BÉBI, IL PRIMO AMORE
Sándor Márai
Recensione
Alessandro Litta Modignani
"Bébi, il primo amore" è un racconto molto coinvolgente, di impronta psicologica, incentrato sulla figura di un meticoloso e logoro insegnante di latino in un liceo della provincia ungherese. In libreria con Adelphi l'opera prima dello scrittore de "Le braci"
"Questo è il mistero più grande. Il mistero di come un essere umano finisce per guastarsi. E rimanere solo. È come se parlasse nel vuoto: la sua voce non si sente. Gli altri non lo capiscono. Cammina sulla loro stessa strada… ma non arriva da nessuna parte. Gira in tondo, intorno a sé stesso". Adelphi pubblica il romanzo d’esordio di Sándor Marai (1900-1989) che appena ventottenne già rivela uno straordinario talento letterario. "Bébi, il primo amore" è un racconto molto coinvolgente, di impronta psicologica, incentrato sulla figura di un meticoloso e logoro insegnante di latino, in un liceo della provincia ungherese, in epoca asburgica.
L’autore di Le braci ricorre all’espediente del taccuino, al quale il professore affida le sue amare riflessioni, per penetrare nell’animo del protagonista. Questi sembra uno di quei tipici personaggi che alcuni decenni più tardi caratterizzeranno i romanzi di Thomas Bernhard: è chiuso, ripetitivo, irritabile, nevrotico. I limiti angusti del microcosmo in cui si è trincerato gli impediscono di vedere ciò che invece appare chiarissimo al lettore. È anaffettivo, apatico, stanco. L’anedonia gli impedisce di apprezzare anche solo la bellezza di un paesaggio montano.
Tutta la prima parte del romanzo, circa un terzo del volume, è una sorta di lunga ambientazione, volta a descrivere il carattere del protagonista e il suo male di vivere. Nella sua impenetrabile solitudine, l’uomo si concede – unica eccezione in ventotto anni – una vacanza estiva in uno squallido albergo montano. Per quanto diffidente e sulla difensiva, il vecchio professore riesce a instaurare un dialogo con un altro avventore. Questi, inaspettatamente, con poche parole, mette l’uomo di fronte alla sua incapacità di condurre un’esistenza normale, a causa di una solitudine dai tratti visibilmente patologici. Il vecchio vorrebbe riflettere, ma se ne dichiara incapace. Lo considera un vizio pericoloso: “Una volta che si comincia a riflettere su sé stessi, a insistere si rischia di diventare matti”. Il ritorno in città segna il passaggio nel vivo del romanzo. L’insegnante si trova ad affrontare un fatto inedito: gli viene assegnata un’ottava classe, cioè l’ultimo anno di liceo, composta da diciottenni; inoltre – novità assoluta e spiazzante – fra questi vi sono ben sei ragazze.
Il professore confida al taccuino il suo disagio, riflessioni ingenue ma premonitrici. Le sue attenzioni si concentrano in particolare su due giovani: Màdar, un ragazzo povero ma eccellente studioso, di gran lunga il più dotato della classe; e Margit Cserey, ragazza esile e appena graziosa, che gradualmente diviene l’oggetto morboso delle sue attenzioni senili. Con il passare dei mesi, l’insegnante procede passo dopo passo verso l’inevitabile dramma finale, in un crescendo di irritazione e di errori che si riveleranno fatali. “Sono sempre stato un tipo introverso. Ci sono alcune cose che mi mettono in imbarazzo e mi innervosiscono in modo estremo. Per quel che riguarda la sfera fisica, l’intimità mi provoca un grandissimo disagio”.
BÉBI, IL PRIMO AMORE
4 agosto
Sono a Virágfüred da due giorni. Occupo la stessa stanza di ventotto anni fa. Ma questo non significa molto, perché la stazione termale è semivuota; non sono capitato in questa stanza per caso, ho potuto scegliere quella che volevo, nell’ala che preferivo. Il complesso è composto da otto ville, un ristorante e gli alloggi del gestore. La mia villa si chiama Tivoli, e il nome mi è tornato in mente grazie al quaderno su cui sto scrivendo. Del resto, se vogliamo, devo a questo taccuino il fatto stesso di trovarmi qui, «in villeggiatura» per le vacanze estive. Erano ventotto anni che non mi muovevo da Z. No, ora che ci penso, una volta, d’inverno, sono andato a Lőcse, perché un collega che si era trasferito laggiù mi aveva invitato a tenere a battesimo suo figlio. Mi pentii amaramente di quel viaggio: il mio collega abitava in un appartamento angusto, mi ospitavano in sala da pranzo e al mattino dovevano attraversare la stanza per forza; mi guastai pure lo stomaco con un arrosto di cinghiale, un cibo al quale non sono abituato. Dopo quella esperienza per molto tempo non ho più viaggiato. Quando arriva l’estate di solito faccio lunghe passeggiate, oppure vado a giocare a bocce. In effetti, è davvero sorprendente che io mi trovi qui. Devo abituarmi al pensiero: sono qui, in questa località ai piedi dei Tátra, a tre ore di espresso da Z., e ci resterò per tre settimane.
Provo una certa gioia nel descrivere il luogo in cui mi trovo. Sarà anche un po’ puerile, ma mi fa piacere. La camera ha un balcone, dove mi siedo a scribacchiare. Non ho altro da fare. Sono le quattro del pomeriggio, il sole splende sul bosco di abeti ma a quest’ora il balcone è all’ombra, come ventotto anni fa; ricordo che avevo l’abitudine di sedermi qui al pomeriggio a scribacchiare sul taccuino. Dal balcone si gode una bellissima vista sul bosco e sull’intera vallata. Nelle giornate di canicola, quando il sole scalda gli alberi con i suoi raggi cocenti, il vento afoso porta fin qui l’odore della resina. Un profumo che mi piace moltissimo; mi fa tornare a quell’estate di ventotto anni fa. Non mi sembrano tempi remoti, forse perché l’ambiente non è cambiato di molto. La foresta è più fitta e pittoresca di allora, le villette e le stanze appaiono più scalcinate. Sono le uniche differenze che ho potuto notare. Il letto e l’armadio emanano sempre lo stesso odore stantio di topo. Ieri mi è venuto in mente che ventotto anni fa c’era un cavastivali sul comodino; oggi l’ho cercato dappertutto, ma non l’ho trovato, da nessuna parte. Si vede che al giorno d’oggi gli ospiti degli stabilimenti termali non portano più gli stivali.
La ricerca del cavastivali, peraltro, mi ha rovinato la serata. Adesso ci rido sopra, ma ieri mi ha dato davvero fastidio non trovarlo. Ho rovistato nell’armadio, nei cassetti sotto il lavabo. Per qualche inspiegabile ragione sentivo la mancanza di quell’oggetto, eppure io nemmeno li porto gli stivali. È vero che si può usare anche come cavascarpe. A quanto mi ricordo, l’arredamento della stanza è sempre lo stesso. Lo specchio con la cornice d’abete sopra il lavabo, come una volta. Certo, il vetro è diventato verdastro, l’amalgama si è rovinato. E il quadro alla parete – un branco di caprioli che fruga impudentemente negli zaini di una brigata di cacciatori appisolati nel bosco –, che gioia rivederlo. È una stampa ingenua, di dubbio gusto, ma mi ha fatto piacere ritrovarla ancora al suo posto.
D’altronde, da un paio di giorni ho la sensazione che intorno a me tutto si ripeta in una sequenza chiarissima. È come se quella volta fossi riuscito a capire qualcosa e poi per ventotto anni l’avessi dimenticato; e adesso che mi decido di nuovo ad agire non mi viene in mente niente di meglio che replicare l’esperienza già vissuta. (Ho scritto «esperienza» perché non riesco a trovare un’espressione più precisa; in effetti, sono davvero stupito da quanto sia difficile scrivere qualcosa. Molto più che dirlo. Scrivo lentamente, con difficoltà, come se balbettassi, mi ci vogliono parecchi minuti per formulare una frase. Mi viene da sorridere se penso alla sicurezza e alla facilità con cui ventott’anni fa annotavo i miei pensieri sul taccuino; scrivevo di getto, sine scrupulis, come chi non avesse fatto altro mestiere in vita sua).
Ieri notte, prima di addormentarmi, ho riletto questo vecchio diario. Faticavo a prender sonno, forse a causa del nuovo ambiente e dell’aria di montagna. Non sono più abituato a dormire in un luogo che non sia la mia camera in Bástya utca. Il letto diverso e l’aria umida mi causavano una certa irrequietezza. All’inizio me la sono presa un po’ con me stesso, mi parevano tutte fisime da vecchia zitella; poi ho capito che non era così, che non era debolezza d’animo, ma qualcosa di tutt’altra natura. L’unico problema è che non so come chiamarlo.
Scrivo anche per far passare il tempo; a esser sincero, qui le giornate mi sembrano interminabili, non so come riempirle. Forse ho fatto male a non portarmi niente da leggere, ma ho perso l’abitudine, anche a casa; e al momento di preparare i bagagli non mi è affatto passato per la testa che, oltre alla biancheria, potesse servirmi qualche libro. Non senza un certo stupore, devo registrare che da tre anni non leggo altro che pubblicazioni specialistiche sulla mia materia. La sera, al circolo, do una scorsa ai giornali della capitale e mi basta. Sono tre anni che ho disdetto il conto dal libraio. È accaduto dopo il mio cinquantesimo compleanno. Il periodo in cui ho cominciato a farmi crescere la barba e ho licenziato la mia vecchia governante; quando ho riorganizzato la mia vita sotto ogni aspetto. Se oggi ripenso a quel momento, ho l’impressione di aver agito in modo quasi inconsapevole, come mosso da una forza misteriosa; oggi sono convinto di aver attraversato una sorta di grave crisi. Ma allora non me ne ero reso conto. È pur vero che gli altri, i miei conoscenti, i colleghi qualcosa avevano notato. Certo, la barba, questo va da sé; la barba invecchia sempre un po’. Ma anche prima che me la facessi crescere, se incontravo per strada qualcuno che non vedevo da un paio di mesi, questi mi fermava per chiedermi:
«Che succede?». Oppure: «Non sta bene, professore?».
La cosa mi metteva a disagio. Non ero malato. Avevo un appetito eccellente; avevo solo smesso di fumare il sigaro ed ero passato alla pipa. La mia vita per il resto non era cambiata. Le mie giornate si svolgevano come al solito, le persone con le quali avevo a che fare erano le stesse. A quei tempi frequentavo il circolo, e con assidua regolarità: ci andavo tutte le sere, dalle otto e un quarto alle dieci e mezzo. Il mio compagno di tarocchi era il povero Klebinsky, che all’epoca era ancora vivo. E al pomeriggio andavo a passeggio, ogni pomeriggio dalle cinque alle sette. Sinceramente, se mi guardavo allo specchio – cosa che peraltro non rientrava nelle mie abitudini, ma al momento di radermi capitava che oltre alla barba osservassi pure la mia faccia – non notavo nessun cambiamento. Non mi pareva di essere più vecchio, più brutto, o di aspetto meno sano di un anno prima. Queste cose non accadono da un giorno all’altro. Avevo i capelli un po’ più grigi, certo, ma erano così già da sei anni. Eppure la gente qualcosa notava. Un mutamento, un declino... non era chiaro che cosa intendessero di preciso. E io non lo chiedevo, non l’ho mai chiesto. Mi limitavo a rispondere in modo evasivo, non è niente, sto bene. È vero che me lo dicevano un po’ di sfuggita, per spirito di cortesia: «Non hai dormito bene, stanotte?» oppure: «Ti vedo pallido, bevi del vino rosso ogni tanto». Sono sempre gli altri a notare per primi questi cambiamenti, mai il soggetto in questione.
Qualche mese dopo il mio cinquantesimo compleanno cominciai anch’io ad accorgermi di qualcosa.
La mattina faticavo ad alzarmi. Per venticinque anni, in ogni stagione, mi ero sempre alzato alle sei. A quanto ricordo, non mi è mai capitato di dormire oltre quell’ora. Non avevo neanche bisogno della sveglia, alle sei in punto aprivo gli occhi, come una macchina. È soltanto questione di volontà. L’organismo si regola esattamente come un orologio. Alle sei ero in piedi, alle sei e mezzo avevo già fatto colazione. Fino alle sette leggevo il giornale in poltrona. Alle sette mi alzavo dalla poltrona, prendevo il libretto scolastico e facevo la punta alla matita. La temperavo quel che bastava perché il giorno successivo ci fosse bisogno di rifarla. Lo faccio con estrema cura, da sempre: se ricordo bene è dai tempi della scuola che mi piace temperare le matite. Al gesto è associata una specie di piccola superstizione: se la punta viene bene sarà una bella giornata, se invece la punta si spezza accadrà qualcosa di spiacevole. È una stupidaggine, ma fa parte delle mie abitudini. Naturalmente, quando si va avanti per decenni a temperare matite si finisce per acquisire una certa abilità; a quanto ricordo, sono anni che non mi capita di spezzare una punta. È anche vero che sono anni che non mi succede niente di spiacevole; non ho memoria di giornate particolarmente «belle» né particolarmente «brutte». Ogni giornata è stata uguale all’altra.
Una volta temperata la matita, prendevo ombrello e cappello e mi incamminavo per andare a fare un giro sui Bastioni. Le persone come me, solitarie e in là negli anni, hanno bisogno di essere un po’ abitudinarie perché la giornata non sembri interminabile. Bisogna ammazzare il tempo, minuto per minuto, un’ora dopo l’altra, altrimenti a non far nulla ci si stanca e ci si stufa. È possibile che io sia l’unico a comportarmi così? Non credo. Ho notato consuetudini simili in altri colleghi, specie quelli scapoli. La passeggiata con l’ombrello, mi rendo ben conto, è piuttosto ridicola. Nelle vignette di «Fliegende Blätter», il settimanale che si trova al circolo, è così che vengono raffigurati gli insegnanti: con l’ombrello sotto il braccio. Io me lo porto dietro anche quando c’è bel tempo, ed è questo l’aspetto ridicolo della faccenda. Preferisco uscire di casa con l’ombrello anziché con il bastone da passeggio; ho imparato che non bisogna mai fidarsi del tempo, che il cielo sereno può trarre in inganno. Il bastone non serve in caso di pioggia, mentre l’ombrello svolge egregiamente la funzione del bastone e in più offre riparo. Sarà sciocco, ma io ormai sono abituato a uscire di casa con l’ombrello. Me lo sono portato anche qui. Ieri l’avevo con me durante la passeggiata pomeridiana; sono uscito che il tempo era bellissimo, ma alle cinque e mezzo, sulla via del ritorno, all’improvviso mi ha sorpreso un acquazzone. Il caro vecchio ombrello mi ha protetto. Senza di lui, a quest’ora magari sarei a letto con il raffreddore. Per i giovani, naturalmente, tutto ciò è ridicolo.
Non c’è che dire, il peso degli anni comincia a farsi sentire.
A quell’epoca, dunque, alcuni mesi dopo il mio cinquantesimo compleanno, mi accadde per la prima volta di dormire oltre le sei del mattino. In realtà non stavo propriamente dormendo: mi ero svegliato alle sei, ma ero rimasto a letto: sdraiato per una mezz’ora, in una specie di dormiveglia, spossato. La cosa si ripeté per un’intera settimana. Naturalmente quella mezz’ora di sonno in più fece slittare tutti i miei orari. Fui costretto ad abbreviare la passeggiata mattutina, e poi a rinunciarvi. Volevo contrastare quella tendenza e mi sforzavo in tutti i modi di alzarmi dal letto. Ma il mio organismo, un orologio di alta precisione, mi aveva piantato in asso; ormai pretendeva a tutti i costi mezz’ora di sonno in più. Era come se da qualche parte si fosse allentata una molla e il meccanismo non riuscisse a funzionare. Aveva bisogno di quel riposo. E io gliel’ho concesso.
Da allora dormo mezz’ora in più.
Ma c’era anche dell’altro. Tutto l’insieme zoppicava un po’, e alcune cose cominciavano a sfuggire al mio controllo. Per due volte di seguito mi capitò di lasciare a casa il mio libretto. Una dimenticanza dalle conseguenze piuttosto spiacevoli, dato che senza libretto non potevo tenere la lezione; dovetti chiedere a uno dei miei studenti, un certo Novák, di correre a casa mia e farselo dare dalla governante. Di questo Novák mi fidavo più di chiunque altro. Era un ragazzo onesto e aveva una borsa di studio. Se il libretto di un professore finisce tra le mani di uno studente, le conseguenze sono imprevedibili. Mi riferisco alle conseguenze sul piano della morale, della disciplina della classe. Gli studenti potrebbero scoprire in anticipo che voti hanno preso, e chi si sente sicuro studierà di meno, e chi invece ha dei voti irrimediabilmente brutti non tenterà neppure di porvi riparo. Un professore deve custodire gelosamente il proprio libretto, come fa un commerciante con i registri contabili. Questo Novák, dicevo, aveva una borsa di studio, e di lui mi fidavo ciecamente. I titolari di borse di studio evitano in tutti i modi di suscitare la collera degli insegnanti. Se si fosse lasciato sfuggire qualcosa, avrebbe perduto la borsa di studio. Non credo di essermi sbagliato sul suo conto. O almeno non mi è parso di notare nulla di sospetto nel comportamento degli studenti. Naturalmente avrei potuto mandare il bidello a prendermi il libretto; ma, a essere sincero, di lui mi fido assai meno. Il nostro bidello, purtroppo, ha il vizio di bere. Il preside è molto indulgente nei suoi confronti, ne ha compassione perché ha una famiglia numerosa. Ma resta il fatto che ha questo brutto vizio. Un uomo del genere è capace di tutto. Forse anche di rivelare agli studenti i segreti del libretto in cambio di denaro.
In quel periodo mi resi conto che dovevo cedere su alcuni punti. Mi trovavo davanti a una forza sconosciuta, perturbatrice, che agiva nella mia vita e alla quale non potevo opporre resistenza. Per molto tempo non si ha idea di cosa si tratti. Di solito si dice che è l’inizio della vecchiaia. Ma non era la conseguenza di qualcosa. Non ero malato, non conducevo una vita sregolata; il giorno prima non avevo niente, e adesso mi svegliavo mezz’ora più tardi e dimenticavo a casa il libretto. Che cosa mi era successo? Quando era successo? Di giorno non percepivo cambiamenti. Sarà forse che queste cose accadono nel sonno? E da dove comincia? Dalle gambe o dalla testa? Dalle mani o dai capelli? È qualcosa di inafferrabile.
Ho dovuto cedere.
Cominciò a pesarmi anche dovermi radere la mattina. E così mi lasciai crescere questa brutta barba. Fin qui non ci sarebbe nulla di strano. Alla mia età ci si può tranquillamente far crescere la barba. In città ci sono parecchi signori maturi con la barba. Il presidente del tribunale, ad esempio. In genere sono persone che hanno raggiunto una posizione di un certo prestigio. Da questo punto di vista, forse, la mia posizione non mi autorizza: sono un semplice insegnante di scuola superiore. È pur vero che ho ventotto anni di carriera alle spalle e che sarei già diventato preside se avessi accettato il trasferimento in una città ancora più piccola di Z. Ma ho preferito rinunciare, i titoli non mi interessano. Voglio una vita tranquilla. Mi sono abituato a vivere a Z., per me è come la mia città natale. Il preside è molto più giovane di me. Nel collegio docenti sono il più anziano, gli altri sono per lo più giovanotti... che naturalmente non portano la barba. Nemmeno il preside. Sono uomini moderni; mostrano un po’ di condiscendenza nei miei confronti, per via della barba, ma io li perdono. Mi compatiscano pure: alla loro età ero anch’io una persona moderna, e non portavo la barba.
Sono solo le sei, ma è piuttosto buio. Si vede poco e faccio fatica a scrivere. Devo andare a cercare gli occhiali.
5 agosto
Tutto sommato credo di aver fatto bene a partire, nonostante le spese e gli incomodi che ogni spostamento comporta. Non posso certo dire di avere una grande esperienza di viaggi. Prima della partenza ci si immagina sempre che le cose siano più semplici. E invece alcuni dettagli pratici si sono rivelati più difficili del previsto. Prendiamo per esempio una faccenda che non mi era passata per la testa: quella delle mance. Sin dal momento in cui ho preso la carrozza per andare alla stazione, la mancia è stata motivo di imbarazzo. Non tanto perché io sia tirchio; personalmente, non credo proprio di essere uno spilorcio. Ma era previsto che dessi la mancia al cocchiere, e poi anche al facchino. Non sono più abituato a gesti del genere. Credo siano passati almeno dieci anni dall’ultima volta in cui ho dato la mancia a un estraneo. Anzi, non ho mai dato mance a estranei. Non mi sono mai trovato nella situazione di doverlo fare.
Non frequento i caffè e, riguardo alla trattoria dove vado a mangiare da tre anni a questa parte, so con esattezza che si devono dare venti centesimi al cameriere che serve le pietanze e altri venti a quello che porta il conto. Sono convinto che sia più che sufficiente. O almeno finora nessuno dei due ha avuto niente da ridire. Per il resto non ci sono altre persone a cui potrei dare la mancia. La mia governante aveva l’abitudine di allungare una mancia all’uomo che porta la legna per l’inverno: ottanta centesimi e un bicchiere di vino, a quanto ne so io. Al bidello do sempre due fiorini1 per l’anno nuovo; anche se non li merita, perché ha il vizio di bere. Ma ormai è mia abitudine darglieli. Mi pareva di aver previsto ogni cosa per il viaggio, ma alle mance non avevo pensato. Credevo che quaranta centesimi fossero la cifra giusta per il cocchiere. Quando ho visto che non mi ringraziava, gliene ho dati altri venti. Anche al facchino ho dato sessanta centesimi. Ho viaggiato in seconda classe, perché ho diritto allo sconto sulle ferrovie di Stato. Ero da solo nello scompartimento. Non so se bisognasse dare qualcosa al controllore. Dall’ultima volta che ho preso il treno le consuetudini sono molto cambiate. Anche gli scompartimenti sono diversi da come ricordavo. Adesso c’è l’illuminazione elettrica, che si può accendere e spegnere con un interruttore. Chissà, forse avrei fatto bene a dare la mancia anche al controllore. Era piuttosto anziano. Non sono molto informato su questo genere di cose. Ieri notte, prima di addormentarmi, calcolavo le mance da dare al personale quando partirò, fra tre settimane. Un fiorino a testa dovrebbe bastare, immagino. Sono in tre. O forse due fiorini? Chiederò.
Ieri notte ho dormito meglio. Comincio ad abituarmi all’odore del letto. Le lenzuola sono un po’ umide, perché verso sera cala la nebbia verso la valle. Ecco perché di notte indosso le mutande di flanella; sono davvero contento di essermi portato la biancheria di flanella.
Prima di dormire ho sfogliato di nuovo il taccuino. Non avevo scritto poi molto, ventotto anni fa: settantaquattro pagine. Alcuni passaggi mi paiono piuttosto confusi, come se non fossi stato nemmeno io a scriverli. Hanno un tono talmente estraneo. Come se li avessi ricopiati. Anche la mia grafia era diversa, completamente diversa. Molto più disordinata, più trascurata. Oggi traccio lettere ovali, lentamente, senza cancellature; la mia grafia di un tempo era spigolosa e rapida, piena di freghi e correzioni.
Il diario è cominciato qui, ventotto anni fa. Erano le mie prime ferie. Insegnavo già da un anno a Z., dove ero stato nominato assistente. I giovani a inizio carriera noi vecchi li chiamiamo «vitellini». Non brillano certo per autorevolezza e vengono a seguire le lezioni di noi più anziani. Faccio sempre grande attenzione a non far pesare la differenza d’età. Personalmente ho molto sofferto quando ero un «vitellino». Avevo la sensazione che il docente principale, in combutta con gli studenti, si prendesse gioco di me. E credo proprio che le cose stessero così. Ero a disagio anche per i miei abiti, che erano davvero miseri. Puliti, ma miseri. Gli studenti badano a queste cose. Ho tanto sofferto. Quando mi capita sotto mano un «vitellino», sono sempre molto cortese nei suoi confronti, forse anche troppo. Pretendo che gli studenti si rivolgano a lui con il dovuto rispetto. Lo faccio sedere in cattedra a fianco a me. So bene quel che ho sofferto ai miei tempi. Ne trovo traccia persino in questo diario.
Nella prima pagina esordisco dichiarando che ho intenzione di concorrere per il premio di filologia dell’Accademia. Un’ambizione davvero folle, la mia; in realtà non ho concorso né per quel premio, né per un altro. Adesso sono pienamente consapevole di non aver mai avuto cognizioni tali da consentirmi di partecipare al concorso di filologia dell’Accademia. Sarebbero forse bastate per qualche premio minore, non saprei... Quelle attuali, ormai, non sarebbero sufficienti per un bel niente. Non so nulla. È piuttosto strano, se consideriamo che sono ventotto anni che insegno. Non è che non conosca Orazio, per dire. Sono in grado di leggere senza problemi, anche a prima vista, un testo latino di media difficoltà. Mi sento abbastanza a mio agio anche con Tacito, in particolare i capitoli che do a lezione da ventotto anni, va da sé. E gli autori più facili, come Cicerone e Ovidio, li leggo ancora oggi con un certo diletto. Cesare mi risulta più difficile. Non oserei mai affrontare Cesare davanti a estranei senza un’adeguata preparazione. Ma tutto sommato la mia competenza in campo filologico è praticamente nulla. Più insegno e meno so. Come se avessi dato via tutto quello che avevo. È mai possibile una cosa del genere? Non credo. Non lo so. Ma è sufficiente osservare come alcuni dei migliori studenti dell’ultimo anno ne sappiano ben più di me di filologia.
Nel diario ritrovo tracce di alcuni vaghi progetti giovanili, che rileggo con un certo disagio. In una pagina uso l’espressione «metter su famiglia». Mi ha dato un tale fastidio, so che è ridicolo, ma credo proprio di essere arrossito quando l’ho letta. Be’, nella misura in cui sono capace di arrossire. Dentro di me ho sentito una specie di umiliazione. Innanzitutto l’espressione in sé. Ha qualcosa di indecente. Sono convinto che sia un’espressione convenzionale e ipocrita. Suona artificiosa, non rispecchia fedelmente il concetto. Una famiglia non si «mette su»; si può metter su un’impresa, o un’attività. La famiglia è un’altra cosa. Ci vuole un atteggiamento diverso, non si può «metter su». Forse ci vuole della prepotenza... Forse, se in vita mia fossi riuscito a essere prepotente, ce l’avrei fatta. Ma non lo sono mai stato. Anzi, sono stato piuttosto codardo. Certe cose le ho sempre evitate, ho sempre abbassato la cresta. Di sicuro non sono riuscito a metter su famiglia.
Nel diario ritrovo qualche eco della vicenda di J. Scrivo solo l’iniziale del suo nome perché non si sa mai in che mani può finire quel che si mette per iscritto. Sarebbe davvero spiacevole se capitasse sotto gli occhi di qualcuno. È pur vero che, dopo ventotto anni, il ricordo di quell’episodio è molto sbiadito, quasi cancellato. Non credo proprio che potrebbero esserci conseguenze di alcun tipo. Facendo i calcoli, oggi J. dovrebbe avere una cinquantina d’anni, potrebbe essere già nonna. Allora ne aveva forse ventidue. Il suo nome si affaccia dove si parla di «metter su famiglia», come se all’epoca avessi delle intenzioni in tal senso. Ormai posso scrivere la verità, non posso più far male a nessuno. È innegabile che io provassi un certo interesse per J., così come è indiscutibile che avessi cominciato a frequentarne la casa con una certa regolarità. Il mio errore, forse, è stato di andarci più spesso di quanto fosse opportuno. Sarò stato loro ospite in una decina di occasioni, talvolta per cena, ma più spesso dopo cena. È vero che a invitarmi era sempre il padre di J., con il quale giocavo ai tarocchi. C’erano tutti gli elementi per ritenere che il vero motivo degli inviti fosse il gioco. Oggi, ad esser sincero, posso ammettere che non ci andavo soltanto per le carte, ma perché nutrivo uno spiccato interesse per J. Per quel che ricordo, aveva un aspetto molto gradevole e una bella voce. Si vestiva sempre con gusto. Forse, se non avessi commesso quell’errore – o fu colpa loro? – tutto sarebbe andato diversamente.
Credo che non avrei dovuto mandare quei fiori. Da giovane ero talmente introverso e taciturno che un mazzo di fiori poteva essere interpretato come una dichiarazione. Data la mia timidezza, devono aver pensato che fosse il mio modo di dichiararmi. E qui stava l’errore. Anche oggi so perfettamente che quel mazzo di fiori non equivaleva a nessuna dichiarazione. Ero ben lungi da quella fase, non mi passava nemmeno per la testa! Il mio era un gesto di pura e semplice cortesia, perché mi avevano invitato a pranzo, e già tre o quattro volte. Volevo esprimere la mia gratitudine, erano stati gentili. Vivevo da solo in città, ed erano le uniche persone che frequentavo. In ogni caso, credo che l’errore più grave l’abbiano fatto loro. Se solo non si fossero agghindati a quel modo... tutta la famiglia vestita a festa. E io, invece, in abito grigio. Mi accorsi subito che erano rimasti delusi. Il padre di J. era in completo nero. La madre indossava un abito di seta nera. J. era vestita di bianco, e il mio mazzo di fiori là, in bella mostra, in un vaso enorme, sopra un tavolino al centro del salone. Non c’era alcun dubbio, le dimensioni di quel bouquet erano esagerate. In faccende del genere, non ho mai avuto il senso delle proporzioni. Mi ricordo ancora oggi che mi era costato ben due fiorini; non c’è da stupirsi se sono stato frainteso. Una situazione tremenda; quando J. mi si avvicinò per ringraziarmi dei fiori, io mi limitai a balbettare qualcosa, e suo padre esclamò: «Ah, la gioventù... come sono sventati, questi giovani...» facendo l’occhiolino alla moglie, ed entrambi si misero a ridere. C’era anche il fratello minore di J., un adolescente brufoloso che non potevo soffrire. Ci guardava sogghignando. Capii immediatamente che ero stato frainteso.
Mancava ancora un bel po’ prima che il pranzo fosse servito. Mi guardavano tutti alquanto interdetti, perché mi ero presentato in abito grigio. Ci sedemmo nel salone ad aspettare il momento del pranzo. La madre di J. fu la prima a lasciare la stanza, seguita poco dopo dal marito. Il ragazzo fu l’ultimo a uscire, guardando a turno J. e me, con quel sorrisetto stampato in faccia. Ricordo che avevo la fronte madida di sudore. Ero incapace di proferire la minima parola. Sono convinto che se quel giorno non mi avessero ricevuto vestiti così solennemente, i genitori in nero e J. in bianco, mi sarei comportato in maniera del tutto diversa. Forse, durante il pranzo, avrei perfino chiesto la mano di J. Ma in quel modo – di questo mi ricordo alla perfezione – fui colto da una specie di rabbia. Non ero preparato alla cosa, e mi sentivo a disagio. Rimasto da solo con J., cominciai a guardare fuori dalla finestra. Rivedo ancora oggi le tende: marroni, un po’ impolverate. Mi si era seccata la gola, non riuscivo a deglutire.
Rimasi in silenzio per tutta la durata del pranzo. Dopo il secondo tacquero anche loro. Il padre non mi rivolgeva più la parola. Finita la carne, J. uscì dalla stanza e quando ritornò mi accorsi che aveva gli occhi arrossati. Non osavo guardare in faccia nessuno. Mi servii due volte della carne, malgrado non fosse neppure di mio gusto, semplicemente per non dover parlare; alla fine, temo che anche questo mio gesto sia stato male interpretato. Avranno pensato che mi trovavo lì soltanto per mangiare a sbafo, e che non avevo intenzioni serie. Non era semplice da spiegare. Non potevano sapere che io, in vita mia, non ho mai dato eccessiva importanza al cibo. Infine, al momento della frutta, i membri della famiglia ormai parlottavano tra loro sottovoce, come se io non ci fossi. Mangiammo dell’anguria, ricordo. Quando mi congedai, non ebbi modo di vedere la madre. Se n’era andata in un’altra stanza per evitare di salutarmi. J. mi disse: «Addio» con voce velata. In seguito mi capitò di incontrarla qualche volta per strada, e la salutai sempre con profondo rispetto. Ma non andai più a trovarli. Non ho un temperamento particolarmente socievole. Non sono mai più andato in casa di famiglie in cui ci fossero figlie in età da marito. Ho preferito iscrivermi al circolo. Chissà, magari anche questo è stato un errore.
Comunque sia, sono contento di aver chiarito questa faccenda con me stesso. A distanza di tanto tempo mi rendo finalmente conto di non aver commesso degli errori madornali. L’unico problema, in effetti, è stato quel mazzo di fiori troppo grande; tutto sommato, uno sbaglio perdonabile. In ogni caso, non ho mai detto o fatto alcunché che desse alla famiglia di J. il diritto di accampare pretese nei miei confronti. Ci tengo a precisarlo, con la massima sincerità e onestà, giacché questa mia verità non può più recare torto a nessuno.
Sono sempre stato un tipo introverso. Ci sono alcune cose che mi mettono in imbarazzo e mi innervosiscono in modo estremo. Per quel che riguarda la sfera fisica, l’intimità mi provoca un grandissimo disagio. Posso anche comprendere una cosa come l’amore dei corpi, ma non riesco a immaginare come uno possa lavarsi in presenza di una donna. Situazioni del genere suscitano in me un’impressione sgradevole ogni volta che ne sento parlare, o mi capita di assistervi.
Persino quel che ho appena scritto mi turba. Per iscritto tutto fa un’impressione diversa, diventa quasi tangibile, come se fosse reale. Un’indecenza solo immaginata non lascia alcun sapore in bocca; un’indecenza messa per iscritto è quasi come se fosse realmente accaduta. Devo tuttavia ammettere che il fatto di scrivere tutto quello che mi esce dalla penna è una cosa che al tempo stesso mi attrae e mi ripugna. Tenere questo diario mi rasserena infinitamente. Sono qui da solo, per i fatti miei, e non ho altro da fare. Supponiamo pure che io decida di scrivere le mie memorie. Ognuno ha diritto di farlo alla mia età. È pur vero che per le mie memorie non ci sarebbe bisogno di molte pagine. A ben vedere, nella mia vita non è successo nulla. Di questo, certamente, sono io il responsabile, non il «destino». Non credo nel destino. Ciascuno di noi è l’unico artefice della propria vita. Se ricominciassi da capo, forse agirei in modo diverso. Ne sono assolutamente certo. Sono stato vigliacco, ho sempre scelto la via più comoda. Così non si va da nessuna parte. È ridicolo scriverlo adesso; ormai è tardi. Sono prigioniero della mia età, del mio aspetto fisico; per così dire, sono schiavo del mio stile di vita e delle circostanze.
È pur vero che questa situazione, questa vacanza che ho deciso di prendermi, dovrebbe restituirmi un senso di fiducia. Ma non ne sono così sicuro. Forse è solo un fuoco di paglia, oppure il sintomo di uno stato nevrotico. Sì, dev’essere sicuramente il sintomo di una nevrosi senile.
È cominciato tutto con il manifesto che ho visto al circolo, la pubblicità di quella crociera.
Che scemenza. Però quanto sono astuti questi manifesti! Credo che capiti a tutti di cascarci almeno una volta nella vita. Forse, se fossi ricco e libero da impegni, a quest’ora non sarei qui a Virágfüred, seduto sul balcone della villa Tivoli, a tre ore di treno da Z., ma sul ponte di un grande piroscafo. Proprio come in quel manifesto: un signore barbuto di mezza età, avvolto in un plaid su una sedia a sdraio, con la pipa in bocca e in testa il berretto da viaggio... Sul ponte passeggiano giovani signore e signori; la ringhiera bianca, i salvagente con il nome della nave, affascinante ed esotico: Vera Cruz. Certe parole straniere hanno un suono oltremodo attraente. Sullo sfondo, una striscia di mare verdeblu e due gabbiani. Un lavoro pregevole, quel manifesto, ne sono convinto. Mi pare che la nave arrivasse fino in Brasile. In Brasile: è come se dicessi «all’altro mondo». Una meta irraggiungibile. Se ho desiderio di andarci? No, perché non so com’è. Ignoti nulla cupido. Eppure, se avessi i soldi, se non fossi quello che sono, forse oggi sarei su quella nave... verso il Brasile. Adesso ci rido sopra, ma allora, in quel momento... Saranno state le nove di sera. È penoso per me rievocarlo. Gli esami di maturità si erano protratti per l’intera giornata. Il commissario del ministero non aveva fatto altro che tormentare il professore di storia, uno dei miei colleghi più giovani, fresco di università. È abbonato a vari giornali, e collabora con una rivista di tendenze radicali... Conosco il quadro, tutto già visto. Di questo collega si dice che abbia idee eccessivamente libertarie e che interpreti la storia secondo i princìpi del «materialismo storico»... l’ha detto lui stesso una volta. Povero ragazzo. Il preside, che non è certo una persona di vedute ristrette, un giorno me ne ha parlato. Non del materialismo storico, ma del giovane collega. Aveva fatto un gesto con la mano e aveva detto: «Bisogna lasciarlo stare». Poi, dopo un breve silenzio: «Si abituerà alla cavezza». Sono rimasto molto sorpreso. Una frase che mi ha fatto sentire quell’uomo, il preside, molto più vicino a me. Mi ricordo che ci siamo guardati negli occhi e che abbiamo sorriso entrambi, un po’ imbarazzati. Poi lui si è schiarito la voce. Gli ho dato ragione: ci si abituerà presto. Mi ci ero abituato anch’io. E anche il preside. Siamo tutti dei tristi ronzini; probabilmente non ci meritiamo nient’altro. Non siamo gente di razza, in grado di competere con il resto del mondo; non ci siamo portati. Siamo dei ronzini, i ronzini di questa nazione. Il commissario ministeriale aveva sentito certe voci. Gli esami di maturità si sono svolti in modo piuttosto tempestoso, il giovane collega ne ha sofferto. Ho visto bene che stava cominciando ad abituarsi alla cavezza. Non c’era voluto tanto, appena un anno. Rispondeva con aria umile, e umilmente poneva le sue domande. La sera siamo andati insieme al circolo. Faceva molto caldo. Lui mi precedeva sulle scale, io ero dietro e mi sono fermato a guardare il manifesto. Lo avevano appeso quel pomeriggio. Mi sentivo davvero stanco.
La mia primissima sensazione è stata di grande meraviglia: che cosa ci faceva in città un manifesto del genere? A che scopo era stato messo lì? A chi verrebbe mai in mente di partire da qui per il Brasile? Mi veniva da ridere. Poi ho cominciato a guardare attentamente il manifesto, a esaminarne i dettagli in modo quasi meccanico. A considerare ogni linea del disegno. Mi ricordo che mi sono lasciato andare a un gesto imbarazzante, assolutamente privo di senso: ho avvicinato il viso e l’ho annusato. Aveva un odore forte e strano, l’odore del fresco di stampa, ma in quel momento mi è sembrato l’odore del mare. Era come se quel sentore acre di inchiostro assomigliasse al profumo del mare. Io non ho la più pallida idea di quale sia l’odore del mare. Sa di sale, dicono. Quell’odore così forte mi attirava, mi eccitava talmente che ho sentito il bisogno di chinarmi ancora di più sul manifesto, fin quasi a sfiorare la carta con la punta del naso. Mi sentivo girare la testa, come se stessi per svenire. Ho appoggiato una mano al muro per non cadere. Ma può darsi che l’abbia fatto in uno stato di semicoscienza. Di certo l’afa doveva contribuire a quel senso di malessere, per non parlare della giornata trascorsa in modo così agitato. Quanto sarò rimasto in uno stato simile? Un minuto? Forse dieci? Non lo so. A un tratto mi sono accorto che mi uscivano lacrime dagli occhi. Devo essere rigoroso nell’annotare quello che è successo. Devo precisare in modo assoluto che non stavo piangendo, ma che mi stavano uscendo lacrime dagli occhi. A guardarmi si sarebbe naturalmente potuto credere che stessi piangendo. Quel che stavo facendo era chiaramente simile al pianto: delle lacrime mi uscivano dagli occhi, il mio petto ansimava, e mi pare anche di aver emesso un suono come un singhiozzo. Ammetto che a vedermi in quel momento si sarebbe potuto facilmente pensare che stessi piangendo per qualcosa. Un’ipotesi che, considerata la mia età e la mia posizione, è di per sé talmente assurda da suonare ridicola... Non si piange senza motivo e, quand’anche ce ne fosse uno, bisogna sapersi dominare. Non ricordo di aver mai pianto. Persino quando morì la mia povera madre riuscii a trattenermi. No, questa volta era un’altra cosa: mi uscivano lacrime dagli occhi. A piangere era il mio corpo, la mia testa, i miei occhi. Per un attimo erano andati in panne. Ho creduto di essere sul punto di svenire. Mi sono coperto gli occhi con entrambe le mani. Le lacrime scorrevano attraverso le dita. Una mano sulla mia spalla mi ha fatto tornare in me. Non avrei mai creduto che potesse capitarmi qualcosa di simile. Il giovane collega, il professore di storia, era dietro di me. Non sembrava stupito, sorrideva. Ha detto: «Hai bisogno di riposo. Su, andiamo...». E poi ha aggiunto: «È la crisi delle talpe». Sul momento non ho capito quella frase, e lui non mi ha dato alcuna spiegazione, ma non c’era sarcasmo nella sua voce. Aveva un’espressione amichevole, mi pare di ricordare che mi guardasse addirittura con affetto. O, almeno credo, se qualcuno ti guarda in quel modo vuol dire che prova dell’affetto. Non ricordo nessuno che mi abbia guardato così, né di averlo fatto io. Se vado molto indietro nel passato, agli anni della mia prima infanzia, forse riesco a ritrovare uno sguardo simile. Era mia madre? O un compagno di giochi? I bambini, a una certa età, a volte hanno occhi così pieni di comprensione. Mi ha preso sottobraccio e lentamente ci siamo avviati su per le scale. Siamo rimasti in silenzio. Lui non mi ha chiesto nulla. Abbiamo letto i giornali. Al momento di salutarci, mi ha detto: «Perdonami se mi permetto di darti un consiglio, ma secondo me dovresti farti un bel viaggio. Una vacanza».
Quella notte mi sono addormentato di colpo, ero esausto. L’anno scolastico era finito, era arrivato il caldo, al liceo non avevo più niente da fare. La mattina dopo sono rimasto a letto fino a mezzogiorno. Era la prima volta in vita mia.
Al mattino, mentre ero a letto, mi sono reso conto che non avevo nessuno. Al mondo non c’era nessuno che condividesse qualcosa con me, non c’era nessuno a cui io volessi bene. Può darsi che esistano altre persone che si trovano nella stessa situazione. Dovevo avere anche la febbre. Mi è venuto in mente questo taccuino, e sono andato a cercarlo in fondo all’armadio, in mezzo ai vecchi libri. L’ho letto per due giorni, senza uscire di casa. Nel frattempo ho pensato di andare da un medico. Non ero mai stato malato, e una strana forma di ripugnanza, o forse di pudore, di viltà, mi ha sempre impedito di parlare con chicchessia di questioni riguardanti la mia sfera fisica. Da molto tempo, da più di quindici anni, vivo in assoluta solitudine. Non ho confidenza con nessuna delle persone che conosco. Nei miei contatti con gli altri utilizzo un codice prestabilito, una specie di prontuario di frasi fatte. Buongiorno, i miei rispetti. Bella giornata. In che mondo viviamo! Ha sentito? Viene al circolo stasera? Il ragazzo fa progressi. Mi spiace dirle che il ragazzo non si applica. Il conto, per favore. Arrivederci. Dimmi pure.
A volerlo fare, sarei in grado di quantificare con esattezza il numero di parole che pronuncio in un anno.
Però non sono partito subito. Ci sono volute tre settimane prima che mi decidessi. All’inizio ho sperato che passasse... questo esaurimento nervoso. Trascorrevo parecchio tempo fuori, a passeggio. D’estate Z. è molto bella, somiglia a una località termale. Conosco e amo ogni albero della passeggiata dei Bastioni, sono tutti castagni. Ce ne sono alcuni che conosco sin da quando erano giovani virgulti. Adesso sono diventati alberi maestosi, sono invecchiati. Amo anche i dintorni della città, la strada che attraverso i boschi arriva fino a Kóród. Speravo che si risolvesse tutto così, camminando di più, vivendo in modo più sano. Ma l’esaurimento nervoso non passava. Anzi, peggiorava. Non ho chiuso occhio per nottate intere. La testa mi doleva ininterrottamente in un punto, sulla nuca, non mi dava tregua. Se adesso un medico mi chiedesse che sintomi ho, non saprei rispondergli. Non mi fa male niente. L’appetito non mi manca, o almeno ne ho quando mi siedo a tavola. Dopo qualche boccone, però, mi sento sazio, o meglio, è come se mi fossi stufato di mangiare. Il mio organismo chiede di essere nutrito, ma non provo gusto per il cibo. Certe volte ho avuto la sensazione che mi avrebbe fatto bene un po’ di vino. Prima bevevo con regolarità. Non tanto: due decilitri a pasto, e due o tre decilitri dopo cena, al circolo. Poi per anni ho smesso, non ne avevo alcuna voglia. Non mi veniva neanche in mente di bere. A un certo punto ho pensato che il vino potesse aiutare. Ma no, non era il vino ciò di cui sentivo la mancanza. Neppure il vino serviva ad attenuare quello strano nervosismo.
Io non ho idea di cosa sia questo nervosismo.
Poi ho pensato che magari sarei potuto andare una sera dalla signora Hajnik. Scrivo anche questo, perché voglio scrivere proprio tutto: spero che raccontare le cose esattamente come stanno mi aiuterà a sentirmi più leggero. E comunque non c’è niente di male. Qualche anno fa ero cliente abituale della casa della signora Hajnik. È un posto triste, come sono di solito quelle case. Un posto triste e squallido. Ci vanno alcuni miei colleghi, e anche i funzionari pubblici. È la casa frequentata dai signori. Una sera sono andato dalla signora Hajnik. Ma il mio stato nervoso non ne ha tratto alcun giovamento. Ecco perché non ci sono più andato.
Questo nervosismo è come una specie di sete. Oppure come aver freddo e non riuscire a trovare il modo di riscaldarsi. È come non riuscire a prender sonno. O come quando si ha fame. Non lo so. A volte non sento niente per giorni, come se se ne stesse nascosto da qualche parte. Poi all’improvviso lo sento scatenarsi dentro di me. Ho notato che a volte cominciano a tremarmi le mani. Mi sento la bocca inondata di saliva. Può durare per ore. Ci sono volute tre settimane perché mi decidessi a partire.
Sono qui già da quattro giorni, e non mi pare che il nervosismo si sia attenuato.
7 agosto
Ho contato gli ospiti della stazione termale: trentasei in tutto, e siamo in alta stagione. L’altro giorno il gestore si lamentava con me, teme di fallire. È disperato, poveretto. Sono tre anni che gestisce questo posto. Lo aiuterei volentieri, se potessi. Cerco di aiutarlo a modo mio; a pranzo ordino sempre tre decilitri di vino bianco, il più caro. Nonostante il vino sia scadente e il fatto che a me il vino non piaccia nemmeno. Anche il cibo non è niente di eccezionale. Ieri la lombata di vitello aveva uno strano odore. Ma non l’ho rimandata indietro, e neppure il vino, benché sapesse di botte. Piuttosto lo lascio sul tavolo, e ogni giorno ne ordino tre decilitri.
Non capisco perché ci siano così pochi ospiti. Il gestore sostiene che questa stazione è passata di moda. Può darsi: non conosco i luoghi che vanno di moda al giorno d’oggi. Indubbiamente qui tutto è antiquato. Non c’è nemmeno la luce elettrica. Il ristorante è illuminato con le lampade a petrolio e nelle camere ci sono le candele. Forse è una cosa che tiene lontana la gente; a me non fa nessuna differenza.
Nel ristorante si vedono principalmente famiglie, madri con tre o quattro bambini. Di ospiti solitari come me ce ne sono altri due. Ognuno siede per conto suo, in tre tavoli distinti. Uno dei solitari è una signora, una donna avanti negli anni, coi capelli grigi, che legge romanzi a tavola. L’altro è un signore di mezza età, che non ho avuto modo di osservare più da vicino. Il terzo solitario sono io.
Ho deciso che nei prossimi giorni non mi muoverò dal balcone per tutto il pomeriggio. Mi sono fatto portare una sedia a sdraio, e me ne starò disteso a prendere il sole.
10 agosto
Oggi è domenica. Dal paese vicino è arrivato il parroco a dire messa per gli ospiti. In cima alla collina, dietro alle ville, c’è una piccola cappella piuttosto malconcia; non ha neanche una sacrestia. L’altro giorno, durante la passeggiata, ci sono passato davanti e ho sbirciato dentro dalla grata d’ingresso. La cappella sa di muffa, ha un aspetto decrepito, come tutto il complesso. È chiaro che qui ogni cosa si approssima alla fine. Ieri il gestore mi ha detto che è l’ultima estate per lui, l’anno prossimo cederà l’attività. Vuole aprire un cinematografo a Szeged, la sua città natale.
Le giornate sono talmente uguali che mi sono accorto che era domenica solo dal rintocco delle campane. Quando sono sceso per colazione, il ristorante si era già svuotato. C’era soltanto il signore solitario, seduto al mio tavolo a leggere il giornale. Non volevo disturbarlo, né fargli notare che si era messo per sbaglio al mio tavolo. Così mi sono seduto al tavolo accanto. Quando mi hanno portato il caffè, il signore solitario ha alzato gli occhi dal giornale e mi ha riconosciuto.
«Mi scusi,» ha detto «ho occupato il suo posto».
L’ho pregato di non disturbarsi. E così siamo rimasti dove eravamo. Quando mi sono acceso la pipa, lui ha attaccato discorso. Mi ha offerto il suo giornale, che non ho accettato perché non era quello che leggo di solito. Si trattava di un quotidiano che, secondo l’opinione comune, è di tendenze libertarie. Non che questo mi riguardi, ma l’ho notato comunque. Poi, con un sorriso, si è guardato intorno e ha detto:
«Il gregge è andato a messa. Siamo rimasti solo noi due, le pecore nere».
Lo ha detto scherzando, ma il fatto che si prendesse questa confidenza e il tono sarcastico mi hanno infastidito. L’ho guardato meglio. È un uomo dai capelli scuri, con un viso pieno di foruncoli, il colorito molto pallido. Avrà trentacinque anni. Indossa un abito nero, come se fosse vestito a lutto. La cravatta è sdrucita e il colletto non proprio immacolato. Si veste in modo indiscutibilmente sciatto. Ha capelli folti e unti, neri, e una ciocca spettinata gli pende sulla fronte. La faccia pallida e brufolosa ha un aspetto lucido, di pelle unta. È magro, con mani scheletriche. Nemmeno le unghie sono pulite. L’intera persona dà un’impressione di sporcizia. Ha labbra assai carnose e rosse, di un colore sanguigno. Gli occhi sono infossati. Sono occhi strani, profondamente irrequieti e scintillanti. Sorride in continuazione, con un’aria un po’ sarcastica, come se fosse in imbarazzo per qualcosa e cercasse di mascherarlo con il ghigno beffardo. Sopra la fronte ha una ciocca di capelli grigi: non sono nemmeno grigi, è una striscia bianca larga un dito. Parla veloce, con voce rauca. Parla così in fretta e la sua voce è così roca e spenta che devo fare uno sforzo per capirlo.
Non gli ho risposto.
La cosa non lo ha messo a disagio.
«Ma alla fine, perché no?» ha aggiunto. «Non deve essere poi così male: una bella messa domenicale, in una piccola cappella immersa nella pace del bosco, con il profumo dei fiori e delle candele... vero? Bisognerebbe andarci qualche volta».
Se non l’avesse detto tutto d’un fiato, con la voce rauca e il sogghigno, forse avrei anche cominciato a conversare con lui. Ma nella sua osservazione c’era qualcosa di immorale e di sgradevole. Mentre lo diceva si è udito il rintocco delle campane. A esser sincero, non avevo intenzione di andare a messa. Non che sia miscredente, però vado a messa di rado. Adesso che la vedo scritta mi sembra una frase fatta, suona artificiosa, come se mi fosse uscita in modo meccanico dalla penna: «Non che sia miscredente». All’improvviso mi rendo conto di non sapere se sono religioso oppure no. Non ci ho mai riflettuto. Per quanto possa sembrare ridicolo, è un problema che non mi sono mai posto in vita mia. Sono religioso? Può darsi. Non provo alcuna avversione nei confronti della religione. Mi piacerebbe tanto osservarne i precetti... ma non posso dire di farlo rigorosamente. Non vado mai a confessarmi, non faccio la comunione. In chiesa mi reco soltanto per le feste comandate o se devo accompagnare gli studenti. Se un prete mi interrogasse, resterebbe sicuramente deluso dalle mie risposte. Ma non posso farci nulla. Devo riflettere meglio su queste cose.
Il profumo dei fiori e delle candele... mi dà fastidio che qualcuno lo dica con quel tono. E con quel sorriso ironico. Ho buttato lì una frase a caso, giusto per cambiare discorso, e poi mi sono alzato e me ne sono andato. Mentre m’incamminavo verso la cappella, avevo la sensazione che l’ospite solitario fosse rimasto lì dove l’avevo lasciato, seduto al mio tavolo, cercando di indovinare se andassi a messa oppure no. Dalla finestra del ristorante si riesce a vedere la cappella e la strada per arrivarci. Mi sentivo il suo sguardo sulla schiena. Avrei voluto voltarmi a guardare. Mentre procedevo sulla strada acciottolata, ho deciso di andare a messa, proprio per questo motivo. Il profumo dei fiori e delle candele, aveva detto. Che uomo sgradevole. Ma che razza di persona sarà mai? Non ha l’aria di essere in buona salute. Può darsi che abbia qualcosa, che sia malato, e che sia questa la ragione di quel sorriso irrequieto e innaturale. Non riesco proprio a immaginare che lavoro faccia. Non sembra un insegnante. Direi piuttosto un libero professionista. Non lo so. Quando sono arrivato alla cappella, ero molto nervoso. Mi infastidiva sentire il suo sguardo su di me: sapevo che mi stava guardando chiedendosi se sarei entrato oppure no. Se fossi entrato, avrebbe sicuramente alzato le spalle e sarebbe rimasto da solo a fare la pecora nera. Che cosa ho io da spartire con lui, che si è messo in testa? Ero nervoso e irritato. Sono arrivato di fronte alla cappella proprio nel momento in cui il chierichetto stava suonando la campanella. Era tanto tempo che non andavo a messa. Mi è tornata in mente la prima frase, quella che il chierico pronuncia all’inizio: Introibo ad altare Dei... ad Deum, qui laetificat juventutem meam. Vado verso Dio, che allieta la mia giovinezza. La mia giovinezza? Un tempo, da piccolo, mi capitava spesso di fare il chierichetto. Sento ancora nelle narici gli odori della messa in inverno. L’odore di vino, di incenso e di candele, e il calduccio della sacrestia. Saranno passati più di quarant’anni. Mentre ci pensavo, ero ormai sulla soglia. A quel punto sarei dovuto entrare. La piccola cappella era affollata. Il prete leggeva il passo del vangelo, in piedi a sinistra dell’altare, lo vedevo dall’ingresso. Stavo per salire il primo gradino. Volevo davvero entrare. Poi ho svoltato improvvisamente a destra, in direzione del bosco. Mi irritava il pensiero di quel tizio. Mi dava fastidio che qualcuno stesse lì a spiarmi. Per dispetto non sono andato a messa. Non che mi vergognassi di entrare in chiesa. Che stupidaggine. Perché mai avrei dovuto vergognarmi? Semplicemente mi imbarazzava il fatto di essere osservato.
Più tardi, sulla strada del bosco, ho pensato che un buon cristiano in una situazione simile sarebbe entrato in chiesa senza indugio. Può darsi che io non sia un buon cristiano.
11 agosto
Quell’uomo è di una sfacciataggine notevole, e oggi ho avuto ancora occasione di avere a che fare con lui. Non è solo un insopportabile linguacciuto, è pure sfrontato. Oggi mi ha rivolto di nuovo la parola, senza alcun preambolo. Mi ha salutato come se fossimo conoscenti di vecchia data e si è subito seduto al mio tavolo. Mi ha offerto il suo giornale e ha esordito dicendo:
«Peccato che lei non sia venuto in chiesa, ieri. È stata una bella messa. Io ci sono andato e non me ne sono pentito».
Mi ha gettato in un imbarazzo tale che lì per lì non sono stato in grado di rispondere a tono al suo irritante chiacchiericcio. Perché mai uno dovrebbe pentirsi di essere andato a messa? In ogni caso, i suoi modi sono così invadenti da lasciarmi totalmente disorientato. Non ho mai incontrato una persona tanto sfacciata e impertinente. Mi sento disarmato nei suoi confronti e non posso trattarlo male: in fin dei conti, non mi ha fatto nulla. Al mondo esistono persone davvero strane. La sola idea di rivolgermi a qualcuno con la confidenza che quest’uomo si prende con me mi riempie di vergogna.
«Mentre saliva alla chiesetta,» mi ha detto «io la guardavo dalla finestra. Lei cammina piuttosto lentamente, ha forse qualche problema? A occhio e croce lei avrà una quarantina d’anni. Ah, che meraviglia la vita di campagna, quest’aria che aiuta a mantenersi in forma». E ha sogghignato di nuovo. «Insomma, ho scommesso che sarebbe andato a messa. Ho scommesso così, con me stesso, come faccio di solito. Ho buon occhio per queste cose. Ho pensato: vediamo, questo signore magari ha voglia di andare a messa. E sa che lo sto osservando. Si starà dicendo che ci andrà proprio per questo. “Che vuole questo da me?” avrà pensato lei. “Un perfetto estraneo che si immischia negli affari miei per sapere se vado a messa oppure no”. Non è vero? “Che impiccione!” avrà pensato, eh? Su, lo confessi...».
«Io non ho proprio niente da confessare» gli ho risposto seccamente.
Riconosco di esser stato sgarbato, ma quel cicaleccio era insopportabile. Subito dopo, mi sono dispiaciuto: in fin dei conti quest’uomo non mi aveva fatto nulla di male. È solo un chiacchierone che si prende troppa confidenza – è la sua natura. Non può farci niente. Può darsi che abbia qualche problema. Magari è malato, magari è un povero disgraziato. Che cosa sappiamo l’uno dell’altro? Niente di niente.
Mi ha fatto pena. Adesso che l’avevo zittito, si era fatto improvvisamente umile e quieto. Aveva cominciato a sbattere gli occhi neri e lucidi, mi guardava dal basso verso l’alto. Sorrideva, ma con un’aria turbata e afflitta.
«La prego,» mi disse «io non volevo urtarla. Le chiedo scusa se le ho dato l’impressione... Lungi da me l’intenzione di offenderla. Non volevo contrariare il signor professore. Cercavo solo di fare un po’ di conversazione».
Quest’ultima frase l’ha pronunciata quasi con pudore, con un tono assolutamente diverso da quanto aveva detto in precedenza. Aveva un sorriso timido e imbarazzato. A esser sincero, mi è venuta voglia di alzarmi e di rassicurarlo che non mi aveva offeso. Ma non ho potuto superare una specie di falsa verecondia, un orgoglio mediocre che in tali momenti ci impedisce di dire le parole che vorremmo. Nel mio intimo ero davvero colpito dagli effetti del mio comportamento, da come, con una breve risposta energica, fossi stato capace di metter fine all’insolenza di quell’uomo. L’impresa di chiudere il becco a qualcuno mi era riuscita solo raramente in vita mia. Per quel che ricordo, il più delle volte sono io quello che resta muto. E stavolta, invece di tendergli la mano, gli ho detto:
«Lei non mi ha offeso minimamente. Chi si crede di essere? Che discorsi ridicoli. E poi, come fa a sapere qual è la mia professione? Perché mi tiene d’occhio?».
Può darsi che abbia fatto la voce grossa. Lui si è alzato dal tavolo, ha accennato un inchino come per andarsene – e invece è rimasto così per un minuto, mezzo piegato. Quando l’ho guardato in faccia, la mia ira è svanita. Era pallido come un lenzuolo. In quel momento ho visto che aveva i pantaloni sformati sui ginocchi e i polsini laceri. Non si cambiava il colletto da giorni, anche la cravatta era macchiata e tutta sdrucita. Il suo sguardo era così stanco, ben più che triste, che non sono riuscito a reggerlo. Ho voltato gli occhi dall’altra parte. Con un tono pieno di umiltà, neanche fosse un servo, mi ha detto:
«Ho saputo dal gestore che lei è professore. Mi perdoni per averla disturbata. Io in realtà volevo solo far due chiacchiere. Le chiedo scusa. Non accadrà più. Ecco il mio biglietto da visita, se il professore mi permette».
Ha tirato fuori un portafoglio consunto, rosso scuro, e ha cominciato a frugarci dentro nervosamente con le dita grigiastre. Poi mi ha dato un biglietto da visita lungo e stretto. Mi sono alzato in piedi e l’ho preso. Mi pare che, nonostante la sfacciataggine, quest’uomo non sia avvezzo a fare conoscenza con il prossimo. Eravamo entrambi molto imbarazzati. La sua arroganza era svanita. Adesso semmai ero io quello scortese: ho preso il biglietto senza ringraziare, ho accennato un inchino e ho mugugnato il mio nome. Anche lui ha fatto un inchino e subito dopo se ne è andato.
Stavolta sono stato io a guardarlo dalla finestra. Ha un’andatura barcollante, stentata. Cammina ciondolando, incerto. È entrato nella villa Vilma, la terza dopo la Tivoli. Ho guardato il suo biglietto da visita. C’è scritto:
ÁGOSTON TIMÁR
Segretario
Budapest
Abita nella capitale. Che tipo di segretario sarà? Lo chiederò al gestore.
12 agosto
Ho chiesto informazioni al gestore. Non sembra nutrire una grande stima nei confronti di questo cliente. Mi ha detto che il signor Timár è venuto a Virágfüred anche l’anno scorso. Si trovava qui per ordine del medico curante. Ha un problema alla laringe, ecco perché ha la voce così rauca. Sono venuto a sapere che l’anno scorso il gestore ha avuto dei fastidi con lui. Il signor Timár non è potuto ripartire alla data stabilita perché non aveva ricevuto i soldi. Si è trattenuto per altri dieci giorni, a credito. Poi il denaro è arrivato, ma non bastava a saldare il conto. Il gestore gli ha permesso di partire, non poteva fare altrimenti. In ogni modo, due mesi dopo il signor Timár gli ha spedito quanto gli doveva. I soldi però non venivano da Pest, bensì da Vienna. Quest’anno è ritornato, e il gestore non sa altro di lui. È qui da due settimane, e finora ha pagato regolarmente. Il suo bagaglio è di infimo valore, dice il gestore, che però si vergogna a chiedergli di pagare in anticipo. È un povero diavolo, dice. E ha aggiunto: «Sa com’è con questo genere di clienti. Ma anch’io sono un povero diavolo».
Non so molto di lui. Che razza di segretario è? Il segretario di un conte, oppure il segretario di un partito? Magari in questo momento è disoccupato. Di sicuro è un povero diavolo. Lo sono anch’io. Però io ho un reddito fisso e qualche soldo da parte. Proprio prima di partire, sono passato dalla banca e ho saputo che, contando gli interessi, ho seimilaquattrocento fiorini. Li ho messi da parte in ventotto anni. Non è molto, ma non si può vivere senza un gruzzoletto.
Adesso sono un po’ pentito di aver maltrattato il signor Timár. Oggi non l’ho visto, né a colazione, né a pranzo. Forse mangia in camera sua. O forse è andato in gita da qualche parte.
Ciò che fa quell’uomo non mi riguarda affatto, può andare e venire come gli pare, non voglio più avere a che fare con lui. Non abbiamo niente in comune. Non sono mica venuto fin qui per preoccuparmi del destino del signor Timár.
Sento che non mi sto riposando nel modo giusto. Nel senso che lo faccio come se fosse un’urgenza: come se avessi il dovere di riposare. Probabilmente non è così che va inteso. Se ci fosse un medico, gli chiederei consiglio; ma non c’è. Una stazione termale senza un medico! Che luogo arretrato. Non è per nulla al passo coi tempi. Se dovessi ammalarmi, bisognerebbe far venire in carrozza un medico da Poprád.
La sera mi sembra di essere più stanco di quanto non lo fossi a Z. Sono sfinito, eppure non riesco a dormire difilato. Poi mi sveglio di nuovo, alle sei, ma non ho alcuna voglia di alzarmi. Mi sforzo di riposare e resto a letto. Stamattina ho aperto gli occhi prestissimo, ho acceso la candela e ho guardato l’orologio: erano le cinque. Socchiudendo le imposte ho visto che era già chiaro, ma la valle era avvolta nella nebbia. La nebbia non mi fa bene. Sono tornato a letto. Sono rimasto sdraiato per un’ora e ho aspettato che la foschia si diradasse. Alle sei ha cominciato a salire verso la montagna. Allora mi sono vestito e sono sceso a fare due passi. Ho percorso il sentiero lungo il bosco, fino al vecchio mulino. Non ho incontrato nessuno. La terra era umida. Queste passeggiate mattutine sono la cosa che più riesce a calmarmi. Sono rimasto a lungo ad ascoltare il canto degli uccelli. Saranno state le otto quando sono arrivato al ristorante, e ormai splendeva il sole. Chissà perché quel povero disgraziato non è sceso a far colazione. Non si sarà mica offeso? Che assurdità. A me non piace offendere nessuno.
15 agosto
Ho trascorso le ultime giornate senza quasi muovermi. Ero talmente pigro da non avere nemmeno voglia di scrivere. In fondo non ho motivo di farlo. Che cosa dovrei scrivere? Che il mio stato non è migliorato – e non so il perché? Non saprei neanche dire che cos’ho. Ho semplicemente la sensazione di non essere in forma, tutto qui. Ho perfino dimenticato alcuni dei sintomi che all’inizio mi sembravano rilevanti. Da qualche tempo, peraltro, sono molto smemorato. L’unica cosa che mi dà piacere è starmene seduto sul balcone a far nulla, senza pensare a nulla. A volte mi addormento. Mattina e sera esco per una breve passeggiata, nient’altro. Mi pesa persino dover scendere per i pasti. Il vitto peggiora di giorno in giorno. Ho saputo che si fanno mandare la carne da Poprád solo due volte alla settimana. Non ci si può quindi aspettare che sia fresca, e infatti si sente; non dico che sia avariata, ma il sapore non è buono. Preferisco mangiare le verdure stufate.
Ieri e l’altro ieri notte ho sognato. Di solito non sogno o, se mi capita, poi non ricordo nulla. Ma c’è un sogno, uno soltanto, che ritorna spesso. Talvolta tutte le notti per una settimana intera. Poi più niente per anni. È un sogno orribile. Quando mi sveglio mi sento spossato. Credo che ogni essere umano abbia un sogno ricorrente di questo genere. Ecco il mio: c’è mia madre, davanti allo specchio di un comò, che si pettina i capelli. Nel sogno mia madre ha sempre trent’anni: io devo averne otto o nove. Siamo solo io e lei in una stanza, è mattino presto. Ho un ricordo piuttosto vago degli oggetti intorno: dev’essere la stanza da letto della casa dove vivevamo in affitto a Nagykanizsa, quando mio padre era preposto al monopolio dei tabacchi. L’arredamento è molto modesto, ma non privo di grazia; sono i mobili che mia madre aveva portato in dote: la credenza, il comò, la specchiera, tre seggiole con lo schienale intagliato. Mia madre è seduta davanti allo specchio con indosso una vestaglia, e si pettina i capelli castani, lunghi e opachi. I capelli sono sciolti sulle spalle e lei fa scorrere il pettine tra le ciocche. Io sono inginocchiato accanto al comò e piango, e gemendo imploro mia madre che vuole punirmi per qualcosa che ho fatto. Sul comò c’è una grossa bacchetta di canna, quella che mia madre usava per picchiarmi. Non ricordo più la colpa per la quale mia madre intende punirmi. In ogni modo io mi lamento con voce straziante, piagnucolo e grido: «Mammina, non mi picchiate!... Vi prego, mammina!... Prometto che non lo farò mai più!... Ahi, ahi, mammina... Vi prego, non mi picchiate!...». Mentre urlo e tremo di paura, mia madre non mi degna di uno sguardo, va avanti a pettinarsi i capelli guardandosi allo specchio, sorride con aria strana e allegra e ripete: «Grida, figliolo, grida... Puoi implorare finché vuoi! Adesso io mi pettino, figlio mio, e tu resti lì in ginocchio. Quando avrò finito, prenderò la bacchetta e te ne darò tante come non te ne ho mai date. Adesso ci sfiliamo i calzoncini, figlio mio, così sentirai ancora più male. E ti lego anche le mani dietro la schiena, così te ne starai bello fermo. Hai capito? Tra poco ho finito, figliolo. Tu resta lì in ginocchio. Tra poco arrivano le botte. La conosci questa bacchetta? Adesso ci pensa lei a raddrizzarti, figlio mio. Hai paura, vero? Fa male la bacchetta, eh? Aspetta solo un attimo. Dammi il tempo di raccogliere i capelli. Così, ecco. Ora mi faccio l’altra treccia. Tu resta in ginocchio e continua pure a implorarmi, figliolo. Tanto è inutile, lo sai bene. Adesso ti lego le mani e ti sfilo i calzoncini. Ti tocca una bella manica di botte. Come non ne hai mai prese in vita tua. Sulla carne nuda...». Mia madre parla senza interrompersi, e intanto si pettina con una lentezza straordinaria, non guarda me, ma la propria immagine allo specchio e sorride, con un’espressione quasi di felicità. La mia paura continua a crescere. Con le mani giunte la scongiuro di non picchiarmi, almeno per questa volta. Ho il viso madido di lacrime e di sudore. Nel sogno il ritmo delle minacce diventa più incalzante, e la cosa più dolorosa è il sorriso beato di mia madre. Perché sorride? Cos’è che la riempie di gioia? Il sogno si conclude sempre così: quando, in preda al terrore, sento di non farcela più a sostenere quell’attesa, mia madre smette di acconciarsi i capelli, getta indietro la testa, si alza in piedi, prende in mano la bacchetta e ridendo felice esclama: «Ecco, figliolo... e adesso portami la corda, così ti lego le mani». «Mammina!» urlo per l’ultima volta, e mi butto ai suoi piedi. Lei solleva la bacchetta... ma io mi sveglio sempre prima che lei cominci a picchiarmi.
Non ricordo altri sogni in vita mia. Questo ritorna tutti gli anni, non cambia, semmai ogni tanto appare più nitido, più verosimile; ma nelle linee essenziali è sempre lo stesso. È il mio unico sogno. Qui l’ho fatto due volte di fila, ieri e l’altro ieri. Non capisco perché mi perseguiti. Sicuramente la buonanima di mia madre ci picchiava parecchio; le dava anche a mio fratello minore, ma a me di più. Era convinta che le botte fossero il metodo migliore per educare i figli, e per il nostro bene ce ne dava tante e spesso. Da sveglio non ricordo un episodio come quello del sogno. Non so quando possa essere successo. Ma il sogno è talmente chiaro e preciso che non c’è dubbio, dev’essere accaduto davvero. Il mio metodo educativo esclude totalmente le punizioni corporali. Almeno, per quanto mi riguarda, io non ho mai picchiato nessuno: non penso affatto che picchiare i bambini serva a qualcosa. C’è chi sostiene di sì. Può darsi.
Alla fine del sogno mi sveglio sempre stravolto e sudato. Per tutta la giornata mi resta un sapore amaro in bocca. In quei giorni mi sento poco bene, e sono estremamente irritabile. Queste ultime due volte ero talmente spossato che non sono neanche andato a passeggiare. Sono sceso solo per i pasti.
Noto che sono ormai due giorni che non vedo il segretario, il signor Timár. Probabilmente è partito.
16 agosto
Non è partito, resta in camera sua. Me l’ha detto il gestore. Non perché sia malato, ha aggiunto; ogni tanto ha l’abitudine di starsene chiuso in camera, senza apparente motivo, e vuole che anche i pasti gli siano serviti lì. Una vera seccatura per il gestore. Che tipo strano: se non sta male, perché non si muove dalla stanza? Sebbene l’ipotesi mi sembri ridicola, ho avuto il sospetto di poter essere parte in causa. La sua sparizione si protrae ormai da diversi giorni e l’ultima volta che l’ho visto è stata la mattina del nostro diverbio – del quale non vado certo fiero. È possibile che non desideri incontrarmi? Sì, è possibile. Se così fosse, sarebbe mio dovere spiegargli che non nutro rancore nei suoi confronti. Perché mai dovrei, peraltro? Perché si è preso un po’ di confidenza? Adesso, a posteriori, ho l’impressione che quell’uomo soffra di solitudine e, vedendomi altrettanto solo, abbia cercato aiuto. Se ci penso, mi pare di sentire la sua voce: «Io volevo solo fare due chiacchiere». A essere sincero, un po’ mi spiace di non vederlo. Non posso certo dire di trovarlo simpatico: c’è in lui qualcosa di troppo trasandato – forse è trasandato anche dentro, è questa la sensazione che dà. Ma senza dubbio si tratta di un uomo solo. Anch’io lo sono. Qui il senso di solitudine è ancora più forte che a Z., più opprimente. Mi fa quasi soffrire.
Oggi voglio annotare due cose. La prima è una scoperta che mi ha davvero colpito; la seconda è semplicemente un atteggiamento nuovo in me. Con mia grande sorpresa ho dovuto prendere atto che qui, in mezzo a questi grandi boschi di abeti, la Natura non mi interessa più (lo scrivo con la maiuscola, come ho sempre fatto). Passeggio per qualche ora all’aria aperta, come ogni giorno in vita mia. Se dico «la Natura non mi interessa più», non sono ancora abbastanza preciso. Potrei dire «non mi appaga», oppure «mi lascia indifferente», ma se voglio essere preciso devo ricorrere a una frase un po’ retorica, come «non placa la mia sete». È questa la definizione più chiara, quella che rende meglio il senso di mancanza che provo. Non è proprio come avere sete, no; la sete si può soddisfare, è possibile alleviare qualsiasi senso di mancanza, sia fisico sia spirituale. Ma in me, adesso, c’è un vuoto che non riesco a colmare. Me ne accorgo quando, a volte, mi capita di avviarmi verso la stazione termale con l’intenzione di scambiare due chiacchiere con il gestore, o di fare conoscenza con qualcuno dei frequentatori serali della sala comune, ma appena arrivo di fronte alla veranda del ristorante so già che mi sto sbagliando, che non sono sulla buona strada, non è ciò di cui ho bisogno, non è la gente a mancarmi, o almeno, non questa gente. E così tiro dritto, rientro in camera, oppure proseguo verso il bosco. Ma nemmeno il bosco mi è d’aiuto. Non mi interessa né mi rasserena. Cammino distrattamente, quasi senza far caso alla Natura – che sarà mai? È come se pensassi continuamente a qualcos’altro, qualcosa che mi astrae da tutto il resto –, che sarà mai? Nei pressi del valico c’è un grande prato, in questa stagione ormai ingiallito. Dal prato lo sguardo arriva fino alla frontiera, tutt’intorno si staglia la catena dalle cime innevate, e a fondovalle si vedono il fiume e due villaggi. È una vista magnifica. Di una bellezza quasi eccessiva, uno spreco di splendore come solo la Natura può offrire. Mi ricordo che anni fa salivo fin qui e me ne stavo per ore a contemplare il paesaggio in uno stato di muta beatitudine. Adesso mi lascia indifferente. Lo guardo con un senso di estraneità, come fosse un quadro. È vero, l’ho visto tante volte – ma ci si può stancare di contemplare la Natura? Invece adesso mi chiedo: che cosa ci sarebbe da vedere? Mi lascia del tutto indifferente. Non provo più alcun senso di pace o di benessere. Nell’osservare questo paesaggio sublime sento un misto di scontento e di ostilità. C’è del comico in questa situazione. Vista dall’esterno, fa sorridere: un ometto piccolo piccolo in cima a una roccia, circondato da gigantesche montagne coperte di neve, con il bosco ai suoi piedi; un uomo insoddisfatto, addirittura critico. Eppure, la verità è proprio che, per quanto imponenti siano queste vette, io non mi sento affatto minuscolo. Almeno non adesso. Non sono pervaso dall’umiltà compiaciuta di chi si sente infinitamente piccolo. Non mi compiaccio di niente. È una cosa invereconda, ma devo scriverla: mi sento grande come le montagne. Come l’intero panorama che ho di fronte agli occhi. E mi stupisce che quel che vedo non riesca ad appagarmi; sembra che dentro di me ci sia un abisso altrettanto immenso e profondo. Natura abhorret vacuum. C’è un vuoto dentro di me, del quale comincio a provare orrore.
Il secondo fatto che ho constatato di recente è più semplice. Non vado matto per i bambini, nel senso più comune e amabile dell’espressione. Non ho mai avuto l’abitudine di avvicinarli, di giocare e di chiacchierare con loro, di vezzeggiarli, come molti fanno. Per me i fanciulli sono soprattutto del materiale da formare; li conosco, ci lavoro da ventotto anni. Ho sempre cercato di essere un buon maestro. I miei allievi non mi hanno forse mai amato in modo particolare, ma non mi hanno nemmeno temuto; piuttosto, credo che mi abbiano stimato come qualcuno in grado di capirli. Non ho mai familiarizzato con i bambini. Sono troppo scontroso e impacciato per farlo. Le poche volte che ci ho provato, i bambini mi hanno trattato con ritrosia. Qui alla stazione termale di bambini ce ne sono parecchi. Negli ultimi tempi ho notato che non riesco a passare accanto a un bambino senza dire niente; devo fermarmi, mi fa piacere buttare lì qualche parola. O sfiorare loro i capelli. E mi sono reso conto che i bambini si mostrano più amichevoli nei miei confronti. L’altro giorno ero seduto su una panchina e me ne è salito uno sulle ginocchia. Non mi era mai successo prima. Dopo qualche minuto la madre, una giovane donna, si è avvicinata e ha cominciato a chiacchierare. A quel punto li ho salutati e me ne sono andato, perché non mi piace far conversazione con le signore.
Questa sete, questa inquietudine, questa tristezza non mi abbandonano mai; mi danno tregua, per qualche ora, quando mi metto a scrivere questi appunti. Se annoto tutto con sincerità ho come l’impressione, dopo, di sentirmi più leggero.
20 agosto
Giornate vuote. Giornate lente e vuote. E per giunta ha piovuto per due giorni di fila, una nebbia umida è scesa sopra il bosco e la valle. Lunghe ore trascorse sul balcone, nell’umidità della nebbia, sotto le coperte.
Nel pomeriggio mi sono assopito sulla sedia a sdraio, sul balcone. Ho dormito tanto, quando mi sono svegliato era già scuro. Ho preso freddo a star fuori all’umido. Oggi rimango in camera anch’io, a starnutire e a bere tè al rum.
Forse ho la febbre. Ho voglia solo di dormire. Ma stasera scenderò a cena. La stanza è fredda e inospitale. I mobili odorano di muffa e ora mi dà veramente fastidio. La famiglia rumorosa che abitava qui accanto è partita. Su questo piano sono rimasto soltanto io. Che desolazione. Nella mia camera non c’è neanche il campanello. Credo che di notte in questa villa non dorma nessun inserviente. Tutte le mattine viene una donna anziana, porta dell’acqua, pulisce le scarpe e rifà i letti. La sera verso le nove ritorna per sistemare lenzuola e coperte, e questo è tutto. Di giorno non c’è nessuno. Di notte nemmeno. Che tristezza. Se stanotte avessi bisogno di qualcuno, sarei costretto ad andare a piedi al ristorante.
Stamattina stavo pensando di tornare a casa.
Forse non ho la febbre; però mi sento debolissimo. Sono senza forze, anche scrivere mi costa fatica. Oggi mi è venuto in mente che forse dovrei mandare una cartolina alla famiglia del preside. La gente si aspetta qualcosa del genere quando uno sta via per parecchio tempo. Stasera scriverò qualche cartolina. Adesso avrei voglia di dormire; ma negli ultimi due giorni ho dormito così tanto che quando mi metto a letto mi passa il sonno.
Ho delle fitte alle gambe. È colpa della nebbia. Se per domattina non cambia questo tempo umido, vado a parlare con il gestore. Però la nebbia è bella da vedere, se non fosse malsana. C’è un tale silenzio tutt’intorno, sembrerebbero partiti tutti. La casa in cui abito è completamente vuota, c’è un’atmosfera spettrale. Quando cammino per la stanza i miei passi riecheggiano. Stanotte ero sveglio, insonne, con la candela accesa, e udivo solo il rumore del vento fra gli alberi. La nebbia è penetrata fin dentro la stanza, ed è così spessa da attenuare la luce della candela. Mi sentivo talmente solo, lontano da tutto ciò che è umano, dalla compagnia, dall’amicizia. A un certo punto percepivo il suono del mio respiro. Avevo voglia di alzarmi e di andare in mezzo alla gente, di svegliare qualcuno e mettermi a far conversazione. Ma era tardi, era mezzanotte passata. Chi avrei mai potuto buttare giù dal letto? Il gestore? Non mi interessa granché. Non conosco nessuno. Mi è venuto in mente il signor Timár. Ma non so se è ancora da queste parti.
Stasera scendo a cena.
Tutto questo non significa niente, non devo farci caso. Oggi sono apatico, molto stanco. Apprezzo questa nebbia che avvolge tutto nel silenzio. Sarà che sto proprio invecchiando. Strano come una cosa del genere possa accadere senza che uno se ne accorga.
Di posta non ne ho ancora ricevuta. La mia governante potrebbe mandarmi due righe. Era così agitata, poveretta, quando sono partito. Ha la sua età, ormai, è più vecchia di me. Ha almeno sessant’anni. Povera signora Márta. Meno male che mi è venuta in mente: le porterò un regalo. Anche se qui non c’è niente. Sarò costretto a comprarlo a Z., al ritorno, nel tragitto fra la stazione e casa mia. È un piccolo inganno, lo so, ma a fin di bene, che altro posso fare?
Ho queste fitte alle gambe. Non mi va neppure di fumare la pipa, il tabacco è umido.
22 agosto
Pioggia e nebbia. E ieri sera, poi, che balordo sono stato! Dovrei avere più cura di me. Adesso ho un gran mal di testa, è normale, dopo una sbornia così, e non posso andare a fare quattro passi perché sta diluviando. Se almeno avessi un libro da leggere. I giornali non mi interessano. Oltretutto sono di parecchi giorni fa, ma questo poco importa. Mi aggiro per la stanza come un animale in gabbia. Le lenzuola sono ormai di un’umidità intollerabile. Erano anni che non soffrivo di un mal di testa così atroce. Non mi stupisco: avevo notato subito che il vino della casa era cattivo. Non dico che sia aceto, ma la sua nota principale è che sa di botte. Di vini, specialmente bianchi, mi intendo abbastanza. Questo è di infima qualità, prodotto senza alcuna cura. L’ho bevuto per pura compassione; in realtà, a tavola nemmeno lo bevevo, mi limitavo a ordinarlo regolarmente.
Ieri sera ho bevuto.
Dopo cena, quando hanno iniziato a sparecchiare, sono rimasto seduto. Ho chiesto una lampada a petrolio per illuminare il tavolo e mi sono fatto portare sei decilitri di vino bianco: più di mezzo litro, subito. Tendo sempre a esagerare, le rarissime volte che mi discosto dalle mie abitudini. Mi piaceva la luce della lampada a petrolio, dopo tutte quelle lunghe notti passate a lume di candela. Fuori infuriava un forte vento e continuava a piovigginare. Una signora suonava il pianoforte; non ho l’orecchio fino, ma mi sono accorto che lo strumento aveva qualcosa che non andava. Saltava più di una nota; il gestore ha ammesso che mancano alcune corde. Due comitive, composte da persone che in passato si erano conosciute alle terme, si trattenevano nella sala; con quel tempo da lupi nessuno aveva voglia di tornarsene in camera, per trovarla fradicia di umidità. Gli uomini bevevano vino, le donne erano impegnate in un gioco di società. Un gioco straordinariamente stupido. D’altronde, può darsi che tutti i giochi di società siano stupidi. I bambini erano stanchi e sono crollati sui tavoli. Verso le undici le signore si sono ritirate portando con sé i figli. Sono rimasti soltanto un ingegnere insieme alla moglie e la signora che suonava canzoni ungheresi al pianoforte. È una donna di mezz’età, dall’aspetto gradevole e dall’aria un po’ triste. Immagino sia nubile, perché tutti la chiamano signorina. Potrebbe essere una maestra, la direttrice di un ufficio postale, oppure un’impiegata di banca. Suonava il pianoforte con molto garbo. La musica ha sempre un effetto tranquillizzante su di me, mi rapisce. Verso le undici avevo già finito i sei decilitri di vino.
Il gestore ha proposto di accendere la stufa di ghisa, se la compagnia aveva intenzione di restare nel salone. Ma la maggior parte delle persone era già andata via. Quanto a me, il vino mi riscaldava piacevolmente. L’ho pregato di non disturbarsi, non era il caso di accendere solo per me. Ho ordinato altri tre decilitri e gli ho chiesto se per favore poteva chiudere le finestre della veranda.
I tre decilitri li ho mandati giù più lentamente. Il vino è pessimo. Il gestore non si azzarda neppure a negarlo: d’altronde, non vale la pena di farsi mandare una botte nuova, tra due settimane chiude tutto e se ne va a Szeged. Non gli si può chiedere del vino nuovo, lo capisco benissimo. Se bevo questa roba è solo colpa mia, non è certo lui a insistere.
Sono rimasto seduto così per mezz’ora, fumando la pipa. Il cameriere sonnecchiava in un angolo. In quel momento, per la prima volta dopo settimane, mi sono sentito più sollevato, più sereno. Per la verità, era la prima volta che stavo veramente bene da quando sono alla stazione termale. E il vino mi aiutava. Ci si abitua, bevendolo diventa sopportabile. Adesso, naturalmente, mi scoppia la testa.
Verso le undici e mezzo è arrivato il signor Timár. Il suo ingresso non è passato inosservato, perché ha fatto un gran fracasso spalancando la porta. Sulla soglia, appena mi ha visto, si è levato il cappello. La corrente d’aria per poco non ha spento la lampada. Mi si è avvicinato con passo incerto.
Io sono balzato in piedi. Devo confessare che da tempo non provavo una gioia simile nell’incontrare qualcuno.
«La prego di accomodarsi» gli ho detto. «Prego». Ho ripetuto due volte l’invito. Non è stato lui a imporre la sua presenza. Stavolta a insistere ero io.
Devo ammettere che ha accettato di sedersi al mio tavolo con un po’ di riluttanza. Era come se ci fossimo scambiati i ruoli. Ho cominciato io a parlare. Mi accorgevo di fare una certa fatica nell’articolare le parole e balbettavo; la lingua era impastata a causa dell’insolita bevuta e la mente annebbiata dai primi fumi dell’alcol. L’ultima volta che avevo provato questa sensazione era stato tanto tempo fa, una sera al circolo. Mi era salito il sangue alla testa e parlavo più lentamente e a voce più alta del solito.
Il segretario era bagnato fradicio. Dall’abito inzuppato si levavano sbuffi di vapore. È rimasto seduto accanto a me per un po’, fissandomi in silenzio con lo sguardo attento e scintillante. Quello sguardo adesso non mi infastidiva più. Avevo paura che se ne andasse. Allora ho voltato la testa di lato, e gli parlavo così, evitando di guardarlo in faccia. Avrei dato volentieri qualcosa per farlo rimanere, lo avrei pregato se avesse accennato ad andarsene.
«La volta scorsa non ci siamo capiti» gli ho detto. «Non avevo la minima intenzione...».
Biascicavo in maniera indecente. Lui non ha risposto subito. Quando ha capito di cosa si trattava, ha sorriso con aria soddisfatta. Quel sorriso, in un’altra occasione, mi avrebbe fatto uscire dai gangheri. Aveva un’espressione compiaciuta, un’aria di superiorità. Si era chinato verso di me, bevendo avidamente le mie parole, che per lui suonavano come la più lusinghiera delle lodi, la più grande rivincita della sua vita:
«Come, scusi?» ha detto con voce flebile e rauca.
Il mascalzone faceva finta di non aver sentito. Ma io ormai stavo al gioco, e ho dovuto ripetere le scuse. Nel frattempo pensavo: «Guarda come te ne approfitti, farabutto, ma che ci posso fare?». Non riuscivo a lasciarlo andar via. Non so cosa avrei dato perché restasse lì. In quell’inizio di ubriachezza mi sentivo terribilmente solo.
C’era qualcosa che mi spingeva verso quell’uomo.
«Si figuri» ha detto dopo aver ascoltato le mie scuse per la seconda volta. E ha fatto un gesto con la mano, come a dire che capiva e mi perdonava e, con aria impassibile e cortese, si è appoggiato allo schienale della sedia. Quel movimento mi è parso quasi elegante. Ero sbalordito dalla signorilità che quell’individuo sciatto e sudicio aveva mostrato nell’accettare le mie scuse.
Perché era proprio quello che avevo fatto. In termini inequivocabili. Avevo chiesto perdono a lui, a quel tizio senza arte né parte. A posteriori, è una situazione piuttosto incomprensibile. Ma in quel momento mi è parsa la cosa più naturale del mondo. Probabilmente ero già alticcio. E a quel punto ho ordinato ancora del vino. Altri sei decilitri.
Non mi staccava gli occhi di dosso. Si è acceso una sigaretta. Io non sapevo più cosa dire, e sono rimasto zitto. Non diceva niente neanche lui. Abbiamo bevuto due bicchieri. Aspettavo di vedere che cosa avrebbe fatto. Ma lui non si muoveva. Se ne stava seduto rannicchiato, con aria pensosa, tremando come una foglia. Povero diavolo, aveva gli abiti zuppi. Poi, a un tratto, di punto in bianco ha detto:
«Ecco qual era la questione: lei sarebbe senz’altro entrato in chiesa se non avesse saputo che io la stavo osservando. È un caso piuttosto comune, ma non per questo meno interessante per me. Era il quid che mi mancava per comprendere appieno la sua personalità». Ha detto proprio così: il quid che mi mancava. «Mi rallegrava vedere che la mia teoria era corretta. È un eccellente passatempo. Io mi diverto così. È lo svago più economico che ci sia, e non è privo di utilità».
Tutto questo l’ha detto come se concludesse una frase iniziata una settimana fa. È un tipo che ama portare a termine le cose. Mi tornano in mente con esattezza le sue parole. Mi rendo conto che erano un mucchio di insolenze, anzi, in un certo senso, vere e proprie oscenità. Ma mentre le diceva, non mi infuriavo. Mi lasciavano freddo. Ero talmente interessato che pendevo dalle sue labbra. E lui se n’è accorto.
Parlava a voce così bassa, con un timbro così rauco che ero costretto a chinarmi verso di lui per capire tutto quello che diceva. Bisbigliava, parlare gli costava un certo sforzo, ed era una pena starlo a sentire.
«Di che cosa soffre?» gli ho domandato.
«Problemi alla laringe» ha risposto con voce appena udibile, toccandosi la gola.
E ha sorriso anche stavolta, ma diversamente, con un’aria smarrita.
«Ha preso freddo?».
«Si atrofizza» disse con lo stesso sorriso. «Che ci vuol fare? Abbiamo tutti qualche acciacco. Lei avrà il suo. Nel mio caso è la laringe. Poteva andarmi peggio. Ci convivo. È solo questione di denaro; purtroppo, è proprio il mio tasto dolente. Come si suol dire, non mi manca nulla, tranne i quattrini. Invece lei, professore... perché avrà sicuramente qualcosa anche lei. Tutti hanno qualche malanno».
«Io soffro di dolori terribili alle gambe» gli ho detto con aria pietosa.
Era pallido come un cadavere, e i grandi occhi neri ardevano di una luce torbida. Forse aveva la febbre. Di certo aveva le mani sudate. Tamburellava senza posa sul tavolo con le lunghe dita giallastre. Quando portava il bicchiere alle labbra, gli tremava la mano.
«Negli ultimi giorni è stato poco bene?» gli ho chiesto.
«No. Sono semplicemente rimasto a letto, nella mia stanza. A volte mi capita. L’ultima volta mi è successo a Berlino, sono rimasto tappato in camera per due settimane. Non avevo un vero problema di salute. È solo che a volte non ce la faccio più. Ci sono un sacco di cose che non sopporto: il modo in cui sorrido. La mia voce rauca. Mi dica, lei la sopporta, la mia voce? A me dà sui nervi. Non è la mia voce, c’è qualcuno che parla dentro di me. A volte immagino come sarebbe limpida se passasse attraverso la laringe di qualcun altro, limpida come quella di un tenore. Mi capisce? Io non sono come gli altri. Quando sono di quest’umore, evito la gente. Vede, mi è rimasto un briciolo di pudore, anche verso il peggiore degli esseri umani. Perché guastare la festa della gente sana? Io, per lo meno, cerco di non guastarla. In fondo sono pudico. Tutti i malati lo sono. Anche lei è una persona pudica, professore. Non lo neghi. È proprio questo che mi ha attirato verso di lei la prima volta, appena l’ho vista».
«Io non sono malato» ho protestato alzando la voce.
«Non lo neghi». E abbiamo brindato. «D’altronde, non le serve a nulla negare. I sani lo colgono ugualmente, e si tengono alla larga da noi. Succede proprio così, in modo impercettibile. La malattia, oppure il dubbio, la solitudine. E il pudore. In me è fortissimo; talmente forte che continuerei a parlarne. Mi piacerebbe tanto sfogarmi, fare chiarezza: perché, per quale motivo, che cosa mi è successo. Se vuoto il sacco e racconto tutto per filo e per segno, gli altri magari saranno più indulgenti nei miei confronti. Gli altri, quelli giovani e belli, quelli che scoppiano di salute. In fin dei conti, sono loro a essere nel giusto. In noi c’è qualcosa di contagioso. Non è la laringe, né il seme del dubbio: quello di cui temono il contagio è la solitudine. E loro, i giovani e belli, i sani, cercano di proteggersi come possono. Deve sapere che questo è il mistero più grande. Il mistero di come un essere umano finisce per guastarsi. E rimanere solo. È come se parlasse nel vuoto: la sua voce non si sente. Gli altri non lo capiscono. Cammina sulla loro stessa strada... ma non arriva da nessuna parte. Gira in tondo, intorno a sé stesso. Ha il potere di disgregare tutto ciò che lo circonda. Un branco, un gregge non può tollerare un membro simile: è naturale che venga escluso. Ma non è questo l’essenziale. L’importante è: da dove trae origine la tara che affligge queste persone? Dove? Quando? La prego di seguire il mio ragionamento: noi viviamo gli uni accanto agli altri. Prendiamo due individui, X e Y, che partono con le stesse identiche prerogative e potenzialità. Ovvero, sono entrambi sani, sono entrambi poveri, o entrambi ricchi. Non è questo il punto. Uno è biondo, l’altro bruno. Hanno entrambi due mani, due gambe, muscoli forti e sani, hanno la stessa inclinazione al bene e al male. Supponiamo che procedano nella stessa direzione. A un osservatore esterno, sembrano raggiungere risultati identici. Ma all’età di trenta o quarant’anni, la salute di X è minata da un grave morbo. La sua strada ormai diverge da quella degli altri esseri umani. Resta solo. Non ha nulla da spartire con nessuno. Non si fida di nessuno. Nel frattempo Y si gode la compagnia dei suoi simili e le gioie della vita, seguendo il giusto ordine delle cose, rendendo grazie a Dio. Non so se ha presente quei due manifesti sempre accostati: János il Sobrio, dal viso rubicondo, mentre taglia delle belle fette di pane per i suoi bambini biondi; davanti al forno a legna la sua vispa mogliettina prepara una squisita pietanza; dalla porta spalancata si intravedono i campi coltivati, i covoni baciati dalla luce dorata del sole. L’immagine del focolare felice. E accanto a questo la fattoria di János l’Ubriacone: ciuffi di paglia penzolano dal tetto sfondato; nel piatto di questo secondo János c’è solo un pesce secco; i suoi bimbi, rachitici e mezzo deficienti, si aggirano smarriti per il tugurio; la moglie tubercolotica giace a letto rantolante. D’accordo... ma perché beve János l’Ubriacone? Solo per il gusto di bere, per provare l’ebbrezza? Al diavolo. Noi lo sappiamo bene. Anche lei lo sa. Perché sta bevendo qui, adesso? Lei, una così brava persona? Perché beve questo pessimo vino? Perché lei è malato e questo vino è come una medicina, ecco perché. Ma perché è malato? Lei e io, che cosa abbiamo? E quando ci è venuto? Ecco il problema, mio caro signore...».
«Ma da cosa deduce che io...» gli ho chiesto.
«Ah, la smetta. Non c’è bisogno dei raggi X. Crede che ci voglia un’abilità particolare per riconoscere i sintomi della solitudine in una persona? E non mi riferisco alla solitudine scelta come stile di vita, il beato isolamento, la classica torre d’avorio. Quella può ancora essere considerata una forma di socialità, è una soave solitudine. Alla base della torre d’avorio può benissimo esserci una via di fuga sotterranea, attraverso la quale il castellano, quando ne ha voglia, scende di nascosto in mezzo alla gente. Di questa solitudine me ne infischio, non mi interessa minimamente. Il castellano se la sceglie. È un ornamento che esalta il suo fascino. A interessarmi è l’altra solitudine, che è come la scabbia: la si vede a fior di pelle, nello sguardo, nell’andatura, nei gesti. Tutti se ne accorgono, le donne, i bambini, i camerieri. E se ne ritraggono spaventati, riconoscono una persona pericolosa. Vive fuori dal gregge. Perché? Poveretto, forse ha una malattia contagiosa. Vive da solo. Capisce? So-lo. Senza moglie, senza figli. Senza amici. Senza servitù. Dimenticato da Dio e dagli uomini. Quell’uomo è lei, sono io. Che cosa ci è accaduto, qual è la nostra colpa?
«Signor Kudlák...».
Il cameriere si è alzato ed è venuto con passo strascicato al nostro tavolo. Mi sono messo in allarme. Il segretario mi ha chiesto con la voce rauca da avvinazzato:
«Vuole che glielo dimostri?...».
Non avevo idea di che cosa volesse dimostrare. Intendeva forse chiedere il parere del cameriere? Gli ho fatto cenno che avevo capito, che aveva ragione e non c’era bisogno di alcuna dimostrazione. Abbiamo ordinato dell’altro vino. Mi si è avvicinato e mi ha sussurrato all’orecchio:
«Anche il signor Kudlák l’ha individuata. Non solo io. Se ne accorgerebbe un bambino. Qualsiasi donna. Lo vedono anche in me. Mi tollerano, ma mi tengono a distanza».
«Ma signor Timár, la prego,» gli ho detto un po’ alterato «per Dio, che cosa dovrebbero mai vedere? Che vedono in me? Siamo d’accordo, io certamente sono nevrastenico. Soffro pure d’insonnia. Alla mia età è normale. Che cosa dovrebbero vedere in me? Che sono nevrastenico? E poi?».
Si è passato la mano sulla fronte e ha raddrizzato la schiena. Ed è come se con quel gesto fosse tornato in sé. All’improvviso si è calmato, tanto da sembrare quasi sobrio. Dai suoi occhi è scomparso quel luccichio febbrile.
«Niente» ha detto. «Stiamo facendo due chiacchiere. Le persone conversano, è normale. Di che cosa possiamo parlare, noi due? Di politica? Di arte? Provi a immaginare due neri che si incontrino in una grande città abitata solo da bianchi. Solo ed esclusivamente bianchi. Tre o quattro milioni di bianchi. Uomini bianchi, donne bianche, bambini bianchi. Di che cosa parleranno i due neri? Scommetto cento a uno che parleranno dei problemi dei neri. Del fatto che il giorno prima, in treno, un signore bianco se n’è andato dallo scompartimento perché c’era lui, un nero. Di quando l’altro voleva chiedere un’informazione a una signora in una via poco frequentata, e la donna è fuggita a gambe levate... ma no, che sciocchezza, quando mai oserebbero i nostri due neri rivolgere la parola a una donna bianca nella città dei bianchi?... Osare una cosa simile? Piuttosto si lascerebbero morire di fame. Non crede che parlerebbero di queste cose? E del perché le cose stanno così? Chi li ha messi in questa situazione? Il buon Dio? Ma di quale peccato si sarebbero macchiati? Nessuno».
«Lei esagera» gli ho detto. «Io non mi sento così».
Mentre lo dicevo, ho provato vergogna. Lui non mi guardava nemmeno, faceva dei gesti in aria. La sua voce si sentiva a malapena.
«Io ho trentasei anni» ha proseguito con naturalezza. «Non sono tanti, ma abbastanza per sapere che non è più il caso di sperare in un miracolo. I miracoli non esistono. Tutto va come deve andare. Se vedo una persona con i sintomi della solitudine, della grande, autentica solitudine – la solitudine colpevole...».
Ha pronunciato le ultime parole con particolare enfasi e, per la prima volta da quando avevamo iniziato quella conversazione, mi ha guardato dritto negli occhi.
«La solitudine colpevole?» ho domandato stupito.
«La solitudine colpevole,» ha ribadito «sì... colpevole in un senso piuttosto astratto del termine... una colpa forse preterintenzionale. Si tratta esattamente di questo: bisogna capire se dipende da noi o se è indipendente dalla nostra volontà. Mi segue? Siamo vittime o colpevoli? Io non lo so ancora di preciso. Però la chiamo solitudine colpevole. La percepisco nelle persone. Non ci vuole il naso fino. Dopo un po’, chi ne soffre sembra gridarlo al mondo... La solitudine» e a questo punto ha sorriso «è accompagnata da sintomi paragonabili a quelli di qualsiasi malattia. Esistono diversi stadi. Be’, lasciamo stare. Forse è colpevole perché... come faccio a spiegarglielo? Io ho una teoria su questo. È colpevole chiunque si tenga lontano dagli esseri umani».
«Dagli esseri umani» ho ripetuto meccanicamente. Non avevo più la forza di contraddirlo. Poi ha cominciato a comportarsi in modo strano.
«Cerchi, la prego, di capire tutto questo nel senso in cui lo intendo» ha proseguito. «La politica non c’entra. Non sono un sovversivo, io faccio il segretario. Vale a dire uno che sta lontano dalla gente. Che non è in sintonia con gli altri. Che non lo è mai, neanche per un’ora, per un minuto. Mi dica lei, che possiamo farci? Non mi riferisco soltanto ai ricchi. Questa malattia si manifesta indipendentemente dalla posizione sociale di chi ne è colpito. Ad esempio, io... ma che posso fare? Chi è in sintonia con gli altri è felice, sa perché sta al mondo. Io non lo so. Io non sono in sintonia con loro. Qui dentro, proprio qui, deve sapere, è tutto vuoto. Non è nichilismo, perché mi pongo ancora delle domande... ma non trovo le risposte. Ci sono due rimedi. Due vie d’uscita. Due medicine».
La testa gli era crollata sul petto. Guardava fisso davanti a sé. Non ho osato turbarlo.
«Una è l’amore. L’altra è Dio. E io, mi creda, non le conosco. Nessuna delle due».
Non ricordo con esattezza tutto ciò di cui abbiamo parlato da quel momento in poi. Ma mi pare che siamo rimasti lì per un bel po’. Ormai parlavamo contemporaneamente, lui con la voce rauca, io sempre più forte. Il cameriere si era addormentato. Ricordo che siamo tornati verso le nostre ville sotto una pioggia torrenziale. Una tempesta che è durata per tutta la notte. Adesso ho un tremendo mal di testa, e mi vergogno. Darei qualsiasi cosa per dimenticarmi di ieri sera. Ne ho un ricordo simile a quello che resta dopo un’orgia. Forse esistono orge che non hanno niente a che fare con il corpo, e forse sono anche peggio.
24 agosto
Ieri non l’ho visto; può darsi che anche lui provi vergogna per quello che è successo l’altra sera.
25 agosto
Questa sensazione non mi abbandona, come una specie di nausea da dopo sbornia: continuo a sentirmi come se avessi preso parte a un’orgia immonda. Il mio nuovo amico non si vede da nessuna parte. È pur vero che io non lo sto cercando. Il tempo tende al bello, ma le strade sono ancora bagnate.
26 agosto
Oggi c’è di nuovo il sole, un caldo asciutto e persistente. Ma la canicola, ormai, si direbbe finita; sembra piuttosto una bella giornata di inizio autunno. Ieri e stamattina ho camminato per ore nel bosco.
Ágoston Timár l’ho incontrato a mezzogiorno davanti alla cappella. Stava chiacchierando con il parroco. Quando mi ha visto, mi sono fermato a salutare. Entrambi hanno ricambiato il mio saluto; il parroco con un’espressione seria e cortese, Timár con freddezza, quasi non ci conoscessimo. Si è levato il cappello con un gesto impersonale, un po’ controvoglia, come a chiedersi: «Ma chi è questo?». Che uomo singolare. Dev’essere povero in canna, un vero pezzente. Non mi hanno trattenuto, né rivolto la parola. A pensarci mi viene quasi da ridere. Per la prima volta da giorni mi sento più leggero; sarà perché è tornato il bel tempo. Mi sono seduto su una panchina al sole. Questo è il periodo dell’anno che preferisco, l’inizio dell’autunno, così sereno e luminoso. Ho riflettuto un po’ su Timár e sul suo comportamento. Perché non mi è venuto incontro? Perché ha fatto finta di non conoscermi? Poveraccio, è proprio un commediante.
Ieri pomeriggio ho portato con me un plaid per distendermi sul prato dal quale si vede tutta la vallata, fino al confine, e le cime coperte di neve. L’erba è secca ormai, per via del caldo. Ho visto fluttuare nell’aria i primi fili di ragnatela. Il cielo era così terso che ho udito distintamente il rintocco delle campane di un villaggio distante. Erano campane a morto. Di lì a poco, in lontananza, ho visto anche il corteo funebre, una fila nera e sinuosa di esseri minuscoli dietro al cavallo di San Michele.2 Sono rimasto lì sdraiato fino al tramonto. Sono state le mie ore più leggere da settimane. Ho guardato le nuvole che si muovevano in direzione delle montagne. Da anni non pensavo con altrettanta chiarezza e facilità. Non era nemmeno un pensare vero e proprio, piuttosto un susseguirsi di immagini. Le persone che ho conosciuto, la mia infanzia. Gli anni della giovinezza. Erano visioni molto nitide. Il gesto di mio padre che si riempie la pipa. Il volto di un compagno di scuola che mi aveva iniziato ai peccati di gioventù. Il modo in cui J. chinava la testa quando mi salutava per strada, fredda e distante. Il viso di alcuni studenti, teste bionde e brune di fanciulli di venti, venticinque anni fa. Tutti perduti, scomparsi! E ho rivisto me stesso in mezzo a loro, giovane, senza barba. Poi mi sono visto qualche anno dopo, come dice il signor Timár, da solo. Non più in mezzo a loro, ma vicino. E non mi vengono più incontro: mi passano accanto. E così, in una specie di dormiveglia, mi è sfilata accanto la maggior parte delle persone che hanno avuto qualche ruolo nella mia vita. Ero sempre da solo, a quanto ho visto.
A un tratto mi è venuta in mente la faccia del signor Timár che si china verso di me mormorando con voce rauca: «la solitudine colpevole...». Che cosa intendeva dire? Perché colpevole? Semmai disgraziata. Io non mi sento «reo» della mia solitudine, come dice lui; piuttosto, una «vittima».
Sentivo la sua voce cavernosa e sgradevole infilarsi tra i suoni e le immagini del mio dormiveglia: «Chi non è in sintonia con gli altri...». Che significa? Non sarei in sintonia con gli altri?
Ho chiuso gli occhi per concentrarmi. Adesso, mentre scrivo, sento a volte il bisogno di fermarmi per mettere a fuoco il pensiero. Di tanto in tanto ho l’impressione di intravedere un barlume. Come se fossi vicino a toccare il punto dolente: la verità, forse. Si dovrebbe insistere. Si dovrebbe partire da qui e seguire il percorso fino in fondo. Ma non ci riesco, non ce la faccio... non riesco a pensare. Per un breve istante ho la sensazione che sia semplice: basta soltanto dirlo e tutto andrà a posto. Una cosa semplicissima, magari una sola parola, ce l’ho sulla punta della lingua, come si suol dire. E questa parola desidera che io la pronunci. Ma io non ce la faccio. Come nei sogni. La mia lingua sa la parola, il mio cervello no. Mi sforzo di cercare il termine ma non lo trovo. Eppure i miei pensieri tornano sempre qui. C’è un ostacolo da qualche parte che la mente vorrebbe superare.
È uno strano rimuginare e mi inquieta. Non sono esercitato a riflettere. E ora, invece, con tutte le mie forze, con tutto l’impegno di cui sono capace, voglio riflettere. Ho la sensazione che se adesso mi lascio sfuggire questa vaga traccia, se non la seguo, corro il rischio di rimanere al buio per sempre. È qui il nucleo, la fonte della mia inquietudine. Di questa smania intollerabile. Di questo stato indegno. Che cosa può essere? Da dove cominciare? Probabilmente per riflettere esiste un metodo, c’è un metodo per tutto. E io non lo conosco.
Il mio cervello mi sembra un meccanismo arrugginito che pian piano, cigolando, smuovendo con gran lentezza gli ingranaggi, comincia di nuovo a funzionare. Erano anni che non provavo una tale sensazione, che non ero consapevole della mia capacità di pensare.
Quel disgraziato ha detto che sono malato. È vero. A quanto pare, la gente se ne accorge. Non è stato l’unico a notarlo. È una malattia silenziosa e non nuoce a nessuno. Timár sostiene che è «contagiosa», e che per pudore chi ne soffre si ritira dal mondo. Be’, io mi sono ritirato. E in effetti sono anche partito. Come se fossi costretto a farlo. In questo senso, Timár ha ragione.
Lui vorrebbe sapere «quando ci si guasta»... qual è il punto preciso in cui comincia? Ma è quel che cerco di capire anch’io. Anch’io cerco questo punto preciso. Ho l’impressione che non sia niente di particolare. Forse basta un gesto, una parola che dovrei gridare a gran voce, e tutto tornerebbe a posto.
Quindi, io soffro. Non trovo altro termine per esprimere la mia condizione. Io soffro.
Qualsiasi parola alla fine mi suona vuota. A volte mi sembra che le parole siano prive di ogni contenuto. Quel che esce dalle mie labbra è piombo. Non ha colore, né sapore. Piombo, piombo. Parole vuote.
Che cos’è che dà senso alle parole?
Per la prima volta in vita mia sento che non si può vivere così. Devo passare in rassegna tutto quanto. Da qualche parte ho commesso un errore; o ho sbagliato io oppure mi hanno fatto qualcosa. Bisogna chiarire la faccenda. Non posso vivere in mezzo alle persone se le parole che uso sono vuote. È difficile da spiegare – devo procedere a poco a poco, con metodo, perché altrimenti rischio di rimanere soffocato sotto questo peso – ma sento che basterebbe trovare anche in un solo punto un nesso tra le parole e il loro contenuto, e di colpo tutto l’intreccio si illuminerebbe, come quando si stabilisce un contatto elettrico. Che prodigio, l’elettricità. Il professore di fisica ha detto che è un mistero, non se ne conosce ancora la vera natura, ma soltanto gli effetti. Al mondo esistono cose davvero meravigliose. È come se in me si fossero spente tutte le lampadine. Forse basterà allacciare la corrente.
Adesso mi sento completamente estraneo a me stesso, alla mia età, alla mia situazione. Mi vedo dal di fuori. Ripenso a cose che mi sembrano accadute in un tempo lontanissimo... ormai non ricordo più precisamente quando.
Sono spinto da una sorta di urgenza a pensare a cose e persone che risalgono non a ieri o all’altro ieri, ma a tanto tempo fa, a un periodo lontano, quasi dimenticato. È come se avessi perso la memoria di quello che è accaduto negli ultimi dieci o vent’anni. Tutta una serie di immagini è come sparita nel nulla. E invece cose e persone lontane, incredibilmente remote, mi balzano nitide davanti agli occhi. Cose e persone di cinquant’anni fa. Della mia infanzia.
Queste immagini vanno e vengono. Non riesco a fissarne una: sono vivide, chiarissime, ma svaniscono subito.
Secondo Timár esistono due rimedi. Uno è l’amore, l’altro è Dio. Ho provato a seguire questa strada. Ma in queste due parole per me non arriva la corrente. Non si accendono. Posso dirle cento volte, ma non sento niente, non colgo niente. Due parole: a-mo-re. Di-o. Puri concetti.
È molto strano: probabilmente al mondo vivono milioni e milioni di esseri umani che al solo pronunciare la parola «amore» si sentono pervadere da una grande gioia di vivere. Persone che nel proferire la parola «Dio» si illuminano di profonda beatitudine. Se io provo a dire queste due parole, non sento niente. Posso ripeterle sino allo sfinimento, prima l’una, poi l’altra: amore, Dio. Niente. Entrambe restano buie. Non arriva la corrente. Non si accendono neppure se le scrivo.
Anche se, penso, non sono miscredente. D’altronde, nemmeno innamorato. Questa parola però non mi piace, per me non corrisponde a nessun concetto. Evidentemente non ci credo, non credo abbastanza in Dio per dare senso alla parola. Non capisco: non ho mai negato l’esistenza di Dio. Ma, a pensarci bene, non ho neppure mai affermato che esiste. Ora che ho scritto fin qui, ho l’impressione di aver sempre concepito Dio nel modo in cui si concepisce una legge. O la Nazione. O la Patria. O il Re. Noi professiamo queste cose perché si tratta di valori condivisi, riconosciuti da tutti, me compreso, perché sicuramente non ho mai avuto dubbi a riguardo.
E non ne ho adesso. Dubitare di concetti fondamentali come questi significherebbe imboccare una strada pericolosa. Credo che sarebbe la fine. La rovina totale. La pazzia.
D’altronde, non vedo la via per giungere all’uno o all’altro dei rimedi consigliati dal signor Timár. Non posso decidere da un giorno all’altro di credere di più in Dio o nell’amore. Escludo che l’esercizio delle pratiche religiose, quali ascoltare la messa con maggior fervore, confessarmi e comunicarmi più spesso, possa contribuire a rendere più profondo il mio rapporto con Dio. Questa, ne sono convinto, non è la strada giusta. Allo stesso modo, non posso certo decidere di innamorarmi. Quando? Di chi? Della giovane vedova del fabbricante di campane che abita in Bástya utca? O di una donna nubile? Che sciocchezza. Ho cinquantaquattro anni.
Questi cinquantaquattro anni li concepisco in maniera totalmente diversa da qualche mese in qua. Ci penso spesso, circa con lo stesso sentimento con cui, a ogni ora del giorno e della notte, un malato pensa alla propria glicemia o al proprio enfisema polmonare. Un pericolo non imminente, ma pur sempre mortale. Non mi abbandona mai. A volte mi piacerebbe farmi visitare per capire quanto sono in pericolo.
Ieri sera ho accostato la candela allo specchio e mi sono guardato in faccia. Qui alla stazione termale, poiché non c’è un barbiere, il mio viso ha preso un aspetto un po’ selvatico. Mi è cresciuta la barba e i capelli sono diventati incolti, più grigi della barba.
Il mio volto è più piccolo di quanto credessi, mi sono sorpreso. Se non avessi la barba, avrei una faccia minuta e affilata.
Quando sono andato a letto, ho avuto la sensazione che quella notte sarebbe successo qualcosa. Che mi avrebbero portato un telegramma, un messaggio, sarebbe arrivato qualcuno, o mi avrebbero chiesto di andare da qualche parte. Sono rimasto in attesa. Ci ho messo parecchio tempo ad addormentarmi.
Ho riposato per una mezz’ora. Adesso scrivo in fretta, perché da qualche minuto mi è tornata quella sensazione. Un senso di attesa. Come quando si aspettano notizie da un momento all’altro.
Ora scendo e vado a chiedere se è arrivata posta per me.
27 agosto
Non è arrivata posta per me. Non è venuto nessuno. Anche il signor Timár mi evita. Non starà mica smaltendo ancora i postumi della sbornia? O forse sta vivendo uno dei suoi periodi di pudore, quelli di cui parlava l’altra sera, quando ha detto «come l’altra volta a Berlino». Ma che ci faceva a Berlino?
Comunque non è di questo che volevo scrivere. Non è venuto nessuno, non sono arrivate né lettere, né notizie. Non ho parlato con nessuno. Eppure è da ieri che sono costantemente in attesa di qualcosa.
Devo registrare due fatti. Il primo è che forse sto diventando pazzo. È una cosa che non posso escludere. Potrebbe succedere già stanotte o forse subito, tra un’ora. Può darsi che sia già pazzo, proprio ora, in questo istante. Se è questa la follia, allora è uno stato di sorprendente lucidità. Mai in vita mia, da quando ho coscienza, mi sono sentito tanto lucido. Non sarà una gran lucidità, ma è quanto basta a me. Sono pieno di curiosità. Mi sento molto più fresco e riposato del solito. E sono costantemente in attesa di qualcosa.
Il secondo è che sono del tutto cosciente. Non sono pazzo, ne sono assolutamente sicuro. Aspetto davvero qualcosa, come uno che aspetta un treno. O come quando di notte si aspetta l’alba. Come quando si aspetta qualcosa che avverrà con certezza.
Oggi sono stato di buonumore per tutta la giornata. Mi sono vestito con più attenzione, come se dovessi andare in società. Mi sono alzato presto, mi muovo con scioltezza. Anche il tempo è splendido, si sta benissimo.
Oggi mi è sovvenuto che mi trovo in vacanza qui a Virágfüred, a tre ore da Z., dove vivo e lavoro. Questo fatto mi è venuto in mente proprio come ci si ricorda di una lontana conoscenza, diciamo un professore di liceo di cinquantaquattro anni, che abita a Z., insegna latino, con la barba. Mi sono venuto in mente. E mi sono subito intristito: che persona antipatica. In questo momento farei volentieri a meno di lui. Peccato che io sia costretto a conviverci.
Ho pensato di scrivere una lettera al mio giovane collega, il professore di storia. Ma non ho il suo indirizzo. È andato in Tirolo. Poveretto, è ancora nella fase in cui si ha voglia di viaggiare all’estero. Meglio, che non abbia il suo indirizzo. Se gli scrivessi, probabilmente al mio ritorno verrebbe a prendermi alla stazione con un medico. E io non sarei in grado di spiegargli che si sbaglia. Peccato non essere mai stato all’estero. Il Tirolo non è lontano. Mi dispiace infinitamente non essere mai andato all’estero.
In questo periodo penso spesso a mio padre. Più volte al giorno. E mi torna alla memoria il gesto con il quale si riempiva la pipa. Anch’io la riempio nello stesso identico modo, con il pollice. Poveraccio, fumare la pipa era la sua sola passione, l’unico vizio che potesse permettersi. E ogni tanto il droghiere gli passava dei giornali vecchi. Mio padre era molto più squattrinato di me.
Forse penso a lui così spesso perché è morto a cinquantaquattro anni. La mia età. Può darsi che sia giunta la mia ora.
Ma questo mi sembra improbabile.
Proprio come il fatto che tra una settimana dovrò tornarmene a casa.
28 agosto
Ho la febbre. Non è alta: trentotto e due. Ma è pur sempre febbre. Avrò preso freddo. Non mi sono messo a letto, me ne sto qui seduto sul balcone. Non ho voglia di scrivere. Sono stanco, sarà un raffreddore. Oggi ho ancora quella sensazione di aspettare qualcosa.
29 agosto
Vorrei fare un resoconto il più fedele possibile del mio incontro di ieri con Ágoston Timár. È avvenuto dopo cena. A cena non l’avevo visto. Il gestore, che era seduto su una panca fuori dal suo ufficio, si è alzato mentre uscivo dal ristorante e mi ha comunicato che il signor Timár era intenzionato a partire l’indomani con il primo treno del mattino. Me l’ha detto di sfuggita, tra altre notizie del giorno. L’ingegnere e la sua famiglia avrebbero preso lo stesso treno. Di lì a poco non sarebbe rimasto più nessun ospite nella stazione termale.
Il gestore ha aggiunto che nemmeno stavolta il signor Timár è in grado di saldare il conto. Resta in debito di quarantotto fiorini. Ma il gestore lo lascerà partire lo stesso, perché l’anno scorso aveva poi provveduto a saldare quanto gli doveva. E d’altronde, che potrebbe fare? Ha ragione. Dovrebbe forse trattenere qui le sue valigie? Il bagaglio è senza valore.
Ho domandato al gestore se sapesse qualcosa di più preciso sul lavoro del signor Timár.
«Nulla» ha detto. «Fa il segretario... cioè custodisce segreti. Però non riceve posta. Non ha nessun altro indirizzo. È un segretario».
Per un attimo ho pensato che avrei potuto saldare io il debito di Ágoston Timár. Non si tratta di una grossa somma. Ma non c’era bisogno che mostrassi tanto eroismo. Adesso sono contento di non averlo fatto: mi sarei acquistato a buon mercato l’orgoglio di aver compiuto un gesto magnanimo. In ogni modo il gestore si fida di lui. Senza esserne del tutto convinto, ma si fida.
La notizia della partenza imminente del signor Timár mi ha molto turbato. Dopo cena mi sembrava di avere la febbre. Mi sono avviato verso la mia stanza con l’intenzione di mettermi a letto. Ma a metà strada mi sono fermato. Sentivo il bisogno impellente di parlare con lui prima che partisse.
Avevo parecchie cose da dirgli. Ma proprio a lui dovevo dirle? No, era il bisogno di parlare con qualcuno di tutta una serie di cose. Ero in uno stato febbrile e, in effetti, a quell’ora la mia temperatura era già piuttosto alta. Mentre mi dirigevo verso la sua villa, avevo la netta sensazione che non l’avrei più rivisto in vita mia.
La villa aveva una finestra illuminata, quella della sua stanza. Sono salito a tentoni sulle scale, e nel corridoio buio ho dovuto accendere un fiammifero per trovare la porta della sua camera. Ho bussato. Ha risposto con una voce così rauca e flebile che a stento ho sentito la parola «Avanti».
Quando sono entrato, il signor Timár era seduto in maniche di camicia sul bordo del letto, e stava leggendo qualcosa. Sul tavolo accanto c’era una candela accesa che gli illuminava a malapena il volto. La stanza restava piuttosto al buio. Aveva una sciarpa pesante al collo. Dalla finestra aperta si vedevano il bosco immerso nell’oscurità e la cappella che biancheggiava sotto la luce della luna.
Ero curioso di sapere che cosa stesse leggendo. Ero certo che si trattasse di un qualche testo di psicologia. Appena mi ha visto, ha ficcato con gesto fulmineo il libretto sotto il cuscino. Voleva nasconderlo al mio sguardo. Ma ho notato sul comodino dei libretti simili, e sono riuscito a leggere un titolo: La vittima di Sing-Sing, ovvero Tragico errore sulla sedia elettrica. Si intitolava proprio così. I casi di Nick Carter. Le cose che leggono i miei studenti. Romanzetti gialli a puntate.
Non c’erano altri libri nella stanza. La valigia giaceva aperta ai piedi del letto, e ho potuto osservare tutte le sue cose: camicie sudicie, un paio di pantaloni, colletti sporchi. Era evidente che possedeva un solo vestito, quello che indossava. Le ante dell’armadio erano spalancate, ma vi era appeso solamente un soprabito leggero di tela cerata. Una specie di impermeabile. E un cappello. Con ogni probabilità quello era tutto il suo guardaroba.
Per quanto pochi fossero i suoi averi, ero davvero sorpreso del disordine che era stato capace di creare in quella stanza. Non c’era una cosa al suo posto. Il lavamani si trovava di fronte alla finestra e la brocca dell’acqua era piena di ramoscelli di abete. Malgrado la finestra aperta, l’aria della stanza era viziata. Lui se ne stava mezzo seduto, mezzo sdraiato sul letto.
«Chi è?» ha chiesto stizzito. Poi, dopo un breve silenzio: «Ah, è lei!». Si è raddrizzato. Non mi ha detto di entrare e di accomodarmi.
Ma io ho chiuso la porta, e credo di non essermi mai sentito tanto sicuro nell’entrare in un luogo. L’ho fatto con tale naturalezza, come se tutto andasse da sé. Lo ripeto, avevo un gran bisogno di parlare con quest’uomo. Ho fatto qualche passo verso il letto e a quel punto lui si è alzato.
«Ho sentito che parte» gli ho detto.
«Sì. Che cosa desidera?».
«Non le serve niente?».
«No» ha risposto con voce sommessa.
E poi ho detto che volevo salutarlo.
«Salutarmi? Ah». Ha detto proprio «ah», come nei romanzi. Poi, con un ampio gesto: «Prego, si accomodi pure. Dove trova posto. Si sieda qui, sul bordo del letto. Mi scusi per il disordine. Ma, lo vede, sto preparando i bagagli».
Ha chiuso di scatto la valigia e con un calcio ha sbattuto l’anta dell’armadio. Forse era questo il suo modo di preparare i bagagli. Entrambi i gesti erano stati nervosi, come se gli desse fastidio che avessi visto quante poche cose possedeva. Mi sono seduto sul letto, vicino alla candela. In quella luce flebile io distinguevo vagamente il suo profilo, mentre lui vedeva me solo a fatica. Questo mi faceva piacere. Per un po’ siamo rimasti in silenzio. Ero contento che il mio volto fosse al buio, perché così riuscivo a esprimermi con più tranquillità.
«Volevo parlare con lei prima che partisse» gli ho detto. Il buio mi infondeva un certo coraggio. «La prego di ascoltarmi. Solo per un momento, se permette. Ho alcune cose da dirle. Lei domattina parte, e probabilmente non ci vedremo mai più. O almeno questa è la mia sensazione. Spero di sbagliarmi». (A dire il vero, non speravo niente. Ma nel buio udivo la mia voce: suonava estranea, scorrevole, senza incertezze). «L’altro giorno ci siamo incontrati, ma lei era in compagnia. Non fa niente, non che debba scusarsi. Avrà avuto i suoi buoni motivi se non ha più voluto vedermi. Non trova strano che io sia venuto a salutarla?».
Taceva. Guardava fisso davanti a sé.
«No» ha detto dopo un bel po’. A bassa voce, con naturalezza, come chi risponde dopo aver riflettuto per bene.
Anch’io tacevo. Guardavo il bosco, illuminato dalla luce lontana della luna. Era una notte di mezza luna, ma il cielo era chiaro e l’aria era tersa e tiepida. Avevo i brividi, tremavo per via della febbre.
«D’accordo» ho detto dopo qualche minuto (da quell’istante ho cominciato a parlare con un piglio più deciso). «Devo chiederle di darmi ascolto. Non è solo colpa mia se adesso mi trovo qui. Sono una persona decisamente riservata, non faccio amicizia con nessuno. La responsabilità è sua: è stato lei a dare inizio alla nostra conoscenza. Il nostro incontro è stato breve, ma molto particolare. In vita mia – e ho vissuto già piuttosto a lungo – non mi è mai capitato di fare una conoscenza tanto strana. È qualcosa nel suo modo di fare... Può ben immaginare quanto sia nuovo per me tutto questo. Le persone che frequento discorrono di tutt’altro. Io so che in fondo ha ragione lei. La prego, non mi fraintenda. Vorrei tanto che parlassimo. È difficile cominciare. Avrei molte cose da dire. È stato lei a darmi il coraggio. Lei è più giovane di me... No, non sono venuto a chiederle consiglio – ci sono cose per le quali qualsiasi consiglio si rivela inutile. Malgrado ciò, eccomi qui. Se abbiamo iniziato una conversazione, perché non terminarla, non le pare?».
«La prego, professore» ha detto sottovoce con aria indulgente. E poi: «Cosa sarebbe questa? Una confessione?».
«No» ho risposto. «Sono qui per sentire il suo parere. Proprio come diceva lei l’altro giorno: due neri... Signore, lei è più giovane di me. Ma forse ha visto più cose».
«Vedere più cose? Semmai ho sofferto di più» mi ha corretto con aria quasi spocchiosa.
«D’accordo, avrà sofferto di più» ho ammesso in tono accondiscendente. «Io ho cinquantaquattro anni. Vivo in provincia. Credo di essermi lasciato alle spalle le avversità della vita. O almeno, credevo. Pensavo che nulla potesse più accadermi. E invece alcuni mesi fa... a volte ho la sensazione di essere sul punto di perdere la ragione. L’ha notato anche lei?».
Ha riflettuto un po’.
«No» ha risposto con tono deciso. «Niente affatto, caro professore. Che cosa le salta in mente? Io non sono mica un medico. Se però ha voglia di parlare, prego. La ascolterò volentieri. Naturalmente, se intende essere sincero. A volte fa bene essere sinceri. Tanto io non sono comunque in grado di aiutarla».
Non so per quanto tempo ho parlato. Un’ora, forse due. Ricordo di essermi spostato più indietro, sul letto, affinché la mia faccia rimanesse nel buio.
Credo di avergli raccontato tutto. Ho già dimenticato molte delle cose che gli ho detto. Saltavo di palo in frasca. Ho cominciato con l’episodio del manifesto, nei minimi particolari. Lui non faceva commenti. Gli ho detto che sono laureato in lingua e letteratura latina. Gli ho parlato di mia madre. Ho raccontato il mio sogno ricorrente. A quel punto mi ha domandato se mia madre mi picchiasse spesso. E in quali circostanze. Questo sembrava interessarlo. Mi ha chiesto anche di mio padre. Poi per un bel po’ non mi ha interrotto. La mia voce suonava lontana, come la voce di un altro, un estraneo. Gli ho parlato degli anni di studio. Dei miei compagni. Dell’università. Mi ha chiesto se ero molto povero. Gli ho spiegato quanto fossi povero. Gli ho raccontato l’episodio di J. E poi gli ho fatto un resoconto piuttosto confuso degli ultimi ventotto anni. Mentre procedevo nel mio discorso, sentivo che mi stavo avvicinando all’ostacolo. E lui mi lasciava parlare. Dovevo avere la febbre molto alta.
Il ricordo più forte che ho di ieri sera è il senso di ebbrezza che a poco a poco mi pervadeva. L’ebbrezza di poter parlare. Nessuno mi guardava in faccia. Potevo dire tutto. Mi venivano in mente parole, idee e nomi dimenticati, ormai sconosciuti. Come un uomo che esce di prigione, dove è rimasto in silenzio per tutta una vita; che si inebria della possibilità di parlare, di avere una persona che lo ascolta. Non avevo mai immaginato quanto possa essere meraviglioso parlare. Mi usciva di tutto, come se fossi ubriaco. Cose di vent’anni fa, cose del giorno prima. Gli ho detto che ieri mi aspettavo che succedesse qualcosa. Gli ho raccontato di quando avevo vent’anni e una donna mi aveva preso in giro. Di come ero stato umiliato dal preside di fronte agli studenti, ai miei esordi da insegnante. Gli ho detto cosa avevo intenzione di fare. Come è arredata la mia casa. Quanti soldi ho messo da parte e in quanto tempo. Gli ho parlato dell’ultima volta che sono stato alla casa della signora Hajnik, senza nessun beneficio. E poi, i sintomi di questa mia inquietudine. Quando era incominciata. E che non mi ha più abbandonato. E adesso, mentre parlavo, era come se finalmente avessi trovato la mia voce.
Avevo taciuto per ventotto anni, gli ho detto. Riusciva a capire che cosa significa? Non avevo mai parlato così con nessuno. Perché? Non lo so. Perché lui aveva «sofferto di più»? Forse. Gli ho detto che ho cominciato a soffrire come un malato grave. Adesso, alla mia età. Che cosa ho? Che cosa voglio? Credeva che un viaggio potesse giovarmi...?
«No» ha risposto. «Niente affatto».
E allora cosa? Non posso andare avanti così. Era la prima volta in vita mia che parlavo davvero con una persona.
È una vita da cani. Sono pignolo, prigioniero di abitudini ridicole. E il tempo ha preso il sopravvento su di me. Il mio corpo non mi obbedisce più: lo stomaco, il cervello, la stanchezza perenne, mi tremano le mani, la vista peggiora, mi si guastano i denti. Lui annuiva. Gli ho detto che se avevo trovato il coraggio di parlargli era perché l’indomani mattina lui sarebbe partito, e che per me era come parlare nel vuoto, da solo in una stanza vuota. Lui che ne pensava, che cosa poteva essere? Cosa mi stava succedendo? Era una forma di nevrosi? Forse sarei dovuto partire. Ma ormai sono troppo vecchio. Gli ho ripetuto quanto fossi grato di parlare con lui. Non immaginavo di avere un giorno questa opportunità: l’opportunità di parlare con qualcuno.
Non so per quanto tempo sono andato avanti. Quando ho smesso, lui è rimasto in silenzio. Teneva la testa tra le mani e si guardava le scarpe.
La cosa più strana è che, dopo, non ero pentito per nulla. Non provavo vergogna per quel che avevo detto. Come se fossi stato solo. Nemmeno adesso sento alcun rimpianto.
«È meraviglioso» ha mormorato lui con lo sguardo perso davanti a sé.
«Che cosa?» gli ho domandato.
L’atmosfera era irreale, come in sogno. Non riesco a trovare un’altra definizione. Come in sogno. Per un attimo ho avuto una sensazione di vertigine: ho sentito che tutto quello che mi circondava, il letto, la persona seduta vicino a me, la candela, la luna e gli abeti là fuori, e l’armadio, le cose di cui avevo parlato e quelle che lui avrebbe detto – tutto era già accaduto. Che avevo già vissuto l’intera situazione. È durato un istante. E in quell’istante ho avuto pure la sensazione di sapere che cosa l’altro stesse per dire. Era come in sogno, solo in sogno ci si sente così leggeri. Sentivo che stava per succedermi qualcosa. Forse l’indomani mattina avrei avuto un’altra faccia. O di colpo mi sarei messo a parlare in inglese.
«Un essere umano» ha detto. «Meraviglioso. Non esiste nulla di più interessante, nulla. La sua voce, come la ascolto adesso, è così giovanile. Non si muova. Non voglio vedere la sua faccia. È un volto barbuto, vecchio, da provinciale. Il volto di un uomo. Ma la sua voce è quella di un ragazzo. Potrebbe essere quella di uno studente. Piena di slancio, rotta dall’emozione. O patetica. Oppure lamentosa. È una voce viva. Che dice tutto. Posso affermare di sapere tutto di lei. È andata così: incontro un uomo in una stazione termale. Ho la sensazione che abbia qualcosa che non va. Perché, per quale ragione? È un mistero. Quanti misteri ci circondano, vero? È meraviglioso. Probabilmente io e lei abbiamo qualche problema che ci accomuna. Questa è la quarta volta che mi succede. In modo quasi identico. La prima volta è stato un cameriere. Poi una donna. Quindi un ragazzino. E adesso lei. È una cosa imprevedibile. Tutti e quattro i casi si somigliano, e tutti e quattro sono simili al mio. Può darsi che ciascuno di noi, un giorno o l’altro, arrivi al punto di esplodere. Ma resta comunque una cosa meravigliosa.
«Mi sento lusingato» ha proseguito. «Ognuno di noi ha un talento. C’è chi sente la presenza dell’acqua sotto terra. O dei metalli. C’è chi riesce a vedere attraverso gli oggetti. C’è chi sa amare un’altra persona. È un vero mistero. Un talento. Anch’io ne ho uno. A volte mi capita di trasalire di fronte ad alcune persone. Devo fermarmi. Ho voglia di parlare con loro. È un desiderio improvviso, e mi metto a parlare, senza tanti preamboli, affrontando senza indugio gli argomenti cruciali. Ovvero, quel che ci sta succedendo, in quel momento. Mi accorgo sempre se una persona è sull’orlo di una crisi. È un talento semplice, non di grande utilità. Quando ho visto lei, è andata esattamente così. C’era qualcosa nella sua andatura, nel suo sguardo. Uno stato di pericolo estremo. I suoi occhi, tutto il suo essere erano in allarme, invocavano aiuto. È meraviglioso quel che c’è negli esseri umani.
«Senta» ha detto. «È soltanto un ricordo e mi è venuto in mente proprio adesso. Glielo racconto perché credo che... per me sia stato il punto cruciale. Il punto di rottura. È questo che deve cercare. Se solo potesse aiutarla... È soltanto un ricordo. Avevo ventidue anni e frequentavo l’università, a Vienna. Vivevo in uno stato di terribile miseria. Ero povero come si può essere solo da giovani, quando si nasce in povertà. Con il passare degli anni si impara a conviverci. Ci si ingegna: si chiedono prestiti, si ruba, ci si fa compatire, ci si inventa qualcosa. In seguito si riesce a tirare avanti. Un quarantenne povero non sarà mai disperato come un ventenne povero. A vent’anni io avevo paura del denaro. Arrossivo se ricevevo dei soldi da qualcuno. Ma passa presto, eccome se passa! Cosa? È passata anche a lei? Vede che ho ragione». Ha tossito ed è rimasto assorto per un po’. «Ero un vero pezzente. Avevo i vestiti laceri. Andavo in un caffè una volta al mese. Studiavo filosofia. Pensavo ai caffè come un moribondo pensa ai Campi Elisi. D’altronde, nella maggior parte dei caffè c’è davvero la musica. Ma soprattutto, provi a immaginare: starsene seduti al caldo, in un luogo ben illuminato, a guardare fuori dalla vetrina, sorseggiare un bel caffè alla panna con tre brioche, fumarsi una sigaretta, con il cameriere sempre pronto a offrirti da accendere, starsene lì avvolto dall’aroma del caffè e del tabacco, e tutto intorno, su sedie e tavolini, pile di costose e raffinate riviste straniere – eh? –, riviste inglesi, francesi e tedesche, periodici illustrati pieni di articoli interessanti, fotografie di paesaggi esotici, pubblicità di automobili, recensioni, resoconti di prime teatrali, e che svago piacevole è leggersi un bell’elzeviro o la puntata di un romanzo d’appendice! Ah, mio caro signore! Se solo sapesse che cosa significava per me andare al caffè! Potevo permettermelo una volta al mese. Mangiavo alla mensa universitaria. Dividevo la stanza con altre tre persone. Aspetti, ora le spiego meglio. Uno dei miei compagni di stanza, un ragazzo di campagna, era sempre sporco. Magari si lavava pure, poveretto, ma era inutile. In quella stanza angusta c’era sempre una tremenda puzza di sudore. Cercavo di rimanerci il meno possibile; me ne stavo spesso per strada, seduto su una panchina. Ogni libro era una festa. Un libro! Ho vissuto così per parecchi anni. La sera lavavo i piatti in un caffè».
«In un caffè?» gli ho domandato incredulo.
«Potevo stare solo nel retrobottega, in cucina. Non mi era permesso metter piede in sala. La sera lavavo le stoviglie dalle nove a mezzanotte. Mi davano una corona e cinquanta al giorno, oltre a un caffè e due panini. Avevo le mani sempre arrossate e coperte di piaghe per via della soda. Di tanto in tanto mi passavano qualche giornale. Riviste mai, quelle le rivendevano. Tutto questo non glielo racconto per commuoverla. Avevo ventidue anni. Ah, già, tanto per chiarire: Timár è uno pseudonimo. Io in realtà mi chiamo Habulyák. Non è il cognome di mio padre, ma quello di mia madre: Mária Habulyák. Mio padre non l’ho mai conosciuto. Sono stato allevato in un brefotrofio. Non ero un vero e proprio orfano, mi aveva messo in istituto mia madre. Pagava anche qualcosa. Qualche volta è venuta pure a trovarmi. Ricordo solo due visite. La prima volta avrò avuto quattro anni. Allora mi portò due mele. Faceva la domestica. Era domenica pomeriggio, eravamo seduti in una stanza lunga e stretta, vuota; io su una sedia, mia madre di fronte a me, su una panca. Tenevo una mela per mano. Mi ricordo che fuori pioveva, la finestra era scura per via della pioggia. Mia madre se ne stava seduta in silenzio, con le mani in grembo. Saremo rimasti così per due ore. Non ci dicemmo niente. Mia madre parlava solo in slovacco, mentre io ero ormai stato educato in ungherese. Poi se ne andò. Il secondo incontro avvenne a un anno di distanza. So che era il 6 dicembre.
«Era San Nicola, la festa dei bambini. Anche quel giorno restammo seduti l’uno di fronte all’altra, nella stessa stanza, io su una sedia, lei su una panca. Anche allora non dicemmo una parola. Mia madre era in abiti da lavoro, si vede che quel pomeriggio era corsa in fretta da me, senza avere il tempo di cambiarsi. Quella volta mi portò una tazza di ceramica, una di quelle tazze rustiche che i servi usano per bere il caffè. Doveva essere la sua tazza della prima colazione. Conteneva alcune noci. E una delle noci, quella in cima al mucchio, era dorata. Quella noce dorata, oggi ne sono del tutto sicuro, mia madre l’aveva rubata da qualche parte, nella casa in cui prestava servizio, dove le calze dei bambini erano zeppe di noci così. Nemmeno in questo secondo incontro scambiammo una parola. Quando mia madre andò via, mi presero la tazza, ma mi lasciarono le noci. Non rividi mai più mia madre. Mi dissero che aveva abbandonato la città. Non ho più avuto sue notizie. Non lo dico per impietosirla, ma solo per farle capire chiaramente da dove vengo. Ha afferrato? Bene, ora ascolti: quando avevo ventidue anni, un bel giorno, ai primi d’aprile, all’università conobbi una ragazza. Era una donna come le altre: occhi, capelli, bocca, faccia, mani, gambe. Non ricordo più il suo viso. Naturalmente è stata lei ad attaccare discorso, non io. Frequentavamo lo stesso seminario da qualche settimana. Arrivavo, ci salutavamo, e poi me ne andavo. Quanto ai miei abiti dovevo avere un aspetto pietoso. Un pomeriggio la ragazza mi rivolge la parola. Mi chiede se ho voglia di accompagnarla. Il tempo è così bello, disse. Aveva un modo di esprimersi molto garbato, me lo ricordo bene. Si vede che le facevo pena. Ma avevo ventidue anni. Sono sceso con lei lungo la scalinata. Eravamo di fronte al portone dell’università. Lei aveva dei guanti di filo, me ne ricordo chiaramente, e se li è abbottonati. E un cappello di paglia di Firenze a tesa larga. L’immagine di noi due all’ingresso della facoltà è ancora molto nitida. Quello che è accaduto dopo invece è molto più sfumato. In particolare, ho dimenticato il viso della ragazza. C’era un bel sole. La ragazza mi propose di prendere il tram per andare a Lainz. Lì conosceva una pasticceria che faceva dei buoni gelati. «E non è nemmeno cara» aggiunse ridendo. Io non dissi nulla. La ragazza non attese la mia risposta. Si era già avviata. Io la seguii e salimmo sul tram. In tasca avevo sessanta centesimi.
«In quel momento smisi di pensare. Mentre parlavo alla ragazza e lei parlava a me, mi sentivo girare la testa e mi pareva che tutto il mondo, tutta la città con il suo traffico scoppiettante, girasse intorno. Tirai subito fuori i soldi per entrambi i biglietti, senza pensarci due volte, perché mi è sempre piaciuto fare il cavaliere con le signore. Be’, i due biglietti costavano quaranta centesimi. Me ne restavano venti. Per capirci, venti centesimi austroungarici. La ragazza era molto gentile, aveva subito aperto la borsetta e aveva cominciato a frugarci dentro. Voleva restituirmi i soldi del biglietto. Era una ragazza simpatica, molto gentile e molto povera, una studentessa come me. Riuscì a racimolare sedici centesimi, rovistando in ogni angolo della borsetta, senza trovare altro. Rise. Anche i viaggiatori sul tram si misero a ridere. Mi diede i sedici centesimi e mi disse che l’indomani mi avrebbe portato il resto. Era una ragazza così simpatica e gentile. Una collega. Non voleva nulla da me. E poi aggiunse: “Be’, allora vorrà dire che sarò sua ospite. Domani a lezione le darò quanto le devo”. Ha capito? Mi ha detto che il giorno dopo mi avrebbe restituito i soldi.
«Alla fine di Mariahilfer Strasse, là dove uno dei vagoni del tram si stacca e prosegue per Schönbrunn, c’è un piccolo ponte... Ah, già, forse lei non conosce Vienna. Be’, non importa. Insomma, c’è un ponte, e a quell’altezza il tram rallenta. Quando ci siamo arrivati, ho pensato di saltar giù. È stato il mio ultimo pensiero lucido. Poi, all’improvviso, ho avvertito una fitta lancinante allo stomaco. Un bruciore terribile. Ero in preda al panico. Nel frattempo continuavo a chiacchierare tranquillamente con la ragazza. Giunti a destinazione, saltai giù per primo dal tram e cortesemente la aiutai a scendere. Non mi ricordo come si chiamava, eppure me l’aveva detto. Insomma, volevo fare il cavaliere e le porsi il braccio; lei alla mia destra. Tenevo le mani in tasca già da quando eravamo sul tram, perché non volevo che vedesse le piaghe provocate dalla soda. Ho sempre avuto problemi a mostrare le mani, perché mi sudano. Così ci dirigemmo verso la pasticceria, chiacchierando amabilmente. C’era bel tempo, era un tiepido pomeriggio di primavera. La ragazza sembrava molto a suo agio, rideva in continuazione. All’ingresso della pasticceria le cedetti il passo. Se allora, in quel preciso istante, mentre la ragazza abbassava la maniglia, mi fosse venuto in mente di fare qualcosa di sensato, come ad esempio cadere lungo disteso sul marciapiede fingendo di svenire o anche solo darmela a gambe, credo che oggi sarei una persona sana e felice. Fingere di svenire era probabilmente la soluzione migliore, ne sono convinto. Ci ho pensato spesso in seguito. Ma le idee migliori vengono sempre quando è troppo tardi. Be’, tanto ormai non fa differenza. Non mi buttai a terra. Non tentai di fuggire. La ragazza entrò per prima, la seguii e ci sedemmo a un tavolino.
«Era una piccola pasticceria, non c’erano altri clienti, e soprattutto i prezzi erano davvero accessibili. La ragazza non aveva mentito: i dolci erano così a buon mercato che valeva la pena di prendere il tram per arrivarci, perché le consumazioni erano convenienti anche sommando il prezzo della corsa. E i loro prodotti erano ineccepibili, assolutamente di prima qualità. Nella saletta non c’era anima viva, solo noi due e la cameriera. I dolci erano in bella mostra sul bancone, coperti da teli di organza. La sala era pulitissima. Anche la lampada a gas era avvolta dall’organza, per proteggerla dalle mosche. Ordinammo due gelati. Poi la ragazza disse:
«“Qui fanno un’eccellente zuppa inglese. Se ha ancora qualche spicciolo, perché non ne prendiamo due porzioni? Possiamo permettercelo? Domani le restituirò la mia parte”. E rise.
«“Sì, possiamo permettercelo” le dissi.
«In realtà non potevamo permetterci nemmeno i gelati. Il gelato costava quaranta centesimi, quaranta centesimi a porzione. Mi alzai, chiesi due piattini e andai a scegliere con attenzione due belle porzioni di zuppa inglese. Poi ordinai due bignè. Uno dei due lo rimandai indietro, per mostrare alla ragazza che aveva a che fare con un vero gourmet. Dissi che non era fresco. Al posto del bignè scelsi una sfoglia alla crema, che la ragazza assaporò diligentemente. Com’era felice quando le servirono il gelato!, sembrava una bambina.
«“Ne prenda un altro” le dissi.
«“No, no” rispose. “Cosa le salta in mente? Sarebbe davvero troppo”.
«Era fatta così. Per lei due gelati erano troppi. Parlava senza sosta, e mi guardava negli occhi. I suoi occhi li ricordo vagamente: occhi dallo sguardo limpido, di colore grigio. O forse mi sbaglio, può darsi che fossero azzurro chiaro. In quel momento non pensavo certo ai suoi occhi. In fondo alla saletta una porta a vetri dava sulla cucina. Sul vetro era dipinta la scritta: “Telefono”. E anche un’altra: “WC”. Insomma, era tutto lì: telefono, gabinetto e cucina. Sopra la porta era appeso un orologio. Segnava le cinque e venticinque. Mi diedi altri cinque minuti. Cosa sarebbe accaduto dopo non lo sapevo affatto, ma quello era il tempo che mi ero concesso. Cinque minuti. Si fecero le cinque e mezzo. Mi alzai in piedi:
«“Mi scusi” dissi alla ragazza.
«La interruppi a metà di una frase, mi stava parlando di qualcosa. Mi scusi, ripetei, e mi alzai dal tavolino. Non sapevo cosa avrei fatto. La ragazza spostò lo sguardo fuori dalla finestra e rispose: “Prego”... Allora mi allontanai. Aprii la porta a vetri della cucina. La cameriera mi seguì nel corridoio buio. “Il signore desidera fare una telefonata?” mi domandò. Risposi di no. Al che la cameriera ritornò nella saletta. Entrai nel gabinetto. Restai lì tre o quattro minuti, al buio, senza sapere che pesci pigliare. Poi con cautela uscii. Il corridoio era piuttosto lungo. In fondo c’era la porta della cucina. In cucina non c’era nessuno. Una delle finestre del corridoio dava su un androne. Era una finestra bassa, aperta. Lentamente la scavalcai. Senza il minimo rumore. Non credevo di essere capace di muovermi in modo così furtivo. È la circospezione di chi sta per compiere un misfatto. Giunto nell’androne, mi fermai. Era un piccolo edificio di periferia, a un solo piano. Oltre il portone vidi la strada, e a sinistra c’era la pasticceria. Strisciando contro il muro, uscii dal portone e mi diressi a destra. Nessuno avrebbe potuto vedermi. E infatti nessuno mi vide. Una volta in strada, raccolsi tutte le mie forze e cominciai a correre. Svoltai alla prima traversa e continuai a correre come un forsennato. Non c’erano che villette in quella strada, tutte abitazioni private. Era l’ora del crepuscolo e alcune finestre erano già illuminate. Si faceva sempre più buio. Mi fermai solo quando sentii rintoccare le campane. Doveva esserci una chiesa nelle vicinanze. Suonava le sei. Avevo corso per mezz’ora di fila. Mi appoggiai a una staccionata, ero stremato. Avevo contato i rintocchi. Sei. Sessanta. Sessanta più quaranta. La ragazza non aveva il becco d’un quattrino. Capisce? Avrà aspettato cinque minuti. Era ancora tollerabile. Poi dieci. La situazione diventava imbarazzante. La cameriera che cominciava a fissarla. Stavo lì, appoggiato alla staccionata, e intanto vedevo la cameriera che lanciava occhiate alla ragazza. La ragazza evitava il suo sguardo, si sentiva terribilmente a disagio e continuava a guardare fuori dalla finestra. A che cosa stava pensando? Altri quindici minuti. L’orologio suonava le sei meno un quarto. A questo punto si saranno guardate per forza, la ragazza e la cameriera. “Il signore” dice con voce incerta la cameriera “non si sarà mica sentito poco bene?”. Imbarazzante, vero? La ragazza arrossisce. “Non credo” risponde. Ma la cameriera scuote la testa. Passano altri due o tre minuti. Poi la cameriera si alza in piedi. La ragazza, rossa come un gambero, dice: “Adesso... anch’io credo che sia meglio... andare a vedere... Se avesse la gentilezza di...” aggiunge. La cameriera esce dalla saletta e va nel corridoio. Lascia la porta aperta. Si schiarisce la voce. Ha un attimo di esitazione. Poi bussa. “Herr” dice. “Herr”. Nessuna risposta. Bussa più forte. Ancora nessuna risposta. Abbassa la maniglia. La maniglia cede e la porta si apre. La cameriera indietreggia stupita: il gabinetto è vuoto. Capisce? Dov’è finito il gentiluomo? La cameriera strilla: “Fräulein!”. La ragazza accorre spaventata. Restano entrambe mute, impietrite dallo sconcerto. “Ma...” dice la cameriera “non può essere uscito da qui. Da questa parte si arriva solo in cucina”. E dalla cucina non si esce. Entrano in cucina. Poi ritornano nel corridoio. Capisce? Non parlano più. In quel momento si accorgono della finestra aperta, la ragazza comincia a tremare. Tacciono. Poi la cameriera dice: “Potrebbe essere uscito da qui”. Guardano la finestra aperta. La cameriera misura con lo sguardo l’altezza del davanzale. “Per il signore non deve essere stato difficile uscire da qui” dice. “Basta scavalcare”. La ragazza si appoggia alla parete. Guarda la finestra, vede me mentre la scavalco. Poi entrambe tornano nella saletta».
È rimasto in silenzio per un po’, ha sorriso, si è aggiustato la sciarpa intorno al collo.
«Appoggiato alla staccionata mi figuro tutta la scena, chiarissima. Come se l’avessi vista con i miei occhi. Ogni tanto mi passava davanti qualcuno. Un uomo, dall’altra parte della strada, stava accendendo i lampioni a gas. Sento ancora i rintocchi di quel campanile invisibile. Le sette. Che cosa avrà fatto poi la ragazza? Sarà sulla strada di casa a piedi. Non aveva nemmeno i soldi per il tram. Da Lainz a Vienna a piedi. Arriverà a casa per le nove. Mi incammino anch’io. A cosa le sarà successo al momento del conto penso solo di sfuggita, come se non fosse la cosa più importante. Non ci ho mai pensato nel dettaglio. Ancora oggi non oso immaginare come può essere andata. A volte, nel dormiveglia, sento la voce della ragazza che dice: “Un’altra zuppa inglese? No, è troppo...”. Oppure: “D’accordo, però domani le restituisco quanto le devo...”. Ma le voci del dormiveglia sono un’altra storia. Cammina cammina, verso le nove arrivo anch’io a Vienna. Per le nove e mezzo sono al caffè. Spero che, a causa del ritardo, mi facciano una bella lavata di capo e mi caccino via. Entro di soppiatto in cucina, come un cane randagio. Ma nessuno mi dice niente. Il capo è di buonumore. Nessuno se la prende con me. Il giorno dopo non metto piede all’università. E nemmeno il terzo giorno. Il quarto giorno vado dal primo cameriere, gli dico che sono uno studente e che mi servono venti corone. Lui me le presta, perché... lo sa Iddio perché. Insomma, me le ha date. Con quei soldi sono partito subito per Pest. Qualche tempo dopo, dall’università mi hanno spedito tutte le mie carte».
Si è alzato ed è andato alla finestra:
«Non è che un ricordo. Una disavventura giovanile, se vuole. Un ricordo dei miei anni da studente. Oggi mi chiedo: perché quel giorno non avevo due corone in tasca? Perché? È una domanda stupida. Ci sono persone che si rimettono da una cosa del genere come da una brutta influenza. Io no. Ci vuol fortuna. Io mi ci sono ammalato. Ho paura delle donne. Di tutte le donne. Quando parlo con una donna, mi torna in mente il volto di quella ragazza che guarda fuori dalla finestra. Anche questa è una forma di nevrosi: non importa come vogliamo chiamarla. Semplicemente le cose stanno così».
Ha sollevato una mano:
«Le stelle» ha detto indicando il cielo.
Poi con una risata rauca ha ripetuto: «Le stelle! Sono tornato altre volte a Lainz. L’anno scorso la pasticceria c’era ancora, quest’anno l’avevano venduta. Ma non ho più visto la cameriera. E neppure la ragazza. Sono sparite.
«Le stelle» ha detto per la terza volta, e ha indicato nuovamente il cielo.
Poi è tornato a sedersi sul letto ed è rimasto in silenzio.
«Bisogna amare qualcuno» ha detto con voce rauca, come se stesse rivelando un segreto, parlando tra sé e sé. «Presto o tardi ogni esistenza finisce per esplodere. Ogni essere vivente va in pezzi. Per evitarlo, bisogna amare qualcuno, altrimenti è tutto inutile. Amare le donne è la cosa più semplice. Però a me è successa quella storia, come faccio? Ho provato ad amare la gente. Tutti, il genere umano. Ma è difficile, difficilissimo. In un modo o nell’altro, finiamo sempre per sprecare il tempo in occupazioni futili. Vero?».
Si è alzato in piedi.
«La accompagno in camera».
«Non è necessario» gli ho detto.
Anch’io mi sono alzato. Quando ci siamo stretti la mano, ha notato:
«Le sue mani scottano. Ha la febbre? Sì, lei sta male. Che Dio la benedica, professore. Che serata tranquilla. Domani parto. No, non ho bisogno di nulla. Non ho un indirizzo. Vado a Vienna, è lì che vivo. Cerchi di guarire. Non ha nessuno? Si prenda un cane...».
E poi ha aggiunto con un’espressione serissima:
«Perché no, dopotutto?».
Eravamo davanti alla porta. Avevo già la mano sulla maniglia. Lui stava a un passo da me. Quando ho fatto per uscire, anche lui si è mosso. Mi si è avvicinato, mi ha messo le mani sulle spalle. Poi in silenzio, alzandosi leggermente sulla punta dei piedi, mi ha baciato su entrambe le guance.
Si è voltato ed è andato ad affacciarsi alla finestra. Sono rimasto un attimo come inebetito. Poi, senza dire niente, sono uscito dalla stanza. Era proprio una serata tranquilla e tiepida, c’era una gran pace. Quando sono arrivato in camera mia, mi sono accorto che avevo la febbre altissima. Però ho dormito con la finestra aperta. Oggi sto peggio. Stamattina mi hanno portato un biglietto da visita. Sopra c’era scritto:
«La prego di pagare a mio nome al gestore la somma di novanta corone. E, se ne ha la possibilità, di mandarmene altre centodieci a Vienna, fermoposta, ufficio centrale, Ágoston Timár. Centodieci più novanta fa duecento. Gliele restituirò per fine dicembre. Ci conto. E lei può contarci».
Gli manderò i soldi. Se lo ha chiesto, vuol dire ne ha davvero bisogno.
2 settembre
Oggi sono sfebbrato. Domani parto. Secondo il gestore è stata un’influenza estiva. Può darsi. A me sembra di uscire da una malattia grave. Oggi sto molto meglio. Peccato che mi senta così debole, questa febbre mi ha proprio debilitato. Mi sarebbe piaciuto salire ancora una volta al belvedere. Non tornerò mai più da queste parti. Sono stanchissimo.
5 settembre
Sono arrivato a casa e ho disfatto le valigie. Non so dove mettere questo diario.
26 settembre
Oggi, domenica pomeriggio, ho sfogliato questo diario. Adesso sento la necessità di aggiungervi qualcosa, prima di chiuderlo definitivamente e di nasconderlo da qualche parte. Potrei anche decidere di bruciarlo: ma non sono del tutto sicuro. In ogni caso lo farò sparire dalla circolazione.
Il motivo per il quale non lo butto via subito è che un giorno, forse, lo farò vedere a un medico. Penso che possa essere interessante. Ora, rileggendo quanto ho scritto, mi rendo conto di esser stato davvero male. Ho attraversato una grave condizione morbosa, ne sono certo. D’altronde, sento di essermi ripreso completamente. Il professore di storia, che ho incontrato solo di sfuggita, si è perfino congratulato con me. Mi ha detto che sembro tornato come nuovo. Di quella famosa sera non abbiamo parlato, e io non l’ho menzionata. Sto molto meglio, in effetti. Mi alzo alle sei e mezzo in punto e non mi costa nessuna fatica. Anche il mio appetito è migliorato.
Insomma, le cose stanno ritornando a posto.
Certo, non tutto in una volta.
Sono rimasti dei «sintomi residui», per usare la definizione del professore di igiene. Ma è normale. E non sono poi così insopportabili.
Tutto sommato, sono convinto di aver fatto bene ad andare in vacanza quest’estate.
È vero che al mio rientro ho accusato una grande debolezza, per alcuni giorni. Non sono nemmeno potuto andare al Veni Sancte,3 sono rimasto in casa. Credo siano gli ultimi strascichi della malattia. A questo proposito mi viene in mente come la mia governante si sia presa cura di me in quei giorni. La sua sollecitudine mi ha commosso. È al mio servizio solo da quattro anni. Negli ultimi tempi sono sempre più colpito dalle attenzioni che gli estranei mostrano nei miei confronti. Mi vergogno molto di non averle portato nulla dal viaggio. Alla fine mi sono dimenticato di farle un regalo. Non ho mandato neppure una cartolina. È chiaro che stavo davvero male. Quanto al regalo, cercherò di rimediare per Natale. Le comprerò uno scialle... L’altro giorno, in una vetrina di Fő utca ho visto uno scialle lavorato all’uncinetto. Molto adatto a una signora della sua età. Sì, le prenderò lo scialle.
Ho riletto attentamente le mie annotazioni, e nel farlo ho sentito il bisogno di ringraziare la Divina Provvidenza per essere scampato a un così grande pericolo. È molto probabile che nelle ultime settimane fossi sull’orlo di una gravissima forma di nevrosi, se non addirittura della follia. Mi pare di averlo anche scritto a un certo punto. Ora che il pericolo è passato e mi sento al sicuro, con i nervi saldi, posso affermarlo con certezza. Ho sfogliato le pagine di questo diario con lo spirito di un paziente in convalescenza che, sopravvissuto a una malattia mortale, osserva il proprio diagramma della febbre. Una linea che sale e scende. A volte ha superato i quaranta gradi. Come la sera in cui sono andato a trovare quello sconosciuto, il signor Ágoston Timár, per salutarlo prima della sua partenza.
Per completezza devo registrare che ho spedito a quel povero disgraziato la somma che mi aveva chiesto e ho saldato il suo debito di novanta corone con il gestore della stazione termale. Con le centodieci inviate si arriva a duecento, duecento corone e novanta centesimi con le spese di spedizione. Non che io conti di riaverle indietro. Ma lo registro per amor di completezza. In ogni modo, sono convinto che me le restituirà.
Poco importa, comunque. Sono felice che me le abbia chieste. Mi capita molto di rado che qualcuno mi chieda dei soldi in prestito. Faccio una vita troppo ritirata. La gente forse pensa persino che io sia avaro. Mi fa davvero piacere che qualcuno si sia rivolto a me e che io sia stato in grado di aiutarlo.
In città non c’è nessuno a cui possa far vedere questo mio diario. Sarebbe interessante per un medico, ma da queste parti non c’è nessun dottore che si occupi di psicologia. Per ora lo terrò per me. Rappresenta un documento importante che testimonia quanto io sia stato male.
Per tre settimane ho resistito alla tentazione di rileggerlo. Temevo che non avrebbe avuto un effetto positivo su di me. Che mi mettesse in agitazione. Ma di tutto quel che è accaduto non resta più nulla. Nulla, credo... Non ha importanza. È passato. In fin dei conti, sono contento di aver tenuto un diario di quel periodo.
Adesso riesco persino a pensare con serenità a quali possano essere state le cause di questa malattia. Di sicuro, avevo esagerato con la solitudine. Devo passare più tempo in mezzo alla gente. E lo farò, ho deciso. Frequenterò di più i miei simili. Poi, a quanto pare, negli ultimi anni ho completamente trascurato qualsiasi attività intellettuale. Ho vissuto nell’ignavia più assoluta. Ho deciso di dedicarmi allo studio della filologia. Ho persino stabilito un piccolo programma. Devo ordinare alcuni testi... lo farò nei prossimi giorni. Lo spirito va tenuto in esercizio, proprio come il corpo. Anche lo spirito ha bisogno di essere in attività. Deve vivere. Se resta in ozio, finisce per guastarsi. Come l’organismo. D’ora in poi non sarà più come prima. Organizzerò le mie giornate in maniera del tutto diversa.
Sono contento anche del fatto che quest’anno il mio impegno sarà maggiore. Sono responsabile di classe. E ho dovuto prendermi un’altra classe, che non conoscevo, una dell’ultimo anno. Mi darà parecchio da fare. Sarà tutto diverso, e tutto sembra iniziare nel migliore dei modi.
Tanto per cominciare passerò più tempo in compagnia di altre persone.
Tre giorni fa sono perfino andato al circolo. Per la prima volta da quella sera... Non dico di non aver provato alcun disagio. Il manifesto è ancora lì, appeso alla parete. Sono riuscito a guardarlo con animo sereno. È un gran bel manifesto, molto ben fatto. Niente di più. Non mi fa più effetto, è passato.
Ho ripreso anche le mie passeggiate, lungo i percorsi abituali. A fine settembre la città è più bella che mai. La passeggiata dei Bastioni è piena di ragazzini. Sono a casa, qui. Sto bene. Dove altro dovrei stare?
Mi sento pervadere da un gran senso di tranquillità. L’importante è non farsi sopraffare dai pensieri. Non devo analizzare troppo me stesso. Chi passa il tempo ad analizzare sé stesso potrebbe avere delle sorprese. Ma a che scopo? Sono sorprese che mettono in agitazione. Non va bene guardarsi dentro. Ci ho provato una volta, per caso... Adesso basta.
Adesso incomincia un periodo più sereno.
Ho riletto questo diario con grande attenzione. Ho una visione chiarissima del mio quadro clinico. Ne sono uscito. Mi ristabilirò.
È magnifico essere di nuovo a casa. In quale altro luogo potrei trovare una simile pace se non nella mia stanza? Ecco ciò che serve a una persona anziana. Sono vecchio, è inutile negarlo. Il silenzio, la mia camera, la mia poltrona, questo orologio, la collezione di pipe, il setaccio per il tabacco, gli scaffali pieni di libri – molti dei quali non ho ancora letto... la strada silenziosa e gli ippocastani davanti alla finestra, ecco il mio mondo. È quello che ho ricevuto in sorte. Va bene così. Non chiedo altro. Sono solo, e va bene anche questo. C’è pace intorno a me, ci sarà pace dentro di me.
Non getterò via questo diario, ora che l’ho ritrovato. È un modo per passare il tempo. Prima di addormentarmi, oppure la domenica pomeriggio, come adesso, vi annoterò quel che ho visto, quel che è successo durante la settimana. Un passatempo come un altro.
Per oggi basta così. Devo correggere i compiti. Magari continuerò stasera.
28 settembre
L’altra sera non ho ripreso il diario, e non ricordo più che cosa volessi scrivere. La guarigione procede senza problemi. Non noto nessun sintomo particolare. Sono tranquillo. Ho anche parecchio da fare.
Io non avevo la minima intenzione di accettare l’incarico di responsabile di classe per quest’anno scolastico.
Al mio rientro mi hanno messo di fronte al fatto compiuto. È stato il preside a convincermi. Non volevo assumermi questo incarico. Non era tanto il ruolo in sé a pesarmi, quanto l’idea di tenere un ultimo anno, un’ottava. Le classi superiori non fanno al caso mio. Ho sempre scelto di portare avanti le classi fino alla quarta, per poi passarle al professor Halasi. Raramente ho avuto delle quinte – in ventotto anni di carriera, tre volte. Non fa per me. Preferisco allievi più piccoli, fino alla quarta. Quando entrano nel periodo dell’adolescenza, dalla quinta in poi, li capisco meno. Mi diventano quasi antipatici. Invece sono a mio agio con quelli di prima e di seconda, che sono ancora piccoli, innocenti. Mi piace far loro assimilare i concetti di base; ho un mio metodo, non poi così malvagio, credo.
Con gli studenti dell’ultimo e del penultimo anno ho sempre avuto difficoltà.
Non so trovare il tono giusto. In particolare se non sono stati con me fin dalla prima. Quando ho a che fare con le classi superiori, sono un insegnante antipatico e pedante, me ne rendo conto da me. È una forma di difesa. Non posso farci nulla. Fino alla quarta i miei rapporti con gli allievi sono ottimi.
E ora sono alle prese con questa classe che mi è assolutamente estranea.
È sempre stato Halasi il loro responsabile di classe, sin dalla prima. E ora, proprio l’anno della maturità, dovevano capitare a me. Halasi è stato nominato vicepreside a Miskolc.
È sempre stato un arrivista. Si è trasferito nella nuova sede già durante le vacanze estive.
E ha lasciato una classe di trentaquattro studenti. Non ho ancora un quadro sufficientemente chiaro del loro livello. Riguardo al latino, non li ha lasciati nelle migliori condizioni. Non ho mai nutrito troppa fiducia nelle capacità di Halasi. Le conoscenze grammaticali degli studenti sono mediocri. Nella composizione sono molto scarsi. Sono stati avviati a un apprendimento puramente mnemonico. Me l’aspettavo, è il metodo di Halasi. Imparare tutto a memoria, il sistema più facile per far bella figura. Ieri però uno studente, Puliszka, è cascato su una forma verbale. Non ha riconosciuto un piuccheperfetto. Con Halasi prendeva «buono». Con me non lo prenderà di certo.
Non ho un’idea chiara della classe neppure sotto il profilo della disciplina. Per il momento non mi lamento. In generale posso dire che c’è abbastanza silenzio. Secondo Mészáros, che insegna loro ungherese dalla quarta, la classe è migliorata. E non per merito di Halasi, bensì del fatto che è diventata una classe mista. L’anno scorso sono state inserite sei studentesse. È la prima classe mista del nostro istituto. Per ora è solo un esperimento, per espressa richiesta del ministero. Io non sono un sostenitore delle classi miste. Ma Mészáros afferma che la presenza delle ragazze ha un effetto positivo sugli studenti maschi. A suo dire, sarebbero diventati più seri e laboriosi. Io non noto una gran differenza.
Le sei studentesse frequentano regolarmente le lezioni. Sin dal primo giorno ho fatto sì che sedessero separate dagli altri, nello stesso banco sulla sinistra. Non ritengo opportuno che siedano in mezzo ai maschi.
Su Orazio mi sento perfettamente a mio agio. All’inizio di ottobre comincerò con Tacito. A quel punto sarò costretto a prepararmi le lezioni. È da molto che non mi occupo di Tacito.
Ieri la mia governante mi ha colto di sorpresa: vorrebbe che comprassi un canarino, con tanto di gabbietta. È la nostra vicina a venderlo, la vedova del sarto, che è morto sei mesi fa. Ho ripensato al consiglio di Timár, e ho comprato il canarino. Ha un aspetto piuttosto comune, è giallo con le sfumature verdastre. Il primo giorno è stato sistemato nella sala da pranzo, ma ha cinguettato un po’ troppo per i miei gusti. È un cinguettio gradevole, innegabilmente, ma eccessivo. Per questo motivo ho chiesto alla governante di spostare il canarino nella sua stanza.
In realtà non sento alcun bisogno di tenere in casa un canarino. Potrei comprarmi piuttosto dei pesci rossi, che sono muti e si muovono con grazia. Qui dietro, in Flórián utca, c’è un negozio dove hanno dei bellissimi pesci rossi, a un prezzo molto conveniente. Ma poi ho cambiato idea: a pensarci bene non ho nessun bisogno di pesci. Questo genere di animali creano sempre e solo problemi. Si ammalano, invecchiano e muoiono, e alla fine si prova un gran dispiacere.
Non ho bisogno di niente.
Se mi prendessi un cane, sarebbero solo grattacapi. Non mi serve neppure un cane. Sia come sia, mi sento meglio ogni giorno. Oggi pomeriggio, per strada, ho incontrato il veterinario. Non ci vedevamo da parecchio. Mi ha detto:
«Hai un’ottima cera, sembri ringiovanito. Anche l’andatura è quella di una volta. Sei in forma come non ti vedevo da tempo».
Ho l’impressione anch’io di camminare di nuovo come prima. Con le mani dietro la schiena, il passo elastico e deciso. Qualche mese fa non camminavo certo così. E dormo bene. Insomma, in maniera accettabile.
L’estate appena trascorsa mi appare come un periodo difficile ma ormai lontano, come se tutto fosse accaduto molti anni fa.
3 ottobre
Va tutto bene. Ieri ho stabilito il mio nuovo orario quotidiano. Non si può vivere senza un orario preciso. Ecco come si articoleranno d’ora in poi le mie giornate:
6.30 Sveglia
7.00 Colazione
7.30 Passeggiata
8.00-12.00 Lezioni
12.00-12.30 Passeggiata
12.30 13.30 Pranzo
13.30-14.30 Siesta
14.30-17.00 Correzione dei compiti, preparazione della lezione del giorno successivo
17.00-18.00 Passeggiata
18.00-19.30 Circolo
20.00 Cena (leggera, senza carne)
21.00 A letto, leggere prima di addormentarsi
22.00 Sonno
È prevista una variazione solo di venerdì, giorno in cui è fissata la riunione del collegio docenti. In questo caso salta il riposo pomeridiano, e il tempo trascorso al circolo si abbrevia di mezz’ora. Credo di essere riuscito a stabilire un orario equilibrato, all’interno del quale è possibile condurre un’esistenza sana e regolata.
6 ottobre
Oggi è la commemorazione dei martiri di Arad. Quale responsabile di classe dell’ultimo anno, mi è toccato scegliere lo studente che terrà il discorso commemorativo dei giovani. Poiché non conosco bene la classe, ho invitato gli studenti a indicare chi ritenessero più adatto per il compito. Si è levato un grido unanime:
«Madár! Madár!».
Madár è il poeta della classe, ho saputo. Ed è anche il segretario del circolo letterario studentesco. Fino a quel momento non l’avevo notato. Siede nei banchi a destra, in quinta fila. È un ragazzo brufoloso, con un naso enorme, dallo sguardo losco, non mi è molto simpatico. Non ho ancora avuto occasione di dargli voti. Lo terrò d’occhio. Mi ha sorpreso maggiormente sapere che il presidente del circolo letterario studentesco è Puliszka, il ragazzo alto e robusto che non sa riconoscere un piuccheperfetto. Ora che mi ricordo, era il prediletto di Halasi. A me dà l’impressione di essere molto limitato. Suo padre fa il notaio a Sáros.
Ho chiesto silenzio e ho domandato perché il discorso non lo tiene il presidente, cioè Puliszka.
La classe è ammutolita. Conosco bene questo silenzio. Anche Puliszka taceva, ed evitava di guardarmi. Deve esserci una grande gelosia tra Puliszka e Madár. Bisognerà capire meglio questa situazione. Come responsabile di classe, è bene che io sappia con chiarezza come stanno le cose.
«Allora, Puliszka?» gli ho domandato. «Risponda. Perché non sarà lei a pronunciare il discorso sui martiri della nazione?».
«Professore, la prego» ha detto Puliszka arrossendo come un gambero. «La classe chiede che sia Madár. Io mi faccio volentieri da parte».
«Siete d’accordo?» ho chiesto alla classe.
«Madár!» hanno esclamato all’unisono trentadue gole.
Una congiura di palazzo. A rendere più difficile la situazione è il fatto di non conoscerli. Questi sono già quasi adulti, non sono più ragazzini. Vivono insieme da otto anni, e io non li conosco. Non ho osato dire la mia.
«Madár, lei è il segretario del circolo studentesco» gli ho detto. «Desidera tenere il discorso? Sì o no? Che cosa c’è tra voi due?» l’ho incalzato prima che potesse rispondermi. «Puliszka! Madár! Cosa c’è tra voi?».
Si sono alzati entrambi. È stato il primo momento critico di questo anno scolastico. Tutti tacevano. Trentadue paia di occhi erano fissi su di me e sui due studenti.
Grazie alla mia lunga esperienza so che nella vita di una classe, come di ogni piccola comunità umana, si giunge sempre a un punto critico, vale a dire il momento in cui si pone la questione della supremazia. Ogni gruppo sente la necessità di eleggere un capo, la cui superiorità emerge da sola nel corso degli anni. Tra i ragazzi ce n’è sempre uno che è più o meno tacitamente ritenuto il primo. Di rado si tratta dello studente migliore, più spesso è solo un capobanda. Ma la sua supremazia è innegabile. È lui a influenzare ogni aspetto della vita della classe. In ventotto anni ho avuto modo di notare che, per quanto possa sembrare strano, questi caporioni, questi presidenti della repubblica in erba raramente continuano a esserlo nella vita. Ho osservato con grande attenzione questi due studenti. Madár è mingherlino, rachitico. Puliszka è un colosso, scoppia di salute. Madár è arguto e ha l’aria di uno di cui è meglio non fidarsi troppo. Puliszka è grande e grosso, ma sembra piuttosto limitato dal punto di vista intellettuale. Alla fine della lezione, ho saputo che Puliszka è il miglior ginnasta dell’istituto e l’orgoglio di una squadra di calcio giovanile. Negli studi ottiene risultati mediocri, nonostante si applichi moltissimo. In latino, posso tranquillamente affermarlo, è davvero scarso. Alla presidenza del circolo letterario è giunto soprattutto grazie alle sue prodezze in campo sportivo. Sotto questo aspetto, è senz’altro lui la stella dell’istituto. Madár è scarso in educazione fisica, ma nella maggior parte delle materie ottiene voti più alti della media. Ha un’ottima proprietà di linguaggio. Va bene anche in matematica. La sua condotta è incostante. In ogni modo, è ritenuto da tutti il poeta della scuola. Scrive versi, e l’anno scorso ha diretto il giornale scolastico. Quest’anno, a quanto ne so, non ha pubblicato nulla.
«Tra noi non c’è nessun problema, professore» ha detto Madár. «È Puliszka il presidente. Abbia la compiacenza di affidare a lui il compito di pronunciare il discorso, se ci tiene così tanto».
Ha una voce nasale, lo sguardo basso quando parla, e nel suo modo di fare c’è un che di arrogante. Non è un ragazzo simpatico. Puliszka era sempre più a disagio.
«Ma è Madár il poeta» ha detto con aria confusa, non senza una punta di disprezzo.
La classe è scoppiata a ridere, e io con loro. Ridevano pure le ragazze. E così oggi Madár ha tenuto il discorso. È stato piuttosto breve. Gesticolava molto, con le mani coperte da guanti bianchi, di filo. Era pallido in volto, ma l’eloquio era fluente. Una sua frase ha suscitato ilarità. Riferendosi ai martiri d’ottobre ha detto: «... e così si tramutarono in eroi». Il professore di ungherese ha scosso la testa. Anche il preside. Abbiamo sorriso tutti. Non ci si «tramuta» in eroi. Per fortuna non si è accorto della nostra reazione, altrimenti si sarebbe di certo impappinato.
Lo terrò d’occhio. A poco a poco comincio a farmi un’idea della classe.
7 ottobre
Il tempo è quasi estivo. In autunno la città sembra un’altra. Nelle osterie si mesce il mosto. Anche al circolo si può ordinare del vino nuovo. Gli ippocastani di fronte alla mia finestra e lungo tutta la passeggiata dei Bastioni hanno le foglie gialle. Dappertutto è caduta una gran quantità di castagne.
Stamattina durante la ricreazione ho osservato i ragazzini di prima che correvano verso i vecchi ippocastani nel cortile. Un tempo anch’io amavo raccogliere le castagne matte. Quando sono rientrati a lezione, avevano tutti le tasche rigonfie di castagne lucide. Mi dispiace davvero non poter insegnare in prima quest’anno. Preferirei stare con loro anziché con quelli di ottava.
Anche se, sotto il profilo della condotta, non ho nulla di cui lamentarmi. La classe è abbastanza silenziosa e disciplinata. Non si lamentano neppure gli altri colleghi. Semmai è sul piano del rendimento che lasciano parecchio a desiderare. Non sono per nulla soddisfatto del metodo di Halasi.
Oggi, prima del sonnellino pomeridiano, sono andato a vedere il canarino nella stanza della governante. Si chiama Jancsi. La governante sostiene che è malinconico perché la sua stanza è troppo buia. In sala da pranzo c’è più luce, starebbe meglio. Che cosa dovevo fare? Le ho permesso di riportarlo in sala da pranzo. In effetti, da quel momento ha ricominciato a cinguettare. Anche adesso, mentre scrivo, lo sento cinguettare senza posa. Secondo la governante cinguetta splendidamente. Io non sono in grado di dirlo: al mio orecchio suona piuttosto monotono. Ma la bestiola è l’unica fonte di gioia per quella povera signora, e così la lascio cinguettare. Spero di abituarmici.
La settimana prossima mi attende un impegno seccante: al professore di fisica è nata una figlia, e mi tocca andare al battesimo. Il collega di fisica ha ormai quarantacinque anni e non si inventa di meglio da fare: è indubbiamente un po’ sventato. Ha già due figli. È indebitato fino al collo. Per me queste sono, per così dire, le uniche occasioni sociali al di fuori del circolo. Battesimi. E funerali. A queste due cerimonie non ci si può negare. In ventotto anni, da quando vivo in questa città, mi sono sorbito almeno un centinaio tra battesimi e funerali. Sono tutti uguali. E questo non sarà certo diverso.
Fa così caldo che riesco ancora a dormire con la finestra aperta.
9 ottobre
Oggi ho avuto una lunga conversazione con Mészáros nella sala professori. Mészáros, mio coetaneo, è un uomo di strette vedute. È sposato e aveva un figlio, che però è morto tragicamente durante i primi anni di università. Stava studiando per diventare insegnante, come il padre. Mészáros ne è stato annientato. Non esce mai. Vive recluso insieme alla moglie. Non sono mai stato a casa loro. Nemmeno lui è un tipo loquace.
Il discorso è caduto su uno dei nostri studenti: Madár. Secondo Mészáros è un giovane molto dotato, ma incostante nello studio e dal carattere non limpido e aperto. Lo si potrebbe definire un po’ sornione. Anche a me ha dato la stessa impressione. Mentre parla sbatte in continuazione le palpebre e guarda il suo interlocutore di sotto in su. Tiene spesso gli occhi bassi. Non è originario di qui, vive in pensione. Suo padre era capo boscaiolo nella tenuta di un conte, è morto parecchi anni fa. Sua madre lavora per farlo studiare, e gli manda i soldi. In sesta aveva la borsa di studio, ma alla fine dell’anno scolastico l’ha persa. Aveva mancato di rispetto a Halasi. È riuscito a fatica a ottenere di nuovo l’esonero dalle tasse scolastiche.
Mészáros mi ha elencato i vantaggi delle classi miste per quanto riguarda la disciplina. È una questione di cui non amo discutere, né con lui, né con altri. Io ho il mio punto di vista, e preferisco tacere. Anche il preside è un convinto sostenitore delle classi miste, probabilmente perché negli ultimi tempi il ministero ha promosso una campagna a favore di tale sistema educativo. La nostra scuola è sede di sperimentazione, una fra le tante nel paese.
Secondo me, le classi miste non dovrebbero essere istituite oltre la quinta. Nelle prime quattro classi, quando si ha ancora a che fare con fanciulli, può anche andar bene. Ma dalla quinta in avanti le considero pericolose sotto il profilo della disciplina e della morale. Costringere adolescenti di entrambi i sessi a trascorrere diverse ore al giorno nello stesso ambiente può avere effetti deleteri sui loro costumi. Questa è la mia idea, che non voglio peraltro sbandierare ai quattro venti.
Mészáros ha un’opinione opposta. Con vari esempi ha cercato di dimostrare che il fatto di essere osservati dalle ragazze stimola l’ambizione dei ragazzi. È una forma indiretta di civetteria, sostiene Mészáros. I ragazzi si sforzano di essere superiori alle ragazze, si sforzano di rispondere brillantemente nelle interrogazioni per apparire più intelligenti. Mi pare una posizione assai bizzarra sul piano pedagogico.
Prendiamo per esempio Madár, mi ha detto Mészáros. È sempre stato un bravo studente, ma alla fine della sesta non otteneva certo risultati superiori alla media. E poi lasciava parecchio a desiderare sul piano della condotta. Era un provocatore, un capobanda, spesso irriverente e borioso. Il prete, che insegna religione, aveva molto da ridire sul suo atteggiamento. Madár osava contraddirlo su questioni teologiche. Alla fine della sesta gli hanno tolto la borsa di studio, benché a detta di Mészáros fosse uno studente molto dotato. E adesso, sostiene il mio collega, che lo conosce da tempo, da quando in settima ci sono anche le ragazze, è diventato un altro. È più serio e tranquillo. È meno petulante di prima. Studia di più. L’anno scorso è tornato a essere brillante come una volta. Mészáros attribuisce il mutamento all’influenza delle ragazze. Lo mettono in soggezione, pungolano la sua ambizione, dice Mészáros. Non ho ribattuto. Fino a oggi non ho mai insegnato in classi miste. Ho le mie idee in proposito. In ogni caso, terrò d’occhio questo Madár.
10 ottobre
Oggi ho mal di testa. Mi accorgo con sorpresa che, da quando sono tornato a casa, sul diario annoto di tutto tranne le cose che mi affliggono veramente.
11 ottobre
Per esempio, non ho mai scritto nemmeno una parola su Timár, sebbene ci pensi molto spesso. Direi quasi ogni giorno. Perché non scrivo niente di lui? Può darsi che nel profondo del cuore io voglia dimenticarmene. Di lui e degli avvenimenti di quest’estate. Che esperienza balorda! Non è successo niente, eppure c’è qualcosa in tutta la vicenda che mi provoca un forte disagio ogni volta che ci penso. Qualcosa di immondo. Ecco, il termine giusto è proprio immondo. Qualcosa di cui non sta bene parlare, qualcosa che si preferisce negare a sé stessi.
Adesso che sono finalmente tornato in carreggiata, che ho ripreso a vivere secondo le mie vecchie abitudini e, grazie a Dio, non soffro più di quella tremenda inquietudine, ora che mi sento di nuovo quello di prima, una persona che vive in un ambiente ben definito, con una casa, un titolo, una professione – e non delle peggiori –, una persona davanti alla quale, per strada, la gente si toglie il cappello, che può tranquillamente affermare di essere stimato da tutti – certo, non è qualcosa di eccezionale in sé, ma la mia modesta posizione è frutto delle mie sole forze, e lo dico senza timore di peccare di superbia; adesso, sfogliando queste pagine, mi si gela il sangue al pensiero che solo qualche settimana fa io abbia potuto confidare a un estraneo le mie vicende più intime e scabrose, e precisamente a un individuo del genere, di origini oscure, un reietto della società, di cui ignoro persino come si guadagni da vivere.
Talvolta però – ed è proprio questa la cosa che non ho ancora avuto il coraggio di scrivere – ho la sensazione che questo Timár, una persona che conosco appena, sia l’unico essere umano che avrebbe potuto essermi amico, in questa vita. L’unico con il quale sento di aver condiviso qualcosa. Pur avendolo conosciuto solo di sfuggita. E mi ritrovo a pensare a lui molto spesso.
Forse è saggio tentare di scriverne. Ho attraversato un periodo di grave crisi, questo è certo. Adesso mi sento molto più sereno. Ho finalmente ritrovato me stesso e sono tornato quello di prima, almeno durante il giorno. Ma di notte, quando resto da solo nella mia stanza, non sono lo stesso.
Devo meditare su questa cosa, anche se mi rendo conto che può essere pericoloso. Ma non posso farci nulla, è più forte di me. A differenza del giorno, di notte sono costretto a riflettere con sincerità. È un brutto vizio, al quale cedo da qualche tempo. Un vizio pericoloso. Una volta che si comincia a riflettere su sé stessi, a insistere si rischia di diventare matti.
Non so se è davvero così pericoloso; non ha importanza, comunque, tanto è più forte di me. Per due o tre ore al giorno sento l’esigenza di riflettere con assoluta sincerità. Un’esigenza paragonabile a quella che altri hanno di sedersi a bere qualcosa.
Quanto a Timár, penso a lui molto spesso. Ieri, come ogni mese da anni, sono stato in banca a versare sul mio libretto di risparmio una parte del mio stipendio, cinquanta corone. Calcolando gli interessi, in banca avrò ormai dodicimilaseicento corone. Mentre versavo le cinquanta corone, riflettevo: che ci faccio con questi soldi? Tempo fa ho iniziato a mettere via tutto questo denaro, istintivamente, assecondando l’innata prudenza e il timore del futuro di chi ha conosciuto la povertà. Per quando sarò vecchio, in caso di malattia, ho pensato. Adesso sono vecchio: che cosa me ne faccio? Quando smetterò di lavorare, sarò perfettamente in grado di mantenermi con la pensione. Che cosa me ne faccio di tutti questi soldi? Non sono tanti, ma per me rappresentano comunque una piccola fortuna. Giacciono lì sul mio conto, non procurano gioia a nessuno. Neppure a me. Dovrei comprarmici qualcosa? Una casa più grande? Mobili più belli? Che stupidaggine. Di vestiti ne ho per gli anni a venire. Possiedo cinque completi, un cappotto di pelliccia, due soprabiti. Non mi servono altri vestiti. Ho pensato che forse questo denaro potrebbe essere la salvezza per Timár. Anche solo una parte sarebbe d’aiuto. Per la sua laringite; e per altre cose. Credo che se me lo chiedesse, glielo darei. Magari non tutto, ma una parte sì. Però lui non mi ha chiesto nulla, non mi ha scritto. Di mia iniziativa non posso mandargli niente. Non so nemmeno il suo indirizzo.
Quando penso a lui, dentro di me provo sempre una specie di calore. Adesso ho deciso di descrivere le cose come stanno. Non mi vergognerò di usare le parole che servono. Sì, certe parole mi vergogno a scriverle, o a pronunciarle. Ad esempio «cuore». O «tristezza». Oppure «affetto». Voglio vincere questo imbarazzo. Le scriverò così come mi escono dalla penna.
Adesso vorrei scrivere: quando penso a Timár, penso a lui con affetto. Con un sentimento di amicizia, di benevolenza. È stata la prima persona con la quale mi sia sentito in confidenza. Un giorno mi ha visto, mi ha rivolto sfrontatamente la parola, ed è come se mi fosse accaduto qualcosa. Alla fine è proprio questa la cosa più grande, più rara che possa succedere a un essere umano: provare fiducia nei confronti di un altro così, tutto a un tratto, senza un vero motivo. Noi viviamo, uno accanto all’altro. Come ciechi. Un giorno, però, si apre un sottile spiraglio e cominciamo a vedere. Non è molto quel che si vede, eppure l’effetto che ha avuto su di me è enorme.
Il vuoto che è in me sembra svanire. Mi sento più fresco e vivace. Adesso faccio uno sforzo e provo a scrivere questa parola: «tristezza». È come se la tristezza si alleviasse.
È una parola che non mi piace. Mi pare di un sentimentalismo eccessivo. Ma se analizzo quel che c’è in me da quando sono tornato, non riesco a trovare un termine più adatto.
Sono triste, punto e basta.
È una condizione come tante. Non c’è una ragione. Non è neppure così sgradevole. Nel frattempo si mangia, si beve, si digerisce, si dorme. Eppure, da qualche parte, mentre la vita scorre, sento che in me succede qualcos’altro. Sono triste. Perché? Per cosa? Non saprei dirlo. È così tranquilla, così pacifica, questa mia tristezza. Vi è persino un che di piacevole. Pervade ogni cosa che faccio. Dormo tristemente. Mangio tristemente. È ridicolo, ma è così. Che dovrei fare? Sono triste se sto in mezzo alla gente. Sono triste quando torno a casa. Non «disperato», né «apatico», né «stanco di vivere». Triste. Che cos’è?
Nessuno se ne accorge. Ho sempre tenuto un contegno serio tra la gente. E adesso, esteriormente, riesco a controllarmi ancora meglio. È una sensazione così placida, davvero strana. Vi è una sorta di dubbiosa attesa. Mi accompagna per tutta la giornata.
Se mi chiedono: «Come sta?» non posso rispondere: «Sono triste». Non è una risposta da dare. Ma è la verità. Ecco perché lo scrivo qui.
Se penso a Timár, la tristezza si attenua. Come se il tremendo vuoto che è dentro di me, in ogni aspetto della mia vita, venisse colmato da qualcosa. Certo, non si riempie del tutto: è solo il ricordo di una persona. Non avrei mai immaginato che potesse avere tanta importanza.
La lampada è qui sul tavolo e, mentre scrivo, vedo la mia mano sinistra che tiene ferma la pagina. Oggi mi sono accorto per la prima volta di quanto siano invecchiate le mie mani. Ora che le guardo, sono davvero stupito di quanto le mani rivelino la mia età. Sembrano più vecchie della mia faccia. Non si diventa vecchi tutto d’un tratto, ma a pezzetti. Le mie orecchie sono ancora in buono stato, gli occhi sono già vecchi. Questo l’ho scoperto solo adesso.
13 ottobre
Timár ha detto che bisogna voler bene a qualcuno. Oggi ho passato in rassegna tutte le persone che conosco ma non ho trovato nessuno a cui potrei voler bene. Al preside no di certo. Non è una cattiva persona, ma da lì a volergli bene... E nemmeno al professore di fisica. O al notaio comunale, con il quale di solito gioco ai tarocchi. Considerati uno per uno, non sono cattive persone, ma non ci posso far niente, non mi sento di provare affetto nei loro confronti. C’è qualcosa che mi trattiene. Tra le signore che conosco non ce n’è nessuna che potrei amare; si tratta comunque di una cosa che escludo in modo categorico. L’affetto per una donna comporta sempre delle complicazioni. Credo che non si possa amare una donna così, come se niente fosse. Ci vuole di più. E poi, il tempo dell’amore è ormai passato per me.
A chi dovrei voler bene? Alla mia governante? Poveretta, ha sessant’anni suonati; non che sia questo il problema, ma è tutto fuorché amabile. È vecchia e scontrosa. Una creatura stolta. Ha abitudini sgradevoli. Spesso si mette le dita nel naso, anche in mia presenza, come se non ci fossi. Ogni tanto lo faccio anch’io, ma soltanto quando non c’è nessuno. Mi disgusta vederlo fare agli altri. Credo che sia proprio questa sua brutta abitudine il motivo per cui vado spesso a mangiare in trattoria: quasi ogni giorno, per pranzo.
È straordinariamente difficile trovare qualcuno da amare. Si può amare l’umanità intera? Lo stesso Timár sosteneva che è molto difficile. Per me, credo sia addirittura impossibile. Tanto varrebbe allora amare i pesci o le stelle. È un concetto astratto. Non mi interessa.
Ieri stavo pensando seriamente di prendermi un cane.
15 ottobre
Non posso trasformare casa mia in un serraglio. La mia governante, dopo il canarino, si è presa pure un cardellino; per ora non le ho detto niente. Aspetto di sentire che voce ha il cardellino. A quella del canarino mi sono già abituato. Ci manca solo il cane, e lo zoo sarebbe al completo. Ho rinunciato all’idea di comprare un cane.
20 ottobre
Sono triste.
28 ottobre
Le giornate diventano sensibilmente più corte. Non per questo dedicherò meno tempo alle mie passeggiate. Vado a camminare anche quando fuori è già buio. Fa ancora piuttosto caldo, ma gli alberi sono ormai quasi completamente spogli. Ho un disturbo di stomaco.
29 ottobre
Ci siamo. Abbiamo cominciato le Odi di Orazio. I risultati sono avvilenti. È una classe davvero indietro. Di Madár, invece, devo rilevarlo, sono soddisfatto. Ha una grande sensibilità per la lingua, maneggia il latino con competenza. Stamattina ha fatto un’eccellente traduzione.
Tra poco dovrò cominciare con le interrogazioni. Poi, benché questo compito mi sia ingrato, sarò costretto a occuparmi anche delle studentesse. Finora, per quanto possibile, le ho ignorate. In ogni modo ho interrogato pochissimo. Quel che mi imbarazza maggiormente riguardo a loro è che non sono più delle bambine, sono quasi tutte delle signorine. Non ho nessuna esperienza di come ci si debba comportare con studentesse di quest’età. Mi toccherà chiamarle «signorine». Che cosa sbagliata. Che metodo sbagliato. Per me è tutto molto imbarazzante, perché non ho alcuna esperienza.
30 ottobre
Se fossi credente, potrei amare Dio. Sono in tanti ad attingere forza dall’amore per Dio, a vivere secondo i suoi comandamenti. È ciò che dà senso alla loro vita. È piuttosto comodo, e senz’altro molto soddisfacente. Io non sono poi così sicuro di vivere secondo i comandamenti di Dio. Per quanto riguarda la pratica religiosa, no di certo. Però, d’altro lato, mi sforzo di vivere secondo i dettami della mia coscienza. Cerco di non nuocere a nessuno. Lavoro, faccio il mio dovere, nel luogo in cui il destino ha voluto che mi trovassi. Non auguro del male a nessuno. Eppure sono costretto ad affermare di non sentirmi vicino a Dio. Chi è religioso è totalmente invaso da questo sentimento. Io no.
Oggi ho riflettuto su quanto è miserabile l’essere umano. Capace di mettere sullo stesso piano un cane e Dio nel tentativo di trovare qualcuno da amare. A quanto pare, Timár aveva ragione. Non si può vivere senza amare.
3 novembre
Brina. Tra un po’ bisognerà accendere la stufa. Quest’anno l’inverno sta arrivando presto. Mi sono accorto di una cosa, ma non voglio ancora scriverne.
4 novembre
Può darsi che io m’inganni, ma in ogni caso lo scrivo. Quest’estate a Virágfüred, per alcuni giorni ho avuto la sensazione di aspettare qualcosa, come se dovessi ricevere una notizia. Quella sensazione non mi abbandonava. È vero che in quel momento stavo molto male, e in questo diario ce n’è traccia. Adesso sono convinto che mi stia succedendo di nuovo, è qualche giorno che ho la stessa sensazione. Forse meno intensa di quest’estate. Più sfumata. Cerco di non farci caso. Però, a ogni porta che si apre, alzo la testa. Mi sono accorto che mentre cammino per strada mi guardo intorno, come chi aspetta qualcuno che gli venga incontro a dargli una notizia.
5 novembre
In questo genere di osservazioni bisogna usare una certa prudenza. Ho notato che spesso una conclusione affrettata su noi stessi può trascinarci in uno stato d’animo più angoscioso di quello iniziale. Uno dice: «Aspetto che succeda qualcosa», e da quel momento si mette veramente ad aspettare. Può essere rischioso.
Ora, nonostante questo, sono ancora in preda a quella sensazione di «sta per succedere qualcosa», sia pur in forma più leggera rispetto a quest’estate. Incombe su di me, ovunque, anche in camera mia. Mi segue per strada. Mi accompagna in classe, nella sala professori, al circolo.
Oggi sono andato al circolo un po’ sul tardi. Quando sono arrivato c’era molta più gente del solito, perché il conte è rientrato in città. Stavano giocando a ferbli.4 C’era molto fumo, e la sala era illuminata perché ormai fa buio presto. Nella coltre di fumo delle pipe e dei sigari i contorni delle figure apparivano vaghi. Io ero seduto in un angolo e li osservavo. Era come se i corpi fluttuassero nel fumo. Per un attimo ho avuto l’impressione di essere dentro un grande acquario, dove – su una specie di fondale marino grigiastro – strani organismi incolori, simili a grossi pesci torpidi, si spostassero in silenzio, pigramente, in un elemento vischioso. Nello stesso elemento per tutta la vita, senza un suono. E anch’io in mezzo a loro, condannato in un angolo, come un grigio, vecchio granchio abulico. In silenzio, in silenzio.
7 novembre
Brina e primi freddi. Stamattina il terreno era un po’ ghiacciato. Oggi ho messo il cappotto pesante. Mi sembrano solo timide avvisaglie dell’inverno, prima della neve e delle vere gelate avremo ancora giorni di pioggia e fango.
Dalla finestra del laboratorio di fisica si vedono i Tátra. Solo le cime più alte, naturalmente: la vetta del Lomnici, la vetta Francesco Giuseppe, che sono coperte di neve anche d’estate. Oggi era una giornata particolarmente limpida, e prima dell’inizio delle lezioni Mészáros mi ha fatto salire in laboratorio per ammirare il panorama delle montagne. Si vedevano distintamente e parevano vicinissime, quasi fossero alle porte della città e non a duecentocinquanta chilometri di distanza. È meraviglioso quando si riesce a vedere a occhio nudo fino a così lontano.
Oggi ho acceso la stufa per la prima volta. In queste prime giornate di freddo la città diventa più calda e ospitale. Nella sala professori il bidello ha sistemato il feltro isolante alle finestre, contro gli spifferi. Mi sono accorto che era di nuovo brillo. Negli ultimi venticinque anni ho potuto constatare che d’inverno beve molto di più che d’estate. È il classico bevitore invernale. All’arrivo del freddo comincia subito a sbronzarsi, e per tutto l’inverno non è mai completamente sobrio.
Oggi per la prima volta ho pensato che forse beve perché ha qualche dispiacere.
Ero seduto al tavolo delle riunioni, e l’ho osservato a lungo mentre armeggiava con quelle grosse mani dai movimenti incerti. Quest’anno ha il viso molto più rubizzo; o mi pare che sia così solo perché l’anno scorso non ci ho fatto caso? Ha il volto gonfio, rosso, con i pori dilatati, tutto bucherellato, sembra quasi una spugna. Ha qualche anno più di me. Ha la faccia di un vecchio che è rimasto bambino. Tutte le mattine lui e il suo aiutante trasportano con fatica fino al piano di sopra pesanti cesti di legna da ardere. E poi fa le pulizie, accende le stufe, si occupa di suonare la campanella quando è l’ora... è un grosso carico di lavoro per un povero vecchio come lui. Gli tremano le mani. È un uomo logoro. Ha tre figli, il più grande dei quali, a onor del vero, porta già a casa qualche soldo. Ma il suo stipendio è davvero misero, è già tanto se gli concedono l’alloggio, e poi guadagna qualcosina vendendo la merenda ai ragazzi. Noi insegnanti ogni tanto gli diamo una mancia. Perché beve? Quando l’ho visto affaccendarsi con quelle mani tremanti, mi è venuto spontaneo di chiedergli:
«Perché beve, Kudlicsek?».
Mi sono subito pentito di avergli fatto quella domanda, ma ormai era troppo tardi. Ha interrotto il lavoro e mi ha guardato con aria spaurita, nei suoi occhi c’era un tale turbamento, una tale mortificazione che ho provato una gran pena per lui.
«Ma io non bevo, illustrissimo».
«Intendevo dire, quando ha cominciato a bere?» ho detto, cercando di attenuare il suo imbarazzo.
«Io non bevo, illustrissimo. Vino non ne bevo mai».
«E pálinka?».
«Solo al mattino, illustrissimo. Quando mi alzo. Ce n’è bisogno, prima del lavoro, illustrissimo. E costa molto meno».
Sempre più confuso mi ha spiegato che la pálinka è molto meno cara del vino. E l’ho capito. Ho poi cercato di capire perché la mattina non può fare a meno di mandar giù il primo cicchetto. Dev’essere perché così si scalda per tutta la giornata rimanendo in un leggero e gradevole stato di ebbrezza. E sopporta meglio il lavoro quotidiano, anche questo posso capirlo.
«Quanti anni ha?».
«Cinquantotto».
Vivo a fianco di Kudlicsek da venticinque anni, e solo oggi ho saputo qualcosa di più su di lui. Ad esempio, che ha cinquantotto anni. Non riesco proprio a capacitarmi, che giovanotto in gamba era Kudlicsek quando l’avevano assunto! Che bel colorito aveva, che bei baffi all’insù. Me lo ricordo quando stava in piedi all’ingresso dell’istituto, con il campanaccio in mano, sempre di buonumore, e ispirava a tutti un sentimento di simpatia e affettuoso rispetto. A quei tempi la moglie era ancora viva, una donna florida e bonaria, che vedevo sempre accanto alla porta dell’alloggio riservato al custode, dietro un tavolo pieno di panini imbottiti di prosciutto e burro. A quell’epoca probabilmente Kudlicsek beveva vino. Era giovane, se la passava bene ed era sano come un pesce. È diventato un vero rottame proprio sotto i miei occhi, e io non mi sono mai reso conto di questo suo progressivo decadimento. Ora è ridotto a una larva, è un vecchio ubriacone. Ha la schiena curva. Io me lo ricordo ancora quando se ne stava all’ingresso dritto come un fuso, col petto in fuori e i mustacchi neri attorcigliati all’insù...
... e io, invece? Come sono diventato io adesso? E com’ero allora? Sul fondo della sala professori, dietro il tavolo delle riunioni dove ero seduto in quel momento, sono appese alla parete le foto di gruppo di ogni anno. Saranno una trentina, forse di più. Nella maggior parte compaio anch’io. Nella prima ci vuole un po’ per trovarmi, sono in un angolo, bello impettito come una volta Kudlicsek. Avevo anch’io un paio di baffetti neri; me li ero fatti crescere con cura, perché mi vedevo troppo giovane. L’ultima è dell’anno scorso. Io sono al centro accanto al preside, per motivi di anzianità.
Chissà come mi vede Kudlicsek... Non ho osato domandarglielo. Gli ho dato una corona per la pálinka. Credo che nessuno beva solo per il gusto di bere. Ognuno, se beve, avrà i suoi buoni motivi per farlo.
8 novembre
Quel che è successo oggi mi ha messo in agitazione. È stato l’insegnante di storia. A mezzogiorno mi è venuto incontro nella sala professori, e tutto infervorato mi ha detto:
«Ti prego, se puoi fare qualcosa, intervieni. Non si può andare avanti così. Oggi ho scoperto che qui siamo tutti sorvegliati».
«Sorvegliati? In che senso?» ho chiesto allarmato.
«Di sicuro anche tu, non credere. Lo siamo tutti. Tutti i docenti. Il preside ha incaricato Kudlicsek di prendere nota di ogni volta che arriviamo in ritardo, e di quanti minuti. Capisci? È Kudlicsek la spia. E a mezzogiorno fa rapporto al preside, ogni giorno. Ha una lista con i nomi, i nomi di tutti gli insegnanti. Ogni mattina dalla guardiola controlla con quanti minuti di ritardo arriviamo. A mezzogiorno consegna la lista al preside. Ieri, devi sapere, io mi sono svegliato un po’ più tardi del solito. Solo un paio di minuti, non di più. La sera avevo fatto baldoria con gli amici. Sono entrato alle otto e un quarto. Be’, non è mica la fine del mondo. Anche la classe era tranquilla. E per questo, ieri...».
«Che è successo?».
«Il preside mi ha convocato nel suo ufficio... Mi ha ripreso perché ero arrivato in ritardo. E che non si ripeta mai più, ha detto. Insomma, è intollerabile, è umiliante, è odioso. Noi insegnanti non possiamo accettare una cosa del genere. Che Kudlicsek spii ogni nostra mossa! Tutto il sistema! A quanto pare, il preside mi ha preso di mira. Sai, perché io...».
«Ma, figliolo...» gli ho detto al colmo dell’imbarazzo. «Così tu non ne sapevi niente?».
«Niente di cosa?» mi ha chiesto sbalordito.
«Be’... Che Kudlicsek e il preside... insomma, che va a riferirgli tutto... Non lo sapevi?... Gli dice a che ora arriviamo, e dove andiamo, tutto quanto... Tu non lo sapevi?...».
«No» ha detto pallido come un cencio.
«Eppure... le cose stanno così, sin da quando sono qui» gli ho detto.
Lui guardava fisso davanti a sé.
«E tu...» mi ha chiesto turbato «né tu... né nessun altro... nessuno ha mai detto niente?... Nessuno?».
«No, nessuno» ho risposto.
«Allora è diverso» ha detto poi. «Be’, è molto diverso. Quand’è così...».
Ha preso il cappello e se n’è andato. Io volevo inseguirlo. Povero ragazzo... Ma che pensava? Povero giovane. Che cosa si immaginava un ragazzo come lui?
Però questa storia mi ha messo in agitazione. Non posso farci niente. Non capisco come potesse non saperlo. D’altro lato è assolutamente ovvio che il preside ci tenga sotto controllo.
9 novembre
Sono andato al battesimo. È stato identico a tutti gli altri. È interessante notare come le consuetudini delle veglie funebri non si distinguano minimamente da quelle dei battesimi. Si mangiano le stesse vivande, si beve lo stesso vino e si fanno gli stessi discorsi. Mi sono sentito molto a disagio. In futuro eviterò di andare ai battesimi.
11 novembre
Continua a far freddo. Se va avanti così, nei prossimi giorni avremo la neve. Oggi pomeriggio verso le cinque stavo camminando lungo i Bastioni, quando a un tratto ho visto il mio studente, Madár, che veniva nella mia direzione. Era insieme a due ragazze. Incrociandomi, tutti e tre mi hanno salutato. Era già piuttosto scuro sotto gli alberi, ma ho riconosciuto Madár, il mio studente, e la ragazza dal viso sottile, con i capelli neri: era la figlia dei Cserey, una delle sei studentesse della classe. Margit Cserey. Una volta a casa, sono andato a controllare il nome nella mia agenda. Margit Cserey. Una ragazza tranquilla, molto silenziosa a lezione. L’anno scorso aveva buoni voti. Vorrei tanto sapere che ne direbbe Mészáros. È un’altra delle conseguenze del sistema delle classi miste: dopo la scuola gli studenti, maschi e femmine, se ne vanno a spasso insieme sui Bastioni. È vero che il tempo era ideale per fare una passeggiata, un bel pomeriggio invernale, con l’aria fredda e pungente. Può darsi che stessero tornando da qualche lezione pomeridiana. Ora che ci penso, avevano in mano dei quaderni. Ma non importa, mi dà fastidio che gli studenti maschi vadano in giro con le compagne.
Domani in classe affronterò con chiarezza la questione.
12 novembre
Non ho affrontato la questione.
13 novembre
Non l’ho affrontata neppure oggi. Non ho avuto occasione di farlo. Aspetterò la prossima volta. Mi capiterà di nuovo di vederli per strada, non ne dubito. A loro piace andare a spasso. A sorprendermi è che con Madár ci fosse la Cserey. Sembrerebbe la più tranquilla delle sei. Avrei detto che ad andare a passeggio con i ragazzi fosse piuttosto Vilma Lángos, una bionda, seduta al centro dei banchi. Non ho una grande esperienza per giudicare le studentesse, ma l’aspetto di questa Lángos giustifica il sospetto che vada in giro con i maschi. Indossa camicette scollate, e ha i capelli biondi tagliati corti. È vero che anche la Cserey porta i capelli corti, ma sono neri. Li terrò d’occhio.
Non ho alcun dubbio, tra non molto li incontrerò di nuovo.
14 novembre
Oggi, alla solita ora, sono uscito per la mia passeggiata quotidiana sui Bastioni. Sono andato su e giù per un bel pezzo, un quarto d’ora oltre le mie abitudini. Non avevo uno scopo preciso, ma contavo di sorprendere quei due. Non c’erano. Domani non esco. Dopodomani probabilmente li becco.
15 novembre
L’abitudine è più forte di qualsiasi decisione. All’ora consueta sono andato sui Bastioni. Nemmeno stavolta ho avuto fortuna. Dopo le cinque ho effettivamente visto due studentesse, la Cserey insieme a un’altra, una certa Neumann. Ma Madár non c’era. Le ho salutate per primo, perché erano sole.
Non trovo certo nulla da eccepire se due mie allieve decidono di fare quattro passi dopo le lezioni, è un’abitudine molto salutare per le ragazze della loro età.
17 novembre
C’è grande agitazione tra noi, nel corpo docente, in tutta la città. Il professore di storia, quel giovane sciagurato, ha dato le dimissioni.
Io sono venuto a saperlo stamattina alle nove, alla fine della prima ora. Il preside ha convocato una breve riunione straordinaria, e ci ha comunicato la notizia. Era fuori di sé. Era pallidissimo e balbettava. Ci ha mostrato la lettera – una lettera inqualificabile, l’ha definita il preside indignato – con la quale il professore di storia rassegna le sue dimissioni e riversa un’infinità di ingiurie sul preside, sul corpo docente e sull’intero sistema.
«Ma che sistema?» urlava il preside con le labbra livide. «Lo chiedo a voi, signori miei, quale sistema? Si tratta forse del sistema che, devo ammetterlo, per un eccesso di indulgenza e di spirito collegiale ci ha fatto giungere fino a questo punto? Sì, signori, al punto di consentire che in questo corpo docente di alto prestigio che ho l’onore di presiedere,» a ogni parola il preside drizzava sempre di più la schiena «che in questo corpo docente si sia subdolamente insinuato lo spirito della contestazione! Sissignori, lo spirito della contestazione! Pensate, signori miei! Dove andremo a finire di questo passo? È per volontà del ministero che io sono vostro capo...».
Qui il preside si è interrotto di colpo. Molti annuivano. Mi sono reso conto di aver annuito anch’io, con cautela, un paio di volte. Il preside si era accorto di aver attaccato con un tono di voce troppo alto, e non riusciva più a reggere quel crescendo. Sembrava quasi che avesse detto: «Io, per grazia di Dio vostro capo apostolico...». Mi è venuta in mente proprio questa frase, e ho dovuto fare uno sforzo tremendo per non ridere. Ho cominciato a fissare un punto davanti a me con aria indignata, perché temevo di scoppiare a ridere da un momento all’altro.
«Il nostro traviato collega» ha proseguito il preside «scrive che ho calpestato la sua dignità umana. Io, signori, avrei calpestato la sua dignità umana!? E in che modo?». Ha tossito e si è schiarito la voce. «Solo perché mi sono permesso di riprenderlo per aver fatto tardi alla lezione del mattino dopo i bagordi? Non è forse mio diritto? Non è forse mio dovere richiamarlo a una condotta più corretta? Lo chiedo a voi, signori, siate voi a rispondere al vostro traviato collega! Che oltre a ciò dichiara... di aver nello stesso tempo inoltrato al ministero un appello a nome dell’intero corpo docente, nel quale mi accusa di tenere un atteggiamento dispotico nei confronti degli insegnanti – sì, dispotico, testuali parole – e di aver costituito all’interno dell’istituto un sistema di controllo fondato sulla delazione. Ma quale delazione! Solo perché Kudlicsek mi tiene al corrente di quello che accade? Non è forse mio dovere essere informato di tutto ciò che avviene tra le mura di questo istituto e fuori? Chi ne è responsabile alla fine? E così vuole denunciarmi al ministero? Un insegnante che si rivolta contro il proprio preside! Siamo giunti a questo, signori...».
Non l’avevo mai visto in questo stato. Ho guardato uno per uno i miei colleghi. Sedevano in silenzio intorno al tavolo e tenevano tutti gli occhi incollati sul preside. Sul volto di Mészáros mi è parso di scorgere una lieve espressione di disgusto.
Lóránt, il professore di tedesco, con il suo modo di parlare un po’ bleso, è stato il primo ad alzarsi e a prendere la parola. Ha proposto di scrivere un altro appello da indirizzare al ministero, nel quale il collegio docenti si schiera unanimemente dalla parte del preside, esprimendogli tutta la sua solidarietà, e respinge con fermezza le accuse infamanti.
In men che non si dica l’appello è stato redatto.
L’abbiamo firmato tutti. Io ho firmato. Il preside ci ha ringraziato per la fiducia.
Alla fine della riunione Mészáros mi si è avvicinato.
«Vieni con me stasera» mi ha detto.
«Dove?».
«Da quel ragazzo, da Szilassy. Vorrei salutarlo. Vieni? Anche tu eri in buoni rapporti con lui».
«Sì, verrò» gli ho promesso. Sono le sei e mezzo. Alle nove andiamo a casa di Szilassy. Non so se faccio bene ad andarci.
18 novembre
Che facessi bene oppure no, alla fine ci sono andato. Non credo che una visita possa avere delle conseguenze. Mészáros è un uomo molto prudente. A mio modo di vedere, persino troppo, al limite della mania. Per fare un esempio, è stato lui a proporre di andare da Szilassy alle nove di sera. Dopo le nove in città non si vede quasi più nessuno per strada. Per dire quanto sia cauto Mészáros. Credo che a trovare Szilassy ci sarei andato anche da solo. Mi era simpatico. Era l’unico tra i colleghi giovani che mi fosse davvero simpatico. Posso dire tranquillamente che, se fosse dipeso da me, non avrei aspettato le nove, ci sarei andato alla luce del giorno, alle cinque del pomeriggio. O addirittura alle sette, quando c’è ancora più gente in giro. Non ha alcun senso che in questo diario cerchi di dissimulare la mia vera natura. Non sono un eroe. Non sarei disposto a scendere in campo per difendere i diritti altrui. Ho pure firmato senza batter ciglio l’appello a favore del preside. A essere sincero, non ci trovo nulla da ridire. Ci si abitua a tollerare questo e altro. Ipocrisie di vario genere. A quanto pare, è così che va il mondo. Bisogna scendere a compromessi. Chi non è disposto, be’... se ne va. Sbattendo la porta. Proprio come ha fatto Szilassy.
In ogni caso, voglio precisare che, se fosse dipeso da me, sarei andato a casa sua in pieno giorno. E non così, dopo che i portoni sono stati chiusi, col buio. Come ieri sera. Ma è stata un’idea di Mészáros. Io ho semplicemente acconsentito.
Quando sono arrivato, Mészáros era già sul portone. L’appartamento di Szilassy, in affitto, si trova in Flórián utca. È una traversa un po’ fuori mano, ci abitano anche due miei studenti. Uno è Puliszka. L’altra è una studentessa, ma questo l’ho scoperto solo ieri sera. Si tratta di Margit Cserey, che vive lì con la famiglia. Suo padre fa il pasticciere, produce pan di zenzero. Non immaginavo che il suo laboratorio fosse proprio qui, in Flórián utca.
L’ho saputo da Mészáros. Era molto imbarazzato. Quando siamo entrati nell’appartamento, con un sorriso stentato ha detto a Szilassy:
«Ti prego, accosta le persiane che siamo al pianterreno. Non vorrei che la figlia di Cserey ci vedesse qui: sai che pettegolezzi domani se si viene a sapere che due professori del liceo vanno in giro di notte a tramare chissà quali complotti...».
«La Cserey?» gli ho chiesto io. «La ragazza che è nella mia classe?».
«Sì, lei» ha risposto Mészáros nervosissimo. «Per favore, chiudi le persiane!».
Szilassy non ha detto nulla. Ha allungato una mano e ha chiuso le imposte. Indossava una giacca da camera viola. I giovani d’oggi! Tutte le loro cose sono diverse da quelle di noi vecchi. Io ho una giacca da camera color tabacco. Ho sempre pensato che il viola lo portassero solo le donne. Era la prima volta che andavo a casa di Szilassy. Vive in una stanza lunga e stretta con il soffitto a botte, piuttosto basso. Sul comodino c’è un Buddha di ottone. In cima a una libreria giace il suo violino, chiuso nell’astuccio. Sulla scrivania una brocca con un gran mazzo di fiori: crisantemi e dalie. Ha moltissimi libri. Più di quanti ne abbia io. Legge in inglese e in francese. Nella stanza regna un ordine assoluto, quasi maniacale, l’ho molto apprezzato. Neanche un libro fuori posto. Sulla scrivania quaderni, fogli scritti, carta da lettera, tutto perfettamente sistemato. È una brava persona. Non riesco proprio a capire... So che viene da un’ottima famiglia. Suo padre è medico a Pest. Forse sono anche benestanti, non so di preciso. In ogni caso, si capisce che ha le spalle coperte. Certo, così è facile essere sensibili... molto più facile.
Questo non lo dico perché in fondo rimprovero a Szilassy di essere più ricco. Nel profondo del cuore ho perdonato da tempo tutti coloro che hanno più di me. È solo per amor di verità, perché così è più facile essere sensibili.
«E allora te ne vai?» ha detto Mészáros.
Szilassy ha preso della pálinka di noce e ha riempito dei bicchierini, dicendo:
«Sì, me ne vado. Vi ringrazio di essere venuti a trovarmi. Per la verità, non ci contavo affatto. Ho sentito che oggi a mezzogiorno quella povera bestia del preside ha fatto firmare all’esimio collegio docenti una specie di dichiarazione. E che l’hanno sottoscritta tutti. Anche voi».
Non sapevamo cosa rispondere. Non osavo guardare in faccia Mészáros. Szilassy ha proseguito:
«Non fa niente. Appena l’ho saputo, ho detto: non me la prendo. Probabilmente è così che doveva andare. Mi fate solo una gran pena».
«Chi?» ha chiesto Mészáros tutto agitato. «Noi? Io?».
«Sì, anche tu» ha risposto con calma Szilassy. «Tu, mio caro Mészáros».
«Non compatire me» ha sbuffato Mészáros. «Non sono certo venuto fin qui per farmi compatire da te. Piuttosto...».
«Piuttosto cosa? Perché sei venuto? Vorresti essere tu a compatire me? Troppo tardi. Lasciamo stare. Ti capisco... e capisco anche te» ha detto rivolgendosi a me. «Non ce l’ho con nessuno. Sai una cosa? Non ce l’ho nemmeno con il preside. Glielo puoi dire: anche lui mi fa pena. Poveretto, povera talpa. Non è per lui che me ne vado, né per questa stupida vicenda: per me è stato un buon pretesto. Ho capito di essermi sbagliato. Non sono tagliato per fare l’insegnante. Mi sento soffocare. La notte, nel mio letto, quando restavo da solo con i miei pensieri, con i ricordi della giornata appena trascorsa, le facce che avevo visto, i frammenti di frasi che mi risuonavano nelle orecchie... sai che sensazione avevo, certe volte? Mi sentivo soffocare. Oppure mi veniva la nausea. Una volta, mi ricordo benissimo, stavo quasi per vomitare. Insomma, non ce la faccio più, devo ammetterlo. Me lo immaginavo tutto diverso. Se c’è uno che ha studiato seriamente per diventare insegnante, con tutta l’anima... quello sono io. Volevo davvero insegnare. Plasmare uomini nuovi... Amici miei! Che mestiere! Ma non si può. Il sistema è più potente, molto più potente... e se si tratta di plasmare fango perché resti fango...».
«Ma di che uomini nuovi parli?» ha detto Mészáros. «Ma fammi il piacere. Un uomo è un uomo. Un animale senza scrupoli, un farabutto se non gli si fa mettere la testa a posto. È a questo che serve la scuola».
«È a questo che serve la scuola» ha detto Szilassy.
Gli ho chiesto:
«Che cosa farai?».
«Innanzitutto un bel putiferio» ha risposto sorridendo. «Un piccolo scandalo, nei limiti delle mie possibilità. Ho alcuni amici giornalisti. Non qui, ma dove conta. Sai, può sempre tornare utile. Per quanto piccola possa essere la finestra che sfondi con un pugno, circola sempre un po’ d’aria fresca. Poi vedremo. Me ne andrò a insegnare a modo mio...».
«E dove?» ha chiesto Mészáros con aria di sufficienza.
«Da qui» ha risposto Szilassy picchiando la mano sulla scrivania. «Questa è una cattedra. È una cattedra gigantesca. Oh, amici miei... D’ora in poi cercherò di insegnare la storia dalla mia scrivania».
Mészáros ha sorriso. Anch’io ho sorriso, involontariamente. Ho pensato al taccuino sul quale sto scrivendo. Sulla prima pagina, ventotto anni fa, dichiaravo le mie intenzioni: scrivere un saggio che avrebbe segnato una svolta nella ricerca filologica. Non ho scritto nemmeno una pagina, nemmeno una riga. Solo qualche settimana fa mi è tornato in mente... Quanto è giovane Szilassy!...
Mészáros ha esclamato:
«Sei ancora un ragazzo, amico mio. Ma la tua pálinka è buona».
Szilassy ce ne ha versata ancora:
«Sì che è buona, la mia pálinka. Servitevi. Domani sera prendo il treno e al mattino sarò già arrivato a Pest. Per prima cosa me ne vado al bagno turco. Sapete com’è, quando si comincia una nuova vita... E poi alla redazione. Penso di capitare proprio al momento giusto».
«Però, lo scandalo...» ha detto Mészáros. «Senti, Péter, è questo che ti volevo chiedere. Lascia stare lo scandalo, figliolo. Vedi, se si trattasse solo del preside...! Pure io lo detesto. È un megalomane, non c’è dubbio. Ma qui ci siamo anche noi, figliolo. Non c’è bisogno di gonfiare la faccenda. Se fai scoppiare uno scandalo, noi ne subiremo le conseguenze. Saremo coperti di ridicolo. Qui, in tutta la città... e altrove. Che figura ci facciamo, se si viene a sapere che il preside ci comanda a bacchetta alla stregua di studenti? Che dobbiamo fare, figliolo. Se anche avessimo un altro preside, credi forse che... Che cosa sarà mai successo, insomma... Credimi, Péter, se tu avessi vissuto in mezzo a noi per tutto questo tempo, per dieci, vent’anni, come noi... e se oggi fossi tu il preside... Forse non saresti tanto diverso...».
«Ne sei convinto?» gli ha chiesto Szilassy.
«Sì» ha risposto Mészáros con ansia.
«Hai ragione. Ed è per questo che me ne vado».
E quando Mészáros è tornato alla carica implorandolo:
«Insomma, Petike... ti prego, lascia perdere questa storia».
«Ma lo sai» ha detto Szilassy scandendo le parole «che nelle schede del preside ci sei pure tu?».
Mészáros è rimasto in silenzio.
«Si dice – perdonami – che hai una relazione con una signora che abita in periferia. E che la vai a trovare tutti i martedì e venerdì, tra le quattro e le sei del pomeriggio. Da almeno tre mesi. Il preside è informato. Glielo ha riferito Kudlicsek, che è incaricato di seguirti. Lo sapevi?».
Mészáros ha chinato la testa:
«Lo so» ha detto umiliato.
«Lo sai?» gli ha chiesto Szilassy balzando in piedi. «Lo sai, e non hai mai reagito?».
«Per favore, Péter» ha risposto Mészáros con gli occhi fissi dinanzi a sé. «Cosa vuoi che faccia? Lui sa tutto di ognuno di noi. È il suo passatempo preferito. Dimmi, che dovrei fare? È una faccenda così imbarazzante... Che ci posso fare?».
Mészáros era completamente annientato. Io non credevo alle mie orecchie. Mészáros, una relazione con una donna? Che abita in periferia? Incredibile. Però l’aveva ammesso.
«E tu, come fai a saperlo?» ho domandato a Szilassy.
«Proprio qui sta il bello, come faccio a saperlo» ha detto tutto allegro. «Come? Ma dalla fonte. Da Kudlicsek. Oggi pomeriggio è venuto qui da me. Per venti corone, amico mio... mi ha detto tutto. Su ognuno della lista. Vita morte e miracoli del rispettabile collegio docenti, dal primo all’ultimo. Ad esempio, Lóránt tiene a pensione uno studente. Sì, si è messo in casa uno studente di giurisprudenza, incassando ogni mese più di quanto guadagna a scuola, e perciò tollera che il giovane se la intenda con sua moglie... So anche che, per le spese di matrimonio della figlia, il preside ha emesso cambiali per una grossa somma presso la cassa di risparmio, e adesso per saldare il debito dà lezioni private al figlio semideficiente del direttore della cassa di risparmio. E poi anche... be’, dimmi cosa vuoi sapere. Kudlicsek è davvero impagabile».
«Di me che cosa sai?» gli ho domandato.
«Di te?» e mi ha guardato negli occhi. «Niente. Cosa dovrei sapere? Che sei uno che forse nemmeno sa cos’è la vita?...».
Sono arrossito, perché mi è venuta in mente la scena davanti al manifesto. Sapeva qualcosa anche su di me, ma ha taciuto. Devo essergli riconoscente della sua discrezione. Ma il fatto che mi abbia dato del bambino... proprio lui, che è tanto più giovane di me! Che strana, la gioventù d’oggi.
«Tutte queste cose» ha chiesto spaventato Mészáros «hai intenzione di scriverle sui giornali?».
«No» ha risposto facendo un gesto con la mano. «Ci mancherebbe altro. Non sono poi così interessanti. Sono segreti da talpe».
Mészáros era proprio avvilito. Dopo aver preso commiato da Szilassy, ci siamo incamminati senza dire una parola. Lui mi ha accompagnato fino a casa. Davanti al portone mi ha detto:
«È un uomo pericoloso. Bene che se ne vada. Farà una brutta fine, è una persona immorale. Credimi, farà una brutta fine».
Non ho replicato nulla.
20 novembre
Ieri sera sono passato davanti alla casa di Szilassy. La finestra era buia. Dunque è partito. Peccato. A quanto pare, chi ne ha la forza se ne va. A me vengono i brividi al solo pensiero di essere costretto ad andarmene.
Adesso ho perduto un’altra persona. Non ho più nessuno qui.
Tornando a casa sono passato davanti al laboratorio di pasticceria di Cserey. Dentro, nonostante l’ora tarda, stavano ancora lavorando. È vero che domani ci sarà la grande fiera. Cserey è il padre della ragazza che va a spasso con i giovanotti.
Di sera è calata la nebbia. Oggi vado a letto presto. Il preside ha telegrafato al provveditorato perché mandino un sostituto. Si parlava di organizzare un banchetto in onore del preside. Ma alla fine abbiamo rinunciato al progetto, perché verrebbe a costare troppo.
Szilassy ha detto che io non so nemmeno cos’è la vita. Non ho replicato. Non mi piace far polemica. Che cosa dovrei rispondere? Non so cos’è la vita. E allora chi è che lo sa? Ho cinquantaquattro anni. Quasi cinquantacinque, li compio a febbraio. E così io non saprei che cos’è la vita? Come un ragazzino... ma è lui il ragazzino.
Non riesco a smettere di pensare a Mészáros. Ha una relazione con una donna che abita in periferia... Un uomo sposato! Ha più o meno la mia età. Non l’avrei mai detto capace di una cosa del genere. Quando sento storie come questa, mi viene quasi da dare ragione a Szilassy: non so davvero cos’è la vita.
22 novembre
È arrivato il sostituto. Un giovane molto ossequioso, gentilissimo con tutti. È figlio di contadini. Si è presentato a casa di ognuno dei colleghi per una visita di cortesia. È venuto anche da me. Non sapevo di cosa parlare con lui. Il preside dice che è di buona pasta. In ogni modo, il fattaccio è stato quasi dimenticato.
La nebbia persiste, credo che domani o al massimo dopodomani arriverà la neve. Non mi piace camminare nella foschia, non si vede niente. Oggi non sono andato sui Bastioni.
23 novembre
Da quando il cardellino è stato messo in gabbia con il canarino, tacciono entrambi. La mia governante sosteneva che non cantano perché non vanno d’accordo. Ieri è andata a comprare un’altra gabbia per il cardellino e da allora c’è un baccano d’inferno. Sarò costretto a disfarmi di questo cardellino, ha una voce sgradevole.
24 novembre
Ho mal di denti.
25 novembre
Oggi c’è stato il compito in classe. Avevo mal di denti. All’inizio dell’ora ho distribuito i quaderni e assegnato la versione, poi sono tornato a sedermi alla cattedra e ho messo un fazzoletto sulla guancia dolorante. Il dente mi faceva molto male.
Queste sono le ore più noiose. Ma oggi ne ho approfittato per guardare con attenzione i miei studenti.
Ieri avevo ricopiato su un nuovo libretto l’elenco dei loro nomi, perché nei prossimi giorni dovrò cominciare a mettere i voti. Ho aperto il registro e per ogni nome ho cercato il volto corrispondente.
Devo riuscire a liberarmi del disagio che provo davanti a questa classe. È una specie di soggezione. All’inizio, nel tentativo di dominarla, sono stato troppo severo, pedante. Ho preteso, in modo forse eccessivo, che si osservasse la massima disciplina; come se ce ne fosse bisogno! In realtà, non avevo nulla di cui lamentarmi, la disciplina della classe era già perfetta.
E se avesse ragione Mészáros a dire che in parte è merito della presenza delle studentesse?
Non lo so. Al principio credevo che l’imbarazzo che sentivo entrando in aula fosse legato a quella classe in particolare, l’ottava. È perché sono abituato ai ragazzi più giovani, di prima, seconda e terza. Oltre la quarta ho avuto solo tre classi. Con i ragazzini, non lo dico per vantarmi, ho metodo ed esperienza. Due anni fa perfino il preside lo ha sottolineato durante un consiglio docenti.
E ora questo brusco cambiamento. Un’ottava. Sono difficili da affrontare. Hanno senso critico, sono sarcastici, diffidano degli insegnanti nuovi, lo so bene. Devo fare molta attenzione al mio comportamento. Spiano ogni mio gesto, commentano ogni cosa che dico. Io sono piuttosto parco di parole, ma questo non cambia la situazione; mi sento ugualmente a disagio.
Naturalmente la classe non se ne accorge... o almeno spero. Resta comunque seccante. Così ho cercato di indagare i motivi del mio imbarazzo.
Oggi, mentre gli studenti erano impegnati nel compito in classe, mi sono messo a osservarli con calma. La versione era difficile, l’ho scelta apposta. Un testo di venti righe, dall’ungherese al latino. Potrebbe andar bene anche come prova di maturità. Loro erano lì a scribacchiare in silenzio. Trentaquattro teste chine sui quaderni. Ventotto ragazzi e sei ragazze.
Li ho osservati uno per uno, lentamente, banco per banco. Dopo ventotto anni di insegnamento ho maturato una certa esperienza nel riconoscere i vari tipi di ragazzi. Ci si può sbagliare, ma in generale ho un discreto occhio per i loro volti. C’è il pigro, l’indifferente, lo sgobbone, il giudizioso, il distratto, il diligente, il balbuziente, lo scontroso, l’introverso, lo sbruffone, l’esibizionista, il saputello timido – più o meno li so riconoscere. E i solitari. I buontemponi. So distinguere la disinvoltura dei ragazzi ricchi e la timidezza dei poveri. È una gamma molto vasta. Ma tutte queste facce, queste fisionomie di semiadulti rivelano sempre qualcosa, al mio occhio esperto.
Dopo averli passati in rassegna uno per uno, dieci minuti prima della campanella, ho rivolto la mia attenzione alle studentesse. E oggi, per la prima volta, mi sono reso conto che il mio disagio non deriva tanto dal fatto che gli studenti di ottava siano più grandi, bensì proprio dalla presenza delle ragazze.
Ho scorso con discrezione i loro nomi sul mio libretto, cercando di individuarle in base ai posti. La prima è Vilma Barát. È bruna. Porta i capelli in due trecce raccolte a crocchia. È alta e magra. La vedo quasi sempre vestita di blu, e l’abbigliamento è piuttosto dimesso.
La seconda si chiama Teréz Neumann. Anche lei ha i capelli castani, ma più chiari. Suo padre ha un negozio di abiti da uomo. È molto brava nelle lingue. È israelita.
Fra Teréz Neumann e Vilma Lángos (che è bionda) siede Margit Cserey. Non l’ho più vista insieme a Madár. Forse non è il tipo che va sempre a spasso. A volte ci si fa un’opinione di qualcuno che poi si rivela superficiale. Può benissimo darsi che non sia quel tipo, in fondo l’ho vista in giro soltanto una volta. È tranquilla, molto beneducata. Ha un viso sottile, i capelli neri, corti. Questa è la Cserey.
La quinta è una ragazza grassottella, con gli occhiali. Anche lei è bionda, ma una bionda diversa da Vilma Lángos. Si chiama Makkai, Márta Makkai. Vuole diventare insegnante. Risultati mediocri. È una sgobbona, e ridacchia in continuazione.
La sesta è la più sviluppata di tutte. Si chiama Klára Zakár, ha i capelli castano chiaro. È una ragazza molto alta e snella, con un tono di voce particolarmente acuto.
Mentre le osservavo una dopo l’altra, ho dovuto ammettere che sono loro la ragione del mio disagio. Non ho mai avuto allieve femmine, non le conosco, ne ignoro la mentalità. Bisogna che mi abitui ad avere a che fare con loro. Mi appunterò tutto ciò che osservo. Può darsi che siano diverse dai compagni maschi. Forse affrontano le cose in un altro modo. Per me rappresentano un terreno assolutamente sconosciuto.
Durante la ricreazione stanno quasi sempre in gruppo, e certamente ridacchiano spesso. Ma in generale in classe non disturbano. Ho notato che si scambiano un sorriso indulgente quando uno dei ragazzi non risponde in modo adeguato a un’interrogazione. Credo che sia questo loro atteggiamento a infastidire i ragazzi.
Nel complesso la classe non è la peggiore che mi sia capitata. Mészáros sostiene che il livello sia migliorato sensibilmente nell’ultimo anno. Da quando ci sono le ragazze.
In ogni caso devo riuscire a vincere questo disagio, e con il tempo ci riuscirò. In fin dei conti, studentesse o non studentesse, sono il responsabile di classe.
Gli ultimi dieci minuti dell’ora ho ripreso a osservarli. In due hanno chiuso il quaderno. Il primo, ovviamente, è stato Willinszky, il più bravo della classe. Lui deve sempre primeggiare. E poi ha chiuso il quaderno la piccola Cserey.
Ha messo a posto i quaderni, ha tirato fuori dalla borsa un panno e ha asciugato la penna. Le studentesse tengono la penna in borsetta. Anche i ragazzi, del resto, non si portano più appresso il calamaio.
Ha messo via la penna con cura, accanto a uno specchietto e a un fazzoletto. Ero sorpreso che la Cserey terminasse per prima. Un po’ troppo in fretta. Domani vedremo.
Se solo non mi facesse così male questo dente.
27 novembre
Non si può andare avanti così, devo fare qualcosa. La cosa più semplice sarebbe andare dal dentista, ma temo sia tardi. Questo dente ha una storia particolare. Ha cominciato a dolermi tre anni fa. Arcata superiore, l’ultimo dente a sinistra, un molare. Quella volta andai dal dentista, da Jeges. Mi disse che per il dente non c’era più niente da fare. Bisognava toglierlo subito, perché la gengiva cominciava a infiammarsi. Il molare era completamente andato, era rimasta solo una cavità, un buco enorme. La fistola era assicurata, mi aveva detto Jeges.
Questo è successo tre anni fa. Non mi feci togliere il dente. Per vigliaccheria, credo. Avevo paura del dolore. Un dente guasto, cos’era mai? Per tre anni non mi ha più fatto male. Il dolore era scomparso, la gengiva si era sgonfiata. Il dente era lì, cariato e rovinato, ma non mi doleva. Quando mi capitava di incontrare Jeges, glielo ricordavo con una punta di sarcasmo. Ho aspettato la fistola per tre anni.
A quanto pare, adesso è arrivata.
Ho metà della faccia gonfia. Me ne accorgo solo io, perché la barba lo maschera abbastanza bene. La guancia mi duole da impazzire, e scotta. È la fistola. Senza alcun dubbio.
So che significa: il pus comincia ad accumularsi nella gengiva, e prima o poi intacca la carne della guancia. Ho sentito dire che di una cosa del genere si può anche morire.
28 novembre
Il gonfiore persiste. Riesco a malapena a mangiare. Sono in uno stato pietoso. Il dolore è sempre più acuto e sempre più esteso. A volte si calma per alcune ore, e in quei momenti ho la sensazione che il pus, dopo aver conquistato terreno, si stia riposando e raccolga le forze prima di espandersi oltre. Durante queste ore riposo anch’io. Ma la tumefazione non fa che aumentare, credo che domattina sarà molto evidente. Andrò da Jeges. Vedo già la sua espressione di maligna soddisfazione, ma ci andrò lo stesso.
Oggi è caduta la prima neve.
Ha nevicato per tutto il giorno. Dalla finestra osservo come la nevicata ha reso luminosa la strada. È una bella giornata limpida, ma non posso uscire a passeggio. Con questo dente non posso andare da nessuna parte.
Faccio degli sciacqui con infuso di camomilla e correggo i compiti.
È una classe di livello sufficiente. La media è buona. La Cserey ha fatto male a consegnare così in fretta. Ci sono errori piuttosto gravi. La composizione è discreta, ma con brutti errori di grammatica. Ha scambiato due semplici futuri per condizionali. Peccato che sia stata precipitosa. Non posso darle un voto più alto di tre.5 Peccato che si sia affrettata.
La Neumann bene. Lo stile è scarso, ma il compito è impeccabile dal punto di vista grammaticale. Le altre quattro hanno fatto una prova mediocre.
Sono convinto che se la Cserey avesse finito con calma, avrebbe fatto di meglio. A pensarci bene, gli errori non sono poi così tremendi. Una delle frasi era piuttosto vaga, al punto da poter ammettere sia un futuro sia un condizionale. Con un po’ di buona volontà potrei anche aggiungere un due dopo il tre. E infatti sono andato a riprendere il quaderno e ho corretto il voto: 3/2. Così mi pare più giusto. Voglio incoraggiarla.
E se stasera me ne andassi sui Bastioni? C’è la prima neve, deve essere bellissimo.
Questo dente mi farà impazzire. Ha ricominciato a farmi male. Ora sento che il pus si sta estendendo verso la guancia.
3 dicembre
Le ultime giornate sono state terribili. Oggi per la prima volta mi sento un po’ meglio. Al dolore fisico si aggiungeva la depressione. Il dente è spacciato. Dalla faccia di Jeges ho capito che la cosa è grave. La pietà ha avuto in lui la meglio sulla maligna soddisfazione di vedermi finalmente lì nel suo studio. Non ha nemmeno sfiorato il dente. Ha detto che non si può. Bisogna aspettare che l’infiammazione diminuisca. Fino ad allora non può estrarlo. Non può fare nulla. I casi sono due: o l’infiammazione passa e il pus si riassorbe, oppure arriverà fino alla pelle, ulcerando la guancia. In quest’ultimo caso si dovrà intervenire chirurgicamente. Bisogna aspettare.
Così, il dente è spacciato. Ho ancora la faccia molto gonfia, ma il dolore è cessato. Il pus si sta riassorbendo. Jeges mi ha augurato buona fortuna, e ha detto che spera di potermi estrarre il dente tra qualche giorno.
Per il momento ho un aspetto spaventoso. Quello che vedo non è più il mio volto: è estraneo, grottesco. Neanche chi prova pietà per il mio stato può fare a meno di ridere quando mi guarda.
Io stesso, allo specchio, mi rendo conto di avere un aspetto straordinariamente buffo.
Avevo intenzione di non andare a scuola per qualche giorno; ma siamo a ridosso degli scrutini, non voglio lasciare gli studenti con un supplente. Temevo che i ragazzi si mettessero a ridere, vedendomi. E il mio timore si è rivelato fondato. Hanno riso appena ho messo piede in classe.
A questo punto devo segnalare un fatto che mi ha colpito, e che depone a favore delle ragazze. A quanto sembra, in certe situazioni mostrano di avere molto più tatto dei loro compagni, i quali hanno sghignazzato tutti, senza eccezione, appena sono entrato in aula. Tra le studentesse, solo due hanno riso: Lángos e Zakár. Le altre quattro invece mi hanno guardato con un’espressione partecipe. La Neumann era decisamente compassionevole. E anche la Cserey.
Le allieve Lángos e Zakár manifestavano sonoramente la loro ilarità. Sono letteralmente scoppiate a ridere, nascondendo il viso nel fazzoletto. Non che mi sia offeso, però ne prendo atto. A tale proposito, c’è un altro elemento che mi ha colpito: queste due sono bionde, mentre le altre hanno i capelli castani o neri. Vorrà dire qualcosa? Le bionde hanno forse il cuore più duro? Non lo so.
4 dicembre
La faccia si sta sgonfiando a vista d’occhio. Ho ancora un aspetto ridicolo, ma ormai mi sono abituato. Anche la classe. Oggi mi sono guardato bene allo specchio e ho deciso che non posso prendermela se gli studenti si mettono a ridere. Il mio volto barbuto gonfio da un solo lato è davvero buffo.
Il dente non mi duole più.
Jeges spera di potermelo estrarre fra tre giorni. Dice che ho avuto una gran fortuna.
Oggi ho fatto una lunga chiacchierata con Kudlicsek. Tra le altre cose, ho scoperto che la classe mi ha affibbiato un nomignolo. Mi chiamano «il Tricheco». So che ogni professore ha il proprio epiteto. Il mio l’hanno scelto per via dei baffi. Devo ammettere che nel mio volto c’è qualcosa che ricorda il muso di un tricheco.
5 dicembre
La faccia si è completamente sgonfiata. Sento ancora un lieve dolore, ma solo se premo con la mano. Oggi ho chiesto a Puliszka di leggere ad alta voce la trentesima ode, dal libro terzo. Mentre Puliszka leggeva:
Exegi monumentum aere perennius
... quod non imber edax, non Aquilo impotens
possit diruere aut innumerabilis
annorum series et fuga temporum.
Non omnis moriar...
di colpo ho sentito assalirmi quell’antica tristezza. No, io non ho creato nessun monumentum. Tra pochi giorni quest’anno finirà. Un altro anno.
Continua a nevicare. Domani mi faccio togliere il dente.
7 dicembre
Alla fine non mi faccio togliere il dente. Il mio volto è a posto, aspetto ancora un po’.
8 dicembre
Sarà per via della neve, sarà per qualcos’altro: ma in questa strada, davanti alla mia finestra, regna un tale silenzio che mi sembra di essere da solo in città. Al punto che se il cardellino emette un minimo gemito mi fa piacere sentirlo.
Non ho più avuto notizia dello scandalo che Szilassy minacciava. Se anche l’ha fatto, noi non ce ne siamo accorti. Queste voci non giungono fin qua.
La neve arriva alle ginocchia. Stanotte ho avuto la sensazione che non vivrò ancora per molto. Solo per qualche anno. Forse cinque. Forse sei. Forse uno.
Non ho problemi di salute. Anche il dente ormai è a posto. In genere non penso mai alla morte. Per questo mi ha sorpreso la sensazione che ho avuto stanotte, la serenità che ho provato al pensiero della morte. Bisognerebbe essere preparati a un evento come questo. Vorrà forse dire che sono pronto?
Si dice che muoia solo chi si rassegna a morire. Io a volte mi aspetto che accada qualcosa. Non mi sono ancora rassegnato del tutto.
Ieri ho pensato di tagliarmi la barba.
Sono cinque anni che ho la barba. Ho persino dimenticato la faccia che avevo prima. Ho dimenticato un mucchio di cose.
Di notte ho l’impressione di sentire il rumore della neve che fiocca fuori dalla finestra.
Comincio a dimenticare tutto. La strana estate che ho trascorso mi sembra talmente lontana. Come se fosse qualcosa di anni e anni fa.
24 dicembre
Oggi è la vigilia di Natale. Ho cenato a casa. Sono anni che passo la vigilia di Natale da solo. Potrei andare al circolo, dove stasera si raduna un piccolo gruppo di persone tristi e solitarie come me. Di cosa potremmo parlare? Dovremmo star lì a compatirci a vicenda?
La mia governante ha cucinato pesce e pollo per cena. E ha preparato anche delle frittelle al miele e papavero. Tutta roba pesante che mi è rimasta sullo stomaco. Dormirò male. Dormo sempre male dopo le serate di festa.
A cena ho bevuto una bottiglia di vino rosso. E adesso, dopo cena, ne ho stappata un’altra. Sono seduto vicino alla stufa, con la lampada da tavolo accesa, e ho tirato fuori il taccuino. È la vigilia di Natale ideale. Non desidero altro. Se avessi accettato l’invito di qualche famiglia, a quest’ora mi sarebbe toccato giocare con i bambini, far andare il trenino elettrico e mettermi il più piccolo a cavalluccio sulle ginocchia. Non è roba per me.
Alla mia governante ho comprato lo scialle lavorato all’uncinetto e un libro di preghiere. Credo che sia molto contenta di entrambi i doni. Non so nulla di lei. Vive in questa casa e io non so nulla di lei. So che è stata la governante di un notaio per diversi anni, al suo paese, ma con l’età il lavoro le è diventato troppo gravoso. Da me non ha molto da fare. È una donna tranquilla. Adesso è seduta in cucina, con il suo scialle nuovo sulle spalle, e sta leggendo il libro di preghiere. Quasi quasi la chiamo qui in soggiorno. Il libro mi è costato parecchio; è rilegato in pelle nera, pieno di incisioni, ha le iniziali dorate, e sulla copertina c’è un’iscrizione intarsiata in osso giallo. È un libro di preghiere di gran pregio. È impazzita di gioia quando l’ha visto. Ha detto che lo porterà con sé alla messa di mezzanotte.
Potrei andarci, alla messa di mezzanotte. Tanto non riuscirò lo stesso a dormire. Saranno dieci anni che non vado alla messa della vigilia. La governante però non la invito in soggiorno. È meglio che resti in cucina a leggere. Non saprei cosa dirle. Un gesto del genere sarebbe imbarazzante e ipocrita.
Questa donna vive nella mia casa, ha una certa età, e non so niente di lei. Quali saranno i suoi ricordi? È felice? È soddisfatta? Si aspetta ancora qualcosa dalla vita? Non so nulla. La sento armeggiare nella stanza accanto. Se le chiedessi tutte queste cose la metterei in imbarazzo. Mi darebbe una risposta evasiva, oppure mi attaccherebbe un bottone che non finisce più. Tra esseri umani è incredibilmente difficile riuscire a sapere qualcosa l’uno dell’altro.
Ho trascorso settimane senza prendere in mano il diario. In questo periodo non è successo niente. Sono apatico. Ho letto la mia ultima annotazione. Da allora non è successo niente. A volte ritorna quel senso di attesa. Potrebbe essere la morte, quello che sto aspettando?
Davanti alla finestra vedo passare alcune persone vestite da pastori del presepe, suonano la campanella e intonano canti natalizi. Vado a prendere il cappotto di pelliccia, le scarpe da neve e la lanterna a mano. È ora di andare a messa, è quasi mezzanotte.
25 dicembre
Da tanto tempo non si vedeva un inverno così bello. Saranno passati almeno quindici anni dall’ultima volta che abbiamo avuto un inverno altrettanto gelato e nevoso. C’è un sole splendido, eppure la neve non si scioglie. Comincio ad apprezzare questa settimana di vacanza. Si può andare in giro soltanto con le scarpe da neve, ma, ciò nonostante, esco spesso a passeggio. La neve scintilla al sole e scricchiola sotto i piedi.
Sono contento di essere andato alla messa di mezzanotte. La chiesa era piena. Ho visto tante persone che conosco e dai villaggi erano venuti molti contadini. In chiesa c’era un forte sentore di gabbani di pelle di pecora e stivali di feltro. Il calore che si sprigionava dai corpi formava piccoli aloni di vapore. Il coro di voci bianche intonava i canti di Natale.
Da bambino cantavo anch’io. Ieri mi sono unito a loro. Cantava tutta la chiesa. Con sorpresa mi sono accorto di quanto sia ancora forte e limpida la mia voce. Una volta ero famoso per la mia voce potente. Naturalmente non so adoperarla come si deve.
Molti conoscenti mi hanno visto e salutato. Accanto a una colonna, dietro ai banchi, c’era Gábor Cserey insieme alla famiglia. Alla sua destra stava la moglie, alla sinistra sua figlia, Margit Cserey, la mia studentessa. Di fianco alla ragazza c’era l’altro mio studente, Pál Madár. Proprio non me l’aspettavo, mi ha fatto piacere vedere che Madár è diventato così osservante da venire perfino alla messa di mezzanotte. Dopo quel che avevo sentito su di lui dall’insegnante di religione, la sua devozione mi ha sorpreso. Quale responsabile di classe, non posso che approvare il suo nuovo atteggiamento. Potrebbe essere un altro esempio dei benefici della classe mista sui maschi. In ogni modo, la ragazza era accompagnata dalla famiglia. In chiesa ho visto anche quell’ipocrita di Mészáros.
Durante la consacrazione ho notato che Madár non guardava verso l’altare, ma teneva gli occhi fissi sul viso della sua compagna, Margit Cserey. La guardava con un’espressione assorta e un po’ triste. Li ho osservati a lungo. Non le staccava gli occhi di dosso. Ma che aveva da guardarla a quel modo? Vedevo la ragazza di profilo, non ha niente di speciale. Ha un viso ovale, la carnagione leggermente olivastra, i capelli nerissimi, il naso piccolo e appuntito. La bocca è regolare. È di statura media. Ha gli occhi azzurri, di un azzurro tendente al grigio. Portava degli stivaletti stringati e una corta pelliccetta di lupo. In testa aveva un berretto di pelliccia.
Madár si è sentito osservato e ha voltato la testa con cautela. Appena mi ha scorto mi ha salutato con aria spaurita. Dopo un po’ ha sfiorato il gomito di Margit Cserey con il suo, e le ha detto qualcosa. Non ho sentito le parole, ma verosimilmente le avrà sussurrato: «C’è il Tricheco». Ne sono certo.
Madár aveva un cappotto leggero. Si direbbe più adatto all’autunno che all’inverno. Deve essere molto povero. Ora che ho avuto segnali rassicuranti riguardo al suo atteggiamento nei confronti della religione, forse potrei anche fargli avere una piccola borsa di studio per il secondo semestre. Vedrò se è possibile.
Oggi pomeriggio mi sono letto Orazio. Il 2 gennaio devo iniziare le interrogazioni. Ho letto la quattordicesima ode: Eheu fugaces, Postume, Postume, labuntur anni... Questa la tengo per Madár. Mi piace molto quest’ode del poeta. Labuntur anni. Anche quest’anno è giunto alla fine.
26 dicembre
Timár non scrive. Questa cosa mi sorprende molto. Escludo che sia perché non è in grado di mandarmi il denaro che mi deve. Nutro la segreta speranza che non me lo restituisca. Che dovrei farmene di quei soldi? Però almeno una lettera potrebbe scrivermela.
Magari non è più in vita, poveretto.
Oggi ho pensato che Madár... ma no, non ho motivo di sospettare una cosa del genere. Può darsi sia stato solo un caso. Forse sono buoni amici. Sì, può darsi che siano buoni amici. Ma, quando ripenso a come guardava il viso della Cserey in chiesa, faccio molta fatica a scacciare il sospetto che Madár provi un interesse per la sua compagna di classe.
La fissava con un’aria incredibilmente triste.
Non che Madár abbia mai la faccia particolarmente allegra. Non l’ho osservato con attenzione, ma non mi sembra un bel ragazzo. È piuttosto brutto e triste: il naso enorme, la fronte bassa, la bocca larga ed è pieno di foruncoli. Alla sua età, ho notato, i ragazzi più intelligenti sono spesso tristi.
E se anche provasse interesse per la sua compagna? Sarò pure il loro responsabile di classe, ma la faccenda non mi riguarda.
27 dicembre
Naturalmente se li trovo che se ne vanno a zonzo insieme, come dice Mészáros, non posso passarci sopra. La cosa a quel punto rientra nella mia sfera di autorità. L’andarsene insieme a spasso è una cosa pubblica. E poi anche il regolamento dell’istituto vieta agli studenti di passeggiare per il corso dopo le sette.
Devo prendere provvedimenti.
Oggi alle sette e dieci stavo andando al circolo lungo Fő utca. Davanti alla vetrina della libreria c’erano Madár, la Neumann, la Zakár, la Cserey e Frideczky. Frideczky, il figlio del cappellaio, è notoriamente un pessimo allievo. È il classico caporione. Quest’anno sembra essersi dato una calmata, ma ho sentito dire che gli piace ancora fare il capobanda. Stavano guardando i libri appena pubblicati. Li ho superati alle spalle senza che se ne accorgessero. Erano passate le sette. È pur vero che siamo in un periodo di vacanza. In ogni caso nel mio libretto ho segnato una croce accanto al nome di Madár.
Oggi sono rimasto al circolo fino a tardi. Erano le dieci passate quando sono arrivato a casa. Il nostro medico, il dottor Sellyei, è appena rientrato da Pest. Ci ha fornito un resoconto esauriente degli ultimi avvenimenti della capitale.
Tornando, mi sono fermato sul portone di casa e sono rimasto per un momento a guardare la neve che cadeva. Qualche anno fa hanno messo i lampioni elettrici nelle strade della nostra città. I fiocchi di neve scendevano fitti e risaltavano in controluce nel chiarore dei lampioni. Per strada, sotto la neve, il silenzio era così assoluto che sembrava ci fosse una parete di vetro. Le case, persino quelle a più piani, parevano piccole piccole sotto la nevicata. Tutte le finestre erano ormai buie. Ho pensato che conosco chi abita in ognuna di queste case. In generale so in quanti ci abitano e in che condizioni. Si sa sempre tutto. La neve ha ricoperto l’intera città. Ha formato una spessa coltre sui tetti e sui cornicioni. Quando mi sono coricato, ho avuto la sensazione di giacere sotto la nevicata, e che al mattino ne sarei rimasto sepolto. Non riuscivo a dormire, sono sveglio a letto, e adesso mi sono messo a scrivere queste righe.
C’è un tale silenzio che riesco a sentire la mia governante che tossisce tre camere più in là. Ha la tosse da qualche tempo. Il cardellino e il canarino tacciono. La notte non li sento mai cantare.
28 dicembre
Oggi pomeriggio, verso le quattro, ero seduto alla finestra e guardavo la strada. Di qui non passa molta gente, e a quell’ora era già buio. A un tratto, inaspettatamente, da lontano ho visto Mészáros che svoltava l’angolo. Ho pensato subito che fosse di ritorno dalla periferia, dove vive la donna con la quale ha una relazione, e che per andare a casa sua avesse preso questa traversa poco frequentata.
Camminava lentamente, procedendo a fatica nella neve alta. Ormai cammina come un vecchio. Portava un cappello di velluto verde, con un ciuffo di setole di cinghiale sul lato. Ha attraversato la strada e con grande sorpresa l’ho visto passare sotto la mia finestra e fermarsi davanti al portone di casa mia. Un attimo dopo ho sentito suonare il campanello. Era venuto a trovarmi.
Dopo qualche secondo, dall’anticamera l’ho sentito dire una frase scherzosa alla governante e togliersi le scarpe da neve. Non gli sono andato incontro. Che voleva da me? Perché era venuto a casa mia? Non era mai venuto prima.
«Te ne stai qui al buio?» mi ha chiesto sedendomisi accanto vicino alla finestra.
La mia governante ha portato una lampada. Mészáros si è chinato verso la stufa e ha allungato le mani per riscaldarsi. Aveva i baffi e le sopracciglia coperti di brina. È pieno di rughe intorno agli occhi, e sta perdendo i capelli. Porta i baffi all’insù. Solo in quel momento ho notato quanto è invecchiato. I baffi sono ingrigiti, come le tempie. Ma nel portamento, nel modo di fare c’è ancora traccia di quello che era una volta. Sì, Mészáros è sempre stato un pezzo grosso. Ha stretto amicizia con i signori della contea. Si è sempre sforzato di parlare e di vestirsi come loro. Un tempo era ricevuto anche in casa del prefetto.
«Ero di strada» ha detto sfregandosi le mani «e ho pensato di farti visita. Che cosa combini di bello? Come te la passi?».
Non ho potuto fare a meno di pensare che in questi ultimi dieci anni sarà stato di strada un sacco di volte senza mai venire a farmi visita. Doveva avere qualche motivo, stavolta. Aspettavo che si decidesse a dirmelo. Ho chiesto alla governante di portare della pálinka di vinaccia.
«No, lascia stare» ha detto. «Non bevo. Specie di pomeriggio. È per il fegato».
Ha sospirato:
«Stiamo diventando vecchi, compare».
Lui usa parole del genere, come ad esempio «compare». Questa l’ha presa dai signori della contea. Anche lui è nobile, della piccola nobiltà. Sulla mano destra porta un anello chevalier, con lo stemma di famiglia intagliato in una pietra rossa. Anche sua moglie è di famiglia aristocratica. È una Bereczky. Non mi hanno mai invitato da loro. Mai, non una volta in ventotto anni. Non mi ferisce particolarmente. So bene di avere origini contadine. Mio padre per metà della sua vita ha lavorato la terra. Non saprei nemmeno conversare con loro. Io non uso parole come «compare». Quando mi rivolgo a qualcuno, comincio le frasi dicendo: «Senti un po’...», o «Dimmi...». Lui invece: «Di grazia...». Sono due cose completamente diverse. A volte mi sforzo anch’io di cominciare con: «Di grazia» – ma è inutile. Non ci riesco. Mi manca qualcosa. Il tono.
Lui invece ce l’ha, il tono giusto per dirlo.
Si è sistemato comodamente in poltrona.
«Di grazia» ha detto «ho pensato di fare un salto, già che passavo. Ti si vede poco in giro negli ultimi tempi. Ti sei proprio isolato dal mondo, Gáspár. Che ti succede? Cosa combini? Mi ricordo quel picnic, quando ti sei preso una bella sbronza. Sulla collina della Cserhegy. Ti ricordi? Anche tu sapevi divertirti una volta. Tanti anni fa, vero? Aspetta, è stato dodici anni fa. Nel millenovecento. Ti ricordi? Ahi, ahi, compare...».
Ero sorpreso che se ne ricordasse. In effetti, aveva ragione. Dodici anni fa, sulla Cserhegy. Non che mi fossi proprio divertito come diceva lui, mi ero semplicemente preso una solenne sbronza. Era estate. Non sopporto di sentirmi chiamare con il nome di battesimo. Odio il mio nome. Anche se mi chiamassi Béla o Kristóf. Il problema non è il nome. È che non sopporto di essere trattato con familiarità. A me nessuno può dire: «Ehi, Gáspár». Anche questa è un’usanza da signorotti.
All’improvviso, senza preamboli, ha teso le mani, mi ha afferrato per le braccia e si è chinato verso di me guardandomi negli occhi. Con uno sguardo torvo, quasi minaccioso. Prima ancora che potessi riprendermi dallo spavento, ha detto:
«Gáspár» e si è fatto ancora più vicino. «Vecchio compare. Se solo tu potessi aiutarmi».
«Prego» ho mormorato spaventato. «Su, dimmi!».
Non sono riuscito a dire di meglio. Lo so che avrei dovuto dire: «Ma con piacere, caro amico, sono a tua disposizione». È questo il modo giusto di rispondere in casi simili. Ma io non ce la faccio a dire cose del genere. So che lui mi disprezza un po’ perché non parliamo la stessa lingua. «Guarda che bifolco,» avrà pensato tra sé e sé «il Tricheco».
Mi aveva afferrato per le braccia con un gesto piuttosto teatrale. Con delicatezza sono riuscito a divincolarmi.
«Sono qui» mi ha detto con aria imbarazzata «perché forse tu puoi aiutarmi. Se vuoi, Gáspár, caro vecchio compare. Amico mio, io so bene che il tuo modo di fare è soltanto una scorza. Dentro sei pieno di buoni sentimenti. Non negarlo, Gáspár! Ti conosco. È parecchio tempo che ti osservo. Tu vivi qui, nella tua solitudine, come un eremita. Non vai da nessuna parte. Non fai amicizia con nessuno. In città c’è persino chi mette in giro voci maligne su di te. Sai come è fatta la gente. Ma io ti conosco da una vita... Abbiamo trascorso insieme gli anni della nostra età adulta... quanti ricordi ci legano! Adesso, nel momento del bisogno, ho pensato a te.
«Sai, Szilassy...» ha detto poi. «Ma sì che ti ricordi, la sera da lui. Quel che ha detto su di me è vero. Non chiedermi nulla, ti prego. Non saprei cosa risponderti. C’è un limite oltre il quale un gentiluomo ha il dovere di tacere...».
Io non gli ho chiesto niente. Lui ha proseguito:
«È cominciata un anno e mezzo fa, amico mio. Cosa vuoi che ti dica? È stato un colpo di fulmine. Lei è vedova. No, non chiedermi niente. È una giovane vedova, madre di un mio allievo, che l’anno scorso era in prima. Ecco, ti dico tutto. Mi fido di te. Ti conosco, Gáspár, ti conosco. So che non aprirai bocca. E so pure che mi aiuterai.
«Devi sapere che questa povera donna è rimasta sola con il suo bambino. Così giovane. Con una pensione assai modesta. Una volta è venuta da me in istituto, perché il ragazzino aveva preso una nota. Amico mio! Che colpo di fulmine! Guardami, guarda questi capelli grigi! Eccoci qua, due compari, due vecchi amici che si confidano. È successo contro la mia volontà, amico mio... è stato più forte di me. Conosci l’esistenza infelice che si conduce in casa mia, con quella santa donna di mia moglie, che dalla morte del nostro unico figlio è afflitta da un’inguaribile malinconia. Un lutto infinito. E poi i debiti, questo misero stipendio, le noie della vita domestica. Allora, dopo la disgrazia, avevo cercato rifugio nella vita di società. Ho sciupato molto denaro. Tutto quello che avevo. E mi sono indebitato... ma perché sto a spiegarti tutto questo? Lo sai benissimo come stanno le cose. Non voglio giustificarmi. Dicevo, di questa donna. Ha trent’anni. Ah, se potessi raccontarti tutto, amico mio! Mi ha chiesto di andare a trovarla. E di essere indulgente con suo figlio, il povero orfano. Perché è proprio quel che è, un piccolo orfano. Sono andato a trovarla. Se vedessi la sua casa, una casa povera, amico mio, ma accogliente, ovunque si nota il tocco gentile di una delicata anima femminile. Due stanzette piene di colore, di calda intimità... Dunque, è cominciata così...».
«Che cosa?» ho domandato quasi senza volerlo. «La vostra relazione?».
L’ho detto con voce trattenuta. Devo ammettere che ho trovato davvero interessante la confessione di Mészáros. Comincia in questo modo una relazione? È così semplice? Basta andare a far visita a una vedova? Mészáros mi ha guardato negli occhi:
«Certamente» ha detto con naturalezza. «Amico, cerca di capirmi: io l’amo».
«La ami?» ho chiesto sconcertato.
Mi è venuto in mente il volto di sua moglie, un viso scavato e triste, con gli occhi infossati. Ho preferito non aggiungere altro.
«Sì, come si può amare solo una volta nella vita, amico mio. Sai, è come un terremoto. Che arriva così. Puoi ben immaginare... in che situazione mi sono trovato, amico mio. Che responsabilità. Che tormenti. In questa miserabile città, dove anche i muri hanno orecchie. In due mesi il preside era già informato. Non mi ha detto niente, non ha mai osato, non una volta. Sapeva che se avesse provato a dirmi qualcosa... io, amico mio, non riesco a pensare a come avrei potuto reagire. Forse gli avrei sparato. O mi sarei sparato. Lui mi conosce, se mi lascio prendere dalla collera... Lo so, non osa fiatare. Ma adesso, amico mio, adesso...».
«Adesso cosa?» gli ho chiesto con il fiato mozzo.
«Gáspár» ha detto coprendosi gli occhi con le mani. «Sono in una situazione spaventosa. Lei è incinta. Hai capito? Prova a immaginare, il ragazzo vive con lei. Che situazione, amico mio! Ormai è grandicello, va in seconda... no, non chiedermi nulla! Più avanti posso dirti tutto, se vuoi. Adesso prova un po’ a immaginare in che situazione mi trovo. Il ragazzino è nella mia classe. Potrebbe far trapelare tutto da un momento all’altro, se scoprisse come stanno le cose. E se si viene a sapere, io sono un uomo finito. Mi sospenderanno. Mi toccherà chiedere l’elemosina, Gáspár, l’elemosina. Non penso solo a me, penso alla mia povera moglie. E lo scandalo! Saremmo costretti a lasciare la città. Dove potrei andare? Di che vivremmo? Solo tu puoi aiutarmi, Gáspár. Solo tu!».
«Io?» ho domandato esterrefatto. Il mio primo pensiero è stato veramente assurdo: Mészáros stava forse per chiedermi di prendere in moglie la sua amante? Mi sono venuti i brividi. «Ma cosa posso fare io? Di che cosa hai bisogno?».
«Di soldi» ha mormorato con un filo di voce.
Ho tirato un sospiro di sollievo. Che pensiero assurdo avevo avuto. Ma allora, se si tratta solo di denaro... gliel’ho anche detto:
«Se si tratta solo di denaro...».
«Lo sapevo» ha detto d’un fiato, timidamente, afferrandomi di nuovo le mani. «Lo sapevo, vecchio amico. Sapevo che eri la persona giusta. Gáspár, ascoltami! Tu mi salverai. Il piano è pronto sin nei minimi dettagli. Quando avremo i soldi, lei lascerà la città. Andrà a stare da sua madre, che abita lontano da qui. Suo figlio partirà con lei. La pensione potrà riceverla anche laggiù. Il ragazzo lo iscriveremo a un’altra scuola... di quello me ne occupo io. E lei, mentre vive da sua madre... aspetterà che nasca il bambino. Il mio povero bambino, Gáspár. Mi serve parecchio denaro per fare tutto quanto. Da dove lo prendo? Io non ho più credito, il mio conto in banca è svanito. È a questo che servono i soldi, per il trasferimento, un piccolo capitale, per i primi tempi... poi una volta che il bambino sarà nato, farò il mio dovere: ti restituirò tutto. Fino all’ultimo centesimo. All’inizio del mese, quando ci danno lo stipendio... tu sarai il primo a cui li darò...».
«Lascia stare» gli ho detto. «Non è questo il problema. Temo di non avere abbastanza...».
Mi ha guardato sconvolto:
«È impossibile» ha detto. «Tu... tu devi avere del denaro da parte».
Questa frase l’ha pronunciata con un tono completamente diverso. A voce alta, con sicurezza, quasi minacciosamente. Ho avuto paura. Non avevo la più pallida idea di quanti soldi gli occorressero. Quanto può volerci per una cosa del genere? Io ho dodicimila corone. Qualcosa devo pur tenere da parte. Basteranno? E poi, faccio bene a dargli questo denaro? Sarà in buone mani? Tempo fa avevo pensato di darlo a qualcun altro. Ma a Mészáros... Non avevo idea di quale potesse essere il costo dell’operazione. Ottanta corone? Diecimila? Non avevo mai fatto niente di simile.
«Mille...» ha detto Mészáros. «O meglio, diciamo milleduecento... E nei prossimi due anni, amico... cinquanta corone all’inizio di ogni mese...».
Aveva la voce strozzata. Mi ha fatto pena.
«Va bene» ho detto. «Domattina vieni su in sala professori. Ti porterò il denaro».
Mi ha afferrato la mano.
«Amico mio» ha detto. «Come potrò mai ringraziarti?».
Nei suoi occhi brillava una lacrima.
... È appena andato via. È più forte di me, ma ho la sensazione che all’inizio contasse solo su mille corone. Non riesco a scacciare questo pensiero. Sono sicuro che alla donna ne darà solo mille, e duecento le terrà per sé. È un pensiero ignobile, lo so, ma non riesco a scacciarlo. Non importa, tanto glieli presto lo stesso, questi soldi. Forse gli faccio del bene. Sua moglie ha sempre un’aria così disperata... Che uomo strano. Ha all’incirca la mia età. Come fa a resistere in una situazione del genere? Io diventerei matto. Per la vergogna, per le complicazioni. Anche solo per il semplice fatto di dover chiedere denaro in prestito.
Però, quest’anno mi è davvero successo qualcosa. Un uomo mi ha baciato, e due mi hanno chiesto dei soldi in prestito.
29 dicembre
Sto scrivendo che è già tardi, prima di mettermi a letto. Sono appena tornato dal circolo. Stamattina sono andato in banca e ho prelevato milleduecento corone. Una banconota da mille, due da cento. Era molto tempo che non tenevo in mano così tanti soldi. È una sensazione sgradevole. Il mio prelievo ha colto di sorpresa gli impiegati della banca. Il funzionario allo sportello ha ripetuto due volte: «Milleduecento?». Di solito vado solo per versare. È spuntato fuori pure il vicedirettore. Si è messo a chiacchierare con me e a un tratto mi ha domandato: «Il professore sta per mettersi in viaggio?». Ero molto in imbarazzo. «No» ho risposto seccamente. Non ho dato spiegazioni. Che cosa gliene importa a loro? Ho avuto una sensazione davvero sgradevole.
Quando sono uscito dalla banca, ho avuto l’impressione che mi seguissero con lo sguardo. Mi sono cacciato in un’altra situazione che darà adito a pettegolezzi.
Sono andato subito a scuola. Mészáros mi stava già aspettando in sala professori. C’erano altri due colleghi nella stanza, perciò non abbiamo potuto dirci molto. Senza una parola ho fatto scivolare il denaro in mano a Mészáros. Mi ha afferrato il braccio: «Grazie» ha sussurrato. «Grazie infinite...». Mi sono sottratto alla sua stretta.
Stasera sono andato al circolo più tardi del solito. Ho assistito alla scena che sto per annotare. Non mi sono incollerito, ma rattristato. Provo una gran pietà per Mészáros. Entrando nella sala di lettura, l’ho intravisto nella sala adiacente, seduto al tavolo da gioco e circondato da un folto gruppo di persone. Guardavano tutti lui. Stava giocando con il vicesegretario comunale, un giocatore incallito. Mészáros teneva in una mano due carte, e nell’altra un fazzoletto, con il quale di tanto in tanto si asciugava la fronte. Aveva lo sguardo fisso, vitreo. Ho sentito che diceva con voce rauca: «Sto». Poi ha preso una carta. Quelli intorno sussurravano tra loro. Mészáros ha lanciato la carta. Ha tirato fuori il portafoglio. Ha buttato sul tavolo una banconota da mille. Tutti tacevano. Nel nostro circolo è raro che si giochino cifre così grosse. Il vicesegretario gli ha dato il resto senza dire una parola. Ho contato le banconote: settecento corone. Sette pezzi da cento.
Quel che ho visto mi ha messo in agitazione. Sono andato via di corsa, sono quasi fuggito prima che Mészáros si accorgesse della mia presenza. Mészáros mi fa pena. E mi vergogno, sì, provo qualcosa di simile alla vergogna. Ho terrore del momento in cui lo incontrerò di nuovo.
30 dicembre
Oggi al circolo ho sentito dire che ieri sera Mészáros ha perso settecento corone.
1° gennaio
Oggi a mezzogiorno a casa del preside, in occasione della tradizionale visita di Capodanno che siamo tenuti a fare al direttore d’istituto, ho incontrato Mészáros. È venuto verso di me di buonumore e mi ha amichevolmente stretto la mano. Non mi ha detto niente. Che uomo strano. Il preside ci ha riferito che il ministero ha accettato le dimissioni di Szilassy.
«Un giovane traviato» ha commentato.
I presenti gli hanno dato ragione, e Mészáros con più convinzione di tutti.
2 gennaio
Abbiamo ricominciato le lezioni, ma io non faccio che pensare a Mészáros. Vorrei tanto sapere gli sviluppi del caso. È già partita quella donna? Non mi è giunta notizia che ci sia un allievo di meno in seconda. Non voglio chiedere informazioni, potrei dare nell’occhio. Mészáros l’ho già incontrato varie volte, ma non mi dice nulla. Si comporta come se niente fosse. L’ho visto con un nuovo cappotto di pelle, come quelli che portano i proprietari terrieri. Oggi era accanto a me mentre ritiravamo gli stipendi, ma non mi ha dato le cinquanta corone. Magari ha intenzione di cominciare a saldare il debito dal mese prossimo.
In ogni modo oggi sono andato in banca e ho versato cento corone, il doppio della somma che deposito di solito. Non so proprio cosa possano pensare di me. Un giorno ne ritiro milleduecento, e poco dopo ne verso cento. Non posso certo spiegarlo a loro.
Domani interrogherò Madár.
4 gennaio
Ieri durante la ricreazione io e Mészáros ci siamo incrociati nel corridoio. Quasi senza accorgercene, ci siamo fermati.
«E allora?» ho sussurrato al colmo dell’imbarazzo, giusto per cominciare il discorso.
Mészáros ha guardato fuori dalla finestra:
«Abbiamo trovato un’altra soluzione» ha detto ad alta voce, come se stesse parlando di una faccenda normalissima. «Una soluzione molto più comoda. Be’, io vado, ciao».
Ha accennato un gesto di saluto con due dita tese, alla sua solita maniera, come fanno i piccoli nobili, e si è allontanato in fretta. Sono rimasto a guardarlo per un bel po’. È un uomo ben strano. Deve avere qualche problema. Quale altra soluzione avranno mai trovato? Non ci capisco niente. E niente più «Gáspár», niente più «compare», niente più strette di mano. Davvero un uomo strano.
Oggi ho cominciato le interrogazioni vere e proprie. Conosco il silenzio che cala in aula in queste occasioni. Ho aperto il mio libretto e ho cominciato a girare lentamente le pagine. Mentre lo faccio non guardo mai la classe.
«Madár» ho detto nel gran silenzio, perché ho visto la croce accanto al nome.
Ma a rispondere è stata un’altra voce, quella di Frideczky:
«Assente».
«Ha l’influenza» ha detto un’altra voce ancora. Era Teréz Neumann. Li ho scrutati rapidamente.
«Deve aver passato troppo tempo a spasso».
Non ho guardato la Cserey, ma deve aver capito ugualmente che la frecciata era indirizzata anche a lei. Per il momento può bastare, credo che abbia registrato. Non ho voluto essere più energico. Non so come si fa ad ammonire le studentesse. Ho interrogato per tutta l’ora. Halasi li ha lasciati in condizioni pietose per quanto riguarda la grammatica. Non posso certo far studiare da capo le coniugazioni a studenti di ottava. Affronterò la questione al consiglio docenti.
Non sono per nulla soddisfatto di questa classe.
7 gennaio
Oggi cinque assenti. Naturalmente, tutti raffreddati. Li conosco bene questi raffreddori prima degli scrutini: almeno un paio sono finti. Le ragazze invece non fanno assenze. Vengono sempre tutte e sei. Oggi ho interrogato la Zakár e la Lángos, le due che avevano sghignazzato alla vista della mia faccia gonfia. Proprio per questo sono stato piuttosto indulgente. Non ce l’ho con loro, non serbo rancore. Non voglio che si dica che il professore ha delle preferenze. Con le ragazze, d’altronde, sono convinto che sia meglio mostrarsi indulgenti. È la sola cosa che mi sento di fare nel loro interesse. Madár è ancora assente. È già il quarto giorno. Non credo che stia fingendo. Sono convinto che sarebbe in grado di rispondere all’interrogazione. Oggi ho pensato che dovrei preoccuparmi di lui. Dopotutto, sarebbe anche mio dovere... fargli visita in qualità di responsabile di classe. Vedrò cosa posso fare. Se sarà assente anche domani, me ne interesserò. So che è povero. Ho notato che aveva un cappotto troppo leggero. È un ragazzo dotato, ed è povero.
La Cserey non l’ho ancora chiamata. Oggi, verso la fine dell’ora, mi ha attraversato la mente l’idea di interrogarla. Avevo il suo nome sulle labbra. Stavo facendo scorrere la matita tra la B e la D. Con la C c’è solo lei. Non appena ho alzato gli occhi per chiamarla, ho visto che mi stava fissando, aveva già chiuso il libro, pronta a balzare in piedi per rispondere. Mi guardava fisso, con i suoi grandi occhi grigi. Mi è sembrata anche pallida, forse per l’apprensione. Mi sono sentito a disagio. Adesso, a posteriori, mi urta il fatto di essermi sentito così in imbarazzo. Non mi piace quando gli studenti indovinano le mie mosse. Io non ho uno schema determinato per le interrogazioni. Voglio rimanere imperscrutabile. Perciò, contro la mia volontà, non ho chiamato la Cserey. Ho detto: «Babuják».
È un ragazzo di origine slovacca. Uno spilungone un po’ tonto. L’avevo già interrogato, tre giorni fa, e per lui era stato un vero tormento. Non credeva alle proprie orecchie. Si è alzato in piedi come un sonnambulo, con un’espressione disperata. Il suo terrore era così evidente che molti sono scoppiati a ridere. Anche la Cserey ha riso. A quel punto mi sono pentito di non averla chiamata. Babuják non si decideva ad aprir bocca. Poi, con gran fatica, ha cominciato a leggere: Satyra VI. Otii laudes et vitae rusticae, i primi otto versi. È un testo che abbiamo visto e rivisto parecchie volte. Al secondo verso si è bloccato.
«C’è qualcosa che non capisce?» gli ho domandato, perché mi faceva pena.
«Ubi» ha detto, con la disperazione dipinta sul volto.
Una cosa del genere non mi era mai successa in tutta la mia carriera. È colpa di Halasi. Uno studente di ottava che non capisce ubi. Ci sarà da ridere agli esami di maturità, già mi immagino le scene.
Gli ho detto di sedersi. Mi faceva pena, poveretto. Ho visto che era sul punto di piangere. Ha i capelli biondo lino, lucidissimi perché se li unge di brillantina, e gli occhi azzurri. Non gli ho dato il voto. Mi sono sentito un po’ in colpa. Non volevo interrogare lui, ma la Cserey. Gli ho detto che questa satira celebra le delizie della vita di campagna. Una cosa che lui dovrebbe ben conoscere. Certo, se non sa che cosa vuol dire ubi... La classe ha riso. A questo punto li ho rimproverati. Che nessuno si senta in obbligo di ridere alle mie battute. Non ci tengo per niente.
Quest’anno per la prima volta mi accorgo che la mia professione mi è venuta a noia. Sono molto stanco. Vado malvolentieri a scuola. Sono felice quando sento suonare la campanella. Non vedo l’ora di tornarmene a casa a mezzogiorno. Sto bene seduto in camera mia, vicino alla finestra. Mi sento tranquillo solo dopo che ho chiuso dietro di me la porta di casa e posso finalmente riempirmi la pipa di tabacco. Anche il circolo mi annoia. Non ci ho più messo piede da quando ho visto Mészáros giocare a carte. Quanto a questo diario, lo tengo solo per abitudine; appena comincia a far scuro smetto di scrivere. Mi piace starmene seduto al buio per tutto il pomeriggio, fino all’ora di cena. Lentamente, ripenso a tutto quel che mi è successo, in ordine casuale, in uno stato di dormiveglia. Qualsiasi altra cosa mi annoia. Oggi pensavo di andare in pensione. Ne ho abbastanza. Ne ho abbastanza di tutto.
Non c’è niente che mi piaccia. Sono sempre imbronciato e scontroso. Non posso evitarlo. Adesso tutti i pomeriggi mi bevo una bottiglia di vino rosso. Da solo. È una novità, sto cominciando a prenderci l’abitudine. Mi fa piacere, direi quasi che ne ho bisogno. I giornali non mi interessano più.
Non ho più nemmeno voglia di andare a passeggio. Questa settimana non sono praticamente uscito. Oggi sono rimasto in sala da pranzo tutto il pomeriggio, ad ascoltare il canarino e il cardellino che cinguettavano.
Questa classe la porto fino alla fine. E l’anno prossimo andrò in pensione.
Sento che la mia strada è in declino. Forse quello di quest’estate è stato un ultimo tentativo. È sicuramente così. Si arriva al punto in cui è meglio farsi da parte. Non lo si pensa, non lo si prepara. Un giorno il corpo, lo spirito, le circostanze, tutto concorre a che ci si faccia da parte. Oggi pensavo che forse questo è l’inizio della morte. Non si muore così, da un momento all’altro; si tratta invece di un processo lento, che dura a lungo, forse addirittura anni. Fino a quando non si cede e ci si arrende. In bocca non sento più alcun sapore. Non ho più desideri. Credo che questa sia una forma di morte. Può durare ancora molto tempo. A volte, per un attimo, tutto si accende di una nuova luce, ma il buio dopo è ancora più forte. Non avrei mai immaginato che la morte potesse essere una cosa così mite. E che durasse così a lungo.
Non mi aspetto più niente. L’inquietudine se n’è andata. È come se tutto fosse passato. A volte sogno, ma dimentico sempre quel che ho sognato. Altre volte, da sveglio, mi scorrono davanti immagini, facce di persone di tanto tempo fa, ma non appena torno in me tutto si mescola.
9 gennaio
Stamattina, durante l’appello, mi hanno riferito che Madár è ancora ammalato.
«Ha la polmonite» ha detto una voce sottile. Ho alzato lo sguardo. Era la Cserey.
Era la prima volta che sentivo la sua voce. Ha una voce flebile e sottile. Non so come mai, ma era la prima volta che la udivo.
«È stato visitato da un medico?» ho domandato.
«Sì» ha risposto.
«Bene» ho detto.
Ho deciso che andrò a trovarlo. Durante la lezione mi chiedevo come facesse la Cserey a essere così informata della malattia di Madár. Adesso lo so: va a trovarlo. Non da sola, è vero. Ci va con la Neumann. Devo decidere che posizione prendere riguardo a queste visite.
Verso le cinque del pomeriggio sono andato da Madár. Era scuro ormai. Abita in periferia, negli alloggi di un macellaio. È una casa a un solo piano, con un ampio cortile, chiusa da un’alta recinzione. Non è stato facile arrivarci, sono stato assalito dai cani. La strada era buia e fangosa. Le nostre periferie sono davvero abbandonate a sé stesse. Nel cortile c’era un forte puzzo di porcile, il macellaio alleva anche maiali. È stato lui ad accogliermi. È un brav’uomo, di una certa età:
«Lo studente?» mi ha domandato. «Sta male, poverino. Ma il medico ha detto che se la caverà».
«Chi è stato a chiamare il medico?» gli ho chiesto.
«Le due signorine che vengono ogni tanto».
Ho capito subito a chi si riferiva. Non ho fatto nessuna osservazione, certe cose preferisco tenerle per me. Lui stesso ha precisato che le due signorine erano compagne di classe del ragazzo.
«Una è la figlia di Gábor Cserey» ha aggiunto.
«Lo so» ho detto io.
«L’altra è una ragazza giudea».
«Israelita» ho corretto. «È Teréz Neumann?».
«Sì, lei».
«È da molto che vengono a trovarlo?» ho domandato prima di entrare nella stanza di Madár.
Questo scambio ha avuto luogo in una stanza d’ingresso che serviva anche da laboratorio. Sul tavolo, dentro un enorme paiolo, c’era una gran quantità di salsicce crude all’aglio e di sanguinacci. Un forte odore d’aglio riempiva la stanza. Mi ha fatto tornare in mente la stanza in cui vivevo da studente. Abitavo presso una vedova, in una camera accanto alla cucina, e c’era sempre odore di aglio. Il macellaio si è accorto che stavo guardando le salsicce.
«No, non molto,» ha detto «da quando si è ammalato. Sa, questo povero ragazzo non ha nessuno, io sono vedovo. Viene mia figlia a pulire la sua stanza. È un ragazzo studioso, sta in piedi fino a mezzanotte. Ma è cagionevole di salute, poveretto. Io lo tengo a pensione perché sono suo parente. Da mangiare qui ne avrebbe, ma lui non mangia».
Quest’ultima cosa l’ha detta con aria quasi risentita, ma tutto sommato sono convinto che tratti bene il ragazzo. Ha una faccia bonaria, parla con accento dell’Alföld. La signora da cui stavo a pensione io da studente non era così buona e onesta. E non veniva mai nessuno a trovarmi quando stavo male.
Madár era su un letto alto e sembrava ancora febbricitante. Il soffitto era basso, l’aria viziata. Vicino al letto, in un catino, ho visto dei fazzoletti umidi. Sul bordo del letto c’erano un mucchio di libri e di quaderni. La stanza era arredata con pochissimi mobili. Una lampada a petrolio ardeva su una sedia lì accanto, mandando fumo.
«Come sta, Madár?» gli ho chiesto. «Che cosa le è successo?».
Voleva tirarsi su a sedere, ma gliel’ho impedito. Aveva gli occhi lucidi per la febbre. Gli ho tastato il polso, il battito era piuttosto accelerato.
«Adesso niente, professore» ha risposto tutto d’un fiato, con un filo di voce. «È passata. Il medico dice che ne avrò ancora per una settimana. Non era polmonite, si trattava solo di una leggera affezione. Prego, si sieda». Era nervoso. Mi accorsi che la mia visita l’aveva messo in agitazione. Aveva una vocina flebile come un bambino. Le lenzuola erano piuttosto sporche, intrise di sudore. Sul tavolo c’erano due vasi di frutta cotta e dei giornali, tra cui una rivista, «Nyugat».6 Non la conosco. Di sicuro gliel’avrà fatta avere la stessa persona che gli ha mandato la frutta cotta. Ho cercato con gli occhi il suo cappotto, ma non l’ho visto.
«Madár,» gli ho detto «sono contento che stia meglio. La prossima volta stia più attento. Lo so, lo so. Non vada troppo a spasso, figliolo, specie di sera. Per il momento, come responsabile di classe... le offro un piccolo sussidio dal fondo per gli studenti. Trenta corone. Vuole che la faccia visitare dal medico dell’istituto?...».
Ho visto che gli tremavano le labbra:
«Professore, io...» ma non ha continuato la frase.
Era molto turbato. Mi faceva una gran pena. Gli ho posato la mano sulla fronte:
«Quanto ha di febbre?».
Non era altissima, trentotto. Un ragazzo molto sensibile. Mi sono accorto che lo avevo messo in agitazione. Ho appoggiato il denaro sul tavolo, accanto ai vasi di frutta cotta.
«Non abbia fretta di tirarsi in piedi, figliolo» gli ho detto. «Può prendersi tutto il tempo. Ci penserà dopo a recuperare. Quando si sentirà meglio e avrà voglia di leggiucchiare qualcosa... adesso siamo arrivati alla sesta satira. Otii laudes... la conosce. Ma non ha importanza. L’essenziale è che lei riacquisti la salute. Lei è un ragazzo intelligente, si rimetterà presto in pari con il resto della classe. Se le servisse qualcosa... I suoi compagni vengono a trovarla?» gli ho domandato quasi senza volerlo.
«Sì, la Cserey e la Neumann» ha risposto tranquillamente. Senz’alcun imbarazzo. «Deve sapere, professore, che io do ripetizioni di algebra a entrambe. Cinque ore alla settimana».
«Bene» ho detto. «Allora saranno loro a tenerla informato di dove siamo arrivati. E soprattutto mi raccomando, non abbia fretta di rimettersi in piedi... Che Iddio la benedica. Se avesse bisogno, mi faccia sapere...».
Ero turbato. Dovevo fare qualcosa per quel ragazzo, fargli avere un cappotto. Non può andare in giro così, avrà certamente una ricaduta. Che cosa posso fare? Temo di offenderlo. Mi dava fastidio sentirmi così in imbarazzo.
«Kudlicsek le porterà un cappotto pesante» gli ho detto. «Mi raccomando, non una parola, figliolo. Per queste cose la scuola dispone di un fondo. Dal ministero» ho aggiunto per rassicurarlo. «Ha capito? Dunque, stia tranquillo e abbia riguardo, figliolo. E per qualunque necessità, mi faccia sapere. Mi mandi un messaggio. Tramite la Neumann. O la Cserey».
«La ringrazio moltissimo» mi ha detto con voce velata.
Temevo che si mettesse a piangere. Aveva ancora la febbre, poverino. Gli ho stretto la mano, che scottava ed era umida, e sono andato via. Sul portone i cani stavano di nuovo per sbranarmi. Il macellaio mi è corso dietro. Mi ha chiesto se volevo ordinare qualcosa, me lo avrebbe consegnato a domicilio. Potevo anche farlo. L’ho pregato di prendersi cura del ragazzo, e gli ho ordinato un chilo di salsicce di fegato. Forse avrei fatto meglio a ordinare il sanguinaccio. Non mi piace nemmeno, il fegato.
Domani vado a comprare un cappotto per Madár. Purtroppo non è vero che c’è un fondo per questo genere di spese. Ma non posso permettere che, una volta in piedi, se ne vada in giro con un cappotto da mezza stagione. Avevo pensato di dargliene uno che non uso più, facendolo adattare da un sarto – perché in un mio cappotto ci starebbe tre volte. Ma poi mi è venuto in mente che, quand’ero studente, anche a me è capitato di ricevere un cappotto smesso. Anch’io lo avevo ricevuto dal mio responsabile di classe, per Natale, proveniva da una raccolta di abiti usati. Ma era troppo lungo, mi arrivava fino ai piedi, e dovevo risvoltare le maniche. Avevo l’impressione che si accorgessero tutti che era di seconda mano, e questo mi faceva soffrire. Ancora oggi provo una sensazione sgradevole quando ci ripenso. Ora che ho deciso di dargli qualcosa, tanto vale che gliene compri uno nuovo. Non voglio che a cinquant’anni debba tornargli in mente un cappotto smesso.
Il fatto che Madár dia ripetizioni alle studentesse Cserey e Neumann spiega molte cose. Sono quasi felice che Madár mi abbia chiarito questa circostanza. Non c’è dunque da meravigliarsi se le ragazze vanno a trovarlo, finché è malato. Non ho proprio nulla da eccepire. Questa notizia mi ha tranquillizzato. È quasi lodevole che le ragazze facciano visita a un compagno malato.
11 gennaio
Ho mandato il cappotto a Madár. Gliel’ha portato Kudlicsek. È un cappotto grigio, di panno pesante. È costato quarantacinque corone. Non troppo. Ha pure un taschino per i sigari, dove si può mettere un fazzoletto. Il panno è di qualità accettabile. Con questo può andare a spasso quanto vuole, non prenderà più freddo.
12 gennaio
Oggi, durante la ricreazione, percorrevo il corridoio quando mi è venuta incontro la Cserey. Era imbarazzata, mentre parlava con la mano continuava a spostarsi una ciocca di capelli dalla fronte.
«Professore, mi scusi» mi ha detto. «Madár la ringrazia molto per il cappotto».
«Il cappotto?» ho risposto. «Ah, sì. Non c’è di che, sa, è stato il collegio docenti... va bene così, signorina».
Volevo dire che era stato il collegio docenti a fargli avere il cappotto. Non voglio che Madár si senta in obbligo nei miei confronti. So bene che il senso di gratitudine può essere un’arma a doppio taglio. Un cappotto del genere, se sai da chi viene, può ferire più di un’offesa. E io vorrei evitare una situazione simile.
«Sta meglio?» ho domandato.
«Sì, meglio» ha risposto la Cserey. «La settimana prossima potrà tornare a scuola».
Le ho detto che non è il caso di aver fretta. Non abbiamo aggiunto altro. Spero con tutto il cuore di non dovermi più occupare né di Madár, né della Cserey.
Non ho nessuna voglia di immischiarmi nelle faccende private degli studenti.
13 gennaio
Oggi è passato il postino. Mi ha recapitato del denaro. Cento corone. Da parte di Timár. I soldi erano stati spediti da Vienna. Sul biglietto c’era scritto solamente: «In acconto, Ágoston Timár». Timár! Perché me li ha mandati? Di sicuro è al verde, altrimenti mi avrebbe spedito l’intera somma. Perché me li ha mandati?
Mi ha dato una gran gioia l’arrivo di questo denaro. Non si resta mai delusi se si conosce la natura umana. Può darsi che anche Mészáros mi restituirà quel che mi deve. Non ho alcun diritto di nutrire sospetti nei suoi confronti. Probabilmente dal mese prossimo comincerà a saldare il suo debito. Le persone si rivelano sempre migliori di quanto si creda.
Mi ha molto rallegrato il fatto che Timár mi abbia mandato un segno di vita. Mi riempie di fiducia. È il primo giorno da mesi in cui sono di buonumore.
Siamo nel cuore dell’inverno. La città è sotto una spessa coltre di neve. Mi piacerebbe tanto scrivere a Timár, ma non mi ha dato l’indirizzo.
20 gennaio
Oggi per strada ho visto Madár, che è rientrato a scuola già da alcuni giorni, insieme alla Cserey. Il cappotto nuovo gli sta molto bene. Sembra un altro. Mi è venuto da sorridere, perché nel taschino dei sigari ci ha messo davvero un fazzoletto. Del cappotto mi aveva già ringraziato l’altro giorno. Il ragazzo ha un aspetto un po’ sciupato, ma ora che ha un cappotto nuovo forse si rimetterà del tutto in salute.
Oggi però il professore di ungherese si è lamentato di Madár. Dice che all’ultima riunione del circolo letterario studentesco ha presentato delle poesie a dir poco barbare. In versi sciolti, senza rima. Gli ho chiesto di farmene leggere una, e non ci ho capito nulla. Si intitolava Le esequie del pensiero. Ma perché mai un ragazzo così giovane vuole fare i funerali ai propri pensieri? Che assurdità.
Quand’ero studente io, i poeti scrivevano principalmente componimenti di argomento patriottico e liriche d’amore.
25 febbraio
Per più di un mese non ho scritto niente. Stiamo uscendo dall’inverno, è cominciato il disgelo. Oggi ho assegnato la quarta ode: Solvitur acris hiems grata vice veris et Favoni..., e ho richiamato l’attenzione degli studenti sul fatto che anche da noi la neve si sta sciogliendo.
Non ho altro da registrare. Siamo nel secondo semestre. Nemmeno all’inizio di questo mese Mészáros ha accennato in alcun modo a restituirmi il denaro che mi deve. Fa di tutto per evitarmi. Dev’esserci di sicuro qualche motivo.
Il cardellino è morto, probabilmente per via del freddo. Il canarino canta molto meno. Non c’è niente di nuovo, né intorno a me, né dentro di me.
Il preside oggi mi ha fatto notare con una battuta che negli ultimi tempi la mia barba ha un aspetto straordinariamente incolto. C’è del vero in quel che dice. Da un po’ di tempo la mattina mi riesce faticoso perfino vestirmi prima di uscire di casa. Non è l’unico ad aver notato che sto dedicando meno cura alla mia persona.
L’altro giorno, mentre camminavo per strada, all’improvviso mi sono accorto che ero vivo; non riesco a descrivere in altri termini questa sensazione. Era come se mi fosse venuto in mente solo in quel momento che ero vivo, che stavo camminando per strada, salutando le persone, chiacchierando con loro. È una cosa che non so spiegare – una specie di vertigine.
10 marzo
Oggi mi è capitato tra le mani il taccuino, e ho deciso di scrivere una cosa. Ci ho riflettuto a lungo, e credo che sia comunque meglio che io ne scriva.
In breve ecco di che si tratta.
Nelle ultime due settimane ho fatto per tre volte lo stesso sogno. La cosa più strana è che al risveglio non lo dimentico, ma mi resta impresso in ogni minimo dettaglio, chiaro e vivido come fosse un film. Ecco il sogno: ho quindici anni. Ho braccia e gambe lunghe, indosso i calzoni corti, e cammino per strada in una città che non conosco. A un tratto mi vedo venire incontro Madár, il mio studente. Invece di salutarmi, si ferma davanti a me e mi squadra con un ghigno beffardo. Penso subito che sono il suo insegnante, e per giunta il suo responsabile di classe, e mi indigno per quel sorriso sfrontato e sarcastico. Ma in quel momento mi vedo riflesso in una vetrina e mi accorgo che Madár ha ragione a trattarmi così, perché sono più piccolo di lui, ho quindici anni e porto i calzoni corti. Sono fuori di me dalla rabbia, e voglio a tutti i costi dimostrare a Madár che sono più vecchio di lui, che ho cinquant’anni, la barba, e anche un cappotto di pelliccia, sono il professore e lui ha l’obbligo di salutarmi per primo. Con sforzi tremendi comincio a tendermi e allungarmi come un ossesso, faccio roteare gli occhi, e cerco con tutte le mie forze e tutti i miei muscoli di far vedere a Madár che sono adulto, che ho la barba e tutto il resto. Contraggo anche le mascelle nel tentativo di farmi spuntare la barba, e inizio a dare strattoni all’orlo dei calzoncini, che mi arrivano alle ginocchia, per tirarli fino ai piedi. Ma Madár resta immobile dinanzi a me, con aria strafottente infila le mani nelle tasche di un cappotto grigio, dal cui taschino esce un fazzoletto, e mi dice: «È inutile, caro il mio signore, lei non sarà mai più vecchio di così». Dice proprio questo, e scoppia in una risata, mi fa un cenno di saluto con la mano e se ne va, voltandosi di tanto in tanto con quel sorriso beffardo sul viso. Io resto lì, impotente, pestando i piedi dalla rabbia, lo guardo mentre si allontana, e mi sforzo in ogni modo di riconquistare il mio vero aspetto, per correre dietro a Madár e dimostrargli che ha torto. Ma non c’è niente da fare, nella vetrina c’è sempre quell’immagine di un ragazzo di quindici anni. Nel frattempo mi passano accanto altre persone che conosco più o meno bene, tra cui anche Kudlicsek, e loro invece si levano il cappello e mi salutano dicendo: «I miei rispetti, signor professore...». Sento che sto per svenire, e dentro di me tutto si confonde.
Ecco, è tutto qui. Lo stesso sogno per tre volte nell’arco di due settimane. Un’osservazione che vorrei aggiungere è che ultimamente, da quando cioè mi capita di fare questo sogno, ma forse anche da qualche tempo prima, ho cominciato a provare una strana, acuta e improvvisa antipatia nei confronti di Madár. Il quale, ci tengo a sottolinearlo, non ha offerto alcun motivo per una tale ostilità. La verità è che studia molto, non sento che lodi nei suoi confronti e, anche per quanto riguarda il latino, è uno degli studenti migliori che abbia mai avuto. La sua condotta è impeccabile. Negli ultimi tempi ha smesso di frequentare il circolo letterario studentesco e di dar spettacolo con le sue poesie sconclusionate. Secondo il giudizio unanime del collegio docenti Madár è molto cambiato rispetto agli anni precedenti, e adesso è uno degli allievi più promettenti dell’istituto. Non lo vedo quasi più andare a zonzo. Ho saputo che ha cominciato a dare ripetizioni anche a due allievi di sesta, oltre alle compagne Cserey e Neumann, e così è impegnato altre due ore al giorno. Il suo atteggiamento verso di me è estremamente umile e rispettoso, si vede che è molto grato per quello che ho fatto per lui. Tutto dunque mi indurrebbe a nutrire sentimenti benevoli verso questo ragazzo e a dedicarmi con affetto alla sua educazione. Ho anche notato che la Cserey e la Neumann sono notevolmente migliorate in latino da quando Madár le segue, e l’insegnante di algebra è dello stesso parere per quanto riguarda la sua materia. Insomma, risulta ancora più incomprensibile questa mia forte antipatia, l’avversione quasi fisica che provo nei confronti di Madár. Durante la lezione evito di guardarlo. Mi dà fastidio il suono della sua voce. Quando mi capita di incontrarlo nel corridoio, giro la testa dall’altra parte. Ogni volta che devo entrare in ottava, non posso evitare di pensare che ci sarà anche Madár, e di colpo mi passa la voglia di far lezione. Non ricordo di aver mai avuto uno studente che suscitasse in me reazioni così spiacevoli. Tutto ciò non può essere la conseguenza del sogno, anzi, sono convinto che il sogno dia forma al sentimento che provo da sveglio.
Ho deciso di reprimere questa antipatia, che è immotivata e ingiusta. Cerco di aver a che fare con Madár il meno possibile e, se proprio non posso evitarlo, mi mostro gentile nei suoi confronti. Non mi piace quando mi guarda, c’è qualcosa di ambiguo nel suo sguardo. Non mi piace la sua faccia, i suoi foruncoli, il naso enorme.
Questo è tutto quello che ho da annotare sulle ultime settimane.
17 marzo
Domenica. L’aria è tiepida. Io risento sempre un po’ dei cambi di stagione. Mi rendono nervoso. Esco di più a passeggio, anche se le strade sono piene di fango.
A proposito delle mie ultime annotazioni, oggi posso aggiungere un incidente di cui mi vergogno. Ormai è successo. Non si può tornare indietro. Naturalmente si tratta di Madár. Di rado mi è capitato che uno studente mi tenesse la mente più occupata di questo Madár. La classe credo sia convinta che sia il mio prediletto. Deve aver detto a tutti che il Tricheco gli ha dato dei soldi e un cappotto invernale quando era malato. Io so benissimo che Madár non è il mio preferito. Ma ho evitato accuratamente di farglielo capire. Mi sono comportato sempre in modo amichevole con lui, ne sono certo. Il fatto che mi stia diventando di giorno in giorno più antipatico è una cosa che riguarda solo me. Ha un insopportabile sorrisetto complice. A volte vorrei proprio fargli abbassare la cresta.
In questi giorni ero più nervoso del solito. Giovedì, verso la fine dell’ora, ho chiamato Madár. Toccava a lui. Si è alzato tranquillo, e mi ha guardato in faccia. Adesso, con il senno di poi, posso anche ammettere di essermi sbagliato. Ma in quel momento avevo la netta sensazione che mi guardasse con arroganza, con troppa sicumera. In quell’istante la mia avversione per lui era così forte che sarei stato capace di picchiarlo. Una cosa incomprensibile. Ho voltato la testa per non guardarlo.
«Legga» gli ho detto. «Iam pauca aratro regiae iugera...».
«Iugera regiae» ha detto Madár con la sua voce nasale.
Lo so che non può farci niente se parla col naso. Deve avere un problema al setto nasale, forse è per questo che ha quel nasone. Ma stavolta la sua voce mi ha esasperato.
«Come ha detto?» ho chiesto guardandolo negli occhi.
«Iugera regiae» ha ripetuto, con aria sicura e supponente. Non aveva in mano il libro. «Il professore si è confuso. Non è regiae iugera».
E ha abbozzato un sorriso amichevole, un po’ timido. Io sapevo che in effetti non era regiae iugera. Me ne ero reso conto nel momento stesso in cui lo dicevo. È stato un lapsus. Dapprima, per un attimo ho pensato di annuire e lasciar cadere la cosa, il che sarebbe stata la mossa migliore. Ma quando ho scorto il suo sogghigno, non ci ho visto più. Tutti in classe sorridevano. C’era un gran silenzio.
In ventotto anni non mi era mai successa una cosa simile. Ho picchiato la mano sulla cattedra così forte da far rotolare la penna per terra. Ho urlato:
«Iugera regiae. Se lo metta bene in testa, giovanotto, e non si azzardi mai più a correggermi. Lei si sta prendendo troppe libertà».
Madár è sbiancato. Ha cominciato a balbettare:
«Ma io, mi scusi...».
«Si sieda» ho gridato. «Ha capito? Stia al suo posto».
Si è seduto, pallido come un cencio. Io invece ho preso il cappello e sono uscito dall’aula.
Una cosa del genere non mi era mai accaduta in ventotto anni. Ma che cosa mi succede? Che cosa mi prende? Sono già passati tre giorni, ma mi vergogno ancora. D’altro canto, provo una specie di sollievo. Madár non lo chiamo più. Non lo guardo nemmeno. Durante le lezioni ci sono momenti in cui sento di odiarlo profondamente.
20 marzo
Madár fa di tutto per attirare la mia attenzione. In qualche modo la cosa gli riesce pure, ma non nel senso in cui vorrebbe lui. Durante le lezioni siede in silenzio, e ogni volta che rivolgo una domanda in generale a tutta la classe alza la mano per rispondere; ma io interpello sempre qualcun altro. Mentre spiego, mi sento continuamente i suoi occhi addosso. Mi fissa, cerca disperatamente di incrociare il mio sguardo, con un’espressione implorante, umile e confusa. A volte ricambio, e lo fisso dritto negli occhi; allora lui, dopo un attimo, abbassa umilmente la testa.
Da qualche tempo, del resto, in classe si avverte una certa tensione. Io stesso sono molto più nervoso e impaziente del solito. Con enormi sforzi cerco di controllarmi. La cosa migliore che posso fare nell’interesse di Madár è cercare di ignorare la sua presenza.
Non lo posso vedere.
22 marzo
Non riesco davvero a capire perché non lo posso vedere. È una sensazione fortissima, molto netta, eppure non so da cosa viene. Ho tentato di analizzarla razionalmente; è inutile. So benissimo che Madár non ha fatto proprio nulla di male. Semmai, ero io ad avere torto, mi ero sbagliato io. Forse è stato un po’ indelicato da parte sua farmelo notare, tutto qui. C’è un altro aspetto da considerare: fino a poco tempo fa mi era simpatico. Provavo compassione per lui. Gli ho dato del denaro, gli ho comprato un cappotto. Mi ero un po’ immedesimato, mi sembrava di rivedere in lui la mia vita da studente. E invece da tre settimane è come se avessi saputo qualcosa sul suo conto che ha scatenato in me questa forte avversione. In verità non ho saputo niente su di lui. Se non giudizi a suo favore. È diligente, è volenteroso. Ho sentito dire che ha cominciato ad applicarsi con profitto perfino nell’educazione fisica e nel disegno a mano libera. Si capisce dove vuole arrivare: questi sono gli ultimi mesi dell’anno. Se continua a impegnarsi così, supererà gli esami di maturità con il massimo dei voti. E questo significa molto per lui; se il collegio docenti lo promuove con «ottimo», avrà diritto a una borsa di studio e all’esenzione dalle tasse universitarie. È in gioco il suo futuro, la sua carriera. Devo riconoscere che ora come ora è sulla buona strada. Io, in tutta onestà, non posso che dargli un «ottimo». Questo è fuori discussione.
Il suo sguardo, che mi sento costantemente addosso, quello sguardo così umile, come a implorare perdono, è insopportabile, mi irrita nel profondo. È vero, mi basta rivolgergli un’occhiata perché abbassi subito gli occhi. Perché non posso soffrire questo ragazzo? Cos’è accaduto tra noi? Nella mia lunga carriera non mi era mai capitato di provare un’antipatia così violenta e immotivata per un mio studente. Non riesco a capire che origine ha. Non so che fare per contrastarla. Sento di essere ingiusto. A volte mi sembra di essere a un soffio dal fugare questo terribile malinteso. Ma c’è sempre qualcosa che mi trattiene. Un sentimento del genere non nasce dal nulla. Ci deve pur essere una ragione. L’unica cosa che posso fare è sforzarmi di essere il più equo possibile nei suoi confronti.
22 marzo
Dormo male. Ho ricominciato a frequentare il circolo, dove pare che Mészáros non si faccia più vedere. Giocava a credito, cosa mai accaduta prima. Ma non è certo il peggio che circola sul suo conto. Che cosa gli è successo? Sarà demenza senile? Dicono che ormai passa le notti da quella donna. Sua moglie sa tutto, e il ragazzino ha vuotato il sacco a scuola. Il preside per il momento non vuole intervenire, per riguardo all’età di Mészáros e alle sue amicizie altolocate. Dicono che sia pazzo di questa vedova, di ventiquattro anni più giovane. La situazione è incresciosa anche per l’istituto. Si è venuto a sapere che alla fine dell’anno gli ho prestato dei soldi. È andato a sbandierarlo in giro, vantandosi addirittura di godere ancora di un po’ di credito. È proprio un miserabile. Alcuni mi hanno compatito per aver gettato via così il mio denaro. Ma ho respinto la loro commiserazione, facendo anche una piccola scenata. Ho mentito. Ho raccontato che Mészáros mi sta restituendo quel che mi deve.
Naturalmente non è vero niente; anche se ci incontriamo tutti i giorni, Mészáros non ha mai mostrato la minima intenzione di saldare il suo debito. È vero che a stento ci rivolgiamo la parola. Come se non fosse successo niente. Che dovrei fare? Al circolo non si parla che della vicenda di Mészáros, in tutti i particolari. La vedova la conoscono in molti e, a quanto si dice, Mészáros non sarebbe nemmeno il suo unico amante. È inconcepibile quello che gli è accaduto. Non lo condanno, ma non riesco a capirlo. Alla sua età, poi... è come se una cosa del genere succedesse a me. Inconcepibile.
23 marzo
La mia governante si rivela una vera buona a nulla sotto molti punti di vista. Oggi a mezzogiorno l’ho sgridata violentemente. Lo ammetto, negli ultimi giorni sono di pessimo umore. Ma si può sapere perché si ostina a lasciare aperta la porta tra la sala da pranzo e la cucina? Quando torno a casa nel pomeriggio, la casa è invasa dagli odori: aglio, grasso rappreso, sciacquatura di piatti. Non lo sopporto. Quante volte l’ho pregata di tenere chiusa la porta della cucina. Oggi era di nuovo aperta. A sentire quella puzza mi torna in mente la stanza in cui vivevo da studente, accanto alla cucina. L’ho rimproverata. Purtroppo con più forza di quanto volessi. Poveretta, è scoppiata in lacrime. Forse dovrei cercare di consolarla. O chiederle scusa? Escluso. Si faccia forza da sola.
A poco a poco le giornate sono più calde. Mi alzo presto. Ho ripreso l’abitudine di passeggiare sui Bastioni prima di andare a lezione.
25 marzo
Ovunque io vada, vedo Madár. Sul corso: Madár. Sui Bastioni: Madár. Sono soltanto coincidenze o mi sta perseguitando? Più probabile che sia un caso: la città è piccola. Forse andava anche prima nei luoghi in cui vado io, solo che non me ne accorgevo. Non è quasi mai da solo, si accompagna con i suoi allievi: a volte quelli di sesta, altre volte le compagne Neumann o Cserey. Di rado con le due ragazze insieme. Mi saluta sempre con deferenza, abbassando il berretto quasi fino a terra. Se siede su una panchina e io gli passo davanti, balza in piedi e si inchina. Io ricambio il suo saluto come farei con chiunque altro. In silenzio. Sfiorando con le dita la tesa del cappello.
Ha quasi sempre dei libri con sé. Può darsi che stia tornando dalla casa dei suoi allievi, o che vi si stia recando. L’ho visto sui Bastioni, seduto su una panchina a studiare. Si capisce, ora che fa più caldo preferisce studiare su una panchina, anziché a casa, in quella stanzetta buia e senz’aria. Non c’è nulla di strano, non ci trovo niente da ridire. Ma non sopporto di vederlo. Lo sento quando mi viene incontro. Volto la testa dall’altra parte. C’è qualcosa in quel ragazzo che non posso proprio soffrire.
Sarà il suo sguardo. O la sua voce. O la sua faccia. Non lo so. Poveretto. A volte mi fa quasi pena, perché lui è innocente. Ma non riesco a pensare a lui con il cuore sereno.
27 marzo
Oggi è successo un altro di quegli episodi che aumentano la tensione tra me e la classe. A ben vedere, una cosa da nulla. Ho cercato di controllarmi. Ma dall’altro lato... eravamo su Tacito, e a un certo punto si faceva riferimento a un passo del capitolo precedente.
«Chi sa dirmi quale?» ho chiesto. Speravo che molti di loro lo sapessero. Silenzio di tomba. Anche le ragazze tacevano. Trentatré ignoranti. Ho guardato con aria speranzosa in direzione di Willinszky, che ha sempre «ottimo». Teneva la testa bassa. Solo una mano era alzata, soltanto una. Una mano lunga e arrossata, che svettava sopra tutte quelle teste chine sui banchi. La mano di Madár, naturalmente.
Ho atteso per circa trenta secondi. Non sapevo come cavarmela. Poteva essere il momento giusto per riconciliarsi con Madár. Sarebbe bastato dire: «Su, lo dica lei». Ma non sono riuscito a pronunciare queste semplici parole. La mano era alzata già da mezzo minuto. Sentivo su di me lo sguardo di Madár, quello sguardo implorante che mi cingeva perennemente d’assedio.
«Bene» ho detto senza scompormi. «Uno lo sa. Gli altri trentatré lo ignorano. Ne prendo atto. Andiamo avanti».
La mano è ricaduta sul banco. L’ha abbassata lentamente, a fatica, come se non credesse alle proprie orecchie. Ho sentito che il suo sguardo cambiava. Non ho potuto fare a meno di guardarlo. Per un attimo ci siamo fissati: io con aria truce, lui per la prima volta senza umiltà, ma con un’espressione seria, quasi dura. Per un attimo ci siamo guardati con aria di sfida. Poi ha ceduto, chinando la testa sul libro. Mi vergogno a dirlo, ma ho goduto di questo meschino trionfo. Mi vergogno, ma ho provato un gran piacere. Se mi avesse fissato un secondo di più con quell’ostinazione, non so cosa sarebbe successo. Forse mi sarei alzato, sarei andato da lui e l’avrei picchiato. Non so cosa sarebbe successo. Mi sentivo pulsare le tempie.
In classe c’era un silenzio pesante. Nessuno osava muoversi. Avevano capito che mi ero sbarazzato di Madár. In quel momento l’ho capito anch’io, ho capito che il mio sentimento era più forte di me. Non avevo potuto farne a meno.
Siamo andati avanti a leggere. Probabilmente ero molto pallido.
28 marzo
Stamattina, durante la ricreazione, in corridoio, all’altezza della sala professori, all’improvviso qualcuno mi si è parato davanti. Mi sono ritratto. Era Madár.
«Professore, la prego, io...» ha cominciato, tremando come una foglia.
«Cosa vuole?» gli ho detto. «Cosa vuole? Come osa?».
Ho fatto un passo indietro. Madár ha sollevato una mano. Aveva le labbra esangui, e continuava a tremare. Con la sua voce nasale ha detto:
«Professore, la prego... vorrei solo... Se per caso ho offeso in qualche modo il signor professore...».
Ha tirato un sospiro profondo:
«Le chiedo perdono... mai, le giuro, non è mai stata mia intenzione...».
Gli è mancata la voce. Stava per scoppiare a piangere. Mi guardava come un cane bastonato. Ci ho messo un po’ per ritrovare il mio tono di voce:
«Cosa vuole?» gli ho detto poi. «Con quale diritto... Lei non può offendermi in alcun modo. Chi si crede di essere?».
E siccome stava lì impalato gli ho detto:
«Torni subito in classe».
E sono entrato in fretta nella sala professori. Ho dovuto mettermi a sedere, mi batteva il cuore. Per alcuni minuti l’ho sentito battere all’impazzata. Nemmeno adesso posso dire di aver recuperato del tutto la calma.
Devo assolutamente trovare un sistema per eliminare questa antipatia. Ma il sentimento è più forte della volontà. Oggi pomeriggio non ho potuto fare a meno di pensare che, se Madár non venisse più a scuola, ne sarei felice.
29 marzo
A quanto pare, Madár ha cambiato tattica. Non ha più fatto una mossa. Né ieri, né oggi. Non ha alzato la mano nemmeno una volta. Se ne sta seduto al suo posto, immobile. Non mi sento più il suo sguardo addosso. Oggi, con circospezione, gli ho lanciato un’occhiata per ben due volte: stava leggendo. Non mi guarda più. Non cerca più di rispondere. Se faccio domande alla classe, non alza la mano insieme agli altri. È evidente che ha deciso di cambiare tattica.
Prima o poi capirò perché non sopporto Madár, devo assolutamente capirlo.
3 aprile