domenica 30 giugno 2024

Yoga Emmanuel Carrère

 


Yoga 

Emmanuel Carrère 

Recensione (La lettrice controcorrente)

 Yoga è  un romanzo dove l'immaginazione  si mescola alla vita di questo scrittore, Il soggetto del libro è sempre lui ma qui Emmanuel si è denudato mostrandosi solo e sopraffatto. Gli ho voluto bene come si vuole bene a una persona problematica che fa parte della famiglia.

Yoga doveva essere in origine un libro sullo yoga appunto, e la prima parte in un certo senso lo è. Ma la vita scombina sempre i piani di Carrère e i nostri. Così questo libricino che prova a definire la disciplina si trasforma in una lunga confessione, un grido, una richiesta di aiuto.

Quando Emmanuel (e concedetemi di chiamarlo per nome) è immerso nel seminario Vipassana viene richiamato nel mondo reale per via dell’attentato a Charlie Hebdo. Da lì il libro cambia radicalmente forma e registro.

Se adesso mi ostino a scrivere questo libro, ovvero la mia personale versione di quei libri di autoaiuto che si vendono così bene, è per ricordare ciò che i libri di autoaiuto raramente dicono: che i praticanti di arti marziali, i seguaci dello zen, dello yoga, della meditazione, di tutte queste discipline sublimi, fulgide e benefiche a cui da sempre faccio la corte, non sono necessariamente né saggi né tranquilli, né tantomeno sereni e in pace con se stessi; ma a volte, anzi spesso, sono come me drammaticamente nevrotici, e che però non importa, perché, come diceva Lenin, bisogna “lavorare con il materiale a disposizione”, e allora, anche se non ci conduce da nessuna parte, facciamo bene a ostinarci, nonostante tutto, a percorrere questo cammino.

Carrère lega le nozioni dello Yoga al dolore per la perdita dell’editore, le mescola a una relazione sessuale intensa e indimenticabile, fino ad arrivare alla depressione e alla malinconia. Dando vita a un libro variegato, in alcune parti un po’ alienanti e ricco di interrogativi. Difficile credere che questo Carrère sia lo stesso de L’avversario o de La settimana bianca.

Noi siamo puro caos, confusione, siamo una poltiglia di ricordi e paure e fantasie e vane aspettative ma dentro di noi c’è qualcuno di più tranquillo, che vigila e riferisce.

Yoga è in un certo senso puro caos. Per questo non lo consiglierei a chi non ha mai letto nulla di questo scrittore. Bisogna arrivarci pronti, bisogna aver già capito se amate o odiate Carrère. Perché no, non ci sono vie di mezzo.

Non lo so se c’è davvero un lieto fine in Yoga. Penso che Carrère non riuscirà mai a  liberarsi dei suo demoni, ma credo anche che non smetterà mai di cercare la luce, l’amore, la rinascita.

So che Yoga, ancora una volta, ha diviso il pubblico. Io personalmente l’ho amato nella sua ripetitività, l’ho immaginato come il frutto della depressione di Carrère, ho creduto fosse una lunga confessione e per questo forse l’ho compreso.

Le pagine in cui Carrère racconta la depressione sono intensissime. Quando il giornalista si reca a casa sua per l’intervista, mi si è stretto il cuore. La stessa cosa evidentemente è successa davvero anche al giornalista che racconta il giro in motorino con una tenerezza inaspettata:

«Sarebbe stato molto più facile se fossimo stati amici.non sarei stato costretto a irrigidirmi per mantenere la distanza tra noi, avrei potuto tenermi a lui, non è certo il comportamento che ci si aspetta da parte di un giornalista nei confronti della persona che è venuto a intervistare, ma mi dico che in fondo è proprio quello che avrei dovuto fare: abbracciare quell’uomo così infelice».

La depressione di Carrère che viene raccontata senza filtri e senza quasi personaggi di spalla è fondamentale in Yoga. Poco importa quali siano gli elementi di finzione e quali quelli reali. Di fatto abbiamo di fronte un uomo che affronta l’eletrroshock nella speranza di guarire, di tornare a sorridere. E che cerca un “padre”, una guida per affrontare un dolore che è lui stesso a procurarsi.

«Quello che sta vivendo è orribile: bene. Lo viva. Vi aderisca. Sia quell’orrore. Se deve morirne, ne morirà. Non cerchi né ragioni né mezzi per uscirne. Non faccia niente, lasci perdere: solo così può verificarsi un cambiamento». In altre parole: mediti, perché la meditazione è questo.

 è…

Confessione. Ma è anche dolore, meditazione, speranza. Yoga è un libro in cui viene contenuto di tutto: realtà, invenzione, pillole di yoga, attualità. Ma la verità è che non so come definirlo, posso solo dire che questo romanzo mi ha fatto tornare la voglia di leggere e di non pensare perché ho fatto come c’è scritto: mi sono abbandonata e ho lasciato che l’angoscia del momento mi attraversasse senza travolgermi.

Forse questo non è il miglior Carrère e capisco chi critica quest’insieme di impressioni a tratti allucinante ma io non posso far a meno di amare anche questo.

Trent’anni a perseguire la calma e la profondità strategica, trent’anni a raccontarmi la mia vita come un progressivo sottrarmi alla confusione e costruire con pazienza uni stato di meraviglia e serenità, trent’anni in cui ci ho creduto davvero, nonostante i cedimenti e i periodi di depressione, è proprio quando ero giunto al traguardo, all’approssimarsi della vecchiaia, quando avevo una casa, una famiglia, tutto per essere saggio e felice, mi ritrovo solo, accoccolato in posizione fetale in un letto a una piazza, nella casa vuota di una donna sola e perduta, partita anche lei senza lasciare un indirizzo per chissà quale posto dell’emisfero meridionale. Non è un granché come bilancio. Non è una buona pubblicità per lo yoga. Ma sbaglio a dire questo: lo yoga non c’entra niente, il problema sono io. Lo yoga tende all’unità, e io sono troppo diviso per raggiungerla.

Consigliato per chi non ha paura di abbandonarsi a una storia strana, imprevedibile, reale.


YOGA

L’arrivo

Poiché devo pur cominciare da qualche parte il racconto dei quattro anni durante i quali ho cercato di scrivere un libricino arguto e accattivante sullo yoga, ho affrontato cose molto poco argute e accattivanti come il terrorismo jihadista e la crisi dei rifugiati, sono sprofondato in una depressione melanconica tale da dover essere internato per quattro mesi all’ospedale Sainte-Anne e per finire ho perso il mio editore, che per la prima volta dopo trentacinque anni non leggerà un mio libro, poiché insomma devo pur cominciare da qualche parte, scelgo quella mattina di gennaio del 2015 in cui, chiudendo il borsone da viaggio, mi sono chiesto se fosse meglio portarmi dietro il telefono, di cui avrei comunque dovuto disfarmi nel posto in cui stavo andando, o lasciarlo a casa. Ho optato per la scelta più radicale e, una volta in strada, ho trovato eccitante il fatto di essere fuori della portata dei radar. Anche prendere il treno alla Gare de Bercy, stazione modesta e già provinciale, un satellite della Gare de Lyon specializzato nelle regioni della Francia centrale, è stato un piccolo scarto rispetto alla normalità. Vagoni vetusti, scompartimenti all’antica, con sei posti in prima, otto in seconda, tonalità marroni e grigio-azzurre che mi ricordavano i treni della mia lontana infanzia, negli anni Sessanta. Sdraiati sui sedili c’erano dei soldati che dormivano, come se nessuno li avesse avvisati che il servizio militare non esiste più. Girata verso il finestrino impolverato, la mia unica vicina guardava sfilare sotto una pioggia fine e grigia i palazzi coperti di graffiti all’uscita di Parigi, poi quelli della periferia est. Era una ragazza con il fisico e la tenuta da escursionista, equipaggiata con un enorme zaino. Mi sono chiesto se stesse andando a fare trekking nel Morvan, come era capitato anche a me tanto tempo prima, partendo da Vézelay e in condizioni atmosferiche non meno inclementi, o se invece, chissà, stesse andando dove andavo io. Di proposito non mi ero portato dietro da leggere e ho passato tutto il tragitto – un’ora e mezzo – a lasciar vagare lo sguardo e i pensieri, in una sorta di impazienza tranquilla. Da quei dieci giorni in cui sarei stato disconnesso da tutto, irraggiungibile, off limits, mi aspettavo molto, anche se non sapevo esattamente cosa. Soppesavo le mie aspettative, la mia impazienza tranquilla. Era interessante. Quando il treno si è fermato a Laroche-Migennes, la ragazza con il grosso zaino è scesa insieme a me e, come me, come una ventina di altre persone, si è diretta verso la banchina davanti alla stazione dove doveva venirci a prendere una navetta. Non conoscendoci, l’abbiamo aspettata in silenzio. Ognuno di noi guardava i compagni chiedendosi fino a che punto avessero un’aria normale. Io avrei detto di sì, abbastanza. Quando è arrivato il pullman, alcuni si sono seduti a due a due, io da solo, ma un attimo prima della partenza, per ultima, è salita una donna sulla cinquantina, con un bel viso serio e scavato, e ha preso posto accanto a me. Un rapido saluto, a mezza voce, dopodiché ha chiuso gli occhi, facendomi capire in modo garbato che non ci teneva ad attaccare bottone. Nessuno parlava. Di lì a poco il pullman è uscito dalla città e si è messo a percorrere certe stradine secondarie, attraversando paesini dove niente sembrava aperto, neppure le imposte. Dopo una mezz’ora ha imboccato una strada bianca fiancheggiata da querce e si è fermato su uno spiazzo di ghiaia, davanti a un casale. Siamo scesi, abbiamo scaricato i bagagli e siamo entrati nell’edificio da porte separate: una per gli uomini, una per le donne. Noi uomini ci siamo ritrovati in una grande sala allestita come una mensa scolastica, illuminata da luci al neon, con le pareti dipinte di un giallo tenue e decorate con le riproduzioni calligrafiche di una serie di massime di saggezza buddhista. C’erano facce nuove, gente che non era nel pullman e che doveva essere arrivata in macchina. Dietro a un tavolo di formica, un ragazzo con la faccia aperta e simpatica, che portava una maglietta a maniche corte a differenza di tutti noi che avevamo indosso almeno un maglione o un pile, riceveva a uno a uno i nuovi arrivati. Prima di presentarsi da lui, bisognava compilare un questionario.

Il questionario

Dopo essermi versato un po’ di tè in un bicchiere infrangibile dal rubinetto di un grande samovar di latta, mi sono seduto di fronte al questionario. Quattro pagine stampate fronte-retro. Le prime domande non richiedevano lunghe riflessioni: stato civile, persone da avvisare in caso di necessità, problemi sanitari, terapie in corso. Ho precisato che ero in buona salute ma che avevo più volte sofferto di depressione. Dopodiché, ci veniva chiesto di dire: 1) come eravamo venuti a conoscenza della Vipassana; 2) se avevamo esperienza di meditazione; 3) in che momento della vita ci trovavamo; 4) che cosa ci aspettavamo dal seminario. Poiché gli spazi riservati alle risposte non superavano un terzo della pagina, ho pensato che se avessi voluto affrontare seriamente anche solo la seconda domanda avrei dovuto scrivere un libro intero e che, se ero andato là, era appunto per scriverlo – ma di questo non avrei parlato. Per prudenza mi sono limitato a dire che praticavo la meditazione da una ventina d’anni, che per parecchio tempo l’avevo abbinata al tai chi chuan (fra parentesi ho specificato «piccola circolazione celeste», per far capire che non ero esattamente un principiante), e oggi allo yoga. Nondimeno, mi ci dedicavo in modo irregolare e speravo che diventasse un’abitudine, ragion per cui mi ero iscritto a un corso intensivo. Quanto al «momento della vita in cui mi trovavo», la verità è che era un buon momento, un ciclo estremamente favorevole che durava ormai quasi da un decennio. Era addirittura straordinario, dopo tanti anni in cui a quella domanda avrei immancabilmente risposto che stavo male, anzi malissimo, e che il momento della vita in cui mi trovavo era più che mai disastroso, poter rispondere senza mentire, e persino minimizzando in parte la mia buona sorte, che, sì, andava tutto bene, che da un bel po’ non avevo avuto alcun episodio depressivo e non avevo problemi né amorosi né familiari né professionali né materiali – fermo restando che il mio unico, vero problema (certamente innegabile, ma comunque un problema da ricchi) era un ego ingombrante, dispotico, di cui aspiravo a ridurre il potere, e la meditazione è fatta appunto per questo.

Gli altri

Intorno a me ci sono una trentina di uomini, in compagnia dei quali me ne starò seduto in silenzio per dieci giorni. Li osservo senza darlo a vedere. Mi chiedo chi, tra loro, è in crisi. Chi, come me, ha una famiglia. Chi è solo, abbandonato, povero, infelice. Chi è fragile, chi è solido. Chi, nella vertigine del silenzio, rischia di perdere il controllo. Sono rappresentate tutte le fasce di età, fra i venti e, direi, i settant’anni. Anche dal punto di vista sociale c’è un grande assortimento. Alcuni sono facilmente identificabili: l’insegnante delle superiori vegetariano, appassionato di misticismo orientale, a cui piacciono il camping e il nudismo; il ragazzo con i dreadlock e la cuffia peruviana come se ne vedono tanti fra gli attivisti No Border di Calais, dove di recente ho realizzato un reportage; il fisioterapista o l’osteopata dedito alle arti marziali; altri invece potrebbero essere violinisti non meno che ferrovieri, impossibile dirlo. Insomma, la varia umanità che capita di incontrare tanto nei dojo quanto negli ostelli disseminati lungo il cammino di Santiago di Compostela. Non essendo ancora entrato in vigore il Nobile Silenzio, come dicono loro, si può parlare, e così ascolto le conversazioni dei gruppetti che si sono formati, mentre dietro ai piccoli vetri appannati delle finestre comincia a scendere, prestissimo e nerissima, la notte. Tutti i discorsi ruotano intorno a quello che ci aspetta a partire dall’indomani mattina. C’è una domanda ricorrente: «Per te è la prima volta?». A quanto pare metà sono neofiti, l’altra metà veterani. I primi appaiono curiosi, eccitati, preoccupati, i secondi come avvolti in un’aura di prestigio. Fra questi spicca un ometto che mi ricorda qualcuno ma non so chi e su cui concentro subito il mio sguardo perfido: pizzetto appuntito, maglione a motivi jacquard color vinaccia, recita con insopportabile fatuità la parte del saggio sorridente, benevolo, sempre pronto a elargire pareri sull’allineamento dei chakra e sui benefici del lasciar andare.

Teletrasporto a Tiruvannamalai

La prima volta che ho sentito parlare della meditazione Vipassana è stato in India, nella primavera del 2011. Avevo preso in affitto una casa a Pondichéry per finire un libro e sono rimasto lì per due mesi, senza rivolgere la parola quasi a nessuno. Le mie giornate, tutte uguali, cominciavano con la lettura del «Times of India» nell’unico bar in cui, per quanto ne sapevo, facevano il caffè espresso. Poi, lungo strade che si intersecano ad angolo retto e che, fiancheggiate da edifici coloniali fatiscenti, si chiamano avenue Aristide-Briand, rue Pierre-Loti o boulevard du Maréchal-Foch, tornavo con andatura meditabonda a lavorare al mio romanzo di avventure russo, Limonov. Andavo a letto prestissimo, all’ora in cui gli innumerevoli cani randagi di Pondichéry attaccano un concerto di latrati nel quale avevo imparato a riconoscere qualche voce, e mi alzavo altrettanto presto, svegliato dallo spuntar del sole e dai versi dei gechi. Questa routine casalinga, senza visite a musei o a monumenti, senza l’obbligo di fare turismo, è il mio ideale di soggiorno all’estero. Una volta, però, sono andato a Tiruvannamalai, una delle roccaforti della spiritualità indiana dato che lì ha vissuto e insegnato il grande mistico Ramana Maharshi e che tuttora vi si trova il suo ashram. La roccaforte mi ha fatto una pessima impressione: una sagra di guru e seminari spirituali, che attira torme di falsi sadhu occidentali, smunti, stralunati, luridi, che trasudano insieme presunzione e sofferenza – ed è sempre a questo che penso quando qualche praticante di yoga mi parla di ritiri in India in cui spera di raccogliere l’eredità del sapere ancestrale dei grandi maestri. Tiruvannamalai o Rishikesh, la presunta culla dello yoga, sono a mio parere i posti in cui si hanno meno probabilità di raccogliere l’eredità del sapere di un grande maestro, non più di quante se ne abbiano di imbattersi in un pittore originale in place du Tertre. Bertrand e Sandra, i soli amici che mi ero fatto a Pondichéry, mi avevano dato il nome di un francese che abitava a Tiruvannamalai. Portava una tunica lilla e si chiamava Didier, ma si faceva chiamare Bismillah. Quando gli ho chiesto del suo percorso spirituale, Bismillah mi ha confidato che per lui una tappa importante era stata uno stage di Vipassana: dieci giorni di meditazione intensiva che, a suo dire, avevano il potere di fare ordine in testa. Praticando nel mio piccolo la meditazione e non avendo a priori nulla contro l’idea di fare ordine in testa, volevo approfondire l’argomento, ma il mio interesse è un po’ scemato quando ho scoperto che se Bismillah, nella tappa successiva del suo percorso spirituale, si era ritrovato a Tiruvannamalai, era stato perché attratto dalla prospettiva di uno stage di teletrasporto. Era rimasto deluso, doveva ammetterlo. La cosa mi ha lasciato perplesso. Il teletrasporto consiste nello spostarsi istantaneamente da un luogo a un altro, con il solo potere della mente. Scompari a Madras e l’istante dopo ricompari a Bombay. Una variante è la bilocazione: sei contemporaneamente in entrambi i posti. Diverse tradizioni attribuiscono simili imprese a qualche raro santo di grande rinomanza, come Giuseppe da Copertino, ma le autorità religiose restano prudenti in proposito, per non parlare di quelle scientifiche. Mi sono chiesto se uno che sperava di fare un’esperienza del genere iscrivendosi online a uno stage aperto a tutti, un po’ come chi spera di vedere una manta iscrivendosi a una giornata di immersione sottomarina, dimostrasse un’invidiabile apertura mentale o se invece per bersi una simile cazzata – e dichiarare, poi, di essere rimasto deluso – non bisognasse essere un po’ coglioni.

La mia camera

La faccenda della sistemazione mi preoccupa. Ci sono camere singole e dormitori, e ovviamente preferirei una singola ma tutti, immagino, la preferirebbero, e non c’è nulla che mi induca a supporre di averne più bisogno di altri. In un contesto diverso i soldi risolverebbero tutto: i posti migliori andrebbero ai più ricchi, e io potrei stare tranquillo. Qui però ci ospitano a titolo gratuito. Il corso, l’alloggio, il vitto, è tutto gratis. Ci viene suggerito di fare un’offerta, alla fine, ciascuno in base alle proprie possibilità e senza che nessuno sappia a quanto ammonta. Eppure dev’esserci un criterio. Che dipenda dall’ordine di arrivo? O è casuale? Si tira a sorte? Quando riporto il questionario compilato al ragazzo simpatico che fa le veci dell’albergatore, gli pongo la domanda con un sorrisetto complice di curiosità divertita, nell’eventualità a mio parere remota in cui la cosa dovesse dipendere da una sua decisione arbitraria, al che mi risponde, anche lui sorridendo, che no, non si tira a sorte: l’assegnazione avviene in base all’età, le camere singole vanno ai più anziani. Quindi posso comunque stare tranquillo. Il ragazzo simpatico mi dà la chiave, io la prendo ed esco nel giardino inzuppato di pioggia che si estende alle spalle dell’edificio principale. A sinistra c’è il grande capannone in cui passeremo una decina di ore al giorno per dieci giorni, a destra tre file di bungalow prefabbricati. Il mio si trova nella prima. Dieci metri quadrati, pavimento di linoleum, un letto singolo, sotto al letto un contenitore di plastica con dentro lenzuola, piumone e cuscino, e poi una doccia, un lavandino e il gabinetto, oltre a un piccolo armadio: lo stretto necessario, tutto perfettamente pulito. E ben riscaldato, il che ha la sua importanza in inverno nel Morvan. Unica fonte di luce, oltre alla porta-finestra che si può oscurare con una tenda, un globo di vetro smerigliato sul soffitto. Non è allegrissimo, mi sarebbe piaciuto avere un abat-jour, ma dal momento che in teoria non dovremmo leggere... Mi faccio il letto, sistemo le mie cose nell’armadio: abiti caldi e comodi, maglioni pesanti, pantaloni da jogging, pantofole, qualsiasi civetteria sarebbe fuori luogo. Il tappetino da yoga. Una statuetta di terracotta che raffigura due gemelli. Dodici centimetri di altezza, forme piene e rotonde: è stata una donna amata a regalarmi questo sobrio amuleto, che porto sempre con me. Niente libri, né telefono, né tantomeno tablet, e di conseguenza nessun caricabatteria. Il ragazzo simpatico, dandomi il benvenuto, mi ha chiesto se dovevo lasciare uno di questi oggetti, per i quali hanno previsto un deposito. Gli ho risposto con un certo orgoglio che no, me ne ero sbarazzato prima di venire. Chissà se tutti osservano così scrupolosamente queste istruzioni di cui ho preso visione due mesi fa, quando mi sono iscritto. Abbiamo firmato, è vero, ci siamo impegnati a fare a meno per dieci giorni di queste fonti di distrazione, a non comunicare con l’esterno, ma se qualcuno bara chi se ne accorge? Dubito che piombino all’improvviso nelle camere e nei dormitori per confiscare libri o cellulari introdotti clandestinamente.

 

O invece sì?

La Corea del Nord?

Gli stage di Vipassana sono l’addestramento per truppe d’assalto della meditazione. Dieci giorni, dieci ore al giorno, in silenzio, tagliati fuori dal mondo: una roba tosta. Nei forum molti si dichiarano appagati, a volte trasformati, da questa impegnativa esperienza, altri invece la denunciano come una forma di reclutamento settario. Descrivono il posto come un campo di concentramento, il sermone quotidiano come un lavaggio del cervello che non lascia spazio ad alcun dibattito, figurarsi a un contraddittorio. È la Corea del Nord. L’obbligo del silenzio, l’isolamento e un’alimentazione insufficiente abbassano le difese dei partecipanti trasformandoli in altrettanti zombie. Anche se ci si sente malissimo è vietato andarsene. Non è vero, controbattono i sostenitori, chi ha voglia di andarsene se ne va, nessuno glielo impedisce, solo che è fortemente sconsigliato e soprattutto ci si impegna in prima persona a non farlo. Questi scambi di opinioni mi hanno incuriosito senza preoccuparmi più di tanto: mi considero immune dal rischio di reclutamento settario e mi interessa vedere. «Venite e vedete» dice Gesù alla gente che ha sentito le voci più disparate sul suo conto, e mi sembra che questa sia sempre la politica migliore: andare a vedere, con il minor numero di pregiudizi possibile o, quanto meno, con la consapevolezza dei propri pregiudizi

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Zafu in Bretagna

Mi sono sposato due volte ed entrambe le volte ho raccolto le foto di famiglia in un album. Quegli album che, quando ci si separa, non si sa a chi rimarranno. I figli li sfogliano con nostalgia, perché mostrano un tempo in cui erano piccoli, in cui i loro genitori si amavano come ci si dovrebbe amare, in cui le cose funzionavano ancora. Io e Anne, la mia prima moglie, passavamo le vacanze estive in Bretagna, a Pointe de l’Arcouest, dove prendevamo in affitto una casa decrepita, trascurata, perché, essendo un bene indiviso, nessuno dei comproprietari si sentiva in dovere di sostituire, lui anziché i suoi fratelli e sorelle, anche solo una lampadina – ma meravigliosa. Di fronte all’isola di Bréhat, dominava l’oceano al quale si arrivava percorrendo un sentiero nel bosco così erto e così poco frequentato che ogni estate bisognava liberarlo con una roncola dalla vegetazione. Anne era straordinariamente carina, portava magliette alla marinara e una cerata gialla, io avevo il ciuffo e un paio di occhialini tondi: avrei voluto sembrare un uomo maturo, sembravo un adolescente. La mattina andavamo al forno del paese a comprare le crêpe, la sera al vivaio a comprare i granchi. Fra le tante immagini dei nostri figli da piccoli, nel mio album ce n’è una in cui Gabriel, a tre o quattro anni, fa insieme a me, sulla spiaggia, la classica sequenza di posizioni yoga detta saluto al sole, e un’altra in cui Jean-Baptiste, seduto su uno zafu, ride di una bella risata gioiosa, la risata di un bambino felice. Queste foto mi permettono di datare le pratiche di cui parlo qui. Dimostrano che all’inizio degli anni Novanta avevo già uno zafu. Mi ci sedevo già sopra, la mattina presto, facendo in modo di svegliarmi prima di tutti gli altri per osservare il mio respiro e il flusso dei miei pensieri. Uno zafu, per chi non lo sapesse, è un cuscino giapponese, tondo e compatto, pensato appositamente come base per stare seduti con la schiena eretta durante la meditazione. I nostri figli si divertivano a chiamare quello zafu nero Zafu, come se fosse un animale domestico, un secondo cane di casa – il primo era un bastardino guercio e rognoso, da noi soprannominato «il povero vecchio», che abitava da qualche parte nei dintorni e veniva a trovarci ogni giorno. So che questi ricordi sono interessanti solo per me, Anne e i ragazzi, che noi siamo le sole quattro persone al mondo che possano ridere o piangere nel rievocarli, ma pazienza, pazienza, lettore, bisogna sopportare che gli autori raccontino cose di questo genere e non le taglino rileggendosi, come sarebbe ragionevole fare, perché per loro sono preziose e perché si scrive anche per metterle in salvo.

Tai chi sulla Montagna

Come ho scritto nel questionario, ho cominciato a meditare grazie al tai chi. Avete presente cos’è il tai chi? Quei movimenti lentissimi che eseguono, nei parchi, persone quasi sempre anziane, con indosso una casacca cinese? È una danza? Una ginnastica? Un’arte marziale? In origine è un’arte marziale, spesso però, purtroppo, la si insegna svuotandola di questa componente. Benedico la casuale vicinanza che mi ha fatto approdare al dojo della Montagna, in rue de la Montagne-Sainte-Geneviève, anziché in uno di quei gruppi new age che cominciavano a proliferare, dove ti esortavano ad aprire i chakrabruciando bastoncini di incenso. I bastoncini di incenso non erano il genere della Montagna, che è il più antico dojo di karate di Parigi, fondato negli anni Cinquanta da un pioniere di nome Henry Plée e diretto, quando ci sono sbarcato io, da suo figlio Pascal. Pascal aveva ricevuto la cintura bianca come regalo per i suoi tre anni e aveva poi formato un’intera generazione di karateka; con il tempo, tuttavia, essendosi reso conto che l’allenamento intensivo danneggia schiena, ginocchia e articolazioni, aveva cominciato a esplorare tecniche più dolci, meno spigolose, che lavorano meno sulla forza e più sull’elasticità. Era arrivato così a studiare il tai chi sotto la guida di un maestro cinese di nome Yang Jwing-Ming, il dottor Yang Jwing-Ming, che non solo praticava ma faceva anche ricerca a livelli altissimi nel campo pressoché sconfinato delle arti marziali cosiddette «interne». Ho ancora una mezza dozzina di suoi libri, che all’epoca studiavo con fervore. Sì, perché già dopo pochi mesi la Montagna era diventata una droga, e lo è stata per circa dieci anni. Ho passato quasi dieci anni, al ritmo di tre o quattro allenamenti a settimana, senza contare il seminario annuale del dottor Yang, in quella strana società che è un dojo. Più che le cene, più che le feste, mi è sempre piaciuto quel particolare tipo di sodalizio che si crea quando non ci si ritrova soltanto per chiacchierare e, come si suol dire, per vedersi, ma per fare qualcosa insieme. Poco importa cosa, alpinismo, calcio, motocicletta, personalmente il mio ideale sarebbe stato fare musica da camera con qualche amico. Suonare la viola in un quartetto d’archi amatoriale: andare a casa ora dell’uno ora dell’altro, scambiarsi due convenevoli, poi tirare subito fuori i leggii, aprire gli spartiti, riprendere dalla sedicesima battuta dell’andante con moto. Invidio il mio collega Pascal Quignard che assapora simili gioie, io purtroppo amo la musica senza saperla né suonare, né leggere. Ma la pratica del tai chi somiglia molto, credo, allo studio di uno strumento o della voce. Esige la stessa perseveranza, lo stesso misto di rigore e capacità di abbandono, e penso con affetto a tutte le persone, così diverse per carattere ed estrazione, con cui ho passato tante ore a ripetere e perfezionare movimenti infinitamente lenti, un po’ come un pianista ripete e perfeziona quello che sulla tastiera è l’equivalente di questa infinita lentezza: un larghissimo. Stavo per dire che andavamo lì tutti per la stessa cosa, che a riunirci era lo stesso desiderio, e invece no, non esattamente. Alla Montagna c’erano due gruppi ben distinti: da una parte, i decani, la guardia del corpo di Pascal, composta di robusti karateka che erano comunque venuti lì per imparare a picchiare il prossimo, dall’altra quelli che in opposizione ai picchiatori chiamerò gli spiritualisti: nulla a che vedere con i chiacchieroni new age, che la severa disciplina del dojo metteva presto in fuga, bensì persone che si interessavano allo zen, al Tao, alla meditazione. E la cosa bella è che, sotto il doppio patrocinio di Pascal e del dottor Yang, questi due gruppi non soltanto convivevano pacificamente ma si scambiavano i rispettivi interessi. Nel modo più naturale gli spiritualisti si ritrovavano come me a praticare il karate oltre al tai chi per rendere il tai chi più marziale, e i picchiatori a osservare la loro respirazione, seduti immobili, su un cuscino – un risultato di fronte al quale sia gli uni che gli altri sarebbero rimasti attoniti, se qualcuno glielo avesse prospettato.

È complicato

Osservare la propria respirazione, seduti immobili su un cuscino, è quel che si chiama meditare, pratica sempre più diffusa e che avrebbe dovuto essere l’unico argomento di questa storia se solo la vita non l’avesse trascinata, come vedrete, in mari più burrascosi. Il dottor Yang la insegnava con cautela. Era cinese, amava la tecnica – che Dio lo benedica –, non sopportava che le cose fossero fatte alla bell’e meglio e considerava la meditazione il coronamento supremo delle arti marziali ma anche una pratica rischiosa, per via delle potentissime forze che è in grado di risvegliare. Ci metteva in guardia contro questi rischi che non mi pare di aver mai corso, o se è successo non me ne sono reso conto, o ancora, più probabilmente, non ho mai raggiunto né mai raggiungerò il livello a partire dal quale cominciano a presentarsi. Temendo che ci smarrissimo lungo i sentieri perigliosi che scendono e si biforcano e si inabissano dentro di noi, un po’ come si dà ai novizi un assaggio dei rapimenti estatici che sperimenteranno poi, il dottor Yang ci insegnava i rudimenti della meditazione con una gran quantità di schemi, linee dei meridiani, respirazione normale (buddhista) e inversa (taoista), piccola e grande circolazione celeste – e, come ho appena scritto sulla pagina del questionario dedicata al livello di esperienza raggiunto, io conosco un po’ solo la piccola circolazione celeste. In seguito ho frequentato le lezioni di un altro maestro, Faeq Biria, la cui profonda conoscenza dello Iyengar yoga deriva direttamente dal suo fondatore, B.K.S. Iyengar. E Faeq Biria va ancora più lontano del dottor Yang. Dice che per iniziare a meditare ci vogliono almeno dieci anni di pratica assidua. Devi aver aperto il bacino, aperto il torace, aperto le spalle, allineato i bandha e i chakra, acquisito la padronanza di tutte le tecniche di pranayama, e soltanto allora quel grande mistero, fonte di cambiamento, che è la meditazione arriva, e arriva da sé. Tutto quello che hai fatto prima mirava unicamente a renderla possibile. Se uno si presenta in una scuola di Iyengar yoga chiedendo ingenuamente se oltre a studiare le posizioni si fa un po’ di meditazione, lo guardano con indulgenza ma pur sempre come fosse un deficiente. Gli spiegano gentilmente che quello che i guru di moda e i libri di autoaiuto chiamano meditare equivale al nulla: se non hai fatto il lungo lavoro preparatorio, puoi passare migliaia di ore seduto su uno zafu a concentrarti sulla respirazione o sullo spazio tra le sopracciglia, tanto varrebbe che schiacciassi un sonnellino.

È semplice

I due maestri che ho conosciuto di persona sono dei grandi, dei veri maestri, al tempo stesso eruditi e artisti nelle rispettive discipline: non metto in discussione la loro autorità. Eppure, dall’alto della mia infima esperienza, penso che si possa arrivare alla meditazione attraverso un sentiero meno impervio, un sentiero banalissimo, accessibile a tutti, e che la tecnica per imboccarlo si impari in cinque minuti. Consiste nel sedersi e nello stare per un certo tempo immobili e in silenzio. Tutto ciò che accade nel lasso di tempo in cui stiamo seduti, immobili e in silenzio, è meditazione. Ho cercato spesso di darne una buona definizione – la più esatta, la più semplice, la più esauriente possibile –, e ne ho trovate parecchie che tirerò fuori nel corso del racconto, ma per cominciare questa mi sembra la migliore, perché è la più concreta, quella che incute meno soggezione. Lo ripeto: la meditazione è tutto ciò che accade dentro di noi nel lasso di tempo in cui stiamo seduti, immobili, in silenzio. La noia è meditazione. Il male alle ginocchia, alla schiena, al collo è meditazione. I pensieri parassiti sono meditazione. I gorgoglii nello stomaco sono meditazione. L’impressione di perdere tempo a fare una boiata pseudo-spirituale è meditazione. La telefonata che prepari mentalmente e anche la voglia di alzarti a farla è meditazione. La resistenza che opponi a quella voglia è meditazione – cedere invece no. Tutto qui. Niente di più. Qualunque cosa in più è di troppo. Se lo si fa regolarmente, per dieci minuti, venti minuti, mezz’ora al giorno, ciò che accade nel lasso di tempo in cui si sta seduti, immobili e in silenzio, cambia. Cambia la postura. Cambia la respirazione. Cambiano i pensieri. Cambiano perché tutto, in ogni caso, cambia, ma cambiano anche perché li si osserva. Quando si medita, non si fa e soprattutto non si deve fare nient’altro che osservare. Osservare l’affacciarsi alla coscienza dei pensieri, delle emozioni, delle sensazioni. Osservarne il dissolversi. Osservarne le fondamenta, i punti d’appoggio, le linee di fuga. Osservarne il passaggio. Non fare corpo con loro, non scacciarli. Seguire la corrente senza lasciarsi travolgere. A forza di farlo, è la vita stessa a cambiare. Sulle prime non ce ne rendiamo conto. Abbiamo la vaga impressione di essere sulla soglia di qualcosa. Qualcosa che lentamente prende forma. Ci distacchiamo un poco, soltanto un poco, da ciò che chiamiamo Sé. Ma quel poco è già molto. È già moltissimo. Ne vale la pena. È un viaggio. All’inizio del viaggio, dice una storia zen, la montagna in lontananza sembra una montagna. Nel corso del viaggio, la montagna cambia continuamente aspetto. Non la riconosciamo più, al suo posto c’è un’immagine illusoria, non sappiamo più verso che cosa ci stiamo dirigendo. Alla fine del viaggio, ecco di nuovo la montagna, che però non ha niente a che vedere con quello che scorgevamo da lontano tanto tempo prima, quando ci siamo messi in cammino. Questa è davvero la montagna. Finalmente la vediamo. Siamo arrivati. Ci siamo.

 

Ci siamo.

Meditare da sbronzi

Al tempo delle estati a Pointe de l’Arcouest bevevamo molto e anche gli amici che venivano a trovarci bevevano parecchio. Meno comunque di Jean-François Revel, che incrociavamo al Codec di Paimpol con il carrello pieno esclusivamente di bottiglie di vino, il viso paonazzo, senza collo, l’espressione torva, e nonostante tutto capace di scrivere libri folgoranti per intelligenza caustica e lucidità. Non ne conosco di migliori su Proust, né conosco opinioni più esatte, più orwelliane sul totalitarismo e sull’oscenità degli intellettuali di sinistra, e apprezzo molto che lo stesso uomo abbia coltivato, come Simon Leys con il quale aveva in comune l’indipendenza di spirito, interessi tanto disparati. Mai e poi mai avrei sospettato che, trent’anni dopo, la sua splendida antologia della poesia francese mi avrebbe praticamente salvato la vita. Né sapevo che fosse il padre di Matthieu Ricard: nessuno all’epoca sapeva chi fosse Matthieu Ricard, né che fosse il braccio destro del Dalai Lama, né che sarebbe diventato il più noto divulgatore del buddhismo e della meditazione in Francia – in una forma che mi dà un po’ sui nervi dal momento che ho sempre qualche problema con le tuniche color zafferano e con i religiosi che ti dicono: «Le religioni sono settarie e specialistiche, quello che ti insegno io non è una religione, è la verità». Per farla breve, bevevamo molto, bevevamo troppo, cosicché spesso, pur essendole sempre fedele, praticavo la meditazione un po’ brillo, se non addirittura ubriaco fradicio. E, ubriaco fradicio, mi esercitavo a far circolare il respiro e l’energia, prima salendo lungo la colonna vertebrale fino alla sommità del cranio, poi scendendo di nuovo giù dalla parte anteriore del corpo (la piccola circolazione celeste è più o meno questo), il tutto con l’ausilio di una buona dose di autosuggestione e immerso in un vortice di pensieri parassiti che non soltanto non riuscivo a placare ma che per giunta, lì per lì, mi sembravano geniali. Dopo, ovviamente, tornavo con i piedi per terra. Quando sei bevuto o fatto, e io ero spesso entrambe le cose, pensi di aver messo le mani su un tesoro e ti ritrovi invece tra le dita un pugno di mosche. Oggi mi sono calmato un po’, è l’età. Ubriacarmi mi piace ancora, ma reggo sempre di meno l’alcol, mi ci vogliono tre o quattro giorni per riprendermi da una sbronza mentre ai tempi di Pointe de l’Arcouest ero pronto a farmi di nuovo onore già la sera dopo. Meditare da sbronzi è assurdo, sono d’accordo, ma all’epoca mi convincevo del fatto che stavo osservando il mio stato di ebbrezza. Sì, perché la cosa interessante della meditazione – e questa potrebbe essere la seconda definizione – è che fa nascere in noi una sorta di testimone che spia il turbine dei nostri pensieri senza lasciarsene travolgere. Noi siamo puro caos, confusione, siamo una poltiglia di ricordi e paure e fantasie e vane aspettative, ma dentro di noi c’è qualcuno di più tranquillo, che vigila e riferisce. Ovviamente la droga e l’alcol trasformano questo agente segreto in un agente inaffidabile, che fa il doppio gioco. Ma io insistevo, ho continuato a insistere più o meno costantemente e se adesso mi ostino a scrivere questo libro, ovvero la mia personale versione di quei libri di autoaiuto che si vendono così bene, è per ricordare ciò che i libri di autoaiuto raramente dicono: che i praticanti di arti marziali, i seguaci dello zen, dello yoga, della meditazione, di tutte queste discipline sublimi, fulgide e benefiche a cui da sempre faccio la corte, non sono necessariamente né saggi né tranquilli, né tantomeno sereni e in pace con se stessi; ma a volte, anzi spesso, sono come me drammaticamente nevrotici, e che però non importa, perché, come diceva Lenin, bisogna «lavorare con il materiale a disposizione», e allora, anche se non ci conduce da nessuna parte, facciamo bene a ostinarci, nonostante tutto, a percorrere questo cammino.

Al sicuro?

Ho scritto queste righe disincantate nella primavera del 2017, due anni dopo i fatti che riporto, in una camera dell’ospedale Sainte-Anne dove, tra un elettroshock e l’altro, cercavo di tenere al guinzaglio la mia mente erratica e scalcinata rabberciando questo racconto. Ma la sera del 7 gennaio 2015, mentre una fitta pioggia si abbatteva sulla terra nera e molle del giardino e io, sdraiato sulla cuccetta del mio bungalow, in un casale sperduto nel Morvan, aspettavo l’ora di cena, non vedevo le cose sotto questa luce crudele. Magari, in quel momento, non mi vedevo come un uomo tranquillo, sereno e in pace con se stesso, non completamente, non ancora, ma quanto meno ero convinto di non essere più drammaticamente nevrotico. La salute mentale, secondo Freud, consiste nell’essere capaci di amare e di lavorare, e con mia grande sorpresa da quasi dieci anni ormai ne ero divenuto capace. Se me lo avessero predetto quando ero più giovane, non ci avrei creduto. Non mi aspettavo tanto dalla vita. E invece avevo appena scritto l’uno dietro l’altro, senza lunghi e tormentosi periodi di infertilità, quattro grossi libri che in molti trovavano buoni, e ringraziavo il cielo, ogni santo giorno, per un matrimonio che mi rendeva felice. Dopo tanti anni di peregrinazioni sentimentali, credevo di essere giunto in porto. Credevo che il mio amore fosse al riparo dalle tempeste. Non sono pazzo: so bene che ogni amore è in pericolo – che ogni cosa, comunque, è in pericolo –, ma mi figuravo che ormai il pericolo sarebbe venuto dall’esterno, non da me. Freud dà un’altra definizione della salute mentale, non meno folgorante della prima: si è mentalmente sani quando non si è più soggetti alla sofferenza nevrotica, ma soltanto alla normale sofferenza umana. La sofferenza nevrotica è quella che ti procuri da solo, in una forma spaventosamente ripetitiva, la normale sofferenza umana è quella che ti riserva la vita sotto forme tanto diverse quanto imprevedibili. Hai un cancro o, peggio ancora, uno dei tuoi figli ha un cancro, perdi il lavoro e sprofondi nella miseria più nera? Normale sofferenza umana. Per quanto mi riguarda sono stato decisamente risparmiato dalla normale sofferenza umana: finora nessun lutto grave, nessun problema di salute né di soldi, i miei figli vanno avanti per la loro strada, e ho il raro privilegio di fare un lavoro che amo. Dal punto di vista della sofferenza nevrotica, invece, non temo confronti. Non per vantarmi, ma posseggo un autentico talento nel trasformare una vita a cui non manca niente per essere felice in un vero e proprio inferno, e non permetterò a nessuno di minimizzare questo inferno: è reale, terribilmente reale. Ebbene, contro ogni aspettativa, mi sembra di averla scampata. Nel gennaio del 2015 mi sembra davvero di potermi considerare al sicuro. Sono prudente, certo, non esulto, so che potrebbe essere un’illusione – ma un’illusione che dura da dieci anni è ancora un’illusione? Che cosa fa sì che questo momento della mia vita sia così favorevole? Da che cosa dipende questo progresso? Dalla psicoanalisi? Francamente ne dubito. Per circa vent’anni sono passato dal lettino di un analista all’altro senza risultati apprezzabili. No, penso dipenda, molto semplicemente, dall’amore. E forse dalla meditazione. Dallo yoga, dalla meditazione: uso i due termini in modo quasi indifferente. Penso che lo yoga e la meditazione, come l’amore e la scrittura, mi accompagneranno, mi conforteranno, mi sosterranno fino alla morte. Pongo l’ultimo quarto della mia vita – ho quasi sessant’anni e statisticamente posso ritenere di esserci ormai entrato – sotto l’egida di questa frase di Glenn Gould, che nel corso del tempo ho ricopiato tante volte in diversi taccuini: «Lo scopo dell’arte non è procurare una momentanea scarica di adrenalina ma la costruzione paziente, che dura tutta la vita, di uno stato di meraviglia e serenità».

«... e la ricottina si spiaccicò a terra!»

«La costruzione paziente di uno stato di meraviglia e serenità»: mica male considerare in questi termini la propria vita. No, non è affatto male, sono pensieri di gratitudine, pensieri armoniosi, pensieri buoni. Io però mi conosco e so perfettamente in che direzione mi trascinano, quali immagini compiaciute evocano. Sulla soglia della sessantina, immagino una versione migliore di me, un Emmanuel upgraded: un uomo tranquillo, amorevole, che abbia trovato un centro di gravità dal quale promanano una voce e delle parole che hanno davvero peso – non quel «suono cavo», prodotto da viscere gonfie d’aria, di cui parla Nietzsche. Un uomo che abbia fatto pace con il suo piccolo io, spaurito e narcisistico, uno che scrive libri sempre più limpidi e universali, e gode di una fama anch’essa universale, che riceve gli amici sotto il suo pergolato, nella sua semplice e bella casa di Patmos, e che si approssima alla morte, senza battere ciglio, in quel famoso stato di meraviglia e serenità alla cui costruzione ha dedicato tutta la vita. Insomma. Ridete pure. Dal canto mio, cerco di non compiacermi troppo di fronte a queste immagini, ma neppure le scaccio come un anacoreta nel deserto respinge le tentazioni della carne. Un tempo, quando ero cristiano e trafitto dai sensi di colpa, lo avrei fatto. Oggi mi dico: certo, sono solo fantasie narcisistiche e trastulli per l’ego, ma che male c’è? È una fantasia piuttosto innocente, un ideale dell’io tutt’altro che meschino. E soprattutto, anche se è da sfigati compiacersene, ancor più da sfigati sarebbe censurarle, quelle immagini. Sì, perché è questa la rivoluzione, una delle rivoluzioni innescate dalla meditazione. Anziché considerare con astio pensieri di cui un po’ ci si vergogna, anziché cercare di sradicarli, ci si limita a osservarli senza farne un dramma. Perché esistono, perché ci sono. Né veri né falsi, né buoni né cattivi: microeventi psichici, bolle che risalgono alla superficie della coscienza. Se li consideriamo così, il loro potere e la loro capacità di nuocere calano senza che neppure ce ne rendiamo conto. Non si giudicano i propri pensieri, come non si giudica il prossimo. Bisogna prenderli per quello che sono, vederli come sono. Sì, questa è la terza, e forse la più esatta, definizione della meditazione: vedere i propri pensieri come sono. Vedere le cose come sono.

Le cose come sono

Vipassana vuol dire proprio questo: vedere le cose come sono. E Le cose come sono è il titolo del libro sul buddhismo che ha scritto il mio amico Hervé Clerc. Nel Regno ho già fatto un ritratto di Hervé ma, siccome devo contrastare la presuntuosa tendenza a credere che il lettore abbia letto i miei libri precedenti e se li ricordi, ne voglio fare un altro, leggermente diverso, prendendo le mosse da una citazione di Pitagora, che alla domanda: «Perché l’uomo è al mondo?» rispondeva: «Per osservare il cielo». Per osservare il cielo? Se è vero, la maggior parte degli uomini non lo sa. La maggior parte degli uomini pensa di essere al mondo per trovare l’amore, per arricchirsi, per esercitare un potere, per fare crescere il PIL o per lasciare la propria impronta sulla sabbia del tempo. Sono pochi quelli che sanno di essere al mondo per osservare il cielo. E se non siamo tra questi, è una fortuna conoscere qualcuno che lo sia. Allarga l’orizzonte. Io ho questa fortuna: conosco Hervé, un uomo pacato, laconico, riflessivo, che vive come se dovesse morire da un momento all’altro e rifugge da ogni zavorra. Come Diogene, pensa che sia meglio bere nel cavo della mano che in una tazza. Per alleggerirsi, quando viaggia strappa e butta via le pagine dei libri a mano a mano che le legge. Come giornalista dell’agenzia France-Presse, ha vissuto in Spagna, nei Paesi Bassi, in Pakistan, guardandosi bene dal fare carriera per restare, come dice lui, fuori della portata dei radar. Oggi si divide tra Nizza e Le Levron, un paesino del Valais dove ha un appartamento in uno chalet da cui si gode la vista di due valli. È un panorama di rara bellezza, davanti al quale ha meditato molto, e scritto tre libri in cui passa in rassegna tutto quello che i mistici hanno detto sulla Realtà ultima, a lungo designata con un nome in codice che non fa più per noi: Dio. Da ormai trent’anni io e Hervé ci ritroviamo a Le Levron per fare lunghe camminate in montagna, parlare un po’, stare molto in silenzio. Una barzelletta locale che mi piace un sacco parla di tre contadini seduti su una panca che vedono passare una mucca. «È la mucca di Pierrot» dice il primo. Dopo un quarto d’ora il secondo fa: «No, è la mucca di Fernand». Dopo un altro quarto d’ora il terzo si alza e se ne va via dicendo: «Ne ho abbastanza dei vostri litigi». Le nostre conversazioni sono così, tranne che noi non litighiamo. Non litighiamo mai, la nostra amicizia, che è una delle benedizioni della mia vita e, credo, anche della sua, non ha conosciuto né tempeste né eclissi, si nutre delle nostre profonde differenze e perfino di una divergenza. Hervé pensa che siamo al mondo non soltanto per osservare il cielo ma per trovare l’uscita da questo casino che è la vita in terra. Pensa che alcuni esploratori l’abbiano trovata e ci indichino la strada. Questi esploratori si chiamano Platone, Buddha, Meister Eckhart, Teresa d’Ávila, Patañjali, di cui parlerò più avanti, e niente è più urgente ed essenziale che leggere i loro resoconti, e studiare le mappe che hanno tracciato per imboccarla anche noi, quella strada. Per usare due termini indiani, dal momento che nessun’altra civiltà ha meditato in modo tanto profondo e preciso su questo tema quanto quella dell’India: l’unico compito cui è chiamato un uomo dotato di buonsenso è cercare di uscire dal samsara, dal ciclo di trasformazioni e sofferenze che chiamiamo condizione umana, per accedere al nirvana, che è la vita finalmente reale, sottratta all’illusione, la vita in cui vediamo le cose come sono. Lo yoga è questo, dice Hervé. O meglio: lo yoga è questo se lo si prende sul serio, e non soltanto come una ginnastica.

Alpinisti della domenica

Io non lo contraddico, raramente contraddico qualcuno, però non sono così sicuro che ci sia un’uscita, né che l’unico scopo della vita sia quello di cercarla, né che sia questa l’unica ragione per fare yoga. Oscillo, è il mio carattere. Un giorno lo penso, il giorno dopo no. Non so cosa sia vero né se ci sia una verità. E anche se avanzo in direzione della montagna, non credo che arriverò in cima. Non sarò mai uno di quegli alpinisti dello spirito che vengono definiti mistici, e non è grave, dal momento che tra le nevi perenni e il fondovalle, dove non ho nessuna voglia di marcire, c’è una via di mezzo: la meta di quelli che vengono definiti, a volte con disprezzo, alpinisti della domenica. Sono un meditante della domenica. E la domenica mi piace praticare la camminata sportiva come una forma di meditazione, cercando di armonizzare il passo con il respiro, le sensazioni, le percezioni e i pensieri, per la stessa ragione per cui ogni mattina, o quasi, mi siedo a gambe incrociate sullo zafu. Mi piace, tutto qui. Mi sento al mio posto. In quella mezz’ora mi sento bene e so per esperienza che quel benessere finirà per permeare l’intera giornata. Mi renderà un po’ più presente, un po’ più attento alle persone che mi circondano. C’è gente che, meditando, ha fatto esperienze eccezionali, roba davvero forte: qualcuno è stato trasportato fuori di sé o in una parte di sé di cui non sospettava l’esistenza. Forse c’è addirittura chi è riuscito a teletrasportarsi come sperava di fare il mio amico di Tiruvannamalai. Io no. Mi è capitato di sentirmi pervadere da una sensazione di pace, di relazionarmi in modo più sereno con me stesso e con gli altri, ma mai niente di straordinario, nessuna dislocazione, niente di simile alla cessazione dei pensieri, all’esperienza del vuoto, all’illuminazione o a un suo segno premonitore, alla luce in fondo al tunnel. O meglio sì, una volta, all’Hôtel Cornavin di Ginevra: ho intenzione di parlarne quando sarà il momento ma, visto il procedere incerto del racconto, non so proprio quando questo momento arriverà. Nell’attesa resto sui sentieri adatti agli alpinisti della domenica e mi sta bene così.

Quel che mi aspetto

Ma allora, se davvero mi sta bene così, se una pratica routinaria e tranquilla mi basta, perché mi sono iscritto a questo seminario di meditazione da truppe d’assalto? Tornando insomma a una delle loro quattro domande – semplici e pertinenti: che cosa mi aspetto? Ho risposto: uno stimolo, una piccola spinta che mi induca a riprendere la pratica della meditazione che da qualche mese ho abbandonato. Se avessero chiesto di dire di più, avrei potuto aggiungere: da poco ho pubblicato un libro, Il Regno, che ha avuto un certo successo, e ne è seguito un periodo di mondanità, di vanagloria, di impegni continui durante il quale meditare ogni mattina sarebbe stato assolutamente proficuo, ma non ci sono mai riuscito e così alla fine mi sono rassegnato. La meditazione, quarta definizione, consiste nell’osservarti per quello che sei realmente, nell’osservare quel magma che chiamiamo identità, e quello che ero io realmente in quel momento non era in grado di meditare, ecco tutto. Quindi, adesso che quel fermento si è placato, l’idea è quella di riprendere le buone abitudini. Di rimettermi sulla buona strada, grazie a questo addestramento intensivo. Eccola, la mia ragione confessabile. Ma la sto prendendo alla larga e alla fine dovrò ammettere che ce n’è anche un’altra di ragione, forse un po’ meno confessabile: se sono qui, è per scrivere un libro.

La quarta di copertina

Siccome a volte, nei miei libri, ho parlato di sfuggita di yoga e meditazione, un giornalista è venuto a intervistarmi su questi argomenti tanto alla moda. Due cose mi hanno stupito: innanzitutto, il piacere che mi ha dato parlarne, in secondo luogo, l’ignoranza di quel tizio, che pure era curioso e colto. Scoprire che lo yoga non è soltanto una specie di aerobica né la meditazione una curiosità esoterica lo ha lasciato a bocca aperta. E quando, nella foga, sono arrivato al tai chi e alle versioni cinesi di quelle pratiche indiane, si è messo ad annotare sul taccuino i termini yin e yang con un entusiasmo attonito, come se stessi decifrando davanti a lui una serie di caratteri cuneiformi. Più ancora mi ha stupito constatare la stessa ignoranza in molti di coloro che praticano lo yoga, e mi sono detto che sarebbe stato un compito al tempo stesso utile e piacevole scrivere, in tono colloquiale, un libricino senza pretese, un libricino arguto e accattivante per fare chiarezza su tutte queste faccende a partire dalla mia esperienza personale – l’esperienza di un principiante, si intende, e non la parola di un maestro. A un certo punto ho scritto anche la cosiddetta quarta di copertina, ovvero il testo di presentazione che troviamo sul retro di ogni libro. Ma questo libro è così lontano da quello che immaginavo che è stranissimo, per me, riportarla qui. Eccola:

«Quello che chiamo yoga non è soltanto la ginnastica benefica che pratichiamo in tanti, ma un insieme di discipline che mirano ad ampliare e unificare la coscienza. Lo yoga afferma che siamo qualcosa di diverso dal nostro piccolo io confuso, frammentato, spaurito, e che a questo qualcosa possiamo avere accesso. C’è una strada da percorrere, altri l’hanno imboccata prima di noi e ce la indicano. Se quanto dicono è vero, vale la pena di andare a vedere».

Un compito piacevole, certo, un compito utile. E in più, mi dicevo nel mio avido foro interiore, oggi un sacco di gente fa yoga, un sacco di gente sarebbe contenta di capire meglio quello che fa facendo yoga: questo libro potrebbe sbancare.


Il discorso di benvenuto


Prima che inizino i dieci giorni di silenzio, ci viene fatto un discorso di benvenuto, incentrato sullo spirito con cui ci impegniamo ad affrontare il corso. A pronunciarlo è il ragazzo simpatico. Lo fa senza la minima solennità, senza ambire all’autorevolezza di un maestro. Lui e i due uomini che gli stanno accanto sono semplici praticanti che, dopo aver seguito uno, due o tre seminari come stiamo facendo noi, hanno scelto di tornare nelle vesti di inservienti. Meditano anche, ovviamente, siamo tutti qui per questo, ma tra una seduta e l’altra, anziché riposarsi, si occupano a titolo gratuito della cucina, delle pulizie e di tutte le altre incombenze legate all’organizzazione, insomma mandano avanti la baracca. È quello che si chiama karma yoga, lo yoga dell’azione o del servizio disinteressato: un modo umile ed efficace di contraccambiare i benefici ricevuti. «Forse la cosa vi stupirà,» dice il ragazzo simpatico «ma stando alle statistiche – e considerato che la Vipassana è stata introdotta in Francia da ormai vent’anni possiamo contare su una buona prospettiva temporale – un quarto di voi tornerà qui come inserviente. Il discorsetto che vi sto facendo tra qualche tempo lo farà ai novizi qualcuno di voi». Segue l’enumerazione dei diversi impegni che ci stiamo assumendo: non uscire dal perimetro del centro e, nel perimetro del centro, che comprende una parte di bosco, rimanere lungo i sentieri recintati; rispettare la separazione tra la parte riservata agli uomini e quella riservata alle donne; rispettare il silenzio; non comunicare né con l’esterno né tra di noi, neppure in maniera non verbale; evitare, il più possibile, di scambiarci sguardi; in caso di problemi, parlarne con l’insegnante e con nessun altro; ultimo punto, ed è quello essenziale, restare fino alla fine.


 


«Siete ancora in tempo per andarvene» dice il ragazzo simpatico, e la sua faccia sorridente si fa seria. «Se avete qualche dubbio, se non siete sicuri di poter rispettare gli impegni presi, vi chiediamo di andarvene adesso. Nessuno ce l’avrà con voi. Non farete un torto né agli altri né a voi stessi. Potrete tornare quando vi sentirete pronti. Andarvene via così non è da vigliacchi, tutt’altro. È corretto. È la prova che state valutando la situazione nel modo giusto, con l’atteggiamento giusto. Per contro, se per un qualsiasi motivo decideste di andarvene a percorso iniziato, disturbereste gli altri e soprattutto mettereste in pericolo voi stessi. Durante un seminario di Vipassana succede qualcosa di molto serio. Si lavora con energie psichiche potentissime, e questo può provocare sconvolgimenti enormi. Nei prossimi dieci giorni c’è caso che stiate male. Vi sentirete disorientati, persi, vi verrà da piangere o avrete paura, vi direte che è stato un errore venire, è possibile, le reazioni possibili sono tante e imprevedibili. Se si mette male, gli insegnanti sono qui per aiutarvi. Ma dovete mantenere fede al giuramento che fate stasera: qualunque cosa accada, resterò fino alla fine. Quindi, per favore, riflettete. E dopo aver riflettuto, andatevene se ve ne dovete andare, ma se invece decidete di restare, restate».


Segue un silenzio un po’ più lungo di quello che si osserva quando, durante un matrimonio, il celebrante chiede, secondo la formula di rito, se qualcuno abbia qualcosa in contrario. Nessuno pone la domanda: Ma se poi voglio comunque andare via, posso? O me lo impedirete? Forse la risposta sarebbe: Il problema non è se ve lo impediremo o meno: il punto è che non dovete farlo. È un po’ come in quel paese dei Balcani in cui la classe politica era bersaglio di continui attentati e in cui era stata votata una legge che diceva: «Chi spara sul ministro delle Finanze avrà quindici anni di prigione. Chi spara sul ministro dell’Interno, venti. Chi spara sul gran ciambellano, dieci. È vietato sparare sul primo ministro».

Nessuno si alza. Nessuno se ne va. Non sospetto minimamente che, quattro giorni dopo, sarò io il primo a farlo.


Stare al gioco


È cominciato il Nobile Silenzio. Gli inservienti ci distribuiscono su carrelli portavivande di latta grandi porzioni di riso e verdure bollite, che possiamo condire con salsa di soia, lievito di birra o gomasio. Ciascuno di noi prende da una pila una ciotola o un piatto e, dopo averlo usato, non lo lava, ma si limita a riporlo in una bacinella che poi gli inservienti porteranno via. Dal momento che gli obblighi materiali sono ridotti al minimo, non abbiamo niente, ma proprio niente da fare se non stare in silenzio e rivolgere lo sguardo verso l’interno. Evitiamo di incrociare quello dei compagni. Fissiamo il piatto, mangiamo molto lentamente, masticando a lungo – una pratica dalla quale si riconoscono subito i control freaks alimentari e alla quale cerco di convertirmi da anni senza grande successo. Finita la cena, andiamo a letto presto. Ognuno raggiunge, a occhi bassi, il suo bungalow o il suo dormitorio. Alle otto di sera mi ritrovo nella mia stanza, senza un libro da leggere, senza niente da fare e senza avere, ovviamente, nessuna voglia di dormire. Guardo il blocco compatto della notte incorniciato dalla porta-finestra davanti a me. Guardo la statuetta raffigurante i due gemelli che ho sistemato sulla mensola vuota come su un piccolo altare. Quello che avrei voglia di fare, in realtà, è trascrivere quanto più fedelmente possibile il discorso del ragazzo simpatico e le mie impressioni sulla serata. Ho fatto bene a stare al gioco? A non infilare in borsa un taccuino? Sì: avrei trasformato questa esperienza in un reportage. Al tempo stesso, sarebbe ridicolo mentire: sto davvero facendo un reportage. O, meglio: anche un reportage. Sono un infiltrato. Sono venuto a cercare materiale per il mio libro e, che prenda o meno appunti, cambia ben poco dato che quello che merita di essere ricordato, secondo me, me lo ricorderò comunque. Non è questo il punto. Il punto è – e non è la prima volta che me lo chiedo – se c’è contraddizione o addirittura incompatibilità fra la pratica della meditazione e il mio mestiere, che è quello di scrivere. Nei prossimi dieci giorni guarderò sfilare i miei pensieri lasciandoli andare, oppure cercherò di fissarli – che è proprio quello che non bisognerebbe fare, ossia l’esatto contrario della meditazione? Prenderò di continuo appunti mentali? In questi dieci giorni sarà il meditante a osservare lo scrittore o lo scrittore a osservare il meditante? Un grande, grandissimo dilemma, che mi tormenta, e sul quale finisco per addormentarmi.