «Però se la scarpa ti calza, te la puoi pure mettere.»
Assorto, immobile sulla sua sedia, Herzog ascoltava i morti coi loro morti litigi.
«E che vorresti?» diceva Zipporah. «Con quattro figli, se io cominciassi a dare, e incoraggiassi le vostre cattive abitudini, sarebbe una cosa che non finirebbe mai. Non è colpa mia se tu sei un povero, qui.»
«Io sono un povero in America, è vero. Guardami. Non ci ho nemmeno un soldo per benedire la mia nuda pelle. Non mi potrei nemmeno pagare il sudario per seppellirmi.»
«Di questo incolpa la tua natura debole» disse Zipporah. «As du host a schwachen natur, wer is dir schuldig? (518) Tu non ce la fai a reggerti da solo. Prima ti sei appoggiato sul fratello di Sarah, e adesso ti vuoi appoggiare a me. Yaffe ha fatto il soldato nel Caucaso. A finsternish! (529) Faceva così freddo che manco i cani abbaiavano! Solo che lui se n’è venuto in America e poi m’ha mandato a chiamare. Ma tu, tu vuoi alle sieben glicken. (530) Tu viaggi in pompa magna, con le penne di struzzo. Tu sei un edelmensch. (541) C’è da sporcarsi le mani? Te no davvero.»
«È vero. In der heim io non spalavo letame. Questo accadde nella terra di Colombo. Però l’ho fatto. Ho imparato a sellare un cavallo. Alle tre di notte, con venti sotto zero nella stalla.»
Zipporah fece un gesto con la mano come per mettere da parte quell’aspetto dell’argomento. «E adesso, con la distilleria? Sei dovuto fuggire dalla polizia dello zar. E adesso il Fisco? E ti tocca avere un socio, un ganeff.» (552)
«Voplonsky è un uomo onesto.»
«Chi - quel tedesco?» Voplonsky era un maniscalco polacco. Lei lo chiamava tedesco per via dei suoi baffetti a punta alla militare e del cappotto di taglio tedesco. Arrivava fino a terra.
«Che cosa ci hai in comune tu con un fabbro? Tu, un discendente di Herschel Dubrovner! E lui, un Polisher shmid (563) coi baffi rossi! Un porco! Un porco coi baffi rossi a punta e i denti lunghi tutti storti, che puzza di unghie abbrustolite! Bah! Il tuo socio. Aspetta e vedrai quello che ti combina.»
«Non è mica tanto facile farmela, sai.»
«No? E Lazansky non t’ha truffato? Te l’ha proprio fatta in vero stile turco, quello. E non te l’ha pure date?»
Quello era Lazansky, ai tempi del forno, un carrettiere gigantesco che veniva dall’Ucraina. Un uomo enorme; ignorante, un amoretz (574) che non sapeva nemmeno abbastanza d’ebraico per benedirsi il pane, si sedeva sul suo carretto verde, stretto, per andare a fare le consegne, poderoso, grugnendo: «garrap», al suo ronzino e schioccando la frusta. La sua vociaccia grossa rimbombava rotolando come una palla da birilli. Il cavallo trottava lungo la riva del Lachine Canal. Sul carretto si leggeva la scritta.
LAZANSKY - PÂTISSERIES DE CHOIX
Papà Herzog disse: «Sì, è vero, me le ha date».
Era venuto per farsi prestare del denaro da Zipporah e Yaffe. Non voleva venir trascinato in un processo. Lei aveva sicuramente indovinato lo scopo di quella visita e stava cercando di farlo inquietare in modo da poterglielo rifiutare con più facilità.
«Ahi!» disse Zipporah. Donna di grandissima furbizia, tutte le sue doti non trovavano sfogo in quel villaggetto canadese. «Tu ti credi che puoi fare una fortuna coi truffatori, i ladri e i gangster. Tu? Ma tu sei una creatura gentile. Io non so proprio perché non te ne sei rimasto alla yeshivà. (585) Tu volevi essere un signorino tutto ingioiellato. Io li conosco questi teppisti, questi razboinik. (596) Loro non è che hanno la pelle, i denti, le dita come te; ci hanno pelo, zanne, artigli. Tu non ce la farai mai a tenere testa a questi carrettieri e a questi macellai. Gli puoi sparare a un uomo, tu?»
Papà Herzog stava zitto.
«Se, Dio non voglia, tu dovessi sparare...» gridò Zipporah. «Ma che ce la faresti a dare un colpo in testa a qualcuno? Su, coraggio. Pensaci un po’. Rispondimi, avanti, gàslan. (607) Potresti dare qualche cosa in testa a qualcuno?»
Su questo, mamma Herzog sembrava d’accordo.
«Non sono mica un deboluccio» disse papà Herzog col suo viso energico e i baffi castani. Ma naturalmente, pensò Herzog, tutta la violenza di papà si consumava nel dramma della sua vita, nella lotta con la famiglia, e nel sentimento.
«Quelli si prenderanno quello che gli pare e piace da te, quei leite» (618) disse Zipporah. «Adesso, non sarebbe ora che adoperassi un po’ la testa? Una ce l’hai - klug bist du. (629) Guadagnati da vivere in un modo legittimo. Manda a lavorare la tua Helen e il tuo Shura. Vendi il piano. Riduci le spese.»
«Perché non dovrebbero studiare i bambini se hanno intelligenza, talento?» disse mamma Herzog.
«Se i bambini sono svelti, tanto meglio per mio fratello» disse Zipporah. «È troppo faticoso per lui - ammazzarsi di stanchezza per dei principini e delle principessine viziate.»
Papà stava dalla sua parte, adesso. Il suo desiderio di essere aiutato era profondissimo, senza fondo.
«Non che io non gli voglia bene, ai bambini» diceva Zipporah.
«Vieni qui, piccolo Moses, vieniti a sedere sulle ginocchia della tua vecchia Tante. (630) Che tesoro di piccolo yinghele.» (641)
Moses in grembo a sua zia - quelle mani rosse lo reggevano per la pancia. Gli sorrideva con aspro affetto e lo baciava sul collo. «Nato nelle braccia mie, questo bambino.» Poi guardava il fratellino Shura, che stava in piedi accanto alla mamma. Aveva dei gamboni grossi, tutti d’un pezzo, e la faccia lentigginosa. «E tu?» gli diceva Zipporah.
«Sei cresciuto abbastanza ormai per portare a casa un dollaro.»
Papà guardava Shura con gli occhi di fuori.
«Ché, non aiuto?» diceva Shura. «Consegno le bottiglie, no? Incollo le etichette, no?»
Papà aveva delle etichette false. Diceva allegramente: «Be’, ragazzi, che vogliamo fare - White Horse? Johnnie Walker?».
Allora noi dicevamo tutti i nostri nomi preferiti. La casseruola con la colla stava sulla tavola.
Di nascosto, mamma Herzog aveva toccato la mano di Shura, quando Zipporah gli aveva piantato addosso gli occhi. Ma Moses se ne era accorto. Di fuori, Willie stava scorrazzando a perdifiato con i cugini, costruivano un fortino di neve, strillando e lanciando palle di neve. Il sole si faceva sempre più basso.
Strisce di raggi rossi dall’orizzonte si attorcigliarono sui crinali di neve vetrosa. Nell’ombra azzurra della staccionata, le capre pascolavano. Erano del vicino di casa, l’uomo del seltz. Le galline di Zipporah stavano per andare a dormire. Quando ci veniva a far visita a Montreal, qualche volta ci portava un uovo fresco. Un uovo. Uno dei bambini poteva esser malato. Un uovo fresco faceva un mondo di bene. Nervosa e piena di critiche, con i piedi goffi e i fianchi forti, saliva i gradini di Napoleon Street, una donna tempestosa, una figlia del Fato. Rapidamente e nervosamente si baciava la punta delle dita e toccava la mezuzàh. (652) Entrando, ispezionava il modo che mamma aveva di tenere la casa. «Stanno tutti bene?» diceva. «Ho portato un uovo ai bambini.» Apriva la borsa capace e tirava fuori il regalo, incartato in un pezzo di giornale yiddish («Der Kanader Adler»).
Una visita di Tante Zipporah era come un’ispezione militare.
Dopo, mamma rideva e spesso finiva col gridare: «Ma perché è mia nemica? Che cosa vuole? Io non ho la forza per lottare con lei».
L’antagonismo, così come lo sentiva mamma, era mistico - un affare di anime. La mente di mamma era arcaica, piena di antiche leggende, con angioli e demoni.
Naturalmente Zipporah, quella realista, ebbe ragione di rifiutare il suo aiuto a papà Herzog. Lui decise di portare al confine il whisky di contrabbando e fare le cose in grande. Con Voplonsky, si fecero prestare i soldi dagli strozzini, e caricarono di casse il furgone. Ma non arrivarono mai a Rouses Point. Furono assaliti dai banditi, percossi e abbandonati in un fosso. Papà Herzog ebbe la peggio perché aveva cercato di resistere. I banditi gli strapparono i vestiti di dosso, gli fecero saltare un dente, e gli camminarono sopra.
Lui e il maniscalco Voplonsky ritornarono a Montreal a piedi.
Si fermò alla bottega di Voplonsky per ripulirsi un po’, ma c’era poco da fare per rimediare a un occhio gonfio e sanguinante.
Aveva un buco fra i denti. La giacca era strappata e la camicia e la biancheria erano macchiate di sangue.
Fu in quelle condizioni che entrò nella buia cucina di Napoleon Street. Eravamo tutti là. Era un marzo tenebroso, e comunque la luce arrivava di rado in quella stanza. Era come una caverna.
Eravamo come abitanti delle caverne. «Sarah!» disse. «Bambini!»
Mostrò la sua faccia tutta tagliata. Spalancò le braccia così che potessimo vedere il suo vestito a brandelli, e sotto, il bianco del corpo. Poi si rovesciò le tasche - vuote. Mentre compiva quel gesto cominciò a piangere, e i bambini che gli stavano intorno piangevano tutti. Era più di quel che potessi sopportare, che qualcuno gli avesse messo le mani addosso, mani violente - un padre, un essere sacro, un re. Sì, per noi lui era un re. Il mio cuore soffocava a quell’orrore. Pensai che ne sarei morto. Chi ho mai amato come ho amato loro?
Poi papà Herzog raccontò la sua storia.
«Ci aspettavano. La strada era bloccata. Ci hanno trascinato giù dal camion. Ci hanno preso tutto.»
«Perché vi siete battuti?» chiese mamma Herzog.
«Tutto quello che avevamo... tutto quello che m’ero fatto prestare!»
«T’avrebbero potuto ammazzare.»
«Avevano i fazzoletti sul viso. Ma credo di aver riconosciuto...»
Mamma non ci poteva credere. «Landtsleit? (663) Impossibile. Nessuno ebreo potrebbe fare una cosa simile a un altro ebreo.»
«No?» gridò papà. «Perché no? Chi lo dice, di no? E perché non lo dovrebbero fare?»
«Gli ebrei no! Mai!» disse mamma. «Mai. Mai! Non ci avrebbero il cuore. Mai!»
«Bambini - non piangete. E il povero Voplonsky - non ce la faceva nemmeno a mettersi a letto.»
«Yonah» disse mamma «tu devi rinunciare a tutta questa faccenda.»
«Come vivremo? Dobbiamo vivere, noi.»
Cominciò a raccontare la storia della sua vita, dall’infanzia fino a quel giorno. Mentre parlava piangeva. Mandato lontano da casa a studiare quando aveva quattro anni. Divorato dai pidocchi.
Ragazzo, per poco moriva di fame nella yeshivà. Si tagliò la barba, diventò un giovane europeo moderno. Quando fu un po’ cresciuto lavorò per sua zia a Kremenchug. Per dieci anni, a Pietroburgo, s’era illuso di godersela, con documenti falsi. Poi lo misero in prigione coi criminali comuni. Fuggì in America.
Crepò di fame. Pulì le stalle. Chiese la carità. Visse nella paura. Un baalchov (674) - sempre in debiti con qualcuno.
Affittando camere a vecchi ubriaconi. La moglie, una serva. E questo era quello che portava a casa ai suoi figli. Questo era quello che aveva da fargli vedere - i suoi stracci, le sue ammaccature.
Herzog, avvolto nella vestaglia stampata, da pochi soldi, meditava con occhi annuvolati. Sotto i piedi nudi c’era una strisciolina di tappeto. I gomiti erano appoggiati su un fragile scrittoio e la testa pendeva fra le braccia. Aveva scritto soltanto poche righe a Nachman.
Immagino, stava pensando, che risentissimo quella storia degli Herzog dieci volte all’anno. Qualche volta la raccontava mamma, qualche volta lui. Sicché ricevemmo una grande scuola di dolore.
Li riconosco ancora quei gridi dell’anima. Giacciono nel petto, e nella gola. La bocca vuole a tutti i costi spalancarsi e lasciarli uscire. Ma tutte queste cose sono antichità - sì, antichità ebraiche, che hanno origine nella Bibbia, in un senso biblico di esperienza e destino personale. Quello che è accaduto durante la seconda guerra mondiale ha abolito la pretesa di papà Herzog alla sofferenza eccezionale. Adesso ci troviamo su un piano più brutale, un nuovo piano terminale, indifferente alle persone. Che è parte del programma di distruzione su cui lo spirito umano si è lanciato con foga, addirittura con gioia.
Storie personali, vecchie storie di vecchi tempi che forse non vale neppure la pena di ricordare. Io me ne ricordo. Devo. Ma a chi altro, a chi mai possono importare? Tanti di quei milioni moltitudini - spariscono tra pene tremende. E, anzi, la sofferenza morale viene negata, di questi tempi. I personaggi ben caratterizzati servono soltanto per far ridere. Ma io sono ancora prigioniero del dolore di papà. Il modo con cui papà Herzog parlava di sé! Da ridere! Il suo “io” aveva una tale dignità!
«Ci devi rinunciare» gridava mamma. «Devi, devi!»
«E che cosa potrei fare, allora? Lavorare per le pompe funebri? Come un vecchio di settant’anni? Che va bene solo per sedersi di fianco ai cataletti? Io? Lavare i cadaveri? Io? O devo andare al cimitero e imbonirmi i parenti in lutto per ricavarne un nichelino? A dire El maleh rachamin. (685) Io? Che la terra si apra e m’inghiotta, piuttosto!»
«Su, Yonah» disse mamma col suo modo premuroso, remissivo. «Ti metto una compressa sull’occhio. Vieni, su, sdraiati sul letto.»
«E come posso?»
«No, non lo devi fare più.»
«Come mangeranno i bambini?»
«Andiamo, su - ti devi mettere un po’ sul letto, adesso. Togliti questa camicia.»
Mamma si sedette accanto al letto, silenziosa. Lui era là disteso nella stanza grigia, sul letto di ferro, coperto con la lisa coltre russa - la sua bella fronte, il naso diritto, i baffi castani. Come aveva già fatto da quel corridoio buio, Moses anche adesso contemplava quelle due figure.
Nachman, ricominciò a scrivere, ma si fermò. Come avrebbe potuto far arrivare una lettera a Nachman? Meglio mettere un avviso sul «Village Voice». (696) Ma perché, tanto, a chi le avrebbe mandate le altre lettere che stava scrivendo?
Arguì che la moglie di Nachman doveva esser morta. Sì, doveva essere successo così. Quella ragazza snella, con le gambe magre, con le sopracciglia scure che si sollevavano alte e si incurvavano ai lati degli occhi, e la grande bocca che si ripiegava agli angoli - s’era suicidata, e Nachman era scappato perché (chi gliene poteva fare una colpa?) sarebbe stato costretto a raccontare tutto a Moses. Poveretta, poveretta anche lei deve essere al cimitero.