Ian McEwan
Parte seconda
2005
Aveva pochissimo tempo. Come gli altri del resto, la condizione riguardava tutti, ma Michael Beard, appesantito da un pasto superfluo, e irrequieto sotto la cintura di sicurezza, non riusciva a pensare che al conto alla rovescia delle ore di quella giornata e a ciò che stava per perdersi. Erano le due e mezza e il suo aereo, già in ritardo di sessanta minuti, continuava a ronzare a vuoto in senso orario nel cielo di Londra Sud, insieme agli altri velivoli in attesa del permesso di atterraggio
Troppo in ansia per leggere ancora, si contorceva per tornare di quando in quando a mordicchiarsi inutilmente la punta morbida di una pellicina in fondo all'unghia del pollice, sicura avvisaglia di un futuro giradito, e intanto osservava la porzione di Inghilterra a lui nota ruotare sotto i suoi piedi.
Che altro poteva fare Non era certo un momento adatto a grandi visioni panoramiche o retrospettive, visto che avrebbe dovuto trovarsi in giro a correre per strade e corridoi, ma gran parte del suo passato e delle sue preoccupazioni avevano sede laggiù, tremila metri sotto il costoso posto a sedere che, come sempre, gli aveva pagato qualcun altro. Ecco una vista banale che avrebbe sbalordito Isaac Newton o Charles Dickens. Beard guardava verso est, attraverso un gran cerchio color ruggine che pareva il bordo lurido di una vasca da bagno non lavata, sospeso a mezz'aria..
Guardava oltre la City, dove il Tamigi ingrossato si spanciava, oltre le cisterne di gas e di petrolio, verso le piane marroni dell'Essex e del Kent e lo scenario della sua infanzia, e lo smisurato ospedale dove era morta sua madre, poco dopo avergli raccontato della propria vita segreta, e ancora oltre, verso le fauci spalancate dell'estuario soggetto a onda di marea, e verso il Mare del Nord, una distesa liscia di azzurrino pastello sotto il sole di febbraio. Poi il suo sguardo ruotò a sud e, attraverso la foschia argentata che aleggiava sul Weald del Sussex, raggiunse la linea morbida dei South Downs, le cui dolci colline avevano un tempo cullato il suo stridulo primo matrimonio (una sinestesia di amore mal riposto, escrementi e strepiti dei gemelli infanti dei loro inquilini), nonché gli elettrizzanti calcoli quantistici che lo avrebbero condotto, quindici anni e due divorzi dopo, al conseguimento del Nobel. Il Nobel, grazia e rovina della sua esistenza.
Oltre quei colli aveva inizio la Manica, festonata di una nuvolaglia rosa che offuscava la vista della costa di Francia. All'improvviso una nuova inclinazione del velivolo lo rivolse verso il sole, verso il panorama di Londra Ovest e, proprio sotto il motore vibrante appeso all'ala, verso la sua chimerica destinazione, vale a dire il minuscolo aeroporto, circondato da una raggiera di arterie stradali sulle quali il traffico pulsava come un flusso di corpuscoli, M4, M25, M40: contrassegni sgradevoli di un'era irriducibile. Mostrandosi clemente, lo splendore del tramonto mitigava un poco lo squallore industriale. Vide la valle del Tamigi, di un pallido verde invernale, snodarsi tra i Berkshire Downs e i Chiltern Hills. Più in là, inaccessibili alla vista, stavano Oxford, i tour de force in laboratorio dei suoi anni universitari e il cauto corteggiamento di Maisie, la sua prima moglie.
Ma eccolo di nuovo, per la sesta volta, il colossale disco di Londra, roteante e intricato di scanalature come una stazione spaziale, nella sua maestosa autonomia. Scomposta come un gigantesco termitaio, una foresta pluviale o, per dirla alla Keats, come «una cosa bella», la città si raccoglieva intorno a un cuore ad alta densità di presenza umana, lungo l'ansa riscoperta del fiume tra Westminster e il Tower Bridge, brulicante di elementi architettonici sfacciati e impertinenti, di giocattoli nuovi.
Per un istante, Beard ebbe l'impressione di vedere l'ombra dell'aereo guizzare come uno spirito libero sopra il St James e la distesa di tetti, ma non era possibile da quell'altezza. Sapeva come funziona la luce.
Tra quella miriade di tetti, quattro in particolare avevano offerto riparo al suo secondo, terzo, quarto e quinto matrimonio. Tali unioni avevano definito la sua vita e si erano risolte, inutile negarlo, in altrettante catastrofi. Ultimamente, ogni volta che gli capitava di sorvolare una metropoli provava il medesimo disagio misto a incanto. Le smisurate ferite di cemento fasciate d'acciaio, quei cateteri di traffico in processione perpetua da e verso l'orizzonte: gli avanzi del mondo naturale non potevano far altro che ritirarsi in buon ordine di fronte a tanto. La pressione dei numeri, la ricchezza di invenzioni, la cecità di bisogni e desideri sembravano forze inarrestabili e generavano un calore, un calore moderno che, grazie a una serie di ingegnose traslazioni, era diventato il suo oggetto di studio, il suo mestiere. Era il fiato caldo del progresso.
Lo avvertiva, lo avvertivano tutti, sul collo, sulla faccia. Guardando giù dal prodigioso apparecchio, prodigiosamente sporco, Beard nei momenti di ottimismo era convinto di possedere una risposta al problema.
Alla fine si era trovato una missione, travolgente, ma aveva pochissimo tempo. E mentre la sua infanzia nell'Essex tornava a mulinargli in vista accidenti, quanto era in ritardo! Beard fu in grado di seguire su strade miniaturizzate il tragitto che avrebbe dovuto percorrere e che il sole invernale disegnava nitido come un circuito stampato. Credette perfino di vedere l'edificio sullo Strand in cui si sarebbe dovuto trovare in quel momento.
Poi lo perse.
Intanto altri due tetti sparivano inosservati in direzione nordovest. Uno celava il degrado del suo appartamento gelido e caotico di Marylebone. L'occhio della mente gli permise di vedere, in una stanza buia, il pasto che tre mesi prima aveva interrotto a metà, abbandonando un'amica ormai semidimenticata per una commissione notturna. Non era più tornato e non aveva mai più visto la donna.
Il posto era un letamaio. Nella camera accanto, non riscaldata, vide lo scompiglio sensuale del letto disfatto, i cuscini per terra, i led arancioni dello stereo ancora accesi e, un po' ovunque, i libri e le riviste che leggeva in quel periodo (si sforzò di ricordarli), più il quotidiano di quel giorno, una bottiglia di champagne e, in due bicchieri, il segno delle due dita di vino evaporato che nella fretta non avevano finito di bere. Su quelli, come sui piatti in sala da pranzo, sui tegami in cucina, sui rifiuti nella pattumiera e sul tagliere, e perfino sui fondi di caffè nel filtro asciutto di carta ci dovevano essere vigorose coltivazioni fungine in varie tinte, dai bianchi panna ai tenui grigioverdi, infiorescenze sul formaggio dimenticato, sulle carote, sul sugo di carne rappreso.
Spore aeree, una civiltà parallela, muta e invisibile, esseri viventi vittoriosi. Si, dovevano avere da tempo dato inizio ai loro banchetti particolari e, quando fosse venuto meno il carburante, si sarebbero prosciugati in chiazze di cipria color carbone. L'altro tetto riparava Melissa Browne, suo amore piuttosto trascurato, ed era li che intendeva passare la notte. Con lui Melissa era cosi dolce, disponibile, paziente, cosi carina, l'unico affetto praticabile della sua vita.
Come molte donne, lo riteneva uno scienziato brillante, un genio bisognoso di redenzione. Beard in compenso era un compagno distratto, infedele, disorganizzato, troppo evasivo, troppo implacabilmente determinato a non sposarsi mai più. Non le aveva telefonato. Lei gli stava preparando la cena. Non la meritava. Senso di colpa e una rinnovata fitta di impazienza, pessima miscela, gli strapparono un sospiro.
Gli era davvero uscito un verso tale da farsi sentire nonostante il rombo dell'aereo? Ma eccoli ancora, i South Downs, pronti a ricordargli che non doveva cedere mai, mai cambiare idea. La sua struttura non avrebbe retto un sesto matrimonio. In qualunque direzione volgesse lo sguardo, riconosceva casa, il suo angolo avito di pianeta. Prati e siepi divisorie, un tempo ben curate da agricoltori medievali o braccianti settecenteschi, modellavano ancora visibilmente il territorio in quadrilateri irregolari e ogni singolo ruscello, ogni steccato o porcilaia, in pratica ogni albero, era noto e forse anche nominato nel Domesday Book da quando, nel 1085, Guglielmo, il Normanno Pigliatutto, d'accordo con i suoi consiglieri, aveva sguinzagliato uomini ovunque.
E da allora, nomi ancora più precisi, passaggi di proprietà e d'uso, perizie, vendite, ipoteche; una terra matura come uno Stilton dalla crosta stagionata, stipata di varietà immane come una Babele, ricca di storia come il delta del Nilo, brulicante di spettri come un ossario, dissonante in fatto di dibattito pubblico quanto uno stuolo di corvi strepitanti. Un giorno o l'altro quel vecchio regno baldanzoso avrebbe potuto cedere alla forza di desideri multipli, alle sognanti seduzioni di una metropoli immensa, una Città del Messico più San Paolo e Los Angeles combinate insieme, e fiorire a fungo da Londra al Medway fino a Southampton e Oxford e poi ancora a Londra, a formare un quadrilatero nuovo, capace di coprire ogni siepe e ogni albero del passato.
Chi poteva dirlo, magari sarebbe stato il trionfo dell'armonia etnica e della genialità architettonica, una cittàmondo, la cittàmondo più ammirata del mondo. Come, si chiese Beard mentre il suo aereo finalmente abbandonava i velivoli in attesa di permesso di atterraggio e, con una virata a centottanta gradi, si disponeva a nord del Tamigi per dare inizio alla discesa, come potremmo mai anche soltanto cominciare a contenerci Da quell'altezza somigliavamo a un lichene in espansione, a una infestante crescita di alghe, a una muffa che ricopra un frutto molle: che strepitosa vittoria della specie.
Lunga vita alle spore! Mezz'ora più tardi il volo da Berlino era fermo sulla pista e Beard fu il quarto passeggero a scendere, trascinando il bagaglio a mano, con passo spedito ma meccanico, a piccoli balzi e saltelli poco virili (ginocchia, corpo e perfino cervello non lo sostenevano più in una vera e propria corsa) lungo i capillari stagni, i tubi in acciaio moquettato che lo avrebbero immesso nelle viscere dell'aeroporto per condurlo al controllo passaporti. Si faceva assai prima a macinare i cento metri di percorso marciando accanto al tapis roulant che a stringersi insieme ai viaggiatori imbambolati e inerti e ai loro bagagli che ostruivano il passaggio.
Almeno una decina di giovanotti scesi dal suo stesso aereo, affrettandosi in modo più efficace, riuscirono a superarlo in quel tratto: uomini d'affari senza un filo di grasso, col capello corto e l'impermeabile svolazzante appeso al braccio, uomini per nulla intralciati dal peso delle borse a tracolla, che continuavano a conversare amenamente volandogli accanto. Un viale di annunci pubblicitari per istituti di credito e agenzie finanziarie, fiaccamente spiriti' 1, si sforzavano di attirare lo sguardo era palese come il settore pubblicitario fosse finito in mano a imprenditori di terz'ordine e non fecero che peggiorare il suo senso di irritazione, in quei corridoi sovrailluminati e poco ventilati. La conosceva anche troppo bene, l'asma mentale scatenata dal contatto con fenomeni di intelligenza limitata e bellicosa. Insomma, la stupidità planetaria era il suo campo.
E ora, fallendo sul fronte della puntualità, si sarebbe unito agli stupidi anche lui. Nella migliore delle ipotesi avrebbe avuto un ritardo di settantacinque minuti. Il ritardo, patologia specifica della modernità, aveva una pluralità di sintomi, dall'aumento di tensione al senso di colpa, dal vittimismo alla misantropia, fino al desiderio struggente di ciò che non si poteva ottenere al di fuori della fisica teorica, vale a dire l'inversione temporale. E imporsi un atteggiamento stoico non aiutava ad arrivare neanche un minuto prima.
Per un compenso insensatamente alto, Beard doveva intervenire a un congresso sul tema energetico cui partecipavano investitori istituzionali, o più precisamente direttori di fondi pensionistici, gente solida, poco disposta a credere che il mondo, il loro mondo, si trovasse in pericolo e che fosse venuto il momento di ripensare i propri modelli di investimento di conseguenza. L'inerzia, miope consuetudine del mestiere, li vincolava al ricorso a vecchie soluzioni note: foreste, carbone, gas, petrolio.
Beard doveva in teoria convincere quelle persone che quanto oggi costituiva la loro fonte di profitto, un giorno le avrebbe rovinate. In simili occasioni era necessario esprimersi per categorie generali, ovviamente, ma se Beard, già titolare di una dozzina di brevetti, fosse riuscito a smuoverli anche in minima percentuale, la sua società ne avrebbe tratto un beneficio sicuro.
Costoro lo stavano aspettando al Savoy, in due suite comunicanti affacciate sul Tamigi e, pur avendo ricevuto anticipate scuse per il suo ritardo, avrebbero presto cominciato a squagliarsela diretti ai vari successivi impegni, cosicché il delicato miracolo di coordinamento realizzato con quattro mesi di pianificazione avrebbe lasciato spazio a uno scetticismo anche maggiore e a un fatale ritiro dall'iniziativa. La seconda ragione della sua presenza a Londra era che l'indomani, presso l'ambasciata americana, si doveva concludere l'opzione su un sito di centosessanta ettari nel deserto sudoccidentale del New Mexico, un granello di sabbia nella sconfinata distesa rovente.
E, una volta accontentati gli investitori, sarebbero cominciati ad arrivare fondi ed esenzioni fiscali e si sarebbe potuto dare inizio alla costruzione di un prototipo in scala superiore. Al solo pensiero, si senti girare la testa dalla smania. Altri dieci minuti di frenesia e Beard, ansante e fradicio di sudore sotto la giacca, si ritrovò all'immigrazione, sepolto in una coda larga dieci persone e lunga qualche centinaio, costretto a procedere al ritmo di un paio di centimetri alla volta, tra supplici in attesa del permesso di accedere al proprio stesso paese. Passarono minuti interminabili durante i quali Beard si senti scivolare verso una progressiva irragionevolezza. Gli venne in mente l'immagine di un liquido prezioso sangue, latte, vino che sgocciolasse fuori da una tanica.
Non riusciva a controllare la sensazione crescente di un diritto calpestato: si sarebbe dovuto presentare qualcuno che lo facesse passare, che lo conducesse davanti al volgo superando le formalità, per accompagnarlo direttamente a una limousine. Possibile che nessuno avesse idea di chi era lui Un vip insomma, no Si, certo, come tutti gli altri. In momenti simili la sua misantropia lo rendeva allergico alle persone accalcate intorno che cessavano di essere compagni di viaggio per diventare nemici, rivali in una corsa lenta.
Inutile negarlo, era già all'erta in attesa di scorgere il solito impostore, il tizio che avanza alla periferia del tuo campo visivo, che si sposta fingendo di star fermo, che si insinua con un espediente scaltro, un'astuta virata di spalla.
Un oppressore del fimisoimo, un ladro di tempo. Aveva raggiunto il punto in cui le dieci file amorfe e intersecanti si riducevano a tre per allinearsi di fronte ai banchi del controllo documenti. Ed eccolo arrivare, lo smunto incartapecorito in loden (Beard disprezzava il genere da sempre), in manovra di intrufolamento da sinistra, sfruttando l'altezza per sbirciare avanti, incuneando una ventiquattrore fuori taglia ad altezza rotula del vicino. Senza esitare, sorretto da un'immacolata rettitudine, Beard fece un passo avanti per negargli accesso e ricevette il colpo della valigetta sul ginocchio.
Soltanto allora si voltò a cercare lo sguardo dell'altro e disse educatamente, anche se il cuore gli batteva un po' più forte: Oh, scusi tanto.
Una rimostranza mascherata malamente da scusa, una messinscena di riguardo nei confronti di un uomo che in quel momento avrebbe voluto morto. Che sollievo essere di nuovo in Inghilterra.
Guardando in faccia l'impostore, tuttavia, Beard si rese conto di quanto era vecchio. Ottantacinque anni almeno, coperto di macchie scure sulla pelle di carta velina dalla fronte fino alla gola tutta grinze, bocca semiaperta, labbro inferiore lasco, tremulo e bagnato. Ovviamente, i vecchi dovevano passare.
Avevano meno tempo. Erano quasi morti. La loro fretta batteva la sua, li si doveva perdonare, se non giustificare. Ma il vecchio intanto si era dileguato, risucchiato indietro chissà dove, sparito, in castigo. Troppo tardi per offrirgli un posto vantaggioso nella fila. Fu cosi che Beard, spietato flagello dei deboli, si presentò al pubblico ufficiale vagamente ridimensionato, un po' inviso a se stesso, e non lo sorprese pertanto constatare che la sua foto, l'altezza, la sua data di nascita o forse il suo stato civile dovessero suscitare qualche sospetto e un'espressione arcigna da esperto.
L'agente sfogliò in rapida sequenza le pagine del suo passaporto, diede un'occhiata a Beard, tornò a scartabellare i fogli e, dopo un istante di riflessione, appoggiò il documento aperto su uno scanner. Era una giovane di neanche trent'anni, meno della metà dei suoi probabilmente. Il paese di origine dei genitori, secondo Beard, poteva essere l'Etiopia. Se avesse deciso di scendere dallo sgabello alto su cui sedeva, uscire dal banco, e sfilarsi i tacchi, l'avrebbe comunque sovrastato di una buona spanna. Lui era pingue, lento, roseo e accaldato, oltre che in ritardo.
Lei, elegantemente dedita all'incarico assegnatole: sorvegliare i cancelli della propria nazione difendendola da soggetti indesiderabili.
Beard la osservò scrutare sullo schermo le informazioni dettagliate sul suo conto, mentre la mano destra, dal palmo di carnagione un po' violetta, sfarfallava incurante sopra la tastiera, in cerca di una diversa prospettiva su di lui, più accurata, si trovò improvvisamente a sperare Beard.
Dalle vertiginose impalcature interne dell'ufficio immigrazione parve calare, come neve fitta, un freddo delizioso, una quiete che cancellò in lui ogni fretta. Ah, quella pelle fine, ad alto assorbimento di raggi solari, amante della luce, quegli zigomi alti (riusciva a intravederne solo uno) che formavano scendendo una curva scultorea, quegli occhi scuri assorti sui suoi dati, quella felice unione, a suo giudizio, di intelligenza e grazia. Millenni prima, in qualche segreto rifugio del deserto, sotto freschi paracieli, i geni di una gazzella dovevano essersi introdotti nel sangue degli uomini del luogo.
Forse quella fantasia di incrocio era una forma di razzismo, o un semplice caso di venerazione; Beard comunque non era in grado di scacciarla. E permase infatti, mentre lui contemplava la mano sinistra e il polso della giovane, affusolati come posate da insalata, poggiare inerti sulle copertine sgualcite del suo passaporto rovesciato. In faccende del genere Beard era rimasto un idiota temerario con le salde abitudini di sempre, neanche un pizzico più giudizioso del venticinquenne di un tempo e senza prospettive di miglioramento, come sostenevano unanimi tutte le sue ex mogli e poco prima che l'agente dell'immigrazione gli parlasse, si concesse il pensiero di chiederle se era libera a cena. Erano tante le illustri sconosciute che gli era capitato di invitare, e non tutte avevano detto di no. La sua relazione con Patrice era iniziata in circostanze analoghe e aveva messo in moto una tale catena di sfortunati eventi che ancora oggi, a dieci anni di distanza, Beard ricordava che cosa aveva ordinato.
Un disastro, la promessa di tutto ciò che sarebbe venuto: il burro fuso della razza ai capperi era bruciato, sulla rucola c'era troppo sale, il pinot grigio anziché essere fermo frizzava e sapeva di tappo, ma lui era talmente rimbambito da non riuscire a richiamare il sommelier. La giovane incrociò il suo sguardo e disse: Ha viaggiato molto in Medio Oriente, vedo. Il «molto» le usci glottidale, e la frase fu pronunciata in tono di domanda. Un fenomeno studiato dai linguisti, come aveva di recente appreso.
Era diventato una specie di snob della lingua, uno snob mascherato s'intende, che per via dell'età e delle scarse frequentazioni aveva poca speranza di capire granché in materia di accenti e provenienze sociali nell'Inghilterra contemporanea.
L'anno prima aveva intrapreso una relazione con una cameriera londinese e l'aveva giudicata una specie di esuberante enfant sauvage uscita da un quartiere abbandonato. Ma saltò fuori che era cresciuta nelle colline del Surrey in un edificio progettato da Lutyens, nascosto dietro alte piante di alloro e che suo padre era un matematico titolato, come lui membro della Royal Society. Beard se l'era data a gambe levate. Ed eccolo di nuovo pronto a eccitarsi alla sua personale idea di un rapporto socialmente trasgressivo, o spinto. Disse senza scomporsi: Si, esatto. Libia. Egitto, Sudan.
E altri. Affari, immagino? Annui. Che genere di affari Glielo avevano chiesto tante volte a sportelli simili. Disse: Sono un consulente energetico. Parliamo di petrolio Ancora una volta, quella parola un po' pronunciata nella glottide andò a sfiorargli una corda invereconda. No, di solare. CSP, giusto?
Non precisamente, ma annui lo stesso. La ragazza sapeva. Nel momentaneo sbigottimento di una speranza virtuosa mista a tornaconto sessuale, la fantasia di Beard saltò a piè pari la cena per passare a un dopo in cui lei già aveva dato le dimissioni dal suo impiego presso l'ufficio immigrazione e, con pacata competenza, gli viaggiava al fianco, lavorando con lui e per lui, vivendo con lui e per la sua visione di un mondo più puro, più fresco ed energizzato grazie al fotovoltaico, alle tecniche di concentrazione dell'energia solare che andavano sotto il nome di CSP, e soprattutto grazie alla sua fotosintesi artificiale, oltre che a sistemi centralizzati o distribuiti e collegati in rete.
Le avrebbe insegnato tutto quello che sapeva su film sottili, eliostati, incentivi economici per utilizzo di energie rinnovabili. Lei si sarebbe mostrata efficiente sul lavoro; generosa, ginnica e di bocca buona dopo l'orario. Beard stava per buttare là la frase: Mi sembra di capire che le interessa... quando lei lo interruppe. Grazie, Mr Beard Gli restituì il passaporto con la mano destra che allungò oltre la sinistra rimasta abbandonata sulla scrivania. Ma certo! Inutilizzabile, inferma, immobile.
La ridicola fantasticheria di poc'anzi si lanciò in uno scenario di benevolenza premurosa e protettiva da riversare su quel braccio inerte dalla nascita. La ragazza avrebbe mangiato tenendo la forchetta nella destra; lui, naturalmente, avrebbe fatto altrettanto. Aveva già l'invito a fior di labbra, quando lo sguardo di lei scivolò dalla sua faccia alla testa del successivo viaggiatore in coda, il sorriso si spense e la sua voce disse: Il prossimo.
Ecco la debolezza con cui Beard doveva convivere, la sua personale menomazione, quei teatrini mentali assolutamente puerili che di norma non conducevano da nessuna parte, talvolta lo mettevano nei guai e, solo molto raramente, sfociavano in gioia.
Eppure tali sogni a occhi aperti attimi di follia, brevi scariche neuronali, episodi intensi ma vaghi che intrecciavano il reale all'immaginario, inanellando perle di palese inattuabilità, stravaganza e contraddizione sul filo comune di una logica indetermina|ta erano ciò che molto tempo prima lo aveva portato a formulare i principi della sua Conflazione.
Il poetico, lo scientifico, l'erotico: perché mai la fantasia avrebbe dovuto votarsi al servizio di un unico padrone Superò spedito la zona del ritiro bagagli con i suoi nastri cigolanti e le folle annoiate sotto gli schermi degli annunci, passò oltre barriere doganali deserte, oltre sinistri vetri a specchio unidirezionale e tavoloni di ispezione in acciaio inossidabile simili a nude lastre da obitorio; usci e costeggiò la fila degli autisti che con sguardo vacuo mostravano i rispettivi cartelli Kuwait Avventure in Mongolfiera, Arcivescovo Dolan, Ted di Mr Kipling e attraversò la sala partenze, del tutto consapevole che non stava puntando dritto alle scale per raggiungere il suo treno, ma che neppure si dirigeva apertamente allo scalcinato negozio dell'aeroporto dove erano in vendita giornali, cinghie per valigie e paccottiglia varia.
Avrebbe finito col cedere alla debolezza di sempre che lo spingeva a entrare Pensava di no. Eppure il suo tragitto piegava in quella direzione. In fondo, come intellettuale impegnato, era suo dovere informarsi, e l'acquisto di un quotidiano risultava doveroso, indipendentemente dalla fretta.
Nei momenti delle decisioni cruciali, la sua mente poteva essere paragonata a un parlamento, una camera di consiglio. Fazioni opposte entravano in conflitto, interessi a lungo e breve termine si trinceravano dietro un atteggiamento di reciproca avversione. Non soltanto sul tavolo dei negoziati arrivavano mozioni discordanti, ma capitava che a certe proposte si desse voce al solo scopo di mascherarne altre.
Il dibattito poteva rivelarsi tortuoso quanto turbolento. Conosceva fin troppo bene quel negozio, e ormai sembrava proprio che vi fosse diretto. Ci sarebbe entrato solo per dare un'occhiata, saggiare la propria forza di volontà, comprarsi un giornale e nient'altro. Magari fosse stato alla pornografia che cercava di resistere: in tal caso la resa non avrebbe comportato danni.
Ma le foto di giovani donne o di loro parti selezionate non lo emozionavano più granché. Il suo problema era ancora più banale di quello rappresentato dalle riviste lucide in cima agli espositori. Ormai al banco, concentrato a dividere gli spiccioli di sterlina dagli euro, Beard aveva sotto braccio quattro quotidiani, non uno, come se lo sforzo notevole in una direzione potesse immunizzarlo da altri eccessi e, mentre consegnava gli articoli per la lettura del codice a barre, alla periferia del suo campo visivo, nell'assortimento di merce sotto il registratore di cassa, riconobbe il luccichio della cosa che voleva, una decina di esemplari della cosa che desiderava non desiderare e, senza neanche deciderlo, si ritrovò ad afferrarne una leggerissima! e ad appoggiarla sul mucchio degli acquisti, coprendo in parte la foto del primo ministro che salutava dalla porta di una chiesa.
Era un sacchetto in plastica metallizzata contenente patate a fette molto sottili fritte nell'olio e spolverate di sale, alimenti industriali polverizzati, conservanti, esaltatori di sapidità, idrolizzati proteici, agenti lievitanti, regolatori di acidità e coloranti. Patatine aromatizzate al sale e all'aceto. Beard era ancora sazio dal pranzo, ma quel particolare tripudio chimico risultava introvabile a Parigi, Berlino o Tokyo e lui al momento smaniava per il pizzicore attinico di quei trenta grammi di prodotto, una dose da spacciatore.
Un ultimo strappo alla regola, poi basta, non avrebbe toccato mai più simili porcherie. Pensò di avere ottime possibilità di resistere finché non saliva sul treno per Paddington. Infilò il sacchetto nella tasca della giacca, raccolse il malloppo dei giornali, afferrò il trolley e prosegui attraverso l'atrio.
Doveva perdere quindici chili. Quanto alla propria futura snellezza, aveva al suo attivo innumerevoli buoni propositi e promesse virtuose, spesso formulate alla fine di un pasto, con in mano un bicchiere di vino e con le fazioni del parlamento mentale che annuivano in segno di condiviso accordo. A batterlo poi era sempre l'attimo contingente, il confronto diretto con l'imporsi della ghiottoneria, della portata imprevista, del pasto superfluo, quando aveva la meglio il partito dell'hic et nunc.
Il volo da Berlino era stato un esempio tipico di insuccesso. In principio, affondando il gran posteriore sul sedile, appena due ore dopo la sostanziosa colazione teutonica, Beard cercò di concentrarsi sulle proprie intenzioni: niente drink, solo acqua, niente stuzzichini, un'insalata verde, un piatto di pesce e niente dolce, ma allo stesso tempo, con l'avvicinarsi del vassoio metallico e dell'invito flautato di una voce femminea, la sua mano già si stringeva intorno allo stelo della sua coppa di champagne da decollo.
Mezz'ora più tardi si trovò ad aprire di forza la bustina dei bastoncini al sapore di mais tostato, lustri come una bistecca al sangue e tempestati di sale grosso, ricevuti insieme al gin tonic formato gigante.
Poi fu la volta della tovaglia bianca, la cui vista agi come un colpo di pistola neuronale sui suoi succhi gastrici. Il gin dissipò quanto restava del suo proposito.
Per antipasto scelse il piatto originariamente scartato: involtini di cosce di quaglia al bacon su un letto di crema di aglio.
E a seguire: dadini di pancetta di maiale serviti su uno sformatino di riso al burro. La parola «pavé» funzionò da ulteriore colpo di pistola: lastra di pandispagna al cioccolato in foglia di cioccolato con salsa al cioccolato; formaggi caprino e vaccino in un nido di uva bianca, tre pagnottelle, un cioccolatino alla menta, tre bicchieri di Borgogna e infine, quasi il gesto potesse assolverlo da ogni eccesso, Beard si costrinse a tornare sui passi del proprio menu e ad affrontare l'insalata zuppa di olio che accompagnava le cosce di quaglia. Quando vennero a ritirargli il vassoio restavano giusto gli acini d'uva.
Acquistò il biglietto e andò a sistemarsi a un tavolino sul treno mezzo vuoto. Di fronte a lui sedeva uno di quei giovanotti sulla trentina con testa rasata, faccione carnoso e collo taurino palestrato che, agli occhi poco allenati di Beard, risultavano tutti uguali. L'esemplare in questione tuttavia si distingueva in virtù dei piercing alle orecchie. Per alcuni secondi si verificò sotto il tavolo una inconsapevole negoziazione, un cortese balletto teso all'attribuzione dello spazio per le gambe.
Quindi il giovane tornò a dedicarsi al messaggio che andava digitando sul cellulare mentre Beard, passando in rassegna le prime pagine dei quotidiani, si ritrovò a vivere il noto fenomeno di restringimento di confini mentali prodotto dal ritorno a casa. Ecco senz'altro gli stessi giornali che aveva letto prima della partenza, settimane or sono. Stessi titoli che, sopra identiche fotografie, ponevano uguali interrogativi. A quando l'addio di Blair? Domani All'indomani del prossimo voto, ammettendo l'ipotesi di una vittoria? Ancora un anno, due, o dopo un intero mandato quadriennale.
Non era precisamente lo stesso il numero di civili sciiti massacrati da alQaeda a Baghdad mentre stavano in coda davanti a una rivendita di pane Senza contare quella vicenda (Beard frattanto scorreva tutta la pila), lo tsunami si era portato via più di un quarto di milione di vite, scatenando in alcuni il dubbio, già impostosi il mese precedente, sull'esistenza o meno di Dio. In un altro articolo, come sempre, il paese veniva descritto sull'orlo del baratro, con amministrazione, finanza, sistema sanitario, giuridico, scolastico e militare, infrastrutture, trasporti e condotta etica in uno stato di inanizione terminale. Per abitudine, Beard si mise in cerca di eventuali articoli sul cambiamento climatico.
Oggi niente. Solare Niente, ma ce ne sarebbero stati al più presto. Appoggiò i giornali sul sedile accanto e si concentrò sul palmare scorrendo a video i quindici messaggi incamerati dalla partenza dal Tegel di Berlino. Quattordici riguardavano il progetto. Toby Hammer, suo partner americano, gli confermava che i documenti erano arrivati a Grosvenor Square. Il proprietario del ranch voleva il denaro del contratto di acquisto su un conto corrente di El Paso, anziché su quello di Alamogordo.
La Camera di commercio locale avanzava la cortese richiesta di un ulteriore «chiarimento» riguardo all'effettivo numero di posti di lavoro che l'impianto avrebbe garantito agli abitanti di Lordsburg. Ogni volta che leggeva il nome di quella cittadina, a Beard migliorava l'umore.
Avrebbe voluto trovarsi li, alla periferia settentrionale del centro abitato, con lo sguardo rivolto all'immensa distesa assolata e al sito al fondo nel rettilineo per Silver City, dove sarebbero iniziati i lavori. La direzione dell'Holiday Inn di Lordsburg era lieta di informarlo di aver confermato che poteva contare sulla sua prenotazione della solita stanza per il mese venturo, e a un prezzo speciale riservato alla clientela affezionata. Per la terza volta dall'inizio del mese Jock Braby gli scriveva chiedendogli un incontro. Doveva essergli giunta voce dei buoni risultati ottenuti all'Imperial e a quel punto probabilmente voleva accaparrarsi una fetta di successo.
Proprio lui, il responsabile della congiura per far licenziare Beard dal Centro. Un post scriptum di Toby Hamjper. Aveva scovato un fornitore economico per la polvere di ferro. Un unico messaggio personale: «Si cena alle 8, mi raccomando. Il piatto forte sei tu. Ti amo tanto, Melissa». Ti amo tanto.
Glielo aveva scritto e detto parecchie volte, ma lui si era guardato bene dal fare altrettanto, perfino nei momenti di abbandono. E non certo perché ritenesse la cosa impensabile. Non era mai sicuro al cento per cento, su quel fronte. Aveva imparato da un pezzo a non dichiarare mai il proprio amore a nessuno. Con Melissa lo terrorizzava il problema che quelle tre parole di soprannaturale momento avrebbero sollevato. Intendeva forse impegnarsi con lei per il resto della vita e darle un figlio Melissa smaniava per il bambino che le circostanze le avevano negato.
Ma l'intera vicenda del suo passato non gli lasciava alcun dubbio: decidendo di portare avanti il progetto, avrebbe senz'altro deluso le aspettative di quella compagna graziosa e ingenua che aveva diciotto anni meno di lui. L'età in cui è logico che una donna senza figli cominci ad avere fretta. Perciò se non intendeva farsi avanti e assolvere il proprio dovere, era giusto che si ritirasse in buon ordine.
Melissa avrebbe avuto bisogno di un certo periodo di adattamento e di un po' di tempo per trovarsi un rimpiazzo. Peccato che lei non riuscisse ad allontanarlo, né lui a convincersi di doverla lasciare. In compenso, ritrovarsi per la sesta volta nel ruolo del marito inadempiente, diventare padre all'alba dei sessanta: che regressione grottesca! Discutere dell'argomento con lei era uno strazio.
L'ultima occasione si era verificata in un ristorante di Piccadilly e lei, con le lacrime agli occhi, gli aveva detto che preferiva rinunciare al bambino, piuttosto che perdere lui. Insopportabile. Roba da posta del cuore. Beard non poteva crederle. Se l'avesse amata davvero, pensò, avrebbe dovuto liberarla, lasciandola immediatamente. Il punto era che lei gli piaceva e lui era debole.
Come trovare il coraggio di rifiutare quel dono inatteso Quale altra donna di quell'età si sarebbe accollata con tanta tenerezza un uomo vagamente ridicolo, basso, grasso, non più giovane, ormai pubblicamente disonorato, avvolto da un'aura di fallimento, bruciato dalla stravagante avventura intrapresa con i raggi solari E cosi, aveva ripiegato sulla scelta più meschina in assoluto.
Nemmeno una scelta vera e propria; piuttosto una specie di scappatoia vigliacca e istintiva. Senza interrompere propriamente i rapporti, aveva mantenuto le distanze, approfittando del lavoro all'estero. Aveva continuato a frequentare altre donne senza abbandonare mai la speranza mista a puro terrore di ricevere la telefonata in cui Melissa lo avrebbe informato dell'arrivo imminente o appena avvenuto del solerte e dotato esemplare maschio che si era andato aggirando ai margini della sua esistenza.
A quel punto, se la sua debolezza avesse avuto la meglio, Beard si sarebbe precipitato a difendere ciò che all'improvviso avrebbe ritenuto suo, lei gli avrebbe mostrato riconoscenza e il contendente maschio sarebbe stato eliminato, ma il casino in compenso sarebbe rimasto e lui si sarebbe trovato di un buon passo avanti nella direzione sbagliata. Ritirò il palmare, abbandonò la schiena al sedile e socchiuse gli occhi.
Dritto avanti a lui, baluginavano nel tremolio delle ciglia appena dischiuse le patatine all'aceto e, poco più in là, la bottiglia di acqua minerale del giovanotto. Beard si chiese se gli conveniva dare un'occhiata agli appunti del discorso, ma la diffusa stanchezza del viaggio e l'alcol bevuto a pranzo lo rendevano apatico per il momento, senza contare che riteneva di conoscere l'argomento piuttosto bene e nella tasca alta della giacca aveva un biglietto pieno di vari riferimenti utili.
Quanto alle patatine, le desiderava meno di prima, ma non aveva smesso di desiderarle. Alcuni ingredienti industriali erano in grado di smuovere il suo metabolismo risvegliandone il funzionamento. Era il palato più ancora dello stomaco a non veder l'ora di percepire il sapore acido della polvere che ricopriva ciascuna di quelle fettine friabili. Aveva già mostrato un ritegno onorevole il treno era in moto da parecchi minuti, ormai e non c'era più alcuna buona ragione per trattenersi.
Rizzatosi a sedere, si sporse in avanti, appoggiò i gomiti sul tavolino e per qualche pensoso secondo si sorresse il mento tra le mani con lo sguardo fisso sull'involucro, sui suoi sgargianti rosso, blu e argento, con figurine di animali guizzanti sotto la bandiera britannica. Che infatuazione puerile, la sua, che perniciosa debolezza; il concentrato di ogni passato errore e sciocchezza, di quella impazienza che lo portava a doversi concedere subito ciò che desiderava.
Prese il sacchetto con entrambe le mani e ne separò a strappo i bordi, liberando un aroma denso di fritto e di aceto. Si trattava di un'abile simulazione chimica della bottega di fish & chips sotto casa, un appello a ricordi cari, desideri e amor patrio. La bandiera non era li per caso. Sollevò tra pollice e indice una singola patatina, ripose il sacchetto sul tavolo e tornò ad appoggiare la schiena.
Era tipo da prendere sul serio i propri piaceri, lui. Il trucco era quello di posizionare il pezzo al centro della lingua e, dopo un momento di diffusione sensoriale, premere forte la patatina per frantumarla contro la volta del palato. Beard aveva una teoria: la superficie rigida e irregolare produceva sul tessuto morbido abrasioni minuscole, nelle quali si depositavano il sale e gli agenti chimici, dando origine a una particolare delicata sensazione di piacere misto a dolore.
Come un sommelier impegnato in una degustazione importante, Beard aveva chiuso gli occhi. Aprendoli, si trovò a fissare direttamente quelli grigio azzurri del giovanotto di fronte. Superando un leggerissimo moto di vergogna, Beard distolse lo sguardo con un gesto impaziente. Era consapevole della figura che aveva appena fatto, quella di un pingue imbecille di una certa età intensamente assorto nella degustazione di un frammento di cibo poco sano. Si era comportato come se fosse solo. E allora? Finché non dava fastidio e non faceva del male a nessuno, ne aveva pieno diritto.
Ormai lo preoccupava abbastanza poco quello che gli altri pensavano di lui. Era tra i rari vantaggi dell'invecchiamento. Più ancora per rivendicare la propria legittima individualità che per soddisfare un bisogno riprovevole, dunque, Beard allungò una mano e prese una seconda patatina incrociando di nuovo lo sguardo dell'altro passeggero. Uno sguardo fermo, duro, severo, che esprimeva ben poco a parte una feroce curiosità. Beard fu sfiorato dal pensiero di essersi seduto di fronte a uno psicopatico.
Poco male. Non era escluso che fosse un po' matto pure lui. Il residuo di sale del primo boccone gli procurò la sensazione di sanguinare dalle gengive. Si accasciò sul sedile, apri la bocca e ripeté l'esperienza, ma con gli occhi aperti, questa volta. Come era inevitabile, la seconda patata risultò meno stimolante, meno sensazionale e meno formidabile della prima e fu appunto quel calo, la delusione dei sensi, a suscitare in lui il bisogno ben noto ai tossicodipendenti, di incrementare la dose.
Ci volevano due patatine alla volta. Fu allora che, alzando lo sguardo, notò il proprio compagno di viaggio sporgersi, tuttora con l'occhio fisso e trasognato, e appoggiare i gomiti al tavolo, forse in un gesto di deliberata parodia. Dopodiché, calando un avambraccio a mo' di gru nel sacchetto, l'uomo rubò una patata, forse la più grossa di tutta la confezione, se la tenne davanti alla faccia per un paio di secondi e se la mangiò, non con la meticolosità di Beard, ma con insolente moto masticatorio, a labbra semiaperte, cosicché, volendo, si sarebbe potuto assistere alla trasformazione in poltiglia sopra la lingua.
L'uomo non batteva ciglio, tanto era fermo il suo sguardo. E il gesto fu cosi lampante, cosi sfacciato, cosi poco ortodosso che perfino Beard, decisamente in grado di formulare pensieri anticonvenzionali (e come si sarebbe guadagnato un Nobel, se no), restò immobile e sbigottito, sforzandosi, per amore di decoro, di mantenersi impassibile, di non tradire alcuna emozione. Erano incatenati l'uno negli occhi dell'altro e questa volta Beard decise che non avrebbe mollato.
Non c'era dubbio, il comportamento del giovane era aggressivo, quel gesto era furto bell'e buono, per quanto irrisorio fosse il valore del bene sottratto. Se si fosse passati allo scontro fisico, Beard non dubitava che si sarebbe ritrovato al tappeto nell'arco di pochi secondi con un braccio o la testa rotti. Esisteva però anche una diversa eventualità, l'ipotesi di un atteggiamento scherzoso mascherato da tanta durezza, la derisione del piacere ridicolo manifestato da un anziano per una ghiottoneria chimica.
O ancora, la presa in giro del borghese borioso, secondo un'anacronistica modalità da sketch comico. O, peggio ancora, il giovanotto era convinto che Beard fosse gay e quella era dunque una avance, una specie di approccio moderno noto soltanto a determinati circoli segreti per i quali, che so, la cravatta viola di Beard rappresentava un segnale fortuito, un esplicito invito al corteggiamento.
Una volta non era l'orecchino portato a destra o sinistra (aveva scordato da quale parte), un indicatore importante di orientamento sessuale? Quel tizio esibiva due orecchini per lato. Il fisico la sapeva lunga sulla luce, ma in fatto di declinazione del linguaggio corporeo nella cultura contemporanea era al buio. Infine, tornando all'ipotesi iniziale, Beard riprese a chiedersi se il compagno di viaggio fosse un paziente psichiatrico in vacanza non autorizzata dall'assunzione di litio, nel qual caso continuare a fissarlo negli occhi non era una buona idea. Al che, Beard distolse lo sguardo e fece l'unica cosa che gli passò per la mente. Prese un'altra patata.
Che cosa si aspettava? Non se l'era ancora infilata in bocca, che la mano del giovane già tornava a calare, e per prenderne due questa volta, proprio come aveva inteso fare Beard, e mangiarsele nello stesso modo spensierato e plebeo di prima.
Tirar via il sacchetto dal tavolo non sarebbe certamente stata una mossa felice: troppo fisica, eccessivamente repentina. Pericoloso avventurarsi su un terreno nuovo, invitando l'altro allo scontro. L'avrebbe forse salvato qualcuno, in quel caso Beard si guardò intorno nello scompartimento. I passeggeri leggevano
fissavano inespressivi un punto nello spazio, oppure guardavano dal finestrino il paesaggio invernale dei sobborghi occidentali di Londra, ignari dell'evento drammatico.
Quale interesse potevano suscitare due individui che si dividono uno spuntino in silenzio La faccenda era paradossale, ma per come la vedeva Beard, aveva più senso continuare come si era fatto fin li. Non lo sfiorò neppure l'ipotesi di evitare il confronto con un avversario più forte semplicemente abbandonando il campo e cedendo l'intero sacchetto all'altro. Beard non era tipo da accettare vessazioni. Poteva anche essere basso e sovrappeso, ma disponeva di uno spiccato senso della giustizia ed era abituato a difendere le proprie posizioni. Era capace di mostrarsi impulsivo.
Gli era anche capitato di subirne rovinose conseguenze. Prese un'altra fetta di patata. Il suo avversario, senza staccare lo sguardo da lui, fece altrettanto. Poi ancora, e di nuovo, per ben due volte le loro mani calarono nel sacchetto in successione più risoluta che rapida, e senza nemmeno sfiorarsi. Quando restarono due patatine soltanto, il giovane afferrò il pacchetto e in una farsa di buona educazione, ne offri il contenuto a Beard. L'unica reazione possibile di fronte a quell'estremo oltraggio era voltarsi sdegnati. Uno scandalo. Il treno cominciava a rallentare, la gente infilava il cappotto, una voce computerizzata ricordò ai passeggeri di non lasciare bagagli a bordo.
Con un gesto che gli assegnava la vittoria finale, il giovanotto appallottolò nel pugno il sacchetto e lo ficcò nel contenitore dei rifiuti sotto il tavolino. Poi sgomberò scrupolosamente con la mano la superficie del tavolo da briciole e granelli di sale. L'umiliazione di Beard era completa.
Ecco che cosa voleva dire invecchiare: essere maltrattati, da chi è giovane e forte, e non trovare riscatto. Riscaldato da un moto di vittimismo, Beard senti che ogni ingiustizia, ogni sopruso storico, arbitraria invasione, incontrollabile strapotere, ogni trasgressione dispotica della legge si condensava in quel preciso momento e che l'amor proprio e il dovere verso i diseredati del di ogni dove gli imponevano di mostrare una forma di resistenza. Pena, non riuscire più a vivere con se stesso.
Si lanciò avanti, agguantò la bottiglia d'acqua dell'avversario, ne svitò il tappo e bevve a grandi sorsi: aveva sete, comunque. Se la scolò fino in fondo, fino all'ultima goccia dei venticinque centilitri. Poi gettò il vuoto sul tavolo, con uno sguardo di aperta provocazione. Il tappo azzurro rotolò sul pavimento. Il giovane rifletté un attimo, poi si alzò per incamminarsi nel corridoio, rivelando tutta la sua statura, che doveva avvicinarsi al metro e novanta. Beard, che già cominciava a pentirsi dell'atteggiamento di sfida, restò al proprio posto, deciso però a non recedere.
L'altro allungò il braccio sovrasviluppato e con estrema agilità scaricò la valigia di Beard e la posò gentilmente a terra accanto al suo proprietario. Se il gesto intendeva mostrare contrizione, Beard non si lasciò certo commuovere e ricambiò con un'occhiata di ringhiante disprezzo. Il suo avversario esitò qualche secondo, fissando il vecchio con tristezza mista a pietà, e infine si avviò ad ampie falcate nello scompartimento.
Beard lasciò che si fosse ben dileguato prima di alzarsi. Non voleva rivederlo mai più in vita sua. Passò un minuto buono prima che si decidesse a scendere sulla pensilina. Tremava un po', adesso, di rabbia e incredulità e fece perfino fatica a infilarsi il cappotto; gli si era impigliata la cintura intorno a una manica. Aveva una scarpa slacciata. Mentre si inginocchiava a legarla con dita che non volevano saperne di ubbidire, ricordò il mucchio dei suoi giornali, ma decise di lasciarli stare dove erano. Alla fine, più o meno ricomposto, si incamminò sulla pensilina diretto ai tornelli d'accesso.
Fu quello il momento che gli sarebbe rimasto inciso nella memoria, che avrebbe per sempre rappresentato ogni eventuale bilancio della sua vita, ogni futura prospettiva arricchita e corretta sulla sua storia, la sua personale stupidità e le ragioni degli altri. Si era fermato a qualche metro dal tornello. Abbandonò il trolley e infilò la mano sotto il cappotto per cercare il biglietto nella tasca della giacca. C'era qualcos'altro li dentro, una cosetta di plastica, gonfia, leggera, croccante.
Gli tornò in mente il confuso ricordo infantile di un gioco di magia a una fiera di paese: un prestigiatore che estrae dall'orecchio di un Michael Beard appena decenne un uovo, pollo, coniglio, un qualche oggetto fisicamente impossibile. Proprio come questo: il sacchetto di patatine già mangiate. Tirò fuori il pacchetto e lo fissò sbigottito (la bandiera, le sagome danzanti degli animali) desiderando vederlo sparire.
E quell'altro sacchetto? Che congerie di ripensamenti su ogni singolo istante, ogni gesto, sulla natura dell'uomo che non avrebbe voluto rivedere mai più, e su come lui, Beard, al contrario, dovesse aver fatto la figura di un pazzo cattivo. Era in torto marcio, al punto che per il momento si senti quasi liberato, stranamente perfino allegro. Non esistevano scuse, non c'era modo di giustificarsi. Provò addirittura una sinistra voglia di ridere. Il suo sbaglio era cosi assoluto, cosi inappellabile, si rivelava a lui, un idiota fatto e finito, con tanta chiarezza, da farlo sentire purificato, redento, come un penitente, un estatico flagellante medievale con la schiena martoriata di fresco.
Quel poveretto di cui hai divorato acqua e cibo, che ti ha offerto anche gli ultimi bocconi rimasti, che ti ha scaricato i bagagli, era un amico del genere umano. No, per carità, non ancora, lo strazio dell'analessi andava senz'altro posposto. Nonostante la necessità di precipitarsi all'appuntamento, Beard si bloccò a lungo sulla pensilina affollata, sotto l'altissima tettoia di vetro con i suoi clamori echeggianti, mentre i viaggiatori gli passavano accanto e lui si stringeva al petto le sue patatine sentendosi, del tutto erroneamente, inondato di luce. Sul taxi da Paddington al Savoy si raccomandò massima prudenza, dal momento che si sentiva predisposto all'errore, e gli sarebbe toccato parlare in pubblico, e subito dopo, durante l'intervallo del convegno, avrebbe per contratto dovuto mescolarsi alla folla con buona probabilità di imbattersi nei giornalisti, uomini e donne le cui apparenti doti di intelligenza e altruismo mascheravano una spietata aggressività.
Da passati successi costoro sapevano di potergli scucire indiscrezioni, o azzardate ipotesi (il pensiero libero non rientrava forse tra i suoi doveri) che sarebbero apparse assurde o cretine una volta sfrondate di ogni condizionale, limitazione e facezia e messe nero su bianco. Una mera congettura gli era già costata il titolo: La fine è vicina : parola di Premio Nobel. Quanto alla propria, di fine (o quella che al tempo gli era sembrata tale), il fenomeno risaliva soltanto all'anno precedente, e il fatto curioso era che la gente già cominciava a scordarsene. Vale a dire, in certa misura, a perdonare.
Era risaputo che il caso Michael Beard aveva suscitato scalpore, dividendo le correnti dell'informazione, ma i dettagli già si andavano annebbiando. Era stata dimostrata l'inesattezza di un suo enunciato, o aveva avuto sempre ragione Era lui il responsabile di un'aggressione, o ne era forse la vittima? Non era stato perfino arrestato l'individuo coinvolto Al tempo, quando era scoppiata la bufera, un collega, eminenza grigia nella creazione di modelli numerici, gli aveva detto che l'immagine del Premio Nobel in manette tra due ali di folla sprezzante era comparsa su qualcosa come quattrocento e ottantatré giornali. Il fatto che la sua umiliazione avesse avuto risonanza planetaria aveva segnato profondamente Beard, ma a quanto pareva nessun altro vi si era soffermato a lungo. Nuovo materiale era venuto a frastornare la memoria dell'opinione pubblica: scandali inediti, eventi sportivi, confessioni, guerra, gossip sulle celebrità e tsunami gli avevano passato su un bel colpo di spugna.
Un torrente in costante crescita per una dozzina di mesi lo aveva traghettato su un terreno più sicuro. Il suo stesso ricordo dell'accaduto, la grana esatta delle emozioni che l'avevano accompagnato, si andava via via sgretolando.
Trovarsi al centro dell'attenzione mediatica voleva dire provare una sorta di sbalordimento, una vertigine. Per fortuna, anche la macchia depositatasi al fondo della sua personale memoria sbiadiva ormai in un alone indistinto. Certi dettagli però restavano nitidi, mantenuti vivi dall'incessante ripetizione. Pur convinto che le storielle fossero la sciagura di ogni discorso, Beard continuava a tornare sul loro racconto. Spesso denunciava come falsa la sensazione di freddo prodotta sulla pelle dall'acciaio delle manette di cui si legge nei romanzi gialli.
Quelle che avevano messo a lui, per esempio, risultavano riscaldate da un'intera mattinata trascorsa sotto il giubbotto in gabardine senza maniche della poliziotta che lo aveva arrestato. Era stato semmai l'intimo tepore confortevole intorno ai polsi, il trasferimento di calore da un corpo all'altro, a sembrargli sinistro. Analogamente, il cliché voleva che chiunque legga un articolo su un tema di cui ha conoscenza diretta vi trovi almeno un elemento cruciale del tutto errato. Ebbene, la sua esperienza era affatto diversa.
A meravigliarlo era stata la quantità e l'accuratezza dei dati emersi sul suo conto. Il travisamento dipendeva dal modo in cui li si accostava, dalla volontà di suggerire originali implicanze, mantenendosi a un soffio dalla diffamazione. Un altro aspetto che lo sorprendeva era la mole di ricerca e il modo in cui quei cronisti instancabili erano riusciti, in capo a un paio di giorni, a penetrare i quartieri oscuri, i recessi sovraffollati di una vita privata, strappando ad esempio una preziosa valanga di cattiverie al fratello maggiore della sua terza moglie: un recluso pressoché afasico che lo aveva sempre detestato e che viveva senza telefono ai margini di una pista sterrata sulla penisola nordoccidentale di Bruny Island, al largo della Tasmania.
La stampa rovesciò la vita di Beard come si potrebbe fare con un cestino di rifiuti. Due scossoni e, voilà, ecco esposto in bella vista ogni brandello semi dimenticato. In circostanze diverse sarebbe anche valsa la pena di pagare, per un servizio del genere. In forma autonoma l'una dall'altra, le sue ex consorti, le care vecchie Maisie, Ruth, Eleanor, Karen e Patrice, si rifiutarono di rilasciare dichiarazioni alla stampa. Il che lo commosse profondamente. Quanto alle amanti del passato, gli furono perlopiù leali, e solo una piccola frangia decise di parlar chiaro: un'assistente di laboratorio, una segretaria dell'amministrazione.
C'erano anche due scienziate, entrambe fallite, due nullità. Curiosamente, si fece avanti perfino qualche impostora. Allo squillo delle Trombe del Giudizio, una folla sparuta di ex amanti e pretendenti strisciò dalle fosse e dalle catacombe in cerca di luce, e si presentò al proprio creatore, vale a dire a un cronista armato di penna e taccuino, per denunciare Beard come un verme misogino e sfruttatore.
Ma silenzio e lealtà non bastarono a tenere nessuno al riparo dai guai. La copertura mediatica fu totale. Fino a quando l'attenzione della stampa non venne distratta da uno scandalo calcistico, Beard rimase il trastullo preferito della carta stampata. Una prima pagina lo ritrasse in una vignetta attribuendogli le sembianze di un capro lascivo e ammiccante che, restando adagiato sul sottotitolo All' interno, parlano le donne di Beard, rivolge al lettore un cenno d'invito con lo zoccolo unghiuto. Già mentre apriva il giornale con cuore affranto e passava in rassegna una galleria di facce che comprendevano vecchie amiche, colleghe, mogli e Melissa, gli si rimescolava dentro qualcosa e una vocina segreta, irreprimibile, scevra da ogni umiliazione, gli bisbigliava che non se l'era poi cavata male in quei tre o quattro decenni, che tutte quelle signore condividevano un lampo di qualità, di notevole autocontrollo.
Quanto alle simulatrici, alle opportuniste, si riducevano a tre in tutto e non erano neanche belle. Come non essere interessato, però, alle notti immaginarie che avevano trascorso in sua compagnia Beard ne era lusingato. Nel complesso, tuttavia, fu un brutto periodo. Cominciato in modo abbastanza innocente: un click di mouse con il quale Beard accettava l'invito a dirigere un progetto del ministero volto a promuovere lo studio della fisica nelle scuole e nelle università e a incoraggiare laureandi e docenti alla professione, rendendo merito ai successi del passato ed elevando i fisici a campioni del mondo intellettuale. L'invito gli giunse in un momento in cui era più impegnato che mai e avrebbe potuto benissimo rifiutare. Aveva in corso un progetto di fotosintesi artificiale presso l'Imperial College, con quindici persone che lavoravano alle sue dipendenze.
Era ancora al Centro, sebbene perlopiù allo scopo di incassare il proprio compenso. Riteneva inoltre importante tenere il nuovo lavoro lontano dalle grinfie di Jock Braby. Beard aveva fondato la propria società, andava collezionando brevetti di marmitte catalitiche e altri processi industriali e aveva conosciuto Toby Hammer, un energico ex alcolista, faccendiere e mediatore che sapeva come muoversi tra le burocrazie accademiche, la legislazione statale e le case private dei capitalisti di ventura.
Beard e Hammer si erano occupati di trovare una sede ricca a livello di solare, dapprima nel deserto libico, poi in Egitto, in Arizona e Nevada e infine, con un decoroso compromesso, in New Mexico. Beard era insomma pieno di iniziative e si andava spogliando di molti dei vecchi incarichi sine cura. Ma a quella richiesta, pervenutagli dall'istituto diFisica, era stato difficile dire di no. Ed eccolo dunque alla prima riunione del suo comitato in un'aula seminariale dell'Imperial College.
I suoi colleghi erano tre docenti di fisica di Newcastle, Manchester e Cambridge, due insegnanti di secondaria superiore rispettivamente di Edimburgo e di Londra, due presidi di Belfast e Cardiff, e una professoressa di scienze sociali di Oxford. Beard chiese ai convenuti di presentarsi a turno, illustrando brevemente le proprie esperienze professionali. Fu un errore. I docenti di fisica la tirarono troppo per le lunghe. Si mostrarono ammirati del loro stesso lavoro e istintivamente competitivi.
Se il primo aveva deciso di scendere in minuzioso dettaglio, altrettanto avrebbero fatto il secondo e il terzo. Non furono solo le vecchie abitudini a rendere Beard impaziente di ascoltare l'insegnante di scienze sociali, ma anche il fatto che la disciplina rappresentava per lui un'autentica novità. Fu l'ultima a parlare, presentandosi come Nancy Tempie. Aveva un viso rotondo non precisamente grazioso, ma cordiale e gradevole, dall'incarnato di un rosa acceso e infantile e dai tratti morbidi che disegnavano una bella curva tra zigomo e profilo del mento. Beard pensò che non ci sarebbe stato nulla di male a invitarla a cena. Appena prese la parola, fece notare che era l'unica donna presente in sala e che la commissione rifletteva uno dei problemi stessi di cui forse avrebbe inteso occuparsi. Intorno al tavolo, tutti, compreso Beard, che aveva convocato ogni membro del gruppo tranne Nancy Tempie, si profusero in mormorii di enfatico assenso.
La voce della donna aveva la cantilena ipnotica dell'Ulster. La Tempie confermò di essere cresciuta in un quartiere piccoloborghese di Belfast e di aver frequentato la Queen's University, laureandosi in antropologia sociale." Disse che il modo migliore per rendere conto del suo campo d'interesse sarebbe stato illustrare un progetto di cui si era occupata di recente, uno studio approfondito della durata di quattro mesi, condotto a Glasgow presso un laboratorio di genetica nel quale si lavorava all'isolamento e alla descrizione di un gene del leone, il Trim5, e della sua funzione.
Scopo del progetto era dimostrare che quel gene, come ogni altro del resto, era inequivocabilmente un prodotto socioculturale. Senza i molti strumenti «implementativi» di cui gli scienziati potevano avvalersi lo scintillatore a singolo fotone, il citofluorimetro a flusso, l'immunofluorescenza e cosi via non sarebbe stato nemmeno possibile affermare che il gene esistesse. Tali strumenti, costosi da acquistare e di utilizzo decisamente complesso, risultavano perciò carichi di significati socioculturali. Il gene non era un'entità oggettiva in attesa di essere scoperta dagli scienziati, bensì il frutto delle loro ipotesi, della loro creatività e delle loro tecnologie, senza le quali non sarebbe mai stato individuato.
E quando aveva finalmente trovato espressione in termini di coppie di basi e del suo probabile ruolo, quella descrizione, quel testo avevano significato e assumevano reale esistenza solo all'interno della limitata rete dei genetisti in grado di leggerli. Fuori da quell'ambiente, il Trim5 non esisteva.
Durante la presentazione, Beard e i fisici delle varie scuole e università ascoltarono con un certo imbarazzo. Evitarono, per educazione, di scambiarsi occhiate. Tendevano ad accettare la prospettiva convenzionale, quella per cui il mondo esisteva autonomamente, in tutto il proprio mistero, e in attesa di essere descritto e spiegato, il che non impediva che l'osservatore lasciasse impronte digitali sparse qua e là sul suo campo di osservazione. A Beard era giunta voce che nelle facoltà umanistiche circolassero idee strane. Si diceva che agli studenti di tali discipline venisse abitualmente insegnato che la scienza era solo un sistema di credenze come altri, attendibile quanto la religione e l'astrologia, né più né meno. Ma lui aveva sempre pensato che si volesse gettare discredito sui colleghi umanisti,I risultati parlavano da soli, no?
Chi si sarebbe mai sottoposto a un vaccino realizzato da un prete Quando Nancy Tempie arrivò alla conclusione del proprio intervento, Newcastle e Cambridge presero la parola all'unisono, più strabiliati che offesi. E della malattia di Huntington, ad esempio, che cosa mi dice? fece uno, mentre l'altro chiedeva: Lei crede sinceramente che ciò che non si conosce non esista Beard, galante a oltranza, ritenne proprio dovere difenderla; era perciò sul punto di intervenire, ma la professoressa Tempie lo anticipò, replicando in tono indulgente.
Anche la corea di Huntington è inserita in un contesto culturale. In passato se ne forniva una definizione narrativa, come castigo divino o possessione demoniaca. Al giorno d'oggi è la storia di un difetto genetico e domani probabilmente si trasformerà in qualcos'altro. Quanto ai geni di cui non sappiamo niente, beh, è ovvio che non ho nulla da dire. Di quelli che sono stati descritti, è evidente che ci arrivano solo mediati dalla cultura.
Fu la sua calma a scatenare le proteste e questa volta il presidente dovette inserirsi con fermezza era un gioco che conosceva assai bene per ricordare ai membri della commissione che il tempo era poco, e per guidare la loro attenzione al secondo punto all'ordine del giorno. Il programma prevedeva dodici incontri nell'arco di tredici mesi al termine dei quali avrebbero fornito delle indicazioni.
Era il momento di buttare giù qualche data. Più tardi nel pomeriggio, la commissione prese posto dietro un lungo tavolo in una sala della Royal Society per presentare alla stampa quello che l'ufficio pubbliche relazioni di un qualche ministero aveva denominato «Progetto Fisica UK». Aveva il suo bravo logo, esposto su un cavalletto: un frivolo monogramma delle lettere E, M e C elevate al quadrato e infilzate in un segno di «uguale», a formare una specie di arbusto asimmetrico.
Beard presentò i suoi colleghi, introdusse brevemente il progetto e propose di passare alle domande. I giornalisti, a testa bassa su registratori e taccuini, apparivano mortificati dalla serietà di quell'incarico, dalla scandalosa povertà di contraddittorio che offriva. Chi avrebbe mai osato prendere posizione contro dei fisici Le domande perciò erano fiacche, le risposte scontate. Il progetto era nel complesso deprecabilmente meritevole. Perché fare al governo il favore di scriverne a lungo.
Poi l'inviata di un tabloid di fascia media formulò una domanda di per sé banale, un po' un vecchio luogo comune, e Beard diede quella che ritenne una risposta moderata. Si, in effetti, la rappresentanza femminile in ambito fisico era sempre esigua. Il problema era stato ampiamente dibattuto e senz'altro la sua commissione (qui Beard parlava ben consapevole della presenza della professoressa Tempie) se ne sarebbe fatta carico nuovamente, cercando di individuare strategie che invogliassero più studentesse a dedicarsi alla disciplina. Beard riteneva che non esistessero più barriere istituzionali, né pregiudizi di sorta.
In altre branche della scienza la componente femminile era cospicua; in alcune, addirittura predominante. Infine, poiché stava tediando se stesso, aggiunse che forse un giorno sarebbe stato necessario accettare l'ipotesi che si fosse raggiunto il famoso soffitto.
Non che mancassero fisici donna di grande talento; cionondimeno era se non altro concepibile che potessero rimanere per sempre una minoranza, ancorché sostanziale, nel campo specifico. Perché escludere l'idea che ci potessero essere comunque più uomini che donne desiderosi di consacrarsi alla fisica Vaste ricerche sperimentali in campo di psicologia cognitiva confermavano unanimi la notevole differenza sul piano statistico di cervello maschile e femminile.
Qui non c'entrava affatto la superiorità di genere, intendiamoci, e nemmeno i condizionamenti sociali che pure consolidavano un fenomeno esistente. Si parlava di differenze innate nelle abilità cognitive, differenze osservate su ampia scala. Studi e metastudi dimostravano come, in media, le donne disponessero di maggiori capacità linguistiche, miglior memoria visiva, interpretazione emotiva più acuta e superiore predisposizione al calcolo matematico.
Gli uomini ottenevano punteggi più alti nella risoluzione di problemi matematici, nel ragionamento astratto, e nella consapevolezza visivospaziale. Maschi e femmine avevano priorità diverse nella vita, e atteggiamenti diversi rispetto al rischio, al prestigio sociale e alle gerarchie.
Ma soprattutto, esisteva la differenza più notevole, quella che comportava la deviazione standard più ripetutamente analizzata: sin dall'infanzia, le bambine tendevano a interessarsi maggiormente alle persone, i maschi alle cose e ai principi astratti. Tale divergenza aveva riscontro nelle discipline scientifiche di cui rispettivamente sceglievano di occuparsi: più donne si interessavano alle scienze biologiche e sociali, più uomini all'ingegneria e alla fisica. Beard si rese conto che andava perdendo l'ascolto vigile dei presenti in sala. Era quello l'effetto che formule come «deviazione standard» sortivano abitualmente sui giornalisti.
Qualcuno, verso il fondo, cominciava a chiacchierare. In prima fila, un azzimato reporter di una certa età aveva chiuso gli occhi. Beard si affrettò a concludere. Restava certamente parecchio lavoro da svolgere per richiamare più donne nel mondo della fisica e farle sentire bene accolte.
Ma non si poteva escludere che il futuro indicasse come spreco di energie la lotta tesa al raggiungimento della parità a tutti i costi, quando esistevano settori di studio che le donne prediligevano. La giornalista che aveva posto la domanda annuiva stancamente. Dietro di lei, qualcuno era sul punto di formularne un'altra che non c'entrava affatto. La mattina sarebbe scivolata come sempre nel dimenticatoio non fosse che, a quel punto, la professoressa di scienze sociali si alzò di scatto, accendendosi di un rosa carico, radunò rumorosamente le proprie carte e dichiarò: Prima di uscire a vomitare, e intendo vomitare l'anima, per quanto ho appena sentito, voglio rassegnare le mie dimissioni dalla commissione del professor Beard.
Si diresse spedita alla porta, tra il vociare chiassoso dei giornalisti che, schierati in piedi, rumoreggiavano spostando le sedie sul palchetto. Finalmente si sentivano coinvolti sul piano professionale, euforici, smaniosi, competitivi, e si lanciarono all'inseguimento. La sala si andava svuotando e il professor Jack Pollard, lo specialista di gravità quantistica di Newcastle che aveva di recente tenuto un ciclo di Reith Lectures, e che sembrava sempre al corrente di tutto, bisbigliò all'orecchio di Beard: Credo che l'abbia fatta grossa, questa volta. Quella è postmoderna, mi spiego Una fanatica della tabula rasa, del costruttivismo sociale. Come tutte le altre, no?
Ci prendiamo un caffè Sul momento quelle definizioni non significarono granché per Beard. L'unica cosa a cui riuscisse a pensare era: non è cosi che uno dovrebbe rassegnare le proprie dimissioni. E, subito dopo, un pensiero ancora più elementare: gli conveniva andarsene al più presto, pur sapendo che Pollard aveva una gran voglia di chiacchierare. In circostanze diverse, Beard sarebbe stato ben lieto di fargli compagnia in un caffè per un'oretta. Esisteva una comunità variabile di membri internazionali legati da un affetto esclusivo e geloso che, pur tra storiche defezioni e decessi, a partire dai giorni eroici della classica teoria delle stringhe, avevano condiviso il lungo viaggio verso la ricerca del Sacro Graal: l'unificazione delle forze fondamentali con la gravità.
Col tempo, essi avevano constatato i limiti delle stringhe e abbracciato le superstringhe e la teoria delle stringhe eterotiche per giungere, guidati da quei fili, nel cavernoso rifugio materno della Mteoria. Ogni conquista aveva portato con sé una nuova serie di problemi, contraddizioni, impossibilità fisiche.
Dieci dimensioni, allora, undici, con un occhio sempre rivolto indietro ai campioni della supergravità ! Dimensioni arrotolate strette su sei cerchi, la riscoperta della teoria di KaluzaKlein degli anni Venti, le incantevoli contorsioni delle varietà orbitali di CalabiYau! E la singolare esperienza drammatica dell'universo nel suo primo centesimo di secondo! Quello di Beard non era stato un ruolo creativo anche perché la matematica necessaria non era del tutto alla sua portata, ma conosceva gli aneddoti. E le battute: come quella del teorico delle stringhe che, sorpreso dalla moglie a letto con un'altra, esclama: «Tesoro, posso spiegarti tutto! »
Quanto cammino percorso e quanta strada ancora da fare: gli estremi limiti dell'intelligenza dell'uomo, intrecciati a vicende anche troppo umane. Il fisico teorico che aveva trascurato la moglie morente, senza peraltro riuscire a riformulare il problema. L'oscuro postdoc capace di risolvere una serie di incoerenze grazie a un'intuizione liberatoria che gli devasterà la salute. Il famoso congresso che aveva vergognosamente negletto un'insigne personalità del passato.
Il leccapiedi mediocre che riesce a ottenere la super sovvenzione. La violenta rottura tra due giganti che avevano lavorato fianco a fianco nello stesso laboratorio. Si, avrebbe tanto desiderato scambiare due parole, ma percepiva una contrazione crescente intorno alla sua persona, qualcosa di simile all'addensarsi del buio o al suo equivalente emotivo. Era nei guai e gli conveniva svignarsela, prima di peggiorare le cose.
Si scusò brevemente con Pollard e gli altri, prese la borsa, lasciò la stanza e si incamminò verso l'atrio, per uscire infine dall'ingresso principale. Fuori, il sole e il ronzio di fondo della città parvero ridimensionare le sue preoccupazioni. Una catena montuosa avrebbe potuto fargli lo stesso effetto. Magari aveva ingigantito le cose. Di passaggio, colse frammenti della conferenza stampa rilasciata da Nancy Tempie sul marciapiede, in toni di garbata ragionevolezza: «... riscoperta dell' eugenetica... sinistre rivendicazioni sulla presunta natura umana... attacco neoliberale alla collettività... » Simpatiche formule a effetto, pronte per i tabloid. Alcuni dei cronisti che le si accalcavano intorno usavano il tettuccio di un'auto parcheggiata per appoggiare il taccuino, altri dettavano già l'articolo al cellulare. Forse la Tempie nemmeno sapeva che parte di tanto interesse riguardava di fatto il governo. Una commissione statale era nei guai.
L'ennesimo fallimento di Blair. Beard ignorò le voci che lo chiamavano per nome mentre attraversava la strada. Mai prestarsi ad alimentare un pettegolezzo giornalistico sul proprio conto. L'indomani però, si chiese se avrebbe fatto meglio a voltarsi, quando lesse il passaggio che descriveva la sua «vergognosa fuga alla chetichella», sovrastato dal titolo: Premio Nobel dice no alle pollastre da laboratorio. In principio sembrò che quella particolare vicenda non avesse futuro, che non potesse far presa. Dopo un trascurabile fiorire di titoli sui giornali del mattino, per un paio di giorni calò il silenzio. Beard pensò di essersela cavata. Invece in quell'intervallo un tabloid si era dato da fare con le ricerche. Il sabato, le rivelazioni sulla sua «vita sentimentale» vennero abilmente intrecciate alla storia del suo «no alle ragazze in camice bianco».
La domenica, gli altri giornali tornarono in massa sulla notizia, rincarando la dose, e Beard fu ribattezzato «il genio puttaniere», un «dongiovanni da Premio Nobel» e descritto come una specie di satiro erudito: «il montonelaureato». C'era qualche accenno all'omicidio di Aldous, ma il vecchio punto di vista che faceva di Beard l'incarnazione dell'inerme e sognante cornuto, dell'ingenuo idiota, del fesso con moglie volubile, veniva debitamente accantonato.
Ora lo si presentava come un uomo spregevole, uno che si portava a letto le donne escludendole contestualmente dal mondo scientifico. I quotidiani più seri lo descrivevano come un fisico passato al «determinismo genetico», un fanatico della sociobiologia le cui idee in materia di genere si manifestavano come frutto indiretto del darwinismo sociale il quale, a sua volta, aveva sfornato le teorie razziali del Terzo Reich. Un giornalista infine, sviluppando arditamente il concetto, più in spirito di personale ripicca che di autentica convinzione, arrivò a suggerire che Beard fosse un neonazista.
Sul momento nessuno prese sul serio l'accusa, ma altri quotidiani si sentirono autorizzati a riferire quel termine pur prendendone le distanze, e cautelandosi con l'uso di virgolette legittimarono di fatto l'insulto.
Beard diventò il «Professore Neonazista». Un articolo su una testata di centrosinistra dichiarò che le più sostanziali differenze tra uomini e donne erano invenzioni culturali. Beard replicò con una lettera fiaccamente sarcastica di appena sei righe che pure aveva richiesto decine di stesure e quattro ore di tempo per la compilazione. Vi si leggeva infatti che a tutt'oggi gli uomini non erano in grado di partorire e che era tutta colpa del sistema sociale. La lettera fu pubblicata, ma nessuno parve farci caso. Una settimana più tardi, lo stesso giornale ospitò il dibattito tra Beard, Tempie e altri sul tema «Donne e Fisica», nella sede dell'Ica.
A quel punto, Beard era deciso a chiarire una volta per tutte le sue posizioni. Si trovò a dividere il palco con vari accademici di facoltà umanistiche, perlopiù uomini, tutti ostili. Per ragioni che nessuno si peritò di rendere note, la professoressa Tempie non era presente e aveva inviato una collega al suo posto. E gli scienziati, che fine avevano fatto?, si affannava a chiedere Beard prima che si desse inizio ai lavori. Nessuno sembrava saperlo. L'auditorium registrò il tutto esaurito.
In una seconda sala, altra folla poteva seguire l'evento sui monitor. Il rilievo che la stampa aveva dato alla vicenda funzionò, stuzzicando l'appetito. La gente smaniava dalla voglia di vedere un mostro contemporaneo dal vivo, per potersi scandalizzare. Quando Beard si alzò in piedi, qualcuno arrivò al punto di trattenere il fiato. In un crescendo di mormorii sprezzanti, lui confermò la linea già seguita, citando gli stessi studi cognitivi, solo in modo più approfondito.