Giacomo Leopardi
“La vita solitaria” di Giacomo Leopardi: un canto di solitudine
Composto a Recanati tra l'estate e l'autunno del 1821,
Alice Figini
12 giugno 2024
La solitudine è una costante nell’opera di Giacomo Leopardi, a partire dallo Zibaldone, il suo diario di vita e di pensiero.
Nel 1817 Leopardi annota per la prima volta l’espressione vita solitaria per fare riferimento alla propria condizione esistenziale che, oltretutto, come ci tiene a precisare, ha effetti debilitanti e negativi sulla sua salute.
All’epoca Leopardi aveva soltanto diciannove anni, ma già identificava la “solitudine” come il suo male poiché essa favoriva la sua “esasperata attività di pensiero”. Tuttavia, sempre nelle pagine meditative dello Zibaldone, Leopardi teorizza la solitudine come uno stato d’animo necessario all’uomo metafisico, dunque all’uomo riflessivo che, vivendo la “vita solitaria”, si concede necessariamente alla filosofia astratta. Si pensi anche al personaggio del filosofo Amelio, che appare come alter ego del poeta stesso nell’Operetta morale dal titolo L’elogio degli uccelli; costui non a caso viene introdotto con l’epiteto di “filosofo solitario” rimarcando un’attitudine contemplativa che è propria dello stesso Leopardi.
La consolazione della solitudine, annotava il poeta di Recanati nello Zibaldone (678,3, 20 febbraio 1821), deriva primariamente dalle illusioni che essa dischiude, poiché la società “manca affatto di cose che realizzino le illusioni per quanto sono realizzabili”.
La massima espressione lirica di questa concezione è il canto La vita solitaria, un idillio in endecasillabi sciolti, composto a Recanati proprio fra l’estate e l’autunno 1821 (dunque successivamente all’annotazione diaristica sopracitata), e pubblicato la prima volta nel Nuovo Ricoglitore di Milano del gennaio 1826. Nel canto troviamo anche un’esaltazione del tema della “vita solitaria”, tipico della poesia italiana, ampiamente dibattuto già in Petrarca che ne sancì il trionfo nel sonetto Solo et pensoso.
Nella sua Vita solitaria invece Leopardi condensa una summa dei temi precedentemente trattati negli idilli e centrali nella sua poetica, ovvero: la centralità del paesaggio, la fine della gioventù, la conversazione con la luna, l’amore.
“La vita solitaria”
di Giacomo Leopardi
La mattutina pioggia, allor che l’ale
Battendo esulta nella chiusa stanza
La gallinella, ed al balcon s’affaccia
L’abitator de’ campi, e il Sol che nasce
I suoi tremuli rai fra le cadenti
Stille saetta, alla capanna mia
Dolcemente picchiando, mi risveglia;
E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo
Degli augelli susurro, e l’aura fresca,
E le ridenti piagge benedico:
Poiché voi, cittadine infauste mura,
Vidi e conobbi assai, là dove segue
Odio al dolor compagno; e doloroso
Io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna
Benchè scarsa pietà pur mi dimostra
Natura in questi lochi, un giorno oh quanto
Verso me più cortese! E tu pur volgi
Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando
Le sciagure e gli affanni, alla reina
Felicità servi, o natura. In cielo,
In terra amico agl’infelici alcuno
E rifugio non resta altro che il ferro.
Talor m’assido in solitaria parte,
Sovra un rialto, al margine d’un lago
Di taciturne piante incoronato.
Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
La sua tranquilla imago il Sol dipinge,
Ed erba o foglia non si crolla al vento,
E non onda incresparsi, e non cicala
Strider, nè batter penna augello in ramo,
Nè farfalla ronzar, nè voce o moto
Da presso nè da lunge odi nè vedi.
Tien quelle rive altissima quiete;
Ond’io quasi me stesso e il mondo obblio
Sedendo immoto; e già mi par che sciolte
Giaccian le membra mie, nè spirto o senso
Più le commova, e lor quiete antica
Co’ silenzi del loco si confonda.
Amore, amore, assai lungi volasti
Dal petto mio, che fu sì caldo un giorno,
Anzi rovente. Con sua fredda mano
Lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto
Nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo
Che mi scendesti in seno. Era quel dolce
E irrevocabil tempo, allor che s’apre
Al guardo giovanil questa infelice
Scena del mondo, e gli sorride in vista
Di paradiso. Al garzoncello il core
Di vergine speranza e di desio
Balza nel petto; e già s’accinge all’opra
Di questa vita come a danza o gioco
Il misero mortal. Ma non sì tosto,
Amor, di te m’accorsi, e il viver mio
Fortuna avea già rotto, ed a questi occhi
Non altro convenia che il pianger sempre.
Pur se talvolta per le piagge apriche,
Su la tacita aurora o quando al sole
Brillano i tetti e i poggi e le campagne,
Scontro di vaga donzelletta il viso;
O qualor nella placida quiete
D’estiva notte, il vagabondo passo
Di rincontro alle ville soffermando,
L’erma terra contemplo, e di fanciulla
Che all’opre di sua man la notte aggiunge
Odo sonar nelle romite stanze
L’arguto canto; a palpitar si move
Questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna
Tosto al ferreo sopor; ch’è fatto estrano
Ogni moto soave al petto mio.
O cara luna, al cui tranquillo raggio
Danzan le lepri nelle selve; e duolsi
Alla mattina il cacciator, che trova
L’orme intricate e false, e dai covili
Error vario lo svia; salve, o benigna
Delle notti reina. Infesto scende
Il raggio tuo fra macchie e balze o dentro
A deserti edifici, in su l’acciaro
Del pallido ladron ch’a teso orecchio
Il fragor delle rote e de’ cavalli
Da lungi osserva o il calpestio de’ piedi
Su la tacita via; poscia improvviso
Col suon dell’armi e con la rauca voce
E col funereo ceffo il core agghiaccia
Al passegger, cui semivivo e nudo
Lascia in breve tra’ sassi. Infesto occorre
Per le contrade cittadine il bianco
Tuo lume al drudo vil, che degli alberghi
Va radendo le mura e la secreta
Ombra seguendo, e resta, e si spaura
Delle ardenti lucerne e degli aperti
Balconi. Infesto alle malvage menti,
A me sempre benigno il tuo cospetto
Sarà per queste piagge, ove non altro
Che lieti colli e spaziosi campi
M’apri alla vista. Ed ancor io soleva,
Bench’innocente io fossi, il tuo vezzoso
Raggio accusar negli abitati lochi,
Quand’ei m’offriva al guardo umano, e quando
Scopriva umani aspetti al guardo mio.
Or sempre loderollo, o ch’io ti miri
Veleggiar tra le nubi, o che serena
Dominatrice dell’etereo campo,
Questa flebil riguardi umana sede.
Me spesso rivedrai solingo e muto
Errar pe’ boschi e per le verdi rive,
O seder sovra l’erbe, assai contento
Se core e lena a sospirar m’avanza.
Giuseppe Ungaretti, durante una sua lezione universitaria presso l’università di Roma, definì quella di Giacomo Leopardi come una “solitudine senza scampo”.
Il tema della solitudine è infatti la chiave di lettura dominante in questo canto, con tutti i contrasti che Leopardi le attribuisce, dunque sia nella sua natura benigna che in quella matrigna. “Gli uomini che vivono in solitudine sono inclinatissimi al metodo”, scrive l’autore nello Zibaldone, poiché diventano metodici sino all’eccesso.
E, sempre nelle pagine del suo diario di pensieri, Leopardi sosteneva che un uomo che vive in solitudine recupera sé stesso:
L’uomo disingannato, stanco, espero, esaurito, di tutti i desideri, nella solitudine, a poco a poco si rifà, ricupera sé stesso, ripiglia quasi carne e lena, e più o meno vivamente, a ogni modo risorge, ancorché penetrantissimo d’ingegno, e sventuratissimo.
In questa riflessione possiamo rintracciare la morale de La vita solitaria, che in definitiva si conclude con un ritratto tutto sommato compiaciuto del poeta, seduto sul suo solitario colle in attitudine contemplativa.
La solitudine, specialmente nei tempi moderni, per Leopardi assume una valenza positiva poiché diventa una sorta di conforto. Questo genere di solitudine benefica però non deriva dalla conoscenza dell’arido vero (meglio teorizzato nelle Operette morali), ma dalla contemplazione serena delle illusioni e dall’oblio che ne deriva. Nel saggio Sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, Leopardi attribuiva una valenza positiva alla solitudine, poiché aveva una funzione consolatoria in opposizione al “solido nulla” che costituiva la realtà:
La solitudine rinfranca l’anima e ne rinfresca le forze, e massime quella parte di lei che si chiama immaginazione. Ella ci ringiovanisce. Ella scancella quasi o ristringe e indebolisce il disinganno, quando abbia avuto luogo, sia pure stato interissimo e profondissimo.
La solitudine descritta ne La vita solitaria è appunto quella contemplativa che accentua la facoltà dell’immaginazione, tipica del fanciullo.
Non manca, nel canto, il riferimento alla giovinezza perduta - benché Leopardi fosse ancora giovanissimo all’epoca della stesura di questa lirica - in quanto il poeta sente il proprio cuore inaridito, fattosi ormai pietroso in quanto ha smarrito le dolci illusioni e il conforto del pensiero amoroso. Però, nel conforto della solitudine, nella sua vita pensosa e schiva, il poeta riesce a recuperare questo stato d’animo di astrazione che lo consola con l’inganno consueto dell’immaginazione. Le illusioni ricongiungono l’idillio della natura e la vita: “e le morte stagion e la presente e viva e il suon di lei”.
La vita solitaria descrive il medesimo stato d’animo de L’Infinito, come annuncia il poeta “Talor m’assido in solitaria parte”, è questo il processo che crea e annunzia la visione dell’Infinito dove, appunto, grazie alla forza immaginativa il possibile diventa possibile.
e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio;
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
L’Infinito fu composto originariamente nel 1819, dunque risulta precedente alla Vita solitaria. Lo stato d’animo che ci sta descrivendo il poeta è lo stesso. Anche nei versi del Canto è presente il riferimento al mare, la luna nel finale diventa una barca che veleggia nel cielo. La solitudine è ciò che consente a Giacomo Leopardi il naufragare nello spazio dell’Infinito, il contratto con l’eterno e la profondissima quiete da lui anelata.
La “solitudine senza scampo” di Leopardi - come la definiva Ungaretti - era in realtà ciò che riconciliava il poeta con la vita, la vera ragione della sua voce poetica.