lunedì 1 luglio 2024

STUPIDITÀ Gianfranco Marrone

 


STUPIDITÀ 

Gianfranco Marrone

Recensione

Stefano Bartezzaghi

[...]In un mondo in cui ci sono solo stupidi, lo stupido non esisterà più poiché nessuno potrà riconoscerlo[...]

Un’occhiata alla bacheca di Facebook, una alla Timeline di Twitter, e ci si dice: la stupidità degli altri deve essere davvero lo spettacolo più affascinante del mondo. C’è chi pensa che i social network producano i propri contenuti, e se ne potrebbe discutere; ma intanto possiamo tenere per certo (è infatti vero per definizione) che li registrano, così documentando tendenze altrimenti volatili. Prima lo studio delle mitologie sociali era fatalmente basato su fonti di seconda mano e sul sentito dire delle chiacchiere al bar e delle opinioni dei tassisti. Intuizione, penetrazione e sintesi mettevano poi in risalto, sullo sfondo grigio del senso comune, i commenti dei Flaiano e dei Barthes.


Oggi su Facebook e Twitter chiunque può invece verificare, e con grande margine di probabilità induttiva, che molto spesso chi prende la parola lo fa per additare, smascherare, irridere, disprezzare, censurare, condannare, possibilmente immolare, auspicabilmente incenerire, moralmente scomunicare, indignatamente ostracizzare. Cosa? La stupidità di qualcun altro. Dalla stupidità altrui non ci distraiamo mai, come se la nostra intelligenza non possa essere altro che censoria e come se, abbassando il nostro dito monitore, ammettessimo la nostra stupidità arrendendoci all’altrui. Gli obiettivi possono essere rivali professionali, in politica, nel tifo sportivo, in amore o in tutti e quattro i campi; vip remoti o invece presenti sul social network; persone vestite male, che non scrivono bene l’italiano o che parlano male l’inglese, persone a cui piacciono cose ritenute poco o troppo chic, fan di cantanti avversi; gente frivola, gente che lo è troppo poco. Ognuno, in rete, può trovare il proprio stupido elettivo; ma ognuno è anche lo stupido elettivo di qualcun altro. Chi ha ragione, allora? E, soprattutto, come distinguere lo stupido dal non-stupido?




Vederci chiaro è diventato difficile, da quando non ci sono più «i bei cretini di una volta» già rimpianti da Leonardo Sciascia. E non ci sono più non perché siano passati dall’umiltà dello scemo del villaggio all’arroganza del capotribù, ma perché hanno studiato, hanno imparato a stare in società, sono tra noi e (fin troppo spesso) sono in noi. I cretini di oggi sono intelligenti, così intelligenti da vedere cretini dappertutto.


Quando Fruttero e Lucentini dicono che per il cretino, il cretino è sempre “un altro” la formula coinvolge anche loro, fatalmente; essi, tutt’altro che cretini, lo sanno. Ma allora nella «prevalenza del cretino» del loro famosissimo titolo, il cretino prevale su di me o dentro di me? Approfondendo la questione si arriva a pensare che forse la prevalenza «è» del cretino: essere stupidi consiste nel pensare che si possa realmente, e non stupidamente, prevalere. Per uscire da questo gorgo occorre attraversarlo: «Bisogna sentirsi stupidi, per esserlo di meno», diceva proprio Roland Barthes. Ed è il massimo studioso italiano di Barthes che ci aiuta a rifare i conti con la stupidità: si tratta del semiologo Gianfranco Marrone, che pubblica ora la nuova edizione, riscritta e aggiornatissima, di uno studio che aveva dedicato anni fa all’argomento (Stupidità, Bompiani).


L’antico scemo del villaggio è Chance, il giardiniere interpretato da Peter Sellers in Oltre il giardino, che prende tutto alla lettera e corrisponde allo “stupido solare” di Robert Musil. I politici che lo ascoltano e scambiano le sue ovvietà agresti per massime di profonda saggezza (arriveranno a candidarlo alla presidenza Usa), sono gli stupidi intelligenti, quelli che per Musil vedono segni e indizi dappertutto. Di fatto trovare la stupidità “in purezza” è oramai impossibile. Lo stupido postmoderno non è più chi non conosce la regola e non sa comportarsi (come il Giufà del folklore siciliano), né chi non conosce che la regola e non l’adegua alla realtà (come per esempio don Ferrante). Con la sua goffaggine ma anche con il suo entusiasmo nel partecipare a ogni rito sociale, cioè con la sua ansia di «affluire», il rag. Ugo Fantozzi svela che l’unica stupidità peggiore di quella di non saper stare alle regole è quella di chi ci si sa stare, o anzi di chi le regole le detta. Il silenzio atterrito che accompagna le sue imprese più dissennate deriva dal fiato tenuto sospeso dagli astanti: ogni volta può essere quella in cui il teatro sociale viene giù del tutto, grazie al Big One delle Craniate Pazzesche.


Nell’epoca in cui invitanti campagne pubblicitarie esclamano «Be Stupid!», Marrone aggiunge alla sua rassegna uno stupido di genere completamente diverso da quelli tradizionali e moderni: il computer. Il teorico della naufragata Intelligenza Artificiale Marvin Minsky notava che al computer abbiamo saputo fornire competenze sofisticate (come la maestria negli scacchi), ma non abilità che sono alla portata di un ragazzino, come tirare a indovinare, raccontare una storia, interloquire in una normale conversazione, tradurre un testo banale. Il che significa che l’intelligenza e la creatività umana non pertengono alla sola sfera cognitiva; o meglio che non esiste una sfera cognitiva indipendente da quella emotiva, e viceversa. Isolando la ragione dall’emozione si ottiene la tecnocrazia, che è tirannica stupidità degli specialismi, riduzione dell’intelligenza a mera funzione di problem solving. L’intelligenza è un’altra cosa: è ciò che lega gli specialismi fra loro, ed è dunque, come mette in luce Marrone, “il prodotto di infinite stupidità”. È una passione: è “sagacia”, “desiderio di saper fare”. A isolare l’emotività dall’intelligenza si cade invece nella “dittatura del cuore” di cui parla Milan Kundera, quella che traduce la stupidità nel linguaggio empatico della bellezza e dell’emozione. Il kitsch ci commuove con la banalità dei nostri sentimenti e Marrone puntualizza: “non si tratta più di opporre buoni e cattivi sentimenti, ma di esibire il sentimento allo stato puro”: kitsch il buonismo, kitsch l’antibuonismo dei cinici manieriati, kitsch la commozione, kitsch la rudezza e il sarcasmo.


Sia il cuore sia la mente hanno insomma i loro tormentoni: siamo stupidi quando li ripetiamo senza filtri critici, come flaubertiane idee ricevute e subito ritrasmesse. Il Flaubert della Rete ha un nome poco profumato, si chiama “Vendommerda”: raccoglie e rilancia i Tweet più stolidi che si possano concepire, senza aggiungere un commento. È più neutro di Blob. Diverte, ma certo non vaccina, né probabilmente intende farlo. Persino Flaubert faceva un torto alla sua stessa intelligenza, quando si illudeva di indurre i suoi lettori al silenzio per non correre il rischio di dire stupidaggini. Non era stato proprio lui a stabilire che la stupidità consiste “nel voler concludere”?


Non si finisce mai di cercare di non essere stupidi, almeno non del tutto. Ripetiamo, pensando di essere originali, i tormentoni di pubblicità, propaganda politica, informazione, comicità, medialità. Oggi funzionano quelli di Beppe Grillo, ma anche questi, che apparentemente demistificano, non sono tormentoni meno di altri: la stupidità è entrata nell’epoca in cui è stupida anche la sua demistificazione. Forse siamo alle soglie dell’antiutopia tratteggiata da Marrone: “In un mondo in cui ci sono solo stupidi, lo stupido non esisterà più poiché nessuno potrà riconoscerlo”. Vuole dire che, come bisogna sentirsi stupidi per esserlo di meno, così per abrogare la stupidità occorre che regni.


STUPIDITÀ 

Poco interessanti catene di cause e effetti terapeutici, dietetici, sociali, politici, tecnologici spiegano l’esponenziale proliferazione della ‘bêtise’. Figlia del progresso, dell’idea di progresso, essa non poteva che espandersi in tutte le direzioni, contagiare tutte le classi, prendere il sopravvento in tutti i rami dell’umana attività. È stato grazie al progresso che il contenibile “stolto” dell’antichità si è tramutato nel prevalente cretino contemporaneo, personaggio a mortalità bassissima la cui forza è dunque in primo luogo brutalmente numerica; ma una società ch’egli si compiace di chiamare “molto complessa” gli ha aperto infiniti interstizi, crepe, fessure orizzontali e verticali, a destra come a sinistra, gli ha procurato innumerevoli poltrone, sedie, sgabelli, telefoni, gli ha messo a disposizione clamorose tribune, inaudite moltitudini di seguaci e molto denaro. Gli ha insomma moltiplicato prodigiosamente le occasioni per agire, intervenire, parlare, esprimersi, manifestarsi, in una parola (a lui cara) per “realizzarsi”. Sconfiggerlo è ovviamente impossibile. Odiarlo è inutile. Dileggio, sarcasmo, ironia non scalfiscono le sue cotte d’inconsapevolezza, le sue impavide autoassoluzioni (per lui, il cretino è sempre “un altro”); e comunque il riso gli appare a priori sospetto, sconveniente, “inferiore”, anche quando – agghiacciante fenomeno – vi si abbandona egli stesso.

 (Fruttero & Lucentini, La prevalenza del cretino)


Esordio

L’attuale incanaglirsi del conflitto fra politica e cultura (a tutto vantaggio, com’è noto, del primo termine) ha portato, fra le altre cose, a una messa in mora d’ogni problematizzazione della stupidità. Da una parte si erge l’euforico cretino che si vanta d’esser tale, dal nerd televisivo che sbava per le ragazzone dal cervello di gallina alle recenti ingiunzioni d’un brand fra i più cool del momento. Be stupid, ci ingiungono, motivando l’imperativo mal categorico con una magnificazione di ciò che sta sotto la cintura. D’altra parte, specularmente, si riaffaccia un intellettualismo di nicchia che in svariata pubblicistica recente ha riproposto la domanda metafisica ‘che cos’è la stupidità’ per cercare a tutti i costi di capire come la si combatte. Penso ai numerosi testi che fra l’ironico e l’accigliato elencano svarioni e sciocchezze altrui, ai libri che provano a dispensare quotidiana saggezza in pillole, ai dizionari che inanellano idee sedicenti non comuni, dichiarandosi di fatto pervicaci anti-flaubertiani. Del resto, capita spesso di leggere autori di filosofia che autodefiniscono il proprio operato come ‘esercizio dell’intelligenza’. Tutte cose buone e giuste, in sé, se non fosse che appaiono come esibizioni di acume tanto snobistiche quanto sospette: non c’è peggior stupido – osservava Robert Musil – di chi vanta la propria intelligenza.

In un modo come nell’altro, sono proprio i perturbanti moniti del Discorso sulla stupidità e di scritti analoghi a venir dimenticati. Voltaire, Flaubert, Musil, Queneau, Kosinsky, Kundera, Sciascia, Eco, ma anche Erdmann, Adorno, Barthes, Deleuze e molti altri ci avevano insegnato ad andar molto cauti nell’additare l’imbecillità. Cosa che il folklore, a suo modo, ha sempre fatto: la figura del diavolo sciocco, del furbo-cretino, del fool impacciato, del trickster insomma, rende conto delle innumerevoli nature che la stupidità può assumere nel mondo sociale e nelle varie culture. Mettendo chiaramente in discussione ogni giudizio definitivo nei confronti dello scemo del momento, sempre rigirabile verso chi, spocchioso, lo formula. Non solo, antropologicamente, lo stupido è sempre l’Altro, ma a ben vedere esistono innumerevoli forme di stupidità, sempre parziali, momentanee, soggettive, rintracciabili, a esser corretti, in ciascuno di noi. Scagli la prima pietra chi ne resta fuori. La stupidità investe la sfera cognitiva, come ritiene il senso comune, ma anche quella della prassi, dell’affetto, del corpo. L’ipotesi teorica, oggi unanimemente accantonata, dell’intelligenza artificiale aveva per esempio mostrato come sia molto più complesso dotare un computer di un software capace di raccontare una storia o di tradurre un banale testo da una lingua all’altra piuttosto che di un programma per farlo giocare a scacchi o per produrre calcoli con estrema raffinatezza e velocità. E il noto film di Spielberg che prende in giro tale ipotesi, A.I., ha rincarato la dose, immaginando una sofisticata macchina in grado di provare l’affetto assoluto di un bambino verso i propri genitori. Roba da pericolosa fantascienza. In tutt’altro contesto teorico Lotman lo aveva indicato da tempo: quel che è interessante per le scienze umane non è ciò che un computer compie senza difficoltà ma, al contrario, ciò che esso non sa fare, ossia ciò che noi umani non sappiamo insegnargli perché di fatto non abbiamo idea di come funzioni. Per esempio, appunto, le logiche dell’affetto e quelle del corpo, per definizione in eccesso rispetto ai dispositivi più controllabili delle strategie d’uso e alle pratiche di consumo. La stupidità, si legge nelle ultime pagine della Dialettica dell’Illuminismo, è una cicatrice, a indicare le antenne della chiocciola che, esplorando il territorio, vengono amputate dal becero fanatismo delle masse, dalla violenza collettiva.

Tutti zitti allora? Nulla da dire e perciò da fare? Occorre subire passivamente e silenziosamente l’inarrestabile avanzare a passo di gambero dell’oscurantismo e dell’ottusità? Nient’affatto. Basta soltanto, come ammoniva ancora Flaubert, non aver fretta d’arrivare alla soluzione, pazientare e non dispensare improvvisate ricette: la bêtise consiste à vouloir conclure. Una strada da seguire per portar avanti la riflessione, per esempio, è quella tracciata dallo stesso Musil, quando distingueva fra stupidità solare e stupidità intelligente. La prima è quella di chi prende tutto alla lettera, non cogliendo impliciti e implicature, allusioni e presupposizioni, vedendo cose là dove invece si tratta di segni. La seconda è quella di chi vede segni dappertutto, anche e soprattutto dove non ve ne sono, finendo per sovrainterpretare ciò che non può né deve nemmeno essere detto. Si ricorderà la vicenda di Chance Giardiniere, personaggio di un poco noto romanzo di Kosinsky e del bel film di Ashby Oltre il Giardino. Nella sua assoluta ottusità, Chance pensa solo alle piante del vivaio oppure guarda inebetito la televisione; per il resto, non capisce niente di niente, né la politica né la sessualità. Eppure i suoi interlocutori vedono in questo suo fare pacato e incongruo chissà quale profondità di pensiero, finendo per proporlo come futuro presidente degli Stati Uniti. Chance è uno stupido solare, gli altri stupidi intelligenti, ma l’uno non può esistere senza gli altri e viceversa.

Da qui una constatazione: la stupidità non è una cosa ma una relazione, non una proprietà (o mancanza di proprietà) ma un processo (o processo abortito). Perché ci sia stupidità non basta una persona ma devono essercene come minimo due. La prima fa qualcosa (pensa, parla, compie dei gesti, avanza dei programmi d’azione, prova un sentimento…). La seconda assiste nervosamente al comportamento della prima e lo considera sciocco, magari rinfacciandoglielo con tono alquanto irritato. La stupidità, insomma, è prima di ogni altra cosa un insulto, che implica non un giudizio di fatto ma di valore, o se si vuole di disvalore. Cosa che comporta non solo una sorta di scena madre, un frame ricorrente, una sorta di sceneggiatura prestabilita e formalmente descrivibile, ma anche, entro tale sceneggiatura, un possibile ribaltamento delle prospettive: “stupido sarai tu!”. E così via all’infinito, a meno di non passare alle vie di fatto, trasformando la cattiva autocoscienza della propria superiorità sociale in rivendicazione animalesca del territorio.

Conseguenze. In primo luogo, lo stupido esiste se e solo se c’è qualcuno che lo individua e che lo addita, con tutti i rischi del caso. In un mondo dove ci sono solo stupidi, lo stupido non esisterà più, poiché nessuno potrà riconoscerlo. In secondo luogo, corollario del primo, lo stupido vince sempre, perché a esser giudicato non è lui in sé – il suo carattere, la sua psiche, la sua mente –, ma le sue azioni e passioni, in quanto tali circoscritte nel tempo e nello spazio. Di modo che, al proporsi di un’altra sua condotta, si ripresenta il medesimo parere: “ma quanto è stupido”. Sino all’inevitabile risoluzione: “non può essere stupido sino a questo punto: è incredibile!”. Incredibile, appunto, dunque vincente.

È questa probabilmente la condizione estrema e tragica nella quale oggi ci troviamo, e che ci porta a riconsiderare con una sorta di nostalgica benevolenza figure come quelle di Forrest Gump o di certi antieroi di Ermanno Cavazzoni, che esibiscono con purezza quel che sta all’origine d’ogni stupidità: non l’incapacità ma lo stupore, non la deficienza ma l’apertura al mondo. Bisogna sentirsi stupidi per esserlo di meno, si dice. Non a caso la meraviglia, come sappiamo dai Greci, è l’incipit d’ogni avventura conoscitiva e metafisica, forse d’ogni avventura tout court. Nelle fiabe russe lo stupido assume due forme: è colui il quale resta a casa abbracciato alla stufa mentre i fratelli partono verso l’altro regno dove affronteranno, prima che i cattivi, il gelo della steppa; ma è anche colui il quale, dopo aver patito il freddo e combattuto il nemico, torna a casa uguale a prima, colui che non s’è trasformato, che non è andato a nozze con la figlia del re. Per vivere saggiamente occorre allora aver gusto, mescolando saperi e sapori, ma anche insipienze e insapori, controversie e dissapori. La lingua, covo di metafore continue, ce lo insegna da sempre: e parla del sale dell’intelligenza, o di minestre sciocche.


Basi

Momenti e memento

Da Giufà, sciocco fortunato, fool e trasgressore, sino agli enigmatici toreri di Fernando Botero – obesi, osceni, statuari – il passo è breve. In esso è iscritto il destino storico e culturale della stupidità. Come per la follia, c’è una storia della cretineria che dall’età classica, con progressive trasformazioni e accostamenti, arriva sino a oggi. E se nelle spirali del moderno la stupidità si disperde mescolandosi alle pratiche di una ragione positivista, essa risorge, più entusiasta che mai, alle soglie dell’epoca contemporanea. È per questo che della stupidità si discute a dismisura. Perdute le coordinate culturali che permettono di riconoscere quelli che Leonardo Sciascia chiamava “i bei cretini di una volta”, il discorso intellettuale e sociale viene caricato sino all’esasperazione di reciproci insulti e offese. Gli stupidi, mascherati da intelligenti, si indicano a vicenda.

Da Giufà a Botero è possibile individuare tre momenti fondamentali che si succedono nella storia della cultura occidentale. Senza aver l’ambizione di percorrerla per intero, basterà uno schema che serva da spiegazione generale e che, soprattutto, renda conto delle difficoltà che si incontrano – da Flaubert in poi – nel pensare la stupidità. D’altra parte, una visione storiografica elimina ogni concezione naturalistica e scientista della stupidità, allo stesso modo in cui la scrittura di una storia della follia ha mostrato i nessi costitutivi tra cultura e alienazione mentale. La stupidità, più che uno stato di coscienza, è un fatto culturale.

In origine c’è l’idiota del paese. In una società fortemente gerarchizzata, legata al rituale quotidiano e ai suoi valori simbolici, la figura dello scemo del villaggio è perfettamente integrata. Il ruolo dello stupido è quello del trasgressore che percorre trasversalmente i livelli sociali additandone – sorta di briccone per nulla divino – i limiti e le contraddizioni. Lo stupido lavora sui bordi: attraversando le gerarchie ne resta fuori poiché si avvicina all’animalità, alla naturalità supposta precedere ogni partizione culturale del mondo ma che assicura al contempo una specie di purezza originaria, edenica.

L’avvento della società borghese, ridiscutendo l’esistenza stessa delle gerarchie, toglie allo stupido la sua funzione e le sue certezze. O meglio: le certezze di chi poteva in un primo tempo riconoscerlo come altro da sé. Così, stupido è l’aristocratico che non sa agire e pensare in linea con i tempi, che non possiede quel saper fare dinamico e produttivo tipico di una società in continuo fermento, che non esibisce l’astuzia commerciale e finanziaria del borghese. Ma agli occhi dell’artista il vero stupido è proprio il borghese, che si limita a un’intelligenza specialistica, parziale, chiusa in un solo campo, e che non è in grado di formarsi una visione intellettuale complessiva del mondo.

Con lo sviluppo e l’esaurirsi della modernità queste difficoltà definitorie, quest’incapacità di tenere distinti il sé e l’altro, arrivano al parossismo. Lo stupido postmoderno non è più isolabile perché è dappertutto, si identifica con la società nel suo complesso, con le regole del gioco sociale. Stupido non è più chi trasgredisce le regole attraversandole, o chi non conoscendole cade nell’errore, ma è la regola stessa. Quell’alone di malattia, di alterità, ma anche di imprendibilità, di metodica follia che caratterizzava precedentemente la stupidità diventa il principio stesso della regolamentazione sociale.

Questi tre momenti fanno riferimento a personaggi tipici che la letteratura e, in generale, la cultura hanno costruito per rappresentare e comprendere la stupidità e i suoi misteri. Scegliendone alcuni sarà più agevole esplicitare in profondità i meccanismi propri ai tre stadi della storia della stupidità.

Sciocca malizia

La distanza che ci separa dal mondo di Giufà spiega le difficoltà spesso incontrate nel comprendere e definire il senso e il carattere del personaggio. Quando si dice che Giufà è stupido gli si fa un torto, e ci si affretta infatti ad accostare a questo appellativo ulteriori qualità che in qualche modo possano ridimensionarne la presunta connotazione negativa: l’astuzia, la malizia, la fortuna e così via. Ma bisogna aver chiaro che nel mondo di Giufà la stupidità non ha un valore del tutto negativo. Siamo noi oggi ad attribuirglielo, non riuscendo a intendere la ricchezza delle storie di questa figura emblematica. Capire lo scemo del villaggio è accettare la differenza tra le nostre categorie e quelle di una cultura cosiddetta popolare in via di estinzione.

Giufà, Giucà o Giuha – comunque lo si chiami a seconda delle province – è l’eroe eponimo della stupidità nella tradizione narrativa folklorica siciliana. Il ciclo di Giufà, ricostruito e raccolto da Pitrè, ha continuato a incuriosire gli scrittori siciliani: si pensi ai Mimi di Francesco Lanza, a Il mare colore del vino di Leonardo Sciascia, come anche a certi racconti di Gesualdo Bufalino e Giuseppe Bonaviri, dove la proposta di ulteriori varianti della tradizione è testimonianza della ricchezza del mito. Del resto, la figura dello stolto è estremamente diffusa nella letteratura folklorica e colta di tutti paesi (per limitarsi all’Italia basti pensare a Boccaccio, Basile e Giovanni C. Croce) e va inserita nel più vasto orizzonte del mondo alla rovescia e del rito del carnevale. Tuttavia, come è noto, le storie di Giufà hanno evidenti radici nell’antico folklore arabo, dove il ciclo di Djuha (Dj’ja, Goha e simili) è l’evidente modello di quello dello sciocco siciliano. La vita di Giufà è lunga un millennio, ma è destinata a scomparire con la dissoluzione del mondo e della società che le è propria. La stupidità dell’antieroe più noto delle culture mediterranee tradizionali va intesa pertanto a partire da quel mondo e da quella società.

Italo Calvino ha osservato che l’importanza decisiva dello stolto in ogni folklore narrativo deriva dal contrasto costitutivo tra sacro e profano. Così, scrive, Giufà “è una maschera fuori dallo spazio e dal tempo cui si fa assumere tutta la stoltezza universale per allontanarla dalla comunità: il raccontare le storie di Giufà conferma narratore e ascoltatore nella loro superiorità sul mondo degli stolti”. In altre parole, la funzione di Giufà all’interno della cultura ritualizzata arcaica e feudale è quella di costituire uno spazio esterno in cui far vivere l’alterità, sia essa la stoltezza, la barbarie o l’animalità. Non a caso, ha rilevato Sciascia, “questo povero di spirito” è “un tipico abitante delle città orientali, uno scaricatore, un facchino, uno di quei miserabili che si aggirano sempre nei paraggi dei mercati”. Vivendo ai margini della società civile, Giufà è l’altro per eccellenza. La risata liberatoria che le sue azioni suscitano serve a esorcizzare il pericolo di una ricaduta nell’indifferenziato, nel continuum della natura, nel senza fondo di una bestialità che egli stesso tende a produrre. E il continuo stupore di Giufà nei confronti del mondo esterno, delle istituzioni, della Chiesa, è l’atteggiamento originario di chi non ha ancora innalzato barriere definitive tra il normale e il patologico, il civile e il selvaggio, la cultura e la natura. È la passione della meraviglia che, secondo i filosofi, suscita il desiderio della conoscenza.

Da qui la sua ambiguità e le sue continue, seppure involontarie, trasgressioni. Sempre Sciascia ha rilevato come la stupidità di Giufà vada di pari passo con la malizia, una malizia “degli avvenimenti” in cui egli si trova invischiato “del tutto inconscio delle conseguenze delle sue azioni”. Così, “Giufà l’innocente ha una funzione precisa: esercita una vendetta contro un rappresentate dell’autorità”, anche se “il suo è un gesto isolato”, privo di riscontro e senza conseguenze reali. A chi ride di lui Giufà oppone una goffaggine antisociale che si prende gioco delle istituzioni. Per questo, spiega Tedesco, egli è un “foddi, che qui vuol dire, più e meglio che pazzo, irregolare”, sprezzante del vivere civile, fuori dalle norme. Se può apparire come una attualizzazione del celebre briccone divino o trickster, è per la sua mitica capacità di simulazione che alterna e confonde alto e basso, sacro e profano, lecito e illecito.

Si rilegga il racconto di Sciascia a lui dedicato in Il mare colore del vino. Scambiandolo per un uccello dalla testa rossa, Giufà uccide un cardinale e getta il corpo nel pozzo di casa. Infastidito dai rimproveri della madre, scaraventa in quello stesso pozzo anche un montone. Così, quando incuriositi dal cattivo odore gli sbirri lo obbligano a scendere giù per tirar fuori il cadavere putrefatto, Giufà gioca a scambiare le proprietà fisiche del montone con quelle spirituali del cardinale; facendola franca, alla fine, dato che l’unico cadavere a venir fuori dal pozzo sarà quello dell’animale. Il gesto di ribellione di Giufà, palesemente ambiguo nella sua incoscienza, si dirige al tempo stesso contro il rappresentante dell’autorità ecclesiastica e contro quello dell’autorità civile, facendosi gioco del secondo attraverso il primo. Ma la vera maestria di Giufà si manifesta nel dialogo con gli sbirri, dove la stupidità ha a che fare in particolar modo con il linguaggio e i suoi giochi. “Io non ho mai visto un cardinale – dice dal fondo del pozzo dove si trovano i due corpi dell’uomo e della bestia – e tanto meno l’ho toccato: e qui sto toccando una cosa che può essere il cardinale come può essere un cane”. Oppure: “sto toccando una cosa pelosa, una cosa lanosa. Aveva lana addosso il cardinale?”. E ancora: “Io un cardinale non so com’è fatto: voglio sapere se questo che cerchiamo piedi ne aveva due o quattro”. Sino a che: “Il cardinale aveva le corna?”. La rabbia del capitano di fronte all’equivoco ha una causa molto precisa: applicando quell’intelligenza normalizzante che deriva dal suo ruolo sociale, interpreta in senso metaforico le ingenue domande di Giufà, considerando come insulti quelle che dovrebbero essere semplici descrizioni anatomiche.

È questo probabilmente il meccanismo generativo delle storie di Giufà, che ne determina e spiega le frequenti ambiguità, altrimenti irrisolvibili. Se, come s’è detto, è il linguaggio il vero protagonista dei racconti di Giufà, bisogna leggere questa affermazione nel modo più radicale: è l’assenza di retorica, di metaforicità, di articolazione figurativa la causa prima e ultima delle azioni di Giufà. Si pensi al notissimo episodio della porta: quando la madre dice a Giufà “esci e tirati la porta”, questi trascina con sé la porta per tutto il paese, coinvolgendola nelle sue ulteriori peripezie, appesantendo la sua goffaggine con un ovvio elemento di troppo, puro spreco di forze e di economia narrativa. Come nella storia del cardinale, Giufà mostra un’assoluta incapacità di metaforizzare, prende tutto alla lettera, ignorando una funzione basilare della lingua, quella dell’elocutio figurativa. La deficienza verbale, peraltro, non è di per sé assenza di significato, né chiusura verso l’universo sociale, poiché fa scattare per ogni dove ulteriori regimi di senso, legati alla sensorialità e al corpo, come anche allo spazio e alle sue strutture. Giufà parla con altri mezzi, che se pure non sono strettamente linguistici, sono comunque generalmente semiotici.

Saranno più chiari, a partire da una simile idea, il senso e il valore delle avventure trasversali di questo tipico scemo del villaggio, le sue giocose performance con gli uomini e le cose, con le leggi, i giudici, i ladri, la luna, gli abiti, il cibo. Non appena è ben vestito Giufà, sino a quel momento escluso e reietto, viene immediatamente invitato a pranzo dai notabili del paese: la sua reazione è immediata; fa mangiare gli abiti immergendoli nel piatto, perché sono loro i veri ospiti del banchetto. E se la madre gli consiglia di vendere la sua tela a una persona di poche parole, una statua viene scelta da Giufà come destinatario ideale dei suoi commerci: chi più silenzioso di un pezzo di gesso? Quando poi gli si dice che la sua carne è stata venduta alle mosche, le quali però non vogliono pagare, il giudice gli permette di ammazzarne quante ne vuole: e Giufà – imbecille o astuto? – picchia il giudice, che aveva una mosca sul naso. E, ancora, quando vede la luna che appare e scompare dietro le nuvole, si incanta a guardarla, pensando di essere lui a ordinarne i movimenti.

Se Giufà dà luogo a entusiasmi critici che ne lodano l’ambiguità di fondo è perché – utilizzando una definizione musiliana – egli è un vero e proprio stupido solare: fa mostra di ignorare le sottigliezze e i non detti del linguaggio, rifiuta l’arbitrarietà del segno – ostacolo alla estrinsecazione della natura e modello per i codici politico-sociali – , perseverando ottusamente e felicemente in una concezione edenica del senso. Le parole, per lui, corrispondono alle cose (“tirati la porta” significa tirati la porta), l’ordine del mondo si rispecchia nell’ordine della lingua. Solo che, contrariamente a certa linguistica, Giufà non nasconde le limitazioni che sono implicite nella sua idea del linguaggio. Anzi, trascina questa specie di innata ideologia sino alle sue radicali conseguenze. Per questa ragione, accade che all’assenza di significazione nell’ordine della lingua si accompagni una moltiplicazione delle funzioni del corpo. Giufà orina e defeca non appena ne ha bisogno o desiderio, noncurante della comunità che lo circonda. Ma anche in questi casi l’esito delle sue azioni è felice, fortunato, utile a sé e agli altri; i ladri scappano via impauriti da questo individuo che oppone una pacifica ingenuità alle loro malefatte. Il suo corpo, per nulla passivo o folle, è sempre all’erta, pronto a recepire i flussi del desiderio e a farli scorrere ulteriormente, in uno spazio logicamente anteriore a quello di un soggetto individuale o di un campo sociale che si oppongano tra loro. La stupidità di Giufà è, si potrebbe dire, programmatica, predisposta a tradire o tradurre l’ordine delle cose in uno spazio altro, senza più territori o carte geografiche, senza meridiani o paralleli, ma con infinite linee sghembe, trasversali, spezzate. Se Giufà è babbu, mariolu e lagnusu – di contro alla madre, che è poghira ma sperta – è perché la sua competenza all’agire non è in nessun caso azzerata. La sua stoltezza non gli impedisce di vivere nel mondo, di operare, di predisporre i suoi programmi d’azione – i quali, tra l’altro, hanno il più delle volte un esito positivo non si sa quanto fortuito e quanto predisposto. La sua è una specie di vita estetica, dove gli apparati sensoriali sono all’opera prima o al di là di una mente – di un’intelligenza – che intervenga a riordinare le sensazioni e le percezioni in concettualizzazioni forti. La conoscenza mediante i sensi prevarica o impedisce la conoscenza intellettuale.

Collera e metodo

Le certezze razionalistiche dell’età moderna tolgono alla stupidità la sua funzione speculare e trasgressiva. Lo scemo del villaggio cede il posto all’alienato mentale della psichiatria nascente, al delirio metodico della follia amletica o donchisciottesca, alle intuizioni del poeta, alle spiritosaggini del buffone di corte, alle curiosità nei confronti del selvaggio. Quel che sembra un paradosso è il principio costitutivo su cui si fonda il sorgere e il progredire della mentalità borghese legata ai valori del progresso, della scienza, della ragione scientifica e tecnologica: la stupidità non è più, non può più essere, l’alterità, il polo simmetrico della ragione, ma diviene un imbarazzante fantasma da nascondere, da esorcizzare e, tutt’al più, da irridere e schernire. E questo per una ragione molto semplice: la stupidità non può più essere l’opposto dell’intelligenza perché l’intelligenza viene intesa e definita come una facoltà umana finalizzata all’acquisizione di conoscenze, alla spiegazione dei fenomeni naturali e sociali, facendone uno strumento ingegneristico volto alla risoluzione programmatica di problemi specifici. La ragione umana viene privata del suo aspetto pratico e affettivo, sganciata da ogni processo pragmatico o passionale, non è più sagacia o desiderio di saper fare: è un insieme di meccanismi mentali di cui l’uomo è dotato come un sofisticato insieme di arnesi predisposto in anticipo e finalizzato al progresso indeterminato del sapere scientifico, degli apparati tecnologici, del dominio tecnocratico.

In questo quadro la stupidità viene esorcizzata, rimossa, trasfigurata: gli steccati eretti dal razionalismo moderno non prevedono uno spazio specifico per essa. Lo stupido verrà pensato una volta come matto, un’altra come buffone, un’altra ancora come genio, come santo, come artista. Verrà cioè integrato in quelle dimensioni codificate della cultura a cui la ragione permette un certo margine di azione, controllandone tuttavia i movimenti. Nominare la stupidità, indagare sui suoi meccanismi costitutivi significa scuotere l’albero del sapere. Non tanto perché la stupidità sarebbe una semplice assenza di capacità intellettive, quanto semmai perché essa è una critica silenziosa e spietata alle partizioni dell’enciclopedia scientifica, ai criteri astratti che organizzano i processi conoscitivi e i principi logici su cui quel sapere si basa. Non a caso, coloro i quali si interessano alla sua esistenza sono figure di intellettuali, se non del tutto critici, certamente dubbiosi sul valore di quel paradigma epistemologico che dal sorgere del razionalismo giunge sino al positivismo ottocentesco. Sono soprattutto i grandi moralisti classici come Pascal, Montaigne o La Rochefoucauld, che percepiscono come le avventure delle scienza non possano esaurire l’azione dell’intelletto umano. C’è un esprit de finesse che va spiegato e difeso allo stesso modo dell’esprit de géometrie. Il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce. E tra queste, immancabilmente, c’è anche quella che, riconoscendo la persistenza dello stupido, indica la debolezza delle partizioni codificate della cultura razionalistica. Criticare la stupidità significa combattere su un doppio fronte: contro lo stupido come tale, che a dispetto degli schemi sociali si insinua in certi tipi di comportamento, ma soprattutto contro chi, per malafede ideologica, rende impossibile il riconoscimento sociale della stupidità. Il presunto intelligente non può e non vuole comprendere quelle ragioni del cuore che, pena la loro dissoluzione, portano a criticare la stupidità in ogni sua forma.

È qui che si erge la figura di Gustave Flaubert, nume tutelare di ogni indagine sulla imbecillità. Con Flaubert il discorso sulla stupidità coinvolge interamente il soggetto che quel discorso profferisce. La proverbiale collera dell’orso di Croisset diviene una sorta di metodo, rigoroso ed efficace, per intendere la complessità delle reazioni e delle relazioni che la stupidità comporta. Flaubert non definisce la bêtise ma si accanisce contro di essa: è questo atteggiamento programmaticamente infastidito a garantire la fuoriuscita dall’universo della stupidità, la scrittura come esercizio salutare della ragione e la rifigurazione narrativa come esibizione impersonale della stupidità domata.

“Sento contro la stupidità della mia epoca – scrive Flaubert – fiotti di odio che mi soffocano. Mi sale la merda alla bocca, come nelle ernie strozzate. Ma voglio conservarla, fissarla, indurirla. Ne farò una pasta con la quale imbrattare il XIX secolo, al modo in cui si dorano di sterco di vacca le pagode indiane”. La stupidità non è per Flaubert una sorta di elemento di disturbo esterno alla composizione dell’opera narrativa: al contrario, il suo violento accanimento contro di essa è già lavoro letterario. E questo perché la stupidità non è secondo l’autore di Bouvard et Pécuchet un semplice modo d’essere della coscienza umana, ma riguarda molto da vicino il linguaggio: quello dell’opinione diffusa, delle formulazioni scientifiche, della scrittura romanzesca. Manifestare la stupidità è parlare per luoghi comuni, esprimere giudizi e opinioni ripetendo incoscientemente la parola altrui, il già detto che circola maldestramente in ogni campo del sapere, le cosiddette ‘idee ricevute’ e ritrasmesse senza alcun intervento dell’intelligenza e della riflessione. Il progetto di un Dictionnaire des idées reçues come “apologia della canaglieria umana in tutti i suoi aspetti “ ha uno scopo molto chiaro per il suo autore: “Sarà la glorificazione storica di tutto quello che generalmente si condivide. Dimostrerò che le maggioranze hanno sempre avuto ragione, e le minoranze torto. Immolerò i grandi uomini agli imbecilli”. La stupidità è per Flaubert qualcosa che si manifesta più che in altro nel discorso: è l’opinione diffusa, il giudizio predeterminato espresso in una frase fatta che si riprende pensandola come propria. La stupidità è il miglior modo per non pensare spacciando per proprie le idee altrui.

La questione del luogo comune – nozione affatto diversa da quella dell’antica retorica – si coniuga così, nell’opera flaubertiana, con quella della bêtise, trasferendo nell’ambito di una linguistica del discorso ante litteram un tema sinora di dominio della psicologia o dell’etica. E se pure manca in Flaubert una esplicitazione teorica della nozione di luogo comune, è presente nella sua pratica letteraria un articolato e complesso pensiero della stupidità come assenza di originalità e autonomia linguistica. “Il luogo comune – scrive – è usato dagli imbecilli o dai grand’uomini. Le nature mediocri lo evitano, preferiscono l’ingegnoso, l’accidentato”. L’elenco di idées reçues o chic che avrebbe dovuto far parte del secondo volume di Bouvard et Pécuchet non è un’appendice satirica giustapposta al romanzo per scopi vagamente documentari, ma è l’unica presumibile conclusione dell’avventura dei due copisti nel regno infinito delle scienze e delle tecniche del sapere positivistico. Se la loro esistenza è pervasa dall’universo dei luoghi comuni, un apprendistato fatto di continui entusiasmi e conseguenti delusioni li conduce dalla prima alla seconda prospettiva prevista da Flaubert: da imbecilli essi divengono “grand’uomini” senza passare dalla posizione delle nature mediocri. Alla stupidità solare dei protagonisti – scrupolosi collezionisti di opinioni altrui ed esperti dicitori di frasi fatte – corrisponde la falsa intelligenza di chi li circonda – autori di libri, personaggi più o meno noti, gente del paese. Bouvard e Pécuchet preferiscono tornare a copiare la parola altrui piuttosto che coltivare scienze e saperi colmi di incongruenze ed errori. Se inizialmente sono stupidi è perché passano da una specializzazione all’altra senza abbandonare, con la fede nella verità, il principio della specializzazione. Ma il loro faustismo sta nel portare all’esasperazione questo principio, mettendone a nudo i limiti e la presunzione, l’ulteriore stupidità di una cultura interamente permeata dalla smania di voler concludere.

“La stupidità – scrive Flaubert – consiste nel voler concludere”: e la stupidità dei due copisti – secondo Raymond Queneau – “non ha altra origine che il loro desiderio di assoluto che credono di poter soddisfare grazie ai manuali e agli studi superficiali. Essi diventano savi (e si identificano completamente con il loro creatore) soltanto quando compilano il loro Album e il loro Dictionnaire e la smettono di voler concludere”. L’avversario principale di Flaubert sarebbe, da questo punto di vista, non tanto la singola enunciazione scientifica, ma la sua divulgazione positivistica, la pretesa di assolutizzare i dati empirici e le soluzioni provvisorie delle discipline scientifiche in tesi universali e necessarie. In Bouvard et Pécuchet, sostiene ancora Queneau, “c’è l’annuncio di un nuovo pragmatismo” che soltanto l’individuazione e l’eliminazione della stupidità possono dare. “In questo senso Bouvard et Pécuchet è abbastanza analogo all’Adversus mathematicos di Sesto Empirico, che fa giustizia successivamente non della grammatica, della retorica, ecc..., ma delle pretese dei grammatici, dei retori, dei geometri, [...] Flaubert è per la scienza nella precisa misura in cui essa è scettica, riservata, metodica, prudente, umana”. Allo stesso modo, potremmo dire, il Dictionnaire des idées reçues è analogo ai Topici aristotelici: come in quest’opera la messa a fuoco dei luoghi dialettici, arginando le insidie della retorica, prefigura l’elaborazione logica del discorso, allo stesso modo il luogo comune flaubertiano, esibendo la falsa immagine di una scienza onnipotente, conserva alle pratiche scientifiche un loro spazio di azione reale. La stupidità non sta nel non comprendere le verità naturali e fisiche che le varie discipline elaborano a poco a poco, ma nel comprenderle troppo, nel dire più di quello che gli scienziati stessi pensano e fanno.

Accade così che la produzione teorica e pratica di un nuovo pragmatismo passi necessariamente attraverso la scrittura letteraria, l’elaborazione di un testo che prenda posizione nei confronti di una stupidità innanzitutto linguistica. “Il solo potere dello scrittore sulla vertigine stereotipica – ha chiarito Barthes – è di entrarvi senza virgolette, operando un testo, non una parodia”. Ed è proprio quel che ha fatto Flaubert nel suo ultimo incompiuto romanzo: “i due copisti sono dei copiatori di codici (sono, se si vuole: idioti), ma poiché anche loro sono messi a confronto con l’idiozia della classe che li circonda, il testo che li mette in scena opera una circolarità dove nessuno (neppure l’autore) è in vantaggio su nessuno; e tale è la funzione della scrittura; rendere irrisorio, annullare il potere, l’intimidazione di un linguaggio su un altro, dissolvere, appena costituito, ogni metalinguaggio”. Il lavoro letterario opera una depurazione del linguaggio attraverso la pratica dell’impersonalità: nascondere il soggetto dell’enunciazione è sperimentare un linguaggio privo di pretese, privo di giudizi di valore, di ogni opinione, di qualsiasi ottusa volontà di concludere.

Se, come è noto, in Flaubert stile e idea sono funzionali l’uno dell’altra, il problema della stupidità sarà innanzitutto retorico. La struttura del romanzo è tutt’uno con il pensiero della stupidità, e i problemi dell’una saranno per forza di cose quelli dell’altro. Da un lato le tecniche prescelte nella composizione del romanzo (gioco dei punti di vista, nascondimento del narratore, stile indiretto libero etc.) produce l’effetto ironico e ambiguo di una molteplice stupidità (individuale dei due protagonisti, collettiva del sapere positivistico, riflessiva dell’autore). Dall’altro il particolare contenuto del libro (personaggi stupidi che mostrano un sapere stupido in modo stupido) propone una considerazione del destino moderno della scrittura e dell’impossibilità di un suo grado zero. Con le certezze dell’enciclopedia positivista cade la possibilità della mimesi artistica. La stupidità è l’utopia della verosimiglianza letteraria, di quella rappresentazione cosiddetta realista che Flaubert, portandola alle estreme conseguenze, finisce per dichiarare fuori corso.

Saranno più chiari in questa prospettiva il senso e il motivo della compromissione dello scrittore con la stupidità: a causa dei continui accessi di collera che essa provoca e del lavoro necessario per aggirarla, Flaubert finisce per essere ossessionato dal fantasma della bêtise. Essa è la “droga mortale” di chi vuol concludere un’opera sulla stupidità: finisce per restarvi imprigionato, per essere irrimediabilmente invischiato nell’argomento. Eppure – recita Barthes – bisogna sentirsi stupidi per esserlo di meno. Se lo stupido non è più, in termini perentori, l’altro esterno, diverrà immancabilmente l’altro interno, entrerà strategicamente a far parte della psiche dello scrittore o, probabilmente, dell’opera stessa. Oltrepassare la stupidità, capiscono i due ingenui copisti insieme al loro autore, significa mimarla, affrontarla senza il pavido ausilio di virgolette rassicuranti. Costruire un dizionario di luoghi comuni vuol dire scrivere quei luoghi comuni in modo impersonale, senza il coinvolgimento (implicito o esplicito) della soggettività enunciativa. Il luogo comune, per essere tale, dev’essere sganciato dal soggetto dell’enunciazione, deve circolare solo e indisturbato nell’universo della doxa. In tal modo – ed è questo il trucco discorsivo predisposto da Flaubert – il lettore, senza più il conforto di un autore che gli suggerisca in anticipo un giudizio sul testo, finisce per essere subissato dalla trasparenza del testo stesso. Il lettore, secondo Flaubert, deve provare di fronte al dizionario dei luoghi comuni la medesima sensazione di disgusto che l’autore prova di fronte ai luoghi comuni prima che essi entrino a far parte del dizionario. Il luogo comune non dev’essere un fenomeno riscontrabile soltanto al livello di un metalinguaggio che analizza e giudica i messaggi altrui: deve essere espresso già al livello del linguaggio oggetto. Soltanto in questo modo, provocando nel destinatario il medesimo sentimento dell’emittente, sarà possibile, secondo Flaubert, comunicare effettivamente la stupidità, darne un’idea concreta e pragmaticamente efficace. “Occorre – scrive Flaubert – che nel corso di tutto il libro non ci sia una sola parola originale, di modo che, dopo averlo letto, non si osi più parlare, per paura di dire qualcuna delle frasi che vi si trovano”. Il risultato sarebbe insperato: ridurre il borghese al silenzio, impedire l’ulteriore proliferazione di idee ricevute, e ripristinare una sorta di coscienza linguistica che il non pensiero dei luoghi comuni ha da tempo soppiantato.

Se poi – problema di Paul Valéry e di Roland Barthes – lo sciocchezzaio finisce per diventare la maniera di se stesso, diviene cioè anch’esso ripetitivo e stupido, è perché si trasformano le condizioni sociali del sapere, letterario e non. Trasformazione che è stato Flaubert a richiedere con accorata insistenza.

Anomalia, obesità, Kitsch

La moltiplicazione infinita della stupidità segna il passaggio allo stadio successivo. Se Giufà traccia lo spartiacque tra spazio interno e spazio esterno della cultura, e se Bouvard e Pécuchet mostrano le incertezze e le défaillances di quel limite, la condizione postmoderna è caratterizzata della sparizione di ogni possibile alterità. È la perdita irrimediabile della distinzione tra oggetto e soggetto, io e mondo, scena e realtà, conscio e inconscio, a provocare il dilagare di una stupidità senza più senso o funzione. Mancando i criteri della selezione, ognuno sarà stupido per gli altri e per se stesso. Ma se tutti sono stupidi, nessuno lo è. È il paradosso dell’utopia che si è realizzata distrattamente o per caso: la sconfitta della stupidità coincide con la sua incontrastata vittoria. Non è chiaro se a scomparire sia stata la stupidità o l’intelligenza: è il dubbio che rende tragica la gioia, che produce ossimori e paradossi, che moltiplica apodittiche incertezze.

Ricompaiono trasfigurati gli elementi tipici delle storie di Giufà: il corpo, la carne, i sensi, la mescolanza infinita. Ma non si tratta più di un carnascialesco mondo alla rovescia. Tutt’altro: è il rovesciamento istituzionalizzato che ha perduto memoria di sé. Venuta meno l’era del politico, dove i contrasti sociali e intellettuali garantivano in negativo lo spazio dell’anomia, del luogo comune, subentra quella che Jean Baudrillard ha chiamato l’era del transpolitico: in essa vige l’anomalia, ossia una difformità senza conseguenze, senza più alcun carattere di sfida o di trasgressione. L’anomalia non è l’anormalità, non riprende in alcun modo lo spirito di ribellione più o meno esplicita che nell’era del politico era propria del folle, del sovversivo, dello stupido. L’anomalia non ha incidenza critica sul sistema, ma si limita a segnalare trasversalmente che qualcosa non va, che le regole del sistema sono pervase da logiche complesse, inesplicabili, perverse, stupide. Non è possibile indicare con sicurezza la stupidità in qualcuno o qualcosa semplicemente perché è la legge stessa a essere tale.

L’immagine emblematica della stupidità postmoderna è quella dell’obeso, che racchiude o rimuove l’articolazione flessibile della carne in un tutto unico, flessuoso, morbido, gommoso, rotondeggiante. “La stupidità – secondo Giuseppe Pontiggia – è sferica. Tutta la sua superficie è equidistante da un centro che rimane inaccessibile”. L’obeso non pensa o agisce, ma sopravvive a stento con la sua corazza di carne in un mondo che non è più, o non è mai stato, il suo. A questo proposito sempre Baudrillard ha indicato le masse oscene di corpi che si aggirano tragicamente contente di sé per le metropoli americane. Lì la smania di grandezza ha contagiato anche i corpi, che si mostrano pornograficamente in tutta la loro oscena presenza. Questa obesità è, dice Baudrillard, “affascinante” e paradossale perché segnala la sparizione del corpo, pura “forma informe” : “è come se il corpo non si opponesse più a un mondo esterno, ma cercasse di digerire lo spazio all’interno della propria apparenza”. L’obesità è “l’oblio totale della seduzione” poiché “sfugge in qualche modo alla classificazione sessuale, alla divisione dei sessi, mediante il carattere indiviso del corpo pieno”, ma soprattutto perché è al di là di ogni divisione tra naturale e artificiale, tra referenza e segno, tra visibile e invisibile. Ecco il corpo senza organi di Deleuze e Guattari: in America gli obesi sono al di là dello scandalo, assimilano la realtà e sono assimilati in essa, nessuno si stupisce al loro passaggio. L’eliminazione del teatro dell’erotismo porta alla “vertigine fredda della pornografia”: l’oscenità è, letteralmente, assenza di scena, arte di esibire ciò che è neutro, accoppiamento dello stesso con lo stesso.

La pornografia, lungi dall’esaurirsi nella sfera sessuale, è proprio questa invadenza dell’eccessività fine a se stessa nella sfera del sociale: è il continuo slittamento, l’impossibilità di trovare appigli, increspature o pieghe che permettano di risalire la china, di sfuggire alla stupidità generalizzata. All’oscenità dell’obeso corrisponde l’esibizione pacchiana di una coscienza e di un carattere che si vogliono a tutti i costi pieni di sentimento. È quella “dittatura del cuore” che secondo Milan Kundera è la forma attuale della bêtise. L’etica e l’estetica contemporanee, dominate dall’“immensa vitalità dei mass media”, sono per lo scrittore ceco irrimediabilmente Kitsch: “Il Kitsch è la traduzione della bêtise dei luoghi comuni nel linguaggio della bellezza e dell’emozione. Ci strappa lacrime di intenerimento su noi stessi, sulle banalità che pensiamo o sentiamo”. Se ai tempi di Flaubert la difficoltà di cogliere la bêtise era determinata dalla sua commistione con il sapere, adesso la stupidità ha invaso il mondo dei sentimenti, ha banalizzato la passione e gli affetti: non si tratta più di opporre buoni e cattivi sentimenti, ma di esibire il sentimento allo stato puro, di dimostrare a tutti i costi la sua sussistenza. Di contro all’idiozia insita in certi film hollywoodiani, che fanno del sentimento il fulcro di ogni rappresentazione della vita, Kundera pone l’arte del romanzo, unico linguaggio in grado di combattere l’inquietante dilagare del Kitsch. Così potremmo dire, oggi, il reality show è il trionfo tecnologico dell’emozione artificiale che ingloba dentro di sé un teatro della crudeltà il quale, popolarizzandosi, s’è banalizzato.

L’immagine che raccoglie, riunisce ed espone con emblematica inquietudine l’obesità, il Kitsch e la stupidità è senza dubbio quella offerta dall’opera pittorica di Fernando Botero. I personaggi dei quadri di Botero sono talmente grassi, obesi, sferici da trasformarsi nell’opposto, perdendo progressivamente la terza dimensione, appiattendosi. Per questa ragione, essi finiscono per snervare o annoiare lo spettatore: è l’effetto previsto della loro ossessiva, ripetitiva, triste piattezza che spegne anche quello sguardo che in un primo momento poteva guardarli con ammirazione. Gli obesi di Botero – ha scritto Sciascia – denotano traslatamente la stupidità; una stupidità per nulla comica o festante, in nessun caso carnevalesca e trasgressiva, ma, al contrario, dice Sciascia, “moderna”, spenta in un mondo omologato e privo di dimensioni. Si tratta di anime morte, “nel senso che dicono della morte dell’anima”, “elementi passivi di un mondo uniformemente e imperscrutabilmente governato dal prodotto, dalla confezione, dal bell’e pronto”. La gioia e il dolore sono in essi del tutto assenti; l’unica loro forma è la sgradevolezza surreale, eccessiva, eppure terribilmente rappresentativa della realtà di oggi.

La parabola si chiude così, nello stravolgimento epocale della stupidità, che perde le caratteristiche dell’alterità e della trasgressione (Giufà), del luogo comune e della bêtise (Bouvard e Pécuchet), per confondersi nel magma indifferenziato del contemporaneo. La solarità giocosa dell’eroe sciocco e fortunato, la presunzione stereotipata degli pseudointelligenti, si trasformano nel predominio monocorde del Kitsch e della pornografia dei sentimenti. Alla piattezza del linguaggio di Giufà (luogo creativo dove ogni azione appariva possibile) e alla ripetizione consolatoria dei luoghi comuni (regno di un sapere parcellizzato e inutile) si è sostituita l’ipertrofia sublimata dei messaggi sociali, la cui proliferazione arriva a cancellare ogni possibile forma di comunicazione. La stupidità predomina perché nulla le si oppone. Ogni acutezza rimbalza tristemente nell’eccesso di una grassezza incurante delle smagliature del mondo.


Tormenti

Il faut cultiver notre jardin

(Voltaire)

Ragione e sentimento

Alla voce stupidità il Devoto-Oli dice soltanto: “indisponente sciocchezza”. E in stupido leggiamo: “sciocco, ottuso, soprattutto in espressioni che presuppongono un tono irritato”. L’apparente tautologia delle definizioni apre un piccolo universo di senso ricco di interessanti interrogativi. Perché la stupidità è indisponente? da che cosa deriva quel tono irritato che sembra accompagnarsi necessariamente a essa? e in che termini essa è legato al mondo delle emozioni? sino a che punto, quindi, la stupidità, oltre che alla ragione, entra in rapporto con l’emozione?

In senso stretto, parlare della stupidità come di una passione può essere una forzatura che corre il rischio di svalutare un’indagine sulla stupidità e una teoria delle emozioni. Nessuna delle tassonomie sulle passioni di cui è ricca la storia del pensiero occidentale annovera al suo interno la stupidità. Si potrebbe pensare forse a un grumo di passioni pure che possono essere accostate all’imbecillità per motivi e in modi diversi: lo stupore, innanzitutto, legato alla stupidità da qualcosa di più che una radice linguistica comune; ma anche la vanità e l’orgoglio, spesso considerate cause prime ed evidenti segnali di mancanza di intelligenza; e poi ancora l’indignazione, l’inquietudine, l’avversione, la pietà, conseguenze dirette dell’esibizione della altrui cretineria. Ma una ricognizione un po’ più approfondita di queste passioni conserverebbe quasi nulla dell’essenza della stupidità: essa sarebbe soltanto il risultato di un incrocio casuale e temporaneo di forze psicologiche e sentimentali per nulla omogenee e in alcun modo omologabili tra loro.

È più probabile invece che, se la cretineria abita il mondo della cosiddetta irrazionalità, è perché si pensa la razionalità come un banale strumento di calcolo, una funzione mentale che produce concetti, giudizi e sillogismi. Comprendere a fondo il carattere passionale della stupidità significa invece proporre una visione non dogmatica della ragione. Mettiamola così: la stupidità è quel fenomeno che, provocando imbarazzi e vertigini definitorie, agevola un ripensamento profondo dell’idea consolidata e in fin dei conti mitica che vuole la ragione e il sentimento come opposti dialettici.

Punti di vista

Esistono tre differenti posizioni intellettuali generalmente assunte nei confronti dell’alterità ebete. Se pure molto diverse fra loro, possono essere tradotte in vario modo. Possono essere ricondotte per esempio ai tre periodi storici individuati nel capitolo precedente, ma non sono esattamente la stessa cosa. Ci faranno da guida in questa tormentata ricognizione dell’universo di affetti e concetti che con la scemenza ha molto a che vedere.

Innanzitutto, emergono innumerevoli rappresentazioni della stupidità. La letteratura, ma anche il teatro, il cinema, la televisione, le arti sono ricchissime gallerie di personaggi caratterizzati come stupidi, così intesi a prescindere dagli intenti più o meno artistici di chi ne parla. La letteratura sa che cos’è la stupidità. Anzi, probabilmente, essa è l’unico campo in cui lo stupido è pienamente tale, personaggio costruito al fine di mostrare la mutevole presenza della cretineria nel mondo. Ma si tratta quasi sempre di casi in cui lo stupido è riconoscibile poiché è inserito in un fascio di relazioni socialmente e ideologicamente determinate. Il dottor Watson, poniamo, mostra rispetto alle genialità deduttive di Sherlock Holmes una profonda incapacità: ma il secondo è rispetto al primo visibilmente impacciato e incapace in molte occasioni della vita quotidiana. Chi è lo stupido tra i due? Ancora: se Homais è l’esempio tipico del gretto provinciale agli occhi di Emma, le fantasticherie della signora Bovary non risultano meno insipide per il lettore. E se Bouvard e Pécuchet danno mostra di una proverbiale ingenuità, i luoghi comuni positivisti possono far parte di un vero e proprio dizionario. La Recherche proustiana, peraltro, è una interminabile galleria di stupidi: il dottor Cottard, il maître di Balbec, Lengrandin, i Verdurin, i Guermantes, ma anche in certe occasioni Swann, e persino, molto spesso, il protagonista. Tutti esempi che fanno intendere come l’immagine della stupidità offerta dalla letteratura, se ci si accosta al contenuto immediato delle singole opere, è estremamente variegata al suo interno. Non si dà stupidità se non in un contesto culturale già investito di valori che hanno altrove la loro origine. E la stupidità non è un blocco monolitico, un fenomeno unico e indivisibile, ma un’etichetta che si applica volta per volta a personaggi e situazioni in base a complessi giochi di specchi, identificazioni, allusioni, proporzioni.

Al di là delle rappresentazioni letteraria e artistica, quando la stupidità è oggetto di una riflessione di tipo filosofico, viene inevitabilmente messa in questione, criticata e respinta, esorcizzata attraverso un discorso preconcetto che tende a esibire il suo essere altro rispetto a ciò di cui sta parlando. È qui che si individuano le passioni dell’indignazione e del disprezzo di cui si diceva. Basti pensare ai toni assunti da grandi pensatori come Pascal o Montaigne, i quali, se per certi versi mettono a fuoco il senso della stupidità moderna, lo fanno sempre dall’alto di una posizione fieramente individualista, e felicemente intellettualista. Toni che in termini diversi tornano per in autori molti diversi come Gustave Flaubert, Léon Bloy, Martin Heidegger, Roland Barthes o André Glucksmann. Emerge a questo proposito il legame molto stretto tra la bêtise e la sua manifestazione linguistica, i luoghi comuni flaubertiani. Da cui l’estrema difficoltà dell’analisi: “Appena si diventa analisti del linguaggio che ci circonda, – scrive Barthes – la bella esteriorità dello storico non è più possibile: io sono coinvolto nel linguaggio che pretendo di osservare, e il luogo comune, prima colto negli altri con ripugnanza, e di cui sto per parlare, fa ritorno su di me, mi conquista, obbligandomi a portare sempre altrove la mia parola per sfuggirla: non è più un oggetto di studio, è una forza subdola con la quale combatto”. In altre parole, ogni discorso sulla stupidità, proprio perché compromesso con un rigetto isterico del luogo comune, finisce per restare tragicamente sterile. Parlare della stupidità significa ostentare la propria intelligenza: ma ostentare la propria intelligenza è un innegabile segnale di stupidità. Ne deriva una sorta di vertigine fascinatoria, in un certo senso costitutiva di ogni tentativo di accostarsi al mistero della cretineria: “dell’idiozia – scrive ancora Barthes – avrei diritto di dire tutto sommato questo: che mi affascina. La fascinazione sarebbe il sentimento giusto che deve ispirarmi l’idiozia (se arriviamo a pronunziarne il nome). Essa mi prende”. E il rischio di questa vertigine, previsto in anticipo e in certi casi perseguito, è quello del silenzio, della parola elusa, rimossa, dell’utopia di una lingua da cui siano cancellate tutte le connotazioni, i doppi sensi, le incrostazioni ideologiche. Unica possibile soluzione, presente in molti di questi autori, è quella di aggirare i topoi della stupidità trasfigurandoli nel testo letterario: “Il poeta – scrive Musil – ha il permesso di raccontare a nome dell’umanità che il pranzo è stato di suo gusto, oppure che fuori c’è il sole. [...] Con l’aiuto del poeta, l’umanità ha già raccontato un milione di volte le stesse storie e le stesse esperienze, variando solo le circostanze, senza che da ciò le sia venuto alcun progresso, né una maggiore penetrazione del suo significato”. A differenza del discorso filosofico, e ancor di più di quello scientifico, il testo letterario (in generale, estetico) mette in gioco un sapere e un saper-fare in grado di trattare la stupidità, lavorandola ai bordi, accerchiandola, mettendola in condizioni di significare.

Diametralmente opposta è la prospettiva che potremmo chiamare erasmiana, di cauto elogio, o nietzschiana, di piena condiscendenza. È possibile, in termini più metaforici che letterali, intendere la stupidità in un’accezione positiva caricandola di valori palesemente trasgressivi. Essa si collega, in senso antropologico, alle tematiche del comico, del carnevale e in ultima analisi della follia. Da questo punto di vista la bêtise viene intesa non più come una deficienza intellettuale o un’incapacità pratica, ma come una indiscriminata moltiplicazione di azioni che si rifanno a comportamenti contraddittori tra loro e alternativi alla società. Il personaggio popolare di Giufà, lo si è visto, è in questo contesto esemplare e rimanda a modelli archetipi preesistenti. Il trickster, probabilmente, è uno stupido; Dioniso altrettanto. Di fronte allo smagliarsi delle reti logiche e all’impoverirsi delle norme sociali, la stupidità non ha più un opposto, non contrasta con nulla. Accade così che, a seconda dei principi e dei valori assunti in circostanze particolari, persone e fatti differenti vengano in egual misura additati come stupidi. L’arbitrarietà dell’insulto si sostituisce a quella della legge che il cretino festante ha provveduto a rimuovere.

Le difficoltà definitorie tracimano ogni possibilità di definizione. È questa, a prima vista, la sconsolata posizione assunta da Musil, quando si mostra scettico sulla possibilità di garantire alla stupidità un referente certo e un significato condivisibile. Ma questo scetticismo apparentemente insormontabile può essere superato se si cambiano i termini del problema: se, cioè, si supera la dialettica in fin dei conti ideologica tra la stupidità e la cosiddetta intelligenza. È quel che s’afferma in un passo dell’Uomo senza qualità: “se di dentro la stupidità non somigliasse straordinariamente all’intelligenza, se di fuori non si potesse scambiare per progresso, genio, speranza, perfezionamento, nessuno vorrebbe essere stupido e la stupidità non esisterebbe. O almeno sarebbe molto facile combatterla. Purtroppo invece essa ha qualcosa di singolarmente simpatico e naturale. [...] Non esiste una sola idea importante di cui la stupidità non abbia saputo servirsi, essa è pronta e versatile e può indossare tutti i vestiti della verità. La verità invece ha un abito solo ed è sempre in svantaggio”.

Solarità e falsa intelligenza

Da qui, proposta dallo stesso Musil, l’importante distinzione della stupidità in due tipi fondamentali, opposti tra loro ma interrelati, che ancor oggi sembra particolarmente utile. Il primo tipo è quello della stupidità “onesta e schietta”: essa “è un po’ dura di comprendonio. È, come si dice, ‘lenta a capire’. È povera di idee e di parole, e maldestra nel loro uso. Predilige le cose abituali, perché, ripetendosi spesso, s’imprimono saldamente nella sua memoria, e lei, quando ha afferrato qualcosa, non ha molta voglia di lasciarselo portare via troppo in fretta”. Si tratta di una stupidità solare che “pensa in modo impreciso” e che “si attiene di preferenza a ciò che può sperimentare attraverso i sensi”. È potremmo dire, la sciocchezza del dizionario, ovvero una stupidità senza turbamento altrui, ciò che di essa intendiamo alla lettera, prima di qualunque attualizzazione o metaforizzazione nel discorso concreto. Il secondo tipo è del tutto differente. Musil, non senza ironia, la definisce “stupidità intelligente”. Come la prima è “onesta”, questa è “sostenuta”. Non è “una vera mancanza di intelligenza” : è “piuttosto un fallimento dell’intelligenza, che si è arrogata dei compiti che non erano i suoi”. Si tratta della “vera malattia della cultura” che significa “incultura, falsa cultura, cultura che si è costituita su false basi, sproporzione tra il contenuto e il vigore della cultura”. Inutile dire che se nel caso della stupidità solare Musil non nasconde le sue simpatie, arrivando ad accostarla al “genio” della poesia, nel secondo caso si accumulano tutti gli inconvenienti più evidenti della stupidità, considerata come una malattia “pericolosa per la vita stessa”; pericolosa anche perché “contribuisce a vivacizzare la vita spirituale, ma soprattutto la rende incostante e sterile”.

Chance giardiniere

Un’utile esemplificazione della dicotomia musiliana può essere la storia di Being There, un romanzo di Jerzy Kosinsky da cui è stato tratto il noto film di Hal Ashby Oltre il giardino. È la storia del giardiniere Chance, un personaggio triste e curioso che possiede due sole capacità: la cura delle piante della villa nella quale è nato e cresciuto per molti anni senza mai uscirne; una conoscenza spiccata dei programmi televisivi, ai quali assiste con rapimento assoluto. All’ambiente del giardino, dominato dai ritmi sempre uguali delle stagioni e dalle forze degli elementi naturali, si sovrappone l’ostentata artificiosità dei messaggi della televisione. Questo curioso apprendistato fa di lui un perfetto stupido solare, che, fra l’altro, accompagna il puro piacere del guardare lo schermo a lunghi, imbarazzanti silenzi nei confronti degli altri. Quando parla, fa uso di espressioni scarne e minimali, primitive, referenziali. Tali espressioni sono pescate a caso in un lessico televisivo palesemente fuori contesto, o, più spesso, hanno come unico possibile mondo di riferimento il minuscolo universo e la scarna esperienza del giardino. La vita di Chance, sorta di Giufà postmoderno, è dominata dai ritmi naturali di una specie di caos originario: “Quello che di particolarmente bello aveva il giardino – si legge nelle prime pagine del romanzo – era che, in ogni momento, sostando sugli angusti sentieri, o tra gli alberi e i cespugli, Chance poteva mettersi a girare senza meta, senza mai sapere se andava avanti o indietro, senza poter stabilire se era in vantaggio o in svantaggio rispetto ai giri già fatti. Tutto quel che contava era muoversi nel proprio tempo, come le piante che crescevano”. Giardino e giardiniere, del resto, si confondono e si imitano a vicenda: “Chance doveva lavorare nel giardino, dove si occupava delle piante e delle erbe e degli alberi che serenamente vi crescevano. Era come uno di loro: muto, generoso [...] il molle humus del suo cervello, il terreno dal quale spuntavano tutti i suoi pensieri, era stato distrutto per sempre”. Al continuum indifferenziato della natura si accavalla l’ordine elementare delle assiologie televisive: “Tutto, alla Tv, era confuso e ingarbugliato, ma anche ridotto ai termini più semplici: notte e giorno, grande e piccolo, fragile e resistente, duro e molle, caldo e freddo, vicino e lontano”. Sicché “in questo mondo colorato della televisione, il giardinaggio era il bianco bastone di un cieco”. In altre parole, se l’esperienza del giardino fornisce a Chance una minima ma continua rassicurazione sulla permanenza delle cose e degli esseri, il mondo televisivo gli offre quei modelli di comportamento, quei programmi d’azione a cui appigliarsi per risolvere, volta per volta, ogni problema che inaspettatamente gli si possa presentare.

Costretto, dopo la morte del padrone, a introdursi in un mondo a lui perfettamente ignoto, nel mondo, diciamo così, vero, Chance, in una condizione di persistente straniamento, ha un riscontro inaspettato. Affascina uomini d’affari e politici, si impone all’attenzione della stampa nazionale e internazionale, conquista le signore (e i signori) dell’alta società; viene infine proposto come candidato alla Presidenza degli Stati Uniti. Se l’incontro con EE, la giovane e affascinante moglie del finanziere Benjamin Rand, è dovuto a un casuale incidente d’auto, il successo di Chance si basa su un sistematico equivoco di fondo. All’interno di un universo comunicativo dominato da un’eterogeneità dei messaggi che finisce per cancellare ogni reale informazione, il linguaggio denotativo e referenziale di Chance perde la piattezza e la letteralità che lo contraddistinguono e viene interpretato in senso metaforico dai suoi interlocutori. Alla stupidità solare del protagonista corrisponde così la stupidità intelligente dei suoi interpreti, i quali fanno slittare il discorso di Chance su una sorta di illimitata deriva del senso. Se lui, come ripete più volte il testo del libro, non capisce gli altri, questi ultimi a loro volta non capiscono che lui non capisce, e sono costretti a cercare un senso, sia pure improbabile, recondito, allegorico alle sue affermazioni.

Il primo equivoco si ha già a proposito del suo nome: Chance, che non ha un’identità legale, si presenta a EE semplicemente come “Chance, il giardiniere” (in inglese: Chance the gardener): Solo che lei, fraintendendo, ripete: “Chauncey Giardiniere” (ingl: Chauncey Gardiner), trasformando l’epiteto in un vero e proprio cognome. Ma la base di tutti i futuri fraintendimenti è il primo colloquio tra Chance e il suo ospite Benjamin. Alle domande di quest’ultimo circa la sua occupazione, Chance risponde: “Non è facile, signore, trovare un posto adatto, un giardino, dove poter lavorare senza interferenze e crescere con le stagioni”. E Ben replica: “Un giardiniere! Non è la perfetta descrizione di quello che è un vero uomo d’affari? [...] Sì Chauncey, che metafora eccellente!”. Tutto quel che ha a che fare con il giardino – sorta di riserva di topoi da cui Chance può trarre argomenti per ogni suo discorso – verrà sistematicamente considerato una metafora del mondo degli affari, della finanza, dell’economia, persino della politica e delle strategie diplomatiche internazionali. Non solo: la “stanza al piano di sopra” dove abitava il vecchio padrone di casa di Chance alluderà alla prossima morte di Ben; le “sedie che si toccano” sotto il tavolino indicano l’intesa politica tra Stati Uniti e Unione Sovietica; e persino il “mi piace guardare”, più volte ripetuto da Chance a proposito della Tv, verrà inteso come l’indubbio segnale di un impudico voyeurismo.

Così Chance, grazie a una catena casuale di equivoci, ha uno straordinario successo, di modo che il suo discorso possiede, per quanto involontariamente, un fortissimo potere retorico. La stupidità solare si presenta agli occhi degli stupidi intelligenti come prontezza di spirito, acutezza d’ingegno, senso pratico, saggezza, sapienza, insomma: assoluta intelligenza. Chance incanta con la sua presunta naturalezza, fa mostra di precisione ed essenzialità mediante le sue espressioni quasi formulari, sembra nascondere un’imprevedibile profondità, un invidiabile equilibrio e una sorta di atarassia sessual-sentimentale dietro i suoi ambigui silenzi.

Questi silenzi sono ovviamente resi in modo diverso nel romanzo e nel film. Se nel caso del romanzo il narratore penetra nell’universo interiore del personaggio (vedendo e sapendo più di lui) e mostra al lettore gli spaventosi vuoti intellettivi del suo carattere, il film fa leva più che altro sulla mimica del protagonista, che manifesta in negativo quei vuoti intellettivi, moltiplicando la dose d’ambiguità. Le forme della narrazione sono costitutive di un pensiero della stupidità. Il romanzo di Kosinsky, ha osservato Blazina, “concede al lettore una posizione di vantaggio: gli mostra ciò che gli interlocutori di Chance non possono sapere e su cui si interrogano continuamente” e, per questa ragione, l’intera vicenda è più che altro un gioco di fraintendimenti. Nel caso del film di Ashby le cose sono diverse: se per certi versi lo spettatore è in grado di riconoscere l’equivoco, al contempo l’accento viene posto, più che sul trucco, “sui punti di forza che lo rendono efficace”. “Dell’effetto Chance il regista svela il meccanismo superficiale dell’inganno, ma lascia attiva la produzione. Lo spettatore non cade nell’illusione ottica che sovrappone a Chance the gardener il misterioso, astuto e potente Chancey Gardiner, ma è indotto ugualmente a leggere in questa sostituzione un senso e un fondo di verità: profondità, genio, successo sociale da un lato e stupidità dall’altro non scambiano forse solo occasionalmente le parti, qui, per errore; confinano, e anche, talvolta, coincidono”.

Insomma, ciò che da Chance viene proferito in termini denotativi si trasforma agli occhi degli interlocutori in affermazione sentenziosa, carica di sensi altri, talvolta misticheggiante, che è poi riconosciuta, al livello del lettore-spettatore, come un vero e proprio luogo comune. La stupidità viene generata in un elementare gioco linguistico, quello dei disturbi della comunicazione di fronte al proliferare dei doppi sensi. Di conseguenza, è su un secondo piano interpretativo che si riconoscono i due tipi di stupidità (quella onesta di Chance e quella ostinata degli altri), che si distribuiscono giudizi e valori (simpatie verso il giardiniere, avversione verso il resto del mondo), che si caricano i messaggi di una marca spiacevole, di un marchio infamante, quello del luogo comune. Si comprende così l’affermazione di Musil: “In un autentico luogo comune v’è certamente più umanità che in una nuova scoperta”.

Il punto di vista dell’imbecille

Secondo Lotman e Uspenskij il problema della stupidità è in un certo senso costitutivo delle scienze umane e di ogni studio dei processi di apprendimento. Nello studio della comunicazione e della conoscenza acquista un posto di primo piano, infatti, non tanto la regolarità del flusso discorsivo, il perfetto funzionamento dei sistemi di segni, ma i disturbi, le discrasie, le incomprensioni. Si pensi alla cibernetica, le cui procedure hanno ribaltato molte opinioni comuni sul funzionamento dei meccanismi comunicativi. “Agli occhi del profano – scrivono i due studiosi – di solito suscita stupore la capacità che un automa ha di ‘capire’. Per la scienza ha più valore ciò che l’automa ‘non capisce’ [...]. In altre parole, il punto di riferimento nella descrizione diventa, se così si può dire, il punto di vista dell’imbecille, coi suoi limiti caratteristici nelle possibilità di comunicazione effettiva e multiforme e, quindi, in primo piano emerge il problema della stupidità”. Così come le scienze umane hanno posto la questione del rapporto io-altro nelle loro descrizioni di società e culture differenti da quelle dell’osservatore (interessandosi con particolare attenzione al punto di vista dell’altro), allo stesso modo lo studio della comunicazione deve costruire una sorta di prospettiva invertita attraverso cui esaminare quei meccanismi del senso comune che, proprio perché sotto gli occhi di tutti, restano i più oscuri. Tutti sanno parlare senza per questo conoscere le regole che mettono in pratica: è questa la constatazione di base da cui ogni linguista prende l’avvio nelle sue ricerche.

La stupidità, per Lotman e Uspenskij, non è dunque un qualsiasi oggetto da poter analizzare attraverso le categorie delle discipline umane e sociali. Se così fosse si correrebbe il rischio di ricadere nella prospettiva della scienza positivista che considerava la stupidità come un fenomeno psicologico di deviazione dalle norme. Essa è invece una specie di angolo visuale privilegiato dal quale osservare i fenomeni culturali nel loro complesso. In questo modo il campo di analisi delle scienze umane subisce forti modifiche, l’intero sistema culturale delle opinioni ha bisogno di ulteriori conferme (o disconferme). Di fronte al problema della stupidità anche l’immagine canonica dell’intelligenza viene meno: i due aspetti vanno esaminati nella loro opposizione funzionale e nelle loro conseguenti manifestazioni particolari.

Della stupidità artificiale

A conferma di questa idea basti pensare agli ormai trapassati studi nel campo dell’intelligenza artificiale, alla ricerca sulle possibilità di costruire cervelli elettronici in grado di simulare l’intelligenza umana in tutte le sue facoltà, da quelle linguistiche a quelle affabulative, da quelle calcolatrici a quelle variamente congetturali. Tra i possibili effetti teorici di quelle ricerche stava certamente un forte mutamento delle idee tradizionali proprie alle teorie della conoscenza e della comunicazione. È noto infatti come sia possibile fornire al computer istruzioni per eseguire calcoli molto complessi a una velocità impossibile per un’intelligenza umana, per prevedere in pochi secondi un numero infinitamente alto di combinazioni matematiche complesse, per giocare a scacchi con la maestria dei migliori giocatori del mondo. Ma, al contempo, si hanno grosse difficoltà nel momento in cui gli si vuol far raccontare una fiaba che abbia una coerenza interna e un filo logico ricostruibili da un bambino di pochi anni. Bisognerebbe immettere nella macchina un numero talmente alto di dati o informazioni sulla vicenda, prevedere in anticipo una grande quantità di variabili contestuali, psicologiche o circostanziali da rendere del tutto inutile, se non addirittura controproducente, l’ausilio della macchina. Lo stesso accade quando si vuol usare il computer per comprendere il significato di una metafora, per riconoscere la differenza tra i timbri di voce, per transcodificare un messaggio parlato in uno scritto, o viceversa. In altri termini, quelle operazioni che per un’intelligenza umana media richiedono secondo l’opinione comune un grosso sforzo intellettivo sono le più facilmente simulabili da una macchina. Esse hanno bisogno di un numero minore di sequenze di azioni e di relative combinazioni rispetto ad altre operazioni – come per esempio la comprensione linguistica – che risultano notevolmente più complesse da ricostruire in laboratorio, e dunque da conoscere sino ai loro più elementari meccanismi di funzionamento. Nonostante la notevole complessità già raggiunta dagli attuali computer, resta il fatto che essi sono ben lontani dal poter, al momento attuale, garantire lo svolgimento di tutte le possibili funzioni della mente umana. Il problema – ha spiegato Marvin Minsky – sta nel fatto che la macchina non è in grado di far proprio quel comune buon senso che spesso viene considerato segnale di intelligenza: “Perché – si chiede – siamo riusciti a far fare ai programmi cose da adulti prima di riuscire a far fare loro cose da bambini? La risposta può sembrare paradossale: gran parte del pensiero adulto ‘esperto’ è in realtà più semplice di quello richiesto dai comuni giochi infantili. [...] Quello che la gente chiama buon senso è in realtà più complesso di gran parte delle competenze specialistiche che tanto ammiriamo”.

Ora, al di là dell’importanza che una simile constatazione conserva nel campo della cibernetica, il computer sembra essere, come una volta ha scritto Luigi Malerba, “un cretino velocissimo”. La velocità che esso riesce a raggiungere nell’elaborare i suoi risultati (tipica, per l’opinione corrente, dell’immagine dell’enfant prodige o del genio) non può essere considerata, in senso stretto, vera e propria intelligenza, ma, al contrario, stupidità: stupidità artificiale. All’inverso, ciò che generalmente viene inteso come ovvio – narrare una storia, interloquire in una conversazione, tirare a indovinare – acquista un nuovo senso e ha bisogno di un profondo ripensamento che temperi, in ultima istanza, il giudizio di valore espresso implicitamente dall’opinione comune. Ancora una volta il problema della stupidità si pone al centro di questioni di ampia rilevanza teorica. Così come la stupidità del dizionario si definisce se e solo se essa è accompagnata da un tono infastidito del discorso, allo stesso modo la cosiddetta intelligenza presuppone, nel codice della lingua, un apprezzamento positivo. Intelligenza e stupidità giocano con una loro costitutiva ambiguità che il pensiero simulato dalla macchina può contribuire a rimuovere.

Musil, che sembra molto distante da un campo di interessi come quello dell’intelligenza artificiale, ha contribuito all’eliminazione di questo genere di superstizioni attraverso la sua idea delle ‘stupidità parziali’ : si può essere incapaci in certi campi, capaci in altri. Il poeta, sostiene lo scrittore, non sa nulla di matematica, è “cretino” di fronte a operazioni molto semplici che un qualsiasi bambino saprebbe affrontare, ma non per questo può essere definito stupido tout court. Anzi proprio a causa di queste avversioni egli acquista il carattere del “genio”. Ora, al di là della concezione tardo romantica dell’artista platealmente presente in quest’osservazione, è facile notare come i cosiddetti ‘sistemi esperti’, ovvero quei programmi di computer capaci di operare sulla base di competenze specifiche molto complesse ma settoriali, possano in qualche modo essere intesi come esempi concreti di stupidità parziali, e che, inseriti a decine in una stessa macchina, costituiscano pezzo per pezzo un’intelligenza ordinaria a suo modo completa. “Per essere considerati ‘esperti’ – spiega Minsky – si deve possedere una grande quantità di conoscenze di natura relativamente omogenea. Invece il ‘buon senso’ di una persona ordinaria necessita di una varietà molto più ampia di tipi di conoscenze, e ciò richiede sistemi di gestione più complicati”. La differenza tra competenza, poniamo, scientifica e capacità cosiddette normali non sta in una questione di quantità di informazioni acquisite e di regole adoperate, ma nella qualità delle operazioni eseguibili. Se l’esperto ha molte conoscenze ma un solo modo per gestirle, la persona dotata di buon senso vanta un minor numero di conoscenze ma possiede molti tipi di esperienza che sa far giocare tra loro. Come dire che, a illustrazione dell’intuizione musiliana, l’apparato del cervello umano, nel suo insieme strumento di calcolo e di ragionamento, diviene, una volta scomposto nei suoi fattori semplici, un ammasso informe di inutili cretinerie. Se il sistema complesso delle connessioni permette comportamenti sensati, dunque intelligenti, le sezioni locali della rete cerebrale, proprio perché prive di una visione complessiva delle cose, saranno inevitabilmente stupide. L’intelligenza è il prodotto di infinite stupidità.

Al di là degli effetti paradossali di questo ragionamento, sembra indubbio che gli studi sull’intelligenza artificiale, ridimensionando la dialettica tra intelligenza e stupidità, abbiano portato a un rimescolamento delle carte in gioco, contribuendo a eliminare una grande quantità di pregiudizi intellettualistici consolidati. Tra intelligenza e stupidità non c’è un’opposizione ontologica fissa e immutabile, definibile una volta per tutte, ma un continuo scambio o inquinamento dei campi di azione e di passione. Che era poi quanto avevano intuito Lotman e Uspenskij. Si tratta perciò, tenendo ferme le conclusioni dei due studiosi, di spiegare le operazioni della stupidità in quanto tale e i luoghi in cui avviene questo inquinamento di funzioni e relativi valori con il suo opposto: l’intelligenza.

Una rete di scemi

Tuttavia, si dirà, il problema non è più il computer in sé, quell’aggeggio elettronico che prova a emulare capacità eminentemente umane come il linguaggio o la conoscenza. Il dilemma della cosiddetta intelligenza artificiale s’è spostato altrove: s’è dislocato in internet, in quella rete planetaria che tutto risucchia e tutto rilancia, riplasmando qualsiasi dato e ogni processo della nostra esperienza, ivi comprese le performance più o meno sceme che giornalmente pratichiamo, e le presupposte abilità che con ciò mostriamo di (non) possedere. È la rete, come qualcuno ha sostenuto, che ci rende stupidi? oppure si tratta del solito medium che, estendendo le abilità della mente e le prassi del corpo, ci traduce in linguaggi e discorsi di cui non possediamo le coordinate formali? quanto ha senso invece ostinarsi a glorificare quell’intelligenza collettiva, o connettiva, rappresentata appunto da internet che ci libererebbe da molti fardelli dell’esistenza materiale e da molti noiosi compiti della quotidianità? Proviamo a rispondere gradatamente a questi interrogativi.

Va ricordato come il computer non sia più un semplice calcolatore, un cervello elettronico com’era nei tempi eroici di HAL9000 o in quelli pop del PC da scrivania, ma si configuri semmai come un gestore di applicazioni molto diverse fra loro, le quali stanno riplasmando non solo l’universo mediatico ma più in generale le forme della nostra esperienza quotidiana e sociale. Una volta, c’era la cultura di massa, figlia di quei mezzi di comunicazione che si rivolgevano a un pubblico indistinto; era l’epoca dei mitici media, i cui effetti economici, sociali, politici sono stati studiati da ricercatori e filosofi. L’idea era semplice: ogni medium (giornali, radio, cinema, tv) esprime contenuti diversi a partire da proprie specifiche capacità espressive (parole, immagini, suoni) rivolgendosi a persone con saperi dissimili. I media sono più o meno popolari a seconda del linguaggio che usano; la società s’articola sulla base del medium che ciascun suo gruppo predilige. Ebbene, tutto questo non c’è più, o quantomeno non c’è più allo stesso modo. Come ha spiegato Lev Manovich, l’affermarsi a tutto campo del computer ha scompaginato l’assetto culturale delle nostre società: rompendo gli argini fra i mezzi di comunicazione, elaborando nuovi strumenti di gestione delle informazioni, nuove possibilità artistiche. I cosiddetti new media (Internet, CD rom, social network, DVD…), da questo punto di vista, non sono tecnologie originali che s’aggiungono al parco macchine dei media di massa. Se sono nuovi non è per età ma per altre ragioni: legati all’informatica, essi possiedono la capacità di reinventarsi di continuo, producendo non contenuti innovativi ma forme originali per trasmetterli. Mettere in discussione gli assetti culturali non è più il gesto dell’artista d’avanguardia ma la missione costitutiva del computer o, meglio, della sua anima segreta: il software. Oggi, scrive Manovich, la cultura, le arti, la musica, la comunicazione individuale e collettiva non sono più legate all’hardware ma ai software. Grazie ai suoi ‘applicativi’, perennemente aggiornati dalle aziende produttrici e modificabili dagli utenti, il computer non è più un medium ma un meta-medium: simula tutti i precedenti mezzi di comunicazione, ne aumenta le capacità, trasformandoli in qualcosa di assai diverso. Esistono software per fare fotografia, musica, cinema, televisione, informazione, grafica, giochi interattivi ecc... Anzi, senza di essi nessuna di queste operazioni è più pensabile: ne sono diventate dipendenti, e sono cambiate.

E con esse, siamo noi a esser cambiati: a esser diventati al tempo stesso più furbi, più capaci e più stupidi. Scrivere al computer non è tanto simulare l’operazione di scrivere a macchina quanto poter fare molte più cose con un documento testuale: visualizzarlo con strutture diverse, scorrerlo avanti e indietro, aggiungere e togliere pezzi, ricercare parole o frasi in un batter d’occhio etc. Stessa cosa per la macchina fotografica digitale, che non è la riproduzione informatica di quella meccanica ma un aggeggio con il quale, per esempio, possiamo ricevere subito dopo lo scatto l’approvazione degli astanti o modificare le immagini. Per non parlare di manovre molto più complesse come la grafica animata, la composizione musicale, le interazioni postali o il disegno d’architettura. Tutte queste azioni, fra l’altro, si intrecciano fra loro. Se prima agivamo in domini separati (scrivere o fotografare o comporre…), oggi tutto ricade nello stesso file, che può essere in ogni momento cambiato da molteplici utenti a partire dal software che lo ha prodotto. L’interattività non è solo fra persone ma anche fra tecnologie, le quali pensano con noi, per noi, più di noi. Occorre rendersi conto, sottolinea ancora Manovich, che non viviamo più in un universo mediatico ma in una cultura del software, nel bene come nel male. Sono i software a predisporre e imporre i modelli della comunicazione e dell’espressione artistica. Modelli a partire da cui, poi, ognuno di noi genera i contenuti che vuole, credendo d’essere originale. Se così non fosse, non accadrebbe che da quando esiste Power-point tutte le comunicazioni ai convegni abbiano la stessa struttura; che da quando s’è diffuso Autocad tutti gli edifici ricorrano alle medesime soluzioni progettuali; o che da quando esiste iPhoto tutti gli album di fotografie seguano la stessa sequenza. Cosa che vale anche per i cartoni animati, gli effetti speciali nei film, le melodie musicali, i giochi elettronici, i social network. Il problema è che, di questi software che ci dominano e forse ci costruiscono, sappiamo molto poco (chi è l’autore di Office, di Photoshop, di Acrobat?). Nessuno se ne occupa in termini antropologici, lasciando agli informatici uno spazio d’azione che non appartiene loro, e che essi gestiscono, controvoglia, con estrema difficoltà. Come dire: lasciamo perdere la televisione e i suoi esiti pasticciati, e occupiamoci di capire perché, scrivendo con Word, finiamo tutti per dire le stesse cose. Sta in questo, forse, l’esito stupido nel computer, in questo lungo giro al tempo stesso teorico e pratico che dalla sofisticatezza di una macchina all’avanguardia ci ha portato alle pratiche sociali diffuse cui essa, peraltro nolente, ha dato luogo, attraverso quel dominio dei software su cui nessuno, ancora, dice granché.

Da qui alla rete il passaggio è tanto rapido quanto obbligato. Dai laboratori fantascientifici dove i cervelli elettronici disponevano di molteplici ambienti e dalle algide scrivanie-cruscotto di ciascuno di noi, le tecnologie informatiche si sono trasferite su internet, lasciandoci in mano non un pugno di mosche ma qualcosa, in fondo, di molto simile: minuscoli aggeggi dal glamour design che ci illudono di guidarle, tali tecnologie; mal nascondendo il fatto che è la rete, nella sua sofisticata complessità e puntigliosa ramificazione, a costituirci come soggetti desideranti e formare al tempo stesso i nostri mutevoli oggetti del desiderio. Inverando l’immaginario strutturalista dei linguisti e degli antropologi, che hanno sempre pensato gli idiomi e le culture come sistemi vuoti dove s’intessono relazioni formali e differenze pure: giochi sporchi e pericolosi, arbitrari e creativi, costitutivi tuttavia d’ogni forma di soggettività individuale e collettiva, di qualsiasi configurazione culturale, e comunque precedenti la possibile valutazione della loro efficienza. Dal punto di vista delle reti culturali, che internet s’è limitata a rendere palesi, la questione dell’intelligenza – funzionale e tecnocratica, spirituale e ludica che sia – non si pone: s’è stupidi per antonomasia, ma di una stupidità profonda, diffusa, pervasiva, genuina, solare appunto: quella che Chance Giardiniere, nella sua irriflessa sacralità, ben rappresenta. Più che di intelligenza collettiva, sarà bene parlare di scemenza connettiva?

Periodicamente c’è sempre chi, per rinvigorire la sempiterna dialettica fra apocalittici e integrati, lancia accigliati strali verso il mondo dei media, opponendosi a chi, altrettanto stereotipicamente, se ne compiace cuorcontento. Nicholas Carr, in un testo la cui perspicuità non sappiamo quanto potrà essere celebrata dai posteri, ha per esempio insistito sul fatto che internet ci rende stupidi. Suscitando un certo immediato scalpore e copiosi dibattiti, soprattutto – manco a dirlo – in internet stessa. L’ipotesi di fondo è che con la diffusione in rete di innumerevoli servizi (dal conto in banca alla posta elettronica, dalle biblioteche virtuali ai giornali on line) stia cambiando nel profondo il modo di usare il nostro cervello, che grazie alla sua intrinseca plasticità si modifica in funzione delle attività che compie e, soprattutto, che non compie più. La rete, osserva Carr, è un grosso serbatoio di testi brevissimi ed eterogenei, spesso privi di segnali che ne identifichino il genere e il tipo, di criteri che ne indichino la differenza specifica. Leggiamo di tutto e di più, ma senza sapere di che cosa si tratti in realtà; peraltro connettendo senza soluzione di continuità frammenti di linguaggio e lacerti di immagini in un mélange eteroclito che, alla fine, si rivela privo di senso. Internet rende stupidi, insomma, perché toglie quella capacità di concentrazione continuata che in altri tempi permetteva di affondare la mente in un testo molto lungo (e l’esempio, manco a dirlo, è Guerra e pace) per capirlo a fondo, esercitando con ciò l’intelligenza al suo meglio, e tenendo in costante attività le sinapsi cerebrali. Inutile dire che la quantità di controesempi è notevole, e che internet, dal canto suo, è talmente ricca e mutevole da poter difficilmente essere additata come causa massima di un presunto istupidimento collettivo. Ingenuo semmai riversare sul famigerato cervello, oggi specchietto per allodole in cerca di sicumere immediate, gli effetti di pratiche speciali ampie e complesse, affidandosi a uno sperimentalismo scientista che fa acqua da tutte le parti. Tutto ciò, soprattutto, in funzione di un presupposto indiscusso: quello per cui intelligenza equivale a concentrazione e stupidità a distrazione; cosa tutt’altro che evidente e generalizzabile, sempre e comunque. Sulla approssimazione e genericità dei sedicenti test d’intelligenza s’è già detto abbastanza.

Umberto Eco, che certamente non può essere tacciato di pessimismo apocalittico, ha osservato invece che la rete ci procura una sorta di sindrome di Funes, quel celebre personaggio di Borges che, ricordando tutto e minuziosamente, finisce per perdere il senno. Funes ha immagazzinato più memoria di quanto hanno potuto averne tutti gli uomini nella storia, ricorda tutto, ogni momento ed evento, qualsiasi situazione in cui le cose, le persone, gli esseri si sono presentati a lui, comprese le sensazioni fisiche provate mentre le percepiva. Egli è capace di ricostruire tutto quel che gli è accaduto in una qualsiasi intera giornata del suo passato, ma per farlo gli occorre un’altra intera giornata: cosa impossibile e assurda. Può inventare un sistema di numerazione personale, dove a ogni numero corrisponda un segno diverso, così come è in grado di costruire un alfabeto dove non solo ogni cosa ma ogni percezione di tale cosa abbia un nome proprio. Solo che tutto ciò non è utile a nessuno, e non vale la pena perderci del tempo. Come una tavola astronomica perfetta, la sua memoria è tanto precisa e minuziosa quanto superflua. Per questo motivo Borges descrive un tale personaggio come una pura voce nel buio, un corpo paralizzato che non ha altra vita se non quella delle sinapsi memoriali: un perfetto idiota. Esattamente come internet, dove c’è di tutto ma in disordine, senza cornici interpretative che ne dettino il significato, senza un sistema di generi che ne renda possibile, se non un filtraggio, quanto meno una gerarchia. Tutto è uguale a tutto, niente ha peso e valore. Il problema insomma, sottolinea Eco, non sarebbe delegare al computer, e tramite esso alla rete, le nostre capacità intellettive di fatto intorpidendole. Ma semmai esercitare troppe attività cerebrali a causa degli stimoli di riflessione intellettuale (o di pulsione erotica – fa lo stesso) che le gigantesche banche-dati residenti in internet possono offrirci a ogni momento della nostra vita. Quel che viene a mancare, in negativo, è la possibilità di dimenticare, di staccare la spina della facoltà di ricordare in modo da perdersi nella nostra scemenza quotidiana. Quanto meno per il tempo necessario a riequilibrare i ritmi dell’esistenza, ridimensionando i nostri deliri di totalizzazione, di titanico controllo dell’universo. L’imperatore cinese di un altro racconto borgesiano aveva un esercito di cartografi eccezionali che era riuscito a disegnare una mappa 1 : 1 del suo impero: dopodiché si suicidò. Appagato e deluso.


Bestie

Cattiva coscienza

Ad Halle, nel 1866, il professor Johann Eduard Erdmann, tra i più stimati allievi di Hegel, annunciò che avrebbe tenuto una conferenza sulla stupidità. La scelta di un simile argomento – racconta Robert Musil – fu accolta con grasse risate dall’intellighenzia accademica, abituata a bearsi nelle grazie di una razionalità positiva e totalizzante. Trovandosi a iniziare a sua volta il già menzionato Discorso sulla stupidità, Musil commenta: “Da quando so che una cosa del genere può capitare perfino a un hegeliano, sono convinto che un simile comportamento degli uomini nei confronti di coloro che vogliono parlare della stupidità sia un caso del tutto particolare. E mi sento assai insicuro, nella convinzione di aver sfidato una forza psicologica immensa e profondamente contraddittoria”. Perché questa insicurezza? In che cosa consiste la sfida? Per quale ragione chi parla della stupidità subisce critiche impietose e continue? Se l’immagine del cretino contrapposta a quella dell’intelligente ha spesso inquietato filosofi e letterati, che ne hanno tratteggiato aspetti e funzioni, non per questo essa è stata compresa e accettata. Oggi sembra essere più presente che mai nei dibattiti contemporanei, e pensare la stupidità è diventato senza dubbio uno dei compiti urgenti dalla filosofia.

Abbiamo visto come gli atteggiamenti assunti nei confronti della stupidità siano di tre tipi: un tentativo di rappresentazione esterna dell’immagine della stupidità o del personaggio dello stupido; una posa, tra lo snobistico e l’isterico, di aprioristica ripulsa che fa dello stupido un altro non meglio precisato da scovare e, se possibile, abbattere; una prospettiva che vede nell’assenza di intelligenza, non tanto una tabula rasa, una mancanza di razionalità o di calcolo, quanto un diverso tipo di razionalità che, sostituendosi alla prima, in qualche modo ne critica i fondamenti. Ora, se questi atteggiamenti possono generalmente identificarsi con una visione classica della stupidità, un diverso atteggiamento contraddistingue l’epoca contemporanea: si tratta di una posizione meno radicale, propensa alla riflessione e all’inevitabile problematicità che la stupidità in quanto tale suscita. L’attuale boom della stupidità mette in campo, accanto a chi continua a farsi cassandra di periodiche sventure annunciate, o a chi si bea in nonsense più o meno carnascialeschi, una nuova prospettiva che inizia a far luce sulla complessità interna al senso della stupidità. Del resto le nuove configurazioni dell’universo della comunicazione impongono una riflessione più precisa in tal senso, quanto meno dal momento in cui si è abbandonato il ricatto della dialettica tra apocalittici e integrati e si è iniziato a convivere – più o meno pacificamente – con le odierne tecnologie comunicative. L’impatto sociale straripante della televisione – per fare un esempio evidente – non può non porre in termini pressanti un’indagine sui meccanismi interni ai messaggi cosiddetti stupidi, all’insieme di livelli che tali messaggi comportano, alla serie dei significati che vengono in essi veicolati e, ancora, alle complesse assiologie e alle ideologie immanenti che interagiscono in quei messaggi.

La stupidità si configura, in generale, come una sorta di cattiva coscienza che cova nei meandri dei giochi più o meno immaginari condotti dalla società mediante i suoi flussi informativi. Così come le scienze umane hanno avuto, nel nostro secolo, il compito fondamentale di pensare l’altro nella sua essenza e nelle relazioni che intrattiene con l’identico, senza per questo distruggerlo o assimilarlo, allo stesso modo sembra vada trattato il cosiddetto stupido. Appare ovvio che un pensiero della stupidità sia al contempo uno specchio e una critica delle categorie costitutive della razionalità e della ragionevolezza. “Ogni intelligenza – sapeva Musil – ha la sua stupidità”: le due cose viaggiano inevitabilmente insieme, riflettendo sull’una si abbozzeranno i tratti dell’altra.

Tutto ciò risulta particolarmente evidente accostando il pensiero di Theodor W. Adorno a quello di Michel Foucault e Gilles Deleuze. Tradizionalmente tenuti separati, quando non addirittura considerati opposti nei metodi e negli esiti concettuali, questi filosofi mostrano molti punti in comune nelle riflessioni da essi condotte sul problema della stupidità. Riflessioni che, se pure non sono al centro dei loro interessi speculativi, possono in qualche modo essere ricondotte ad alcuni problemi fondamentali da loro enunciati e trattati. È come se Adorno e Foucault, ubicati tra i classici del pensiero filosofico, avessero in un certo senso anticipato quella problematicità che caratterizza l’atteggiamento contemporaneo nei confronti della stupidità, avendo compreso l’urgenza e l’importanza di una teoria critica dell’intelligenza.

La cicatrice

Non è un caso che la Dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer si chiuda con una riflessione “sulla genesi della stupidità”: nelle due ultime pagine di un testo dedicato ai nessi tra razionalità e mito, ai continui e necessari capovolgimenti tra l’una e l’altro, i due francofortesi schizzano alcuni tratti di ciò che secondo il senso comune si intende per non-intelligente, ossia di ciò che viene pensato come il probabile opposto di quei processi intellettuali e sociali che, pur inneggiando al progresso, hanno portato a un’estensione incontrollata del ‘dominio’. Adorno, come è noto, mostra come la fede nella razionalità sperimentale illuministica abbia, come sua antitesi logicamente necessaria, uno straordinario diffondersi della mitologia e della violenza autoritaria. Appare interessante in questo contesto argomentativo soffermarsi sul modo in cui, seppur di passata, egli definisce la stupidità. È probabile infatti che anch’essa debba contenere al suo interno due aspetti opposti: uno negativo e uno positivo. Così come l’Illuminismo agisce sulla scena sociale rivelando attraverso le lenti della teoria critica l’altra faccia della medaglia, quella borghese regressiva, anche l’antiragione per eccellenza, la cretineria, deve, per analogia, rivelarsi bifronte, indecidibile e ambigua.

Riprendendo una metafora goethiana, Adorno parte dall’immagine dell’antenna della chiocciola come simbolo dell’intelligenza. Se essa, da un lato, si rivela un utile strumento di ricerca e di penetrazione nel mondo, ricoprendo con un solo organo più funzioni, nello stesso tempo manifesta un carattere fragile e delicato. “L’antenna si ritira subito di fronte all’ostacolo, torna a fare una sola cosa col tutto, e solo con estrema cautela si avventura di bel nuovo come organo indipendente. Se il pericolo è ancora presente, torna a sparire, e l’intervallo fino alla ripetizione del tentativo aumenta”. Se potenzialmente l’antenna è recettiva nei confronti della varietà e dell’eterogeneità del mondo, tale recettività è spesso frustrata dagli impedimenti fisici che essa trova nell’esercizio delle sue funzioni. In tal modo la “vita spirituale” si scopre essere irrimediabilmente legata a una funzione corporale, a un muscolo che può slanciarsi al di sopra della sua fisicità, e farsi, appunto, “spirito” (intelligenza, razionalità, etc.), ma che, non appena avverte il pericolo, si ritira in buon ordine e si perde nel magma indifferenziato di una sorta di ‘corpo senza organi’. Talvolta l’antenna riesce a trovare la sua strada ed esercitare il suo ruolo esplorativo; talaltra è costretta a rinchiudersi, terrorizzata, in se stessa sino alla paralisi e alla lesione fisica.

Spirito di ricerca, terrore, violenza e sofferenza sono, secondo Adorno, inseparabili. Più un organo, e con esso un’intera specie, si sviluppa, più un qualche altro organo e una qualche altra specie soccombono al terrore, subiscono l’atrofizzazione dei muscoli, delle proprie potenzialità. Da qui un’inquietante versione, perfettamente in linea con il metodo della dialettica negativa, della teoria dell’evoluzione o, sarebbe meglio dire, della mancanza di evoluzione: “In ogni sguardo curioso di un animale albeggia una nuova forma di vita, che potrebbe emergere dalla specie determinata cui appartiene l’essere individuale. Non è solo la determinazione specifica a trattenerlo nella guaina del vecchio essere: la violenza che incontra quello sguardo è quella, antica di milioni di anni, che lo ha fissato da sempre al suo stadio e blocca, opponendosi sempre di nuovo, i primi passi per superarlo. [...] L’animale diventa, nella direzione da cui è stato definitivamente respinto, stupido e schivo”. La stupidità è così il risultato, non tanto della mancanza di un processo attivo di liberazione dalle costrizioni e dagli schemi fisici, corporali, materiali degli organi di senso (il cui sviluppo ulteriore porta all’intelletto e alla sua ‘spontaneità’), quanto semmai dell’interruzione forzata, dell’aborto di quel fenomeno di progressiva razionalizzazione del corpo – animale e umano.

“La stupidità – per Adorno – è una cicatrice”. Essa si rivela come una superficie callosa e insensibile, chiaro segno di una ferita, triste e solitario ricordo dell’amputazione di un ‘nuovo organo’ che era sul punto di formarsi e che è dovuto soccombere di fronte alla violenza della natura e del mondo. “[la stupidità] può riferirsi a una capacità fra le altre, o a tutte le facoltà pratiche e intellettuali. Ogni stupidità parziale di un uomo segna un punto dove il gioco dei muscoli al risveglio è stato impedito anziché favorito”. La durezza della cicatrice, la resistenza di quella superficie liscia e inquietante della pelle – formatasi ora qui ora lì nell’intera estensione del corpo – tende a produrre “caratteri duri e capaci” che rendono stupidi gli uomini.

Tale stupidità può svilupparsi in due modi: sia nel senso di un’effettiva deficienza patologica, di una stagnazione delle membra e degli organi, di un’inattività generale o particolare del corpo, sia in quello “della malvagità, dell’ostinazione e del fanatismo”. In altri termini, l’idiozia, la follia, il fanatismo, l’aggressività hanno, in generale, la medesima origine in un mancato sviluppo dell’evoluzione della “vita spirituale” dell’uomo. Ma non per questo possono identificarsi in tutto. Ad esempio, la prima – la stupidità definita dal dizionario – è il risultato di una serie di ripetizioni frustrate che finiscono per “spegnere” nel bambino ogni iniziativa di crescita cognitiva o pragmatica e lo riducono all’inazione. Ma si tratta soltanto di un’astrazione, di uno schema teorico e priva di un effettivo riscontro. La cicatrice, ripiegata all’interno del corpo, non resta senza esito: come aveva chiarito Nietzsche ne La genealogia della morale, il dolore e il terrore provati a loro volta producono una reazione non meno dolorosa e violenta. Da qui le altre forme di stupidità, quelle, per così dire, socializzate, attualizzate nel mondo in individui concreti, in fenomeni politici reali. L’ultima sezione di Dialettica dell’illuminismo, ma in fondo l’intero libro, cercano di capire in che modo si siano potuti verificare quei fenomeni di stupidità collettiva come il nazismo, l’antisemitismo, i conflitti mondiali e così via; in che modo cioè la stupidità virtuale, quella della semplice cicatrice sulla pelle, si sia potuta attualizzare nelle menti degli uomini, nella cultura, sino a realizzarsi in una reazione imprevista dai più, in una straordinaria violenza che faceva da contraltare alla violenza precedentemente subita.

Restando al punto di vista filosofico astratto, quello di una stupidità virtuale, ricostruita attraverso le metafore della chiocciola e dell’evoluzione biologica delle specie, va notato come il discorso adorniano tenda ad avvicinare parecchio l’uomo all’animale. La metafora paradarwiniana, in questo senso, va letta il più letteralmente possibile. La stupidità è bestialità, bêtise, divenire animale. La caduta verso lo stadio animalesco, in questo, non è una vera caduta, un ripiombare verso livelli prelogici e prerazionali, precedenti alla società e alla cultura, ma semmai uno stallo, una sosta nell’eventuale sviluppo dello “spirito”, un non-ancora. La stupidità – che, come si è visto, è in contraddizione rispetto alla ragione ma implica a sua volta l’irrazionalità mitologizzante della ragione stessa – elimina la distinzione tipica della cultura occidentale, da Aristotele ai vivisezionisti, che separa gli uomini dagli animali sulla base del criterio della dignità razionale e della competenza linguistica. Distinzione di comodo, estremamente semplificata rispetto alla realtà dei fatti: se “l’assenza di ragione non ha parole” e “il mondo dell’animale è senza concetto”, ciò non significa che l’unica razionalità possibile sia quella verbale, linguistica, concettuale. Significa semmai che agli animali (agli stupidi) è stata tolta la parola e il concetto, o meglio, la possibilità stessa del linguaggio e del pensiero. Per questo, l’animalità dell’uomo è, per così dire, più bestiale di quella dell’animale.

Bestialità e animalità

Una riflessione sulla stupidità ha portato Adorno a mettere indirettamente in discussione le strettezze del suo metodo dialettico-critico, quasi costringendolo a levigare la rigidità delle opposizioni concettuali in una prospettiva filosofica meno dualistica, rappresentativa. Non sorprenderà osservare come Foucault abbia condotto considerazioni analoghe sul problema della stupidità giusto a proposito di una prospettiva filosofica esplicitamente antidialettica e antirappresentativa qual è quella di Gilles Deleuze.

“La stupidità – scrive Deleuze – non è l’animalità”. L’animale possiede alcune “forme specifiche che gli impediscono di essere stupido”, di essere, come si dice per certuni, bête: la bêtise va intesa in un’accezione precisa che non ha nulla a che vedere con la supposta naturalità dell’animale. Esisterebbe cioè per Deleuze una “bestialità propriamente umana” riconoscibile in quella che viene comunemente intesa come stupidità e che dovrebbe essere interpretata – insieme alla codardia, alla crudeltà e alla bassezza – come “una struttura del pensiero come tale”. Essa non può però essere ricondotta al semplice problema dell’errore, non può essere spiegata nei termini di opposizioni semplici come vero vs falso, giusto vs errato o simili. In altri termini, la stupidità non deve essere intesa come un inciampo della ragione, come un suo uso scorretto, ma come un altro suo possibile sistema di forme, come un diverso apparato mentale che mette in gioco differenti categorie di pensiero, d’azione e di passione. La stupidità non può allora essere circoscritta nel genere pseudoletterario degli sciocchezzai, ma deve essere ricondotta alla riflessione concettuale: “La peggiore letteratura fa raccolta di sciocchezze, ma la migliore è sempre stata assillata dal problema della stupidità, che ha saputo condurre sino alle soglie della filosofia, dandole tutta la sua dimensione cosmica, enciclopedica e gnoseologica”. Riprendendo coi propri mezzi gli spunti che scrittori come Flaubert, Baudelaire o Bloy hanno iscritto nel testo letterario, la filosofia può considerare il fatto che “la stupidità non è mai quella degli altri, ma l’oggetto di una domanda propriamente trascendentale. Come la stupidità (e non l’errore) è possibile?”.

Foucault riprende questa argomentazione approfondendo la lettura filosofica di Bouvard et Pécuchet. Anche per Foucault un pensiero della stupidità si inserisce in una più vasta riflessione sul problema dell’errore, della sua possibilità empirica e trascendentale. “Bouvard e Pécuchet – scrive – si può dire che si sbagliano, che commettono degli errori non appena si presenta loro la più piccola occasione? Se si sbagliassero vorrebbe dire che c’è una legge del loro fallimento e che, a certe condizioni definibili, essi avrebbero potuto anche riuscire”. Il loro tracollo non è però dell’ordine della legge, non è riconducibile a una opposizione che, per quanto radicale, prevede sempre due possibilità: essi infatti falliscono in ogni occasione, sempre. L’insuccesso dei due copisti è cosa ben diversa dall’essere nel falso. Essere nel falso significa “prendere una causa per un’altra”, “non prevedere gli accidenti”, “conoscere malamente le sostanze”, non discernere nell’uso empirico delle categorie del pensiero, applicarle fuori tempo. Fallire, al contrario, vuol dire “lasciar sfuggire tutta l’armatura delle categorie (e non soltanto il loro punto di applicazione)”, agire grossolamente al di fuori di un sistema trascendentale di forme di pensiero. Bouvard e Pécuchet “mescolano, o meglio si mescolano, il necessario del loro sapere e la contingenza delle stagioni, l’esistenza delle cose e tutte le ombre che popolano i libri: in loro l’accidente ha la pertinacia di una sostanza e le sostanze schizzano in faccia negli accidenti d’alambicco”. Essi sono “esseri a-categorici”. Da qui la profonda differenza tra la stupidità di coloro che li circondano (i quali, stretti nel chiuso di un apparato di categorie, vengono disprezzati dai due copisti) e la loro particolare bestialità – che a noi lettori non può non suscitare ammirazione e violenza, sdegno e curiosità, straniamento e sorriso.

Gli eroi flaubertiani rendono conto del ricatto silenzioso che i sistemi filosofici impongono al pensiero: le categorie concettuali, previste in anticipo, non possono essere soppresse – a parte un certo margine di errore (anch’esso calcolabile preventivamente) – pena la caduta nel senza-fondo della bestialità, nel magma oscuro della stupidità, nell’equivalente, nel confuso, nell’impero pietoso dell’indifferenziato. “Pensare nella forma delle categorie vuol dire conoscere il vero per distinguerlo dal falso”: in tal modo si organizza un andamento costante, un sistema efficace di ritmi che vengono riproposti ogni volta allo stesso modo. Un pensiero a-categorico, invece, necessita di un diverso sistema di tempi: “pensare con un pensiero a-categorico, far fronte alla nera bestialità, è, per il tempo di un lampo, distinguersene”; per il resto, ci si limita a contemplare la bestialità, a immergervi lo sguardo, a lasciarsi affascinare da essa: “si spia il primo soprassalto dell’impercettibile differenza e, con lo sguardo vuoto, si spia, senza febbre, il ritorno della luce”.

Borbottio

Come si vede, della stupidità-bestialità Deleuze e Foucault non danno una valutazione chiara e distinta, ma la assumono come fenomeno intensamente problematico. Da un lato la bestialità invita a uscir fuori dall’apparato trascendentale delle categorie, che predispone in via preliminare le differenze su un piano concettuale teatralizzato. Da un altro lato la sortita da tale apparato non è priva di rischi: la violenza, la catatonia, la demenza sono pronte a subissare l’esperienza filosofica, a rilassarne i margini sino alla pura contemplazione dell’immensità del nulla. Il regno della bestialità è il luogo topico ove l’eroe-pensiero deve compiere le sue prove, dove deve acquisire una nuova forma di competenza conoscitiva, pragmatica, affettiva. Soltanto dopo aver assunto su di sé le virtù e i rischi di un nomadismo istituzionalizzato – intendimento di una molteplicità tutta da inventare – sarà possibile lasciare ai mistici la pratica della contemplazione e ai poeti l’esperienza della esperienza estesica.

Resta fermo, comunque, che proprio un pensiero della stupidità provoca un ripensamento globale dell’opposizione dialettica fra ragione e antiragione, intelligenza e idiozia, e a lungo andare del pensiero in generale. “L’intelligenza – per Foucault – non risponde alla bestialità: è la bestialità già vinta”. Cosa che era in qualche modo iscritta nelle codificazioni epistemiche dell’età classica, di cui lo stesso Foucault ha, come è noto, ampiamente illustrato i dettami. La demenza, con le sue figure cliniche adiacenti – tra cui appunto le varie forme di imbecillità – era allora più vicina alla déraison che alla follia propriamente detta, costituiva una fenomenologia specifica che aveva più a che fare con le strutturazioni generali del sapere che con le esperienze mediche particolari.

In generale la stupidità si intravede e si coglie al confine, pericoloso ma inevitabile, oscuro e invitante, tra la permanenza di un teatro filosofico e la posizione inaugurale di un pensiero della differenza e della ripetizione. Essa può riferirsi, per analogia o per comunità d’intenti, a una serie di figure retorico-letterarie, improbabili stadi successivi di una patafisica fenomenologia dello spirito: la fascinazione della bestialità (Flaubert), l’esperienza del limite (Bataille), il pensiero del di fuori (Klossowski), l’immersione nel senza fondo indifferenziato (Artaud, Lowry), la pratica felice della contro-effettuazione degli eventi (Carroll). Si collega così a tutta una problematica che la letteratura moderna ha ampiamente affrontato – e gli autori qui menzionati sono solo alcuni tra i tanti proponibili – e che la filosofia ha il compito di prendere in carico con altri mezzi, pena la sua dissoluzione o, meglio, la sua cattiva ripetizione.

Potremmo, a questo punto, tornare a Adorno e individuare in Beckett il testimone letterario altrettanto efficace di questa esperienza della stupidità come tragica liberazione dalle imposizioni della ragione borghese illuministica e degli esiti negativi che essa ha mostrato nel nostro secolo, come pratica della soglia, dell’interstizio tra il cupo borbottio dell’animale-uomo e il vigoroso silenzio che allude a un’alterità sconosciuta. Moltiplicheremmo in tal modo il gioco fascinatorio di metafore che alludono a una condizione della ragione che si staglia al di fuori di sé nel tentativo di comprendersi. Il blaterare delirante e incomprensibile dei personaggi beckettiani si rivela, in questo senso, analogo al destino di Bouvard e Pécuchet: se essi finiranno per ricopiare gli avanzi dell’enciclopedia diderotiana e i suoi raggiri razionalistici è perché hanno imparato a riconoscere la stupidità e hanno assaporato tutta la distanza che li separa da essa. Collezionare idee ricevute è aspettare Godot. Divenire animale è – per Adorno e Foucault – non tanto perdere la facoltà di linguaggio, quanto riconoscere il rumore della parola: è il brusio che inevitabilmente la lingua sottende e che – secondo Barthes – in qualche modo anticipa l’utopia musicale del senso. Per questo, un pensiero della stupidità sarà la migliore via verso la dissoluzione del mito moderno del grado zero della ragione.


Gradi

Sassi che il mare ha consumato /

sono le mie parole d’amore per te.

(Gino Paoli)

Elementi di bathmologia

Che cos’è la bathmologia? Secondo Roland Barthes è una scienza ancora tutta da inventare, una tattica “degli scaglionamenti del linguaggio” che lavorerà sui gradi del discorso. Soltanto la bathmologia, pensa Barthes, sarà in grado di comprendere e di utilizzare il gioco incessante del doppio e del triplo senso che slitta da una presa di parola a un’altra con una sicumera che il linguista, probabilmente, invidia da lontano. “Tale scienza sarà inaudita, perché scuoterà le istanze abituali dell’espressione, della lettura e dell’ascolto (“verità”, “realtà”, “sincerità”); il suo principio sarà una scossa: scavalcherà, come si salta un gradino, qualsiasi espressione”.

Ogni discorso, pensa lo studioso francese, può essere proferito e, di conseguenza, interpretato a partire da gradi diversi. Se il primo grado è quello dell’enunciato semplice e spontaneo, puramente denotativo e apparentemente privo di ogni carico ideologico, il secondo grado è già un discorso che parla su se stesso, che dice di dire, che si mette in gioco e si sospetta. Basta spostare un po’ più indietro un discorso per ribaltare interamente, non tanto il significato, quanto il gusto (o il disgusto) che da esso possiamo trarne. Ma il secondo grado può rivelarsi una trappola, e certamente finisce per corrodere ogni possibilità di comunicazione. Il gusto per il linguaggio finisce per soppiantare quel che si vuol dire, e ci si ingarbuglia nel gioco infinito dei rimandi, delle parodie, delle allusioni e delle citazioni. Oggi si è molto presi da un’estetica del secondo grado, che se da un lato controlla ogni ingenuo spontaneismo, da un altro lato piomba in un insopprimibile intellettualismo. La bathmologia insegna allora che è possibile passare al terzo e a infiniti altri scaglionamenti del linguaggio, senza perdere il controllo dell’enunciazione ma senza perciò farsene irretire. Una scienza del gioco dei gradi discorsivi permette così la riconquista del sentimento, il recupero della comunicazione, la trasfigurazione della banalità e, soprattutto, un ripensamento complessivo della stupidità mediante una sua pratica diretta.

“Parlando – scrive Barthes – non sono sicuro di cercare la parola giusta; cerco piuttosto di evitare la parola stupida. Ma siccome ho qualche rimorso di rinunciare troppo presto alla verità, mi attengo alla parola media”. Se verità e stupidità sono costrette nello stesso gradino del discorso, la parola media è quella che, al terzo grado, permette la costituzione di un immaginario variamente consistente: “l’immaginario è una questione di consistenza, e la consistenza è una questione di gradi”. In altre parole, a differenza della linguistica tradizionale che lavora per livelli di pertinenza, la bathmologia ha la coscienza dei diversi gradi di consistenza del discorso: un enunciato, una frase, un testo, un racconto possono essere rappresi, rassodati, consolidati, liquefatti, sciolti etc., per nulla metaforicamente, in un gusto o in un sentimento verso le loro forme e i loro contenuti. E “la difficoltà è che non si può numerare questi gradi, come i gradi di un alcolico o di una tortura”. Essi non comportano semplici variazioni di quantità ma, diversamente, mettono in gioco trasformazioni di qualità.

Prendiamo un esempio dello stesso Barthes: “ero contento di aver pubblicato (assumendomi la scemenza della notazione) che ‘si scrive per essere amati’; mi viene riferito che M.D. ha trovato questa frase idiota: infatti essa non è sopportabile se non la si consuma al terzo grado: coscienti di ciò che è stato prima commovente e poi imbecille, avete finalmente la libertà di trovarla forse giusta (M.D. non è riuscito ad arrivare sin qui)”. Al terzo grado è possibile liberarsi, non tanto della stupidità, ma della critica a tutti i costi verso di essa. La stupidità non sta nell’affermazione ma nel valore che a quell’affermazione si attribuisce, nel grado a partire dal quale essa viene proferita e interpretata. Essa non è riscontrabile al primo grado, ma nel gioco tra primo e secondo: una volta passato il primo, quello della ripetizione inconsapevole di uno stereotipo, occorre superare anche il secondo, quello in cui la demistificazione finisce per diventare un nuovo stereotipo; si giunge così nel terzo, dove la ripetizione non è più percepita come fonte di stupidità.

Dal ‘commovente’ si passa all’‘imbecille’ per approdare infine al ‘giusto’. Il che non è una particolarità di un singolo episodio linguistico, ma investe la possibilità stessa della parola comunicativa: il locutore, scrivente o scrittore che sia, ha, secondo Barthes, ben poco spazio nelle sue scelte discorsive. O si appoggia a linguaggi preesistenti, riproponendoli come cumuli di stereotipi. Oppure prende coscienza dell’inevitabile carattere ripetitivo, plagiario, citazionista del linguaggio. È una sorta di sindrome di Bouvard e Pécuchet – che Barthes ritrova e sperimenta soprattutto nel discorso amoroso. La comunicazione che ha a che fare con l’amore è il luogo privilegiato in cui la bathmologia può affinare i suoi strumenti analitici.

Amore e cuore

Quando amore fa rima con cuore ci troviamo di fronte, ancora una volta, alla solita canzonetta mielosa, scialba, ripetitiva. La connessione anaforica delle rime sottolinea la stupidità del luogo comune: come mai si chiedono ormai da molti anni i critici dell’amore bisogna cantare sempre le solite cose? Dove è andata a finire l’inesauribile inventiva dei romantici, l’appassionata requisitoria erotica dei poeti d’un tempo, la fantasmagoria immarcescibile delle liriche caricate dei più genuini sentimenti? Così, al primo luogo comune, quello dell’amore che opprime il cuore (o trema di dolore), si è sovrapposto un ulteriore luogo comune, non meno duro a morire: quello della critica che vive nell’incoscienza felice di una visione dell’amore e, indirettamente, del linguaggio del tutto idealizzata e in fin dei conti semplicistica. Secondo questa visione, l’amore e la sua lingua offrirebbero al soggetto una gamma pressoché infinita di possibilità espressive, combinazioni sempre nuove di pensieri e parole, di segni e figure. Come dire che dando credito a un’ideologia inveterata e sommaria l’espandersi del sentimento, lo scoppio passionale, l’ineluttabilità dell’eros producono codici e modi di dire ogni volta diversi, personali, soggettivi.

La questione, come si vede, supera di gran lunga l’orizzonte della canzone di consumo e della sua critica – dal quale pure trae esempi e insegnamenti – per invadere, più in generale, l’intera problematica del linguaggio amoroso come particolare codice di comunicazione. Si tratta di comprendere se il nesso tra linguaggio e sentimento debba essere inteso secondo i dettami della tradizionale ideologia romantica e soggettivista o se, diversamente, esso possa essere esaminato a partire dai problemi specifici della lingua. Secondo la prima ipotesi – che è quella delle canzonette di consumo e dei loro censori – il manifestarsi del desiderio giocherebbe in vario modo con la produttività linguistica, costringendola a ripiegare nell’intimismo e nella soggettività: il discorso dell’innamorato sarebbe insomma una specie di linguaggio privato. La seconda ipotesi cerca di verificare invece l’idea secondo cui l’amore possiede un suo linguaggio specifico ma condiviso, e che la necessaria presenza della stupidità al suo interno garantisce, se non la ricchezza espressiva, quanto meno le sue capacità comunicative.

Alberoni, nel fortunato libro Innamoramento e amore, propone l’idea secondo cui il comportamento amoroso è di per sé una produzione autonoma e continua di segni e di simboli da interpretare reciprocamente: “lo stato nascente è una proliferazione di segni”, anche se poi le istituzioni sociali in ogni modo bloccano tale moltiplicazione ancorandola a regimi linguistici predeterminati. Se perciò, per certi versi “nell’innamoramento la persona più semplice e sprovveduta è costretta, per esprimersi, ad usare il linguaggio della poesia, della sacralità e del mito”, per altri versi il linguaggio che viene concesso all’innamorato può essere quello della grande poesia oppure della letteratura minore: “Muto sul terreno scientifico, religioso ed ideologico, lo stato nascente dell’innamoramento ha perciò solo due luoghi linguistici a disposizione: uno sublime, ineffabile oppure, con un salto abissale, quello volgare, popolare, del ridicolo e del disprezzo”.

Topiche erotiche

La questione viene investita in pieno nel celebre libro di Barthes Frammenti di un discorso amoroso, dove il tema dell’amore come discorso riceve alcune chiarificazioni e molti spunti degni di essere ripresi e meditati. Questo anche perché la tattica di scrittura adottata da Barthes ha un chiaro sapore fenomenologico, con una conseguenza ben precisa: l’eliminazione del metalinguaggio descrittivo che, lungi dal produrre una prospettiva d’analisi distaccata o impressionistica, favorisce un certo grado di coinvolgimento tra il soggetto che analizza e l’oggetto analizzato. Così, i frammenti del discorso amoroso possono essere presi in carico da Barthes soltanto perché da lui (come da chiunque altro) precedentemente letti, detti o ascoltati. Il rapporto di Barthes, in quanto soggetto specifico di un’enunciazione simulata, con quello che egli chiama il dis-cursus dell’innamorato è quindi molto particolare: non di semplice identificazione (l’io che parla è molto chiaramente uno schermo moltiplicatore), e nemmeno di rigido distacco definitorio. Si instaura una specie di rapporto simbiotico tra l’autore e il soggetto amoroso. È come se Barthes sia complice compiaciuto di quel discorso mille volte già sentito, ricorrente nella parola propria e in quella altrui, carico perciò di forme, temi e motivi fortemente stereotipati. “Le figure prendono rilievo a seconda che, nel discorso che si sta facendo, si possa individuare qualcosa che è stato letto, sentito, provato. La figura è delineata nei suoi contorni (come un segno) e memorabile (come un’immagine o un racconto). Una figura è fondata se almeno una persona può dire: Come è vero tutto ciò! Riconosco questa scena di linguaggio”.

L’esempio più evidente di questa caratteristica del discorso amoroso è la frase “Io ti amo”. Enunciata mille volte da chiunque, essa non è mai percepita come un trito cliché a cui non prestar fede. Al contrario, “Io ti amo” è la più forte affermazione della verità erotica, il cui stesso proferimento è garanzia di certezza e di probabile buona fede. “Io ti amo” è vera non perché sia possibile riscontrarla con una qualche referenza esterna al discorso amoroso, ma semplicemente per il particolare tipo di teatro (di contesto, di circostanza) entro cui viene proferita. È, potremmo dire, un enunciato performativo, ossia un’espressione linguistica che fa mentre dice, e che non può essere mai intesa come vera o come falsa ma soltanto come felice o infelice, efficace o inefficace. Dire “Io ti amo” è compiere una performance, assimilare il dire al fare. Ebbene, non è un caso che dal più logoro degli stereotipi nasca quella che Barthes intende come una “rivoluzione”, come l’instaurazione del Nuovo assoluto, dichiarazione esplicita dell’amore, prima ancora che all’altro, a se stesso in quanto soggetto che si scopre innamorato.

Barthes ritrova nel discorso amoroso un ottimo esempio di sistema di segni che non si lascia soggiogare dall’antitesi tipica della modernità: quella che oppone originale e banale, detto e già-detto, nuovo e ripetuto, dove il primo termine acquista un valore socialmente positivo di contro al secondo che è negativo. Barthes è affascinato dalla parola solitaria dell’innamorato: l’assoluta banalità e stupidità del discorso amoroso, la sua superficialità piatta, puramente emotiva non è il prodotto di un potere più o meno centralizzato, più o meno microfisico, di una forza autoritaria che ideologizza le forme fornendo loro un senso. Al contrario, esso è il risultato immediato e momentaneo di un sentimento, di un desiderio, di una carne. L’innamorato non è un caso clinico da analizzare, non è un corpo ricco di sintomi da sviscerare e rimuovere: è un individuo qualunque in una situazione particolare, permeato dalle maglie di una topica predeterminata.

Superando la ricerca ossessiva del nuovo fine a se stesso, si rovescia il ricatto tipico della modernità che trasforma ogni antistereotipo in un nuovo stereotipo (come quei critici accigliati con le canzonette mielose). Il luogo comune, generalmente rigettato come segno di incultura, può avere all’interno di certi codici un valore interamente positivo. A patto che venga inteso alla maniera della retorica antica come una semplice forma, casella o celletta predisposta in anticipo per ricevere contenuti diversi. Il topos va letto e usato, non come un pezzetto di linguaggio carico di contenuti già-detti, ma come un piccolo stratagemma che modula in un insieme più ampio contenuti esterni, riconducendoli a un sistema già dato di forme. Se è così, i frammenti del discorso amoroso, le figure dell’amore non sono altro, secondo Barthes, che una topica nel senso classico del termine: una griglia formale che permette la formulazione, la moltiplicazione, la generazione di nuovi discorsi. Il codice amoroso non è fonte di novità o fonte di banalità. Esso semmai modula entrambe le cose, la forma e il contenuto. “Ciascuno può riempire questo codice con la sua propria storia; smilza o no, bisogna dunque che la figura sia là, che il posto (la casella) sia tenuto libero. È come se vi fosse una Topica amorosa, la cui figura fosse un luogo (topos). Ora, la peculiarità di una Topica è di essere un po’ vuota: per sua essenza, una Topica è per metà codificata e per metà proiettiva (o proiettiva in quanto codificata)”.

Per questo motivo, le numerose citazioni fatte nel libro a proposito delle diverse figure erotiche non vanno intese come sottoscrizioni di veridicità, né tantomeno come esempi unici nel loro genere. Il richiamo a testi diversi è, dice Barthes, costitutivo del discorso amoroso. L’essenza stessa del linguaggio erotico sta in questa enciclopedia già confezionata di frammenti discorsivi a cui il soggetto innamorato più o meno volontariamente ricorre nei suoi scoppi emotivi, nelle sue vampate di linguaggio. I ‘pezzi’ di altri saperi menzionati da Barthes – Werther, Proust, Freud, il Simposio, lo Zen etc. – si mescolano alle esperienze personali, e insieme fanno un unico corpus, sorta di spazio confuso dove si agita una memoria che è un sentimento: il sentimento amoroso. “Questi richiami di lettura, di ascolto, sono stati lasciati nello stato spesso incerto, incompiuto, che si addice ad un discorso la cui istanza è unicamente la memoria di luoghi (libri, incontri) in cui la tale cosa è stata detta, letta, sentita”.

Ciò non significa che l’innamorato, privato della parola da una forza emotiva più forte di lui, ricorra a un linguaggio preconfezionato da utilizzare alla bisogna. Una tale prospettiva implicherebbe una visione romantica della passione, intesa come non linguaggio, blocco e ripulsa di ogni comunicazione effettiva, dove l’amore è indicibile e muto. La prospettiva barthesiana, al contrario, conferisce al sentimento un suo proprio linguaggio: operazione tutt’altro che semplice, dato che implica una riformulazione dell’idea di sentimento e di quella di linguaggio. Un sentimento che non è l’altro della ragione, dell’obiettività, della comunicazione; un linguaggio che non è solo rappresentazione di azioni e di cose, di eventi e di mondi esterni. Per questo, il recupero dell’antica retorica è da intendersi in tutto il suo peso e spessore. Mimando la macchina della persuasività, riattualizzandola in un’epoca che ha visto la moltiplicazione delle scritture e il dominio degli stereotipi nella cultura di massa, Barthes pone la sua topica erotica al servizio di una memoria. In altre parole, supera la posizione tipicamente moderna della tradizione del nuovo, per conferire al discorso un suo retroterra, una cultura di riferimento, un universo di linguaggi che, venendo dal passato prossimo e remoto, permettono la produzione di discorsi altri, presenti e futuri.

Soliloquio e verità

L’amore vive, tra le altre, una particolare contraddizione. Da un lato sembra essere il più intimo, il più personale, soggettivo e segreto dei sentimenti. Ma nel momento in cui ha bisogno di un codice per manifestarsi, deve far ricorso a un insieme di topoi, ossia a un linguaggio per definizione socializzato, anonimo, privo di segni d’identificazione identitaria. La comunicazione amorosa, essendo solitaria, a senso unico, unidirezionale, è un’apparenza di comunicazione. Il soggetto innamorato parla del suo sentimento, o meglio: il sentimento d’amore si parla, ma non attraverso un’invenzione spontanea, bensì con la lingua altrui, il segno mille volte ripetuto, il codice abusato e socialmente respinto. Assumere su di sé il marchio del luogo comune è per l’innamorato un ulteriore segnale di isolamento, una sfida: riconoscersi come soggetto caricato d’amore è tutt’uno con l’esiliarsi dal linguaggio del mondo, rifiutare la naturalizzazione del segno arbitrario, esibire con ben poca speranza di vittoria la ripetizione linguistica e la presunta incultura che essa trascina con sé.

Da qui l’inattualità costitutiva dell’amore. Essa non significa, come un’affrettata storicizzazione potrebbe concludere, che il sentimento amoroso è assente dal discorso della cultura contemporanea. Semmai, vuole indicare il fatto che, per sua intima e costitutiva struttura, il discorso amoroso sopporta volentieri il carico di luoghi comuni che il sapere ‘normale’ esclude dal suo campo significante. L’innamorato può parlare per luoghi comuni: nessuno l’accuserà d’essere uno stupido. Egli sa perfettamente di esserlo, l’ha sempre saputo, e non teme per questo il giudizio del mondo. La stupidità dell’amore è il suo perenne anacronismo, l’essere antirazionale e antidialettico, la rinuncia al mondo e alle sue istituzioni. Tale stupidità è essenziale all’amore e al suo discorso: “La stupidità è l’essere sorpresi. L’innamorato lo è continuamente; esso non ha tempo di trasformare, di coprire, di proteggere. Forse è cosciente della sua stupidità, ma non la censura. O anche: la sua stupidità agisce come una stortura, una perversione: è stupido – dice – e tuttavia è vero”. L’essere stupido dell’amore è in fondo l’ultima e definitiva riprova della sua necessità, della sua prorompenza, della sua verità.

Il fatto è che, come ricostruirà Foucault nella sua storia della sessualità, parlare del sesso non è per nulla un gesto liberatorio e appagante, ma tutto il contrario: significa controllarlo socialmente e gestirlo istituzionalmente, reiterando i gesti omologhi della confessione cattolica e della cura psicanalitica. La vera opposizione, chiarisce Barthes, non è difatti quella fra sessualità e amor platonico ma fra desiderio e languore. Il desiderio è quello del satiro che, appena vede una bocca socchiusa, una mano penzolante o un viso che dorme, vuol buttarsi sopra quel corpo che a lui sembra offrirsi, per appagare immediatamente la libido, per scaricare meccanicamente la propria energia erotica. Il languore è invece quello dell’innamorato, che, non essendo inscritto in alcuna canonica narrazione, non ha inizio né fine. Per il languido spasimante non c’è un eccitamento da appagare, una carica da dissipare; c’è invece una sorta di continua emorragia, un esaurimento incommensurabile al tempo stesso narcisistico e oggettuale. In questo senso, il corpo dell’altro viene sì scrutato e decomposto, frugato, ispezionato, “come quei bambini che smontano una sveglia per sapere che cos’è il tempo”, ma mai anatomizzato. Nel languore amoroso, a sfregare il corpo non è, per Barthes, un altro corpo ma un eterno linguaggio che spasmodicamente interpreta e produce segni, monta e smonta immagini, delira e colloquia, spia e scrive.

È anche per questa ragione che l’amore può essere al tempo stesso insopportabile per l’innamorato e osceno per il mondo. L’oscenità dell’amore, pensa Barthes, non sta nel suo lato materiale, nella sessualità o nelle sue distorsioni. Sta invece nel suo essere ripetitivo, ossessivo, stereotipato, stupido. Per questo le società tendono a riportare il sentimento amoroso – più che l’eros vero e proprio – entro le maglie rassicuranti delle culture, dei riti, delle istituzioni. E per questo l’amore, nella sua ingenuità e purezza, si rifugia nei luoghi culturalmente designati, prescritti o non vietati, dove si esprime come meglio può: la letteratura alta, che lo sublima in ogni caso, trasfigurandolo in altri registri linguistici; o la paraletteratura, dove vive indisturbato perché snobbato dal sapere. Nella paraletteratura e nella canzonetta, tra i sospiri dei lettori e le spallucce degli intellettuali, l’amore sopravvive con la sua stupidità: il discorso amoroso può rivelarsi finalmente come insieme puro di topoi. In questi ambiti l’amore può – deve – rimare con il cuore e con il dolore: chiunque verrà a recriminare avrà sempre la peggio. La canzone scavalca gli snob e si riappropria del luogo comune. Il cielo esce fuori dalla stanza, che si annoia ascoltando le solite parole d’amore: sassi consumati ma tuttora dolorosi.


Tipi

Era giunto il momento

di dare una funzione al Pendolo

(Eco)

Tra teoria e romanzo

“Di ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare”: questo adagio da risvolto di copertina è la chiave per intendere l’itinerario e il senso dell’opera di Umberto Eco, quanto meno dalla pubblicazione e dal successo de Il nome della rosa in poi. Se quando fu coniato servì più che altro ad attirare l’attenzione dei lettori su un’opera dalla difficile collocazione, successivamente esso si è rivelato ben più utile e profondo di quanto non avessero supposto, allora, l’editore e l’autore. Generalmente il testo detta il suo paratesto; ma può accadere talvolta il contrario. La parafrasi wittgensteiniana va presa sul serio poiché determina, in Eco, molte delle scelte sia letterarie che filosofiche dell’ultimo trentennio. Così, certe dissimmetrie tra il lavoro di riflessione teorica e quello di scrittura letteraria vanno lette come spie di progressive e reciproche integrazioni all’interno di un orizzonte intellettuale comune. Non nel senso banale della traduzione di un unico nucleo concettuale da un universo di discorso a un altro, ma in quello, appunto, di un reciproco aggiustamento e un parziale completamento tra i due universi. Così, per esempio, la teoria del comico enunciata in momenti diversi della ricerca teorica di Eco non coincide con l’immagine del riso che è possibile ricavare da Il nome della rosa. Allo stesso modo, le indagini sull’abduzione enucleate a partire da Peirce non possono essere automaticamente applicate alla detection di Guglielmo da Baskerville. O, ancora, la tipologia dei segni del Trattato di semiotica generale non trova un riscontro automatico nella serie di tracce, indizi, segnali, sintomi distribuita nel corso del romanzo. Tra i due aspetti c’è un resto, una frattura, una differenza: ed è ciò che permette ad Eco di svolgere un doppio lavoro di riflessione e di scrittura sulla base di un unico problema concettuale.

Anche per Il pendolo di Foucault non è possibile pensare che questo complesso e articolato romanzo possa essere ridotto a quella presa di distanza dall’irrazionalismo che Eco ha formulato negli anni di stesura del libro. La vicenda del Complotto che si sviluppa nel corso della vicenda romanzesca a partire dall’avventura templare non è la rappresentazione romanzata dell’ermetismo e dell’occultismo medievale e moderno. Essa è la ricostruzione di un abbaglio intellettuale che genera un delirio interpretativo. Il Piano esiste perché i tre protagonisti, ammaliati dalla selva delle somiglianze, decidono di ricostruirlo per congetture progressive sino a immedesimarsi con esso. Il Segreto che si snoda lungo i percorsi delle vicende storiche ha ragion d’essere a partire dalla credenza nel segreto stesso. È la “credulità” come “passione della mente” – denegata in apertura del libro – la via d’accesso alla follia individuale e collettiva che si fa strada nell’ intreccio del romanzo. E il fatto che, alla fine, le indagini di Casaubon, Belbo e Diotallevi si rivelino efficaci – ossia che effettivamente la sera del 23 giugno 1984 abbia luogo quella riunione segreta nel Conservatoire des Arts et Métiers di Parigi – non fa che confermare la capacità che questa credenza possiede di orientare le scelte esistenziali e intellettuali, di suscitare credenze ulteriori sino al punto di generare la realtà. Nel delirio comune si perdono le coordinate del reale e dell’immaginario, del raziocinio e della fantasia: e quell’irrazionalismo che in un primo momento poteva essere pensato come un altro da individuare e da combattere diviene molto meno nitido e determinato; le sue malie pervadono i rigidi criteri di una logica cognitiva e trovano conforto negli stati affettivi dei soggetti.

Da qui l’importanza che riveste, all’interno del romanzo, una teoria, astratta e figurativa, della stupidità. Questa nozione, invero, non è una nozione. E proprio per questa sua intrinseca complessità, curiosa mescolanza di forze e di facoltà diversificate e talvolta contraddittorie, essa riarticola la riflessione sui meccanismi della conoscenza e sui criteri del ragionamento, mostrando i limiti e i rischi di una gnoseologia e di una logica troppo ristrette.

Una tipologia ideale

Nel decimo capitolo del romanzo c’è una tipologia di stupidi che val la pena di riprendere per esteso. È il primo incontro tra Casaubon, alle soglie della laurea con una tesi sui Templari, e Belbo, esperto redattore di casa editrice. Belbo illustra a Casaubon il suo metodo per individuare immediatamente i matti che scrivono libri sui Templari e cercano di pubblicarli. “Al mondo – dice – ci sono i cretini, gli imbecilli, gli stupidi e i matti”. Ognuno partecipa in modi e tempi diversi di queste quattro categorie ideali: “la persona normale è quella che mescola in misura ragionevole tutte queste componenti, questi tipi ideali”, mentre “il genio è quello che fa giocare una componente in modo vertiginoso, nutrendola con le altre”.

Innanzitutto c’è il cretino. A metà strada tra l’alienato mentale e il clown, ha poco a che fare con lo stupido vero e proprio e meno che mai con l’esaltato in agguato nelle case editrici: “Il cretino non parla neppure, sbava, è spastico. Si pianta il gelato sulla fronte, per mancanza di coordinamento”. La sua particolarità, la sua cretineria sta appunto nel riuscire a fare cose che gli altri non sanno fare, come entrare “nella porta girevole per il verso opposto”.

Anche l’imbecille ha a che fare con l’azione esteriore, ma è un tipo più complesso. L’imbecille “è un comportamento sociale”. È il gaffeur, colui che parla a sproposito, l’intempestivo che interviene per dire tutt’altro da quello che ci si aspetterebbe da lui. “L’imbecille è molto richiesto, specie nelle occasioni mondane. Mette tutti in imbarazzo, ma poi offre occasioni di commento. Nella sua forma positiva, diventa diplomatico. [...] quando la gaffe la hanno fatta gli altri, fa deviare i discorsi. [...] Sbaglia le regole di conversazione e quando sbaglia bene è sublime”. Animale da salotto, ha forti ascendenze letterarie: casa Verdurin è il suo palcoscenico preferito. Per questo, si tratta di una specie prettamente borghese, di “una razza invia di estinzione”.

Gli errori del ragionamento caratterizzano invece lo stupido: “È quello che dice che tutti i cani sono animali domestici e tutti i cani abbaiano, ma anche i gatti sono animali domestici e quindi abbaiano”. I suoi sono errori formali che possono anche pronunciare una verità (“tutti gli ateniesi sono mortali, tutti gli abitanti del Pireo sono mortali, quindi tutti gli abitanti del Pireo sono ateniesi”), ma per puro caso. “È un maestro di paralogismi”. Da qui le difficoltà nel riconoscerlo: “L’imbecille lo riconosci subito (per non parlare del cretino), mentre lo stupido ragiona quasi come te, salvo uno scarto infinitesimale”. E da qui i pericoli che inevitabilmente provoca: “Si pubblicano molti libri di stupidi perché di primo acchito ci convincono. Il redattore editoriale non è tenuto a riconoscere lo stupido. Non lo fa l’accademia delle scienze, perché dovrebbe farlo l’editoria?”.

Infine, il matto. Diversamente dallo stupido, che cerca attraverso una “logica sbilenca” di dimostrare la sua tesi, il matto è “uno stupido che non conosce i trucchi”, che “non si preoccupa di avere una logica” e, quindi, “procede per cortocircuiti”. “Il matto ha una idea fissa, e tutto quel che trova gli va bene per confermarla. Il matto lo riconosci dalla libertà che si prende nei confronti del dovere di prova, dalla disponibilità a trovare illuminazioni. E le parrà strano, ma il matto prima o poi tira fuori i Templari”. Anche il matto, date queste palesi caratteristiche, è come il cretino e l’imbecille immediatamente riconoscibile.

Ora, questa piccola tassonomia mostra chiaramente come l’unico elemento della classificazione a non avere in nessun modo aspetti positivi sia lo stupido. Se i due tipi estremi – la persona normale e il genio – si presume non abbiano lati negativi, e se sia il cretino sia l’imbecille sia il matto possono in certe circostanze manifestare comportamenti positivi (qualche perplessità c’è forse per il matto), lo stupido può tutt’al più mascherarsi da intelligente: e rivelarsi, proprio per questa subdola capacità mimetica, ancora più pericoloso.

Questi elementi virtuali che compongono la tipologia ritornano nel corso della storia successiva, dove trovano temporanea ma adeguata realizzazione. Trattandosi di ‘idealtypen’ – come Belbo tiene a precisare –, molto spesso accade che in certi personaggi e in certe situazioni si possa trovare mescolato e riadattato per l’occasione più di un tipo alla volta. E sembra innegabile che, se in questo momento del racconto l’interesse per i Templari viene attribuito al matto (causa originaria della tipologia stessa), in realtà la parte del protagonista principale sarà interpretata dallo stupido: da uno stupido che, nelle sue continue metamorfosi, si farà passare ora per matto ora per sagace ora per imbecille e così via; ma che, alla fine, pervaderà qualsiasi capacità di raziocinio permeando con i suoi paralogismi ogni discorso, congettura o confutazione. Se Il nome della rosa è la storia di un ragionamento efficace che, dopo qualche perplessità, guida un’indagine poliziesca sino alla soluzione veritiera, Il pendolo di Foucault segue l’itinerario opposto: mostra i modi e i meccanismi per cui dalla lucidità raziocinante si possa passare, quasi senza avvedersene, al più sfrenato delirio. È la storia della stupidità vittoriosa che solo una palingenesi tra il tragico e il grottesco può, in parte, superare.

Il filtro di Pilade

Ma non bisogna dimenticare che questa tipologia viene enunciata nel corso di una conversazione da Pilade, un vecchio bar dei navigli milanesi, cartina al tornasole delle ideologie che si susseguono nel corso degli anni, lo specchio delle pose e, letteralmente, dei costumi di più generazioni. “Potrei scrivere – afferma il narratore – la storia politica di quegli anni registrando i tempi e i modi in cui si passò gradatamente dall’etichetta rossa al Ballantine di dodici anni e finalmente al malto”. Ma la grande quantità di alcol sorbito dai due interlocutori non può non creare un qualche imbarazzo. Ben presto, la sottigliezza delle distinzioni proposte da Belbo e condivise da Casaubon cede il passo alla combinatoria fantastica delle possibilità. La teoria dei paralogismi invade poco a poco l’intera storia della filosofia: “una lotta tra stupidi” che tanto fa divertire quel Dio la cui dimostrazione dell’esistenza provoca una deriva di stupide argomentazioni. Sino a che, com’era prevedibile, il tribunale della logica inizia a giudicare se stesso: “‘Siamo circondati da stupidi.’ ‘Non si scappa. Tutti sono stupidi, tranne lei e me. Anzi, per non offendere, tranne lei.’ ‘Mi sa che c’entra la prova di Gödel.’ ‘Non lo so, sono cretino. Pilade !’ ‘Ma il giro è mio.’”. E ancora, sino a una specie di cauto relativismo di stampo antropologico: “‘E se lo stupido fosse lei?’ ‘Sarei in buona e secolare compagnia.’ ‘Eh sì, la stupidità ci circonda. E forse per un sistema logico diverso dal nostro, la nostra stupidità è la loro saggezza. Tutta la storia della logica consiste nel definire una nozione accettabile di stupidità. Troppo immenso. Ogni grande pensatore è lo stupido di un altro.’ ‘Il pensiero come forma coerente di stupidità.’ ‘No. La stupidità di un pensiero è l’incoerenza di un altro pensiero.’ ‘Profondo. Sono le due, tra poco Pilade chiude e non siamo arrivati ai matti.’”.

La ragione del sistema produce i suoi sonni. I principi logici di base, quelli su cui da Aristotele in poi si è fondato il razionalismo occidentale, vanno incontro a impedimenti sostanziali e producono paradossi insiti nel ragionamento stesso di cui sono garanti. Si insinua il sospetto che essi, in quanto tali, non possano emanare la verità del discorso presunto razionale, non siano l’unica e sola fonte di certezza. Il seguito del romanzo mostrerà come molte delle evidenze cosiddette mitiche, irrazionali, fantastiche – da cui hanno origine i piani diabolici e le conseguenti teorie del Complotto – possiedano una logica, se non ferrea come la sillogistica, certamente più efficace: quella dell’analogia. Certo, si dirà che al di là dell’eccitazione alcolica del momento, le partizioni proposte da Belbo si fondano su una pratica editoriale (in generale, su una conoscenza del mondo) che si è formata nel tempo attraverso l’esperienza. Ma è anche vero che la sicumera apodittica con cui la tipologia viene dichiarata lascia qualche dubbio al lettore, e lo induce a verificare sino a che punto la vicenda che da quella scena prende le mosse sia la fedele riprova di questa teoria dei tipi logici di stupidità. In altre parole, è il romanzo stesso che, se da un lato invita il suo lettore a tenere in seria considerazione i generi ideali di stupidità rimarcati da Belbo, da un altro lato gli suggerisce di considerarli con una certa dose di salutare perplessità. Il pendolo di Foucault è il percorso di apprendistato che bisogna percorrere per arrivare a comprendere come qualsiasi tipo di barricata innalzata tra ragione e antiragione, tra delirio e raziocinio, tra ragionamento e sofisticheria sia soggetta a continui ripensamenti e distinguo, sia fonte di incertezze e di dubbî necessari per la conservazione del sapere e della libertà di pensiero. Le oscillazioni del Pendolo di Léon Foucault al Conservatoire possono, da questo punto di vista, rappresentare i ritmi di un dubbio metodico che tende a sospettare di ogni verità definitiva, di ogni salda certezza, di ogni principio assodato – in nome dei quali, spesso, si esercitano l’autorità e la violenza. E se quella dell’alcol è una spia della debolezza della tipologia azzardata da Belbo, l’andamento narrativo dell’intero romanzo, con i suoi personaggi e le loro argomentazioni e fantasticherie, ne è l’ulteriore riprova.

Il Piano e il libro

“In quei giorni felici credevo che la stupidità creasse enigma. L’altra sera pensavo che gli enigmi più terribili, per non rivelarsi tali, si travestono da follia. Ora penso invece che il mondo sia un enigma benigno, che la nostra follia rende terribile perché pretende di interpretarlo secondo la propria verità”. Giunto al termine del suo viaggio di apprendistato, Casaubon riflette sull’itinerario percorso e sulle credenze che in esso si sono via via affermate. Tra queste, l’idea di stupidità viene più volte riformulata a partire dalla piega degli avvenimenti, che tende essa stessa a orientare. Seguire le fasi della vicenda vuol dire pertanto ripercorrere il farsi e il disfarsi dell’immagine della stupidità.

In particolare, la struttura della narrazione rende conto dell’entusiasmo dei protagonisti per il Piano dei Templari. Nell’articolazione e nella sovrapposizione di ironia e credulità – il cui ritmo è scandito dal succedersi delle scene – è possibile iscrivere il fallimento della razionalità del modus ponens aristotelico a favore del principio dell’analogia universale, o, in altre parole, la vittoria di una esuberante stupidità sulle scarse attrattive dell’intelligenza fine a se stessa. Se Belbo, Casaubon e Diotallevi, ognuno a partire da esperienze e convinzioni proprie, si accostano al mondo e alla storia dell’occultismo forti delle loro certezze razionaliste, l’incalzare della vicenda li costringerà a rivedere le loro posizioni e, peggio, a ricadere in quelle forme di stupidità o di follia stigmatizzate quella sera da Pilade. Alla ricostruzione patafisica di un presunto Segreto che si tramanda nel corso della storia succede poco a poco, con tempi diversi per i tre personaggi, l’infatuazione per il Complotto e la credenza in esso. Si comprende così come la tipologia di Belbo sia doppiamente fallace. In primo luogo perché riesce impossibile distinguere, sia pure a livello ideale astratto, il comportamento del cretino e dell’imbecille dal ragionamento dello stupido e del matto. In secondo luogo perché le armi della sillogistica non sono in grado, in quanto tali, non solo di fronteggiare la potenza della stupidità, ma nemmeno di motivarne il successo.

Perché accade tutto questo? Come mai il Piano affascina i protagonisti al punto da invadere del tutto le loro coscienze – e, nel caso di Diotallevi, lo stesso corpo? In che termini ha luogo questo passaggio dallo snobismo intellettualistico alla più ingenua credulità? La risposta è da cercare appunto nella struttura della storia. Non è difficile accorgersi infatti che la scrittura del libro è la costruzione del Piano. L’intera vicenda narrata non è che l’esplicitazione di una sorta di ingegneria narrativa. Le parole dei protagonisti sono, come l’amore secondo Barthes, performative: parole che fanno cose, il linguaggio è l’unica possibile forma di comportamento. Essi vivono per il Piano e vivono il Piano, raccontandolo lo creano, credendovi lo attualizzano. Nessuna separazione tra linguaggio e metalinguaggio, realtà e finzione, verità e credenza. La forma del romanzo, la forma-romanzo, garantisce il loro infinito mescolarsi. E i personaggi non possono non subirne le conseguenze: essi mimano all’interno della storia quello che già accade nell’intreccio.

Se si osservano con attenzione gli attacchi e le chiusure dei capitoli, ad esempio, si noterà come ogni inserimento di un nuovo tassello del mosaico (dai templari alla Cabala, ai rosa-croce, ai gesuiti, agli assassini, ai nazisti e così via) comporti una rapida digressione, ora del narratore ora dei personaggi, che discute i modi di costruzione del Piano, ossia le procedure narrative che vengono messe in atto affinché esso possa essere pensato dai personaggi. Allo stesso modo gli inserimenti dei files di Abulafia, i flash-back sull’infanzia di Belbo, i rapporti tra Casaubon e Amparo, tra Casaubon e Lia, tra Belbo e Lorenza, gli interventi di Agliè e di Garamond, per non parlare delle scene dei rituali in Brasile e in Piemonte, insomma tutto il contesto entro cui i tre protagonisti si agitano non fa che scandire a ritmi regolari le varie fasi di costruzione del Piano e i rispettivi gradi di adesione a esso. Come se non bastasse, la retorica con cui vengono narrati i diversi momenti del Piano non è casuale: mira infatti ad appassionare l’interlocutore e a persuaderlo della indiscutibile grandiosità dei fatti raccontati, ossia del Piano stesso. Così, se Casaubon narra l’avventura templare con toni “tra il western e il cartone animato”, il colonnello Ardenti espone le sue tesi con un efficace “senso del teatro”. Per queste ragioni il lettore ha come l’impressione di scivolare progressivamente nell’atmosfera allucinata della vicenda accompagnato da un calcolato sentimento di fastidio e di noia che l’estenuante lunghezza della narrazione non può non provocare. La costruzione del Piano – la scrittura del libro – procura un imbarazzo in qualche modo analogo a quello che si prova di fronte alle orge sadiane: la ripetizione ossessiva dei medesimi gesti e delle stesse situazioni produce quel che si potrebbe dire un effetto di surreale, una specie di organizzato e costante straniamento. La sorvegliata adesione del lettore alla finzione narrativa è al tempo stesso la fluttuante credenza dei personaggi nei confronti del Complotto: “Credo – dice col senno di poi il narratore Casaubon – non ci sia più differenza, a un certo punto, tra abituarsi a fingere di credere e abituarsi a credere”. Il problema sta nell’impossibilità costitutiva di individuare quel certo punto in cui ha luogo il passaggio tra finzione e realtà. Cosa che deriva dal tipo di logica su cui si basa l’idea del Complotto e il comportamento dei cosiddetti ‘diabolici’.

La logica del Complotto

La logica del racconto coincide con quella del Complotto. È una logica stupida ed efficace, capace di riscaldare gli animi e di dar luogo a incongrui atti di fede e di conseguente violenza. Subito dopo il racconto della vicenda templare, Casaubon ne trae l’adeguata morale riallacciandosi alla tipologia di Belbo: “Credo sia un poco come la sua storia dell’altra sera. Tutta la loro vicenda è un sillogismo contorto. Comportati da stupido e diventerai impenetrabile per l’eternità. [...] ogni volta che un poeta, un predicatore, un capo, un mago hanno emesso borborigmi insignificanti, l’umanità spende secoli a decifrare il loro messaggio. I Templari rimangono indecifrabili a causa della loro confusione mentale. Per questo tanti li venerano”.

L’esito pratico del paralogismo dello stupido o del ‘cortocircuito’ del matto è la follia di chi, come Belbo, decide di dare una svolta alla propria esistenza insoddisfatta giocando il tutto per tutto, o di chi, come Agliè, non è più in grado di darsi un’identità e si crede immortale. Ma è anche la follia collettiva che nel corso della storia dà luogo a eccidi e stragi, a inquisizioni, torture, roghi, persino all’olocausto. La conseguenza, in breve, è quella di mescolare senza riguardo realtà e finzione, verità e menzogna. Ma qual è e come funziona, dal punto di vista formale, la logica della stupidità? È Casaubon, al termine della vicenda, a ricostruire le tre regole fondamentali su cui si basa il modo di pensare antirazionalistico dei diabolici. Regole che lui, Belbo e Diotallevi hanno fatto proprie e hanno applicato con tale perfezione da costruire un Piano che ha persuaso e sedotto gli stessi diabolici.

La prima regola è quella dell’analogia universale, basata sul principio secondo cui “qualsiasi cosa è simile a qualsiasi altra sotto un certo rapporto”. Gli accostamenti tra avvenimenti, cose e persone non vengono fatti secondo leggi di causa ed effetto, non presuppongono gerarchie logiche o linguistiche, ma si fondano su vaghe somiglianze di qualsiasi genere: “le connessioni ci sono sempre, basta volerle trovare”. In tal modo, il ricorso indiscriminato all’analogia porta all’abolizione pressoché totale della separazione retorica tra letterale e figurato: “Tutti stavamo lentamente smarrendo quel lume intellettuale che ci fa sempre distinguere il simile dall’identico, la metafora dalle cose, quella qualità misteriosa e folgorante e bellissima per cui siamo sempre in grado di dire che un tale si è imbestialito ma non pensiamo affatto che gli siano cresciuti peli e zanne, e invece il malato pensa ‘imbestialito’ e subito vede colui che abbaia o grufola o striscia o vola”. Accade allora che prima si decida di collegare due eventi e soltanto in un secondo tempo si espliciti la ragione di quel collegamento. Da questo punto di vista, l’importanza di un certo elemento non deriva dalle sue qualità intrinseche, ma dalle relazioni che intrattiene con altri elementi: “Qualsiasi dato – secondo Belbo – diventa importante se è connesso a un altro”.

Da qui la seconda regola, secondo cui “se alla fine tout se tient, il gioco è valido”. L’unica giustificazione del procedimento analogico, del connessionismo selvaggio, è a posteriori: se viene costruita una struttura forte, capace di reggersi in piedi senza aiuti esterni, in cui ogni elemento gioca il suo ruolo in connessione a un altro elemento dello stesso sistema, il metodo seguito sarà da ritenere valido. Il risultato invera in processo: anything goes purché si giunga a un esito coerente al suo interno ed efficace nella prassi.

Questa specie di caricaturale strutturalismo è fortemente intriso di un’ideologia reazionaria o, se si vuole, dal principio e valore classico dell’imitazione. La terza regola enunciata da Casaubon prescrive infatti che “i libri dei diabolici non debbono innovare, debbono ripetere il già detto, altrimenti dove va a finire la forza della Tradizione?”. Al di là del delirio nominalistico che tende a moltiplicare le sette e le rispettive tendenze esoteriche, la parola ermetica è sempre uguale a se stessa. E se il déjà vu impressiona moltissimo Belbo, Garamond ha chiara fin dall’inizio la sua capacità veridittiva: “Occorre che i libri di Iside Svelata parlino esattamente delle stesse cose di cui parlano gli altri. Si confermano tra loro, dunque sono veri. Diffidate dell’originalità”.

Queste regole formali sono sensibilmente diverse, quando non opposte, a quelle della logica aristotelica su cui si è fondato il razionalismo occidentale. Di fronte alle “catene puntigliose e ottuse” di quest’ultima, la logica della stupidità si presenta come una non logica. E in questa apparenza sta la sua forza, la sua capacità di ritirarsi in buon ordine, di non mostrare le sue carte e di agire insinuandosi surrettiziamente nei meandri dei ragionamenti pseudo sillogistici. Il maestro e predicatore di questa antica e pervicace sapienza è certamente Agliè, il quale non lesina i suoi insegnamenti: “Il vero esoterismo – sostiene – non ha paura dei contrari” poiché “qualsiasi errore può essere il portatore misconosciuto della verità”. Allo stesso modo, “il saggio non è colui che discrimina, è colui che mette insieme i brandelli di luce da dovunque provengano”. E ad Agliè si oppone Lia, personaggio che, restando strategicamente nell’ombra, impersona un’esperienza positiva di lucidità intellettuale e di dichiarata umanità. Al delirio ermeneutico di Casaubon, che svela alla compagna le sue scoperte circa il Piano, Lia contrappone il tipico scetticismo della persona di buon senso e costruisce una nuova interpretazione del messaggio di Provins come se si trattasse di una lista della lavandaia: “per dimostrarmi – ammette Casaubon – che sono stupido”. Alla caduta progressiva dei tre protagonisti nel mondo dell’occultismo, Lia risponde con una proposta di vita metodicamente normale: fa un figlio. La Cosa che si agita nel ventre di Lia costituisce per Casaubon un monito costante verso la lucidità, verso il lato non oscuro dell’esistenza.

Ma le regole della sapienza ermetica non si limitano a un vuoto formalismo: esse generano la gamma dei loro possibili contenuti. Alla nonchalance del metodo analogico occorre necessariamente accostare un codice generativo molto rigido che renda conto in profondità della possibilità della connessione di tutto con tutto. Occorre sospettare, secondo tale mentalità, l’esistenza di un Piano nascosto che giustifichi le analogie a prima vista incongrue tra le cose, che spieghi la dialettica tipicamente sapienziale tra realtà e apparenza. “Quando ci si mette in uno stato di sospetto non si trascurerà più nessuna traccia”: si cercherà così un Complotto che custodisce un segreto, un segreto qualsiasi che ha lo scopo precipuo di suscitare una generale credenza nel Piano. “La connessione – spiega Belbo – cambia la prospettiva. Induce a pensare che ogni parvenza del mondo, ogni voce, ogni parola scritta o detta non abbia il senso che appare, ma ci parli di un Segreto. Il criterio è semplice: sospettare, sospettare sempre”. Ma il segreto non ha una sintassi o una semantica specifiche: ha soltanto una pragmatica. Esiste in quanto vi si crede: è la credenza nel segreto che produce il segreto stesso. “Il vero iniziato è colui che sa che il più potente dei segreti è un segreto senza contenuto, perché nessun nemico riuscirà a farglielo confessare, nessun fedele riuscirà a sottrarglielo”. Comportandosi come se esistesse un Piano, il Piano assume realtà e verità: una logica astratta ha esiti sensibilmente concreti. Anche in questo caso – segnale di suprema stupidità – quel che viene dopo rende possibile quel che stava prima.

Abulafia e Lorenza

“Macchina stupida, non ti emozioni neppure al pensiero di Lorenza”. Innervosito dal fatto di non possedere la parola di accesso alla “pancia” del computer chiamato Abulafia, Casaubon ha un attimo di illuminante smarrimento: in Belbo la dipendenza dall’aggeggio-confessore mal si concilia con l’emozione erotica, così come la nostalgia per il passato non trova riscontro nella sua smania di rigore logico. In altre parole, passione e ragione vivono nel suo animo relazioni pericolose, contrastano tra loro senza soluzione di continuità, provocando non pochi turbamenti psicologici al povero redattore deluso da un’esistenza priva di eroismi. Così almeno a prima vista. Ma poi – osservando gli slittamenti progressivi che dalla curiosità snobistica per la vicenda dei Templari lo portano sino all’esaltazione suicida per il piano dei diabolici – ci si avvede che agisce in lui una vera e propria passione della ragione o, che è lo stesso, una ragione della passione.

Belbo è senza dubbio il personaggio centrale del libro: e non tanto – come qualcuno ha voluto intendere – per la sua eventuale analogia con l’autore, quanto semmai perché in lui si concentra la maggior parte delle forze i cui vettori si incrociano lungo tutto il romanzo. Le sue contraddizioni psicologiche ed esistenziali – tipiche di una generazione e, forse, di una società – scorrono parallelamente all’infittirsi della trama narrativa: il gioco delle parti (da un lato i diabolici, con la loro eredità storica e culturale; dall’altro la ragione, col suo lucido rigore) sfuma via via in un miscuglio generalizzato di somiglianze e di analogie. La riforma del sapere progettata con Diotallevi è in fondo il Piano prima della sua attualizzazione, la Facoltà di Irrilevanza Comparata che i due fantasticano non fa che anticipare le due collane, Iside Svelata e Hermetyca, che lo porteranno sulla via dei diabolici. Allo stesso modo, la sua smania di trovare stupidi dappertutto sortirà l’effetto opposto: quello di perdere la testa sino all’infatuazione e al sacrificio finale.

La classificazione dei tipi di stupidità sembrerebbe esser generata dalla mente di uno che ha capito tutto della vita e organizza la sua di conseguenza. Ma in essa si nasconde in realtà un problema senza soluzione: Belbo vede il mondo sub specie editoriale, pensa che il microcosmo della casa editrice (dove vige una lotta quotidiana tra chi vuole pubblicare libri farneticanti e chi cerca di ostacolare, subendo inevitabili compromessi, il dilagare della stupidità) sia estendibile al macrocosmo esterno (dove si agisce sulla base di altri codici). Per questo, nonostante i suoi avvertimenti, è lui stesso a incoraggiare una costante e ossessiva applicazione della tipologia degli stupidi a uomini e cose che non le competono. Ugualmente, le difficoltà nella relazione con Lorenza Pellegrini non dipendono da banali contrasti di carattere tra i due. Se si osservano momento per momento i passaggi infinitesimali degli stati d’animo di Belbo – tra delusioni, vergogne, menzogne, scherzi e desideri di ogni tipo – si incontra in profondità una specie di motivo costante. È l’impossibilità di concepire intellettualmente qualcosa che pure in qualche modo percepisce: il fatto che ragione e passione, macchina e emozione, meccanica e pulsione non sono antitetiche, non costituiscono mondi separati e, con termine medievale, incompossibili. Sono anzi strettamente interrelate, comunicano tra loro senza sosta, si scambiano i ruoli agevolandosi reciprocamente. Abulafia non si emoziona al pensiero di Lorenza ma si apre a chi gli comunica il proprio sconforto: la parola chiave per accedervi è no. E se Lorenza turba tanto Belbo è per il modo in cui gioca a flipper agitando il pube. Tra macchina e corpo si produce una simbiosi che, se non è pensabile con gli schemi della logica formale, pur tuttavia – senza per questo diventare desideranti – è l’origine e lo scopo di molte azioni umane e sociali.

Di conseguenza, le crisi periodiche di Belbo e i conseguenti sfoghi nei files di Abulafia non sono il semplice effetto della sua mancanza di protagonismo. Dire, come fa a un certo punto Casaubon, che il “suo depresso libertinismo intellettuale celava una disperata sete di assoluto” è un modo per semplificare il carattere del personaggio, per ridurre a ingenue contraddizioni di una psiche irrisolta ciò che va letto come un dissidio profondo tra logiche contrapposte: quella del sillogismo e quella del paralogismo, quella del saper fare e quella del matto. Il difetto principale di Belbo, probabilmente, è quello di radicalizzare costantemente le posizioni, di agire più per partito preso che per umano buon senso, di prendere sul serio la contrapposizione tra le due logiche, aderendo prima all’una poi all’altra. E troverà la morte “per provare a se stesso e agli altri che, anche in difetto del genio, l’immaginazione è creatrice”. La parabola di Belbo è esemplare perché egli non riesce a discernere tra superficie e profondità, tra apparenza e realtà. Facendo così, in un modo come nell’altro, il gioco dei diabolici.

L’unica via d’uscita sarebbe quella di stare in equilibrio sul filo della fascinazione, di mantenersi su quel limite oltre il quale il semplice interesse diviene pura adesione. Via che, spiega Casaubon, Belbo in qualche modo percorre: “Mi ero chiesto sovente, lavorando con lui, perché accettasse quella situazione. [...] Avevo creduto a lungo che lo facesse perché poteva coltivare i suoi studi sulla stoltezza umana. Quella che lui chiamava stupidità, il paralogismo imprendibile, l’insidioso delirio travestito da argomentazione impeccabile, lo affascinava – e non faceva che ripeterlo”. Se non è possibile passare alla tromba, tanto vale dilettarsi col genis, “lo strumento più stupido di tutta la banda”. Se non è possibile scrivere la propria storia, meglio dilettarsi a riscrivere quelle degli altri. In altre parole: se la stupidità non si può combattere (perché, in ogni caso, vince sempre lei), sarà possibile godere del fascino che essa immancabilmente emana. Fascino subdolo e ammaliante che porta alla perdita di sé. Il limite viene superato, l’equilibrio perduto. Lottare per poter suonare la tromba, abbandonare Abulafia per Lorenza, è troppo rischioso. Si perde il senno e il senso del gioco. Si diviene adepti delle proprie finzioni. Si cercano significati dove non ce ne sono. Si cade inevitabilmente nel senza fondo dell’ottusità.


Livelli

Una pignoleria necessaria

Nello stesso periodo in cui viene pubblicato Il pendolo di Foucault esce Il cavaliere e la morte di Leonardo Sciascia. La circostanza casuale induce a un accostamento tematico tra i due romanzi – senza dubbio molto diversi per dimensioni, struttura e stile – non privo di interesse. La fantomatica setta dei Figli dell’Ottantanove che, nel Cavaliere, rivendica l’omicidio dell’avvocato Sandoz potrebbe in qualche modo entrare a far parte del Piano fantasticato da Casaubon, Belbo e Diotallevi nel Pendolo. Essa infatti, come gli innumerevoli gruppi ermetici che si succedono nella storia, funziona al di là della realtà per il fatto che qualcuno crede alla sua esistenza. È la logica della stupidità: nel momento in cui l’affabulazione produce una realtà fittizia, basta credere in essa per assicurarle un ruolo e uno scopo. Non importa che i Figli dell’Ottantanove stiano effettivamente da qualche parte, non importa che essi abbiano assassinato Sandoz: basta che i giornali ne diffondano la notizia e la gente crederà alla loro esistenza. Il Vice ha ben chiaro il meccanismo: “Il punto è che i figli dell’Ottantanove stanno nascendo ora: per mitomania, per noia, magari per vocazione a cospirare e a delinquere; ma non esistevano un minuto prima che radio, televisione e giornali ne dessero notizia. Il calcolo di chi ha ucciso o fatto uccidere Sandoz li ha creati, appunto calcolando sul risultato minimo di annebbiarci, ma forse anche sul risultato massimo che qualche imbecille rispondesse all’appello professandosi figlio dell’ottantanove”. Un meccanismo stupido genera ulteriori imbecilli. La strategia del Complotto e della credenza ha indubbiamente ha che fare con la stupidità.

Basta aprire A futura memoria e seguire con attenzione i ragionamenti di Sciascia nel corso delle note polemiche sulla giustizia e sull’antimafia. Si fondano tutti su una sensazione fastidiosa ma eternamente presente: le argomentazioni degli avversari non hanno né capo né coda, fanno riferimento a principi vaghi, imprecisi, instabili. Il fanatismo è sempre accompagnato dalla stupidità: non c’è articolo, tra quelli raccolti in questa antologia, in cui questo concetto non ritorni con insistenza. E il compito del polemista sarà quindi quello, a prima vista banale, di mantenersi entro i limiti dell’umana intelligenza per individuare con monotona ma necessaria pignoleria quelle cretinerie che spesso nascondono una calcolata malafede. C’è in Sciascia un’implicita teoria della stupidità, di carattere narrativo, che va esplicitata mediante una lettura orientata della sua opera.

Massima ingiuria e minimo epiteto

Il professor Paolo Laurana giace “sotto grave mora di rosticci, in una zolfara abbandonata, a metà strada, in linea d’aria, tra il suo paese e il capoluogo”: a causa della sua impudenza, della sua goffaggine, della sua ingenuità, del suo desiderio di verità. “Era un cretino”, commentano in chiusura di A ciascuno il suo gli ex amici: ma anch’essi, a rileggere il testo del romanzo, non sono da meno. Se Laurana, spiega il narratore, è “non molto intelligente, e anzi con momenti di positiva ottusità”, il dottor Roscio, secondo il vecchio padre, è “di un’intelligenza quieta, lenta”; i cretini scocciano per telefono, il perfido Rosello, dice il parroco di Sant’Anna, è “un cretino non privo di astuzia”, la cameriera di casa Manno, a detta della vedova, è “stupida” e “ignorante”; e “cretino” è chi affida il proprio onore a una ragazza che, sulla base della confessione di quella stupida cameriera, ha una tresca col farmacista. Come se non bastasse, anche il folle Benito, a Montalmo, non riesce a liberarsi dai cretini che lo assillano: “se io esco di casa per trovare la compagnia di una persona intelligente, di una persona onesta, mi trovo ad affrontare, in media, il rischio di incontrare dodici ladri e sette imbecilli che stanno lì pronti a comunicarmi le loro opinioni sull’umanità, sul governo, sull’amministrazione municipale, su Moravia”; persino la compagnia dei libri prelude a spiacevoli incontri: “non è che non mi capiti, anche qui dentro, di imbattermi nei ladri, negli imbecilli... Parlo di scrittori, beninteso, non di personaggi”.

Sembra che il piccolo paese siciliano teatro della vicenda (prototipo dei paesi siciliani reali, a loro volta metafora del mondo), sia frequentato da una massa di insopportabili cretini o – ma è lo stesso – che in quel luogo la gente usi tacciare amici e conoscenti di insana stupidità a ogni minimo segnale di défaillance intellettuale, morale o fisica. Massima ingiuria e minimo epiteto applicabile, al primo venuto, ‘cretino’ è chi non rispetta i codici di un comportamento conveniente a sé e agli altri, chi infrange i limiti di una tacita morale condivisa, chi parla a vanvera di cose che tutti sanno e che non vale la pena ribadire. Ma la stupidità invade anche lo spocchioso e l’intransigente, lo scocciatore, il presunto intelligente. L’imbecillità è uno stile di vita, un metodo conoscitivo, un’abitudine intellettuale, un programma d’azione. Ci sono più cretini che intelligenti: e chiunque può diventare stupido in circostanze specifiche, in certi momenti, in particolari contesti. Al contempo, il giudizio di cretineria non è formulato necessariamente da un non-cretino: anzi, il più delle volte un tale apprezzamento è il sintomo palese di una corrispondente incertezza nel linguaggio e nell’azione. Se Laurana è considerato cretino da don Luigi, non è tanto perché non ha saputo mantenere segrete le progressive scoperte della sua indagine; ma semmai perché aveva fiutato la pista corretta prima di tutti gli altri, lì in paese. L’accusa di stupidità rivolta a Laurana è il chiaro segnale di una stizza mal repressa, ma anche – dal punto di vista di Leonardo Sciascia – l’angosciante consapevolezza di una sconfitta: quella del buon senso civico di fronte alla violenza del potere.

Pensieri a raccolta

A ciascuno il suo è un esempio tra i tanti: l’opera di Sciascia è costellata da frequenti richiami al tema della stupidità. Pur senza esplicitarla in uno scritto che ne dispieghi i tratti, le valenze, le ambiguità e le contraddizioni, è noto che a più riprese e in più occasioni Sciascia si è occupato dell’annosa questione dell’imbecillità umana. I suoi giudizi sulla stupidità di qualcuno o di qualcosa colpivano i suoi lettori, turbavano i suoi interlocutori, spaventavano i suoi nemici: e spesso si rivelavano definitivi. Gli esempi più convincenti in proposito sono – come si è accennato – nei suoi scritti di tipo pamphlettistico, laddove Sciascia espone il suo punto di vista o sceglie di difendersi attaccando duramente l’avversario politico o letterario del momento. E non è un caso: quello sulla stupidità infatti non è un giudizio di fatto ma un giudizio di valore, non mette in moto categorie di tipo constativo ma apprezzativo. Di più: al momento della sua formulazione entrano in gioco specifiche passioni dell’interlocutore; nel momento in cui la collera, l’impazienza, la stizza stanno per prendere il sopravvento, ma non l’hanno ancora preso del tutto, ecco che si fa strada l’epiteto – che non è ancora un’ingiuria. Così, si ricorderà la fondamentale intuizione di Sciascia sulla nascita del ‘cretino di sinistra’, che negli anni Settanta segnò una svolta nel modo di intendere i rapporti tra cultura e politica. Se dapprima la ragione (dunque l’intelligenza) era, per convinzione generalizzata, a sinistra, Sciascia rilevava nella stereotipia del comportamento e del linguaggio ‘sinistresi’le prime avvisaglie di una decadenza sia intellettuale che politica.

Altri possibili accenni di Sciascia alla stupidità è facile trovarli nelle pagine di diario, nelle notazioni brevi, frammentarie ma non meno efficaci. Nero su nero è ricco di indiretti richiami a Musil. “È ormai difficile – si legge nella seconda pagina del libro – incontrare un cretino che non sia intelligente e un intelligente che non sia cretino. Ma di intelligenti c’è stata sempre penuria; e dunque una certa malinconia, un certo rimpianto ci assalgono tutte le volte che ci imbattiamo in cretini adulterati, sofisticati. Oh i bei cretini di una volta !”. E troviamo più avanti: “la perfezione sta alla cretineria meglio che all’intelligenza”. E ancora: “Abbiamo un neologismo: cretinizzazione. Prima il fatto, poi la parola che indica il fatto. Con molto ritardo”. Ma la più lunga, probabilmente, notazione di Sciascia sulla stupidità ha, non a caso, esplicito carattere di ‘appunto’: si tratta delle pagine su Bouvard et Pécuchet adesso in Cruciverba. “Può un uomo non stupido – si chiede Sciascia a proposito di Flaubert – concludere, imprigionandovisi dentro, un’opera sulla stupidità?”.

Più in generale, sembra che all’esercizio lucido e continuo della ragione non si opponga, nell’opera e nel pensiero di Sciascia, un’antiragione, ma semmai, appunto, la stupidità nelle sue svariate forme. Contrariamente a un illuminismo di maniera, che schiera in una dialettica banale razionalismo e irrazionalismo, intelligenza e stupidità, i due poli, secondo Sciascia, possono spesso ritrovarsi e congiungersi. E non si tratta del normale gioco tra realtà e apparenza (l’intelligente che in effetti è cretino o viceversa), ma di un basilare mescolamento tra procedure intellettive, capacità fisiologiche, scopi dell’azione ed effetti sociali. Si ripensi all’immagine di Giufà proposta ne Il mare colore del vino, che mette in mostra gli aspetti genuini e integrali, dunque positivi, della stupidità “di una volta”. Si potrebbe compilare una vera e propria antologia di citazioni raccogliendo dai testi di Sciascia le sue preziose notazioni sulla questione della stupidità. Aiuterebbe quanto meno a ripensare un aspetto del suo pensiero, del suo modo di ragionare, che è stato ed è tuttora poco osservato. Ma sarebbe forse più utile tracciare, al di sotto dell’apparente casualità della notazione, dell’osservazione o dell’appunto, una specie di sistema di pensiero che, se certamente non risolve tutto Sciascia, permette comunque, una volta ricostruito, di leggere in modo mirato gran parte della sua opera narrativa, saggistica, giornalistica e così via. Potrà sciogliersi in tal modo l’apparente contraddizione dell’atteggiamento di Sciascia nei confronti della stupidità, l’odio-amore, il disgusto e la fascinazione che, a seconda dei casi, prendono il seguace di Diderot e l’ammiratore di Stendhal di fronte alle manifestazioni (intellettuali, sociali, politiche) dell’imbecillità umana.

Un sistema di pensiero

Cos’è per Sciascia la stupidità? Impossibile risolvere in poche battute la questione senza ricadere, ancora una volta, nel rischio della cretineria. È questa infatti la prima impasse che sorge nei confronti della stupidità: è il rischio, diciamo così, della specularità, della ricaduta su di sé del giudizio o dell’insulto. “Il culto dell’intelligenza – ha scritto Sciascia (riprendendo ancora una volta Musil) – è una copertura molto usata dagli stupidi”. Da cui una seconda impasse: “La stupidità [...] non si può viverla, interamente, dal di dentro. Bisogna o ricostituirla dal di fuori o ricostituirla in modo da poterne uscire [...] o romperla subito dopo averla ricostituita”. D’altra parte, la stupidità non può essere racchiusa in una o più definizioni, non può essere soggetta a divisioni interne o a distinguo esterni: non serve, secondo Sciascia, proporre una tipologia dei diversi generi di stupidità (come accade nel Pendolo di Foucault). Quel che un pensiero della stupidità produce è semmai un piccolo sistema a più gradini che sembra agire in profondità in molte soluzioni narrative, in alcune scelte intellettuali, in certe posizioni politiche.

Al gradino più basso sta la pratica della polemica. Come ha indicato Claude Ambroise, il gusto della polemica, tratto in buona misura dal modello del pamphlet di Courier, è costitutivo dell’opera di Sciascia, dalle Parrocchie di Regalpetra sino al Cavaliere e la morte. Polemica letteraria, politica, intellettuale che garantisce allo scrittore un suo ruolo esistenziale e sociale, ma il cui diritto deve dallo stesso scrittore essere conquistato e mantenuto. “La polemica – nota Ambroise – è possibile solo se esistono schieramenti contrapposti e se, nello stesso tempo, ognuno ha il diritto di dire la sua, di opporsi, contrapporsi a questo o a quello schieramento”. Schieramenti che Sciascia non ha mai avuto bisogno di cercare, riservandosi di intervenire a favore di quello a suo avviso più convincente: nel campo sociale (Mafia/ Legalità, Terrorismo/Giustizia), in quello politico (Fascismo/Antifascismo, Democrazia Cristiana/ Partito Comunista), in quello letterario (Avanguardia /Tradizione), in quello genericamente culturale (Provincialismo/Cosmopolitismo), nella storia (Inquisizione/ Eresia), nel mito (Giuliano/Carabinieri) e così via. In tutti questi casi la stupidità viene identificata con lo schieramento da combattere nel corso della polemica, molto spesso rappresentativo di una vistosa mancanza di raziocinio.

Ma la vera stupidità, ripete spesso Sciascia, è quella del fanatismo, ovvero quella di chi, per cecità intellettuale o eccessiva passione, parteggia in modo sperticato, grossolano e, appunto, cretino per il proprio schieramento senza porsi il problema dell’altro, delle sue eventuali ragioni, dei suoi eventuali diritti. La stupidità – che, non a caso, si accompagna in questi casi con frequenti manifestazioni di brutalità fisica o di violenza morale – sta nell’ostinazione sviscerata verso una e soltanto una delle possibili posizioni di un contrasto politico, di un’assiologia di valori, di una disputa intellettuale. In un intervento del 1978, Sciascia sosteneva: “L’imbecillità, più il fanatismo, più lo spirito di vendetta [...] li abbiamo visti funzionare, con forza integrale e totale, sotto il fascismo: contro Giovanni Amendola, Piero Gobetti, Antonio Gramsci; e forse di recente, ma in modo più oscuro, in periodo antifascista, contro Pier Paolo Pasolini. È certo che, se non fosse stato mortalmente colpito dallo spirito di vendetta, Pasolini avrebbe dovuto fare i conti – dolorosamente, giorno dopo giorno – con l’imbecillità e il fanatismo”. Poco più avanti si legge però: “Vi sono intellettuali di un tipo che si può far direttamente discendere dagli illuministi propriamente detti, e si possono definire come manichei: in questo, che le reazioni e le avversioni che suscitano nell’oscuro mondo dell’imbecillità e del fanatismo in loro stessi provocano una forma di certezza di sé, di sicurezza, di identità con se stessi (e confesso che io in questa descrizione mi ci riconosco)”. Così, se quest’ultima affermazione orienta il pensiero verso il primo livello in cui si riconosce la stupidità, quella iniziale si inserisce nel secondo livello. Ma l’una non è per nulla in contrasto con l’altra: il manicheismo, infatti, non va confuso con il fanatismo.

Superare questo genere di stupidità legata al fanatismo, additandone diffusione e danni, non significa attestarsi in una posizione superiore, dar mostra dell’altezzoso snobismo di chi non vuol sporcarsi le mani. Vuol dire semmai – pur senza abbandonare la polemica, anzi radicalizzandola – proporre una soluzione intermedia, critica e mai definitiva, dubbiosa. In questo, la posizione di Sciascia si rivela pervicacemente anti-dialettica, non solo nelle sue formulazioni esteriori (la sfiducia verso certo marxismo, l’attenzione per i cosiddetti nuovi filosofi etc.), ma più che altro nella pratica continua, insistente, quotidiana di una ragionevolezza (ben diversa dalla razionalità) che mette insieme diffidenza e buon senso, sospetto e propensione all’ascolto dell’altro. È qui che si inquadrano le chiassose polemiche sul caso Moro o sul funzionamento della giustizia e su quelli che ha malauguratamente definito ‘professionisti dell’antimafia’. Ed è qui che bisogna ricondurre certe sue sospensioni di giudizio che, in modo del tutto analogo, celavano un approfondimento del giudizio: si pensi a Morte dell’inquisitore, dove la condanna dell’Inquisizione non si trasforma in un automatico elogio dell’eresia; o anche all’odio-amore per la Sicilia (La corda pazza, Fatti diversi di storia letteraria e civile); alle riflessioni sul mito di Salvatore Giuliano, alla difesa del presunto fascismo di Brancati, ma anche all’atteggiamento nei confronti della pratica letteraria, dove si mescolano in modo originale alto e basso, attenzione al cinema o alla letteratura poliziesca e gusto per la poesia o per la prosa d’arte. Se la Sicilia è sineddoche del mondo è perché in essa possono convivere atteggiamenti, posture, ideologie e valori diametralmente opposti. E se questo genera ovvie difficoltà, forzature, oppressioni, violenze, produce al contempo uno spirito dubbioso e pessimista, scettico e rassegnato, riflessivo e sfiduciato che ha come suo unico e principale avversario – come mostra A ciascuno il suo – la persistenza del cretino.

Terzo e ultimo gradino del sistema è quello della pietà, del sentimento poetico, della fascinazione. Si passa a questo stadio quando si riflette sul fatto che se, come tali, le assiologie sono stupide, la stessa opposizione stupidità/intelligenza può facilmente generare ulteriori stupidità. È il rischio che si diceva: quello del culto dell’intelligenza come copertura della stupidità. Unica possibile via d’uscita – come sapevano bene Flaubert, Musil, Valéry, Brancati, Savinio, Barthes – è la letteratura, ossia il cedimento a una fascinazione per la stupidità. Meglio, appunto, i bei cretini di una volta, a loro modo sinceri e innocui, piuttosto che gli imbecilli adulterati di oggi, ben più subdoli e pericolosi. Ma entrambi i casi non possono che procurare curiosità e interesse, stupore: i copisti flaubertiani, esempio topico, scivolano senza posa da un livello all’altro, e tuttavia suscitano indignazione e pietà, fastidio e commiserazione. Sono sentimenti che si provano quando ogni tipo di ragione ha dichiarato fallimento. È il pensiero della morte: immediatamente prima della fine il Vice, protagonista de Il cavaliere e la morte, vede “il volto bello e quieto della signora Zorni animarsi di malizia” e rimbalzare impietosamente nei titoli dei giornali. La metafora è chiara. Si tratta dell’unico personaggio che può essere dotato di ‘perfezione’: “astratta, a testa per aria, divagante nei più celesti e irraggiungibili cieli della stupidità: che sa essere celeste, e anche profonda, come gli intelligenti sanno e, sentendola come seduzione, temono”. Ed è questo un altro modo per far polemica. Polemos è pulsione di morte.

Note e notizie

Questo libro ne ripropone un altro che avevo scritto in una diversa era. In sé, il testo è poco cambiato. A parte un nuovo paragrafo, un po’ di ripulitura da refusi e da varie ingenuità, non ultima quella che inseguiva un certo accademismo, da giovani percepito come un valore. In questo lungo periodo è accaduto di tutto. Ma per quel che riguarda il pensiero critico riguardante la stupidità, è come se ogni cosa sia rimasta ferma, intatta, immobile. O forse addirittura sia tornata indietro a passo di gambero. Quel che è mutato è il pubblico, il lettore, l’interlocutore di questo genere di temi e problemi, sempre più interessato a uno sguardo critico nei confronti della cultura e della società contemporanee, e tuttavia sempre meno incentivato a costruirsi proprie griglie interpretative, propri strumenti concettuali, propri attrezzi d’analisi. Motivo per cui mi sono deciso a riproporre le pagine che precedono, percependone la pressante inattualità.

Esordio

Sulla stupidità esiste una letteratura tanto estesa quanto variegata, nei temi, nei contenuti, nei generi e negli obiettivi. Fra raccolte di stupidari, dizionari di luoghi comuni, antologie di citazioni, meditazioni metafisiche, pamphlet ideologici e libri sedicenti spiritosi, c’è l’imbarazzo della scelta. Qui mi limito a segnalare, in ordine cronologico, le cose principali che ho consultato, e in parte usato. Giancarlo Livraghi, autore de Il potere della stupidità (Pescara, Monti&Ambrosini editori, 2004, con edizioni successive, la cui ultima versione è consultabile nel sito http://gandalf.it/stupid/libro.htm) ha redatto una bibliografia molto più vasta, anch’essa consultabile al sito http://gandalf.it/stupid/librvari.htm.

Gaillard, Françoise “Qui a peur de la bêtise?”, in Pretexte: Roland Barthes, a cura di Antoine Compagnon, Paris, U.G.E. 1978. Fruttero & Lucentini, La prevalenza del cretino, Milano, Mondadori 1985. André Glucksmann, La stupidità, ediz. orig. 1985, Milano, Longanesi, 1986. De la bêtise et des bêtes, numero monografico di Le temps de la réflexion, IX, 1988. Carlo M. Cipolla, “Le leggi fondamentali della stupidità umana”, in Id., Allegro ma non troppo, Bologna, Il Mulino 1988. Roberto D’Agostino, L’insostenibile pesantezza del sublime. Esempi di stupidità contemporanea, Milano, Mondadori 1989. Luciano Satta, Alla scoperta dell’acqua calda, Milano, Bompiani 1990. Fruttero & Lucentini, Il ritorno del cretino, Milano, Mondadori 1992. Pino Aprile, Elogio dell’imbecille, Milano, Piemme 1997. Diego Lanza, Lo stolto, Torino, Einaudi 1997. Oliviero Ponte di Pino, Chi non legge questo libro è un imbecille, Milano, Garzanti 1999. aa.vv., Stupidi e idioti. Undici variazioni sul tema, a cura di Valeria Frescura e Felice Ciro Papparo, Roma, Sossella 2000 (con un bel saggio di Andrea Cortellessa su Ermanno Cavazzoni). Fruttero & Lucentini, Il cretino in sintesi, Milano, Mondadori 2002. José Antonio Marina, Il fallimento dell’intelligenza. Teoria e pratica della stupidità, ediz. orig. 2004, Milano, Longanesi 2006. Eleonora De Conciliis, Pensami, stupido! La filosofia come terapia dell’idiozia, Milano, Mimesis 2008. Paolo Legrenzi, Non occorre essere stupidi per fare sciocchezze, Bologna, Il Mulino 2010. Alfredo Accatino, Imbecilli, Milano, Salani 2011. Paolo Febbraro, L’idiota. Una storia letteraria, Firenze, Le Lettere 2011. Lynda Dematteo, L’idiota in politica, Milano, Feltrinelli 2011.

Principi

L’idea di una storia della stupidità analoga a quella della follia fa riferimento al testo ormai classico, e dunque tutto da riscoprire, di Michel Foucault Storia della follia nell’età classica, ediz. orig. 1962, Milano, Rizzoli, 1981.

Su Giufà e le sue storie esiste una bibliografia considerevole, che prende avvio quantomeno dalle raccolte folcloriche di Giuseppe Pitrè (Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani, vol. III, Palermo, Pedone Lauriel 1875) e Laura Gonzenbach (Fiabe siciliane, Roma, Donzelli 2000) e attraversa gran parte della storia della letteratura italiana, sino alle più recenti riscritture di Francesco Lanza (Mimi siciliani), Leonardo Sciascia (Il mare colore del vino), Gesualdo Bufalino (L’uomo invaso) e Giuseppe Bonaviri (Giufà e Gesù). Testi riguardanti il Djuha arabo si trovano in Favole del mondo arabo, a cura di Inea Bushnaq, Milano, Arcana, 1987, e in Le storie di Giufà, a cura di Francesca Corrao, Palermo, Sellerio, 2001. Su questo personaggio sono ancora decisive le osservazioni avanzate da Italo Calvino nella sua celebre introduzione alla raccolta da lui stesso curata di Fiabe italiane (Torino, Einaudi 1956), ora anche nel volume Sulla fiaba, introduzione e cura di Mario Lavagetto, Torino, Einaudi 1988. Un testo recente che fa il punto su questa figura millenaria è Il libro dello sciocco di Matteo Martelli, Urbino, Metauro 2011. Per quel che riguarda il tema del mondo rovesciato è ancora utile il testo di Giuseppe Cocchiara Il mondo alla rovescia, ed. orig. 1963, Torino, Bollati Boringhieri 1981; per il carnevale si rimanda a Michail Bachtin L’opera di Ruabelais e la cultura popolare, ed. orig. 1965, Torino, Einaudi 1982.

Le citazioni da Gustave Flaubert sono tratte dalle sue lettere, raccolte nei volumi Correspondance I-II, édition présentée, établi et annoté par Jean Bruneau, Paris, Gallimard 1973-1980. Una buona selezione di queste lettere è in Preface à la vie d’écrivain, Extraits de la Correspondance de Gustave Flaubert, a cura di Geneviève Bollème, Paris, Seuil 1963. Il romanzo Bouvard et Pécuchet e il Dictionnaire des idées recues si trovano invece in Oeuvres II, texte établi et annoté par Antoine Thibaudet et René Dumesnil, Paris, Gallimard 1952. Le osservazioni di Queneau si trovano nell’articolo “Bouvard et Pécuchet”, del 1947, ora in Segni, cifre e lettere, introduzione di Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1981. Le annotazioni di Roland Barthes su Flaubert sono sparse in molti suoi scritti, tra cui Il grado zero della scrittura, ediz. orig. 1953, Torino, Einaudi, 1982; S/Z, ediz. orig. 1970, Torino, Einaudi, 1973; Barthes di Roland Barthes, ediz. orig. 1975, Torino, Einaudi, 1980. Nel suo “Appunto su Bouvard et Pécuchet” (ora in Opere 1971-1983, a cura di Claude Ambroise, Milano, Bompiani 1989) Sciascia è molto drastico nei confronti del tentativo flaubertiano. La stupidità sarebbe come la giara pirandelliana: “non si può viverla, interamente, dal di dentro. Bisogna o ricostituirla dal di fuori o ricostituirla in modo tale da poterne uscire [...] o romperla subito dopo averla ricostituita”. E la soluzione flaubertiana è stata, per Sciascia, radicale: quella della morte. Sul nesso fra luoghi comuni, stupidità e retorica cfr. soprattutto Victor Brombert, I romanzi di Flaubert, ediz. orig. 1966, Bologna, Il Mulino, 1989, e Leslie Hill, “Flaubert and the Rhetoric of Stupidity “, Critical Inquiry, III, 2, 1976.

Léon Bloy radicalizza le posizioni di Flaubert: “Di che si tratta, infatti, se non di strappare la lingua agli imbecilli, ai temibili e definitivi idioti di questo secolo? Ottenere il mutismo del Borghese, che sogno! Ah! se si avesse la benedizione di rubargli quest’umile tesoro, un paradisiaco silenzio cadrebbe subito sul nostro globo consolato” (Esegesi dei luoghi comuni, ediz. orig. 1901-1913, Massa, Memoranda 1986. Quanto a Paul Valéry, nelle prime pagine di Monsieur Teste egli afferma sorprendentemente che il suo problema non è quello della bêtise umana: curiosa esibizione di intelligenza, motivabile forse col fatto che, mentre scriveva, lo sciocchezzaio era già divenuto un genere letterario a sé stante, perdendo il tono e il senso datigli da Flaubert.

Altri due libri importanti su questi temi flaubertiani sono: Jean-Paul Sartre, L’idiota della famiglia, ediz. orig. Milano, Il Saggiatore, 1977; Mario Vargas Llosa, L’orgia perpetua, ediz. orig. 1975, Milano, Rizzoli, 1986.

Su postmoderno e obesità, più che Jean-François Lyotard, si fa riferimento a Jean Baudrillard, Le strategie fatali, ediz. orig. 1983, Milano, Feltrinelli, 1984, e America, ediz. orig. 1986, Milano, Feltrinelli 1987. La citazione di Giuseppe Pontiggia si trova ora in Il giardino delle Esperidi, Milano, Adelphi 1984.

Le riflessioni di Milan Kundera sul Kitsch, che visibilmente riprendono quelle di Herman Broch (Il Kitsch, ediz. orig. 1950, Torino, Einaudi, 1989), si trovano in L’arte del romanzo, ediz. orig. 1987, Milano, Adelphi, 1988. Si ricordi anche come uno dei personaggi dell’Insostenibile leggerezza dell’essere (ediz. orig. 1984, Milano, Adelphi 1985), la pittrice Sabina, voglia condurre attraverso la sua arte una lotta personale contro il Kitsch, sia esso quello della grande marcia del primo maggio comunista o quello dell’immagine idilliaca dei bambini che giocano nel prato di fronte al padre felice. Il Kitsch è quell’“accordo categorico con l’essere” che cerca a ogni costo “la negazione assoluta della merda”: “il Kitsch elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell’esistenza umana è essenzialmente inaccettabile”. Il problema che Sabina sperimenta su di sé è l’interiorizzazione del Kitsch, ovvero l’impossibilità di sfuggire da esso. Accadrà prima o poi che si proveranno gli stessi ingenui sentimenti di quel padre che vede i bambini giocare festanti nel giardino, o di commuoversi per una canzone “ridicola e sentimentale che parla di due finestre illuminate dietro le quali vive una famiglia felice”: “perché nessuno di noi è un superuomo capace di sfuggire interamente al Kitsch. Per quanto forte sia il nostro disprezzo, il Kitsch fa parte della condizione umana”.

Lo scritto di Sciascia sull’opera di Fernando Botero fa da introduzione a La corrida, Milano, Bolis.

Tormenti

L’edizione del Devoto-Oli consultata è del 2003.

Un’analisi della stupidità nella Recherche proustiana è ancora da fare. Essa dovrebbe forse partire dall’idea della molteplicità dei regimi di segni presenti in questa opera: “Un individuo – scrive Gilles Deleuze (Proust e i segni, ediz. orig. 1964, Torino, Einaudi 1967) – può mostrarsi abile nel decifrare i segni propri in un campo, ma restare idiota in ogni altro caso: così Cottard, il grande clinico”. Utili anche le osservazioni di Maurizio Ferraris in Ermeneutica di Proust, Milano, Guerini e Associati 1987.

Le citazioni da Barthes sono tratte da “Luogo comune”, ediz. orig. 1979, ora in Scritti, a cura di Gianfranco Marrone, Torino, Einaudi 1998, nonché dal Barthes di Roland Barthes già menzionato.

Il Discorso sulla stupidità di Robert Musil, ediz. orig. 1937, si legge ora nel volume Sulla stupidità e altri saggi, Milano, Mondadori 1986. La citazione dall’ Uomo senza qualità (1930-33) è tratta dall’edizione italiana, Torino, Einaudi 1957.

La storia di Chance Giardiniere è tratta dal romanzo Being There di Jerzy Kosinsky, del 1971, tradotto in italiano come Presenze, postfazione di Beniamino Placido, Milano, Mondadori, 1980, testo che ho usato per le citazioni. Da questo romanzo è ricavato il film Being There di Hal Ashby con Peter Sellers, del 1979, la cui versione italiana reca il titolo Oltre il giardino. Su questa opera sono utili le indicazioni di Sergio Blazina, “Oltre il giardino”, in Alfabeta, 21, 1981, come anche quelle di Nunzio La Fauci, “Linguistica vs semiotica”, in Per una storia della semiotica, Palermo, “Quaderni del Circolo semiologico siciliano”, 15-16, 1981.

Le riflessioni sul punto di vista dell’imbecille sono tratte dall’introduzione di Jurij Lotman e Boris Uspenskij al volume Ricerche semiotiche, Torino, Einaudi 1973. Di questi due autori, per i nostri temi, si veda anche Tipologia della cultura, Milano, Bompiani, 1975.

Le riflessioni di Marvin Minsky sull’intelligenza artificiale sono in La società della mente, ediz. orig. 1985, Milano, Adelphi 1989. A proposito di intelligenza e stupidità artificiali, gran parte dell’ambiguità che si crea nella loro relazione deriva dal diverso significato che si attribuisce ai termini ‘intelligenza’ e ‘stupidità’: una volta la stupidità, opposta al calcolo, è banale opinione comune; un’altra volta, opposta al buon senso, è follia, ma anche genialità. Allo stesso modo, l’intelligenza sarà nel primo caso complessità del ragionamento e nel secondo caso ragionevolezza irrinunciabile dell’uomo. Le due prospettive, anche se non simmetricamente, sono in qualche modo opposte: come distinguere la cretineria dell’opinione diffusa al buon senso comune? In generale, comunque, è abbastanza evidente come il ricorso all’idea e alla pratica dell’intelligenza sia indispensabile per pensare e scrivere la stupidità: determinando l’opposizione fra intelligenza e stupidità oppure, in altri casi, sottolineandone le insufficienze e le incongruenze. Tale opposizione, insomma, va posta per essere negata. Prova ne sia che quando un filosofo come Clément Rosset (Le réel. Traité de l’idiotie, Paris, Minuit 1977) sostiene che la questione della stupidità è autonoma rispetto a quella dell’intelligenza, lo fa disegnando parallelismi e somiglianze tra i due fenomeni. E, a un certo punto, è costretto a distinguere tra ‘sottise négative’ e ‘sottise positive’, ricalcando nella sostanza la dicotomia di Musil che si è utilizzata.

La bibliografia su computer e internet è sterminata, ancorché in corso di elaborazione. Attendendo il volo della solita nottola di Minerva, di là da venire, mi limito a segnalare quanto espressamente citato: ossia il libro di Lev Manovich Software culture, ed. orig. 2010, Milano, Olivares 2010, e quello di Nicholas Carr, Internet ci rende stupidi, ediz. orig. 2010 Milano, Cortina 2011. Un primo sguardo retrospettivo su ciò che l’avvento del computer da tavolo ha comportato dal punto di vista sociale e culturale è nel testo di Dario Mangano “Personal computer” presente nel dinamico dossier “anni ottanta” pubblicato in www.doppiozero.com. L’accostamento proposto da Umberto Eco fra internet e Funes el memorioso si trova in Costruire il nemico, Milano, Bompiani 2011.

Bestie

La conferenza di Johann Eduard Erdmann “Ueber die Dummheit” ricordata da Musil nel suo scritto sulla stupidità non è mai stata tradotta in italiano, né ripubblicata dopo la sua prima edizione di metà Ottocento.

Il dibattito su televisione, media e stupidità è sterminato, ancorché tuttora in corso. Qui facciamo riferimento soltanto al celebre Apocalitti e integrati di Umberto Eco (Milano, Bompiani 1964) che per la prima volta ha avuto ragione di prospettive radicali nei confronti dell’universo dei mass-media, inaugurando una serie di studi meno sospettosi (o entusiastici) e più attenti alle forme comunicative dei messaggi e dei loro apparati di codice. Tale rinvio non è qui casuale: l’immagine tradizionale di Adorno e, in generale, degli studi della Scuola di Francoforte, è appunto quella di studiosi ‘apocalittici’, e come tale viene da Eco discussa. Vale la pena ricordare in questo contesto una curiosa affermazione di Barthes: “l’idiozia sarebbe un nodo duro e inscindibile, un elemento primitivo: nulla da fare per decomporla scientificamente (se fosse possibile un’analisi scientifica dell’idiozia tutta la Tv crollerebbe). Cos’è? Uno spettacolo, una finzione estetica, forse un fantasma? Forse abbiamo voglia di metterci nel quadro?” (Barthes di Roland Barthes).

La Dialettica dell’Illuminismo di Theodor W. Adorno e Max Horkheimer si cita nella edizione italiana, Torino, Einaudi 1974. La sezione “Appunti e schizzi “ di quest’opera si apre con un paragrafo, “Contro quelli che se ne intendono”, dove esce fuori un’immagine diversa della stupidità, direttamente immersa nel sociale. Riprendendo un’idea già presente in Musil, quella della ‘stupidità intelligente’, Adorno rileva la costituzionale sciocchezza dei “furbi”, di coloro i quali, dando mostra di competenze varie, finiscono per spianare la strada ai “barbari” : “che il senno diventi sciocchezza – scrive Adorno – è implicito nella tendenza storica”; e ancora: “Che così, d’improvviso, i furbi siano gli stupidi, convince la ragione della propria irrazionalità”. Alla ricerca di riprese e approfondimenti adorniani sul tema che chiude quel libro, val la pena scorrere quanto meno la Teoria estetica, Torino, Einaudi 1975, dove sono presenti importanti pagine su Samuel Beckett.

Gli scritti di Gilles Deleuze cui si fa riferimento sono Differenza e ripetizione, ediz. orig. 1969, Bologna, Il Mulino, 1971 (da cui sono tratte le citazioni), e Logica del senso, ediz. orig. 1970, Milano, Feltrinelli 1975 (utile per la categoria del ‘problematico’e per la teoria degli effetti di superficie). Per quel che riguarda Michel Foucault, rimandiamo all’articolo “Theatrum philosophicum”, del 1970, tradotto in italiano come introduzione al libro di Deleuze del ‘69 (da cui le citazioni), nonché alla raccolta Scritti letterari, Milano, Feltrinelli 1971, dove è proposta un’interessante associazione fra stupidità e santità in Flaubert: sant’Antonio “vorrebbe essere ‘stupido’, animale, pianta, cellula. Vorrebbe essere materia. In questo sonno del pensiero e innocenza dei desideri che non sarebbero che movimenti, egli raggiungerebbe la stupida santità delle cose”. L’aver associato l’idea di bêtise alla nozione, di chiara derivazione deleuziana, di “divenire-animale “ si deve alla già menzionata Ermeneutica di Proust di Ferraris. La questione del nomadismo prende avvio dal celebre libro Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, ediz. orig. 1972, Torino, Einaudi 1975.

La nozione di ‘brusio’ linguistico è di Barthes, Il brusio della lingua, ediz. orig. 1984, Torino, Einaudi, 1988, sulla quale vanno lette le osservazioni di Paolo Fabbri nell’articolo “Era, Ora, Barthes”, del 1986, ora in Roland Barthes: l’immagine, il visibile, a cura di Gianfranco Marrone e Marco Consolini, Riga 33, 2010.

Gradi

La nozione di bathmologia viene sviluppata nel già citato Barthes di Roland Barthes. Su di essa si veda Gianfranco Marrone, Il sistema di Barthes, Milano, Bompiani 1994.

Una ricognizione sul fenomeno dell’amore è stata fatta da Jacques Gomila alla voce “Amore”, dell’Enciclopedia Einaudi, vol. I, Torino 1977, nella quale si discute anche il problema delle canzoni di consumo che, dice l’autore, “sviliscono” l’universo erotico a forza di rime facili e banali. Il celebre testo di Francesco Alberoni è Innamoramento e amore, Milano, Garzanti 1979, dove si parla di “linguaggio universale del desiderio”, “linguaggio della liberazione e del diritto”, “della vita trionfante”. Altra prospettiva sociologica sul tema di quella di Niklas Luhmann, Amore come passione, ediz. orig. 1982, Milano, Bruno Mondadori 2008.

Introducendo le Lettere alla fidanzata di Fernando Pessoa (Milano, Adelphi 1988), Antonio Tabucchi osserva che in esse “non c’è l’ovvietà, ma l’Ovvio maiuscolo e platonico, la sua struttura profonda, la fenomenologia in forma epistolare di un paradigma: il codice minacciosamente stupido dell’ Amore”.

Il libro di Barthes sull’amore è Frammenti di un discorso amoroso, ediz. orig. 1977, Torino, Einaudi 1979, per il quale si veda il già citato Sistema di Barthes. Questo autore ha approfondito tematiche retoriche, e con ciò l’idea della topica, soprattutto in La retorica antica, ediz. orig. 1970, Milano, Bompiani 1972. Sulle topiche retoriche si vede anche la già menzionata voce “Luogo comune” di Barthes e Bouttes.

Uso il termine ‘enciclopedia’ nel senso proposto da Umberto Eco, Semiotica e filosofia del linguaggio, Torino, Einaudi 1984, nozione che, come sottolinea egli stesso, richiama da vicino l’idea barthesiana di ‘codice’, cosi come è stata formulata in S/Z e utilizzata poi nei Fragments.

Il testo dove Michel Foucault inaugura una storia della sessualità è La volontà di sapere, ediz. orig. 1976, Milano, Feltrinelli 1979.

Tipi

L’adagio iniziale si trova nel risvolto de Il nome della rosa sin dalla sua prima edizione (Milano, Bompiani 1980), dove subito prima si afferma: “Se [l’autore] avesse voluto sostenere una tesi, avrebbe scritto un saggio (come tanti altri che ha scritto)”. Una buona sintesi delle problematiche teoriche presenti nell’opera filosofica e semiotica di Eco è stata redatta da Anna Maria Lorusso, Umberto Eco, Roma, Carocci 2008. Si vedano anche i saggi riuniti in Semiotica: storia teoria interpretazione. Saggi intorno a Umberto Eco, a cura di Patrizia Magli, Giovanni Manetti e Patrizia Violi, Milano, Bompiani 1992, e Nel nome del senso, a cura di Paolo Fabbri e Jean Petitot, Firenze, Sansoni 2001, dove è presente un’ottima bibliografia degli scritti di e su Eco curata da Anna Maria Lorusso. La nozione di paratesto è stata coniata da Gérard Genette, Soglie, ediz. orig. 1987, Torino, Einaudi 1989, che però, trattando della copertina dei romanzi, non considera i risvolti, ottimo esempio di testo a metà strada tra editore e autore. Paolo Fabbri, nell’articolo “L’idioma estetico: il dedalo nel testo” (presente nel volume citato Semiotica: storia teoria interpretazione) supera le apparenti dissimmetrie tra teoria e narrazione rilevando come certe questioni lasciate aperte nella semiotica di Eco trovino una loro ‘soluzione figurativa’ nella pratica del romanzo e, più in generale, del pastiche.

I saggi di Eco sull’irrazionalismo redatti negli stessi anni in cui scriveva Il pendolo di Foucault sono riuniti in I limiti dell’interpretazione, Milano, Bompiani 1990. Sulla semiosi ermetica di cui il libro si nutre, cfr. L’idea deforme, a cura di Maria Pia Pozzato, Milano, Bompiani 1989.

Le citazioni da Il pendolo di Foucault sono tratte dall’edizione Bompiani, Milano 1988. Circa la struttura narrativa di questo libro, va tenuto presente che il movimento del romanzo è ad arco: accade alla fine ciò che all’inizio viene negato, di modo che i personaggi cadono in quella trappola da cui si erano tenuti per molto tempo lontani. “Da quel giorno – dice Casaubon parlando della sua infanzia – incominciai a diventare incredulo. Cioè mi pentii di essere stato credulo. [...] Non è che l’incredulo non debba credere a nulla. Non crede a tutto. Crede a una cosa per volta, e a una seconda solo se in qualche modo discende dalla prima. procede in modo miope, metodico, non azzarda orizzonti. Di due cose che non stiano insieme, crederle tutte e due, e con l’idea che da qualche parte ve ne sia una terza, occulta, che le unisce, questa è la credulità”. Che è proprio quello che accadrà a Casaubon e soci nel loro infervorarsi per la ricostruzione del Piano dei Templari. In generale, diremo che l’intreccio degli eventi messo in opera dal romanzo non segue passo passo la storia narrata: così, se l’incontro tra Casaubon e Abulafia ha luogo alla fine della vicenda, immediatamente prima della notte nel Conservatoire, questo episodio è invece collocato all’inizio del romanzo. In tal modo, le tappe progressive dell’agnizione non sono le medesime per Casaubon e per il lettore. Ed è proprio questa complessa struttura temporale, fatta di anticipazioni, rimandi, sovrapposizioni e, talvolta, di mancanza di cronologia a costruire molto del senso del libro. Se la partizione degli spazi (Milano, Parigi, il Brasile, le Langhe etc.) determina divisioni forti che procurano certezza, la sequenza dei tempi storici e cronologici ha a un effetto, diciamo così, entropico che richiede la cooperazione del lettore per disambiguare i contenuti. Anche nel nostro caso particolare – quello del nesso tra mancanza di criteri formali nel ragionamento e credenza del Piano – le sfasature temporali hanno un ruolo di primo piano: ricostruire l’ordine della storia significa al contempo mettere in ordine molti dei passaggi logici e concettuali.

A proposito degli attacchi e delle chiusure dei capitoli, si vedano affermazioni come: “Stavo assaporando le prime gocce di veleno che ci avrebbero portato tutti alla perdizione”; “Lentamente smarrii il senso della differenza [...] iniziai a lasciarmi cullare dal sentimento della somiglianza: tutto poteva avere misteriose analogie con tutto”; “Ero diventato uno shaker ambulante”; “Mi riusciva sempre più difficile districare il mondo della magia da quello che oggi chiamiamo l’universo della precisione [...] Stavo forse rileggendo la storia intera attraverso gli occhi dei diabolici?”; “Naturalmente, mi dicevo ritornando a casa, non si tratta di scoprire il segreto dei Templari, ma di costruirlo”; “ “E allora ? Anche noi stiamo costruendo un falso”. “È vero”, disse. “Me ne stavo scordando””; “Davamo colpi di pollice al Piano che, come creta molle, ubbidiva ai nostri voleri fabulatori”; “Era giunto il momento di dare una funzione al Pendolo”; “mi dissi che la storia era veramente finita”.

Livelli

Le citazioni dai testi di Leonardo Sciascia sono tratte dai due volumi delle Opere curati da Claude Ambroise, Milano, Bompiani 1988, 1989 (da cui sono tratte anche le citazioni del curatore). Altri testi sciasciani citati sono: “Presentazione” di Bernard-Henri Lévy, La barbarie dal volto umano, Venezia, Marsilio 1977; La Sicilia come metafora, intervista con Marcelle Padovani, Milano, Mondadori 1979; “Del dormire con un occhio solo “, in Vitaliano Brancati, Opere 1932-1946, cura e introduzione di Leonardo Sciascia, Milano, Bompiani 1988; Il cavaliere e la morte, Milano, Adelphi 1988; Fatti diversi di storia letteraria e civile, Palermo, Sellerio 1989; A futura memoria, Milano, Bompiani 1989. L’intervento su Moro mai raccolto in volume si può leggere sull’Avanti! del 21 novembre 1989.

Una raccolta dei principali articoli sulla figura e l’opera di Leonardo Sciascia pubblicati su periodici italiani ed europei nei giorni successivi alla sua scomparsa è in Nuove Effemeridi, III, 9 1990.