LA RUSSIA RIABILITA STALIN
Centro Studi Problemi Internazionali
giugno 2013
di Cristina Carpinelli Comitato Scientifico, CESPI
Eric Hobsbawm
“Gli storici sono indispensabili al nazionalismo quanto i coltivatori di oppio del Pakistan lo sono per i tossicodipendenti: entrambi forniscono le materie prime per il mercato”.
Il 5 marzo 2013, in occasione del 60° anniversario della morte di Iosif
Vissarionovič Džugašvili, detto Stalin, si sono svolte in Russia solenni commemorazioni. Dopo oltre mezzo secolo, la figura del “piccolo padre” (batjuška) ritorna ancora in auge. La sua popolarità è, infatti, cresciuta nell’ultimo decennio: il 49% dei russi esprime un giudizio positivo su di lui, il 36% lo considera il personaggio storico più importante del paese (Euronews).
In Georgia, dov’è nato, è ricordato come un grande leader. In base a un sondaggio condotto tra un campione di cittadini russi nel 2011 dal Centro di ricerca sull’opinione pubblica “Levada” di Mosca, il cui direttore è Lev Gudkov, “Stalin avrebbe svolto un ruolo complessivamente positivo nella vita del paese, nonostante le repressioni (negli ultimi 8-10 anni questa opinione risulta condivisa mediamente da più della metà degli intervistati: 51-53%; mentre una valutazione negativa dell’operato di Stalin è espressa dal 30-33%). (…) La maggioranza assoluta dei russi se da una parte ritiene che non sia assolutamente giustificabile che il popolo sovietico abbia avuto tante vittime durante l’epoca staliniana, dall’altra però sostiene che “senza Stalin la guerra non sarebbe stata vinta” (68% dei russi)”.
I cittadini russi non rinnegano i crimini di Stalin, ma in un momento di grandi incertezze indotte dalla crisi globale, che si è manifestata anche in Russia dal 2008, in presenza di uno Stato sempre più corrotto e coercitivo, dove mancano forti riferimenti morali e intellettuali, essi esprimono in ultima analisi un’opinione favorevole nei confronti dello statista georgiano, “reagendo alla frustrazione della conoscenza delle repressioni staliniane con il desiderio di chiudere un occhio su tutto quanto è avvenuto ” (Lev Gudkov). Molti sono i russi che lo considerano, infatti, “una persona che ha saputo come portare avanti le cose e tenere tutto quanto sotto controllo”.
Putin ha subito colto l’importanza del potenziale unitario dell’identità nazionale in un clima di prostrazione della società, e ha fatto della memoria storica il collante di una rinnovata strategia di “nationbuilding”, entro cui la figura di Stalin ha acquisito un ruolo centrale.
Ma Oleg Chlevnjuk, senior researcher all’Archivio di Stato della Federazione russa (Mosca) ha sostenuto sulle pagine del quotidiano “The Moscow Times” che “anche sotto Stalin il tasso di criminalità era molto alto, i burocrati erano corrotti e la media delle persone viveva in assoluta povertà”. Secondo lo storico, questi miti non sono altro che il riflesso delle ansie per la Russia contemporanea: “Le preoccupazioni per la corruzione, il crimine e lo status del paese hanno dato vita a un passato immaginario”. Per il sociologo russo Lev Gudkov: “La verità sull’era staliniana è stata cancellata, sostituita da un culto devoto per l’uomo forte, il leader efficiente. Il valore di un grande Stato, la tutela della sua integrità e della sua potenza giustificano ogni mezzo usato dalla politica. Inoltre, si conferma l’incommensurabilità degli obietti della politica dello Stato o dei significati valoriali dello Stato rispetto ai valori e alle opinioni del semplice cittadino, ivi compreso il valore delle vite umane”.
Su decisione dell’amministrazione comunale di Volgograd, in occasione della parata, tenutasi il 2 febbraio 2013, che ha celebrato il 70° anniversario della vittoriosa battaglia di Stalingrado, la città ha ripreso per alcuni giorni il suo nome originario: Stalingrado, appunto (era stata così denominata nel 1925 in riconoscimento del ruolo svolto da Stalin e dagli abitanti della città nella guerra civile contro le truppe anti-bolsceviche che seguì la Rivoluzione d’Ottobre). E tornerà ad essere chiamata la “città di Stalin” in tutti gli anniversari legati alla storia militare nazionale. Concorre all’idea di ribattezzare, anche se non per sempre, la città di Volgograd (acquisì il nome di “città del Volga” nel 1961, in seguito alla “destalinizzazione”), il sentimento che la Russia ancora oggi sia sotto la minaccia di un Occidente aggressivo.
Il presidente russo Vladimir Putin ha partecipato alla grande sfilata militare, con centinaia di soldati vestiti con l’uniforme dell’Armata Rossa. Alla vigilia della stessa, Putin aveva affermato:
“Dobbiamo fare di tutto per mantenere viva la memoria di Stalingrado. Dobbiamo combattere contro i tentativi di raccontare bugie sugli eventi della Seconda guerra mondiale e contro coloro che mistificano quei fatti e che spudoratamente cancellano gli atti eroici di coloro che liberarono il mondo”.
Inoltre, dal 2 febbraio fino al 9 maggio, in occasione delle celebrazioni della vittoria del Secondo conflitto mondiale, cinque autobus con l’effige di Stalin sulle fiancate hanno circolato per le vie delle città di Volgograd, Čita e San Pietroburgo. L’iniziativa non è nuova. È ripetuta da almeno tre anni. Alcuni leader dell’opposizione hanno espresso la loro indignazione, sottolineando che la vittoria della Grande Guerra Patriottica “non è stata ottenuta grazie al genio militare di Stalin, ma grazie alla resistenza eroica del popolo russo”. L’ombudsman del Cremlino, Vladimir Lukin, ha dichiarato che si tratta di una decisione “demagogica”, che “insulta la memoria dei caduti di Stalingrado”.
Queste iniziative rientrano nel clima di patriottismo promosso dalla Russia di Putin. La riproposizione dell’orgoglio russo è il cavallo di battaglia del conservatorismo autoritario del presidente russo. E l’autoritarismo come tipo di sistema socio-politico ha bisogno di appoggiarsi alla tradizione. Questa era stata rispolverata con diversi interventi: nel 2001, un anno dopo la sua prima “incoronazione” a presidente del paese, Putin aveva riabilitato la vecchia melodia dell’inno nazionale sovietico e per il testo aveva richiamato in servizio il poeta di Stato Sergej Michalkov, già autore dei testi degli inni sovietici del 1944 e 1977. Aveva giustificato questa scelta, dichiarando che “i valori russi fondamentali sono il patriottismo, l’amore per la propria patria, per il proprio popolo, per i propri principi culturali. Tutto ciò fa di noi una nazione, che è la fonte della nostra unicità, di tutto ciò di cui possiamo essere fieri“.
È noto che in Russia il principale canale di riproduzione del mito staliniano è costituito dalla televisione, trasformata in un potente meccanismo di propaganda e manipolazione dell’opinione pubblica. Dalla fine del 2003 al maggio del 2005, la televisione aveva mandato in onda ogni giorno per alcune ore film o documentari a sfondo patriottico.
Sempre dentro questa campagna di nazionalizzazione della memoria, la Russia aveva lanciato nel 2005 una nuova emittente televisiva “Svezdà” (The Star), il primo canale televisivo a carattere militare patriottico, che aveva come obiettivo quello di propagandare la retorica della madrepatria. In anni più recenti (2007, 2008, 2009 e 2010) era stata trasmessa la serie-Tv “Stalin-live” (40 episodi), che ripercorre tutta la vita dello statista, esaltandone le sue doti di salvatore del popolo sovietico, della patria e, persino, di tutta l’umanità, avendo sconfitto il nazismo. Nella seconda metà del 2008 l’emittente televisiva Rossija-1 aveva mandato in onda il programma “Imja Rossija” (Il nome Russia), che aveva come obiettivo la scelta delle più importanti personalità della storia russa, attraverso il meccanismo del voto via internet, via radio e del televoto. Il programma era strutturato in maniera similare all’inglese “100 Greatest Britons”.
Il nome del vincitore fu annunciato nel dicembre dello stesso anno. A classificarsi primo fu l’eroe nazionale Aleksandr Nevskij, seguito dal primo ministro russo Pëtr Stolypin e dal Segretario generale del Pcus Stalin.
Quest’ultimo era stato votato perché simbolo insigne della grandezza della Russia, sinonimo di gloria nazionale. Nel 2009 veniva introdotto nelle scuole medie superiori (classi 10° e 11°) il manuale di storia contemporanea “Storia della Russia (1945-2008)” di Aleksandr Filippov, Aleksandr Danilov e Anatolij Utkin, dove contro le “distorsioni storiografiche” la figura di Stalin veniva riabilitata. Lo statista era qui raffigurato come un
“manager efficiente”, che aveva realizzato la veloce modernizzazione della Russia.
L’inedita esaltazione dei meriti dello Stalin modernizzatore aveva spesso offuscato la condanna dei crimini da lui commessi, anche nelle parole di Vladimir Putin. Lo storico russo, ed ex deputato liberale, Vladimir Ryžkov, aveva denunciato su “The Moscow Times” che nel nuovo manuale erano giustificati tutti i crimini di
Stalin durante la Seconda guerra mondiale. Tra questi, “la firma del Patto Molotov-Ribbentrop, l’invasione della Finlandia e l’annessione degli Stati baltici, della Polonia orientale e di parte della
Romania”. Il manuale non solo giustificava i crimini di Stalin, ma l’adorazione per la Russia stalinista e la glorificazione di Putin erano temi costanti. Nella collana “Žizn’ zamečatel’nych ljudej” (Biografie di persone famose) vengono ogni anno pubblicati studi sempre più numerosi dedicati a politici, militari, scienziati, scrittori e artisti protagonisti del secolo. Predomina un interesse per personaggi quali Stalin, Lenin e Trockij, con particolare attenzione verso il primo.
Un buon esempio è costituito dall’ampia monografia dedicata qualche anno fa da Vladimir Nevežin a Stalin, dove, con ricco apparato bibliografico scientifico, veniva condotta un’approfondita analisi di alcuni suoi discorsi pubblici pronunciati in diverse occasioni negli anni 1933-1945 (“Stalin o vojne. Zastol’nye reči - 1933-1945 gg.”, 2007).
Grande diffusione di massa avevano avuto anche altri libri di storia patriottica (“otečestvennaja istorija”), dove centrale era sempre la figura di Stalin: “Stalin davanti al giudizio dei pigmei”(2008); “Perché è necessario Stalin”(2008); “L’impero popolare di Stalin” (2009); “Attenti! Arriva Stalin. La segreta magia del Leader” (2009)”; “Stalin vivo” (2010); “L’Urss - la civiltà del futuro. Le innovazioni di Stalin” (2010). La casa editrice “Eksmo” tra il 2010-2011 aveva pubblicato la serie monografica “Lo stalinista”. Opere di questa serie sono: “Berija. Il miglior manager del XX secolo”, che tratteggia un quadro apologetico del personaggio; “Perché hanno ucciso Stalin? Il crimine del secolo”; “Stalin proibito”; “Inorgoglirsi, non pentirsi. La verità sull’epoca di Stalin”; “1937. La giustizia di Stalin. Nessun appello!”; “Stalin, il vincitore. La guerra santa del Leader”; “Il manuale dello stalinista”.
Il denominatore comune di tutti questi libri era lo spirito nazionalista che li animava, il misconoscimento della natura e della portata delle purghe e delle repressioni di massa degli anni Trenta, archiviate come “miti antisovietici” o “calunnie degli storici occidentali”. Nel 2010 era stato pubblicato il libro “Storia della Russia 1917-2009” di Aleksandr Barsenkov e Aleksandr Vdovin dell’Università Statale di Mosca. Il libro, originariamente pensato come manuale universitario, era un ottimo esempio di “neo-stalinismo storiografico”. Era stato definito dal giornale “The New Times” un tentativo di “far indossare a Stalin un vestito candido”.
Nell’estate del 2009 era ricomparsa sul muro della stazione Kurskaja della metropolitana di Mosca l’altisonante frase: “Stalin ci ha cresciuti nella fedeltà verso il popolo e ci ha ispirati nel lavoro e nelle imprese eroiche” (la frase era stata ripresa dalla versione originale dell’inno sovietico. Negli anni ’50, quella frase era stata tolta dall’inno su disposizione di Chruščëv). La riapparizione della frase sul muro non era casuale. Sergej Michalkov, l’uomo che aveva composto le liriche di tutte e tre le versioni dell’inno sovietico e russo (quella stalinista, post-stalinista e post-comunista) era morto a 96 anni proprio il 27 agosto di quell’anno.
Oggi in Russia la ricorrenza del 4 novembre, Giornata dell’Unità nazionale (data che risale al lontano 4 novembre 1612, quando, dopo i lunghi anni dei Torbidi, i russi riuscirono a trovare la via dell’unità per difendere la sovranità del paese minacciata dagli invasori stranieri e dai traditori), è ricordata con solenni celebrazioni e liturgie, perché questa possa rappresentare “la giornata dei buoni propositi, in cui ognuno si senta figlio della Patria”.
Una ricorrenza, in cui non tutti si riconoscono ancora, ma il cui scopo è di far dimenticare nel tempo quella del 7 novembre (giorno della Rivoluzione d’Ottobre). “Ci vorrà del tempo prima che la gente dimentichi il 7 novembre con il suo rituale sovietico” - afferma il politologo Leonid Rešetnikov - “Per decenni dopo la rivoluzione fu imposta la festa del 7 novembre. Chi non era d’accordo andava incontro alle repressioni del regime. Adesso possiamo chiederci con calma se la festa del 4 novembre sia una festa oppure no. Ma si fa strada l’idea che in essa c’è il simbolo di una nuova rinnovata unità nazionale”.
Nell’ambito della riforma dell’istruzione secondaria superiore (2012), con lo scopo di dare lezioni finalizzate all’educazione degli scolari nello spirito delle idee patriottiche, e per svolgere lavori di ricerca sui “campi della gloria militare”, era stato introdotto il nuovo corso di storia politica patriottica: “Russia nel mondo”. Tra gli obiettivi elencati nel testo per illustrare la riforma, si poteva leggere: “delineare uno sguardo sul mondo con gli occhi di cittadino russo, secondo il punto di vista degli interessi nazionali della Russia”; e ancora, “formare la capacità di contrastare le falsificazioni storiche ai danni degli interessi nazionali della Russia”.
Nel 2011 un gruppo di difensori dei diritti civili e politologi aveva chiesto all’allora presidente Medvedev di avviare una campagna di “destalinizzazione”, senza la quale si ritenevano impossibili sia la “modernizzazione della Russia” sia il “consolidamento dello stato di diritto” proclamati dallo stesso Medvedev. Ma Medvedev aveva risposto che “sulla base di quanto avvenuto negli ultimi vent’anni, il periodo sovietico e soprattutto l’epoca staliniana appaiono come un periodo se non ideale almeno romantico, un periodo di successi nel lavoro e nella guerra. Il simbolo di questo periodo è proprio Stalin. (…) I liberali vogliono distruggere Stalin in quanto capiscono che oggi, di fronte alla minaccia di una totale dipendenza dall’Occidente, nel paese cresce la domanda sociale di una personalità come quella di Stalin”.
Parole che corrispondevano agli stereotipi ideologici della guerra fredda, poiché vedevano nell’Occidente il nemico esterno da combattere, che vuole imporre alla Russia una democrazia tale da trasformare il paese in una colonia-riserva di materie prime.
La figura di Stalin incarna oggi il simbolo che oppone in Russia i diversi schieramenti politici. Costituisce l’elemento determinante della mitologia politica, utilizzata sia dal Cremlino per legittimare il regime di Putin sia dai suoi oppositori (comunisti e liberaldemocratici) per criticare il presidente e il partito al potere “Russia Unita”, pur se da posizioni contrapposte. Nel contesto attuale della Russia, il richiamo a questa figura svolge un ruolo importante di restaurazione di una “ideologia dello Stato centralizzato forte”. Negli anni ’90, il nome di Stalin, dopo la dura critica dello stalinismo fatta nel periodo della perestrojka e post-perestrojka, era pressoché scomparso, per tornare ad avere una funzione significativa con l’avvento di Putin. Il crollo dell’Urss aveva provocato un forte trauma all’identità collettiva. Per questo, Putin, con lo scopo di rafforzare il suo potere, aveva rotto con la riabilitazione di zar e zarine (riabilitazione legata al nome del suo predecessore, Boris El’cin), e aveva fatto del richiamo al grande passato dell’Impero sovietico e della rinascita nazionale il suo cavallo di Troia.
Tra i simboli della Grande Potenza un ruolo centrale era svolto dalla vittoria della Seconda guerra mondiale e, quindi, da Stalin in quanto comandante in capo delle vittoriose forze armate sovietiche. Dice bene lo studioso Mariusz Wołos (ved: “La storia dell’Unione Sovietica e delle relazioni sovietico-polacche”, Roma, 2010) quando sostiene che nella storiografia russa contemporanea, “ancora oggi è proprio questa guerra che, più di qualunque altro avvenimento nella storia della Russia e dell’Urss, costituisce il principale elemento di formazione della coscienza storica dei russi contemporanei. Lo testimoniano nel migliore dei modi i sontuosi festeggiamenti del 9 maggio: Giorno della vittoria sulla Germania nazista e fine della seconda guerra mondiale, una data che supera di gran lunga le altre festività celebrate dai russi”.
Nell’opera di riabilitazione dell’“uomo di acciaio”, i crimini del regime staliniano e le repressioni di massa sono stati minimizzati per dare spazio alla figura di Stalin come “il vincitore della Grande guerra patriottica: stratega geniale e comandante dotato di capacità politiche straordinarie”. Il suo pragmatismo e il suo presunto grande senso di realismo politico hanno velato quasi del tutto le decisioni crudeli dello statista. Il tema del “leader”, del vincitore di guerre, nella struttura del mito nazionale, è molto importante per la coscienza collettiva, perché compensa complessi nazionali d’inferiorità e umiliazione.
In quest’opera complessiva di nostalgica mitizzazione della storia, è riapparso sulla scena, durante le celebrazioni del 60° anniversario della morte di Stalin, un libro di memorie scritto dal decano di Canterbury, Johnson Ewlett, detto “The Red Dean of Canterbury” (per il suo tenace supporto all’Unione sovietica e ai paesi ad essa alleati), che aveva avuto modo di visitare l’Urss due volte negli anni Trenta (1934 e 1937).
Nel 1941, il reverendo raccolse i resoconti “positivi” dei suoi viaggi attraverso l’Urss nel libro “The Soviet Power”, dopo aver sottolineato di aver visitato “cinque Repubbliche Sovietiche e numerose città Sovietiche”, camminato per “lunghissime ore in varie occasioni e completamente da solo”, e visto “tutte le zone delle varie città e dei villaggi attraversati, ad ogni ora del giorno e della notte”. Il libro, concentrato sugli anni Trenta dell’Urss, è un esempio di esaltazione di un’epoca contrassegnata da grandi conquiste. Sono, infatti, i successi di epoca staliniana, nell’ambito del processo di modernizzazione del paese, il fulcro delle memorie. Il volto crudele della Russia sovietica che si era concretizzato nei gulag, nella repressione, nel Grande Terrore della seconda metà degli anni Trenta, è stato completamente ignorato dall’autore, poiché ha voluto “soprattutto mettere in evidenza quegli aspetti che gli sono apparsi veramente creativi e fondamentalmente buoni”.
Ne emerge una rappresentazione agiografica e romantica del periodo, che (forse) piace per il messaggio positivo ed entusiasta che è in grado di comunicare. Dopo la guerra, il decano fu insignito all’Ordine della Bandiera Rossa del lavoro per il suo “eccezionale operato come presidente del comitato misto per l’aiuto sovietico”. Nel 1948 divenne leader della “Great Britain-USSR Friendship Organisation”, e nel 1950 ricevette il “Premio Stalin per la pace” (ribattezzato poi “Premio Lenin per la pace”).