mercoledì 21 agosto 2024

PERTURBAMENTO Thomas Bernhard


PERTURBAMENTO 

Thomas Bernhard

 Recensione 

Perturbamento (Adelphi, 1981) è un romanzo paradigmatico dell’intera parabola letteraria di Thomas Bernhard, perché contiene gran parte  delle caratterizzazioni e delle figure tipiche dello scrittore. In una scenografia austriaca,  montagnosa e arida, in cui la degradazione della natura sembra riflettere appieno la degradazione dell’umano, la scrittura di Bernhard scava in profondità, per mezzo di un linguaggio ridotto all'essenziale e dunque potente,  abile a eslorare ossessivamente gli anfratti più cupi dell'esistenza. La versione che segue è quella del 1981 e include una postfazione di Eugenio Bernardi, che pone l’autore al limite del decadentismo, in un’area in cui riecheggiano romanticismo e bisogno ossessivo di ricercare l’origine.I monologhi di Perturbamento, infatti, tendono a questo. Il turbamento dei personaggi si tramuta in malattia. La follia dei pazienti che il medico incontra nel corso della sua giornata lavorativa è la manifestazione dello stupore che agita queste anime sensibili davanti alla dissoluzione di ogni istituzione umana. Perturbamento è un libro scritto in un tempo di passaggio, in cui nuovo e vecchio si scontrano. Il futuro incute terrore, il passato invece è solo un barlume di speranza. Non è stato un tempo migliore ma solo un punto di partenza che non si deve mai perdere di vista. Fatto sta che i personaggi di Bernhard sono spaesati, si aggrappano al passato solo per sfuggire al terrore che provano verso il futuro.


PERTURBAMENTO 

Il ventisei mio padre già alle due del mattino prese la macchina e andò a Salla, da un maestro che trovò morente e lasciò morto, e ripartì subito dopo per Hullberg per curarvi un bambino che in primavera era caduto in un mastello per maiali pieno di acqua bollente e che ora, dimesso dall'ospedale, già da parecchie settimane era di nuovo in casa dei suoi genitori.

Andava volentieri da quel bambino e non perdeva occasione di fargli una visita. I genitori erano persone semplici, il padre minatore a Koflach, la madre domestica nella casa di un macellaio a Voitsberg, il bambino però non veniva lasciato solo tutto il giorno, gli badava una sorella della madre. Quel giorno mio padre descrisse con più precisione del solito quel bambino e disse che temeva che gli restasse ancora poco tempo da vivere. Con sicurezza poteva dire che non avrebbe passato l'inverno, e lui adesso sarebbe andato a trovarlo il più spesso possibile. Mi accorsi che parlava di quel bambino come di una persona cara, con molta pacatezza e senza soppesare le parole; non nascose un'evidente simpatia per il bambino quando accennò all'ambiente in cui il bambino era cresciuto ed era stato più sorvegliato che educato dai genitori, completando e spiegando le sue idee a proposito dei genitori e del loro rapporto con il bambino in base alla conoscenza che aveva del mondo in cui vivevano le persone descritte. Intanto andava su e giù per la sua stanza e ben presto non sentì più il minimo bisogno di tornare a letto. Adesso lui era l'unico medico in una zona relativamente grande e per giunta «difficile», da quando l'altro medico aveva accettato una chiamata all'Università di Graz e si era trasferito nel capoluogo della regione. C'erano scarse probabilità, disse, che ne arrivasse uno nuovo. Aprire un ambulatorio qui era un'impresa che rasentava la follia. Ma lui era abituato, ormai, a essere vittima di una popolazione malata fino al midollo, portata alla violenza e anche alla pazzia. Se io venivo a casa per il fine settimana, questo gli dava un senso di tranquillità che sempre più, disse, gli era necessario. Aveva l'aspetto stanco. Ma quando l'Ache ci abbagliò, dopo che ebbi aperto le finestre, egli disse che avrebbe fatto una passeggiata. «Vieni con me,» disse «andiamo». Parlava, mentre io mi vestivo, di un «prodigio della natura», di un castagno che adesso, a fine settembre, era in fiore e che lui aveva scoperto fuori dell'abitato, sulle rive della Ache. Probabilmente coglierà l'occasione, pensai, per parlare finalmente con me di questioni riguardanti i miei studi a Leoben, i miei studi di scienze minerarie. Adesso aveva tempo, poi, per tutta la giornata, sarebbe stato occupato nelle visite ai suoi malati. «Sai,» disse «spesso tutto mi è di troppo».

Non volevamo svegliare mia sorella e facendo meno rumore possibile scendemmo nell'ingresso, dove erano appesi i nostri cappotti. Quando però, vestiti, stavamo per uscire di casa, il campanello suonò e davanti alla porta si presentò un uomo a me sconosciuto, un oste, come poi si capì, di Gradenberg, che chiese a mio padre di andare subito con lui.

E così partimmo con la macchina dell'oste verso Gradenberg, invece di passeggiare e conversare sulle rive della Ache, e del castagno in fiore non si fece più parola, e udimmo cose assai preoccupanti sulla moglie dell'oste. Rimasta a servire, disse il marito, alcuni minatori fino alle due di notte i quali, ubriachi da ore e ore, si erano divisi in due gruppi rivali, all'improvviso e senza alcun motivo era stata colpita alla testa da uno di loro e subito era caduta per terra svenuta davanti ai minatori. I minatori atterriti l'avevano portata subito su nella camera da letto che si trovava al primo piano dell'osteria e, salendo le scale, la testa della donna aveva battuto più volte contro la ringhiera. Avevano steso la donna sul letto e al marito che, quando i minatori avevano aperto la porta con una spinta, si era svegliato e alzatosi stordito era stato messo al corrente del fatto dai minatori diventati improvvisamente sobri, questi, i minatori, avevano consigliato di denunciare subito alla gendarmeria, quella notte stessa, Grossi, un bruto che tutti conoscevano, sia pure solo di sfuggita. I gendarmi, anche quello di servizio, dormivano tutti, disse l'oste, ma lui tirando sassi contro le finestre della gendarmeria, alla fine era riuscito a farsi sentire e a entrare nel posto di guardia. Dapprima i gendarmi gli avevano consigliato di ritornare in mattinata per fare una dichiarazione a verbale, ma lui aveva insistito per un'immediata verbalizzazione chiedendo che almeno uno dei gendarmi andasse con lui all'osteria: lì c'era sua moglie svenuta e lì stavano aspettando i minatori che, secondo lui, avrebbero dovuto fare subito le loro deposizioni. Ma era ormai troppo tardi quando lui tornò all'osteria, tutti i minatori eccetto uno se ne erano andati quando i gendarmi entrarono con lui nella camera da letto. Subito aveva pensato che mai avrebbe dovuto lasciare sola sua moglie, neanche un minuto, appena si trovò davanti a lei, colto all'improvviso dalle più orrende ipotesi e congetture, vicino al minatore Kolig che era stato accanto a lei per tutto quel tempo, un uomo che lui non conosceva bene, ma solo perché veniva qualche volta all'osteria, e non era considerato uno del posto nel senso di un uomo fidato, e inoltre parlava un dialetto sgradevolmente diverso da quello stiriano che si parlava nella zona.

Benché Kolig, che era rimasto accanto alla moglie dell'oste, fosse tanto ubriaco da poter sì stare in piedi, ma da non essere capace di dire neanche una frase brevissima, il più giovane dei gendarmi, dopo avergli ordinato di sedersi sulla sedia che stava lì in un angolo, lo aveva immediatamente interrogato, mentre il più anziano dei due scattava fotografie della donna svenuta sul letto come se si trattasse di una morta. Quello che Kolig, interrogato, fece mettere a verbale, erano dichiarazioni che non servivano a niente, e quando, non riuscendo più a stare seduto, fu lì lì per cadere con la testa in avanti, il gendarme, scontento di lui, lo prese e lo trascinò via spingendolo fuori nel corridoio.

Il latitante Grossi era uno di quei tipi, disse l'oste, che in ogni osteria dove mette piede, ci rimane fino a quando, infallibilmente, non si mette in urto con la legge. Non era difficile scovarlo, dissero i gendarmi, e, considerando i precedenti penali di Grossi, avevano parlato di una pena detentiva di parecchi anni, visto che il reato di grave lesione personale era provato dal pugno di Grossi sulla testa della moglie dell'oste e dallo svenimento di lei. Appena il gendarme più anziano aveva parlato di grave lesione personale, a tutti era venuto in mente che bisognava avvertire un medico. «Nel frattempo sono passate un paio d'ore» disse l'oste.


Erano già le quattro e mezzo quando noi, arrivati a Gradenberg, fummo condotti immediatamente dall'oste nella camera da letto dove si trovavano i due gendarmi. Mio padre disse che tutti gli uomini dovevano uscire nel corridoio. Mentre lui là dentro visitava la donna, che, per quell'attimo in cui la vidi, mi fece l'impressione di essere già morta, nel corridoio i due gendarmi si espressero molto sfavorevolmente sul conto di Kolig che giaceva lì sul pavimento, definendolo ottuso e totalmente irresponsabile verso la sua famiglia di sei persone. Non sapevano cosa fare di lui; quando mio padre uscì dalla camera da letto, stavano giusto trascinando via dalla scala Kolig che con le sue gambe la ostruiva a metà, tirandolo per le spalle della giacca, e poi di lui non si curarono più. La donna era davvero ferita gravemente e bisognava portarla subito all'ospedale di Koflach, disse mio padre, i gendarmi dovevano portarla giù con precauzione e stenderla nel furgone.


Umida, con una tappezzeria verde e marrone, piena zeppa di mobili dozzinali di legno dolce, la stanza da cui i gendarmi portarono fuori la moglie dell'oste era buia anche in pieno giorno. Mio padre, passandomi accanto mentre scendeva le scale dietro i gendarmi che portavano giù con precauzione la donna, mi lanciò un'occhiata, e io pensai che quello era un segno gravissimo per la moglie dell'oste.


Nel furgone io avevo preso posto accanto all'oste che guidava, mentre mio padre stava seduto dietro di noi, accanto alla donna distesa sulla panchetta.


Per tutto il tragitto, che abbreviammo passando per Krennhof, l'oste ed io non scambiammo una sola parola. Viaggiavamo di mattina presto, la guida fu dunque facile e veloce. Non ero stato da quelle parti da molto tempo, pensai, e dovevo andare indietro con la memoria fino alla primissima infanzia per vedermi qua e là sulle rive del Gradnerbach. Mi venne in mente quante poche volte mio padre mi avesse portato con sé nei suoi viaggi e che, dalla morte di mia madre, avevo sempre dovuto arrangiarmi da solo. Mia sorella, trovandosi in una situazione non diversa dalla mia, la viveva di sicuro in maniera ancora più dolorosa.


Evidentemente, data l'atmosfera, l'oste che prima, durante il viaggio per Gradenberg aveva parlato in continuazione, durante il viaggio per Koflach non apri bocca. Anche a me sarebbe sembrato assurdo rivolgergli la parola. Mi sembrava chiaro, se avevo ben capito mio padre, che la donna non sarebbe arrivata viva a Koflach; invece, quando gli infermieri la trassero fuori dalla macchina non era morta, e morì però mentre noi eravamo ancora in ospedale. Prima ancora di entrare nell'unica stanza operatoria, non si può certo chiamarla sala operatoria, esistente nell'ospedale, lei era morta e suo marito lo aveva intuito, e mentre gli infermieri la spingevano attraverso il corridoio, lui le aveva tenuto la mano e aveva pianto. Non gli permisero di stare accanto alla moglie morta, ma lo condussero giù nel cortile, dove, completamente abbandonato a se stesso, dovette stare ad aspettare mio padre per mezz'ora. Io lo lasciai solo e lo osservai in modo che lui non vedesse che lo stavo osservando. Poi arrivò mio padre e si mise a camminare con lui nel cortile cercando di calmarlo. Gli parlò delle cose indispensabili da fare subito, di questioni attinenti alla sepoltura, dell'inchiesta giudiziaria, della denuncia contro Grossi per omicidio. Per l'oste adesso era meglio, disse mio padre, che restasse fra la gente e non si isolasse nella sua sofferenza, dentro la sua sofferenza, lui, mio padre, avrebbe svolto in sua vece varie formalità previste dalla legge, come quella di andare in tribunale, e in altre incombenze, come quella innanzitutto di raggiungere sua moglie all'obitorio, l'avrebbe accompagnato consolando il suo dolore. Aveva constatato sulla defunta, disse ancora mio padre, un'emorragia cerebrale sicuramente letale e già nelle prime ore della mattinata avrebbe ricevuto l'esatto referto dal medico del tribunale distrettuale. Che lui, mio padre, fosse stato chiamato dall'oste solo tre ore dopo il pugno mortale, non aveva alcuna importanza. Comunque non avrebbe potuto salvarla. La defunta era nel suo trentaduesimo anno di età e mio padre la conosceva da molto tempo. A lui era sembrato sempre un segno di mostruosa brutalità da parte degli osti il fatto che, mentre loro, stanchi morti dopo aver sfacchinato tutto il giorno a macellare, a commerciare bestiame, a lavorare nei campi, hanno l'abitudine di andare a letto presto la sera, costringono le mogli, dato che non pensano ad altro che agli affari, a rimanere nelle osterie aperte fino all'alba, abbandonate a se stesse e a un mondo di uomini i quali, man mano che passano le ore e aumenta il consumo di bevande alcooliche, sempre meno, avvicinandosi il mattino, vanno per il sottile nella scelta dei mezzi per manifestare la loro brutalità; mio padre disse queste cose quando per un momento ci staccammo dall'uomo che camminava con noi e che, a quanto sembrava, era fuori di sé. «Le notti protratte troppo a lungo all'osteria finiscono tutte male,» disse mio padre «e spesso in questa zona anche con la morte di qualcuno». Obbligata dal marito in modi estremamente odiosi a rimanere per mezze o intere nottate nell'osteria insieme agli ubriachi, con l'unico scopo di spillar loro del denaro senza badare ai mezzi, cacciando nelle loro docili budella dell'acquavite di pessima qualità, spesso la vittima è proprio lei, la vittima è la moglie dell'oste, che si rivela inerme nonostante i suoi modi ordinari. All'oste, quando lo raggiungemmo di nuovo, mio padre disse che sarebbe stato facile trovare Grossi. La gendarmeria era avvertita e in qualsiasi posto Grossi si fosse nascosto, non gli sarebbe servito a nulla. Ma quanto più mio padre cercava di convincere quell'uomo, il quale, abituato com'era al bestiame che commerciava e al mondo degli osti che era il suo mondo, impersonava tipicamente la brutalità che regna in tutta la zona del Bundscheck, sicché le sue lacrime e il suo totale sgomento erano addirittura commoventi, quanto più mio padre gli parlava, dunque, tanto più si rendeva conto che i suoi sforzi erano insensati; così gli diede soltanto le istruzioni indispensabili in una forma che a me parve semplice e comprensibile e poi lo lasciammo di nuovo solo con se stesso.


Mio padre andò all'obitorio e si consultò con il collega del tribunale, mentre io, osservando nel contempo anche l'oste che andava a sedersi sull'unica panchina di tutto il cortile dell'ospedale, immaginavo il cadavere di sua moglie dentro il carretto a due ruote che un giovane infermiere stava spingendo passandomi accanto. La vista del carretto dell'obitorio non fu una novità per me, dato che spesso, nel passare davanti all'ospedale quando andavo a scuola, mi ero fermato nel punto in cui, fra due cespugli di sambuco, si può intravedere l'obitorio; mi fermavo per guardare il carretto che, quando non viene utilizzato, rimane giorno e notte accanto all'ingresso dell'obitorio, in una rimessa aperta da un lato, il che mi permetteva di scorgerlo. Sempre questo carretto dell'obitorio fatto di lamiera ha esercitato su di me un fascino terrificante, e nei miei sogni infantili è spesso comparso sulla scena come un orribile fondamentale elemento. Il giovane infermiere, appena diplomato, spingeva il carretto verso l'ingresso dell'obitorio e di lì sentii arrivare mio padre. Mio padre, pensai, quando uscimmo dal cortile dell'ospedale camminando in fretta e rasentando i muri per evitare di essere visti dal povero oste che continuava a star seduto sulla panchina, non agisce mai, come spesso sono accusati di fare i medici, là dove si seri te a casa sua, cioè con i malati e negli ospedali, come se avesse a che fare con un'enorme e impenetrabile azienda, ma piuttosto, pensai quel giorno, come se avesse a che fare con una scienza assolutamente trasparente. Certo, pensai, molti medici, come ho potuto constatare tante volte, pur avendo ricevuto una formazione intellettuale schiettamente scientifica, non sono altro che uomini d'affari che agiscono e parlano come uomini d'affari; mio padre però non è come loro.


Disse che per me era una tristezza continua, quando lo accompagnavo, e che per questo motivo il più delle volte lui esitava a portarmi con sé nelle sue visite agli ammalati, perché sempre e infallibilmente risultava che tutto quello che lui doveva visitare, toccare e curare era malato e triste; di qualunque cosa si trattasse, lui si muoveva continuamente in un mondo malato, fra persone e individui malati; anche se questo mondo pretendeva o fingeva di essere sano, era pur sempre un mondo malato e gli uomini, gli individui, anche quelli cosiddetti sani, erano malati. Lui ci era abituato, ma io forse potevo esserne turbato e indotto a riflessioni per me dannose; tanto più che io, secondo lui, ero sempre stato incline a farmi turbare da tutto e da tutti, a elucubrare su tutto e su tutti in un modo per me dannoso. E mia sorella in misura assai più pericolosa di me. Era un errore, tuttavia, osservò, chiudere gli occhi di fronte al fatto che tutto è malato e triste, disse effettivamente malato e triste, e per questo motivo, a intervalli più o meno lunghi, era sempre di nuovo «tentato» di portare me o mia sorella con sé nelle sue visite ai malati. «È sempre un rischio» disse. Temeva soprattutto che uno di noi, mia sorella o io, vedendo da vicino un malato e la sua malattia, ne potesse riportare un danno per tutta la vita, mentre quello a cui lui mirava per noi era l'esatto contrario.


A Koflach entrammo in paese. Voleva andare alla banca e alla posta, che però erano ancora chiuse, e così mi portò con sé da un suo amico avvocato con il quale aveva fatto l'università a Graz: l'amico era un legale molto affermato in questioni immobiliari e io lo conoscevo già perché era venuto a trovarci qualche volta durante l'estate. Mio padre sperava che il suo amico ci avrebbe offerto la colazione.


Suonammo il campanello, ci aprirono ed entrammo in un appartamento che per essere in una piccola città appariva grandioso, anche se non di buon gusto in ogni dettaglio; l'insieme comunque era intimo e accogliente e subito si notavano i numerosi posti a sedere. Fummo accolti dalla giovane moglie dell'avvocato e subito condotti nella sala da pranzo. Dopo una breve attesa l'avvocato entrò nella sala. Mio padre disse che non poteva trattenersi a lungo perché doveva ritornare a casa con me. Durante la colazione, per cui eravamo arrivati giusto in tempo e che fu tanto abbondante che non ricordo di averne mai mangiata una simile, mentre io, dal posto dove ero seduto, potevo guardare verso la strada e osservare quello che succedeva laggiù, parlammo di Grossi che aveva assassinato la moglie dell'oste di Gradenberg. È una cosa orribile, sostenne mio padre, che degli uomini, quando perdono il controllo di sé, soprattutto nelle osterie, si avventino l'uno contro l'altro senza sapere perché, dato che anche il latitante Grossi non sapeva perché aveva ammazzato la moglie dell'oste; «può darsi» disse mio padre «che addirittura non sappia ancora che l'ha ammazzata». La gente di campagna, che degenera prima nella brutalità e poi nella più totale impotenza riguardo alla propria brutalità, che degenera in tutto, che deve degenerare in tutto, oggi questa gente, disse mio padre, rappresenta una spaventosa maggioranza.


In effetti, disse, ci sono più persone brutali e criminali in campagna che non in città. In campagna la brutalità e la violenza sono la base di tutto. La brutalità in città non è nulla in confronto alla brutalità in campagna, e la violenza in città non è nulla in confronto alla violenza in campagna. I delitti in città, i delitti cittadini, non sono nulla in confronto ai delitti in campagna, ai delitti campagnoli. I delitti di città sono ridicoli in confronto ai delitti di. campagna. L'oste, aggiunse, è il tipico uomo violento, il delinquente nato. Tutto di lui e in lui è violento e delittuoso. In ogni momento e in tutte le situazioni della sua vita egli resta quel commerciante di bestiame che è di mestiere. «Anche se adesso piange disperatamente,» disse mio padre «piange perché ha perduto un capo di bestiame. Per un oste la moglie non è altro che un capo di bestiame». Un giorno lui la cattura tirandola fuori con un perverso stratagemma dallo sterminato gregge delle donne non sposate e la sottomette alla propria volontà. Un'osteria come quella, così come ogni casa di macellai e di commercianti di bestiame, come ogni cascina che si trovi nel Bundscheck, altro non è che un brutale penitenziario per donne. Se si ascolta attentamente, in qualunque momento e in qualunque posto si vada in campagna, si sentono le donne bastonate dai loro mariti dentro le case. Tutti i giorni dell'anno, disse mio padre, lui andava quasi soltanto da gente ripugnante, entrando in quelle case entrava dentro la brutalità, dentro la violenza, con la sua borsa da medico si muoveva in fondo esclusivamente su e giù per un mondo di delinquenti. E quelli che abitavano sotto l'alpe di Glein e sotto l'alpe di Kor, nella valle di Kainach e in quella di Grobnitz erano esempi tipici di una Stiria che da milioni e migliaia di anni aveva eretto a regola di vita gli eccessi fisici più grossolani. Gli venne però in mente la visita fatta di primo mattino al bambino del minatore di Hullberg e descrisse con quanta cordialità fosse stato accolto, come si fosse sentito tranquillo per un buon quarto d'ora e come, con altrettanta cordialità, lo avessero salutato al momento del suo congedo. Ma sarebbe un errore, osservò, credere che quello che aveva detto di gente come l'oste valesse soltanto per i benestanti; questi genitori e il loro bambino erano un'eccezione, «i poveri» disse «sono due volte più brutali, ignobili e criminali, e anzi, date le loro possibilità, lo sono in misura ancora più spaventosa».


Del maestro, che aveva dovuto visitare per primo, non fece parola, secondo me perché era morto troppo alla svelta, senza che lui avesse potuto prenderlo veramente in considerazione. Pensai che avesse già dimenticato il maestro, perché dopo aver parlato ancora una volta del bambino e delle sue ustioni e aver descritto il modo di parlare di quel bambino, tornò al discorso sull'oste. Ci stava aspettando all'ospedale, disse mio padre, prima doveva riportarci in furgone a Gradenberg, poi ritornare a casa. Adesso era probabilmente già all'obitorio, dove mio padre avrebbe voluto accompagnarlo, cosa che però evidentemente aveva dimenticato di fare, ed io pensai che adesso all'obitorio stavano consegnando all'oste i vestiti della moglie morta; e, con il fagotto dei vestiti della moglie sotto il braccio, l'oste ci stava in effetti già aspettando all'ingresso dell'ospedale quando noi, lasciato l'avvocato, andammo lì dopo esser stati anche alla posta e in banca.


Durante il viaggio di ritorno verso Gradenberg, mio padre elencò i malati che doveva visitare in quella giornata, fece i nomi di Saurau, Ebenhöh, Fochler, Krainer. Mentre, per quanto mi riguardava, già quello che avevo visto e sentito in rapporto alla morte della moglie dell'oste era bastato ad affaticarmi, ora in mio padre non notavo più il minimo segno di stanchezza. Seduti entrambi accanto all'oste che guidava il furgone tranquillamente, come se non fosse successo nulla di orrendo che lo riguardasse da vicino, noi due, ognuno per suo conto, cercavamo di figurarci i malati ancora da visitare, e quando l'oste a un certo punto si fermò da un macellaio dopo Krennhof e, scusandosi, scese per concludere un affare sparendo per alcuni minuti, mio padre disse che quell'uomo, che lui conosceva fin da bambino, che dieci anni prima era ancora un adolescente e che ora diventava ogni giorno più grasso e ripugnante per tutti, con quel suo modo di muoversi sulle gambe arcuate, con le sue difficoltà sessuali sempre più evidenti, quell'uomo, disse, gli era proprio odioso. Non meno ripugnante gli era sempre sembrata, ogni volta che era andato a visitarla a Gradenberg, la moglie di lui morta da poco. La mancanza di figli, aggiunse, frequentissima in famiglie di quel tipo, rende sempre più insensati i matrimoni come quello fra l'oste e la moglie dell'oste; a lungo andare essi si trasformano in unioni abiette e perverse, e, se i due non vengono separati da un atto di violenza, come appunto quello di un Grossi impazzito, finiscono inevitabilmente nella maniera più miserevole.


Nell'ultimo tratto di strada, attraversando il Gradnerbach, dovemmo scansare una mandria di vitelli e allora l'oste disse più volte che lui quello che era successo non lo aveva ancora capito. Non riusciva a farsi una ragione della realtà.


Arrivati a Gradenberg, vedemmo molta gente davanti all'osteria nella quale era entrata poco prima la commissione d'inchiesta del tribunale. Quando uscii dal furgone notai dappertutto dei curiosi che stavano a guardare da più o meno lontano.


Mio padre mi disse di aspettare davanti all'osteria, lui voleva entrare un attimo per parlare con la commissione d'inchiesta riunita nel locale. La casa dell'oste era piena da cima a fondo di gente del tribunale che parlottava in continuazione, e, affacciate a una finestra spalancata del primo piano, quella della camera da letto, scoprii, alzando lo sguardo, le teste di due gendarmi. Camminai su e giù davanti all'osteria, finché mio padre non uscì con l'oste che ci portò fino a casa. Nel locale, tranne Kolig, erano presenti tutti i minatori che avevano assistito all'omicidio. Era sabato e la miniera era chiusa. La maggior parte dei minatori non riusciva più a ricordare quello che era accaduto, tutti facevano dichiarazioni contraddittorie, due di loro però avevano visto Grossi quando aveva colpito la moglie dell'oste facendola cadere a terra, e questo a loro era bastato. In effetti Grossi, cosa che a mio padre pareva incredibile, era ancora latitante; probabilmente se ne stava nascosto negli immediati dintorni; nessuno lo credeva capace di fuggire più lontano, anche se aveva molto denaro, sufficiente perfino per andare all'estero. Arrivati a casa, salimmo immediatamente sulla nostra automobile. «Andiamo a Stiwoll» disse mio padre.


La strada per Graden che prosegue verso Kainach era bloccata, sempre a causa di Grossi, ma siccome ci conoscevano ci lasciarono passare. Un caso come quello di Grossi era naturalmente un caso sensazionale, infatti già se ne parlava in tutta la zona, tutti erano ancora sotto l'impressione dell'assassinio della moglie dell'oste, dai posti di polizia la notizia si era diffusa velocemente, come notammo soprattutto ad Afling dove ci fermammo per far visita a mio zio. Mio padre aveva portato dei medicinali per la moglie di mio zio. Entrammo in casa, chiamammo ad alta voce, scendemmo nelle stanze da basso e in cucina, ma constatammo che non c'era nessuno, benché la casa fosse aperta. Mio padre mise le medicine sulla credenza della cucina, scrisse un biglietto e ce ne andammo via. Era stato ad Afling, disse mio padre, in compagnia di mia madre, un anno prima della sua morte, per il funerale di un suo compagno di università, e lei, mia madre, aveva continuamente parlato della propria morte che sentiva imminente. Mentre lui non aveva notato alcun segno della malattia di cui mia madre doveva morire, lei, a quell'epoca, come egli aveva capito solo molto più tardi, era già compenetrata da quella malattia, da quel funerale di Afling in poi si era fatto notare in lei un cambiamento che a lui, come medico, risultava assolutamente misterioso, una malinconia crescente che si era estesa sempre di più a tutti noi. Diceva di ricordare le parole di lei una per una, di poter vedere la strada che avevano percorso prima e dopo il funerale, la stagione era proprio questa, fine settembre, tutto quello che aveva a che fare con quel funerale di Afling lui lo aveva ora davanti agli occhi nitido come non mai. Proprio in certi giorni limpidi, quando per ogni dove si vede il mondo come un'unica trasparente atmosfera, e basta la sua serenità a far bella la natura, i superstiti sentono doppiamente la tristezza per una persona cara morta da molto tempo.


E se anche i colori che ci fanno comprendere che l'autunno è arrivato al suo culmine sono sempre gli stessi, proprio quei colori che ora si fanno più vividi passando lungo le rive del Sodingbach sotto il sole radente, sempre ci affascina di per sé quella visione del riflettersi della natura che è frutto di un'intensa osservazione.


Quello che c'è di essenziale in una persona viene alla luce soltanto quando dobbiamo considerarla perduta per noi, disse mio padre, nel momento in cui, ormai, questa persona può soltanto dirci addio. Ad un tratto, in tutto ciò che in essa è ormai soltanto preparazione alla morte definitiva, questa persona può essere riconosciuta nella sua verità.


Durante tutto il tragitto attraverso la valle di Soding, mio padre continuò a parlare di mia madre, essa era sempre più presente nei suoi sogni a occhi aperti, ma non di notte, e spesso, per periodi piuttosto lunghi, esteriormente occupati dalla sua attività di medico, il pensiero di lei gli procurava una costante sensazione di quiete che lo rendeva in grado di avere una visione chiara degli eventi naturali.


Solo adesso capiva quella donna, che mentre era in vita e accanto a lui egli aveva bensì amato, ma mai capito veramente. Un essere umano può sentirsi unito a un altro che ama soltanto quando quest'altro è morto, e davvero è entrato a far parte di lui.


A partire da quel giorno del funerale di Afling lei gli aveva chiesto spesso di portarla con sé nelle sue visite ai malati; oggi questo suo desiderio non gli sembrava più incomprensibile. Naturalmente a lei non era stato possibile studiare i tormenti e le sofferenze del mondo, ma di osservarli, a partire dal funerale di Afling, non aveva più smesso. Lui in quel periodo aveva parlato spesso con lei di noi bambini, soprattutto della difficoltà di trasformare l'affetto dei nostri genitori per noi in un processo educativo. Mia madre gli aveva detto spesso che per lei noi eravamo più figli del paesaggio circostante che non figli dei nostri genitori. Ferma a questa concezione per tutta la sua vita, ci aveva sentiti entrambi, ma mia sorella in misura ancora maggiore di me, come creature espresse esclusivamente dalla natura, e per questo le eravamo sempre rimasti estranei. Da parte sua, disse mio padre, visto che dopo la morte di lei tutti e tre ci sentivamo completamente abbandonati a noi stessi, e mia sorella ed io, lei di dodici e io di diciassette anni, ci trovavamo nella fase più delicata dello sviluppo, immediatamente dopo la morte di nostra madre, e aggiunse anzi a questo punto, quando già vedevamo Stiwoll davanti a noi, «in verità già durante il suo funerale», lui, da parte sua, aveva pensato di risposarsi; ma questo pensiero era stato sempre più respinto da nostra madre dentro di lui.


A questo punto mi venne in mente la lettera che un paio di giorni prima avevo scritto a mio padre e nella quale mi ero sforzato di descrivere i cattivi rapporti esistenti fra noi tre, fra lui e me, fra lui e mia sorella e fra me e mia sorella. Gli avevo scritto illudendomi di ricevere una risposta, ma con grande chiarezza vedevo adesso che mai e poi mai avrei potuto ricevere da lui una simile risposta. Alle domande che gli ho posto nella lettera mio padre non potrà mai rispondere. I nostri rapporti sono difficili sotto ogni aspetto, addirittura caotici, quelli fra lui e mia sorella e fra me e mia sorella sono i rapporti più difficili e più caotici in assoluto.


Le mie osservazioni degli ultimi anni riguardo ai nostri rapporti io in quella lettera avevo cercato di illustrarle ricorrendo ad alcuni particolari possibilmente poco appariscenti, ma secondo me della massima importanza. Mi ero preoccupato di usare la massima prudenza per non ferire mio padre. Per non ferire nessuno. Sulla base delle mie osservazioni condotte per anni e anni non era difficile tracciare un quadro della nostra famiglia ugualmente veritiero da qualsiasi parte lo si volesse considerare. Avevo steso la mia lettera con molta pacatezza, non mi ero permesso il benché minimo scatto emotivo, anche se in essa non mancavano i punti salienti ai quali avevo mirato scrivendola, punti salienti presentati nella lettera sotto forma di domande indirette o dirette, come per esempio di chi fosse la colpa dell'ultimo tentativo di suicidio di mia sorella o della morte prematura di mia madre. Già da molto tempo volevo scrivere questa lettera e più d'una volta l'avevo incominciata, ma sempre, fin dall'inizio, mi erano venuti dei dubbi sull'opportunità di scrivere una lettera del genere. Insomma, scriverla mi era stato sempre impossibile. Ogni volta mi rendevo subito conto quanto fosse penoso rendere esplicito a un tratto in una lettera del genere quello che per anni avevo solo pensato, insomma dar voce a pure supposizioni. Anche il timore di dovermi servire di materiale forse dimenticato da molto tempo per addurre le prove assolutamente indispensabili, in una lettera come quella, della mia opinione su di noi, aveva ogni volta vanificato il mio proposito. Dovevo infatti scrivere ciò che pensavo con schiettezza e dunque senza riguardi, tenendo conto però di tutte le persone interessate: era questo che per tanto tempo aveva reso impossibile una lettera del genere.


Ma il lunedì precedente, all'improvviso, mi era stato facile scrivere la lettera, avevo esposto d'un sol fiato, per non più di otto facciate, i risultati della mia indagine, che culminavano in una serie di interrogativi circa la possibilità di chiarire a noi stessi la situazione in cui noi tutti ci trovavamo e di migliorare i nostri reciproci rapporti. Alla fine avevo analizzato a fondo la lettera, più d'una volta, e non avevo trovato nulla che potesse trattenermi dall'imbucarla. Già martedì mattina mio padre doveva averla ricevuta. Ma finora non vi aveva fatto il minimo cenno, benché avesse avuto molto tempo per farlo e tutto stesse a indicare che non solo aveva ricevuto puntualmente la lettera, ma anche che l'aveva letta con la massima attenzione, analizzata e non certo dimenticata.


Anche a Stiwoll, come notai immediatamente entrando in paese, tutti conoscevano benissimo mio padre. La sua buona memoria gli permetteva di chiamare tutti per nome. Mio padre inoltre conosce la situazione di ogni singolo abitante del paese. Quando gli sembrava che io non avessi ben capito chi fosse la persona con la quale lui aveva scambiato un saluto o magari qualche parola, me ne dava una breve descrizione.


Attraversammo velocemente il paese per andare da un certo Bloch, proprietario di un'agenzia immobiliare. Bloch è un uomo che piace a mio padre. Sposato con una donna cinquantenne, sua coetanea, questo proprietario di un'agenzia immobiliare aveva liberamente scelto di vivere, per il puro gusto degli affari, in mezzo a una comunità di montanari, gente ottusa e per natura a lui ostile.


Anche a Stiwoll, disse mio padre, c'era naturalmente un medico, ma Bloch stesso, quando un giorno aveva interpellato mio padre, aveva liberato quel poveretto dall'onta continua cui per anni era stato esposto a Stiwoll per il fatto di aver preso in cura l'ebreo Bloch. Anche il padre di Bloch aveva vissuto a Stiwoll. Fra Bloch e mio padre, al di là del Knobelberg e dell'altura di Kain, a più di venticinque chilometri di distanza, si era sviluppata un'amicizia che, per usare un'espressione di mio padre, «ha in sé qualcosa di filosofico». Bloch abita nella stessa casa di suo padre che è stato assassinato dai tedeschi.


Come vidi subito, Bloch abita in una delle più belle case di Stiwoll, alla quale si arriva proseguendo sulla destra dopo la piazza principale, e se già la facciata mi era piaciuta, proprio perché così trasandata, di un grigio che rinvia all'epoca in cui è stata costruita e per di più danneggiata dall'ultima guerra, quando entrammo nella casa di Bloch, passando sotto una volta imbiancata di fresco, mi convinsi subito che Bloch è davvero un uomo di buon gusto. Mio padre disse che veniva qui almeno una volta alla settimana per una lunga conversazione, per una conferenza tenuta a turno, ora da Bloch ora da mio padre stesso, giacché qui si effettuavano, ed era una cosa da non credere vista la situazione che indubbiamente regnava a Stiwoll, delle «autopsie sul corpo della natura», come pure «sul corpo del mondo e della sua storia», qui si coltivavano «le scienze politiche comparate, la storia naturale applicata, la storia della letteratura» e si procedeva «senza alcun riguardo contro la società e parimenti contro lo Stato». In generale, comunque, in casa Bloch i temi politici avevano il sopravvento, e quando si parlava degli uomini, si dava più valore alla loro sostanza politica che non a quella privata. In una biblioteca situata sopra l'ingresso ci si permetteva un'analisi del mondo fondata sulla massima penetrazione intellettuale e ogni illusione veniva bandita. Delle arti per lo più ci si occupava pochissimo, ma per far piacere alla signora Bloch ogni tanto ci si apriva anche ad esse.


Bloch era seduto nel suo ufficio, che soltanto una vetrata separava dal lato destro dell'ingresso, e stava dettando alla segretaria, visibilmente innervosito, una lettera indirizzata, come poi accennò, al geometra Rosenstingl di Voitsberg, un uomo che anch'io conoscevo. Mio padre bussò alla finestra dell'ufficio e Bloch uscì. Ci salutò cordialmente e ci condusse subito su al primo piano, in biblioteca. Veramente mai in campagna mi è capitato di vedere una tale massa di libri ammucchiati insieme come nella biblioteca di casa Bloch, e per giunta, come constatai, solo libri di uso corrente e senza il minimo valore cosiddetto bibliofilo di cui nei paesi di lingua tedesca si è innamorati fino a rendersi ridicoli, per cui anzi si va pazzi - se si eccettua una edizione in latino della Storia Universale del medico Schedel di Norimberga di cui esistono al mondo soltanto pochissimi esemplari.


Bloch domandò a mio padre che cosa facesse a Stiwoll a quell'ora così insolita del mattino e mio padre rispose che voleva restituirgli, perché aveva finito di leggerli, i Prolegomena di Kant e la Tesi di laurea di Marx; li tolse entrambi dalla borsa e li mise sul tavolo davanti a noi. Desiderava avere tutte le conferenze di Nietzsche Sull'avvenire delle nostre scuole, un'edizione francese dei Pensieri di Pascal e la Mystification di Diderot. Doveva andare da una paziente, una certa Ebenhöh, disse, sulla strada per Piber. Bloch non la conosceva. Ci versò, non avendo altro in casa, due bicchieri di vino bianco di Kloscher. Quella mattina lui, Bloch, aveva avuto il suo solito «tremendo» mal di testa, ma quando aveva incominciato a occuparsi sempre più intensamente della sua corrispondenza d'ufficio, il mal di testa era scomparso. Faceva sempre più uso di quelle compresse contro il mal di testa che mio padre gli prescriveva di settimana in settimana. Erano quattro o cinque giorni che non riusciva a dormire. Mio padre gli consigliò di non abusare di quelle compresse che erano nocive soprattutto per i reni.


Recentemente, disse Bloch, era riuscito a comperare un terreno piuttosto esteso dalle parti di Semriach. «Ci sono voluti due anni» disse. Da terreno agricolo fino a otto giorni prima, adesso, grazie alla sua abilità, era diventato un terreno fabbricabile che lui ora aveva in mente di suddividere in cento e più lotti. In questo modo sarebbe stato facile, disse, rivenderlo tutto entro breve tempo. «Bisogna saper aspettare finché il nemico perde la testa» disse. Era il più grosso affare che avesse fatto quest'anno, aggiunse Bloch. Chiese un sonnifero più efficace e mio padre glielo prescrisse. Bloch disse: «Naturalmente non sono benvoluto»; a questo punto mio padre si alzò e i due si misero d'accordo per il successivo mercoledì. Da due anni si vede con Bloch ogni mercoledì. Dalla Ebenhöh andammo a piedi.


Bloch, disse mio padre, eccelleva nell'arte di considerare la vita come un congegno meccanico di cui non è difficile penetrare le funzioni più importanti e che quindi si può impostare e regolare secondo le proprie necessità a un ritmo più o meno lento, ma comunque sempre adeguato e quindi sopportabile, e instancabilmente provava a insegnare quest'arte, che tanto lo divertiva, anche alla sua famiglia. In fondo Bloch era l'unica persona con cui lui, mio padre, riuscisse a parlare senza mai sentirsi a disagio, ed era anche l'unica persona di cui si fidasse completamente. Gli era diventato amico al posto degli altri amici perduti, dei suoi amici sparsi qua e là per tutto questo paese falsamente intelligente, amici confinati dentro a valli profonde e senza sole, in piccole città, in ottusi villaggi e borgate, da molto tempo rassegnati ormai al loro monotono destino di medici in una maniera che per anni, anche dopo la fine degli studi, lo aveva addolorato, ma che oggi lo disgustava soltanto. Il momento culminante della loro vita tutti costoro lo avevano raggiunto e superato al termine dei loro lacunosi studi universitari, disse, e immessi poi dentro un mondo disastrosamente fiducioso nei loro confronti, essi erano stati inghiottiti dall'atroce ottusità della famiglia e dell'ambulatorio, non importa se erano medici ospedalieri o titolari di ambulatori privati. Mio padre era sconvolto dall'irrimediabile fatalità con cui si rovinavano i suoi compagni di studi, in qualsiasi luogo egli spedisse loro di tanto in tanto qualche lettera completamente insulsa. Dilettanti a vita, si sposavano troppo presto o troppo tardi e venivano annientati dalla loro progressiva mancanza di idee, mancanza di fantasia, mancanza di energia, e infine dalle loro mogli. Aveva incontrato Bloch proprio quando di amici non ne aveva più, quando ormai aveva solo destinatari di qualche lettera, uomini legati a lui da una comune gioventù, dalla comune fiducia che allora nutrivano nel mondo.


Ogni tanto gli capitava di vedere qualcuno di quelli che nel frattempo erano saliti molto in alto nella gerarchia della volgarità e sessualità, qualcuno che parlava con sentimentalismo di solidarietà, ma ormai capitava solo per caso, in una stazione ferroviaria o a un congresso, e a lui veniva la nausea e doveva sforzarsi per non perdere il controllo di sé. Ancora all'università, disse mio padre, durante i semestri di internato obbligatorio in clinica, si era parlato molto di ricerca e di impegno in favore di un'umanità profondamente sofferente, di scoperte da fare, degli enormi sforzi cui dovevano sottoporre i loro cervelli, di un implacabile estremismo intellettuale che dovevano dirigere contro se stessi in nome della scienza medica e di un'umanità che meritava compassione; ma di tutto ciò cos'era rimasto? Solo questi commessi viaggiatori ben vestiti, specializzati in imbrogli per guarire, che si dicono buon giorno in fretta quando si incontrano, che raccontano dei loro guai con le mogli e coi figli, della casa che si stanno costruendo, della loro ossessione per le automobili. In Bloch mio padre vedeva sempre un uomo che non perdeva il controllo di se stesso di fronte alla grossolana arroganza con cui la storia di anno in anno accelerava vertiginosamente il suo corso.


Da Stiwoll, in mezzo a un antisemitismo che ormai era solo grottesco, fra montanari che lo disprezzavano, individui volgari che con lui facevano i loro affarucci e con i quali lui faceva i suoi affari, da questa specie di «orrendo inferno privato ai piedi dell'alpe di Glein» che dieci anni prima lui stesso si era creato con le proprie mani, Bloch godeva di una vista migliore sul mondo di quella che si ha in centri più famosi. Di parenti ne aveva pochi, ma di amici molti, che lo consideravano con perplessità ed erano sparsi in quasi tutti i paesi, e Bloch di tanto in tanto sosteneva che lui a Stiwoll stava facendo degli studi interminabili nell'interesse del suo popolo.


Mio padre disse che non vedeva l'ora di leggere la Mystification, quel piccolo scritto di Diderot scoperto molto tardi che Bloch gli aveva consigliato. Sempre più, adesso, si sentiva attratto dagli scrittori francesi e sempre meno da quelli tedeschi. Ma in fondo non aveva mai sentito un vero bisogno di accostarsi alla letteratura non scientifica, ossia alla letteratura poetica, e questa sua tendenza evidentemente continuava a rafforzarsi. Le cosiddette belle lettere, quanto più sentiva a sé congeniali la limpidità e la coerenza del pensiero, tanto meno lo interessavano, le considerava una falsificazione della natura comunque penosa, e a grandi linee addirittura ridicola. Per lui gli scrittori con i loro scritti sporcavano la natura in ogni caso, in maniera più o meno dilettantesca, «fra più o meno grandi applausi», più o meno totalmente sfasati, ora troppo avanti ora troppo indietro rispetto a quello che succede intorno a loro.


Nel breve tempo che avevamo passato nella casa di Bloch, disse mio padre, probabilmente io non avevo potuto notarlo, ma nella biblioteca di Bloch, a parte qualche opera veramente eccezionale, non si trovavano libri di letteratura amena. Lui sentiva l'esigenza, aggiunse, di andare a trovare Bloch a Stiwoll ben più di una sola volta alla settimana, ma sapeva benissimo che non poteva approfittare incautamente di quel loro rapporto.


Notai con sorpresa che una grande predilezione, veramente inusitata in lui, legava mio padre al proprietario dell'agenzia immobiliare Bloch e che questo suo attaccamento, di cui probabilmente Bloch non aveva percepito la profondità, era eccessivo. Ma a un tratto mi resi conto quanto mio padre sia solo e quanto raramente si apra con noi, i suoi figli.


Non è quasi mai a casa, pensai, mia sorella è sempre sola e lui pure è sempre solo. Effettivamente mio padre incontra sempre più gente proprio per essere sempre più solo. Ma lui aveva già notato che io cominciavo a preoccuparmi per quel suo isolamento quasi totale e odiava sentirsi osservato con pietà; cosi mi disse: «Io esagero. Tutto è completamente diverso. È sempre tutto diverso. Farsi capire è impossibile».


Arrivammo dalla Ebenhöh passando per un frutteto non recintato nel quale le mele e le pere cadute per terra, come notai immediatamente, ancora non erano state raccolte. Le anomalie nel giardino erano sospette, sembravano alludere a persone disturbate nei loro ritmi, la pace di quel giardino era una pace febbrile, malata. Le finestre della casa a un solo piano erano tutte aperte, l'aria era afosa, dietro a una di quelle finestre giace la Ebenhöh, pensai.


Me la immaginai, sveglia nel suo letto, mentre ascolta i passi nel giardino e in base a quei passi si fa un'idea di chi sta arrivando. La stanza della Ebenhöh me l'ero immaginata esattamente com'era, solo ancora più tetra. La biancheria, impregnata dell'odore della malattia inguaribile a cui lei si era ormai rassegnata senza opporre resistenza, era sparsa un po' dappertutto.


Da una grande poltrona di velluto grigio-verde, come potei vedere, si era appena alzato qualcuno che le aveva letto ad alta voce qualche pagina di un libro, forse era andato in paese a prenderle qualcosa. Una vicina? Una parente? In queste case, che ormai sono abitate soltanto da vecchie donne sole, le quali, abbandonate dai loro discendenti, si riducono a un minimo di vitalità, sono sempre entrato con la sensazione di soffocare. Qualche fiore alla finestra dentro un vaso di vetro dal collo lungo, un canarino in una gabbia, vorace, sfacciato. Non si nasconde più la biancheria intima, non si nasconde più il proprio tormento, l'olfatto è diventato insensibile, non c'è motivo di occultare le infermità con cui si è soli.


Mio padre, che è entrato in camera dalla porta aperta, sveglia la donna che dorme toccando con lo stetoscopio la gabbia e facendo un rumore che scaccia il canarino spaventato in un angolo della gabbia. Il sorriso delle donne che si destano dal sonno sapendo di non aver più speranza, che svegliandosi constatano di essere ancora in questo mondo di sofferenze, è orrore, nient'altro che orrore.


È il momento dello scambio di bugie. Mio padre parla di un'estate arrivata in ritardo, che si diffonde ora per tutta la campagna, dei colori che ci sono dappertutto. Oggi, dopo tanto tempo, ha di nuovo portato con sé me, suo figlio. Mi avvicino alla donna, entro nella cupezza e ritorno di nuovo alla poltrona. Tolgo il libro e mi siedo. La principessa di Clèves, penso, La principessa di Clèves a Stiwoll, e sfogliando il libro penso: chi è questa donna che giace nel suo letto davanti a me? Chi era suo marito? Su tutte le pareti vedo adesso appese delle grandi fotografie di un uomo con una grande barba, un direttore di scuola elementare, sempre la stessa faccia di direttore di scuola elementare che spunta fuori da una enorme barba.


Allora mio padre dice: «Signora maestra» e le parla dell'improvviso cambiamento del tempo e della gente ormai troppo stanca, che non può approfittare di questo improvviso cambiamento del tempo perché è venuto troppo tardi.


Parla di comuni conoscenti a Gratwein, a Obeibach, a Linz e a Ligist. Il discorso cade su un direttore delle poste di Feistritz, sulla moglie di un mugnaio di Wolfsberg. Su un tremendo incidente automobilistico lungo la Packstrasse. La Ebenhöh racconta che non ha più dolori, che la moglie di un maestro originaria di Unzmarkt suona l'organo in chiesa in sua vece. I suoi scolari venivano a trovarla ogni giorno. Indicò i regali in mezzo al tavolo.


Il prete veniva a trovarla; la vicina («È andata in paese!») le leggeva ad alta voce quei libri che mentre era vivo suo marito lei si era sempre rifiutata di leggere. Pensava spesso a Oberwolz dove sua sorella, malata pure lei, era ricoverata in un ospizio. «Inchiodata al letto». All'ospizio lei, la Ebenhöh, si era sempre rifiutata di andare, e ogni volta che suo figlio cominciava a dire che all'ospizio di Stiwoll sarebbe stata assistita meglio che a casa, a lei venivano dei dubbi sulla bontà dei suoi figli. I nipotini venivano da lei sempre con gli stessi vestiti sporchi della domenica e giocavano nella sua stanza con vecchi giornali. Suo marito, disse, nel 1948 era stato proposto per un seggio di deputato socialista in parlamento, ma prima ancora che fossero presentate le liste elettorali definitive, come mio padre sapeva, era perito in un incidente.


Ricordava che la bara del marito morto era stata portata a spalla da quattro suoi compagni di scuola. «Sono morti tutti e quattro» disse, e poi aggiunse: «uno dopo l'altro, in poco tempo». Se appena due mesi prima, quando era tornata a Stiwoll dall'ospedale, tutto si riduceva a una lotta per dormire, adesso invece lottava per stare sveglia. Nel giardino non succedeva mai niente. Non potè fare a meno di lanciare un'accusa alla sua vicina: «Spesso per ore e ore non viene a trovarmi».


Mio padre appoggiò lo stetoscopio sul petto della Ebenhöh coperto da una camicia e auscultò. Poi riempì una ricetta. Notai che si sforzava di prolungare la visita, benché già da un pezzo avesse voglia di andarsene. Senza la musica, che da moltissimo tempo non poteva più suonare, ma solo immaginare («la sento ancorai»), la sua vita aveva perso ogni valore. Il suo corpo per lo più le appariva già atrofizzato, se si guardava allo specchio piombava in uno «stato d'animo spaventoso».


Sua sorella era all'ospizio di Oberwolz in una camera con altre sei donne della sua stessa età, e quando lei stessa ancora non pensava di essere malata, tante volte avrebbe voluto farle una visita; adesso non l'avrebbe veduta mai più. La notte prima si era trovata sotto la cascata di Krimml, uno dei suoi primi ricordi d'infanzia, e chiamava sua madre, continuava a chiamare sua madre.


Ad un tratto si mise a ridere. Suo marito, disse, l'aveva sposato senza conoscerlo. Tre settimane dopo averla incontrata per la prima volta durante la processione del Corpus Domini a Köflach, nel 1919 - lei era nata a Knittelfeld, suo padre era caposquadra in una segheria, ma lei era cresciuta fuori Knittelfeld, su un'altura sopra Landschach - suo marito, si vedevano allora per la seconda volta, era venuto da Stiwoll a prendersela, la sera prima delle nozze avvenute a Stiwoll. Sul cassettone c'era un busto in gesso di Franz Schubert con una rottura alla base del cranio, riaggiustata in seguito con il mastice. Sotto il busto c'era un mucchio di fogli di musica.


Da giovane, disse la Ebenhoh, andava a ballare, a diciassette anni aveva attraversato a nuoto, nel senso della lunghezza, il Mondsee nell'Alta Austria. Per molti anni aveva condiviso con il marito la predilezione per lo studio degli atlanti. Una volta era stata a Roma, un'altra volta a Parigi. Parsimoniosi erano entrambi, lei e suo marito, e molto presto erano riusciti ad avere una casa propria a Stiwoll, subito dopo la guerra un'eredità le aveva permesso di pagare tutti i debiti. Per quindici anni, disse, aveva avuto un fratello nel penitenziario di Stein, «un criminale come fratello, un fratello criminale», e ogni mese, di nascosto dal marito, lei gli mandava lettere, pacchi e denaro. Del delitto del fratello non disse nulla, ma mio padre sapeva che costui aveva ucciso la fidanzata. Appena dimesso dal penitenziario di Stein, il fratello era venuto a Stiwoll e aveva vissuto in casa sua. Lei gli aveva sistemato la mansarda sotto il tetto e lui vi si era subito rinchiuso senza più uscirne nemmeno per un attimo. Lo aveva trovato impiccato alla traversa della finestra tre giorni dopo che era stato dimesso da Stein. Il funerale era stato una cosa tristissima, lei non aveva avuto la forza di andarci. Suo marito le aveva rimproverato per tutta la vita di aver preso in casa suo fratello. Dopo il suicidio del cognato, lui d'un tratto non si era più sentito a suo agio in casa propria. Lei aveva una fotografia di suo fratello, scattata il giorno stesso in cui lui aveva ucciso la fidanzata e poi ne aveva gettato il corpo nella Muhr a valle di Fronleiten. Mi pregò di porgerle una busta che si trovava sul tavolo. Io mi alzai e le diedi la busta in cui teneva la fotografia. «Un bell'uomo» disse. Per tutto il tempo che rimanemmo da lei, la Ebenhoh tenne in mano la fotografia con gli occhi fissi sulla coperta e, in riferimento al fratello, si mise a parlare degli anni della propria infanzia trascorsi a Knittelfeld. Mai, neppure per un attimo, lui era stato per lei un uomo malvagio.


Mio padre deve aver avuto la sensazione che vedeva la Ebenhoh per l'ultima volta, altrimenti di sicuro si sarebbe alzato e se ne sarebbe andato via. Adesso, a occhi chiusi, lei vedeva ogni cosa più che mai chiaramente. Lei stava pensando a chi lasciare i suoi vestiti appesi nell'armadio e tutti in ottimo stato. La casa già da un pezzo apparteneva a suo figlio, che però non ne sapeva niente.


Non poteva dire che suo figlio non si curasse di lei, ma la sollecitudine che lui le dimostrava non si spingeva mai al di là dei suoi obblighi. La nuora non aveva mai provato per lei altro che odio, un odio che diventava ogni giorno più profondo; nato da una spontanea antipatia al loro primo incontro, quel sentimento con l'andar degli anni era diventato terrificante. A causa della moglie che la odiava, neanche suo figlio aveva più il coraggio di volerle bene. La sua vita era stata «spezzata» dalle calunnie sempre più infami che la nuora aveva inventato contro di lei. Rimasta sola dopo la morte del marito, lei in definitiva era stata in completa balìa dei malvagi capricci del figlio e della nuora. La nuora l'aveva spietatamente cacciata nell'oscurità di una solitudine senza scampo, e suo figlio era stato a guardare. Troppo presto, totalmente immaturo, suo figlio aveva visto nel matrimonio con quella donna di Koflach una maniera di sfuggire ai suoi genitori e fin dal primo istante quell'unione era stata la sua rovina. Suo figlio, che faceva il manovale in una conceria di Krottendorf, lavorava persino di domenica. I suoi abiti, quando veniva a trovarla, emanavano un terribile puzzo di cadavere, e così pure gli abiti di sua moglie e quelli dei bambini. Tutta la casa, quando c'erano loro, si impregnava di quel puzzo di cadavere, e quando se ne andavano, disse, lei per ore e ore doveva lasciare aperte tutte le finestre per poter resistere. Ma loro, i maleodoranti, non si accorgevano nemmeno più di quel puzzo disgustoso che avevano addosso.


Suo figlio era un «gigante», aveva delle braccia eccezionalmente lunghe e mani «rudi», ma era sempre stato, prima, un bravo ragazzo. Aveva ben presto reso infelice suo padre, fin da piccolo, quando, cominciando a parlare, si era capito che sarebbe rimasto sempre debole di mente. In effetti per ben due volte suo padre, nella stessa scuola elementare di cui era direttore, non era riuscito a farlo promuovere alla classe successiva. Neanche da parlarne di mandarlo alla scuola media. A causa di quel figlio, suo marito era precipitato sempre più in una spaventosa «deprimazione» e, tormentato com'era da mille dubbi sull'educazione da dare al ragazzo, non era più riuscito ad avere un momento di sollievo, né tanto meno di gioia. Uno psichiatra che erano andati a consultare a Graz non era stato di nessun aiuto, era solo costato molto denaro. Ma entrambi avevano continuato a sperare che quella triste situazione che paralizzava la loro vita una volta o l'altra potesse aver termine. Ma invano avevano atteso un miglioramento della condizione del figlio. Se suo marito non fosse precipitato giù dall'alpe di Kor, il dolore per quel figlio debole di mente lo avrebbe fatto morire dopo «lunghe e penose sofferenze» disse. Un giorno, come un animale che da un momento all'altro dopo una lunga immobilità salta su all'improvviso, così suo figlio era «sceso giù» per prendersi la figlia di un proprietario di baracconi originaria di Köflach. Era stato costretto a sposarla perché le aveva fatto subito un figlio.


Nei primi tempi la famiglia di lei lo aveva portato con sé alle fiere in Stiria, in Bassa Austria e nel Burgenland, ma poi, giacché la «costellazione» non era più favorevole, sua moglie gli aveva procurato quel posto nella conceria di Krottendorf.


La Ebenhöh pensava spesso a suo figlio immaginandoselo a torso nudo dentro il capannone pieno di vapore della conceria, mentre, con in mano un bastone di legno, rimestava inebetito dentro a un mastello e continuava a rimestare per ore e ore, e intanto sua moglie, che non si era «né vestita né lavata», se ne stava in cucina con addosso «una vestaglia bisunta» a leggere i romanzi a puntate pubblicati dall'«Erzähler» [Il narratore]. Immaginava che la casa dei suoi nipoti diventasse ogni giorno più sporca e puzzolente. Per lei era un mistero che adesso veramente la annientava il fatto che, da un'unione con un uomo di cosi buona famiglia, lei avesse potuto partorire un figlio che sempre più le appariva come una bestia. Cercava di risalire più indietro possibile con la memoria, ma in entrambe le famiglie, nella sua come in quella del marito, trovava soltanto delle «persone sensibili, ammodo», tutta gente in mezzo alla quale suo figlio faceva la figura di «un mostro». Anche suo fratello, l'assassino, era così, un uomo sensibile, ammodo, intelligente, ansioso di apprendere tutto ciò che riguardava le esigenze dello spirito e, a differenza di suo figlio, mai le era sembrato un tipo sospetto. Certo, suo figlio non era mai entrato in conflitto con la legge. La sua bontà gli aveva impedito finora di commettere un delitto. Ma lei andava sempre più constatando che la bontà si ritirava da suo figlio per far posto a una freddezza d'animo che le faceva paura. I suoi parenti più stretti, quando arrivavano, già in giardino si mettevano a parlare sguaiatamente tutti insieme, come lei, stando nel suo letto, aveva imparato a sentire attraverso la finestra aperta, e ogni volta le sembrava che fossero d'accordo su qualche perfida infamia nei suoi confronti mentre, pronunciando ora l'uno ora l'altro a casaccio la parola «nonna», entravano nell'ingresso e poi in camera sua. I bambini li lasciavano strisciare carponi su e giù per la stanza, si sedevano sul letto accanto a lei, che in quei momenti si sentiva soffocare. Si lanciavano l'un l'altro delle accuse davanti a lei, la nuora definiva suo figlio un idiota «che pensa soltanto alla pagnotta», e lui la chiamava «ciabattona». Quando si erano stufati di ingiuriarsi a vicenda, aspettavano il momento giusto per andarsene, di nuovo facendosi precedere dai bambini, chiacchierando tutti insieme sguaiatamente e lasciando quell'odore di cadavere dietro di sé.


Pensava, disse la Ebenhoh, che alla sua morte il figlio avrebbe venduto la casa e che in brevissimo tempo avrebbe perduto il denaro così ricavato. A Stiwoll non poteva rimanere di certo, disse. L'idea dei suoi mobili abbandonati all'arbitrio di suo figlio e di sua nuora le dava un senso di disgusto, oggetti preziosi come il pianoforte, il violino di suo marito che era lì sul cassettone, le cartelle con gli spartiti, i libri, tutto quanto in balìa dei suoi eredi. Non occorreva andare fin laggiù per sapere in che miseria, in che tremendo squallore viveva la famiglia di suo figlio a Krottendorf. Una volta, quando ancora stava bene, l'avevano invitata da loro a Krottendorf, ma lei era riuscita a evitare quell'orrenda prospettiva col pretesto di un'emicrania; aveva avuto paura di trovarsi davvero ad un tratto di fronte a una realtà che per anni aveva immaginato. L'odore di cadavere si diffondeva da Krottendorf per una vasta zona, e in certi giorni, quando il vento soffiava da est, arrivava fino a Graz. A Krottendorf la gente viveva perpetuamente in mezzo al puzzo infernale del profitto.


Con un'aria completamente ottusa, suo figlio le descriveva il proprio lavoro alla conceria come un lavoro che gli era assolutamente indifferente, monotono, nocivo per i polmoni e per i reni, e ogni volta lei ne rimaneva sconvolta. Ma i medici che ogni due mesi visitavano i trecento operai della conceria di Krottendorf non avevano riscontrato mai nulla di sospetto né nei suoi reni né nei suoi polmoni. Dopo dieci anni di lavoro a Krottendorf, disse la Ebenhöh, che intanto guardava immobile al di là della coperta come se il suo sguardo arrivasse fino a Krottendorf, «dopo dieci anni passati a rimestare nei mastelli», gli operai di Krottendorf presentavano delle alterazioni ai polmoni e ai reni, alterazioni «letali» disse. Suo figlio però aveva la costituzione più robusta che ci si possa immaginare. Il suo corpo «gigantesco» era sempre stato per lei un corpo estraneo, e così pure per suo marito. Terminate le elementari, suo figlio era andato su nella mansarda in cui il fratello di lei si era impiccato, e lì era rimasto, giorno dopo giorno, seduto su una sedia a guardare nel vuoto come un ebete, senza dire una parola, fino al giorno della morte di suo padre. Non avendo evidentemente mai pensato ad altro, subito dopo i funerali del padre, come già lei aveva accennato, il figlio era sceso a Knittelfeld, dalla prima donna che gli era capitata sotto mano, da sua moglie, «quel povero pazzo». Certamente, pensava spesso, se fosse rimasto a vivere con lei, lei, sua madre, avrebbe potuto ancora salvarlo. Per molto tempo, sprovveduto e ottuso com'era, le aveva fatto pena, anche perché o proprio perché era stato costretto a rovinare la vita dei suoi genitori senza alcuna colpa e in maniera così insensata; adesso però non le faceva più pena. Era stanca di lui. Ormai, avvicinandosi alla fine, provava soltanto una profonda avversione per suo figlio, per la moglie di lui e per i suoi bambini.


La mia camera da letto è diventata la mia camera mortuaria, pensava probabilmente continuando a parlare di suo figlio, e disse che di notte la camera si restringeva e lei aveva paura di morire soffocata. Mio padre distrasse la Ebenhoh (e noi) indicandole l'alpe di Stub, descrivendole i pini gialli sulle vette, l'aria fresca dell'autunno, gli animali selvatici che sfrecciavano via veloci lungo le rocce, l'impetuoso torrente di Lobming giù nella valle.


Adesso lui portava più spesso suo figlio, me, con sé, disse mio padre, dovevo imparare a conoscere la gente, per me era una cosa indispensabile. Coi suoi figli ci viveva insieme, però non riusciva a vedere dentro di loro, né loro dentro di lui. Le difficoltà che i genitori si trovano di fronte nei rapporti con i figli, disse, diventano sempre più grandi, e sono comunque, in definitiva, difficoltà insuperabili.


Ancora non era riuscito a capacitarsi della morte di sua moglie, di mia madre. Ma non si riesce mai a capacitarsi di nulla. Chi l'avrebbe mai detto, appena tre anni fa, che all'improvviso lui si sarebbe trovato solo con me e mia sorella? «Una persona cara, dalla quale dipende ogni cosa, improvvisamente non esiste più» disse.


Sapeva che io ero ben sistemato all'Istituto Superiore di Scienze Minerarie di Leoben. Per me non aveva nulla da temere, per mia sorella invece sì. Predisposta a ogni sorta di malattie, chiusa in se stessa, viveva la maggior parte del tempo in solitudine con la nostra governante. La sua indole era talmente sensibile che in certi giorni non riusciva nemmeno a uscire dalla sua stanza.


Mio padre parlava di noi con molto affetto e la Ebenhöh sembrava ascoltarlo con attenzione. Ogni tanto, pensai, ha bisogno di una persona che lo stia ad ascoltare, e mi venne in mente Bloch. Di una cosa però era convinto, cioè che noi due, mia sorella ed io, tutte le volte che lui non c'era, ci aiutassimo molto l'un l'altro. Il mio interesse per le scienze naturali gli faceva piacere. Il fatto che fossi così taciturno lo preoccupava, ma non lo allarmava; sapeva infatti che non era un silenzio morboso, ma da persona ragionevole, essendo convinto che il mio corpo era sano.


Gli amici che avevo, per quanto ne sapeva, erano nelle mie stesse buone condizioni di spirito, lui li vedeva volentieri quando veniva a Leoben. In questi casi usciva con me a cena, andavamo al ristorante Garner. Ma veniva sempre di fretta, e questo era un guaio. Che io avessi scelto da solo gli studi universitari e la certezza che li avrei conclusi nel più breve tempo possibile, lo rendeva felice; facevo progressi, secondo lui ero il migliore di tutti.


Leoben era un luogo molto adatto per studi universitari come le scienze minerarie, essendo una località non troppo grande ma neanche troppo piccola, una città che offre tutto il necessario e nulla di superfluo. Il clima laggiù non era buono come qui da noi, ma senza dubbio era un clima salubre. Ero un giovane tutt'altro che alieno dai divertimenti che mi venivano offerti, però non amavo gli eccessi. Questo soprattutto lo tranquillizzava. Che avessi ormai ventun anni gli faceva uno «strano effetto».


Avrebbe desiderato che mi dedicassi di più alle attività sportive, ma pensava che spettasse a me decidere della mia vita. Tutto sommato, visto che non mi lasciava mancare nulla, poteva aspettarsi da me che io agissi secondo coscienza e che le sue speranze si realizzassero. Farsi avanti nella vita era sempre e comunque una gran fatica.


Notava in mia sorella dei sintomi identici a quelli che aveva avuto mia madre, sintomi psichici e fisici di giorno in giorno più pronunciati, tipici di un carattere sempre più simile a quello di nostra madre. L'animo di mia sorella, questo era il suo tormento, non era mai libero dall'angoscia, e l'organismo delicato, il più delicato che ci si possa immaginare. I suoi stati d'animo cambiavano rapidamente; totalmente soggetta alle oscillazioni del suo sistema nervoso, mia sorella era continuamente in pericolo. Da noi si era isolata sempre di più ritraendosi in se stessa, e creandogli perciò un problema che lui non era in grado di risolvere.


La mia impressione è che mia sorella si sia già troppo allontanata da noi perché noi la si possa ancora raggiungere. Tutti e due abbiamo perduto nostra madre nel momento più disgraziato, ma è probabile che per mia sorella quello sia stato un momento micidiale.


All'inizio, disse mio padre, l'aveva sistemata in un collegio vicino al lago di Costanza. Ma era stata una decisione assolutamente inopportuna. Proprio il regime imposto da quelle suore severe e intransigenti l'aveva piombata in quella sua spaventosa malinconia, in quel suo stato di disperazione che da allora in poi era diventato permanente. Da un anno è a casa, vittima di un'apatia da cui noi tutti ci sentiamo oppressi. Da parte mia, con le mie lettere da Leoben, cerco continuamente di avvicinarmi a lei, ma tutto è inutile. Non si poteva escludere che la malattia psichica si estendesse sempre più anche al suo organismo. La figlia rappresentava per lui una fonte di «angoscia continua».


Una volta, disse mio padre, era stato due giorni con lei a Zeitschach in un albergo. Ma in quei due giorni che avevano passato a Zeitschach, lei non gli aveva mai rivolto la parola. Eppure, in quei due giorni a Zeitschach, la natura era stata bella e piacevole. Lei si alzava tardi e andava a letto presto, quella località e i suoi dintorni l'avevano in qualche modo disturbata. Quel soggiorno non era stato un sollievo per lei, come lui avrebbe desiderato, ma soltanto un peso.


Un'altra volta era sceso con lei fino a Lubiana, poi erano stati a Trieste e a Fiume, in tutto sei giorni, per i quali si era trovato un sostituto, e neanche allora era riuscito a modificare il suo orribile stato d'animo. Sua figlia si incupiva a vista d'occhio. Aveva osservato che in genere si rabbuiava proprio in presenza della luce. In mezzo a gente allegra, che una volta tanto sapeva prendere la vita alla leggera, lei si sentiva infelice. Un ambiente piacevole la irritava. Una giornata di sole la faceva precipitare in una malinconia ancora più profonda.


Quando in casa arrivava gente, lei si ritirava, non si faceva più vedere, non usciva dalla sua stanza fino a quando gli ospiti non se n'erano andati. Di fronte ai divertimenti che si usano in campagna, lei era totalmente disorientata. Non aveva amiche, qualche volta usciva di casa nel cuore della notte e vagava qua e là per il paese. La sua insonnia ricorda l'insonnia di mia madre. Quando parte, con l'intenzione di star via per un lungo periodo, il giorno dopo è già di ritorno da qualche paese del Tirolo, del Salisburghese, della Slovenia. Ma era legata a noi, a suo padre e a suo fratello, da un affetto di cui ancora non riusciva a capacitarsi.


Con me era tutto più facile, disse mio padre, con lei ogni cosa diventava difficile. Viviamo insieme da tanto tempo e non ci conosciamo. Ciascuno di noi è completamente isolato in se stesso, anche se tra noi il legame è strettissimo. La vita intera non è altro che un tentativo ininterrotto di ritrovarci. Mai, mi dissi, ho sentito mio padre parlare di noi con tanto sentimento. Lui prevedeva che una volta finiti gli studi, io avrei imboccato una strada che non l'avrebbe deluso.


A questo punto si accorse che la Ebenhöh si era addormentata, si alzò in piedi e si accertò che io ero ancora lì nella stanza. Il fatto che lo avessi ascoltato lo mise in imbarazzo. Guardammo fuori nel giardino, dove c'era una donna - la vicina, pensai - che camminava nell'erba con gli stivali di gomma. Si tolse gli stivali di gomma davanti alla porta di casa ed entrò. Aveva comperato varie provviste per' la Ebenhöh, compresa una bottiglia di vino rosso che mise subito sul tavolo. Conosceva mio padre. E lui conosceva lei. La Ebenhöh si svegliò. Avevamo sentito dell'assassinio di Gradenberg? chiese la vicina. Grossi era ancora latitante. Era il quarto delitto quell'anno nel Bundscheck, e ricordò alla Ebenhöh il lattoniere strangolato, la maestra strozzata, entrambi di Ligist, e poi Horch, il pellicciaio di Afling ucciso con un colpo di arma da fuoco. Tirò fuori dalla carta del pane e del burro e disse: «C'è afa». Mio padre ammise di essere stato quella mattina presto dalla moglie dell'oste di Gradenberg che era stata assassinata. Era morta a Köflach, disse.


La vicina aggiustò il guanciale alla Ebenhöh, lo voltò, le tese bene il lenzuolo. Quando ci congedammo la Ebenhöh si era di nuovo addormentata. Attraversando la piazza del mercato di Stiwoll per ritornare alla nostra macchina, parlammo degli esami che avrei dovuto fare prossimamente, dei rapporti degli studenti di Leoben fra loro, della loro noia, del loro tedio di vivere. Dei numerosi suicidi proprio fra gli studenti migliori. Era sorprendente che proprio i ricchi fossero portati al suicidio e che prima soccombessero alla noia, la malattia più terrificante di cui a questo mondo ci si possa ammalare.


L'Istituto Superiore di Scienze Minerarie di Leoben era buono, famoso, a torto denigrato proprio da coloro che ci studiavano. Sono convinto, dissi, che si tratti di uno dei tre migliori Istituti del mondo. A Leoben tutto era predisposto in modo tale per cui bisognava concentrarsi completamente ed esclusivamente nello studio, altrimenti si diventava pazzi.


Non ero isolato, dissi, solo che ogni giorno mi procuravo con rinnovata energia la tranquillità e il distacco di cui avevo bisogno per andare avanti. Spesso mi comportavo in maniera arrogante e ferivo chi mi stava vicino. Se, riguardo allo studio, subentrava una stasi assoluta nella mia capacità di apprendimento, uscivo dal convitto, per lo più da solo, e andavo a passeggiare lungo le rive della Mur, e 11, pensando unicamente ai miei studi, venivo a capo delle mie difficoltà. Spesso però andavo sulle rive della Mur, un fiume brunastro che scorreva pigro e viscoso, con l'unico scopo di distrarmi completamente, e giunto sulle colline a nord, mi abbandonavo alle mie fantasie, alle mie meditazioni sulla natura della superficie terrestre. La struttura della superficie terrestre mi appariva nuova ogni volta che l'osservavo, mi dava un senso di conforto da qualsiasi prospettiva la guardassi.


Studiare la composizione dell'aria e camminare per molti chilometri in direzione nord-est verso il Semmering era spesso per me il massimo dei piaceri. Sentendomi in fondo completamente libero, provavo, forse, cos'è la felicità. Immerso nelle mie ipotesi sulla struttura del sottosuolo nella zona della Mur, provavo spesso un senso di serenità che mi restituiva quella chiarezza di idee che a forza di studiare avevo perduto e ridava alla mia mente la capacità di apprendere. Mi consideravo già da tempo un organismo che grazie alla mia forza di volontà ero sempre più in grado di disciplinare a comando. Certo, qualche volta soffrivo di ricadute, che mai però mi portavano alla disperazione. Dissi che pur di liberarmi dalla tendenza alla disperazione ero disposto a sopportare qualsiasi fatica. Meglio essere spaventosamente stremati, aggiunsi, che essere profondamente disperati. C'erano attimi in cui mi sentivo in grado senza alcuno sforzo di penetrare con lo sguardo nella creazione, che altro non è se non un'immane estenuazione. «Attimi» dissi.


Ogni giorno mi rimettevo completamente per poi distruggermi da cima a fondo. A mio avviso sapersi dominare era il piacere di trasformare se stessi, in virtù del proprio cervello, in un meccanismo che ubbidisce ai comandi che riceve. Solo dominando se stesso in questo modo, dissi, l'uomo può essere felice e comprendere la propria natura. Ma sono pochissimi coloro che arrivano a comprendere la propria natura. Lasciarsi offuscare dai sentimenti, non fare nulla contro il normale incessante incupirsi del proprio umore, ecco ciò che rende gli uomini disperati. Dove prevale il raziocinio, la disperazione è impossibile, dissi. «Quando subentra in me questo stato di completa irrazionalità, tutto in me diventa disperazione». Solo di rado ormai ricadevo in questo stato. La vita è sempre faticosa, finché non se ne esce, e il piacere consiste nel sopportarla con raziocinio. La maggior parte degli uomini sono sentimentali, non raziocinanti, e proprio per questo la maggior parte di loro finisce nella disperazione e non nel raziocinio. «Ma il raziocinio di cui sto parlando» dissi «non ha nulla di scientifico».


Mio padre aveva notato con sorpresa la mia improvvisa loquacità. Disse che anche lui talora riusciva a parlare di qualcosa, oppure, anche senza riuscire a parlarne, a vedere qualcosa che in fondo per l'uomo è fuori questione, in quanto è davvero umanamente impossibile. Passando accanto alla casa di Bloch ci dirigemmo in macchina verso Hauenstein, da un industriale più o meno pazzo del quale ho dimenticato il nome. Arrivati ad Abraham, abbreviammo la strada attraversando Geistthal.


Fra gli studenti regna sempre uno stato di inquietudine, dissi, perché, fintanto che studiano, essi si trovano in un vuoto, il vuoto che si crea tra i genitori che hanno abbandonato e il mondo che ancora non hanno raggiunto, e anziché andare verso il mondo essi tendono piuttosto a ritornare dai loro genitori. In questo vuoto, aggiunsi, spesso la catastrofe giunge all'improvviso, quando essi si mettono in mente di non farcela più né a tornare indietro dai genitori né a entrare nel mondo. Negli ultimi sei mesi, nel solo convitto, si erano suicidati ben tre studenti. Fino al momento della loro morte, nei sentimenti e nell'umore di quei tre, mai si era potuta rilevare la benché minima stranezza.


Quanto a me, dissi, non avevo ancora mai pensato di uccidermi, mentre mio padre sostenne che il pensiero del suicidio gli era stato sempre familiare. Fin da bambino aveva cercato spesso in questo pensiero una via di scampo da altri pensieri. Qualche volta gli era passato per la mente, ma sempre soltanto come un pensiero necessario per vivere, da lui prodotto a questo scopo, un pensiero di requie, mai il suicidio era stato per lui un pensiero immanente. A questo punto comprendevamo tutti e due quanto fosse pericoloso vedere mia sorella immersa in continuazione e forse senza rimedio in pensieri di suicidio, alternativamente in pensieri di suicidio e in tentativi di suicidio. Fin dalla prima infanzia lei era stata incline al suicidio, e mio padre disse che quel sentimento, concepito all'inizio in maniera teatrale, poteva trasformarsi in seguito in un sentimento naturale culminante nella catastrofe. Dietro Abraham scorgemmo dei grandi frutteti sui pendii. I contadini avevano esposto al sole le botti di mosto aperte. Le case sono vecchie. Non c'è zona più isolata di quella fra Geistthal e Hauenstein.


Eravamo rimasti troppo a lungo a Stiwoll, disse mio padre. A Hauenstein lo stavano aspettando fin dal mattino. L'industriale, che si era ritirato laggiù in un padiglione di caccia, era immerso in un lavoro letterario che lo tormentava ma anche lo distraeva dal tormento che gli veniva da se stesso. Da più di due anni mio padre conosceva quest'uomo non ancora cinquantenne. Gli unici collegamenti con il mondo l'industriale li teneva attraverso la posta. Aveva una sorellastra che divideva con lui quella solitudine, una solitudine assoluta, come avrei constatato di lì a poco, una solitudine per lui ideale, come l'industriale stesso la definiva. Il padiglione di caccia lo aveva acquistato quindici anni prima dal principe Saurau, che poi saremmo andati a trovare nel suo castello di Hochgobernitz, e già allora aveva in mente quel suo lavoro letterario su un tema squisitamente filosofico di cui però non parlava mai. Se ne avesse parlato, ripeteva sempre l'industriale a mio padre, se avesse cominciato a parlarne, avrebbe immediatamente rovinato un lavoro già in fase molto avanzata e non sarebbe stato più in grado di ricominciarlo da capo. Lavorava giorno e notte, scriveva e poi distruggeva quello che aveva scritto, scriveva ininterrottamente e poi distruggeva di nuovo, avvicinandosi così alla propria meta. Al di fuori del lavoro non si concedeva nulla, se non ogni tanto un incontro, sempre brevissimo, con la sua sorellastra in biblioteca o in cucina, e soltanto per discutere alcuni problemi di alimentazione. La sua sorellastra andava due volte alla settimana a Geistthal a fare la spesa, a imbucare la posta e a ritirarla. Nella loro casetta avevano accumulato una immensa scorta di viveri per i cosiddetti casi di calamità, ma quella scorta non la toccavano mai. La sorellastra era figlia della madre di lui e di un padre cileno, e mentre ci avvicinavamo lentamente a Hauenstein, mio padre mi spiegò i loro rapporti. Vivevano insieme come marito e moglie; lei, dopo aver fatto entrare mio padre in casa e avere annunciato il suo arrivo al fratellastro, era solita ritirarsi immediatamente in camera sua, per ricomparire soltanto al momento del congedo.


L'industriale aveva il diabete, disse mio padre, e circa ogni due ore doveva farsi un'iniezione. Due o tre volte al mese mio padre veniva ad accertarsi che la malattia fosse sempre allo stesso punto. Lui, mio padre, non aveva mai sentito che quelli di Hauenstein ricevessero altre persone oltre a lui. Aveva chiesto spesso alla gente dei dintorni se altre persone venissero in visita a Hauenstein, in particolare dalla città, nessuno però ne sapeva nulla. Anche la casa dava l'impressione di essere abitata esclusivamente dall'industriale e dalla sua sorellastra, e che da decenni nessun'altra persona vi fosse mai entrata. Non era piena zeppa, come lo sono di solito i padiglioni di caccia, di selvaggina imbalsamata, anzi era quasi completamente vuota, conteneva soltanto le cose strettamente indispensabili. Anche nella camera della sorellastra dell'industriale non c'era che un letto, un tavolo, un cassettone e una sedia. Non un quadro alle pareti, in tutta la casa non c'era un solo quadro. L'industriale li odiava i quadri, e così pure le illustrazioni. Tutto per lui doveva essere vuoto il più possibile, il più possibile spoglio. E il poco che c'era il più semplice possibile. La natura intorno e il fitto bosco che circondava la casa rappresentavano per lui una muraglia. Al postino era concesso attraversare la muraglia se aveva un telegramma, ma non poteva metter piede nel padiglione, doveva annunziarsi chiamando ad alta voce e consegnare la posta alla sorellastra dell'industriale davanti alla porta d'entrata. Dietro alla casa, disse mio padre, c'era una sorgente, e l'acqua era buona. Adesso stavamo attraversando un'alta valle, intorno a noi non c'era che bosco, nient'altro che bosco.


In casa dell'industriale non si trovava un solo libro, disse mio padre, di proposito non voleva averne neanche uno per non esserne irritato. Niente irrita di più dei libri, quando si vuole stare soli con se stessi, quando si deve stare soli con se stessi. Alla sorellastra permetteva di leggere alcuni giornali, fra cui «Le Soir» e 1'«Aftonbladed», «Le Monde» e «La Prensa», ma neppure un giornale tedesco. Comunque, anche i giornali stranieri che le erano concessi dovevano essere vecchi almeno di un mese, senza capacità di distruzione, già poetici. L'abbigliamento dell'industriale era semplice; mio padre l'aveva visto sempre e soltanto in camicia e calzoni. Si diceva che egli parlasse non solo tutte le lingue dell'Europa centrale, ma quasi tutte quelle dell'Asia orientale.


Nel suo studio, oltre al tavolo e alla sedia, non tollerava che della carta bianca, in modo che, potendosi concentrare solo su se stesso, nulla lo distraesse mai dal suo lavoro. Come materiale per quello che scriveva, gli bastavano largamente, diceva, le esperienze che aveva fatto in più di quarantanni nelle grandi metropoli del mondo, nei centri industriali e commerciali dei cinque continenti.


Le sue proprietà erano sparse nei paesi di tutto il mondo, soprattutto in quelli di lingua inglese. Da Hauenstein l'industriale dirigeva i propri affari occupandosene soltanto un'ora al giorno. Un apparato di enorme complessità, nel quale erano occupate più di quarantamila persone in perpetuo movimento, era tenuto da lui sotto controllo da Hauenstein, e il suo funzionamento migliorava sempre più. In seguito, una volta concluso il suo lavoro, «probabilmente alla fine si ridurrà a un unico pensiero» aveva detto una volta a mio padre, pensava di abbandonare Hauenstein, di uscire da quell'alta valle, di lasciarsela alle spalle.


Per quel che riguarda il cibo, gli bastavano le cose più semplici. Le lunghe passeggiate che faceva, addentrandosi sempre più nei boschi, in quella sterminata «Matematica metafisica sempreverde», come lui definiva i boschi attorno a Hauenstein, gli bastavano per non far afflosciare i muscoli. Era un nemico delle passeggiate, le faceva soltanto per non andare «fisicamente in malora». Una piccola stufa di ferro riscaldava la sua camera, un'altra stufa di ferro la camera della sorellastra. Per fortuna era malato di diabete, aveva detto una volta a mio padre, perché così, almeno a Hauenstein, a parte sua sorella, vedeva una sola persona, cioè mio padre. Una volta aveva detto che mio padre impediva che «l'esperienza di Hauenstein giungesse alle sue estreme conseguenze».


Si notava subito che l'industriale parlava di rado e che tutto quello che diceva era soltanto un modo di difendersi da una sua qualche atroce irritazione. Quelle camere vuote a mio padre facevano sempre un'impressione orribilmente deprimente poiché si rendeva conto che l'uomo che vi alloggiava doveva riempirle da sé, unicamente con le sue fantasie, unicamente con oggetti fantastici, per non impazzire.


La sola occupazione dell'industriale, oltre a lavorare, addentrarsi nel bosco e discutere con la sorellastra di problemi di alimentazione, era una voglia che lo prendeva ogni tanto, e ogni volta diventava più acuta, di sparare contro un enorme bersaglio di legno fissato a due tronchi d'albero dietro la casa. «Mi esercito, non so bene perché» aveva detto una volta a mio padre. In tutta la zona lo sentivano sparare spesso per ore e ore, fin dopo la mezzanotte. Insonnia totale e totale apatia spesso si alternavano in lui nella maniera più atroce, per giorni interi, senza che lui riuscisse a trovare la forza di uscire da questo suo stato. Nei giorni normali l'industriale si alzava alle quattro e mezzo del mattino e lavorava fino all'una e mezzo, mangiava un boccone e poi lavorava di nuovo fino alle sette di sera.


Alla sua sorellastra lasciava la «massima libertà possibile» a Hauenstein. Ma già sei o sette settimane dopo il loro arrivo a Hauenstein, egli aveva potuto notare in lei i segni di una pazzia che aveva peraltro «profonde radici nel clericalismo». Questa pazzia, comunque, diceva l'industriale, sarebbe potuta immediatamente regredire il giorno in cui lui e la sorellastra avessero lasciato Hauenstein. Abbandonata completamente a se stessa e oppressa dalla tirannia del fratellastro, lei era sempre sul punto di togliersi la vita. Il fratellastro notava tuttavia che, per un riguardo a lui - per il quale lei faceva tutto pur non comprendendolo affatto - lei non si permetteva mai nulla, non un grido liberatore, non un gesto di insofferenza. Mio padre notava anche in questa donna, che era sorprendentemente linda e ordinata, la tipica silenziosità che si osserva nelle donne pazze rinchiuse nei manicomi.


«È probabile che il fratellastro le abbia proibito di parlare con me» disse mio padre; aveva sempre la sensazione che lei desiderasse conversare con lui, ma che la cosa non le fosse permessa. Sulla strada per andare dal principe Saurau a Hochgobernitz, per lo più a Hauenstein lui ci arrivava nelle prime ore del mattino, quando l'aria era pulitissima e splendida la vista sull'alpe di Rossbach. La strada che stavamo percorrendo, disse, l'aveva fatta costruire l'industriale a proprie spese, e apparteneva a lui in tutta la sua lunghezza. Nei boschi l'industriale aveva piazzato dappertutto, anche se non si vedevano, mugnai disoccupati, boscaioli in pensione, minatori senza lavoro, tutti in qualità di guardiani che avevano il compito di tenergli lontana qualsiasi persona.


Mio padre disse che a suo avviso l'industriale poteva vivere ancora per un certo periodo a Hauenstein nel modo in cui adesso riteneva di dover vivere, un paio d'anni al massimo. A differenza che nella sorellastra, mai aveva avuto occasione di riscontrare in lui il minimo segno di pazzia. Ma nessuno può condurre un'esistenza così totalmente segregata senza riportarne danni gravi, anzi gravissimi, allo spirito e al carattere. È noto che tutto a un tratto certe persone, in un momento di svolta decisiva della loro vita, una vita che a loro sembra filosofica, scoprono un carcere nel quale vanno poi a rinchiudersi per consacrare la propria esistenza a un lavoro scientifico o a un'infatuazione poetico-scientifica. E che costoro usano portare con sé in questo carcere una creatura a loro devota. E che il più delle volte essi distruggono, sempre lentamente all'inizio, la creatura che hanno portato con sé nel loro carcere e poi, presto o tardi, distruggono se stessi. Mio padre però non se la sentiva di affermare che l'industriale fosse uno di questi infelici; al contrario, l'esistenza che lui conduceva gli era perfettamente congeniale, a differenza della sorellastra, che per colpa sua era costretta a un'esistenza assolutamente infelice.


Dapprima, disse mio padre, queste persone, come ad esempio la sorellastra dell'industriale, non ne vogliono sapere di consegnarsi mani e piedi al loro oppressore, ma ben presto si accorgono che ribellarsi non serve a niente. Allora, non avendo altra scelta, si affezionano a lui con una disperazione spaventosa che le distrugge sistematicamente; mio padre la chiamava 1'«orribile disperazione dei servi».


Ma proprio perché hanno abbandonato qualsiasi scrupolo, le persone come l'industriale raggiungono comunque lo scopo che si sono prefisse, anche se questo scopo e il metodo con cui l'hanno raggiunto possono comunque apparire agli altri ripugnanti e incomprensibili. Il padiglione di caccia sorgeva in realtà in mezzo a una radura, e si vedeva subito come quella radura gli si attagliasse perfettamente. Non c'era neanche un trofeo appeso sulla facciata della casa, il cui aspetto non era assolutamente più quello di un padiglione di caccia. Pensai subito: «È un carcere! Un carcere improvvisato!». Tutte le imposte erano chiuse, si sarebbe potuto pensare che la casa fosse disabitata. Lo studio dell'industriale si trovava sul retro della casa, disse mio padre. L'industriale si concedeva sempre una sola imposta aperta. Tutto nella casa doveva aiutarlo a concentrarsi nel suo lavoro.


Scendemmo dalla macchina, e visto che mio padre era atteso e chiaramente ci avevano sentiti arrivare, la porta ci fu subito aperta. La sorellastra dell'industriale ci condusse lesta nell'anticamera, e io pensai che quello in origine non poteva essere stato un padiglione di caccia, perché dalle nostre parti i padiglioni di caccia non hanno anticamera. Probabilmente l'edificio faceva parte in origine di una fortificazione dei Saurau. Nell'anticamera non c'era un solo oggetto mobile, se si eccettua una grossa corda che pendeva dal soffitto. A cosa serva quella corda è rimasto per me un mistero.


Mio padre disse che io ero suo figlio. La sorellastra dell'industriale però non mi porse la mano e subito sparì lasciandoci soli nell'anticamera. Notai che, arrivati nell'anticamera, lei aveva subito sprangato di nuovo la porta di casa facendole passare davanti una grossa trave squadrata. Abituata alle visite di mio padre, non pensò di scusarsi prima di sparire.


Seguii mio padre attraverso parecchie stanze, non completamente oscurate solo grazie alle fessure delle imposte, stanze bianche di calce. Camminavamo sui pavimenti di larice. Dovemmo salire al primo piano. Anche lassù c'era un lungo corridoio, altrettanto buio, sistematicamente oscurato. Pensai all'interno di un monastero.


Camminavamo con cautela, ma facevamo comunque troppo rumore, dato che le stanze erano vuote. Mi sarebbe piaciuto gridare, e gridando spalancare le imposte, mentre percorrevamo il corridoio di sopra, ma la ragione m'impedì di fare qualcosa che non avevo il permesso di fare. Mio padre si fermò davanti alla camera dell'industriale, bussò e su invito dell'industriale entrò senza di me. Come d'accordo, rimasi ad aspettarlo davanti alla porta.


Per molto tempo non udii nulla, poi alcune parole, di cui per lo più non capii il nesso, infine delle parole che si riferivano chiaramente all'attività letteraria dell'industriale. Nell'ultima settimana aveva fatto enormi progressi, disse l'industriale, e aveva intenzione di continuare così. «Anche se ho distrutto tutto quello che ho scritto finora,» disse «ho fatto lo stesso enormi progressi». Si accingeva adesso a un lavoro che lo avrebbe occupato ancora per molti anni, un lavoro che probabilmente lo avrebbe annientato. «No,» disse «non mi farò annientare».


Poi egli parlò dei suoi affari in continuo sviluppo, che ora si concentravano sempre più nei paesi africani. Aveva ricevuto notizie molto confortanti, disse, sia da Londra che da Città del Capo. Con una velocità impressionante l'Africa si stava trasformando nel continente più ricco del mondo e bisognava approfittare del fatto che i bianchi si stavano ritirando da laggiù. «La razza bianca» disse «in Africa è arrivata alla fine, io invece comincio laggiù solo adesso!».


Tornando di nuovo alla sua attività letteraria, disse che proprio adesso, «in queste settimane», stava facendo delle scoperte di decisiva importanza per il suo lavoro. Grazie alla sua segregazione, «grazie al vuoto di quassù», era in grado di realizzare «per intero un formidabile cosmo di idee». In questo periodo tutto in lui si stava realizzando. Ed egli si adoperava con ogni energia per portare a termine il suo lavoro.


Perché non ci fosse più nulla che disturbasse il suo lavoro, aveva fatto distruggere «l'ultima autentica distrazione» che aveva ancora a Hauenstein: tutta la selvaggina esistente nei boschi di Hauenstein lui l'aveva fatta abbattere, raccogliere e distribuire in regalo «possibilmente ai poveri» sparsi nella regione del Bundscheck.


«Adesso, quando apro le finestre, non sento più nulla,» disse l'industriale «assolutamente nulla. Una situazione fantastica».


Dopo un lungo silenzio nella camera dell'industriale, udii che mio padre richiamava l'attenzione dell'industriale sulla mia presenza in corridoio. Per il fine settimana ero tornato a casa da Leoben, dove, come lui sapeva, studiavo all'Istituto Superiore di Scienze Minerarie, e lui mi aveva portato con sé. Ero fuori in corridoio. Ma l'industriale non mi volle vedere. «No,» disse «non voglio vedere Suo figlio. Una persona nuova, una faccia nuova, mi rovina tutto. Cerchi di capire, mi rovina tutto una faccia nuova».


L'industriale chiese a mio padre dove fosse già stato quel giorno, e dal tono sembrava che l'industriale quella domanda gliela facesse sempre. «A Gradenberg,» rispose mio padre «dove la moglie di un oste è stata assassinata da un minatore di nome Grossi. Poi siamo stati sullo Hüllberg. E a Salla. E a Köflach. Ad Afling e poi a Stiwoll» disse. «Ha intenzione di salire dal principe Saurau adesso?» chiese l'industriale. «Sì,» disse mio padre «ma prima devo ancora scendere al mulino dei Fochler».


«No,» disse di nuovo l'industriale «non desidero ricevere Suo figlio, non desidero conoscerlo. Quando si presenta all'improvviso una persona nuova, può capitare che mi distrugga tutto. Tutto. Una persona così compare e rovina tutto». Dopo un po' l'industriale disse: «Dato che tutte le camere di questa casa sono completamente vuote, nell'oscurità che vi regna non posso urtare contro nessun oggetto». Mio padre uscì. Scendemmo giù nell'anticamera. La sorellastra dell'industriale ci fece uscire. Anche la radura aveva un che di opprimente. «Andiamo a Geistthal a mangiare qualcosa» disse mio padre. In silenzio ritornammo a Geistthal per la stessa strada attraverso il bosco che avevamo percorso all'andata. Non vedemmo anima viva. Mi faceva veramente orrore l'idea che nel bosco non ci fosse più nemmeno un animale selvatico e che dei guardiani invisibili ci stessero osservando. Poco prima di Geistthal vedemmo le prime persone. Era mezzogiorno. Inizialmente avevamo pensato di raggiungere il mulino dei Fochler passando dalla cima del Roma, ma poi attraversammo l'abitato di Abraham e ci dirigemmo verso Afling, dove entrammo in una trattoria di cui mio padre aveva sentito parlare bene.


Poiché non c'era neanche un tavolo libero, ci pregarono di accomodarci in cucina dove ci servirono con particolare riguardo. Sentimmo parlare dell'omicidio di Gradenberg, della donna uccisa. Grossi non era stato ancora catturato. Bisognava aspettare che la fame lo facesse uscire dal suo nascondiglio, che non poteva essere lontano.


Mentre mangiavamo, mio padre parlò di nuovo affettuosamente del bambino di Hullberg, poi di Bloch. «Tutti sono difficili» disse. Aprì la sua borsa e vide che aveva dimenticato i libri presi in prestito da Bloch, il Diderot, il Nietzsche, il Pascal. Comunque, nei giorni seguenti, non avrebbe trovato il tempo di leggere. Pensava alla Ebenhoh, disse che la consuetudine di quelle visite stava per finire, perché lei avrebbe vissuto soltanto un paio di giorni ormai, che si sarebbe semplicemente addormentata. Poi incominciò a parlare del maestro che aveva visitato per primo e che era morto subito tra le sue braccia. Il destino dei maestri di campagna è amaro, disse; spesso, per motivi disciplinari, essi vengono trasferiti dalla città, magari piccolissima, nella quale però si sentivano a proprio agio; relegati in una angusta, fredda valle di montagna, in mezzo a una popolazione a loro ostile, vi conducono una vita da miserabili, resa per giunta sempre più insopportabile da odiose circolari del Ministero, e così, in brevissimo tempo, la maggior parte di loro cade in preda a una mortale ebetudine, che da un momento all'altro può trasformarsi in follia. Inclini fin da piccoli a considerare la vita nient'altro che un tremendo castigo (di Dio?), immersi ininterrottamente in un ambiente che non li prende sul serio e dove tutti li guardano dall'alto in basso, vivono in un clima che scompiglia il loro già debole intelletto e li spinge sulla strada delle aberrazioni sessuali.


Per mio padre il triste destino del maestro di Salla era stato già per molto tempo un'occasione di quotidiani «assurdi» pensieri. Non ne voleva parlare, disse, ma poco dopo, evidentemente, decise che tacere non era così importante, infatti cominciò a raccontare che il maestro era stato due anni prima per l'ultima volta nella scuola elementare di Obdach, dove doveva svolgere il suo insegnamento. Per quanto ne sapeva mio padre, erano stati i frequenti rapporti che il maestro aveva avuto con un ragazzino nervoso ciò che lo aveva costretto a rifugiarsi nel Tirolo, poi in Italia, infine addirittura in Slovenia. Era riuscito a sopravvivere per due anni come un selvaggio fra gente che parlava una lingua straniera, vivendo per lo più di piccoli furti, poi, all'improvviso, ormai completamente stravolto, aveva di nuovo varcato il confine e si era spontaneamente consegnato alla giustizia. Un processo rapidamente istruito si era concluso con la condanna da parte di un tribunale popolare di Bruck a due anni di carcere e a due anni di casa di lavoro. La pena dovette scontarla a Garsten. Quando lo dimisero (a me venne in mente il fratello della Ebenhöh), ritornò dai suoi genitori, che avevano un piccolo podere a Salla e che si presero cura di lui con molto affetto. Naturalmente si poteva sostenere, disse mio padre, che il maestro fosse morto per una malattia di cuore, d'un cosiddetto «infarto cardiaco»; certo, si poteva anche semplificare così la questione. «Ma la causa non è stata quella» disse.


Sul volto del maestro morente mio padre aveva letto chiaramente l'accusa di un uomo contro un mondo che non aveva voluto capirlo.


Il maestro era arrivato all'età di ventisei anni e varie settimane prima che morisse i suoi genitori avevano tenuto appeso nell'ingresso il suo sudario. «Per settimane intere,» disse mio padre «entrando nella casa dei genitori del maestro, prima di ogni altra cosa vedevo il sudario del maestro».


Che fosse morto in presenza del medico, cioè di mio padre, era stato per i suoi genitori un motivo di sollievo. Anche loro, disse mio padre, sentono di dover considerare il proprio figlio, come la Ebenhöh il suo a Stiwoll, alla stregua di un castigo (di Dio?).


Del maestro defunto mio padre, mentre mangiava, raccontò ancora quanto segue: quand'era bambino la nonna lo aveva portato con sé a raccogliere more in un bosco fitto, dove i due si erano completamente smarriti. Avevano continuato a cercare un modo di uscire dal bosco, ma non ci erano riusciti. Ad un tratto si era fatto buio, senza che loro avessero ancora trovato una via d'uscita. Continuavano a camminare nella direzione sbagliata. Infine i due, nonna e nipotino, si erano accovacciati in un fosso e avevano passato la notte così, con i corpi stretti uno contro l'altro. Anche il giorno seguente non erano stati capaci di uscire dal bosco. E anche la seconda notte l'avevano passata in un altro fosso. Soltanto nel pomeriggio del terzo giorno avevano improvvisamente trovato una via d'uscita, sia pure in direzione opposta rispetto a Salla, il loro paese. Completamente sfiniti, erano riusciti a raggiungere la casa più vicina, una casa di contadini.


Da questa avventura, che aveva portato la nonna rapidamente alla morte, il nipotino, che a quell'epoca non aveva ancora sei anni, era stato rovinato per sempre. Dalle catastrofi che si manifestano più tardi nell'esistenza di un individuo si può sempre risalire a dei danni patiti nel corpo e nell'anima nel corso dei primi anni, anzi per lo più nei primissimi anni della sua vita. La medicina di oggi però, disse mio padre, era in grado di utilizzare questa nozione solo in maniera gravemente insufficiente.


«A tutt'oggi i medici, nella loro maggioranza, ancora non praticano la ricerca etiologica» disse mio padre «e si regolano totalmente in base agli schemi terapeutici più grossolani». Non essendo altro che «ipocriti prescrittori di medicine», i medici evitavano comunque lo studio della componente psichica degli uomini, i quali, inermi e bisognosi, seguendo una tradizione sciagurata, si affidavano ad essi anima e corpo. I medici erano «pigri e vigliacchi» disse mio padre, e mettersi nelle loro mani significava mettersi nelle mani del caso e di una totale mancanza di sensibilità, insomma di una pseudo-scienza. I medici, nella loro maggioranza, erano oggi «lavoratori non qualificati della medicina», i «più grandi mistificatori».


Da nessuna parte lui, mio padre, si sentiva tanto a disagio come fra i suoi colleghi. «Non c'è niente di più inquietante della medicina» disse.


Negli ultimi mesi della sua vita, il maestro aveva acquisito, a detta di mio padre, «una stupefacente abilità nel disegno a penna». L'elemento demoniaco che in quei disegni era emerso sempre più in primo piano, aveva sconvolto i suoi genitori. A tratti sottili egli disegnava un mondo «che è un mondo che annienta se stesso» e che, quanti più «disegni lui metteva insieme», tanto più li sgomentava: uccelli straziati, lingue umane lacerate, mani con otto dita, teste in frantumi, estremità strappate da corpi invisibili, piedi, mani, organi genitali, uomini asfissiati mentre stanno camminando, eccetera. Sotto la pelle del maestro emergeva sempre più nitida la struttura ossea del suo cranio, che lui disegnava molto spesso, centinaia, migliaia di volte. Quando il maestro parlava, la sua sciaguratissima configurazione interiore appariva più che mai evidente. Mio padre disse che già una volta aveva pensato di portar via con sé i disegni del maestro e di mostrarli a un suo conoscente, il proprietario di una galleria di Graz. «Se ne può fare una buona esposizione» disse. Non aveva mai conosciuto nessuno che disegnasse come il defunto maestro. Il surrealismo del maestro era di un tipo completamente nuovo, non si trattava nella sua arte di una tematica surreale che il maestro mostrava, tutto ciò che era disegnato sui fogli del maestro non era nient'altro che la realtà. «Il mondo è surrealistico da cima a fondo» disse. «La natura è surrealistica, tutto è surrealistico» disse mio padre. Ma pensava che l'arte viene distrutta quando è messa in mostra e proprio dal fatto di esser messa in mostra - perciò aveva rinunciato all'idea di fare qualcosa coi disegni del maestro. Ma poiché temeva che i genitori del defunto maestro potessero buttar via o bruciare eccetera quei disegni - «Migliaia!» -, dal momento che non sapevano che erano dei bei disegni e perché quei disegni non cessavano di spaventarli, sgomentarli e sconvolgerli, lui, mio padre, aveva intenzione di andarli a prendere («Una volta o l'altra vado a prendermeli tutti e basta» disse). Non aveva dubbi che glieli avrebbero consegnati.


Negli ultimi tempi, ogni volta che osservavano il loro figlio malato, certamente i genitori del maestro non avevano potuto fare a meno di pensare a quella sua sciagurata inclinazione. È una cosa orrenda che non si possa guardare un uomo, nel cui passato si sa che c'è stato un traviamento, un atto contro natura o un delitto, senza collegare immediatamente quell'uomo, per tutto il tempo che dura la sua vita, con quel traviamento, con quell'atto contro natura, con quel delitto.


Dal suo letto il maestro poteva vedere da una parte il Bundscheck, dall'altra la cima del Wolker. «Tutta questa orrenda natura la si ritrova nei suoi disegni» disse mio padre.


I suoi genitori dicevano che nell'ultimo periodo non parlava più, che osservava soltanto la natura davanti alla sua finestra. Ma lui vedeva una natura completamente diversa da quella che vedevano loro, riferì mio padre, «una natura diversa da quella che vediamo noi, quando la osserviamo». Anche la natura che aveva dipinto era completamente diversa, «tutto era completamente diverso».


Non rimanemmo a lungo soli al nostro tavolo, venne a sedersi un uomo anziano, evidentemente il padre dell'oste. Continuò a chiederci se sull'assassinio di Gradenberg ne sapessimo più di lui. Non ci lasciò mangiare in pace.


Andando verso il mulino dei Fochler la valle si restringeva sempre più, in un modo che anche a lui appariva sinistro, disse mio padre. Mi ricordai che il mulino dei Fochler è incassato profondamente in quella gola oscura; subito dopo si sale al castello dei Saurau.


Pagammo il conto e ce ne andammo via. Nella grande sala della trattoria in quel momento stavano dando da mangiare a una frotta di scolari, un piatto di minestra calda per ciascuno, erano ragazzi educati a non far chiasso. Che razza di uomini orrendi saranno un giorno queste creature ignare, pensai quando uscimmo dalla trattoria.


Il mulino dei Fochler si trova nel comune di Rachau, tuttavia per arrivarci da Rachau bisogna fare una lunga deviazione, ben sessanta chilometri, il che significa che il mulino dei Fochler si trova in una località completamente isolata, proprio sotto il castello dei Saurau, che però dal mulino dei Fochler non si riesce a vedere.


Lasciata Afling, entrammo direttamente nella gola. Quando la valle si fece più cupa, non potei fare a meno di pensare a mia sorella che aveva ancora un cerotto sul polso. Il tempo che io, venendo da Leoben, passavo a casa, il fine settimana soltanto, era troppo breve, disse mio padre. Non riuscivamo mai a spiegarci del tutto. Lui no, ma io, disse, forse potevo ancora esercitare un influsso positivo su mia sorella. In modo del tutto indipendente uno dall'altro, entrambi eravamo approdati col pensiero a mia sorella.


La osservava, quando lei non si sentiva osservata, disse mio padre, mentre in giardino, pensierosa, sempre nello stesso posto, guardava immobile il muro della rimessa. Se lui la chiamava, lei si spaventava e andava in camera sua senza dire una parola. Nello studio non gli era di nessun aiuto. Aveva una grandissima repulsione per tutto ciò che riguarda la professione medica. Di fronte a lei lui vedeva in tutta chiarezza la propria impotenza.


Pensava spesso che proprio in sua figlia si mostrava in maniera terrificante come la sua arte non riuscisse ad andare più in là di qualche malsana intuizione. Qualche volta portava con sé mia sorella in visita dai parenti, ma lei si sentiva a disagio in mezzo alla gente.


Lo distrassi indicandogli un gregge di pecore che ad un tratto comparve per qualche minuto sulla cima dello Speik sopra la gola, all'altezza dello spartiacque. Intanto ci inoltravamo sempre più profondamente nella gola e a me sembrò che centinaia e migliaia di immagini si affollassero tutte insieme nella mia memoria, e non vidi più nulla.


Al padrone del mulino mio padre doveva togliere una volta alla settimana la fasciatura da una gamba piagata, far uscire il pus che nel frattempo vi si era formato, e rifasciare la gamba con bende nuove. Forse per me sarebbe stato divertente, disse, mentre lui stava in camera col proprietario del mulino, andare a vedere la grande gabbia con gli uccelli esotici che si trovava dietro al mulino. Adesso, sentendo parlare della gabbia con gli uccelli, capii finalmente quale fosse il mulino dei Fochler. Quella volta un corteo funebre, uscendo dalla gola, era passato davanti al mulino dei Fochler, probabilmente, pensai, veniva dal castello dei Saurau, e gli uccelli, scagliandosi spaventati contro le grate della gabbia, irritati dal borbottio della gente che pregava, non avevano smesso un istante di investire il corteo funebre con le loro strida.


Anche quella volta era un sabato. Pensai che la maggior parte dei funerali si fanno di sabato, battesimi, matrimoni e funerali si fanno sempre quasi tutti di sabato. Ma com'era diversa l'atmosfera quando arrivammo al mulino. Due giovani operai (mio padre disse: «I figli!») erano intenti a caricare dei sacchi di farina su un carro a rastrelliera. Le turbine facevano un tale baccano che non riuscivamo a capire le nostre stesse parole e io in particolare non riuscii a capire quello che mio padre disse prima di entrare nel mulino.


Le imposte erano di ferro, nere. Niente fiori. Sopra la porta d'ingresso si poteva riconoscere ancora lo stemma dei Saurau. Tutta questa regione apparteneva una volta al principe Saurau, penso. Sempre i castelli come quello di Hochgobernitz hanno avuto molti mulini, fabbriche di birra e segherie di loro proprietà.


Alla fine della gola, sul punto più alto, sorgeva il castello di Hochgobernitz, aveva detto mio padre, ma di lì non potevo vederlo. Gli uomini che trascinavano i sacchi di farina per poi caricarli sul carro non ci avevano né visti né sentiti arrivare. L'acqua del fiume fa un tale frastuono che in tutta la gola non si sente nient'altro.


Sul carro c'era un terzo operaio, più giovane degli altri due, il suo aspetto faceva pensare ai giovani turchi che adesso molto spesso trovano lavoro qui da noi, e infatti quel ragazzo era proprio un turco. Toglieva i sacchi dalle spalle dei figli del padrone del mulino e li allineava sul carro, uno accanto all'altro, in posizione verticale. Aveva la mia età, ma non era abbastanza robusto per il pesante lavoro di mugnaio che in quella gola è sempre identico, immutabile da secoli. Solo che l'elettricità la producono per conto proprio, derivandola dall'acqua del fiume. Annessa al mulino, e per metà sopra il fiume, c'è una centrale elettrica.


Pensai che il turco si trovasse nella gola solo da un paio di giorni. I figli del padrone del mulino lo prenderanno in giro per la maggior parte del tempo, pensai, e quel ragazzo mi fece pena. Al momento i turchi da noi sono la manodopera meno costosa, non so proprio chi altro si potrebbe far venire a lavorare in fondo a questa gola. I turchi fanno i lavori più pesanti e si accontentano di qualsiasi cosa. Questo giovane avrà sempre la vita difficile in mezzo a loro, pensai, e se non taglia subito la corda, per anni sarà vittima dei loro capricci. Non davano certo l'impressione di volergli rendere in qualche modo più facile il suo lavoro. Ma tu stai soltanto immaginando, pensai, immagini di essere tu il turco e descrivi quel che provi tu. Immediatamente anche il turco lo misi in relazione con le molte altre persone con cui egli è costretto a vivere in un rapporto di tensione - come sempre, per una mia sciagurata caratteristica di non riuscire a vedere un individuo singolo, quello appunto che ho davanti agli occhi, perché vedo invece tutte le persone con cui il singolo è presumibilmente in contatto. Questo rende sempre difficili le mie riflessioni sulle persone. Allo stesso modo io considero, devo considerare ogni cosa in rapporto con tutte le cose possibili. Che misera esistenza deve aver condotto questo turco a casa sua per decidere, così giovane, di venire in Europa centrale e cacciarsi in questa gola, pensai. La gola è un'atroce truffa ai suoi danni.


Probabilmente però tutte le cose a cui sto pensando sono completamente diverse da come le penso io, pensai, e, senza essere notato dai tre uomini che continuavano a lavorare, andai dietro al mulino, dove immaginavo che si trovasse l'enorme gabbia con gli uccelli.


La gabbia con gli uccelli era in realtà molto più grande ancora di come la ricordavo io. Ma era in uno stato di completo abbandono e non conteneva nemmeno la metà, circa, degli uccelli che vi avevo visto la prima volta. Che il guardiano se li sia lasciati morire tutti? pensai. Quei pochi uccelli che ancora si trovavano nella gabbia, forse una cinquantina, al mio arrivo, atterriti, si erano lanciati contro il muro posteriore che chiudeva la gabbia. Erano senza becchime e avevano sete. La tinozza dell'acqua accanto al muro era vuota. Tutto in quella gabbia faceva pensare che l'uomo addetto alla cura degli uccelli non esistesse più. Due pappagalli gridavano insieme sempre la stessa cosa. Non riuscii a capire che cosa gridassero. Scoprii che c'era un tubo di gomma collegato alla fontana davanti alla gabbia e riempii d'acqua la tinozza, sulla quale si precipitarono immediatamente tutti gli uccelli. Eppure, tutto in loro aveva un che di ostile. Ostile in che senso? pensai. Anche il loro piumaggio era ostile, perfino i colori, che variavano continuamente secondo il nervosismo degli uccelli. Solo un pazzo poteva aver messo su questo allevamento di uccelli, pensai, e ne era morto. Per un attimo ebbi l'impressione che ci fosse qualcuno alle mie spalle, e mi voltai, ma non c'era nessuno. Abbandonai in fretta gli uccelli e andai davanti al mulino, dove i tre giovani uomini, il turco veramente non era ancora un uomo, avevano finito di caricare i sacchi di farina. Proprio in quel momento il turco saltò giù dal carro e, sorpreso di vedermi, rimase un attimo immobile contro il muro, mi squadrò con aria interrogativa per poi correre via come un razzo dentro al mulino.


Volevo allontanarmi dal mulino e mi avviai per un tratto lungo il fiume, costeggiando l'acqua assordante che sboccava impetuosa dalla gola per poi gettarsi nel mulino. Mi dissi però che il mio umore si sarebbe incupito ancora di più se mi fossi ulteriormente addentrato nella gola; perciò tornai indietro. Non ero sempre stato di umore gaio, anzi felice, ogni volta che m'ero trovato nei pressi di un mulino, quale che fosse? pensai. Guardando il mulino, vidi il corteo funebre che sette o otto anni prima era passato accanto al mulino, uno dei cortei più pomposi che avessi mai visto.


Pensai che di sicuro, dentro a quella gola, io sarei morto soffocato in brevissimo tempo e che a un uomo in quella gola può senz'altro venire in mente di dedicarsi all'allevamento degli uccelli esotici. Adesso sentivo il bisogno di stare in compagnia di mio padre.


Avvicinandomi al mulino, pensai che ancora oggi esso viene sempre associato a storie di falsari e a casi di omicidio che risalgono a più di cento anni fa. È un luogo, questo, in cui si possono tranquillamente concepire e perpetrare i delitti più atroci, pensai, per cui i due figli del padrone del mulino, e adesso anche il ragazzo turco, mi sembrarono individui sinistri. In vista di quale delitto i Fochler avranno mai attirato il ragazzo turco dentro la gola dei Fochler? Dopo aver osservato attentamente lo stemma dei Saurau sopra la porta d'ingresso, entrai in fretta nell'atrio; per potermi orientare subito a seconda delle voci che sentivo in casa, mi fermai ai piedi della scala di destra, quando dietro di me, all'improvviso, uno dei figli del padrone del mulino mi chiamò. Mi disse di andare con lui e io uscii di nuovo dall'atrio.


Adesso la gola era immersa nell'oscurità ancor più di prima, sempre vi domina un'atmosfera come quella che precede un orrendo temporale. Questi uomini passano tutta la loro vita in questa atmosfera temporalesca, pensai, e seguii il figlio minore del padrone del mulino verso una baracca; camminando troppo velocemente sopra un'asse di legno marcio, nel continuo timore di perdere l'equilibrio, passai il fiume dietro al giovane figlio del mugnaio. Nella baracca dapprima non vidi nulla. Poi però, una volta abituato all'oscurità e allo strano odore, un odore di carne, scorsi sopra una lunga asse appoggiata su due Cavalletti un mucchio di uccelli morti che, come vidi subito, erano gli esemplari esotici più belli della gabbia. Rimasi affascinato dalla bellezza dei loro colori. Quegli uccelli morti ammazzati erano veramente gli esemplari più belli di tutta la gabbia, e io mi voltai verso il figlio del mugnaio con uno sguardo interrogativo.


Tutti e tre, disse, lui, suo fratello e il nuovo ragazzo turco che lavorava al mulino soltanto da un paio di giorni, quella mattina presto, ancora prima che spuntasse il sole (Ma se dentro a questa gola è impossibile che spunti il sole!, pensai), avevano tirato fuori dalla gabbia metà degli uccelli, cominciando dagli esemplari più belli, e, cercando in tutti i modi di non rovinare il loro prezioso piumaggio, li avevano ammazzati. In che modo? Prima si attorcigliava più volte con grande rapidità il collo dell'uccello attorno al dito indice e poi gli si schiacciava la testa. In tutto contai quarantadue uccelli. Quella sera stessa, finito il lavoro, avrebbero ucciso anche gli altri uccelli che erano ancora dentro alla gabbia, disse il figlio del mugnaio, e aggiunse che il fratello di suo padre, circa vent'anni prima, aveva «tirato su» gli uccelli, e da allora era vissuto solo per amore degli uccelli. Da tre settimane era morto, e da quel momento in poi erano cominciate le terribili strida degli uccelli, che per poco non li avevano fatti ammattire. In un primo momento avevano creduto che le strida degli uccelli per la morte del loro protettore dopo qualche tempo sarebbero diminuite o del tutto cessate, ma si erano ingannati: lo schiamazzo era diventato ogni giorno più insopportabile. Bisognava tener presente che dentro a quella gola il rumore delle strida risultava centuplicato. Erano «strida spaventose» a cui nessuno poteva abituarsi, né si poteva pretendere da nessuno che le sopportasse, e così il giorno prima avevano ottenuto il permesso dal loro padre, il padrone del mulino, di ammazzare gli uccelli, di ridurli al silenzio. Avevano riflettuto a lungo sulla maniera di ucciderli, poi gli era venuta l'idea di non mozzare loro la testa come si fa con i polli, bensì di ucciderli senza rovinarli esteriormente. In questo modo non avrebbero dovuto separarsi dagli uccelli, disse il figlio del mugnaio. Tutti in casa si erano abituati a quegli uccelli meravigliosi, anche se non avevano completamente perso la testa per loro come lo zio. Avevano intenzione di imbalsamarli e impagliarli loro stessi, e poi riempirne una stanza intera, la stanza del defunto fratello del padrone del mulino; e il figlio del mugnaio disse che l'idea di allestire un museo di uccelli nel mulino dei Fochler era venuta a lui. Non era stato facile accostarsi agli uccelli. Quando loro avevano incominciato a tirar fuori i primi uccelli per poi ammazzarli, le strida naturalmente erano diventate ancora più forti, ma dopo, man mano, erano diminuite. Una volta uccisi gli ultimi, i rimanenti erano completamente ammutoliti. Adesso mi spiegavo anche come mai gli uccelli si fossero tanto spaventati quando io mi ero avvicinato alla gabbia; fin da quel primo momento, infatti, avevo pensato che tutti quegli uccelli reagissero in maniera assolutamente innaturale. A furia di tirar fuori gli uccelli dalla gabbia, avevano tutti e tre la faccia piena di graffi, disse il figlio del mugnaio. Ora, aggiunse, con l'esperienza che avevano, in serata sarebbero stati in grado di uccidere molto più facilmente e rapidamente gli uccelli rimasti, e già nella prossima notte avrebbero goduto di una quiete perfetta… In un primo momento suo padre aveva pensato di vendere gli uccelli vivi a un collezionista, ma per trovare un collezionista del genere avrebbero perduto troppo tempo, e intanto probabilmente sarebbero impazziti. Era difficile mettersi in contatto con un imbalsamatore, e quindi avevano deciso di imbalsamare loro stessi gli uccelli nelle ore libere. Suo zio, disse il figlio del mugnaio, non aveva mai avuto altro in testa se non i suoi uccelli. Esisteva un'enorme quantità di appunti che lui aveva preso sul suo allevamento di uccelli («A noi tutti piace prendere degli appunti!» disse il figlio del mugnaio), certamente preziosi per un ornitologo. Il figlio del mugnaio prendeva in mano ora l'uno ora l'altro di quegli uccelli bellissimi e lo teneva alzato in modo tale che lo potessimo osservare bene, poi ne descriveva le caratteristiche peculiari. Pensai che anche quel giovanotto sapesse molte cose in fatto di uccelli esotici. È probabile che tutti al mulino dei Fochler avessero concentrato il loro interesse su questi uccelli. Lui era in grado di descriverli tutti con esattezza: alcuni, disse, venivano da paesi asiatici, altri dall'America, altri ancora da paesi africani. Si trattava per la maggior parte di uccelli insulari che venivano dall'Estremo Oriente, non ce n'era neanche uno originario dell'Europa. Il fratello del padrone del mulino era rimasto spesso per ore intere dentro alla gabbia, e non era mai capitato che un uccello lo avesse aggredito. Avevano tutti dei nomi come Kalahari, Malemba, Mitwaba, Cing-tou, Koeji-jang, Amoy, Druro, Drirari, Cochabamba, Carrizal, eccetera. Attraverso i libri, centinaia di libri accatastati nella camera del suo defunto zio, egli aveva imparato le cose più strane su tutti i tipi di uccelli. Io però non ce la facevo più a rimanere in quella baracca nella quale gli uccelli erano stesi sopra quell'asse come su una bara, era soprattutto l'odore dei cadaveri degli uccelli che mi impediva di rimanervi più a lungo; così uscii fuori. Distrassi il figlio del mugnaio, e perciò anche me stesso, dal pensiero degli uccelli morti portando il discorso sulla vita in quella gola. Conosceva il principe Saurau? chiesi. Sì, naturalmente. Qualche volta il principe Saurau scendeva inaspettatamente giù nella gola, entrava nel mulino, si sedeva e faceva dei discorsi «incredibili». Andava sempre a piedi. Quando al castello si celebravano delle feste, il baccano di quelle feste arrivava fin laggiù nella gola, le risate e la musica, le urla degli ubriachi. Ma negli ultimi tempi di feste a Hochgobernitz non ce n'erano più state, disse il figlio del mugnaio. Il principe si isolava sempre di più. Loro, i Fochler, il mulino lo avevano avuto in regalo da un Saurau morto già nel secolo scorso, il quale una sera su al castello aveva scommesso che avrebbe immediatamente regalato il mulino se il giorno dopo non fosse riuscito ad ammazzare un certo cervo con corna di dodici palchi. Il cervo non lo aveva ammazzato, perciò aveva regalato immediatamente il mulino ai Fochler, che già ci lavoravano da duecento anni. «Quello che i Saurau promettono, lo mantengono» disse il figlio del mugnaio. Il principe era «tanto pazzo quanto ricco» aveva detto mio padre, il quale stava giusto uscendo quando io mi ritrovai davanti alla porta di casa con il figlio del mugnaio. Quest'ultimo si mise a ridere. Quando, lì davanti a me, lo vidi ridere in quel modo, osservai che con le mani faceva dei movimenti pseudogeometrici, gli stessi movimenti di quando ammazza gli uccelli.


A questo punto ci addentrammo in automobile nella parte più profonda della gola. Dove essa finisce, «nel punto più buio», avremmo lasciato la macchina e saremmo saliti a piedi fino al castello, disse mio padre. Sulla parete rocciosa di sinistra il sentiero in salita era pericoloso, ma lui ci era abituato e io ero giovane e agile a sufficienza per affrontarlo senza paura. Il principe aspettava la visita di mio padre un sabato sì e uno no. Dal castello si godeva una bellissima vista di tutta la regione sottostante, non c'era in tutta la Stiria un punto migliore di quello per orientarsi. Da Hochgobernitz si potevano vedere tutte le regioni federali confinanti e, verso sud-est, spingere lo sguardo fino in Ungheria. Sull'altro lato, dalla parte opposta rispetto alla gola, c'era una buona strada che portava su al castello, ma, per arrivarci, bisognava fare un giro vizioso di oltre ottanta chilometri passando per Planhutte.


Avvicinandoci al punto terminale della gola, parlammo del mulino dei Fochler. Mio padre descrisse il mugnaio come un uomo di sessant'anni con un corpo pesante che marciva sotto la pelle; sempre disteso su un vecchio sofà, non era più in grado di camminare. Quanto a sua moglie, aveva acqua nei piedi e l'odore del suo alito indicava che il processo di decomposizione dei lobi polmonari avanzava rapidamente. Un vecchio e grasso cane lupo andava su e giù dall'uno all'altra, dal sofà di lui a quello di lei e viceversa. Se non ci fossero stati dei mucchi di mele fresche sparsi qua e là in tutte le camere, l'odore di quei due vecchi e del loro cane lupo sarebbe stato insopportabile. La gamba destra del padrone del mulino imputridiva più in fretta della sinistra, sicuramente non si sarebbe alzato mai più. «Quando in questa gola passa un funerale,» disse mio padre «l'effetto è sinistro». Anche a lui era capitato dunque di vedere un corteo funebre in quella gola. La moglie del mugnaio riusciva a reggersi in piedi solo per pochissimo tempo, sicché i due se ne stavano quasi sempre distesi uno di fronte all'altra nella loro camera, dove si occupavano del loro cane. Quest'ultimo, stravolto com'era per il fatto di non uscire mai da quella stanza, era pericoloso. Uno di loro due, la moglie o il marito, doveva tenerlo fermo ogni volta che mio padre entrava nella loro stanza. Nelle ultime settimane, a causa delle strida degli uccelli, il cane non aveva fatto altro che correre su e giù fra i due mugnai, «come impazzito».


Facendo ammazzare tutti gli uccelli, il mugnaio e sua moglie si ripromettevano soprattutto che il cane si placasse, e che, per conseguenza, anche loro potessero stare tranquilli. Il padrone del mulino aveva detto a mio padre che l'ordine di ammazzare gli uccelli l'aveva dato soprattutto in considerazione dello stato in cui si trovava il cane. Tutti e due, il padrone del mulino e sua moglie, tenevano a turno il cane al guinzaglio, giorno e notte. Da mesi e mesi ormai la malattia li aveva relegati nella loro camera e più passava il tempo più perdevano il controllo sui loro figli. Di uno, del più vecchio, il padrone del mulino diceva sempre che era un uomo incline alla violenza, che spesso aveva bastonato sua madre e minacciato di ucciderli entrambi, una volta s'era scagliato con una scure contro suo padre e l'aveva gravemente ferito. L'altro, quello che mi aveva mostrato gli uccelli morti nella baracca, era un debole, in completa balìa del fratello maggiore. Tutti gli abitanti del mulino dei Fochler erano deboli di mente, non malati di mente, disse mio padre.


Del governo della casa si occupava al momento una sorella della moglie del padrone del mulino, ma adesso era andata a Knittelfeld.


Nella stalla c'erano quattro mucche, ma chissà, pensai, di che cosa vivono, dal momento che qui non c'è altro che bosco.


Dissi che il «figlio debole» mi aveva mostrato gli uccelli morti nella baracca. Era comunque strano che noi fossimo arrivati al mulino dei Fochler proprio nel giorno in cui erano stati e sarebbero stati ammazzati gli uccelli.


Per tutto il tempo, dissi, avevo avuto davanti agli occhi il corteo funebre che avevo visto quando ero venuto la prima volta al mulino dei Fochler, lo avevo avuto davanti agli occhi ininterrottamente. Persino i Fochler avevano parlato dell'omicidio di Gradenberg, usando sempre la parola «assassinio». Mio padre però aveva preferito non dire che quel fatto gli era ben noto.


Un notaio di Kofìach voleva acquistare il loro mulino, disse mio padre, per trasformarlo in un luogo di villeggiatura (!), ma loro, il mugnaio e sua moglie, pur discutendone, non avevano la minima intenzione di cedere il mulino.


Era una buona acqua sorgiva quella del mulino dei Fochler, disse mio padre, e aggiunse: «Nella camera dei vecchi Fochler c'è un quadro a olio appeso alla parete». Quel quadro, secondo mio padre, risale a trecentocinquanta, quattrocento anni fa. Non era un'immagine di argomento sacro, disse, al contrario, rappresentava due uomini nudi ed eretti, con il dorso uno contro l'altro e le teste «completamente rigirate», proprio «faccia a faccia». Quel quadro lui lo ammirava già da molto tempo e ogni volta gli faceva venire i pensieri più diversi e «orripilanti». «Se lo si staccasse dalla parete dove è appeso di sicuro da centinaia di anni» disse mio padre «e lo si togliesse da quella stanza spaventosa per fissarlo su una parete bianca e sgombra, certamente verrebbe in luce tutta la sua bellezza». Adesso mi spiegò che il quadro era assolutamente brutto e nello stesso tempo assolutamente bello. «È bello perché è vero» disse mio padre.


In molte case della Stiria, proprio là dove regna il buio più fitto come dentro a questa gola, fino a poco tempo fa, disse, si potevano scoprire e riportare alla luce delle opere d'arte di grandissimo valore, ma adesso questo non era più possibile. Una tremenda smania per le cose antiche si era impossessata, negli anni Cinquanta, degli abitanti delle grandi città, i quali, negli ultimi anni, avevano sistematicamente saccheggiato il patrimonio artistico di tutta la regione, lasciandovi in cambio il proprio squallore proletario.


La gola diventa ancora più stretta. Sulle rive del fiume, ora, anziché gli abeti ci sono i pini. Sembra che da queste parti, disse mio padre, ci siano le trote. Se non avessimo avuto tanta fretta - dato che prima del principe Saurau lui voleva andare a visitare anche i figli dei Krainer che abitano in una casa a un solo piano per la servitù, proprio sotto il castello - lui adesso avrebbe fermato la macchina e sarebbe sceso per andare a vedere se nel fiume c'erano le trote.


Per me era atroce l'idea che là dove si trova il mulino dei Fochler vivessero delle persone. E che persone I Gli uccelli morti emanavano tutti uno strano odore di putrefazione, dissi. Ci sono delle persone, come il mugnaio e i suoi familiari, che sono costrette a passare la loro vita in una solitudine orrenda come quella che regna dentro la gola, non hanno altra scelta, sono legate alla loro casa, a una misera fonte di guadagno, a un fiume come quello di cui noi stavamo risalendo il corso fino alla sorgente; altre invece, come l'industriale, si relegavano volontariamente, con perfetta conoscenza di causa, in una segregazione come quella di Hauenstein. Ma non appena ebbi pronunciato la parola «volontariamente», pensai che non esiste nulla che la gente faccia volontariamente, che il libero arbitrio dell'uomo è un non senso, e dissi a mio padre: «Com'è ovvio neppure l'industriale è andato a Hauenstein volontariamente» e d'un tratto il mondo mi sembrò davvero sinistro; mai mi era parso tanto sinistro come ora che ci stavamo addentrando sempre più in quella gola. Ben presto non riuscimmo a vedere quasi più nulla, ma mio padre quella strada la conosceva da anni. Mai la natura assume un aspetto tanto sinistro come là dove essa è perfettamente pura e intatta come in questa gola.


Chiesi a mio padre se avesse notato che l'aspetto del turco era quello di una persona totalmente terrorizzata. Lo avevano sistemato nella grande stanza del defunto protettore degli uccelli, ma lui, nel cuore della notte, era uscito da quella stanza per rifugiarsi in quella dei figli del padrone del mulino, e lì si era coricato ora nel letto dell'uno ora in quello dell'altro, implorandoli di non cacciarlo via. Avrebbero permesso al turco di dormire per un paio di giorni insieme a loro nei loro letti, così mi aveva detto il giovane che mi aveva mostrato gli uccelli morti nella baracca, finché al turco fosse passata la paura, finché si fosse abituato a quella gola. Non riuscivano a tenere a mente il nome di quel ragazzo, come del resto neanch'io, dissi, per cui lo chiamavano semplicemente «il turco». Di lui i figli del padrone del mulino sapevano soltanto che a casa aveva sette fratelli, oltre ai genitori ai quali ogni tanto scriveva; perché mai altrimenti avrebbe comperato tanta carta da lettere a Knittelfeld, prima di venire via con il maggiore dei figli, che lì a Knittelfeld lo aveva sottratto a un'impresa di costruzioni? Non erano riusciti a fargli capire per quale motivo mai, di prima mattina, si fossero messi ad ammazzare gli uccelli. Loro non capivano lui perché non sapevano neanche una parola di turco, lui non capiva loro perché il tedesco non lo parlava quasi affatto. Il turco era rimasto terrorizzato, disse il figlio del mugnaio, quando aveva visto loro due estrarre gli uccelli dalla gabbia e ucciderli, ed era rimasto lì, di fronte a loro, completamente immobile, appoggiato al muro della casa. Poteva benissimo pensare che fossero pazzi. I primi uccelli loro due li avevano ammazzati, non rendendosi conto della brutalità di quell'atto, proprio di fronte alla gabbia, davanti agli altri uccelli che ancora non erano stati uccisi, e precisamente stringendo loro il collo fino a strangolarli, il che aveva provocato però degli schizzi di sangue. Poi a uno di loro due era venuta l'idea di attorcigliare il collo degli uccelli intorno al dito indice e di rompergli la testa; ed erano andati dietro alla gabbia. L'uccello era già esanime dopo che per una volta gli si era attorcigliato con forza il collo intorno al dito. Si sentiva la colonna vertebrale che si spezzava sotto la testa. Loro avevano insistito più volte perché il turco li aiutasse, si mettesse anche lui a uccidere gli uccelli come facevano loro, gli avevano detto e ridetto di tirarseli fuori da sé dalla gabbia, ma lui si era rifiutato. All'improvviso, però, evidentemente il turco aveva capito e infatti aveva ucciso poi per conto suo, seguendo il loro metodo ma con molta più abilità di loro, dieci o dodici uccelli. Era andato a prendere dei sacchi di farina vuoti con i quali aveva coperto gli uccelli, man mano che venivano stesi con la testa spezzata uno accanto all'altro, sull'asse di legno.


Ad un tratto, per me, l'unico modo di uscire da una depressione perfettamente consona alle tenebre che regnavano dentro a quella gola, fu di cominciare a parlare di Leoben; era come se, mettendomi a parlare di Leoben, parlassi del mondo esterno. Mi sforzai di vedere me stesso ora all'Istituto Superiore ora nel convitto. Mi concentrai su una minuziosa rievocazione della mia stanza al convitto. Adesso vedo la stanza al convitto, pensai, e non è vuota. Adesso vedo la sala da pranzo, e io sono in sala da pranzo. Vedo la piazza principale di Leoben, e io sono nella piazza principale di Leoben. Vedo i miei professori di ingegneria, e sono in mezzo a loro, benché non sia in mezzo a loro, ma dentro alla gola. In verità sono nella gola. Ma in verità sono anche a Leoben. Tutto è la realtà, pensai.


Da parecchio tempo, ormai, non ero più soltanto in balìa dei miei studi, ma anzi, dissi, mi dedicavo ad essi con crescente convinzione. Da parecchio tempo gli studi non erano più per me qualcosa di irreale. Non mi era più così difficile, come all'inizio, impormi una disciplina. Se durante tutto il primo anno ero stato una vittima più o meno miserabile di una malinconia che regnava sovrana su tutti gli studenti, diffondendo il suo veleno con equanimità su ogni cosa e per ogni dove, sicché nella mia scienza non ero riuscito a fare se non minimi e ridicoli progressi, adesso, invece, tutto mi era facile e chiaro. «Sono in grado di tenermi lontano dagli influssi negativi per il corpo e per la mente» dissi «e so da me quel che mi serve». Era stato però un processo tremendo quello di uscire, usando verso me stesso la massima inflessibilità, dalla monotonia della mia propria cecità intellettuale. La gioventù per chi la vive è una situazione raccapricciante, pensai. Ma confidare a mio padre cose del genere mi parve assurdo. Già da tempo gli fornivo di me un'immagine falsa. Non vedevo una buona ragione per dirgli adesso che molte cose mi angustiavano, che non ero un uomo privo di difficoltà. Che anche le mie difficoltà aumentavano col passare degli anni. E forse lui crede, pensai, che io non abbia alcuna difficoltà. Gli fornisco di proposito un'immagine falsa. Adesso però non mi era ben chiaro il perché. «Per me è sempre stato un gran piacere» dissi «risolvere da solo le mie difficoltà». Avevo detto troppo? Mio padre non mi stava neanche a sentire. Forse pensava soltanto ai due figli dei Krainer, al principe Saurau. Adesso sono abbastanza forte da sbrigarmela da solo, pensai. Spesso mi vergogno di sentirmi più forte degli altri, è una sensazione che provo di continuo. Ma questo non lo dissi.


L'aspetto più sorprendente di me era la mia mancanza di comunicativa, che era una mancanza di comunicativa diversissima da quella di mia sorella. Il mio silenzio era un silenzio diametralmente opposto a quello di mia sorella. E a loro volta il silenzio, la mancanza di comunicativa di mio padre sono un'altra cosa ancora. Quello che io so di lui, pensai, è ancora troppo poco perché io mi possa fare un'idea di lui così com'è. Per un attimo pensai: volevi passare questa giornata in compagnia di tua sorella. Ma dissi: «Bello è ciò che non si è previsto».


Mi rimane ancora la giornata di domani, pensai. Questo pensiero mi confortò. Domani, domenica, mi alzerò presto e farò una lunghissima passeggiata con mia sorella. E parlerò con lei. A Leoben, pensai, rimango tutta la settimana nella mia stanza e, nella mia stanza, sono isolato in me stesso, verso la fine dell'anno sempre più sono isolato ermeticamente dal mondo esterno, pensai. Non mi permetto neanche una boccata d'aria fresca! Mi rendo odioso a molta gente isolandomi in quel modo. Se una volta tanto, in un momento di debolezza, vado a divertirmi da qualche parte, perché gli altri mi ci spingono, poi me ne pento. Ma ho forse un'alternativa? Prima delle undici devo essere a letto, penso, e intorno alle cinque mi alzo. La minima deroga dagli orari che mi sono imposto compromette il mio equilibrio. Uno scienziato può percorrere la propria vita soltanto se si infila in quel corridoio buio, interminabile e quasi sempre senz'aria che è la sua scienza.


Lasciammo la macchina vicino alla cascata e cercammo di raggiungere in fretta la cima su per quella rampa pericolosa. Dovevamo fare continuamente attenzione, non era consigliabile guardarsi intorno. Senza dire una parola arrivammo ben presto alle mura esterne del castello. Mio padre non aveva avuto alcuna difficoltà nella salita. Ne fui meravigliato. Davanti a noi c'era la casa a un solo piano, che già apparteneva al castello, nella quale vivono i ragazzi Krainer. Il giovane Krainer, figlio di genitori onestissimi, che avevano passato tutta la vita al servizio del principe Saurau, è uno storpio. Sua sorella ci condusse subito nella sua stanza. Già da un po' sentiva che stavamo arrivando, disse sua sorella, ed era inquieto. I genitori quel giorno erano andati al castello di primo mattino. Il giovane Krainer aveva esattamente la mia età, ventun anni, ma la mia impressione fu che ne avesse il doppio. Sulla testa aveva un berretto nero a punta. Con un gesto folle tese la mano a mio padre, ma non a me. Io mi sedetti su uno sgabello accanto alla porta e rimasi a osservare quello che, mentre noi eravamo lì, succedeva nella stanza. La sorella del giovane Krainer osservò che veniva una corrente d'aria dalla finestra e andò a chiuderla. La visita di quel giorno, disse mio padre, era una «visita generale».


Quando, arrivati in cima, ci eravamo diretti immediatamente verso la casa dei Krainer, avevo avuto l'impressione che quassù regnasse una quiete ancora più assoluta. Non era più così buio come laggiù nella gola, ma anche qui tutto sottostava a un influsso di tenebra. L'abitazione dei Krainer si trova sempre, come potei osservare, all'ombra del castello. Quassù, sopra la gola, l'aria è pungente, ma guardando in basso si vede con chiarezza che la regione sottostante è immersa nella foschia.


Mio padre e sua sorella spogliarono lo storpio. Mi sembrò che mio padre fosse l'unica persona che i giovani Krainer vedessero oltre ai loro genitori, i quali, lavorando tutto il giorno al castello, in realtà sono presenti in casa soltanto di notte.


Mio padre, una volta usciti dalla gola e arrivati in cima, mi aveva fatto la proposta di passeggiare sulle mura più basse del castello, mentre lui avrebbe fatto la sua visita ai figli dei Krainer, ma io invece volevo vedere lo storpio e sua sorella. Avevo l'impressione che mio padre volesse tenermi lontano dai figli dei Krainer. E dato che in fondo lui si rifiutava di portarmi con sé, proprio questo mi indusse ad andare con lui. (Più tardi, ridiscendendo nella gola, mi disse che i figli dei Krainer gli ricordavano troppo i suoi stessi figli, avevano anche la nostra età, quella mia e di mia sorella, pur essendo «completamente diversi»).


Per il giovane Krainer la testa che aveva era troppo stretta. Gli occhi sembravano uscirgli dalla testa. Quando sua sorella scostò la coperta dal suo corpo, vidi che aveva una gamba lunga e una corta. Per un bel po' non riuscii a capire se la gamba più lunga fosse la destra o la sinistra, finché non vidi che la gamba corta era la sinistra. Se quello si alza, pensai, e si mette a camminare, fa certo i movimenti di un gigantesco insetto.


Soltanto con molta fatica riuscirono a calmarlo. Sempre, disse mio padre, quando lo si toccava, tutto il suo corpo era scosso da un'agitazione, e diventava pericoloso, poteva menar le mani, mordere, sputare. Continuava a fare dei movimenti che rendevano ardui i loro sforzi per prepararlo alla visita. A volte cercava di colpire sua sorella in faccia. Alla fine, però, mio padre riuscì a tenergli ferme le braccia contro le sponde del letto e, nello stesso tempo, ad auscultarlo. Nella camera c'era il tipico odore che emanano le persone che giacciono inferme in un letto da molti anni. Il corpo di Krainer era bagnato. Lentamente, man mano che in tutto il suo corpo si fossero manifestate delle alterazioni progressive, le cosiddette alterazioni catastrofiche, egli avrebbe perduto del tutto l'uso della parola. Già adesso si capiva soltanto una minima parte di quello che diceva. Espelleva le parole come se le sputasse. Per lo più le cose che diceva sembravano dette in una lingua orientale. Il ritmo con cui le articolava era strettamente connesso con la sua malformazione fisica. Quello che diceva era storpio, esattamente come lui. Ogni tanto, all'improvviso, lanciava le sue lunghe braccia in aria, le lasciava ricadere, si metteva a ridere. La sua pancia era per lui come una palla ansimante che spesso teneva a lungo stretta angosciosamente fra le braccia. La sua testa in proporzione era piccola, lo si notava più che mai chiaramente quando lui cercava di accostarla alla pancia per sentirne meglio i brontolìi interni. Distorceva quasi di continuo la faccia in smorfie nervose. Stava seduto come uno che sedendo saltellasse. Forse immagina di andare a cavallo, pensai. La biancheria del letto era pulita, probabilmente perché aspettavano mio padre, pensai. Di tanto in tanto il suo letto deve essere trasformato in una gabbia vera e propria fissandovi sopra una grata. Adesso, tuttavia, come disse la sorella, stava passando un periodo piuttosto tranquillo e della grata non aveva bisogno. Mio padre aveva sempre consigliato ai Krainer di non togliere mai la grata dal suo letto, ma loro non gli badavano. Secondo lui, il malato poteva alzarsi dal letto all'improvviso e magari addirittura ucciderli. Ma sua sorella con l'andare del tempo non era più riuscita a sopportare la vista di quella grata. La grata era in soffitta. Vedere suo fratello chiuso in gabbia le riusciva insopportabile. Purché non dovesse mai più portare giù la grata dalla soffitta, disse. Suo fratello non era in grado, ormai, di alzarsi da solo, disse, e se anche ogni tanto cadeva dal letto, non era poi così grave come vederlo continuamente chiuso in gabbia. Mio padre gli prese la testa fra le mani e la giovane Krainer gli tenne le braccia abbassate. Con mossa repentina lui liberò la testa e le mani e cercò di alzarsi di scatto. Ma non ci riuscì. D'un tratto si mise a ridere. Evidentemente gli piaceva sentire mio padre che gli palpava la testa e gliela auscultava. Mio padre gli picchiettò la fronte, gli abbassò le palpebre, poi gliele spalancò. Effettuò inoltre un controllo delle ginocchia del giovane Krainer. Voleva un campione di urina, disse, da portar via. Quando gli tolse dalla testa il berretto a punta io rimasi inorridito, perché sulla testa non c'era un capello, non un solo capello. Notai che aveva delle chiazze gialle sulle tempie, le stesse chiazze gialle, solo più piccole, che aveva anche sul petto, di chiazze gialle ne aveva molte, sparse per tutto il corpo. Fra le dita dei piedi aveva un fungo profondamente radicato che gli dava fastidio, disse sua sorella, per cui di notte muoveva continuamente le gambe come se stesse remando. Non riusciva più a dormire. Quanto a lei, spesso chiudeva gli occhi per la stanchezza, ma non era un vero sonno. Il tremito e la perdita di saliva li aveva già da un anno.


Bagnava e sporcava il letto. Sentiva spesso, disse la sorella, «un esercito» marciare attraverso la gola.


Nella stanza tutto il posto disponibile era occupato da strumenti musicali che il giovane Krainer, quando era sano, sapeva suonare. Sul comò vidi un violoncello e un oboe. Per anni era venuto su da loro un maestro di musica di Knittelfeld e gli aveva dato lezioni. Sul violino suo fratello suonava a memoria delle composizioni difficilissime. Il suo strumento preferito era il violoncello e il suo compositore preferito Béla Bartók. Nei cassetti del comò erano accatastate centinaia di partiture, che lui conosceva a memoria. C'erano anche composizioni sue; per esempio un «Magnificat». Da bambino, a soli otto anni, era già in grado di suonare a memoria le sinfonie di Mozart al pianoforte. Ancora sei mesi prima lei gli portava accanto al letto per un'ora, una volta al mattino e una volta al pomeriggio, il violoncello, e lui lo suonava fino a quando non era sfinito.

Sulla schiena, vidi, era piagato, e sul petto, oltre alle chiazze gialle, ne aveva anche di rosse.

Per anni e anni il maestro di musica di Knittelfeld era venuto «gratis» su dalla valle, disse la ragazza Krainer. «Spesso suonavano insieme fino a metà della notte» disse. Una volta, però, senza alcun motivo apparente, suo fratello aveva colpito il maestro in testa con l'archetto del violino e da allora in poi il maestro di musica non s'era più fatto vedere. La malattia di suo fratello aveva subito un immediato e rapido peggioramento.


Adesso non era più in grado di armonizzare a memoria un brano musicale, quale che fosse. La sua musica era terribile.


Per quattro anni, mi raccontò poi mio padre tornando a casa, il giovane Krainer era stato allo Steinhof. Per tutti quei quattro anni sua sorella, per stargli vicina, aveva preso in affitto una stanzetta a Ottakring. All'inizio tutto faceva pensare che non sarebbe uscito mai più dal manicomio, e i medici, quando lei chiedeva una definizione della malattia del fratello, usavano sempre la stessa espressione: «caso disperato»; ma all'improvviso, dopo quattro anni di Steinhof, dopo che lui aveva passato quattro anni nel più grande e spaventoso manicomio d'Europa, i medici avevano dichiarato alla giovane Krainer che poteva portarsi via suo fratello.


«A suo rischio e pericolo» avevano detto i medici, dichiarando però nello stesso tempo che non era pericoloso. Dapprima lei se lo era portato nella sua stanzetta di Ottakring e gli aveva mostrato la capitale. Sempre, quando andavano in giro per la città, suscitavano un grande scalpore, perché tutti trovavano buffo quel giovane che non solo era storpio, ma pure pazzo. Ma ormai da molto tempo la giovane Krainer aveva smesso di soffrire perché la gente, vedendo suo fratello, era presa da una voglia irresistibile di mettersi a ridere. Gli mostrò il Prater, andò con lui all'Opera e al Burgtheater, visitarono insieme il circo Rebernigg. Andarono a passeggio per un'intera settimana, entrarono anche nella cattedrale di Santo Stefano, andarono al Naschmarkt, il mercato delle leccornie, parecchie volte in Santo Stefano e parecchie volte al Naschmarkt, assistettero perfino a un concerto del famoso violoncellista Casals che eseguiva tutte le sonate di Beethoven all'Associazione musicale. Ma ben presto lui si stancò di quel continuo gironzolare per una città che dopo una settimana già gli era venuta a noia, mentre a lei dispiaceva di spendere il denaro che il principe Saurau aveva messo a loro disposizione (il principe aveva pagato anche il soggiorno allo Steinhof) per una città che ormai le suscitava soltanto disgusto, e così lasciarono la stanzetta di Ottakring e ritornarono a Hochgobernitz. All'inizio lui aveva una grande voglia di fare delle passeggiate, lunghe, le più lunghe possibili. La campagna gli piaceva. La natura lo deliziava. Amavano entrambi andare fin sul bordo della roccia che scende a picco e guardar giù nella gola. Di lassù sua sorella gli indicava le varie località della valle. Mai il giovane Krainer era stato tanto ricettivo come in quel periodo. Ben presto aveva ripreso a suonare il violoncello, il violino, il pianoforte. Lei faceva con lui delle passeggiate sempre più lunghe. Ma una volta che era andata con lui fino alle querce, da dove, guardando giù, si vedeva benissimo il mulino dei Fochler, all'improvviso lui, da dietro, l'aveva colpita in testa con un randello. Quando lei si riebbe dallo svenimento, suo fratello le stava seduto accanto e piangeva. Tornarono a casa. Di notte, quando fu certa che lui dormisse, la ragazza Krainer andò in soffitta a prendere la grata e la rovesciò sul suo letto. Da allora ha sempre la sensazione che il fratello la odi. Lei invece gli vuole bene.


Solo raramente aveva l'opportunità di uscire di casa da sola, di avviarsi per un tratto di strada verso il castello, entrare nel cortile o magari passeggiare sulle mura del castello. Doveva raccontargli tutto, quando tornava a casa. Ma ormai da molto tempo non le capitava più niente di nuovo, disse. «Se non gli racconto niente» aggiunse «lui mi minaccia». Ogni tanto lui le chiedeva di incipriargli la faccia, in modo che non si vedesse che aveva sempre la febbre.

La visita era stata difficile, però era durata soltanto mezz'ora.

Alla fine mio padre riuscì ancora a far tirare fuori la lingua a quel Krainer, che era davvero pazzo e storpio dalla testa ai piedi. Mentre lui scriveva una ricetta, feci una strana scoperta: alle quattro pareti della stanza nella quale, per mancanza di spazio, i due figli dei Krainer sono costretti a convivere in maniera raccapricciante, è appesa una serie di grandi incisioni, probabilmente, pensai, di proprietà del principe, le quali raffigurano i Grandi della musica. Dapprima non avevo affatto notato che tutte quelle incisioni - incisioni francesi, non a colori - raffiguravano dei musicisti. All'improvviso vidi però che su tutte le incisioni il giovane Krainer aveva tracciato delle scritte con inchiostro rosso. Sopra la testa di Mozart ha scritto: «Grandissimo!», sopra la testa di Beethoven «Più tragico di me!», sopra la testa di Haydn «Testa di maiale» e sopra quella di Gluck «Non mi piaci!». A Hector Berlioz gli ha scritto sulla faccia «Orrendo» e a Franz Schubert «Effeminizzato!». Le due incisioni appese dietro il suo letto non riuscii a vederle bene e neanche a decifrarne le scritte. Il giovane Krainer, che mi aveva osservato tutto il tempo mentre mi sforzavo di decifrare le scritte, quando vide che le due incisioni sopra il suo letto non arrivavo a vederle, esplose in una risata di scherno. Sulla faccia di Anton Bruckner aveva scritto «Tingeltangel», su quella di Purcell «Piantala, scozzesuccio!». Sotto una grande fotografìa di Béla Bartók aveva scritto «Io ascolto!». Nell'angolo dove ero rimasto seduto per tutto quel tempo, scoprii, prima di uscire, tre violini, tutti e tre con i manici rotti, e tutti e tre tenuti insieme per mezzo di uno spago. Adesso, l'irrequietezza del giovane Krainer, terminata la visita, era scomparsa, sostituita da una sorta di sfinimento. Lasciò che la sorella gli riappoggiasse la testa sul cuscino senza protestare. Chiese acqua da bere e sua sorella gliela portò in una ciotola di latta, e io pensai: chissà quante volte, dopo aver bevuto, avrà lanciato il recipiente contro la parete.


A una simile deformità fisica si accompagna sempre, disse mio padre quando fummo all'aria aperta, la pazzia corrispondente. La malattia del corpo produce, come sua conseguenza, la malattia della mente.


Domandai a mio padre se avesse mai letto le scritte sulle incisioni. Rispose di sì. Una volta il giovane Krainer gli aveva spiegato con esattezza e in ogni particolare il significato di ciascuna di quelle scritte da lui vergate sopra o sotto le incisioni. Del resto, riempiva di scritte o scarabocchi qualsiasi pezzo di carta gli capitasse sotto mano, disse mio padre, aveva riempito di scritte anche le centinaia di partiture che stavano nei comò, vi aveva aggiunto una miriade di bizzarre annotazioni. «Un individuo come il giovane Krainer può diventare spaventosamente vecchio» disse mio padre. Mi portava con sé «a scopo di studio», disse mio padre, e ripeté più volte «a scopo di studio».

IL PRINCIPE

Lo sguardo spazia davvero in tutte le direzioni per centinaia di chilometri. Finora avevo sempre sentito soltanto parlare di Hochgobernitz, del castello, adesso invece lo vedevo con i miei occhi. Ci stavano aspettando, sicché ci aprirono subito dicendoci che il principe si trovava sulla cinta esterna oppure sulla cinta interna delle mura. Lo scorgemmo su quella esterna.


Per la strada che arrivava fin lì mio padre mi spiegò che su nel castello, oltre al principe, abitavano ormai soltanto le sue due sorelle e due sue figlie. Il suo unico figlio maschio studiava in Inghilterra. Incontrammo poi Saurau sulle mura interne, camminando era assorto in un soliloquio. Salutò mio padre e me con la massima naturalezza. Da molte ore era immerso, disse, in stranissimi pensieri a proposito di quello che era successo la mattina. Al momento di salutarci non si fermò neanche per un attimo, dunque ci unimmo a lui. Non si lasciò disturbare dalla nostra presenza. Io pensai che probabilmente quello era il punto da cui si godeva la migliore vista panoramica su tutta la regione circostante.


Saurau disse che evidentemente, dopo la morte del suo vecchio amministratore, lui aveva sopravvalutato le difficoltà di trovarne un altro. Già quella mattina, nello stesso giorno in cui il giornale aveva pubblicato la sua inserzione, si erano presentati tre uomini: un trentaquattrenne, un certo Henzig che (inizialmente) gli era sembrato troppo giovane, un cinquantenne, un certo Huber che gli era sembrato troppo vecchio, e infine un quarantaduenne, un certo Zehetmayer, che di economia boschiva e forestale non sapeva assolutamente nulla, un povero pazzo. Il quarantaduenne Zehetmayer (figlio di contadini della valle di Puschach, ex maestro di scuola) che era venuto a Hochgobernitz da solo, poco dopo le otto, offrendosi per il posto di amministratore, era un uomo dotato di talenti molteplici, ma in fondo catastrofici per lui e per tutto quel che faceva, un uomo che parlava a brevi frasi staccate e si era presentato, purtroppo, in condizioni fisiche (cuore, polmoni, eccetera) avvilenti per la sua età, sicché il principe gli aveva fatto capire subito che il posto di amministratore superava di molto le sue forze e che l'assunzione non avrebbe giovato né a lui né al principe, «nemmeno per prova,» aveva detto il principe «no, non La assumo nemmeno per prova!»; gli altri due, invece, si erano presentati subito dopo: Henzig alle dieci, Huber alle undici. «Ho svolto le trattative in ufficio» disse il principe. «Non c'è stato nemmeno bisogno di convincere Zehetmayer, il quale parlava un dialetto della valle di Puschach estremamente rozzo, che per lui era assurdo voler entrare al mio servizio, e che un posto come quello di amministratore richiedeva delle capacità assolutamente eccezionali da far valere soltanto in condizioni estremamente difficili. Ma comunque, come ho detto,» disse il principe «l'ho detto, anche se è ridicolo dirlo, comunque avevo l'impressione che quell'uomo sopravvalutasse le sue forze. Lei sopravvaluta molto le sue forze! ho detto, e naturalmente, a tutto quello che gli dicevo, a tutta quella serie di rimostranze che gli facevo, Zehetmayer, non essendo uno stupido, non aveva assolutamente nulla da obiettare. Si tenga presente che tutti gli argomenti da me addotti» disse il principe «avevano una grandissima forza di persuasione. Una cosa infatti l'avevo intuita subito: di fronte a un uomo come questo posso dire la verità con assoluta franchezza, anche se è un debole, anche se è di costituzione debole, anzi debolissima, non occorre affatto che io mi faccia degli scrupoli nei suoi riguardi, fin dal primo momento posso dirgli tutto quello che penso, e io (da principio) non avevo pensato affatto bene di quell'uomo, perché fin dal primo momento, anzi fin dall'attimo in cui lui era entrato nell'atrio, avevo visto in lui una specie di tragedia entrata all'improvviso nell'atrio della mia casa, avevo visto in lui l'immagine stereotipata in dimensioni che dapprima mi sembrarono normali, poi addirittura eccezionali, di una tragedia umana primordiale che aveva nome Zehetmayer, Augustin Zehetmayer». Il principe disse: «Tutto quell'uomo con quei suoi abiti comodi ma di poco prezzo, non era altro che l'immagine stereotipata di tutta la miseria e l'inettitudine umana. Quello che dicevo io e quello che diceva lui, tutto quello che facevo io e accadeva in me, tutto quello che faceva, diceva di fare lui, quello che dicevo di fare io e quello che accadeva in lui, tutto rientrava in questo cliché, in questa immagine stereotipata della inettitudine, della miseria, della precarietà, della dappocaggine, della stanchezza di morte dell'umana esistenza, e io avevo avuto immediatamente l'impressione» (Sto citando il principe quasi alla lettera!) «che in casa mia fosse entrato un uomo malato, di avere a che fare con un uomo malato, con un uomo bisognoso di aiuto. Quello che dicevo era detto a un malato, caro dottore, e quello che mi toccava sentire, caro dottore, veniva dalla bocca di un malato, veniva da un cervello del tutto succube, morboso, da un cervello pieno di figuracce ridicole, da lui certo inventate in maniera assai fantasiosa, ma pur sempre le più morbose che ci si possa immaginare… Quell'uomo non sapeva affatto quello che voleva e io glielo dimostrai nel modo più efficace possibile, gli dissi che il suo era un agire morboso, che tutta la sua vita era una vita morbosa, che la sua esistenza era un'esistenza morbosa, per cui tutto quello che faceva era insensato per non dire assurdo. Era insensato aspirare al posto di amministratore. Questa pretesa, dissi, era un segno evidente di una specie di misteriosa megalomania da parte sua, visto che gli mancavano tutti i requisiti per un lavoro del genere, non li aveva assolutamente, non aveva il benché minimo requisito necessario. Certo, io potevo perfettamente immaginare che cosa avesse potuto spingerlo a stare appresso, ho usato proprio queste parole, all'inserzione che io avevo fatto pubblicare. Una cosa insensata, dissi» disse il principe. «Un tale legge sul giornale un'inserzione in cui si offre un impiego che quel tale sa che non potrà mai ottenere, mancandogli totalmente, come ho già detto, i requisiti per un impiego del genere, eppure quell'inserzione lo alletta, non riesce a sottrarsi a quell'inserzione, non è proprio più capace di sottrarsi a quell'inserzione, e si presenta per avere quel posto, pur sapendo che è assurdo sperare di avere quel posto e pur comprendendo perfettamente che è tutto assurdo quello che sta facendo a proposito di quell'inserzione, proprio tutto, eppure continua a starle appresso. Sono senz'altro in grado di immaginare, ho detto a Zehetmayer» disse il principe «che un tale legga un'inserzione e che questo tale creda che quell'inserzione sia stata pubblicata esclusivamente per lui (ne è sicuro!), non solo, ma che quest'uomo sia completamente preso da quest'inserzione, e che, per quanto la cosa sia insensata, egli si presenti per avere il posto offerto tramite l'inserzione. Visto che lui, Zehetmayer, si rendeva perfettamente conto di non possedere il benché minimo requisito per il posto di amministratore da me offerto, visto che era consapevole, che era stato sempre consapevole di essere soltanto un maestro e di non capire nulla di economia boschiva e forestale, né tanto meno di scienze forestali, di non capire la natura proprio perché credeva all'innocenza della natura e perché da vittima impotente della natura qual era, viveva sempre e soltanto nella natura, era chiaramente solo un segno di malattia aspirare a quel posto di amministratore. Era, dissi a Zehetmayer» disse il principe «una truffa, una truffa contro se stesso (contro Zehetmayer) più che contro di me, essendo evidente che presentarsi per avere il posto di amministratore da me offerto era una truffa contro di me… Non ho detto» disse il principe «che tutto quello in cui e per cui Zehetmayer esisteva ed era esistito finora fosse soltanto una truffa, anche se davvero era solo una truffa, ma ho detto che c'era un elemento truffaldino che aveva già distrutto lui e il suo sviluppo. Immaginavo le più disastrose situazioni familiari, mi immaginavo tutto di lui» disse il principe. «Dico a Zehetmayer: Probabilmente Lei ha avuto un'infanzia violenta, balorda, non un'infanzia secondo natura. Ma quell'uomo non mi capisce. Penso che viene dalla valle di Puschach e che non mi capisce, e mentre dico quella frase: Probabilmente Lei ha avuto… eccetera» disse il principe «capisco immediatamente che quell'uomo non mi capisce, e non soltanto perché viene dalla valle di Puschach. Lo so: se vuoi parlare con un uomo del genere (o con un popolo del genere, naturalmente!), devi parlare con semplicità, le cose complicate, quelle che richiedono sforzo e fatica, non devi assolutamente fargliele sentire. Con un uomo così, con Zehetmayer, non devi commettere quel delitto che è proprio della tua natura, ossia il delitto di sospingerlo a forza dentro i tuoi pensieri, dentro a quel tuo monumentale labirinto di numeri, cifre e sigle che è anche l'infinito labirinto della natura. I più grandi delitti, penso, sono quelli» disse il principe «che gli uomini superi ori commettono ai danni degli uomini inferiori con le loro parole, i delitti commessi con i pensieri e con le parole, eccetera. Di fronte a me Zehetmayer si è reso conto fin dai primi istanti che la sua presenza in casa mia» (Il principe non disse: nel mio castello!) «era un'assurdità. Seduto di fronte a me, aveva continuato a muovere in modo ottusamente meccanico la sua immobilità. Quando apriva la bocca per dire qualcosa, qualcosa che poi però non diceva, che non aveva il coraggio di dire, avevo modo di osservare quello che in lui c'era di grottesco. Osservavo in lui quello che c'è di grottesco nell'esistenza in generale, non solo, come ho già detto, per quanto riguarda lui, lui come individuo, ma anche per quanto riguarda me, tutti i rapporti fra lui e me, fra me e lui, tutto insomma. Disse che aveva letto la mia inserzione mentre stava facendo colazione e che subito nel suo cervello gli si erano proiettate un'infinità di immagini, tutte connesse con quella mia inserzione, tutte prodotte da quell'inserzione. Non ha usato proprio queste parole,» disse il principe «ma in ogni caso si era trattato di una proiezione. Zehetmayer non ha detto: All'improvviso quell'inserzione ha prodotto e nello stesso tempo ha proiettato un film dentro il mio cervello, un film esclusivamente ispirato a quell'inserzione e questo film mi ha messo in agitazione; ha detto invece, con parole più adatte a lui: Da quel momento non ho fatto che pensare a quell'inserzione. E ha detto ancora: Mia moglie non era d'accordo che io cercassi di avere questo posto, benché lei voglia che mi trovi un posto, su questo posto non era d'accordo. Secondo la moglie lui per questo posto non è adatto perché è un maestro di scuola. Lei gli ha detto: Tu sei un maestro! e come sempre ha aggiunto: Un pessimo maestro!». Il principe disse: «Zehetmayer disse: Io mi sono vestito e sono venuto qui. Le parole venuto qui,» disse il principe «dopo che Zehetmayer le ebbe pronunciate lasciandole sospese per aria, io, ripetendole, ho dovuto tirarle giù dall'aria, tirarle fuori dall'aria, liberare di esse l'atmosfera per quello che sarebbe seguito. Zehetmayer disse» disse il principe «che anche per lui era un mistero perché mai volesse avere quel posto. Ma si fanno talmente tante cose senza sapere il perché! ha detto. Vede, caro dottore, ha detto proprio così: Non so perché! Leggeva il giornale ogni giorno e leggeva sempre tutte le inserzioni, era sua moglie che lo costringeva a leggerle. Sua moglie lavora e guadagna, lui si annoia, ma mai di fronte a un'inserzione ha reagito come di fronte alla mia inserzione. Mi domandai» disse il principe «se per caso la mia inserzione fosse stata formulata in maniera strana. Ma non mi sembrava. (Amministratore cercasi per grande azienda forestale, eccetera… Saurau… eccetera…). La mia inserzione è formulata in maniera assolutamente poco interessante. Non contiene (non ha) nulla di eccitante (allettante). L'ho buttata giù in fretta e consegnata in tipografia, meravigliandomi anzi che fosse riuscita così impersonale, così poco attraente, mentre io in origine, com'è ovvio, intendevo formulare un'inserzione molto personale, attraente, un'inserzione per lo meno interessante, non un'inserzione non interessante… L'ho consegnata» disse il principe «e ho pensato: è un'inserzione assurda, non si presenterà nessuno, eccetera… E invece, già di prima mattina, si è presentato Zehetmayer e subito dopo si sono presentati gli altri due candidati, Henzig e Huber, e io credo che altri ancora ne verranno, perché non è verosimile che d'un tratto non si presenti più nessuno. A giudicare dall'effetto, la mia inserzione dovrebbe essere, penso, un'inserzione affascinante. Io ho un'idea molto precisa, credo, di che cosa sia un'inserzione affascinante, ma se adesso un'inserzione affascina proprio perché non è affascinante… Siamo arrivati al punto, caro dottore, che un Saurau è costretto a pubblicare un'inserzione» disse il principe, e aggiunse: «Io dissi: Signor Zehetmayer, ma Lei crede sul serio di capirci qualcosa in fatto di economia boschiva e forestale? Al che lui ha risposto: No, non ne capisco nulla, davvero, non ne capisco assolutamente nulla, il fatto che io sia cresciuto in campagna, disse, non significa infatti che io sappia qualcosa anche in fatto di economia boschiva e forestale. Certo che no. Gli versai un bicchiere di grappa (da parte mia, caro dottore, mi attengo ai Suoi ordini e da varie settimane ormai non bevo più nulla!) e gli feci una domanda, una domanda che mi sembrava assolutamente ovvia, e cioè perché non facesse più il maestro, dato che è davvero singolare che uno a quarantadue anni, se è maestro, non faccia più il maestro. All'improvviso i pensieri, la lingua tedesca, caro dottore, sono ridiventati qualcosa di stravagante! Egli disse che da ormai dieci anni lo avevano licenziato dalla scuola, senza diritto alla pensione!, disse. Era stato accusato di un crimine (violenza carnale?) che non aveva commesso e per il quale era stato condannato a due anni di prigione e a due anni di penitenziario a Garsten. Non gli era possibile dire di che crimine si fosse trattato (violenza carnale?). Aveva fatto molto volentieri il maestro, aveva attribuito un grande valore alla libertà che la professione di maestro comporta, all'atmosfera di pulizia in cui ogni giorno il maestro può muoversi, alle tante belle possibilità offerte dalla vita in campagna (Ah sì, fare il maestro! aveva esclamato). Ora viveva, è vero,» disse il principe «del lavoro di sua moglie, delle energie di lei, e in fondo era un uomo senza prospettive. Stamane, dunque, di buon'ora, gli era capitato di leggere l'inserzione e aveva deciso di starle appresso. Disse la parola Zehetmayer, e la disse veramente, caro dottore, con un tono ironico che mi stupì. Se volevo, disse, potevo informarmi, il nome Zehetmayer apparteneva a un'antica stirpe di mercanti di bestiame e di tessitori della Stiria e dell'Alta Austria, un nome interdetto, decaduto». Il principe rise. «È un nome che non vale più niente, ha detto Zehetmayer» disse il principe. «Improvvisamente» disse il principe «Zehetmayer mi fece capire tutto. Avevo di fronte un'intelligenza d'alta montagna, pensai, abbandonata a se stessa, un'intelligenza senza dubbio impazzita, pensai, un uomo che semplicemente non se l'è sentita di fare lo sforzo necessario per salvarsi e perciò è ripiombato ben presto nella comoda, primordiale ottusità di coloro che lo hanno generato. È una cosa insensata, ha detto Zehetmayer, ma appena ho letto quell'inserzione… Gli piaceva incominciare questa frase, interromperla subito, buttarla via a metà» disse il principe. «Sì, non ho voglia, no, non ho voglia, non ho voglia, disse Zehetmayer. Si alzò in piedi, come se in quel rapporto stregato con la natura si sentisse, per un attimo, ancora più ridicolo di quanto non fosse riuscito a sentirsi fino a quel momento. Il modo in cui si alzò in piedi» disse il principe «e uscì dal mio ufficio, mise in risalto questa ridicolaggine. Che goda della propria miseria? pensai. Che assurdità, disse ancora una volta Zehetmayer, e se ne andò tutto preso dalla sua smania di tormentarsi. Pensai: ecco che mi si presenta un tale e dice di essere venuto quassù al castello per via dell'inserzione e che si chiama Zehetmayer, e io di questo tale non so proprio che farmene. Anzi, ottiene proprio il risultato contrario!» disse il principe. «Avevo subito notato, infatti, che quell'uomo aveva varie malattie a uno stadio ormai evidentemente molto avanzato, certo anche malattie veneree, ovvio, sono tipiche di questa zona. Gli abitanti della Stiria nord-orientale hanno una caratteristica inconfondibile, una smisurata propensione alla mistica dell'endogamia, e un ritmo particolarmente cupo e torpido nel parlare e nel muoversi. Pronuncio la parola Puschachtal e quell'uomo è pronto a raccontarmi una lunga storia capitatagli sul Puschachsee» disse il principe. «Mi sorprende sempre la prontezza con cui gli uomini reagiscono di fronte a certe parole, parole che li feriscono nella loro sensibilità e a cui essi collegano subito qualche triste caso che è loro capitato e che li ha profondamente impressionati. Zehetmayer per esempio» disse il principe «una volta da bambino, trovandosi sul Puschachsee, è caduto fuori da una chiatta. Lei conosce il lago di Puschach, vero dottore?». Mio padre disse: «Sì». Il principe disse: «Il fratello maggiore, dalla chiatta, cerca di tirarlo fuori dall'acqua, ma non ci riesce. Zehetmayer rimane in acqua per cinque ore, finché arriva suo padre su una seconda chiatta e lo tira fuori. Nel punto dell'incidente l'acqua è profonda duecento metri, ma anche se fosse profonda soltanto sei o otto metri, eccetera… lui, Zehetmayer, con le sue sole forze non ce l'avrebbe fatta a stare a galla neanche per altri cinque minuti soltanto. È un tipo straordinariamente suscettibile, soprattutto di fronte a certe parole che contengono più di una a, ma, naturalmente, soprattutto di fronte a certe parole che esprimono un concetto collegabile con fatti più o meno terribili che gli sono capitati durante la sua vita. Le due parole bella vista, per esempio, che io pronunciai ricordando una bella vista, lo indussero immediatamente a raccontare un'altra storia, più breve, ma non meno sventurata di quella del lago di Puschach. Raccontò, o meglio accennò» disse il principe «che una volta, nei pressi della locanda Bellavista di Salla, era stato assalito da un detenuto evaso dal carcere di Suben e che il fatto era avvenuto appena due settimane dopo che lui stesso era stato dimesso dal penitenziario di Garsten… Quel tale aveva aggredito Zehetmayer alle spalle e gli aveva rubato il portafoglio. È vero che nel portafoglio c'erano soltanto venti scellini, ma purtroppo c'era anche una fotografia di sua madre, l'unica che lui possedesse. Il rapinatore è stato processato da un tribunale di Linz che l'ha condannato a dodici anni di carcere. Probabilmente, aggiunse Zehetmayer,» disse il principe «ora, a distanza di quattro anni, quell'uomo è a piede libero. So come funziona la giustizia in questo paese, ha detto Zehetmayer» disse il principe. «Effettivamente» disse il principe «avrei dovuto stare attento a non usare, e non solo di fronte a Zehetmayer, certe parole che possono emozionare lui (o altre persone). Anche Zehetmayer è una delle tantissime persone che di fronte a certe parole, connesse forse per sempre con qualche orrendo fatto che è loro capitato, reagiscono in un modo che li deprime mortalmente. Di fronte a mio padre, per esempio,» disse il principe «non potevo mai pronunciare la parola obliquo, né usare le parole salsiccia, Auschwitz, SS, spumante di Crimea, Realpolitik. Per ogni uomo esistono delle parole che davanti a lui non si possono pronunciare. Le mie sorelle, le mie figlie, mio figlio, tutti soffrono di questa specie di malattia per la quale, di fronte a certe parole, reagiscono sempre in un modo irrimediabilmente straziante. Avevo immaginato che di fronte a Zehetmayer non avrei dovuto assolutamente menzionare la parola talpa. Tuttavia, ad un tratto, probabilmente per metterlo alla prova, dissi la parola talpa, dissi: Il Puschach è una zona tremendamente infestata dalle talpe, e subito notai in che stato di sofferenza fosse immediatamente piombata tutta la sua persona. Effettivamente io fin dall'inizio avevo la sensazione che non dovevo mettere Zehetmayer di fronte alla parola talpa. (In relazione alla sua patria\). Eppure io lo misi di fronte a quella parola e la mia ipotesi che se io avessi pronunciato la parola talpa (e gli avessi ricordato la sua patria) lui ci avrebbe patito, si dimostrò esatta. Per lo stesso motivo non avrei dovuto pronunciare davanti a lui, come compresi in seguito, le parole vomitare, Bundscheck, Krennhof, schermo, minatori, e neppure miniera, né la parola penitenziario. Ma devo confessare» disse il principe «che mentre Zehetmayer era lì con me, io mi sono sentito continuamente tentato di usare proprio quelle parole di cui lui aveva tanta paura. Ricordati» disse il principe rivolgendosi a se stesso «che hai continuato a dire la parola rape. Non ho avuto alcun riguardo verso di lui,» disse il principe «assolutamente nessun riguardo. Zehetmayer è di per sé un tipo d'uomo che bisogna trattare con riguardo, come bisogna trattare con riguardo la maggior parte delle persone, caro dottore, ma io non ho avuto alcun riguardo verso di lui, e proprio perché fin dall'inizio avevo intuito tutte le sue debolezze, le sue malattie, proprio per questo non ho avuto alcuno scrupolo nei suoi confronti. Di fronte a quest'uomo non è il caso che io mi faccia degli scrupoli, così ho pensato per un attimo, un attimo però decisivo, tanto non gli serve a niente, non gli serve a niente, eccetera… Perché? Caro dottore, in continuazione mi sento in balìa di domande assolutamente assurde di questo tipo, domande che vogliono una spiegazione, un chiarimento. Ma non c'è nulla da spiegare, nulla da chiarire. Udendo la parola Stainz,» disse il principe «a Zehetmayer (non a me!) venne in mente la parola Rassach, e la parola Rassach gli ricordò un'altra storia ancora. Questa storia» disse il principe «non posso fare a meno di raccontargliela» disse. «Zehetmayer, a quanto pare, esiste solo in quanto esistono queste storie legate a certe parole che lo irritano e che egli si sente costretto a raccontare non appena qualcuno pronuncia una di quelle parole. Una volta, dunque, da bambino, Zehetmayer era ospite di parenti a Rassach» disse il principe «e stava giocando nel fienile. Era di pomeriggio, caro dottore, faceva un gran caldo, quel caldo in cui i bambini hanno paura di morire soifocati senza che i genitori possano aiutarli. Lei sa, quel caldo tremendo dei fienili. Ad un tratto Zehetmayer, che allora ha quattro anni, sente suo zio che lo chiama per la cena e si spaventa, si volta e si spaventa di nuovo, e scopre il cadavere di un uomo appeso a una trave. Un impiccato, dice Zehetmayer. Lui allora si era messo a chiamare l'impiccato, gli aveva ordinato di saltar giù dalla trave, perché lui, a quattro anni, aveva l'impressione che l'impiccato potesse senz'altro saltare giù dalla trave. A cena! gli aveva gridato, aveva continuato a gridargli: A cena! Quel morto era il primo uomo completamente nudo che Zehetmayer avesse mai visto. All'improvviso lui, a quattro anni, si era reso conto che l'uomo che pendeva dalla trave era morto e allora aveva cacciato un urlo che aveva fatto accorrere subito nel fienile i suoi parenti. Nessuno di loro conosceva quell'uomo che, probabilmente nella notte precedente, secondo Zehetmayer, si era impiccato alla trave. In uno stato di eccitazione (parole di Zehetmayer, oggi). Zehetmayer aveva poi descritto come suo zio, per non dover tagliare la fune, avesse liberato il cadavere dalla fune a colpi, strappi e strattoni, mentre i suoi parenti cercavano di indovinare chi potesse mai essere il suicida. Avevano frugato nelle tasche dei suoi vestiti che erano lì per terra (giacca e calzoni, nient'altro), ma non avevano trovato nulla. Avevano continuato a guardare» disse il principe «ora il cadavere, ora colui che aveva scoperto il cadavere, cioè il piccolo Zehetmayer. Poi ad un tratto lo zio, guardando il piccolo Zehetmayer, aveva detto: Povero bambino! e allora lui, Zehetmayer, aveva preso un grande spavento ed era scappato via, fuori dal fienile e giù nell'atrio, fuori dall'atrio e via verso il bosco dove si era smarrito, piangendo… eccetera… Mentre Zehetmayer raccontava questa storia connessa per lui con la parola Rassach (Stainz, eccetera) constatai che quell'uomo non era affatto lucido. Durante tutto quel tempo non mi era venuta in mente l'idea che Zehetmayer potesse essere ubriaco. Pensai: forse era già ubriaco quando è uscito di casa, e pensai anche: Zehetmayer è sempre ubriaco. Avrei ancora tutta una serie di cose strane da riferire sul conto di questo Zehetmayer» disse il principe. «Ma ci rinuncio. Mentre usciva da casa mia e finché non fu al di là delle mura ho osservato quell'uomo a lungo, così a lungo non ho mai osservato nessuno in vita mia. L'ho osservato fino a quando, semplicemente, non fu più possibile vederlo. Sono le nove» disse il principe «e io rileggo la mia inserzione, pensando che è un'inserzione banale, priva di qualsiasi fascino. Mi sto già meravigliando che vi abbia risposto soltanto una persona, quand'ecco che si presentano anche gli altri due candidati, Henzig e Huber. Prima Henzig» disse il principe. «Breve descrizione di Henzig, dunque». (Il principe ha qualcosa di malato nel tono della voce!). «Henzig ha trentaquattro anni e mi sembra perfettamente adatto per il posto, ma non mi sembra un uomo simpatico (Huber invece mi sembra più una persona simpatica che un uomo per sua natura adatto al posto in questione). Henzig viene dalla zona dell'Aussee, la sua è una famiglia di forestali: il padre è consigliere forestale, scuola forestale di Ort, conoscenze di agronomia, eccetera… Dimostra una grande sicurezza in tutto quello che dice e tutto quello che dice in effetti è esatto» disse il principe. «Colture marginali di contenimento / disposizione a raggiera chiusa / disposizione a raggiera aperta. Sono ovviamente sbalordito di fronte alla naturalezza con cui quest'uomo dimostra di sapere veramente tutto (sistema verticale: disboscamento a dirado, eccetera…). Di quest'uomo non mi piace l'aspetto per bene» disse il principe «la pulizia, il modo di vestire, eccetera, tutti aspetti positivi che ad un tratto mi sembrano disgustosi. Perché? Non avevo bisogno di guardare i suoi attestati per sapere che avevo di fronte un uomo eccellente. Appena comincio a parlare con Henzig, non posso fare a meno di cacciar fuori da me con una risata la parola Zehetmayer, e dico: Un poveruomo, un miserabile, dico, e mentre Henzig mi fa un elenco e nello stesso tempo una descrizione dei lavori da lui svolti finora, io continuo a gustare dentro di me, senza pronunciarla, la parola Puschachersee [lago di Puschach]. Continuavo a occuparmi di Zehetmayer, non di Henzig, caro dottore. Mentre Henzig mi stava fornendo delle informazioni precise sulla sua carriera (sviluppo?), io pensavo alla totale disperazione di Zehetmayer. All'improvviso dico a voce alta: Ci sono naturalmente delle persone la cui costruzione è talmente sciagurata che uno finisce per pensarci di continuo, e in effetti in maniera gradevole. Henzig si irritò,» disse il principe «ma solo per un attimo, poi continuò con le sue informazioni. Per me era un vero piacere stare ad ascoltare Henzig e intanto pensare a Zehetmayer» disse il principe. «Non mi era affatto difficile portare al massimo questo godimento. Henzig disse che lavorava già da sei anni nel Kobernausserwald, la migliore scuola forestale in assoluto di tutta l'Austria,» disse il principe «già da sei anni lavorava in quelle foreste un tempo absburgiche, ora demaniali, repubblicane. Henzig disse qualcosa a proposito di douglasia, di zone depresse, aride e umide, di colture estensive, di pinus radiata, parlò di condizioni di pagamento, di acquisti e di vendite, sentii dire la parola Liberia e la parola Mangrovia, e più volte, con effetto molto grottesco: Gli Absburgo. Assumere immediatamente quell'uomo sarebbe stata la cosa migliore,» disse il principe «perché era il più bravo di tutti, l'avevo capito subito. Eppure non l'ho assunto subito» disse il principe. «Quell'uomo mi ricordava la mia giovinezza, le camminate di ore e ore con addosso abiti di prima qualità in compagnia del consigliere forestale Siegmund. Mi ricordava lunghe discussioni sul colore della selvaggina, sulle quote da pagare per ogni animale abbattuto, sulle malattie degli alberi, sull'esportazione di legname in Francia e in Italia, mi ricordava la mia giovinezza già avanzata. Mi addentravo all'improvviso in molti temi scientifici,» disse il principe «in una politica ormai caduta in un magnanimo oblio, in lunghi discorsi rimasti in ogni caso segreti, discorsi ormai estinti. Sentivo l'odore di quei discorsi, di quei temi, di quei boschi, di quei vestiti, e l'odore dell'aria sulle rive della Ache, l'odore del Tirolo, del Salisburghese, dell'Alta Baviera e dell'Alta Austria, l'odore dei boschi di famiglia. Entravo con lo sguardo nell'ufficio di una casa costruita ai margini di un bosco del Tirolo, dal rumore delle travi del pavimento si capiva chi ci stava camminando. Uno dice: Arriva il consigliere forestale! oppure II dottor Konstanz o la Maria. Poi si apre la porta di una biblioteca nella quale si trovano duemila volumi uno accanto all'altro, volumi di storia tutta sbagliata, a cominciare da Descartes, Pascal, Schopenhauer, fino ai fascicoli dello «Schlern». Attraverso Henzig il mio sguardo penetrava negli immensi boschi fra la regione dell'Inn e la pianura bavarese, oppure si perdeva nell'immensità di un bosco sloveno» disse il principe. «Io penso che la quiete che regna nella natura sia ora e sempre la quiete infinita» disse il principe. «A un certo punto ho detto a Henzig: Tutto sommato,» disse il principe «e ho detto queste parole con estremo imbarazzo, tutto sommato Lei mi sembra troppo giovane per un posto come questo. Avrà certamente capito, infatti, dico a Henzig, che Lei si troverebbe assolutamente solo di fronte a un'enorme responsabilità. Nel Kobernausserwald, dico, ci sono molte persone, impiegati dello Stato, che possono essere anche molto bravi; essi, tuttavia, non hanno alcuna responsabilità. Gli impiegati dello Stato non hanno responsabilità. Nella Repubblica la parola responsabilità è diventata una parola sconosciuta! dico. Lo so, dico,» continuò il principe «nelle foreste demaniali nessuno si sente più responsabile, anzi è proprio questo l'aspetto più vistoso di questi sistemi cosiddetti moderni, ma in verità antichissimi: la responsabilità non esiste più. E gli dico,» disse il principe «le conseguenze di questa mancanza di responsabilità, Lei, mio caro, le ha davanti agli occhi. Le ha davanti agli occhi, dissi, e infatti io, dissi, credo di sapere quello che intendo quando parlo di responsabilità. Questa responsabilità, la natura… dico. Questo posto richiede una responsabilità enorme. Questo posto non ha nulla a che fare con questo ridicolo Stato. Nei possedimenti dei Saurau questo ridicolo Stato non esiste. Non esiste ancora, dico, e poi aggiungo: Questo è uno Stato in proprio. Qui, dissi, vigono leggi particolari, le leggi naturali proprie dei Saurau, mi capisce? dico, le leggi naturali dei Saurau, non quelle della Repubblica, non quelle della pseudodemocrazia. E dico: Il territorio è grande, Lei saprà certamente quanto è grande il territorio dei Saurau, quanto è grande tuttora! Henzig dice che lo sa. Ebbene, dico, se la sente Lei di occupare un posto del genere? Le faccio presente, dico a quell'uomo, che questa non è un'azienda statale, questa è un'impresa privata. La responsabilità è enorme! Penso: quest'uomo, questo Henzig, è veramente l'uomo adatto per il posto di amministratore, ma dico: In un posto del genere io ci vedo un uomo piuttosto anziano, ma che un uomo così giovane… Penso: Henzig è proprio l'uomo che ci vuole e dico: Lei ha troppa fiducia in se stesso… Al che Henzig tace. Poi dice che lui sa anche il francese (naturalmente), l'inglese, il russo e l'italiano. Già, dico, al momento però non sono in grado di scegliere, di decidermi, dico,» disse il principe «no, al momento non deve aspettarsi da me una decisione. Gli dico: Le scriverò, mi dia il Suo indirizzo esatto. Entro due giorni riceverà un telegramma. Mi alzo» disse il principe «e porgo la mano a Henzig, gli apro la porta perché altrimenti non ci sarebbe nessuno che gliela possa aprire, nessuno, e lui se ne va. Henzig, lui o nessun altro, dico a me stesso, e mentre vado a sedermi in ufficio, penso: ma perché mai tutto a un tratto l'aspetto ordinato di quest'uomo, l'ordine in genere, ti è sembrato tanto ripugnante? Che sia la sua cultura? Mi misi una mano fra i capelli. Questa tua improvvisa antipatia per l'enorme scienza di quest'uomo, mi sono detto» disse il principe. «Continuavo a ripetere: un uomo eccellente, un uomo eccellente, che uomo eccellente questo Henzig… Cammino su e giù per l'ufficio. Calcolo quanto mi renderanno in primavera gli impianti per la ghiaia. Penso: gli impianti di ghiaia rendono ancora? Mentre incomincio a preoccuparmi per la quantità eccessiva di operai nelle cave di ghiaia (e nelle miniere) e a chiedermi se non sia addirittura il caso di chiuderle, queste miniere, e penso: tu chiudi le miniere e chiudi anche le cave di ghiaia, chiudi finalmente cave e miniere, ad un tratto sento bussare, e mi compare davanti un altro candidato (il terzo): Huber». Il principe disse: «Huber viene dalla Bundau. Ha un modo di parlare, un modo di esprimersi che subito mi fa venire in mente l'espressione: nemico del mondo civilizzato. Ecco un uomo, penso, che viene via volentieri dalla Bundau, ma anche malvolentieri. Oppure: uno che dalla Bundau verrebbe via volentieri se ancora gli fosse possibile venire via volentieri, eccetera… Non avrà mica lasciato la Bundau solo per la mia inserzione? Gli chiedo subito: Hai lasciato la Bundau per la mia inserzione? E intanto penso che quest'uomo non è neanche da prendere in considerazione. Egli dice: Sì, per l'inserzione! Io dico: Ma io cerco un uomo perfetto! Penso a Henzig. Al che Huber dice che lui ha un'esperienza di trent'anni, senza precisare di quale esperienza si tratti. Guardo quest'uomo e intuisco» disse il principe «di quale esperienza si tratti, cosa abbia fatto quest'uomo per trent'anni: ha fatto il caposquadra forestale. Gli dico di accomodarsi, ecco una sedia, dico, e Huber si siede. Una situazione grottesca! Gli verso un bicchiere di grappa e dico anche a lui: Io personalmente non bevo, il dottore mi ha proibito di bere, ma se si beve un bicchiere è più facile parlare! Huber vuota il bicchiere d'un fiato. Grottesco! Ha un vestito pulito, un vestito, penso, che lui appende sempre dietro alla porta, mai nell'armadio. Gli verso un altro bicchiere. Guardo il suo cappello, la sua giacca, i suoi calzoni, i bottoni della sua giacca e penso: nella Bundau fa freddo, laggiù è sempre inverno, quelli che vivono nella Bundau sono individui decisamente invernali. Misere esistenze, penso, caro dottore, misere esistenze. È un paesaggio, quello, che tollera soltanto un minimo vitale. Vi predomina un color verde-nero, un color nero-verde, un'oscurità tanto grande da escludere addirittura il suicidio. Il pensiero di questa gente è sempre sul punto di annegare, la voglia di vivere sul punto di spegnersi, tutto gela e si congela, a turno. Dunque, gli domando, come vanno adesso le cose nella Bundau? Sempre lo stesso, dice Huber. Dice più volte, caro dottore: Sempre lo stesso. Nella Bundau però c'è Drack, dico, il padrone delle segherie. Già, Drack, dice Huber, il padrone delle segherie. Dico: È stato Drack a fare i pavimenti per il Belvedere, non è vero? Dico ancora: Drack ha tre sorelle. È un piacere conversare con Drack, dico. Già,» disse il principe «coi soldi, nella Bundau, non c'è altri che Drack. Sì, dice Huber. Sto pensando» disse il principe «che è davvero incredibile che già la prima mattina tre persone si siano presentate per quell'inserzione. Che ne dice, caro dottore, del fatto che tre candidati si presentino la stessa mattina nella quale una ridicola inserzione, formulata in uno stile ridicolissimo, viene pubblicata da un ridicolo giornale? Che ne dice? Dico a Huber,» disse il principe «Drack è passato completamente ai parquet, non è vero? Non fa più pavimenti per navi. Con qualche eccezione, dico io. Sì, salvo eccezioni, dice Huber. Penso che la mia inserzione sia una brutta inserzione. Ma se l'inserzione è così brutta, come mai già la prima mattina si presentano tre candidati? Mistero! Mistero!» disse il principe. «Pensai: Huber non ne ha colpa! Colpa? Huber? Colpa di che? Basta, pensai. Chiedo a Huber quando abbia letto l'inserzione» disse il principe. «Voglio saperlo e mi accòrgo» disse il principe «che la stessa domanda l'avevo fatta anche a Henzig e a Zehetmayer. Gli dico: Quando hai letto l'inserzione? Mi accorgo che gli do del tu, mentre a Henzig, come pure a Zehetmayer, avevo dato del lei. Hai l'inserzione nella tasca della giacca? gli dico» disse il principe. «Huber estrae dalla giacca l'inserzione e la mette sulla scrivania. La rileggo ancora una volta. L'hai letta facendo colazione? gli chiedo.


Dice di no, facendomi capire» disse il principe «che la colazione ancora non l'ha fatta. Gli riesce di farmelo capire senza dire neanche una parola, ad un tratto tutto in quell'uomo dice che non ha ancora mangiato nulla per colazione. Allora io vado in cucina,» disse il principe «vedo che in cucina non c'è nessuno, non c'è anima viva in cucina; e gli preparo un panino con lo speck, un altro glielo spalmo di burro, poi ritorno coi panini in ufficio e dico a Huber di mangiare i panini. Vuoi del sidro? gli chiedo. No, niente sidro. Certamente ha dei figli, non capisco però se siano tre o quattro, e gli dico: Mangia! e gli domando: Quanti figli hai? Tre, dice. Quanti anni hanno? gli domando. Trentuno, ventiquattro, diciassette, dice. Quattro sono morti. Io penso: che cosa conta di più nella vita? Dico: Hai una brava moglie, vero? Sua moglie si occupa del podere (sei iugeri),» disse il principe «lavora bene, dice Huber. Se non ci fosse Drack, se nella Bundau non ci fosse Drack. Huber annuisce. Drack, indirettamente, dà da mangiare a tutta la Bundau, dico. Drack fa il filosofo e le sue tre sorelle lo rimpinzano di cibo, il che gli ripugna. È seccante vivere con tre sorelle, dico io. Drack e la Bundau…» disse il principe. «E allora mi viene in mente: tu pure hai due sorelle che vivono in casa. E mi viene in mente anche che ho la stessa età di Drack. E in fondo, penso, la situazione in cui vive Drack è uguale a quella in cui vivo io, la stessa situazione economica, familiare, personale, solo che Drack è in basso e io sono in alto, ma potrei benissimo essere io in basso e Drack in alto… Però le tre sorelle di Drack, dico a Huber,» disse il principe «hanno la gobba, e intanto penso che Drack sia una vittima delle sue tre sorelle; un uomo può essere forte quanto vuole, e Drack è un uomo forte, ma le sue tre sorelle sono ancora più forti… Ed ecco il risultato: Drack celibe, Saurau vedovo, pensai. Dico: Drack aveva una dozzina di buone occasioni per sposarsi, lo dico più per me che per Huber. Huber però ha sentito,» disse il principe «ha smesso di mangiare e ha detto: La Thurn und Taxis. Poi Huber dice che l'afta epizootica s'è divorata quasi tutto il patrimonio zootecnico della Bundau e che la Bundau non ce la farà a riprendersi da quel colpo. Capisce, dottore? Non ce la farà a riprendenti Le epidemie, dico, una volta che ci sono, è già troppo tardi. Per lo Stato, dico, è sempre troppo tardi. Nello Stato, così com'è oggi, tutto è sempre troppo tardi. Lo Stato dilapida le medicine per curare i cadaveri. Allora, dico, Huber, quando hai letto l'inserzione? Il giornale glielo aveva portato la moglie tornando da Knittelfeld di mattina presto. C'era andata per una visita medica,» disse il principe: «una malattia renale. Huber, che stava mettendosi la camicia, le aveva tolto di mano il giornale e lei gli aveva fatto i soliti rimproveri, come ogni giorno: Che non c'erano più soldi. Che lui non lavorava, che era lei a sgobbare e guadagnare, che lui era un pigro, non guadagnava nulla, che mentre lei cercava di risparmiare su tutto, lui buttava i soldi dalla finestra, eccetera… Alla fine lo aveva chiamato scansafatiche, perdigiorno, e lui allora si era infuriato,» disse il principe «le aveva minacciato, ma non mollato un ceffone, poi se n'era andato in camera, dove si era buttato sul letto. E lì, sul letto, ho visto l'inserzione, disse Huber. Era balzato subito su, si era vestito, era uscito di casa, era partito dalla Bundau per venire da me. Per strada gli era sembrato assurdo cercare di avere un posto del genere (come Zehetmayer!). Ma no, aveva continuato a dire a se stesso, vado su, vado su, vado su dal principe Saurau. E, continuando a dire vado-su vado-su, ad un tratto era arrivato quassù. La vista del castello però lo aveva scoraggiato e vi aveva girato intorno quattro o cinque volte prima di bussare. Aveva continuato a chiedersi se non sarebbe stato meglio scappare via di corsa, andarsene giù in qualche osteria… Poi però aveva visto uscire Henzig, un uomo abbastanza prestante, disse Huber, e non aveva potuto fare a meno di bussare. Alla mia età sarebbe stupido cominciare un nuovo lavoro, mi ha detto Huber. Sua moglie, però, lo rimprovera in continuazione,» disse il principe «lo fa diventar pazzo, ogni giorno gli dimostra quanto lei sia indispensabile e lui superfluo. Ma naturalmente lui non era affatto adatto per il posto che veniva offerto, cosi aveva detto Huber, e con questo voleva dire che probabilmente… non era del tutto inadatto. Penso che per fare il caposquadra forestale siano necessarie delle capacità molto notevoli» disse il principe «e che le capacità di Huber siano probabilmente apprezzabilissime, e non glielo nascondo, infatti gli dico: Le tue capacità sono senz'altro eccellenti. Ma di certo se ne rendeva conto anche lui, gli dissi, di non essere adatto per il posto di amministratore. No davvero, gli dico,» disse il principe «un posto del genere richiede esperienze di tutt'altro genere. Lui lo sa, e io gli dico francamente non che lui, Huber, è probabilmente inadatto, ma che è assolutamente inadatto per quel posto. Gli dico però» disse il principe «che già uscire dalla Bundau una volta tanto è un bel vantaggio. Questo sì, rispose Huber. Io stesso sono due anni che non vado più nella Bundau,» disse il principe «di solito è sempre un funerale che mi spinge a lasciare il castello e a percorrere le valli, muore sempre qualcuno con cui si è imparentati o qualcuno che si conosce (o non si conosce), e così uno finisce per recarsi di continuo nelle più svariate parti del proprio paese (o anche all'estero, s'intende). Ciascuno di noi, oltre a svolgere la sua professione, è anche un viaggiatore specializzato in funerali. E sempre muoiono proprio quelle persone, caro dottore, che si sapeva che dovevano morire. Le sorprese sono rare. Gli dico,» disse il principe «nella Bundau stanno ingrandendo il cimitero, non è così? Huber dice: Le solite beghe. Il sindaco, i socialisti… eccetera… Non c'è stato nessuno, dice Huber, che abbia voluto cedere un pezzo di terreno al Comune. E allora il Comune ne ha espropriato uno. Espropriato, penso. Questa è per me una parola chiave, a sentirla mi rendo conto di tutti gli aspetti più ripugnanti dello Stato, di tutta la stupidità dello Stato, mi viene in mente quella gentaglia rincretinita che sono gli impiegati statali. Espropriato! Qui attorno si continua a espropriare, dico, giù sotto il castello si espropria dappertutto con pretesti assolutamente inconsistenti. I politici espropriano in lungo e in largo. Si espropria. Espropriano e distruggono. Si distrugge la natura. Espropriato! esclamo, e poi dico: Spero che una volta o l'altra lo Stato espropri se stesso! Mi auguro che si autoespropri al più presto, grido, che sopprima anche se stesso! Sarebbe ora che questo Stato espropriasse se stesso» disse il principe. «Questo ridicolo Stato, dissi. Espropriato! Ci tagliano via le dita dei piedi, mio caro dottore, guardi qui, le dita dei piedi e anche i calcagni, tanto che uno non riesce più neanche a camminare! All'improvviso» disse il principe (ci eravamo fermati e stavamo guardando giù nella gola) «con Huber, al quale avevo versato un altro bicchiere di grappa, mi trovo nel bel mezzo di un discorso politico. Lo Stato è marcio, dico, sul serio, lo Stato è veramente marcio. L'insieme di parole che negli ultimi tempi mi piace di più, caro dottore, è proprio questo: Lo Stato è marcio. Non c'è più niente che valga, dico a Huber, i rossi non valgono niente e i neri non valgono niente, la monarchia naturalmente non vale niente e la repubblica naturalmente non vale niente. Tutto agonizza nella stessa maniera torpida, non è vero forse? Tutto, tranne la scienza. Dico a Huber: Però l'agonia repubblicana è certamente l'agonia più disgustosa, l'agonia più penosa. Non è forse vero, caro dottore? Io dico: Il popolo è cretino e puzza, è sempre stato così. Huber dice poi che nella Bundau, e precisamente fra gli operai di Drack, ci sono dei comunisti. Comunisti, dico, comunisti Già, i comunisti! Anche qui da me ce ne sono moltissimi, dico! Tutti quelli laggiù sotto il castello, dico, sono comunisti! Tutti! Ma il comunismo e i comunisti non sanno che cosa sia il comunismo. Che peccato! Ma, per tornare alla mia inserzione, dico a Huber che lui, Huber, è senza dubbio una brava persona, e che però, come gli ho già detto, non è adatto per il posto di amministratore. Gli dico addirittura: Tu certamente ti sottovaluti, ma per il posto di amministratore non sei proprio adatto». Lui, il principe, si era messo in mente che quell'uomo avesse cinquant'anni anche se ne dimostrava sessanta. «Cinquant'anni orsono per un posto del genere si poteva senz'altro pensare a un caposquadra forestale,» disse il principe «ma oggi no. Oggi l'azienda ha bisogno di un uomo preparato scientificamente, ha bisogno di uno Henzig. No, dico a Huber, di sicuro non hai pensato sul serio che Saurau ti potesse assumere! Huber, gli dico, sono le undici e mezzo» disse il principe. «Gli verso un terzo bicchiere. E dico: Quel tale che hai visto uscire poco fa, quell'uomo di bell'aspetto, quello è il mio uomo. Henzig, dico, è proprio l'uomo che mi ci vuole. Scuola forestale di Ort, dico, agronomia, Vienna, Parigi, Londra, Madrid. E poi, gli dico, ha un fisico robusto, te l'ho già detto, e sa l'inglese, il francese, l'italiano… Lavora nel Kobernausserwald, dico, e ha quella tipica arroganza e scientificità che si usa adesso e che sa essere spietata anche con se stessa. Non è certo gente stupida, dico. In fondo, io penso» disse il principe «che oggi, ormai, anche l'attività forestale non sia nient'altro che una scienza economica, se non, addirittura, una scienza naturale pura. Tutto è diventato scienza al giorno d'oggi, dico» disse il principe. «Huber vorrebbe alzarsi ma non si alza. Tutto è diventato un enorme apparato scientifico, dico. Un'assurdità, dico. Huber si alza. In Austria però, dico a Huber, tutto è in uno stato di perversa arretratezza Siamo in ritardo di duecento anni in quasi tutti campi, dico. È ridicolo, dico, ma non è affatto un'esagerazione, caro dottore, e aggiungo: Si tratta di so stanze chimiche, di un imponente fenomeno chimico E quanto più esso si discosta dal concetto convenzionale di natura, tanto più diventa bello, imponente direi quasi poetico. E poi, caro dottore, dico: Dimmi Huber, come funziona il recapito della posta nella Bundau? È sempre un disastro? Huber dice: Sì, è un disastro. E gli scolari? chiedo. Nella parola scolari ritrovo ad un tratto, senza doverla esprimere in parole, tutta la mia compassione per la vita miserabile degli scolari nei paesi di montagna. Huber si avvia verso la porta» disse il principe «e io penso: che calzoni assurdi. Che giacca assurda. Che assurdo modo di camminare. Grottesco, penso. Scolari, caro dottore, è un concetto che in tutto il mondo si identifica col concetto di miseria, ma nella zona della Bundau è più grande, più amaro che in ogni altro luogo. Da vent'anni si parla di costruire una nuova scuola in fondo alla valle della Bundau, ma fino a oggi la nuova scuola non è stata costruita. Penso spesso: tutto il sistema educativo del nostro paese è un sistema arretrato, un sistema semplicemente superato, pietoso, non è così, caro dottore? E penso che se a ogni idea che ci salta in mente all'improvviso fosse concesso di aggregarsi tumultuosamente fino a formare un pensiero… Dico: Huber, non bisogna starci a pensare… Penso alla stupidità di tutti i modi di dire, dottore, alla stupidità, alla stupidità in cui l'uomo vive e pensa, pensa e vive, alla stupidità… Mi permetto di vivere ed è assurdo! Vivo ed è assurdo! Tutti vivono ed è assurdo! La stupidità di affidarsi alla lingua tedesca, mio caro dottore, è una cosa assurda!, penso, e non soltanto affidarsi alla lingua tedesca, ma alla lingua tedesca in primo luogo!… La stupidità che deriva dal tedesco, penso… La stupidità di un mondo fatto di vantaggi e di svantaggi, di nient'altro… Mi sto dando alla filosofia! Macché! Una volta nella Bundau ho visto un grosso fagiano appollaiato sopra un cinghiale, proprio così, dico a Huber. Huber mi ascolta. Ascolti, dottore, Huber mi sta ascoltando… È lì, vicino alla porta. Sì, sì, dico, con mio padre sono stato centinaia di volte nella Bundau, per via dei fagiani e dei cinghiali, dico. La Bundau ha sempre attratto mio padre a sé, la Bundau ha una grande forza di attrazione, dico. Chissà, avrò avuto otto o nove anni, dico, quando io e lui ci siamo inoltrati nella Bundau, di mattina prestissimo, e all'improvviso, in fondo alla valle, abbiamo visto il fagiano appollaiato sopra il cinghiale. Allora mio padre mi ha descritto quello che succedeva fra il fagiano e il cinghiale, io ho detto: È una cosa grottesca! e lui mi ha raccontato un'infinità di altre cose sui fagiani e sui cinghiali. Siamo seduti lì su un tronco d'albero, mio padre ed io, e quando il fagiano incomincia spudoratamente a dimenarsi sopra la coda del cinghiale, mio padre gli spara e lo abbatte. È caduto dalla coda del cinghiale, dico. Il cinghiale con un balzo scompare nel bosco. Vado a prendere il fagiano e mentre mi chino su di esso, mio padre spara un altro colpo. In aria. Quando ritorno indietro col fagiano, gli domando perché abbia sparato il secondo colpo, in aria, dico, perché in aria? Mio padre non sa che cosa rispondermi. Non ho mai sparato in aria così stupidamente, dice mio padre. Ci sono dei bei fagiani e dei bei cinghiali nella Bundau, dico. Huber vuole andarsene. È già nell'atrio. Naturalmente, dico, puoi essermi utile, ma non per il posto di amministratore. Gli offro un posto di caposquadra, però senza contributi per la vecchiaia, Krainer ha bisogno di un aiuto. Ma lui non accetta la mia offerta. Che uomo strano. Ma è evidente: Huber non vuole lavorare, non vuole più lavorare, mai più. No, no, dice. Preferisce continuare a sorbirsi ogni giorno le sgridate di sua moglie. Penso che Huber sarebbe per me senz'altro un buon acquisto. Non vede come tutto va in rovina, dottore? Ma non c'è niente da fare, Huber se ne va. Penso che la mia inserzione sia stata per lui un pretesto per poter uscire dalla Bundau. Il freddo della Bundau, penso. Huber che fa l'amministratore, penso. Huber e Zehetmayer, che idea grottesca! Firmerò subito il contratto con Henzig, penso,» disse il principe «Henzig è proprio la persona giusta. In fondo Henzig è la persona che ho sempre cercato e mai trovato. Mi rendo perfettamente conto che una simile personalità mi diventerà ben presto preziosa, indispensabile. Quest'uomo è una vera fortuna. Naturalmente ci vuole un giorno intero» disse il principe «prima che il telegramma arrivi nel Kobernausserwald! Ho pensato: se lo spedisco ora, a mezzogiorno,» disse il principe «arriverà nel Kobernausserwald soltanto domattina. Le poste, queste disastrose poste austriache! Vado nell'atrio e detto a mia sorella, alla più anziana, il telegramma, lei chiama il vecchio Krainer che poi va giù alla posta. Con Henzig non corro rischi» disse il principe. «Ho già concordato con lui anche gli aspetti finanziari della questione. Abiterà nella casa del guardaboschi, no, nel padiglione, no, nella casa del guardaboschi, nella casa del guardaboschi. Disposto assumerla immediatamente, questo il testo del telegramma. Ma poi mi viene in mente che Henzig è ancora dipendente dello Stato e non potrà entrare in servizio prima della settimana prossima. Sono le foreste statali che rovinano tutto,» disse Saurau «è lo Stato che rovina tutto, questo continuo, perenne suicidio dello Stato. Caro dottore, oggi tutti gli Stati, e non soltanto in Europa, continuano ininterrottamente a suicidarsi. È un tema su cui insisto da sempre, caro dottore» disse il principe. «Lo Stato che rovina tutto e gli uomini che non riescono a venire a capo di questo loro Stato e lo mandano in rovina. Mi viene in mente il termine catastrofe intellettuale, caro dottore. Quando Huber se n'è andato, faccio attaccare sul grande portone esterno un biglietto con la scritta Il posto di amministratore è assegnato e me ne vado in ufficio. Effettivamente arrivano ancora parecchi aspiranti al posto di amministratore e io li osservo tutti, finché non se ne vanno, alcuni se ne vanno subito dopo aver letto il biglietto, la maggior parte però esita a lungo prima di andarsene. Sono troppo vecchi. Continuo a ripetermi che è ben strano che si presentino tante persone per una simile inserzione. Uno bussa, ma nessuno gli apre. Che fra i primi tre aspiranti già ci fosse l'uomo giusto è un fatto degno di nota, non è vero, dottore? Parlare con gente che si è appena conosciuta è faticoso e fa riflettere. Prenderli in giro non è giusto, ma non è neanche giusto prenderli troppo sul serio. E poi ci sarebbe da chiedersi fin dove bisogna spingersi nel contatto con loro, se addirittura sia il caso di avere un contatto, non Le sembra, dottore?… I contatti,» disse il principe «…io esisto, Lei me lo dice sempre, dottore, solo in quanto ho dei contatti con qualcuno, eccetera, ma è proprio questo che provoca in continuazione la componente ironica del mio modo di pensare… Quell'ironia che attenua un poco l'intollerabilità dell'esistenza… Una sosta ai margini delle distonie nervose… Pensavo: con Huber sono stato troppo gentile o troppo poco gentile? E come sono stato con Zehetmayer? Appena uno se ne va, non so perché, subito mi viene da chiedermi se sono stato troppo gentile o troppo poco gentile con lui. Ma io con Huber sono stato gentilissimo, penso. Anche con Zehetmayer sono stato gentilissimo. Meno gentilmente di tutti ho trattato Henzig, è stata una conversazione brevissima, un incontro, un insultarsi a vicenda pieno di avversione. Henzig è l'amministratore ideale, penso».


A questo punto il principe Saurau disse che anche quando lui si trovava in compagnia delle sue sorelle e delle sue figlie, quando «non ce la faceva più» a resistere in camera e «scendeva nelle stanze di sotto sperando in qualche conversazione distensiva», mentre quelle parlavano o tacevano, oppure, stando nella penombra «che regna sempre a Hochgobernitz, e da essa sopraffatte, si preparavano come di consueto alla notte, contemplando se stesse», allora lui udiva sempre di più quei rumori di cui aveva parlato già molte altre volte con mio padre, erano «mesi ormai» che lui sentiva sempre quei rumori.


Egli aveva obbedito sempre di più alla «meccanica del suo spirito teso all'esaltazione e alla speculazione più alta» (parole di mio padre) e si era rassegnato ai propri stati di debolezza, perfino a quello che negli ultimi mesi era diventato il più insopportabile dei suoi tormenti e che era dovuto a quelle «discussioni masochistiche» (mio padre) che egli faceva da solo con se stesso nella sua camera chiusa col catenaccio, discussioni che egli non aveva interrotto nemmeno durante il soggiorno del figlio in Inghilterra, e che, siccome probabilmente si rendeva conto ormai di dover vivere per sempre a Hochgobernitz, con un rigore implacabile diretto soprattutto contro se stesso, spingeva ad un livello così alto da richiedere, per la famigerata irritazione che concentrandosi in esse lui ne ricavava, la massima tensione del suo spirito, una tensione sempre più rigorosa delle sue qualità intellettuali, rivolta ad «approfondire coerentemente tutti i fenomeni scientifici» (Saurau). Ma nello stesso tempo aveva sempre sentito questi «rumori per lui letali» (mio padre), anche nella notte precedente li aveva sentiti mentre stava studiando le Memorie del Cardinale di Retz, «aveva dovuto sentirli», senza peraltro essere in grado di ricordare il momento preciso in cui quei rumori avevano cominciato a farsi sentire. Li sentiva ininterrottamente e non riusciva più ad addormentarsi e di questi rumori aveva sempre più paura. Nelle ultime settimane era stato invaso, sconvolto giorno e notte da questi rumori («Antitipie?» [mio padre]), i rumori lo avevano «proiettato» di continuo e in un modo estremamente raccapricciante dentro la propria morte.


Quanto più credeva di dover sfuggire al mondo, tanto più, disse Saurau, finiva per cadere in sua balìa: «Noi pensiamo in maniera fantastica e siamo stanchi» disse. Avendo raggiunto «il più perfetto esaurimento possibile di ogni energia», lui, Saurau, aveva fatto scendere le tenebre su Hochgobernitz e Hochgobernitz alla fine aveva ottenebrato lui, Saurau. «Le analogie sono letali» è una frase decisiva, una delle frasi che ricorrono continuamente nei suoi discorsi.


Mentre la sua famiglia, «questa incessante e infame amputazione dello spirito» (Saurau) che governava in suo nome Hochgobernitz, come una «delle centinaia e migliaia di sconcertanti cleptomanie dello spirito e con quella irrimediabile sprovvedutezza per la quale era stata generata, mentre la sua famiglia cosi aspirava la propria vita quotidiana dai luoghi più lontani per inalarla dapprima nei loro corpi e poi nelle loro menti», lui, Saurau, vivendo in mezzo ai suoi parenti, in loro compagnia, «una compagnia catastrofica», era assalito da questi rumori («eruzioni all'interno della terra?» [mio padre]). Il frastuono di quei rumori lo soggiogava. Sentendo il proprio cervello («un irrompere dell'acqua in zone disseccate da tempi remotissimi?» [Saurau]) come una membrana dolorosamente martoriata per tutta l'umanità, in cui questi rumori («trasformarsi di ciò che esiste in qualcosa d'altro, che esisterà in futuro?» [Saurau]) erano sempre esistiti, lui questi rumori non soltanto li udiva, ma li vedeva e li sentiva dentro la sua testa. Il suo cervello era costretto a «sopportare» questi rumori («crepe che si aprono, un ideale processo di disgregazione della natura!» [Saurau]). Quasi tutte le frasi nelle quali egli inietta di colpo, senza più alcun freno, il suo tormento, terminano con l'espressione «per tutta l'umanità».


Sentiva spesso l'immensa «storia sensoriale-geologica del mondo crollare su se stessa per rifondersi in sostanze totalmente nuove», per cui, secondo lui, si iniziava un processo in cui «tutto sarebbe stato annientato per essere poi definitivo».


«Proprio da qui, da questo punto quassù, io discutevo sempre con il mio amministratore di tutte le questioni riguardanti Hochgobernitz» disse Saurau, e ci fece notare le vaste zone della valle colpite dall'alluvione che poco tempo prima aveva devastato ampi territori sotto Hochgobernitz. «Mentre io, neanche tre settimane orsono» disse il principe «stavo camminando qui, su e giù in questo punto, incapace di dire una parola sulle mostruose devastazioni causate dall'alluvione,» disse «e osservavo, caro dottore, l'acqua che si ritraeva lentamente, in silenzio, atterrito, in preda a un perturbamento che si protrasse per due ore», proprio allora gli era venuto in mente che vita ambigua fosse mai quella di suo figlio che studiava in Inghilterra. «In questo punto» disse Saurau «mi viene sempre in mente mio figlio. Effettivamente la vita di mio figlio è completamente staccata dalla mia». Allora, tre settimane fa, poco dopo la morte dell'amministratore, lui, Saurau, era stato parecchie ore qui in questo punto ad osservare con sentimento di odio «contro la natura» l'acqua che si ritirava, per poi ritornare al castello, «senza aver proferito una sola parola contro la natura». Saurau disse poi: «Mio figlio è in Inghilterra, e io qui sto affondando».


Mio padre ricorda che durante l'ultima visita che ha fatto al principe, questi, parlando dell'alluvione, aveva continuato a gridare ad alta voce «frana» e aveva parlato di una «disperazione dell'intelligenza da lui sentita come un insulto». Aveva continuato a gridare «frana» e a calcolare i «costi dell'alluvione», le «somme che quell'alluvione costava, somme enormi», e poi, dato che tutta la zona era investita da un odore non molto forte, ma «perfido» di cadaveri putrefatti - molti animali annegati erano ancora incastrati sulle due rive della Ache, bestiame squarciato, gonfio, in parte «tranciato dalla violenza dell'acqua» (mio padre), numerosi capi di bestiame provenienti dalle diverse stalle che i Saurau possedevano nella valle, bestiame che non era stato ancora rimosso - poi Saurau aveva continuato a gridare la parola decomposizione, la parola processo di putrefazione e la parola diluvismo, finché, ad un certo punto, aveva parlato della devastazione presente nella sua testa a. causa dei rumori dentro il suo cervello, una devastazione che era molto più grande di quella che si vedeva laggiù, sulle rive della Ache. «Qui, dentro la mia testa,» aveva detto Saurau «c'è davvero una devastazione inimmaginabile».


Secondo mio padre quella prima giornata dopo l'alluvione aveva avuto un'enorme importanza per la malattia di Saurau, che, da quel momento in avanti, s'era sviluppata con un'«incredibile violenza» (mio padre). «Quel giorno siamo scesi tutti e due verso la Ache, inorriditi dalla vastità della catastrofe» (mio padre). Effettivamente era stata un'alluvione di proporzioni catastrofiche, come entrambi poterono constatare quando l'acqua fu tornata al livello normale. Saurau non riusciva a capacitarsi che l'alluvione si fosse scatenata proprio dopo la morte del suo amministratore. «Proprio adesso che non ho nessuno che mi aiuti!» aveva continuato a gridare. In un primo momento, sconvolti com'erano, non erano riusciti a dirsi neanche una parola, avevano però salutato gli operai che sulle rive della Ache erano impegnati ad estrarre dal fiume il legname e i cadaveri, e avevano cercato di spingersi più in là possibile, e Saurau aveva pregato mio padre di non lasciarlo cosi presto, perché di restare solo proprio non se la sentiva. Aveva continuato a parlare di «danni di milioni». Saurau, che prima aveva taciuto per ore e ore, quando erano tornati al castello aveva parlato ininterrottamente.


Saurau ora si rivolse a me dicendo: «Quanto più appassionatamente io parlavo dell'alluvione, tanto più il Suo signor padre era distratto da un altro pensiero. E precisamente» disse il principe «dallo spettacolo che avevamo messo in scena nel padiglione un giorno prima del disastro. Questo spettacolo, ogni anno diverso,» disse Saurau «è una tradizione di Hochgobernitz. E questo è il fatto strano,» disse Saurau «e io parlo qui di qualcosa di ridicolo, ma anche di fenomenale: nello stesso istante in cui io ho incominciato a parlare dell'alluvione, il Suo signor padre ha incominciato a parlare dello spettacolo. Quanto più io pensavo all'alluvione, tanto più il Suo signor padre pensava allo spettacolo. Io parlavo dell'alluvione e lui parlava dello spettacolo». Mio padre disse: «Ho sempre pensato: parla dell'alluvione, devi parlare dell'alluvione, eppure ho parlato dello spettacolo». Saurau disse: «Io però ho parlato dell'alluvione e non dello spettacolo, di che altro avrei mai dovuto parlare io in quel giorno se non dell'alluvione! Come era naturale non sono riuscito a pensare a nient'altro che all'alluvione! Mentre il Suo signor padre non ha pensato a nient'altro che allo spettacolo. Quanto più io avevo in mente l'alluvione, tanto più il Suo signor padre aveva in mente lo spettacolo, e nella stessa misura in cui io, parlando dell'alluvione, ero irritato con Suo padre che parlava dello spettacolo, così il Suo signor padre, che parlava dello spettacolo, era irritato con me che parlavo soltanto dell'alluvione. Un'irritazione mostruosa!» disse il principe. «Durante i miei interminabili discorsi sull'alluvione, continuavo a sentire il Suo signor padre che commentava lo spettacolo. L'incredibile stranezza» disse il principe «consisteva proprio nel fatto che io col passar del tempo parlassi sempre più e di nient'altro che dell'alluvione, e che il Suo signor padre non parlasse di nient'altro che dello spettacolo. Il Suo signor padre parlava dello spettacolo a voce sempre più alta e io parlavo a voce sempre più alta dell'alluvione. Abbiamo parlato tutti e due a voce alta, a voce altrettanto alta, contemporaneamente e a voce altrettanto alta, il Suo signor padre di uno spettacolo mostruoso e io di una mostruosa alluvione. E poi» disse il principe «è subentrata una fase in cui tutti e due abbiamo parlato esclusivamente dell'alluvione e poi una fase in cui l'unico tema fu lo spettacolo. Ma mentre parlavamo tutti e due dello spettacolo, io pensavo soltanto all'alluvione e mentre parlavamo dell'alluvione, Suo signor padre pensava soltanto allo spettacolo. E così, a turno, parlavamo dell'alluvione, mentre il Suo signor padre pensava allo spettacolo, e dello spettacolo, mentre i miei pensieri erano rivolti all'alluvione. Io portavo il discorso sull'alluvione, il Suo signor padre portava il discorso sullo spettacolo. Se parlavamo dell'alluvione, io pensavo che il Suo signor padre volesse parlare dello spettacolo e se parlavamo dello spettacolo, io volevo parlare soltanto dell'alluvione». «Io» disse mio padre «volevo parlare dello spettacolo, confrontandolo con uno spettacolo che avevo visto una volta a Oxford, volevo paragonare gli attori inglesi con i nostri attori, volevo parlare della differenza fra la lingua inglese e la nostra lingua». Il principe Saurau disse: «Io, com'è ovvio, ero completamente dominato dal pensiero dell'alluvione, mentre, è altrettanto ovvio, il Suo signor padre, non era dominato dal pensiero dello spettacolo!». «Quando parlavamo dello spettacolo,» disse mio padre «Lei, principe, gridava in continuazione: Spese enormi! oppure: Spese mostruose! mentre io, quando parlavamo dell'alluvione, dicevo continuamente delle parole come soppalco, mimica, esaltazione, marionettismo». «In fondo, però,» disse il principe «quel giorno, di qualunque cosa parlassimo, parlavamo soltanto dell'alluvione».


«Subito dopo lo spettacolo,» disse il principe «sono uscito dal padiglione e me ne sono andato sulle mura interne, perché lo spettacolo non era riuscito a distogliermi dai rumori. Eppure avevo sperato che proprio lo spettacolo mi distraesse dai miei rumori! Anche camminando sulle mura interne, però, non sono riuscito a distrarmi dai rumori, e me ne sono andato sulle mura esterne. Per qualche attimo, stando sulle mura esterne, sono riuscito a non sentire più i rumori, e di lassù, dalle mura esterne, mi sono messo a osservare la gente che era venuta per lo spettacolo e che ora tornava a casa. Alcuni sono scesi nella gola,» disse il principe «non so proprio a che scopo. A tutt'oggi non so perché alcuni siano scesi nella gola. Nascosto dietro a un grande pino, osservavo la gente che stava congedandosi dalle mie sorelle e dalle mie figlie. Questo spettacolo» disse il principe rivolgendosi a me «è naturalmente un'iniziativa delle donne, io con lo spettacolo in sostanza non ho nulla a che fare, ma le donne organizzano ogni anno uno spettacolo del genere e, per l'occasione, invitano centinaia di persone, persone di nessunissimo interesse per me, in gran parte persone repellenti. Naturalmente per le donne lo spettacolo è sempre un pretesto per invitare centinaia di persone, persone che poi vengono effettivamente, ma in tutto questo lo spettacolo conta ben poco,» disse il principe «le donne se ne servono soltanto per avere un po' di gente quassù al castello, e le persone che salgono quassù in occasione dello spettacolo non vengono per lo spettacolo, ma per pura curiosità. Se dipendesse da me» disse il principe «quassù non verrebbe più nessuno, nessuno, neanche un'anima. Certo,» disse «questa solitudine è anche una situazione patologica, è ovvio. Perché la società, e intendo tutta la società, ma in particolare il ceto sociale che viene per lo spettacolo, è fatto di gentaglia spregevole e detestabile. Tuttavia alle donne non nego questo piacere, che invitino pure tutti quelli che vogliono. Dato che io non voglio vedere nessuno a Hochgobernitz, lo spettacolo per me è una cosa tremenda. In effetti,» disse il principe «stando dietro a quel grande pino, per qualche attimo non ho più sentito alcun rumore. Ma per scaldarmi un poco, avevo infatti la sensazione di morire di freddo, mi sono messo a camminare attraverso il cortile, infine mi sono messo perfino a correre, poi, camminando lentamente, mi sono messo a declamare, sottovoce, varie frasi dello spettacolo. La mia memoria non è ancora distrutta, ho pensato, no, la mia memoria è ancora intatta, quando vidi che ero in grado di ripetere intere frasi dello spettacolo, anzi proprio le frasi più complicate. Mentre attraversavo il cortile declamando frasi dello spettacolo, pensavo che le donne e anche il giovane polacco, un nostro parente, fossero già andati a letto. In effetti provavo un gran piacere a declamare intere parti dello spettacolo, le più lunghe, senza fare neanche un errore. Brani interi,» disse il principe «ristorandomi al ritmo di quelle frasi. Camminai su e giù per il cortile per oltre un'ora, prima andai sulle mura interne, poi su quelle esterne, camminando neanche me ne accorgevo, e intanto cercavo di ricordare tutto quello che potevo del testo dello spettacolo. Uno spettacolo, a mio parere, veramente bello,» disse il principe «scritto da uno dei miei cugini appositamente per quest'unica rappresentazione. Misi alla prova la mia memoria, senza pietà, senza riguardi verso me stesso, e constatai che la mia memoria era intatta. Effettivamente, dottore, la mia memoria quella sera era intatta. Di colpo, era di nuovo completamente e perfettamente intatta. Cercavo di ricostruire nella memoria lo spettacolo,» disse il principe «mi interessava soprattutto la sua struttura più intima. Il meccanismo che lo faceva funzionare. All'improvviso» disse il principe «ebbi la sensazione che sarei riuscito a prendere sonno, una sensazione che non conoscevo più da molto tempo, e allora scesi dalle mura interne del castello, dove in quel momento mi trovavo, ed entrai nel cortile con l'intenzione di andare in camera mia. In un primo momento non avevo intenzione di passare dalla biblioteca, poi però sono passato dalla biblioteca, mi interessava un libro, volevo darci un'occhiata» disse il principe. «E come entro in biblioteca,» disse «vi ritrovo le donne. Ero stupito che fossero ancora alzate. C'era anche il cugino polacco. Tutti seduti per terra. Vidi che erano le quattro del mattino. Erano li, stranamente immobili, tutti seduti per terra su dei cuscini. Stremati per la stanchezza, stavano lì, seduti sui cuscini, con il loro whisky, come irrigiditi dalla lunga veglia. Ad un tratto» disse il principe «mi venne una gran voglia di iniziare una discussione con quelle persone. Sì, ho detto a quelle persone, e soprattutto alle mie sorelle: Non fa freddo qua dentro? Non fa troppo freddo qui? e ho immediatamente incominciato a parlare degli anticorpi nella natura. È un tema che mi è subito venuto in mente. Nell'aria fresca del mattino riuscivo a sviluppare molto bene e molto rapidamente il mio pensiero. Avevo degli ottimi ascoltatori, l'ho intuito subito: è da molto che non hai degli ascoltatori come questi, sono anni che aspetti degli ascoltatori così. È gente che sa ascoltare molto bene e sa anche discutere molto bene! ho pensato. Il giovane polacco sapeva discutere in maniera splendida, davvero splendida» disse il principe. «Ma di colpo, badi bene dottore,» disse il principe «ecco che tornano a farsi sentire i rumori. Per tutto quel tempo ero riuscito dunque soltanto a reprimerli, pensai, ero riuscito a reprimerli per mezzo dello spettacolo. Già, lo spettacolo! I rumori distrussero istantaneamente i miei pensieri, trasformando tutto quello che c'era nella mia testa in un caos. Un caos assordante. Di questo i miei ascoltatori non si accorsero per niente, s'intende,» disse il principe «naturalmente non erano in grado di vedere quello che succedeva dentro il mio cervello. Ma i miei ascoltatori hanno certamente avvertito» disse «che nel mio cervello l'ordine meraviglioso che c'era prima si era trasformato di colpo in un caos tremendo, un caos tremendo, assordante. Talmente spaventoso fu il dolore che provai nel momento in cui i rumori si erano fatti risentire distruggendo tutto quello che c'era nel mio cervello, che io credetti di dover subito sospendere il mio discorso e tutta la discussione. Ma, considerando che erano tanti anni ormai, come ho già detto, che non avevo ascoltatori così attenti, ascoltatori così sinceri, esigenti, mi sembrava, ascoltatori tesi, capaci di discutere, non permisi a me stesso di cedere e riuscii a ristabilire l'ordine nel mio cervello. Erano le quattro e mezzo del mattino e io parlai, in parte, per necessità, anche in lingua polacca - dovevo infatti rivolgere la mia attenzione soprattutto al cugino polacco - degli anticorpi presenti in natura, della natura e degli anticorpi, e degli anticorpi prodotti dalla natura. Man mano che li elaboravo in me, vagliavo i gradi di difficoltà del mio pensiero in rapporto ai gradi di difficoltà del pensiero dei miei ascoltatori. Probabilmente era stato lo spettacolo» disse il principe «a rendere possibile di colpo quella tensione intellettuale che si creò fra di noi e che ormai non avrei più creduto possibile, una comunanza di pensieri, senza dubbio un ritrovarsi insieme su temi di filosofia della natura, estremamente teso e concentrato anche grazie alla presenza del giovane polacco. Al culmine della discussione, e già prima di iniziarla, avevo detto ai miei ascoltatori che cosa fosse una discussione, che una discussione era qualcosa di totalmente diverso da quello che oggi si crede sia una discussione. Avevo l'idea che lì, in quella biblioteca, vi fossero effettivamente delle persone totalmente trasformate, non più degli orribili parenti, ma dei caratteri ricettivi, capaci di concepire dei pensieri, di svolgere dei pensieri, capaci di seguire il corso dei pensieri, capaci di discutere, insomma avevo di fronte a me caratteri completamente diversi» disse il principe. «Tutti erano come cambiati di colpo! Avevo l'impressione di parlare a delle teste scientifiche. Camminando su e giù, io parlavo a teste di scienziati! Improvvisamente anch'io non avevo più una testa caotica e soltanto dolorante, avevo invece una limpida testa di scienziato. Poiché il mio pensiero era chiaro sotto ogni aspetto, quando lo esposi e lo illustrai, esso s'incorporò senza posa nelle menti dei miei ascoltatori in un modo che ormai non avrei creduto possibile mai più. Quella mattina» disse Saurau «lo sforzo per noi era un piacere, mentre tutt'intorno la notte si dissolveva, da Oriente giungeva la luce del mattino e l'immane meccanismo dei grilli e delle rane si ritirava nel suolo, nella gola e nelle valli. Mentre albeggiava, non ci sembrava più di essere dei distruttori di nervi. Eravamo migliorati. In tutte le nostre fisionomie leggevo l'espressione pacata, benché sessualmente accattivante, dei nostri sentimenti, dei nostri stati d'animo e dei processi del nostro spirito. Quella mattina constatai che non siamo ancora completamente annientati. Le sorelle di mio figlio,» disse Saurau «al pari delle mie stesse sorelle, si conformarono, si assoggettarono al mio pensiero che a tutte loro - nella quiete - sembrò una costruzione fantastica sopportabile, non insopportabile, in virtù dello spettacolo; l'improvvisa chiarezza dei nostri cervelli fece sì che tutti ci sentissimo improvvisamente commossi dalla bellezza della natura. Da quella quiete» disse il principe. «Ci capita molto raramente di essere disposti alla quiete. All'improvviso tutti insieme ci sentimmo disposti alla quiete che regna sempre qui a Hochgobernitz, senza avvertire il benché minimo sintomo di debolezza che la potesse contrastare. Senza avvertire il minimo sintomo di debolezza di una sola delle loro capacità intellettive, tutti seguivano la spiegazione di un fenomeno straordinario che era presente all'interno del meccanismo fisico-chimico dell'universo e che si impadroniva di noi sempre più, come essi (non meno di me) poterono constatare con crescente stupore. Ma io» disse il principe «ero continuamente tormentato dai rumori nel mio cervello. Mentre io guidavo noi tutti con la massima sicurezza attraverso il nostro pensiero come attraverso un'oscurità, la nostra oscurità - poiché la conosco bene - quei rumori tremendi dentro il mio cervello non mi hanno abbandonato un momento, mi hanno distolto dalla vita» disse Saurau. «Mi trovavo fra i miei, ma sentivo che per loro ero diventato invisibile da molto tempo, lo sentivo sempre di più. Ad un certo punto io per loro addirittura non fui più presente, non fui più lì. Con enorme fatica cercai di offrire loro una mia immagine riflessa e lasciai che tutti guardassero dentro a quell'immagine. Grazie al tempo trascorso sulle mura e in cortile (dopo lo spettacolo), immaginavo» disse Saurau «che lì in biblioteca avrei potuto muovere ancora una volta all'assalto della vita, ho provato a cogliere quell'occasione, ma in realtà il mio tentativo è fallito. I rumori nella mia testa mi impediscono tutto. Da tempo ormai li sento raddoppiarsi ogni giorno. Ma il mio tormento è un tormento che Lei non potrà mai conoscere» disse Saurau rivolgendosi a mio padre. Mio padre, pensai, viene a trovare Saurau per curarlo dell'insonnia, senza fare nulla contro la sua vera malattia, contro quella pazzia che ora, mentre camminavamo avanti e indietro sulle mura esterne del castello, diventava sempre più palese. Ad un tratto, infatti, mi fu perfettamente chiaro che il principe era pazzo, cosa di cui io in un primo momento, quando lui aveva parlato di quello che era successo la mattina, non mi ero accorto; mi era sembrato anzi che il principe non fosse pazzo, e io, quando lui aveva parlato dei vari candidati che si erano offerti per il posto vacante di amministratore, avevo pensato che il principe fosse tutt'altro che pazzo, contrariamente a quel che sosteneva mio padre che aveva sempre parlato di lui come di un pazzo. Ma ora, mentre camminavamo a passi sempre più veloci sulle mura esterne del castello, vidi che il principe era veramente pazzo. Il principe disse: «Quella mattina, caro dottore, quella mattina dopo lo spettacolo, la mia vera difficoltà era questa: fin dal primo momento in cui, entrando in biblioteca e vedendo i miei parenti seduti per terra, mi ero reso conto che dovevo guidare quella discussione e tenere quella conferenza, fin da allora avevo anche capito che non potevo più tornare indietro, che non sarei più riuscito a rientrare nel mio pensiero che migliaia di princìpi rendevano così lontano dal mondo di quelle persone, che, insomma, non sarei potuto ritornare nel mio cervello! Io dovevo pensare a voce alta, dovevo ancora una volta chiarire pubblicamente una faccenda complicatissima, probabilmente addirittura irrisolvibile, eppure straordinariamente lineare, com'è il problema degli anticorpi presenti in natura; ma, nello stesso tempo, caro dottore, quale vittima umana artificiale, separata da questa faccenda dai millenni passati e da quelli futuri e da ogni e qualsiasi concetto di natura, camminando su una fune tesa sopra tutto il mondo dello spirito, dovevo penetrare tutte le scienze e tutte le arti, le cause e gli effetti, con il cervello probabilmente ormai lontano, già librato nell'aria cosmica, sospinto verso una meta avvolta nelle tenebre più fitte da cui sentivo spirare un vento glaciale». Ci fermammo: «Una notte come quella dopo lo spettacolo, e lo spettacolo era stato bello, dottore, uno spettacolo molto bello,» disse il principe «era stata una notte quieta, la quiete prima dell'alluvione, dottore (grazie allo spettacolo), una di quelle notti quiete che sono diventate rarissime a Hochgobernitz - Lei può immaginare quanto siano diventate rare queste notti quiete a Hochgobernitz da quando mio figlio se n'è andato: proprio perché a Hochgobernitz c'è una quiete perfetta, perché qui la quiete esiste davvero, non c'è più quiete… a Hochgobernitz davvero non c'è più quiete - quella notte e quel mattino freddo, lì, fra di noi e in mezzo ai libri, in quella gelida atmosfera dell'alba nella quale i sentimenti si lasciavano plasmare liberamente in pensieri e i pensieri si lasciavano plasmare liberamente in sentimenti, perché proprio questa è la più perfetta delle magie: trovarsi insieme in un momento in cui l'esistenza è sopportabile… non so se fu per la stanchezza dopo lo spettacolo o per la follia prima del crepuscolo o per la follia e la stanchezza dopo lo spettacolo e prima del crepuscolo, comunque in quella notte gli elementi dissolutori e distruttori presenti nella nostra famiglia sembravano tenuti a freno in maniera raffinatissima, tanto da far credere che tutte le cose potessero esistere e avessero legittimità di esistere solo se erano nella verità… si badi bene, all'improvviso tutte le persone che erano in casa sentirono la quiete che regnava in casa come una pura quiete presente in casa, era tolto loro ogni senso di orrore, di raccapriccio. Un gruppo di persone, il cui scopo entro la natura di quella casa era la malvagità più immediata, si trovava improvvisamente privo dei propri strumenti e, grazie all'effetto eccitante dello spettacolo (probabilmente una composizione geniale!), vedeva trasformarsi una giornata filosofica e insopportabile in una giornata non-filosofica e sopportabile! Quella mattina in cui per la prima volta percepii in me l'autunno, un autunno diverso sia in me che negli altri… quella mattina, guardandoci dentro, all'improvviso abbiamo potuto intravedere in noi stessi l'autunno di quell'anno (ognuno il proprio autunno), grazie allo stato di eccitazione prima dello spettacolo e durante lo spettacolo, dopo lo spettacolo abbiamo intravisto dentro di noi la quiete dell'autunno, la geometria dello spegnersi della natura esteriore contemplata attraverso la geometria interiore». Quella mattina, dopo lo spettacolo, Saurau si era trovato in biblioteca davanti a tutta la famiglia riunita, «tranne mio figlio praticamente tutti i membri della famiglia erano riuniti in biblioteca,» disse il principe «tutti» ripeté, e aggiunse che da molti anni ormai non poteva dire di vedere riunita tutta la famiglia a Hochgobernitz, quella mattina lui, Saurau, aveva «analizzato i fenomeni parlando come un docente». «Sono tutti lì, seduti davanti a me, e ascoltano quello che dico della natura, del concetto di natura e del concetto di anticorpo presente in natura, del concetto della natura degli anticorpi, e all'improvviso vedo fino in fondo a questa mia famiglia, a questo Hochgobernitz mostruosamente grande e mostruosamente decrepito, scorgo una storia raccapricciante che, quanto più si risale ai suoi esordi, tanto più diventa oscura, scopro l'orrendo fetore delle generazioni, l'arte e l'artificio sempre più fetido delle generazioni, guardo dentro un labirinto di remote notizie d'orrore che portano il nome dei Saurau, un labirinto da cui ogni tanto sento effettivamente giungermi ancora delle grida di orrore, dal labirinto della mia famiglia sento veramente, caro dottore, salire delle grida di orrore, le grida troppo tardive dei miei avi defunti… Sì,» disse il principe «mio figlio non mi scrive, mio figlio tace, ho un figlio in Inghilterra che studia e tace, che studia tacendo in Inghilterra» disse ora il principe. «Scrive delle lettere che non dicono il vero». Pochi passi dopo il principe disse: «L'alluvione mi costa un milione e mezzo! Un'alluvione di milioni!» disse. «Tuttavia,» disse poi ritornando a quella mattina dopo lo spettacolo «mentre io sono lì, fra i miei parenti, fra i parenti che ancora mi rimangono a Hochgobernitz, e spiego a me stesso e soprattutto a quel viso polacco estremamente intelligente, spiego tutto, spiego i fenomeni della natura e chiarisco quello che ho spiegato, perché tutto quello che viene spiegato deve essere anche chiarito, è un procedimento antichissimo e necessario,» disse il principe «mentre dunque io cerco di spiegare e di chiarire il concetto di natura e poi di spiegarlo nuovamente, e non c'è momento più propizio per me di questo albeggiare, di quest'aria pungente, scruto profondamente i volti delle mie sorelle e delle mie figlie - in quest'aria fresca d'autunno si vede tutto con estrema nitidezza, caro dottore! - e li vedo tutti insieme, vedo anche mio figlio, sì, vedo anche il mio figlio assente, caro dottore! li vedo tutti insieme come se li vedessi attraverso di me, e all'improvviso mi viene in mente una mostruosa costellazione, qualcosa di tremendo, forse la cosa più tremenda che esista: io sono il padre!». Il principe disse: «Vedo tutti come se vedessi una realtà preesistente estremamente differenziata, una realtà preesistente che deriva da me e da cui io derivo - e intanto il mio cervello è invaso dal frastuono dei rumori!». In lontananza, laggiù nella valle, su un ponte di legno che sembrava un teatrino di marionette azionato dal basso, scorgemmo degli operai che obbedivano a uh invisibile caposquadra, mentre dal bosco, spinto ad un tratto dall'aria fresca del mattino, udimmo salire sempre più veloce il frastuono dei rumori. Il principe disse: «Ho l'impressione che sia naturale che il mondo possa andare a pezzi da un momento all'altro. O è forse la natura che deve distruggere se stessa?» disse. «È un processo che parte sempre dall'interno e si attua all'esterno. Se sono arrivato a questa osservazione, a questa idea, che pur ferisce ogni mio intimo sentire, se sono stato costretto ad arrivarci perché a quanto pare io come organismo sono predisposto soltanto a questo tipo di osservazioni e di idee, non è soltanto il sentimento a dirmi che il momento è giunto (dapprima è solo uno sgretolarsi, crepe, fenditure, uno squarciarsi e uno sgretolarsi!)… È un momento che può durare secoli, naturalmente, secoli ormai alle mie spalle, secoli a venire, naturalmente. Millenni. Quello che mi sgomenta» disse il principe «non è tanto che i rumori nel mio cervello ci siano sempre stati, tutti, che questi rumori ci siano sempre, ci siano sempre stati, ci saranno sempre, mi sgomenta il fatto tremendo che nessuna delle persone con cui sono venuto in contatto, e io, mio caro dottore, sono venuto in contatto con tante di quelle persone, con tanti di quei caratteri che se a Lei capitasse di vederseli davanti tutti insieme, tutti insieme davanti a Lei, avrebbe senz'altro l'impressione della fine del mondo, io ho avuto a disposizione infatti un'enorme quantità di persone fra cui scegliere e ogni giorno in certe ore ho avuto rapporti con tutti i caratteri e con tutti i cervelli possibili e immaginabili, il fatto che mi sgomenta, dicevo, è che nessuno, neanche un solo cervello si sia mai accorto né si accorga mai di questi rumori. Non mi sconvolge tanto il fatto che le cose stiano come stanno, ma che sia soltanto io, che sia soltanto il mio cervello a dover registrare quanto ciò sia spaventoso e letale! L'ambiente in cui io vivo - e io giudico tutto il resto, tutto il mondo partendo da me, dal mio cervello, da questa specie di Hochgobernitz spirituale, dall'ambiente che mi è direttamente e più immediatamente vicino, eccetera… nel quale» disse il principe «c'è sempre senz'altro posto per tutta l'umanità al completo - questo ambiente è caratterizzato da una incapacità addirittura agghiacciante di intendere, di registrare e di capire… Questa situazione per me è letale, la situazione letale per me consiste nel fatto che io in questa situazione mi trovo solo, sono solo in questa situazione. Una frana enorme!» esclamò il principe, e ripeté ancora un paio di volte: «Una frana enorme!». Ci disse di guardare giù nella valle, di osservare gli operai sospesi sotto il ponte. «Tutta quella gente appollaiata qua e là io la devo pagare, sono io che devo pagare tutta quella gente appollaiata qua e là. Pago quella gente per un guasto della natura, per un guasto della natura io pago tutta quella gente buona a nulla!». Quando il principe diceva gente, a me sembrava che volesse indicare la sua immensa distanza dalla gente. «Il fatto che in passato anch'io, proprio come Lei, dottore,» continuò il principe «avessi tante difficoltà a cogliere ovunque, all'interno di un unico problema, di un unico tema, di una tematica, di un flusso di pensieri, i punti più alti e quelli più profondi, punti che, a quanto pare, vengono ancora pericolosissimamente distinti, al fine di poter poi analizzare e dominare, intendere insomma uno di questi temi, pensieri, o flussi di pensieri in maniera quanto meno inconsueta, questo fatto mi sembra fatale se considero lo stato di assoluta fatalità che ora, se voglio dare un senso alla mia esistenza, mi costringe sempre a operare contemporaneamente in tutti gli spazi possibili e immaginabili, in strutture di cui sappiamo con orrore che ormai non hanno più confini. Per quanto mi riguarda, infatti, io sono arrivato in verità al punto in cui l'idea che non esistano più confini è diventata certezza, sono arrivato allo stadio di permanente perturbamento della tarda età, all'isolamento sempre più filosofico, filosofistico dello spirito, stadio nel quale uno è continuamente conscio di tutto e il cervello in quanto tale, quindi, non esiste più. La verità è che io credo sempre più di essere tutto, perché in verità non sono assolutamente più nulla, per cui tutto ciò che è umano e umanamente possibile, tutto ciò che è umanamente possibile» disse il principe «mi sembra solo umiliante. Dopo lo spettacolo mi sono reso perfettamente conto» disse il principe «di questa situazione, soprattutto in rapporto ai miei parenti che io ho sempre definito persone prive di percezione. Mai era stata così chiara la nostra immensa distanza, il nostro immenso distacco, che era nello stesso tempo un'estrema vicinanza e comunanza nel dolore, ma non una comunanza nel tormento. Con gli altri uomini la mia è sempre stata una comunanza di dolore, mai di tormenti. Mi sembra di aver avuto per tutta la vita un unico incessante pensiero: Di quali sforzi straordinari è mai capace la mente umana! Da molto tempo ormai» disse il principe «io penso di vivere soltanto nel tormento, in un tormento che è il mio particolare tormento, un tormento che appartiene a me soltanto, in una natura che è la mia propria natura, sottratto ormai alla capacità umana di soffrire, troppo vecchio ormai, troppo lontano per età da ciò che è umano, da tutto ciò che è umanamente possibile. La constatazione che tutte le persone che mi circondano, forse in particolare quassù a Gobernitz, dove negli ultimi tempi tutto mi si trasforma in un dolore ininterrotto, qui, a questa altezza, dove, nell'aria rarefatta, com'è naturale, tutto appare ancor più devastante, il fatto, dicevo, che tutte le persone più giovani di me di una generazione o anche di pochi anni, mi debbano sembrare completamente prive di percezione, è una constatazione che da molto tempo ormai mi fa sentire tutto col più grande tormento, ma anche, nello stesso tempo, col più grande piacere».


Passammo dalle mura esterne a quelle interne. Il principe accennò al fatto che nel corso di soli trent'anni era riuscito più che a raddoppiare la proprietà ereditata dal padre e ciò «a dispetto di tutte le chiacchiere,» disse «a dispetto di tutta l'evoluzione politica europea, a dispetto di tutta l'evoluzione politica mondiale». Per tutta la vita aveva pensato di ingrandire Hochgobernitz e un giorno aveva constatato che Hochgobernitz era davvero raddoppiato. «Mio figlio, però,» disse «appena avrà in mano Hochgobernitz lo distruggerà».


La notte precedente, disse il principe, aveva fatto un sogno. «In questo sogno» disse «ho visto un foglio di carta che lentamente da molto in basso saliva molto in alto, un foglio su cui mio figlio scriveva quel che adesso dirò. Io vedo ogni parola che mio figlio scrive su quel foglio di carta,» disse il principe «è proprio la mano di mio figlio quella che sta scrivendo. Mio figlio scrive: Rifugiandomi in allegorie scientifiche, mi sembrava di aver vinto mio padre per sempre, come si vince una malattia infettiva. Ma oggi mi accorgo che quella malattia è una malattia mortale che ci sconvolge nel profondo e di cui ognuno di noi morirà, tutti, senza alcuna eccezione. Otto mesi dopo il suicidio di mio padre - badi bene, dottore, dopo il suicidio! Dopo il mio suicidio, scrive mio figlio, dopo il mio suicidio! - otto mesi dopo il suicidio di mio padre tutto è già distrutto e posso dire di essere stato io a distruggere tutto, posso dire che sono stato io a distruggere Hochgobernitz! Così sta scrivendo mio figlio, che così continua: Io ho distrutto questa splendida azienda! Questo mostruoso anacronismo agricolo-forestale! All'improvviso, scrive mio figlio,» disse il principe «nel momento stesso in cui liquido l'azienda indipendentemente dal fatto o proprio perché è la migliore azienda che esista, vedo, scrive mio figlio, che sto mettendo in pratica per la prima volta le mie speculazioni teoriche!» disse il principe. «Per la prima volta, scrive mio figlio, sono arrivato a realizzarle. Sono in ufficio e vedo arrivare Moser, così scrive (Moser è il segretario comunale), quel tipo che odio si sta avvicinando, scrive mio figlio, e dico a me stesso: Lo so quello che vuole, ma chissà, forse oggi vuole qualcosa di diverso, no, ecco che ci prova per la terza volta! È già la terza volta che osservo Moser, scrive mio figlio,» disse il principe «guardando dalla finestra dell'ufficio, ora che la nebbia è sparita, questa nebbia perfettamente uguale, questa nebbia inglese davvero perfettamente uguale a quella di Londra, vedo fin dove inizia il bosco, tutto il territorio davanti alla finestra delimitato dal bosco. E quando guardo fuori è come se vincessi una mia personale, elementare paura; forse, scrive, per quell'antipatia che nutro verso me stesso e verso tutto, antipatia diventata ancora più intensa dopo il mio ritorno dall'Inghilterra, e per la mia solitudine che seppure fantastica è comunque ora più ora meno disastrosa, per la mia paura di ogni bassezza, paura che questo Moser, quest'essere intrigante che viene dal basso possa cogliermi di sorpresa, magari in una situazione fatale che io temo e che riguarda la natura del mio corpo e del mio spirito che si può trasformare continuamente e completamente in pochi secondi, per tutto questo, in effetti, non passa minuto, scrive mio figlio, che io non guardi fuori dalla finestra; almeno ogni due o tre minuti io guardo fuori dalla finestra e do un'occhiata in giro ai miei terreni e cerco di vedere se qualcosa si muove nel bosco, perché capita spesso, scrive mio figlio, che qualcuno si nasconda nel bosco, e poi, quando si crede inosservato, esca dalla staticità che astutamente si è imposto nascondendosi fra gli alberi per mimetizzarsi, e si metta velocemente in moto, si metta in moto con incredibile rapidità, gettandosi poi sulla sua vittima. In effetti, scrive mio figlio, il segretario comunale Moser doveva essere rimasto un bel po' di tempo fra gli alberi, perché quando lo vidi salire di corsa verso il castello, tutto faceva credere che fosse trascorso un certo tempo, un periodo di tempo durante il quale lui aveva potuto riflettere su qualche particolare di quel che aveva in mente e che mi riguardava, escogitando un piano che naturalmente era diretto contro di me, un piano destinato a danneggiarmi… quest'uomo, fin dal primo momento, mi è sembrato sospetto, sospetto, scrive mio figlio, non tanto per la sua corporeità ripugnante quanto per l'abietta disposizione del suo spirito, in cui tutta la malvagità delle sue categorie mentali, degradate al livello più infimo e abominevole, sembrava coagularsi in un'unica, ininterrotta volgarità, estremamente perniciosa per tutti e tale da suscitare un senso di persistente repulsione; quest'uomo, senta, dottore, che cosa scrive mio figlio, per me è sempre stato di una sfacciataggine disgustosa! E così continua: quest'uomo - che in effetti è un essere estremamente ragguardevole per la sua malinconica perfidia che è del tipo più temibile, un uomo il cui aspetto fisiognomia) rappresenta una perpetua smentita dell'umanità intera in ogni suo punto e in ogni suo caso - quest'uomo per mio padre non esisteva nemmeno, ma io non sono mai riuscito a sfuggire del tutto a questo delinquente comune che se ne va in giro a piede libero per tutta la vita e che mai si è trovato in conflitto, né mai potrà trovarcisi, con la legge, dato che il mondo è troppo stupido. Ho osservato Moser e so addirittura, scrive mio figlio, che l'ho osservato proprio nell'attimo in cui, durante le mie letture odierne, stavo studiando la frase che mi ha più pericolosamente eccitato, la frase dice che nelle rivoluzioni borghesi lo spargimento di sangue e il terrore, come pure il delitto politico, sono state armi indispensabili in mano alle classi in ascesa, ascolti dottore, ascolti bene, l'ho osservato in effetti molto prima che uscisse dal bosco, era stato uno di quei movimenti brevissimi che l'occhio riesce appena a cogliere, laggiù fra gli abeti, poi, due o tre minuti dopo, quando come al solito ho di nuovo guardato fuori dalla finestra, l'ho già visto correre attraverso il prato, lungo le mura esterne del castello, ho visto subito che era il segretario comunale Moser e mi sono detto: usa il mezzo di locomozione più comune e, dopo essermi alzato, sono sceso nell'atrio, scrive mio figlio, e ho chiuso la porta di casa, porta che io, poiché ad un tratto faceva caldo, avevo lasciato aperta, ma forse troppo a lungo, dato che all'improvviso era tornato il freddo. In questa casa è necessaria una sensibilità particolare per sapere quando bisogna aprire e quando bisogna di nuovo chiudere porte e finestre, in modo che non faccia mai né troppo freddo né troppo caldo, e ogni finestra e ogni porta richiede uno speciale ritmo di apertura e di chiusura» disse il principe «e il tempo qui, a differenza di quello inglese, cambia ogni ora, come ho visto, e uno diventerebbe pazzo se volesse dedicarsi a una scienza del genere che d'altronde non si apprende mai. Disturbato, strappato all'improvviso alle mie letture, al punto da non capire più a cosa servisse mai quella frase che io, secondo il mio solito, avevo moltiplicato e poi di nuovo diviso un centinaio di volte, come pure quell'altra che avevo continuato a pronunciare a voce alta e chiara, dicendo che la rivoluzione proletaria per raggiungere i suoi scopi non ha bisogno di far ricorso al terrore, che essa aborre l'omicidio, già mentre stavo chiudendo la porta, scrive mio figlio, avevo pensato che non avrei fatto entrare il segretario comunale Moser. Chiudo le tende, scrive mio figlio,» disse il principe «infatti potrei anche non essere in casa, scrive, e scrive ancora: io chiudo veramente le tende, ma le riapro subito perché mi sembra una cosa ridicola chiuderle per paura del segretario comunale Moser, forse che il segretario comunale ha già tanto potere su di me, un Saurau, mi dico, che io mi veda costretto a fingere davanti a lui? A fingere di fronte a lui e di fronte a me stesso? Che io debba chiudere le tende per lui, chiudere la porta di casa per lui… e apro di nuovo le tende quanto più possibile, scendo di nuovo nell'atrio e spalanco quanto più possibile la porta di casa. All'improvviso fa di nuovo caldo, Moser è a soli cento passi circa di distanza da me, è già sulle mura interne, ora cammina più lentamente, prima mi ero anzi stupito della velocità con cui Moser correva attraverso il prato, si dice infatti che sia ammalato di cuore e io so che una o due volte all'anno si fa ricoverare a spese della Cassa Mutua regionale per un periodo di riposo di varie settimane in una clinica per malati di cuore, a Holzoster, ma ora, sulle mura interne, ecco che lo vedo correre più velocemente di quanto non corresse prima sul prato, su quel prato che io da otto mesi non faccio più falciare, finché vivrò, penso, e sto pensando di nuovo alla mia realizzazione, scrive mio figlio,» disse il principe «ho in mente il trionfo sulle mie teorie, finché vivrò questo prato non sarà falciato mai più, mai più, finché vivrò su questi terreni, e penso: su questi che sono i miei terreni! i miei terreni! non si farà mai più nulla che debba essere utile, più nulla, più nulla, badi bene dottore, più nulla, più nulla,» disse il principe «d'ora in poi i terreni dei Saurau saranno soltanto dei terreni perfettamente inutili… Moser è l'espressione tipica della volgarità e della perfidia dell'individuo singolo, scrive mio figlio, scrive che Moser è l'espressione tipica della volgarità e della perfidia dello Stato, di Moser si può dire tutto, ma non che abbia un pizzico di idealismo, Moser è la personificazione concreta di un fatto che non dovrebbe essere ignoto a nessuno, e cioè che l'uomo è un essere basso e volgare e che chi lo ha creato, proprio per questo, è un essere ancora più basso e volgare di lui. Moser squalifica il mondo e il suo creatore. All'improvviso mi domando, scrive mio figlio, se non sia una cosa miserabile mettersi a fare la commedia di fronte a un uomo come Moser. Avrei dovuto accoglierlo qui, sulla porta di casa, dove ora mi vedo ancora immerso nei pensieri più ridicoli a proposito di Moser, invece no, scrive mio figlio, non lo accolgo sulla porta di casa, il che però è una prova lampante della mia meschinità, perché fin dall'inizio, infatti, io avrei dovuto starmene seduto in ufficio dietro la scrivania senza mostrare in alcun modo questa strana e devo dire anche misteriosa paura di lui, e avrei dovuto accogliere Moser nello stesso posto in cui mi trovavo prima di vederlo arrivare. Ciò significa, figurarsi, che io non mi sentirei all'altezza di questo segretario comunale, di Moser, al quale, solo a pensarci, do del cretino, anche se questo concetto non l'ho mai espresso in parole, un Saurau che non si sente all'altezza di un Moser! Ma non avevo più modo di riabilitarmi e quindi era indifferente dove lo avessi aspettato, sulla porta di casa o in ufficio, e io penso che Moser sia uno di quegli individui che se trovano una porta non chiusa a chiave, entrano senz'altro in una casa, o addirittura in un castello, e aprono una porta dopo l'altra chiedendo ipocritamente se ci sia qualcuno in casa. Ma Moser sa, scrive mio figlio, che io, quando non dormo, passo tutto il mio tempo in ufficio, non so come lo abbia saputo, ma so che lo sa. Per Moser si intende un individuo che in sostanza sa tutto quello che può essergli utile. Sa che io, scrive mio figlio, per leggere - è una cosa che sa benissimo perché anche la volta scorsa mi ha strappato alle mie letture: Schumpeter, Rosa Luxemburg, Tommaso Moro, Zetkin! - per leggere, dicevo, non sto in biblioteca, ma in ufficio, per via del panorama, e sa inoltre, ciò che per lui è certamente la cosa più importante, che io non me ne sto in ufficio, come faceva il mio defunto padre, a faticare per il bene dell'azienda, a meno che il mio progetto di distruggerla, di distruggere l'azienda intera, capisce, dottore? di distruggere l'azienda intera, non sia anch'esso un modo di faticare per il bene dell'azienda dei Saurau! Da parte mia penso a questa mia azione così sbalorditiva come a una vendetta nei confronti di mio padre… forse per un'ingiustizia vecchia non di secoli, ma di millenni, e che avrò tempo di precisare in seguito. Tutta questa gigantesca azienda agricola di mio padre sempre più mi è sembrata un errore che si è protratto all'infinito, è così che la penso, scrive mio figlio. Sono in ufficio, scrive mio figlio, e sto leggendo, anche questo mi disgusta, eppure continuo a leggere. Leggere è comunque l'attività che mi disgusta meno. Per Moser è un grosso vantaggio, scrive mio figlio, sapere fra le altre cose che io me ne sto in ufficio a leggere. In effetti, con questo mio starmene a leggere qui, fra centinaia di raccoglitori e calcolatrici con i quali non si raccoglie e non si calcola più nulla, mi sento ridicolo come era ridicolo mio padre. Qui, dopo la sua morte, io elaboro il mio complesso di vendetta. Là dove aspiro l'odore di almeno mezzo millennio di ferrea disciplina nel lavoro agricolo-forestale, al punto da esserne quasi stordito, io leggo Kautsky, Babeuf, Turati e gente del genere. Lui, mio padre, sa che io ho già stravolto, anche se per il momento solo nella mia fantasia, lo scopo di Hochgobernitz! E di questo totale stravolgimento lui ha certamente sentore là dove ora si trova. Che sia in cielo? Io me ne sto dunque in ufficio a leggere, scrive mio figlio, senta che cosa scrive,» disse il principe «e Moser intanto va in giro a dire: Adesso, nell'ufficio dove suo padre lavorava, c'è il figlio di Saurau che legge. Spesso Moser domanda, e sempre in un momento che gli è favorevole, scrive mio figlio,» disse il principe «che cosa io sia o non sia, ma lui dice sempre che sono pazzo; anche quando non lo sento con le mie orecchie, lo sento dire in continuazione che io sono pazzo. Dovunque gli capiti di parlare di me, egli usa, non troppo spesso ma neanche troppo di rado, la parola "nocivo", però è miserabile che proprio lui parli di me come di un figlio degenere, perché in Moser tutto è miserabile. Tuttavia Moser si guarda bene dall'apparire un miserabile. Penso: è strano che in effetti Moser non appaia mai ai miei occhi come un uomo ridicolo, anche se a me piacerebbe vederlo così, scrive mio figlio,» disse il principe «ma invece mi sembri un miserabile, perché la sua malvagità è priva di mordente, non ha nulla di comico o di tragicomico. È una persona che mi irrita, e chi conosca appena la natura umana lo odia, ma anch'io, scrive mio figlio, quando penso a Moser, passo dall'irritazione all'odio. È una debolezza che mi irrita, ma Moser io lo odio. Se uno sta facendo un lavoro che richiede un'assoluta tensione intellettuale e una disciplina sempre più dolorosa intesa a far emergere tutto ciò che attiene a un unico pensiero, a estrarre questo tutto dal nulla, dalle profondità nascoste molto al di sotto del suo orizzonte, e ad un tratto gli compare davanti un uomo come Moser, quest'ultimo, avvicinandosi, distrugge progressivamente ciò che l'altro è riuscito faticosamente a individuare e di cui ora è costretto a fare uso e abuso. Man mano che s'avvicina, Moser distrugge tutto quello che sono riuscito a scoprire leggendo per tutta la mattinata e metà del pomeriggio e che si riduce a zero quando Moser mi compare davanti, scrive mio figlio. Avvicinandosi, scrive mio figlio, Moser confermò questa mia ipotesi perché io sentii di colpo un deprimente rilassamento della tensione intellettuale, la sensazione sempre più forte, scrive mio figlio, di essere perduto, palesemente perduto; la presenza di Moser sposta infatti la mia concentrazione su cose di scarsa importanza. In parole povere, scrive mio figlio,» disse il principe «potrei dire: Moser arriva e la mia intelligenza se ne va. Guardando Moser, che era ormai a pochi passi da me, scrive mio figlio, mi resi conto dell'aria di importanza che le persone comuni si danno quando camminano. Ogni passo che Moser fa vorrebbe essere un passo importante. È l'ottusità che muove quei passi, penso. Mentre le persone di buona intelligenza camminano con noncuranza, spesso anzi con assoluta noncuranza, l'uomo vile e volgare cammina con un passo da persona importante. L'uomo eccezionale cammina con noncuranza, scrive mio figlio. Gli artigiani, per esempio, camminano dandosi una certa importanza, scrive mio figlio, e così pure i contadini e gli operai in genere camminano con fare importante. Ma per me anche tre quarti degli intellettuali, scrive mio figlio, vanno annoverati fra coloro che camminano con l'aria delle persone importanti. Camminano con aria d'importanza i giornalisti, gli scrittori, gli artisti, tutti i funzionari statali, ma l'aria più importante, quando camminano, ce l'hanno i nuovi uomini politici! Solo le persone spiritualmente indipendenti,» disse il principe «scrive mio figlio, sanno camminare con passo noncurante, un passo assolutamente noncurante e quindi geniale ce l'hanno soltanto loro. Ma quando mai ci capita di vedere una persona spiritualmente indipendente? In effetti mio padre, scrive mio figlio, aveva un modo di camminare se non proprio totalmente noncurante, certo piuttosto noncurante, e mio nonno, poi, al suo modo di camminare non ci badava per niente… È strano, ma il modo di camminare di Moser mi ricorda quello dei più svariati tipi di galeotti messi insieme… C'è qualcosa in Moser che ricorda un criminale in galera, ma in complesso egli ha l'aria di un uomo che esulta per un segreto che sa soltanto lui; mi sono chiesto spesso in che cosa consista la volgarità della natura di Moser, la sua bassezza. Quando all'improvviso me lo trovo davanti, penso: quest'uomo ha coraggio! Ma non riesco a ricapitolare subito nel mio cervello in che cosa consista questo suo coraggio. Dico a me stesso: che razza di coraggio ha quest'uomo! Vuole darmi la mano, ma io non gli porgo la mia. Moser non si aspetta certo che io lo faccia entrare in casa, scrive mio figlio, mai, finora, gli ho permesso di entrare nel castello. Non conosce il castello dall'interno, ma Moser non sarebbe Moser, scrive mio figlio,» disse il principe «se non conoscesse anche l'interno del castello! Ogni volta che Moser arriva, io sento che, inevitabilmente, si avvicina per me qualcosa di sinistro! Se lui fosse entrato anche solo nell'atrio, la mia casa mi sarebbe sembrata insozzata per tutta la vita. Penso alla scaltrezza con cui i tipi come Moser aspettano al varco un povero diavolo per denunciarlo, alla viltà con cui sanno vedere sempre e dovunque indizi sospetti, non c'è nessuno, penso, che gente come Moser non riesca a trascinare in tribunale o quanto meno a diffamare. Visto che non gli ho dato la mano, scrive mio figlio, anzi, scrive, visto che non l'ho neanche salutato, Moser è arretrato di un passo. I Moser sono sempre alla ricerca, negli altri, di qualcosa che possa esser presentato come un crimine. Che fiuto straordinario per ogni lato debole che abbia già un minimo di malvagità, che grande istintiva capacità di approfittare di tutto! Si provi a immaginare una massa di tipi come Moser che ad un tratto escano da tutte le parti della terra, comincino a governare dappertutto e finiscano poi per dominare effettivamente tutto! Defraudo Moser dei suoi convenevoli per introdurre il discorso, scrive mio figlio, lo costringo a dire subito quello che vuole: il raccolto! Gli dico che non ho tempo, scrive mio figlio, che lui mi disturba, che sto lavorando, che lavoro leggendo, il che non è certo una novità per lui, che lavoro sulla Tesi di laurea di Marx, ossia sui Giudizi sul rapporto tra fisica democritea ed epicurea, sulle Difficoltà a proposito dell'identità fra la filosofia della natura di Democrito e la filosofia della natura di Epicuro, e in effetti, per la prima volta, scrive mio figlio, pronuncio una parola davanti a Moser, la parola leggendo, e gli dico che non ho tempo di ascoltare le sue suppliche. Gli dico che mi stupisco di vederlo lì, scrive mio figlio. In fin dei conti lui conosce la mia decisione, la mia decisione di lasciar marcire Hochgobernitz, la mia decisione di lasciar andare in rovina Hochgobernitz, di liquidare Hochgobernitz, la mia ferma decisione di distruggere Hochgobernitz! Ecco, dottore, ciò che scrive mio figlio, e poi continua: gli dico che non riesco a spiegarmi come mai lui non capisca quello che faccio, ma io so benissimo quello che faccio, scrive mio figlio» disse il principe. «Purtuttavia adesso, per la terza volta, si badi bene! Moser mi fa la proposta, scrive mio figlio, di lasciare che gli operai del Comune, reclutati in gran parte all'ospizio, vengano sui terreni di Hochgobernitz, sui miei terreni, per fare il raccolto! Vorrebbero raccogliere prima che tutto marcisca! Moser ha avuto la sfrontatezza di dire che già buona parte del raccolto è marcita, e inoltre di chiedermi se me ne rendo conto, e poi, ma questo non è arrivato a dirlo, che io sono pazzo e che mio padre si sarebbe rivoltato nella tomba per colpa mia, solo un pazzo può rinunziare al raccolto, solo un pazzo può abbandonare un 'azienda agricola così fiorente. Effettivamente, scrive mio figlio, ascolti dottore, abbandonare e mandare in rovina l'eredità paterna è stata un'azione mostruosa da parte mia! È vero, dunque, sono l'unica persona nell'Europa centrale che lascia andare in rovina tremilaottocentoquaranta ettari di terra! Ma per il mondo dei Moser - e tutto il mondo del Comune, tutto il mondo comune è fatto di gente come Moser, l'intero Stato è fatto di gente come Moser! - era già una cosa mostruosa che io per un motivo che essi non riuscivano assolutamente a comprendere, avessi venduto tutto il bestiame!, avessi dato via a poco prezzo tutti i beni mobili dei terreni di Hochgobernitz, avessi cacciato tutti fuori di casa, dopo il suicidio del vecchio nel giro di otto giorni li avevo messi tutti fuori di casa!, il che, oggi, mi sembra un'impresa assolutamente straordinaria da parte mia!, scrive mio figlio» disse il principe. «Mio figlio scrive: Che io abbia mandato via da Hochgobernitz anche le sorelle di mio padre, tutte quante e in che modo poi, è stato davvero un colpo formidabile! Che io tutto a un tratto sia riuscito a trovarmi completamente solo, è stato un colpo formidabile! Tuttavia, scrive mio figlio, chiunque poteva ancora pensare che magari io avrei continuato a dirigere un'azienda senza bestiame e senza operai} un'azienda completamente automatizzata… ma ben presto hanno potuto constatare che io non intendo dirigere più nessuna azienda di nessun genere, che miro a un unico scopo, quello di annientare completamente l'azienda, di annientare completamente Hochgobernitz! Nel corso di una sola mattinata ho svenduto tutte le macchine e tutti i trattori! Il mio è stato un atto mostruoso, che andava al di là delle loro capacità di comprensione, per cui ne hanno informato i tribunali, le autorità distrettuali e regionali, senza alcun risultato però… Tutto questo mi viene in mente, scrive mio figlio, nel momento in cui Moser torna a tirare in ballo la parola raccolto.


Dunque, dice Moser, essi vorrebbero fare il raccolto prima che tutto marcisca, non è possibile che io voglia sul serio lasciar marcire tutto! Ma anche Moser sa benissimo che nessuna legge può impormi alcunché riguardo ai terreni che fanno capo a Hochgobemitz. Fare il raccolto!! Lo sento parlare di nuovo, come ha fatto tante altre volte, delle necessità del Comune, dei bisogni della popolazione, della miseria della gente, di povertà, di comunità, di comunità popolare, di lotta ai parassiti, eccetera, scrive mio figlio. Ma come osa quest'uomo, scrive mio figlio, come osa venirmi a parlare tanto spesso di una faccenda che io considero ormai definitivamente liquidata, Hochgobemitz è liquidato. Non ho la minima intenzione di tornare sulle mie decisioni, e dico: Signor Moser, Lei mi disturbai scrive mio figlio, non gli dico altro. Non ho la forza di voltarmi dall'altra parte e di ignorare Moser. Moser è qui, davanti a me! Per un istante rivedo tutte le strade di accesso ai miei terreni, strade che io ho sbarrato piazzando dappertutto dei cartelli con la scritta Vietato l'accesso. Anche il segretario comunale deve attenersi a questo divieto, perché qui, sui miei terreni, l'accesso è vietato per tutti, per tutti e per tutto! salvo per chi mi porta i giornali! Adesso mi rivedo a scavare fossati attraverso le strade d'accesso, a farci cadere dentro tronchi d'albero, a stendere centinaia e centinaia di metri di filo spinato, scrive mio figlio. Mio caro dottore,» disse il principe «non Le pare una cosa sinistra} Naturalmente, scrive mio figlio, il mio modo di procedere deve sembrare quello di un pazzo, ma io non ci bado. Come sempre, mi accorgo che Moser ha un tono di voce querimonioso, è un tipo, Moser, che non si arrende, ci prova e ci riprova in continuazione, trova sempre nuovi pretesti, ma oggi la sua insistenza è insopportabile. Parla di salute pubblica! Io esisto in quanto mi realizzo, scrive mio figlio. Ma in me non trovo traccia di insicurezza, scrive, in questo momento esiste soltanto l'insicurezza di Moser, e io penso: non ricordo di aver mai salutato Moser, neanche una sola volta, e adesso, senta, dottore, che cosa scrive: neanche mio padre ha mai salutato Moser, ma questo non impediva comunque al segretario comunale, ogni volta che io lo incontravo o che mio padre lo incontrava, di salutarci in maniera quanto mai ipocrita insinuandosi per un attimo sgradevolissimo in me o in mio padre al fine di contaminarci con quel suo saluto! I tipi come Moser s'insinuano in una persona e gli attaccano subito la lebbra, scrive mio figlio. Accettare un uomo del genere, scrive mio figlio, non sarà mai possibile, no, un uomo del genere non potrà mai essere accettato da me. Gli sento dire, scrive mio figlio, che ha già assunto le persone che gli servono per il raccolto nei terreni di Hochgobernitz, e dice: Naturalmente per incarico del sindaco e in nome della salute pubblicai Dice che domattina alle sei dovranno presentarsi tutti davanti all'ufficio comunale, si aspetta soltanto il mio permesso! Si aspetta il permesso dall'alto, il permesso che viene giù dall'alto di Hochgobernitz, e io penso che gli uomini i permessi vadano sempre a chiederli molto in alto, in cima a qualche Hochgobernitz! Ma io no, non permetterò nulla! Gli attrezzi e le macchine sono stati messi a disposizione dal Comune. Il ricavato, continua a ripetere Moser, guardandomi senza veramente guardarmi, scrive mio figlio, basterà, occhio e croce, a dar da mangiare a un paio di migliaia di persone per un periodo di tempo non chiaramente definibile, ma pur valutabile in più di sei mesi! No, dico io, e Moser dice che il raccolto di quest'anno è un raccolto eccellente! Il segretario è bravo a troncare precipitosamente le frasi troppo lunghe, perché sa che già le sue allusioni mi danno sui nervi. Prima che sia marcito tutto! dice Moser con aria patetica. Sento dire più volte che il fine è buono, ma questo è un concetto che mi trova assolutamente sordo, i fini buoni non esistono, dico. Per il raccolto da fare sui miei terreni è stato pattuito un compenso orario molto elevato, dice Moser, senza dire però a quanto ammonti questo compenso. In qualsiasi stagione dell'anno quest'uomo, penso, porta sempre lo stesso pastrano invernale, un pastrano invernale pesante e dozzinale, un po' alla volta, penso, il suo corpo, che io una volta ho visto completamente nudo, finirà per riempire, scrive mio figlio,» disse il principe «tutto quel pastrano da tempo di guerra. La carne di Moser sta riempiendo a vista d'occhio quel pastrano da tempo di guerra. Una volta, sulle rive della Ache, insieme alla moglie (nuda pure lei) ho visto il corpo di Moser, scrive mio figlio, ho ancora in mente il suo pene da bambino e la meschinità domenicale di quei coniugi che, credendosi soli dietro ai cespugli, rifuggivano dall'acqua chiara, e all'ora del tramonto, in un momento di perfida intimità, si abbandonavano alle loro idiozie. Bisognava incominciare subito il raccolto, disse Moser, altrimenti sarebbe marcito tutto. Di lì a breve sento ripetere più e più volte in cortile la parola disumanità] Continuo a sentire la parola disumanità1 Ora, al suo terzo tentativo di salvare Hochgobernitz - e io sto pensando che finché avrò vita, qui, sui miei terreni, nulla verrà più raccolto, a questo provvedo io per tutti i tempi a venire, io che anniento Hochgobernitz! - ecco che Moser ha già il coraggio di gridare la parola disumanità. La massa è diventata megalomane! La parola disumanità, che la massa ha gridato nel cortile di Hochgobernitz per bocca di Moser, mi fa riflettere per molto tempo, tempo che io, dopo aver tentato invano di ritornare alle mie letture e ai miei studi, occupo leggendo e rileggendo delle frasi che non capisco. Moser ha fallito, dico a me stesso, ma anch'io ho fallito, Moser fugge, ma anch'io fuggo. Dove fuggo? La sconfitta di Moser, la sconfitta della massa è infatti anche la mia sconfitta! Ma la mia sconfitta è molto più deprimente di quella di Moser. Passo dall'irritazione a una stanchezza che non porta a nulla, nulla che valga la pena. Guardo dalla finestra, scrive mio figlio, e vedo Moser fra una cinta di mura e l'altra. Poco tempo dopo io penso: eccolo il punto dove è passato Moser, dove Moser è passato andandosene, dove è passato andando via! Disumanità! Non ce la facevo più a rimanere nel castello, mi infilai gli stivali e uscii dal castello, prima andai sulle mura interne, poi su quelle esterne, quindi con il binocolo guardai giù per verificare fino a che punto tutto fosse già veramente marcito, così scrive mio figlio» disse il principe. «Non è forse una cosa strana,» disse il principe «un foglio così lungo, e io che vedo ogni parola che c'è scritta sopra? Per me dunque non è un mistero quello che succederà dopo la mia morte» disse il principe. «Per me tutto è assolutamente chiaro!».


Andammo sulle mura esterne del castello. «Vede?» disse il principe. «Laggiù c'è Hauenstein. E lì Stiwoll. E lì Koflach. Ieri sera» disse «sono stato giù nella gola. Avevo intenzione di entrare nel mulino, ma non sono riuscito a sopportare il rumore che facevano gli uccelli dentro la grande gabbia dietro al mulino, quelle strida spaventose. Sono risalito subito» disse. «Anche se non sono solo, sto pur sempre per conto mio. Mentre io con l'andar del tempo mi sono quasi completamente ritirato da qualsiasi compagnia e non ricevo più visite,» disse il principe «le donne sono prese sempre più assurdamente da una smania di compagnia che è addirittura bestiale. Lei sa che io ho addirittura smesso di giocare a scacchi con Krainer. Ho sospeso ogni tipo di relazione sociale. Frequento solo le persone che devo frequentare. Anche i rapporti di lavoro li ho limitati il più possibile. Non ti interessano forse di più i cereali, non ti interessa forse di più l'azienda nel suo insieme? mi chiedo molte volte. Chi lavora nei boschi, ecco le persone che mi interessano ancora, le persone che lavorano nei terreni dei Saurau. Nessun altro. Per le donne è diverso. Le loro serate del mercoledì mi sono insopportabili. E ancora più insopportabili le loro serate del sabato. Mi rifiuto ogni volta di farmi vedere durante queste serate. Ma fino in camera mia sento una che grida all'altra attraverso tutta la casa, e in una maniera che non muta da decenni, i nomi di coloro che salgono a Hochgobernitz per la serata del mercoledì o per quella del sabato, gente miserabile. La maggior parte della gente è in liquidazione fin dalla nascita. Gente repellente che viene dalla città, ma gente ancor più repellente che viene dagli immediati dintorni, vicini noiosi e ottusi. Già il martedì cominciano a spostare per tutta la casa sedie, panche e tavoli per gli ospiti del mercoledì, già il venerdì per gli ospiti del sabato. Sento un tintinnio di stoviglie, non riesco più a lavorare, non riesco più a pensare! Il rumore delle posate e dei bicchieri riempie di sé Hochgobernitz, mi capisce? Mi chiamano, ma io non rispondo. Vorrebbero la mia compagnia, ma io non ho intenzione di scendere. Queste serate del mercoledì costano un mucchio di soldi, ma ancora di più costano le serate del sabato. Per ore e ore riaprono le nostre tombe, ne fanno uscire il fetore, spalancano gli enormi cimiteri di famiglia distruggendone la pace con le loro chiacchiere. Spettegolano di tutta la regione, finché, stanchissimi, lasciano il castello con un senso comune di nausea, e tornano giù barcollando nelle loro bassure. Il mercoledì e il sabato quassù a Gobernitz domina la gentaglia,» disse il principe «l'umana deficienza. Onanismo della disperazione» disse. Guardando il proprio padre, il figlio poteva osservare, disse, la propria vita futura. Gli stessi scopi per cui era vissuto il padre diventavano immancabilmente gli scopi per cui sarebbe vissuto il figlio, i piaceri del padre quelli del figlio, il disgusto del padre verso il mondo il disgusto del figlio verso il mondo. Alla fine il figlio si prepara a seguire il padre nella morte, in una solitudine in cui l'unica frequentazione concessa è quella del proprio cervello. Guardando il proprio padre, il figlio vedeva la meschinità del padre, così come il padre aveva sempre davanti agli occhi la meschinità del figlio. Padre e figlio, guardandosi in faccia, si contemplano continuamente nella loro meschinità. «Ma sempre il figlio finisce inevitabilmente per diventare più orrendo, molto più orrendo del padre». Dalla finestra della biblioteca egli osservava spesso la sua famiglia intenta a divertirsi nel cortile. Chiusi dentro un mondo primitivo di vocaboli, i suoi parenti erano creature marce fin dalle radici, creature impensabili senza di lui. Questo pensiero gli permetteva spesso di dimenticare la propria noia e di provare un senso di indeterminabile ripugnanza per i loro corpi. «Questi corpi che provengono da me,» disse «corpi che io ho generato senza la minima simpatia per la vita». C'erano spesso dei perturbamenti che dominavano Hochgobernitz per settimane intere. «Qual è la loro origine?» chiese. «Sono perturbamenti che colpiscono non soltanto me,» disse «tutti siamo vittime di questi perturbamenti. Viviamo tutti insieme in un edificio che non è grande, come si potrebbe credere, in effetti è angusto, invece, e siamo lontani uno dall'altro centinaia di chilometri. Se uno chiama, l'altro non sente. Per settimane intere le condizioni del tempo opprimono il nostro sistema nervoso in maniera catastrofica, riducendolo a uno stadio primordiale. Finché a un certo punto, arrivati a uno stadio di assoluto abbattimento, solo allora, improvvisamente, ricominciamo a parlare, ci aiutiamo ì'un l'altro a riprenderci, cominciamo a capirci, per poi tornare, pochissimo tempo dopo, a non capirci più, a non capir più niente uno dell'altro. Chi fa il primo passo» disse «verso la confidenza, verso le attenzioni che si usano tra parenti? Mangiamo di nuovo insieme, beviamo insieme, parliamo insieme, ridiamo insieme, finché di nuovo non ci separiamo. Il tempo in cui si sta insieme dura sempre meno». Quest'anno suo figlio sarebbe dovuto ritornare dall'Inghilterra, non soltanto, come gli anni passati, per riposare, per farsi vedere, «non soltanto per i soliti discorsi e conversazioni di piena estate», non soltanto per lo spettacolo, «lo spettacolo in tre atti che si recita ogni anno a Hochgobernitz,» disse il principe «e ognuno di questi spettacoli ha un prologo e un epilogo», si aspettava suo figlio non tanto perché avesse modo di divertirsi, ma soprattutto perché avesse dei «colloqui» con suo padre, colloqui «di natura giuridica riguardanti la proprietà». Nelle lettere che scriveva quasi ogni giorno a suo figlio in Inghilterra, il principe aveva accennato varie volte ai cambiamenti che intendeva apportare a Hochgobernitz e sempre più aveva sottolineato la sua decisione di ampliare le dimensioni della tenuta e, nello stesso tempo, di semplificarne radicalmente la manutenzione e l'amministrazione. «Ma per iscritto non si possono illustrare delle trasformazioni così radicali,» disse il principe «fra l'altro non si tratta soltanto di Hochgobernitz, ma anche di Otz e di Terlan, delle cave di ghiaia di Gmunden e delle case di Vienna». Ma il tempo che suo figlio aveva trascorso a Hochgobernitz come al solito era passato in fretta, e mai avevano avuto un colloquio su quel tema. «Dice che probabilmente rimarrà a Londra ancora quattro o cinque anni» disse il principe. «Non so che cosa abbia in mente di fare, posso solo intuirlo. Quello che sta scrivendo è un lavoro politico da cima a fondo. Anche durante le vacanze l'ho visto impegnato la maggior parte del tempo nello studio di questo lavoro scientifico, che è in effetti un lavoro politico da cima a fondo. Mi ha detto però che quelle di quest'anno sono state per lui delle vacanze ideali. Anch'egli soffre qualche volta di incapacità di concentrazione» disse il principe «e mi ha fatto tornare in mente quanto sia utile interrompere un lungo lavoro scientifico portato avanti fra momenti di grande e anche grandissima tensione, in vista di un fine che è sì irraggiungibile, ma che, tuttavia, non viene mai perso di vista. Durante la traversata della Manica si era reso conto che Hochgobernitz gli era totalmente estraneo. Io però non ci credo. Mio figlio ha detto che Hochgobernitz non poteva che fargli paura. Da un lato, ha detto, era bene tornare a casa per le vacanze; facilmente, ha detto, un lavoro intellettuale a un certo momento può andare distrutto, solo perché non si è avuto il coraggio di interromperlo al momento e nel punto decisivo, perché non si è voluto dar retta alla natura». Questo momento decisivo per lui, per suo figlio, era venuto poco prima delle vacanze. Era stato giusto interrompere il lavoro nel momento in cui il principe gli aveva scritto: Vieni a casal «Ma io volevo averlo a Hochgobernitz, volevo averlo qui con me per uno scopo preciso. Questo scopo preciso non sono riuscito a raggiungerlo. Lui però si è mostrato soddisfatto di aver interrotto il suo lavoro, gli è sembrata una cosa utile» disse il principe. «Mentre mio figlio, partendo dall'Inghilterra, si avvicinava sempre più a me qui a Hochgobernitz, io vedevo chiaramente, nel rapporto fra noi due, un divario e un peggioramento che aumentavano e si rafforzavano di ora in ora. Poi mio figlio arrivò e io vidi chiaramente questi errori. Disse che stava lavorando a uno scritto ormai salvo. Mio figlio vive in una stanza d'affitto perpetuamente senza sole, una stanza spoglia e dozzinale, anche se a pochi passi da Hyde Park. Mio figlio deve arrivare allo sfinimento» disse il principe. «Solo quando è completamente sfinito, ritorna a casa». Il principe disse: «L'ultima volta sono riuscito a convincere mio figlio a fare una passeggiata fin giù nella gola, già la sera prima, cenando, lui aveva accettato di fare di mattina presto una passeggiata con me fin giù nella gola. E così fu: ci siamo alzati presto e siamo scesi giù nella gola. Fu una di quelle passeggiate» disse il principe «che io amo tanto, una passeggiata senza parole. Durante queste passeggiate, caro dottore, è ovviamente vietato dire anche una sola parola. Se qualcuno non si attiene alla regola di non dire neanche una parola durante queste passeggiate, costui io lo escludo per sempre da queste passeggiate senza parole. Ma quella mattina, mentre il paesaggio si oscurava perché stavamo scendendo giù nella gola, benché la gola cominciasse a rischiararsi, all'improvviso io stesso cominciai a parlare. Dissi a mio figlio che da molto tempo avevo nella testa un dolore, che c'erano quei rumori nella mia testa, che il dolore e i rumori mi diventavano sempre più insopportabili, gli dissi. Questi rumori, dissi, mi impedivano di riflettere in maniera esauriente su qualsiasi cosa. E proprio adesso, dissi a mio figlio, avrei avuto assolutamente bisogno di riflettere in maniera esauriente su una cosa che mi dava molto da pensare in quel momento, cioè su Hochgobernitz. Questi rumori, dissi, mi rovinavano tutto. Il dolore e i rumori, dissi, erano la stessa cosa. Era probabile, dissi a mio figlio quando fummo arrivati nella gola, che questi rumori, che questo dolore fossero i segni di una malattia mortale. Era probabile. Dissi: Ho addosso una malattia mortale, mio caro. E dissi: Non è triste tutto questo, mio caro? Lui però non disse nulla. Quando guardo la gente in faccia, vedo che la gente è infelice» disse il principe. «Sono tutte persone che portano per strada il loro tormento e così trasformano il mondo in una commedia, che naturalmente fa ridere. In questa commedia tutti costoro soffrono di piaghe di natura spirituale o di natura corporea, e godono della malattia che li porta alla tomba. Quando ne sentono pronunciare il nome, non importa se la scena si svolge a Londra, a Bruxelles o in Stiria, essi si spaventano, ma cercano di non mostrare il loro spavento. Il vero spettacolo tutta questa gente lo dissimula in quella commedia che è il mondo. Quando si sentono inosservati, sfuggono sempre a se stessi rifugiandosi in se stessi. Grottesco. Il lato più ridicolo, però, non lo vediamo mai, perché il lato più ridicolo è sempre quello tenuto nascosto. Ogni tanto Dio parla per bocca loro, ma usa le stesse parole volgari che usano loro, le stesse frasi impacciate. Che un uomo abbia in testa una fabbrica gigantesca o una gigantesca azienda agricola o un'altrettanto gigantesca frase di Pascal, non fa alcuna differenza» disse il principe. «È la povertà che fa gli uomini uguali, tutto, anche la più grande ricchezza diventa povertà in mano agli uomini. Negli uomini la povertà nel corpo come quella nello spirito è sempre, al tempo stesso, una povertà corporea e spirituale, il che, necessariamente, li rende ammalati e pazzi. Senta, dottore, per tutta la vita non ho visto che pazzi e ammalati. Dovunque io guardi, vedo soltanto dei moribondi, gente che va alla deriva e si guarda indietro per l'ultima volta. Gli uomini non sono altro che una mostruosa comunità di morituri, costituita ormai da miliardi di persone disseminate nei cinque continenti. Una vera commedia!» disse il principe. «Ogni uomo che vedo e ogni uomo di cui sento dire qualcosa, qualsiasi cosa, mi dimostra l'assoluta inconsapevolezza dell'intero genere umano, e che esso, il genere umano e la natura tutta sono una truffa. Una commedia! In effetti il mondo, come già è stato detto moltissime volte, è un palcoscenico sperimentale su cui si prova in continuazione. Dovunque guardiamo, vi è un continuo imparare a parlare, a camminare, a pensare, a recitare a memoria, a ingannare, a morire, a essere morti, tutto il nostro tempo se ne va in questo. Gli uomini non sono altro che attori che vogliono presentarci qualcosa che già conosciamo. Tutti imparano una parte» disse il principe. «Ognuno di noi impara continuamente una parte (la sua) o più parti, oppure tutte le parti possibili e immaginabili, senza sapere perché (o per chi) le stia imparando. Questo palcoscenico sperimentale è uno strazio unico e quello che vi si recita non diverte nessuno. Su questo palcoscenico tutto avviene però con grande naturalezza. Ma si cerca sempre un drammaturgo. Quando si alza il sipario, lo spettacolo è finito». E il principe disse che la vita è una scuola, nella quale si insegna la morte. E aggiunse che essa è popolata di milioni e milioni di scolari e di maestri. Il mondo è la scuola della morte. «Dapprima il mondo è la scuola elementare della morte, poi la scuola media della morte, poi, per pochissimi,» disse il principe «è l'università della morte». In queste scuole gli uomini sono ora maestri, ora scolari. «L'unico fine didattico raggiungibile» disse «è la morte». Suo figlio gli aveva detto che qualche volta a Londra si svegliava, si vestiva, usciva di casa e faceva di corsa Oxford Street, pensando che in fondo a Oxford Street ci fosse l'Ache dalla quale avrebbe potuto vedere Hochgobernitz. «Tutti gli uomini sono più o meno pazzi, persino mio figlio» disse il principe. Anzi la pazzia di suo figlio era veramente una pazzia straordinaria, «se è vero che egli fa di corsa Oxford Street pensando che là dove esso finisce si trovi l'Ache. Sempre e dovunque si può guardare in fondo alla Ache,» disse il principe «basta volerlo. Ogni uomo ha la sua Ache, ogni uomo ha un'Ache diversa. Anche a me» disse «capita spesso di svegliarmi, di vestirmi, di scendere in cortile, di uscire dal portone del castello e di andare sulle mura interne o su quelle esterne, ma in realtà vado in giro per Bruxelles». Il principe disse che in ogni testa d'uomo è insita una catastrofe umana commisurata a quella testa. Non occorre aprire le teste degli uomini per rendersi conto che in esse non c'è altro che una catastrofe umana. «Senza la sua peculiare catastrofe umana, l'uomo non può esistere assolutamente» disse il principe. L'uomo ama la sua sventura e se per un attimo ne è privo, fa di tutto per ritrovarcisi immerso. «Quando guardiamo in faccia gli uomini, vediamo che o si trovano immersi nella loro sventura o sono alla ricerca della loro sventura. Non c'è uomo senza umana sventura» disse. L'uomo, secondo il principe, si trova senza posa in una situazione estremamente pericolosa, solo che non si rende conto di trovarsi ininterrottamente e sempre contro la sua volontà in una situazione estremamente pericolosa. Proprio questo gli permette di esistere, ma, nello stesso tempo, fa di lui un ammalato. «Moribondi» disse il principe. «È probabile che i genitori concepiscano e trascinino nel mondo i loro bambini con la. più grande noncuranza possibile e immaginabile e unicamente per il gusto di vederli soffrire. Quando cerchiamo una persona» disse il principe «è proprio come se, per cercarla, ci aggirassimo a lungo in un immenso obitorio». Il principe disse che tutti ormai si esprimevano soltanto per soliloqui, «siamo nell'epoca dei soliloqui. E l'arte del soliloquio è un'arte molto più nobile di quella del discorso» disse. «Ma i soliloqui sono assurdi quanto i discorsi,» disse il principe «benché siano molto meno assurdi». Bisognava essere preparati all'idea che quando si accetta di parlare con una persona, «quando si fa un discorso con qualcuno (con se stessi!), perché all'improvviso si ha paura di morire soffocati» sempre quella persona fa di tutto per denigrarci. «Il che può avvenire nel modo più raffinato e sofisticato, ma anche nel modo più volgare. Sempre, quando gli uomini parlano fra loro, si denigrano a vicenda. L'arte del discorso è un'arte della diffamazione e l'arte del soliloquio è l'arte della diffamazione più atroce. Io penso sempre» disse il principe «che il mio interlocutore si sforzi di spingermi nel suo abisso proprio quando io sono appena uscito dal mio. I nostri interlocutori cercano sempre di spingerci contemporaneamente in tutti i possibili abissi. Tutti gli interlocutori si spingono a vicenda in tutti gli abissi». Spesso egli andava a letto avendo in mente una melodia classica oppure una melodia ancora informe, e si svegliava con la stessa melodia in testa. «Devo supporre forse» disse il principe «che questa melodia sia rimasta nella mia testa per tutta la notte? Naturalmente sì. Tu lo sai bene, dico sempre a me stesso, tutto è sempre e sempre è tutto soltanto nella tua testa. Tutto è sempre nelle teste di tutti. Esclusivamente nelle teste di tutti. Fuori dalle teste non esiste nulla. Di qualsiasi cosa io conversi con qualcuno,» disse il principe «per il fatto stesso che io converso con qualcuno, sono spacciato». Diceva che l'uomo adulto è infinito in linea di principio, mentre l'uomo non ancora adulto è infinito come la natura. Gli uomini si riducono in gran parte alle loro due caratteristiche principali, comperare e consumare. A ben guardare, nel corso dei millenni, gli uomini «hanno sviluppato, come vediamo adesso,» disse Saurau «soltanto questi due istinti, l'istinto di comperare e l'istinto di consumare. Anche se è sconvolgente constatarlo,» disse Saurau «anche se siamo inorriditi di fronte a questa sconvolgente constatazione!». Ognuno di noi continua a parlare un linguaggio che lui stesso non intende, ma che ogni tanto viene inteso. Il che ci permette di esistere e di essere perciò quanto meno fraintesi. Se esistesse un linguaggio in grado di essere inteso, disse Saurau, non ci sarebbe bisogno di nient'altro. «Siamo sempre riusciti a trovare asilo in qualche problema» disse. «Gli uomini camminano insieme, parlano insieme, dormono insieme, ma non si conoscono. Se gli uomini si conoscessero non camminerebbero insieme, non parlerebbero insieme, non dormirebbero insieme. Conosci te stesso? mi chiedo tante volte» disse Saurau. Una profondità è sempre anche un'altezza, quanto più profonda sarà la profondità dell'altezza, tanto più alta sarà l'altezza della profondità e viceversa. «Tu immagini» disse il principe «di guardare dentro un pozzo senza fine (o di guardare in un uomo senza fine), credi di guardare in un'altezza, in una grandezza senza fine, eccetera. Io credo» disse «che mio figlio sia a Londra perché so che è a Londra, credo di scrivergli una lettera perché so che gli sto scrivendo una lettera, eppure non so che è a Londra perché credo che sia a Londra, e così via… L'impossibilità è un fondamento davvero terrificante,» disse «e tutto è basato sull'impossibilità. Ho chiamato la più anziana delle mie sorelle, le ho detto di scendere con me fin sulle rive della Ache e lei è venuta con me fin sulle rive della Ache. Ma quando siamo ritornati indietro, ho pensato: è stata veramente con me laggiù sulle rive della Ache? Mi trovo in uno stato di continuo tormento, caro dottore. Non sono forse questi, non è forse tutto ciò che mi accade il segno di un brutale avverarsi della mia morte? Ormai» disse Saurau «non penso più, non penso mai a mia moglie» benché sua moglie fosse la persona che lui aveva amato di più al mondo. Si chiedeva perché nemmeno la sognasse e disse: «Da anni ormai non sogno più mia moglie. Non penso a lei e non la sogno. È andata via. Via dove? Naturalmente mia moglie esiste ancora, dato che sto parlando di lei. La tragedia, caro dottore, consiste nel fatto che nulla è mai veramente morto. A proposito di mio figlio: vorrei andare a prenderlo alla stazione, glielo scrivo, ma lui risponde che non vuole che lo si vada a prendere: all'improvviso ecco che entra dalla porta. Le sue azioni sono sempre state assolutamente imprevedibili. Abbiamo sempre condiviso, noi due, una predilezione, quella di leggere il giornale. Fin dall'inizio un'esistenza come quella di mio figlio era un'esistenza in sé compiuta. Non ho alcuna simpatia per espressioni come "percezione sensoriale" e così via, espressioni che mio figlio usa spessissimo. Al contrario di lui, sono un essere assolutamente nemico delle citazioni. Le citazioni mi danno sui nervi. Ma noi siamo chiusi in un mondo che cita continuamente tutto, prigionieri di quella citazione continua che è il mondo, dottore. E cosa ne pensa, dottore, di una frase come questa: "Bisogna ammettere l'esistenza del caso, non quella di Dio, come crede la massa"? Sono frasi che mio figlio cita di continuo. Tutte le azioni sono punibili, per questo è così facile far sì che immediatamente ogni azione diventi punibile. Per questo contro chiunque si può pronunciare una legittima condanna a morte e poi eseguirla. È una cosa che lo Stato ha capito. È il fondamento su cui poggia lo Stato. Io continuo a usare delle parole che mio figlio non sopporta, parole come malinconia, la parola fedele, mostruoso, la parola doloroso, la parola mortale. Il mio panteismo, la sua tendenza all'apostasia» disse il principe. «Mio figlio» disse «è effettivamente caduto in balìa di una pseudometafisica. È pur vero che noi siamo dei congegni di per sé inerti messi in moto da una mostruosa corrente galvanica. Siamo privi di uno scopo, per cui sempre più perdiamo l'orientamento, e questo pensiero per me negli ultimi tempi sta diventando ogni giorno più assillante, è un pensiero sciaguratamente concreto. Mio figlio» disse il principe «una volta si vestiva con grande eleganza, adesso gli è indifferente quello che si mette addosso. Ha indossato il proletariato, ma quel che mi ripugna è che può toglierselo di dosso in qualsiasi momento. È questo che spaventa. Prima era in grado di formulare rapidamente un buon giudizio, ora riesce con molta lentezza a pronunciarne uno sbagliato. La distanza fra noi due aumenta sempre di più, e cosi pure la tensione. Il mondo intero è diventato ormai completamente provinciale. Per molto tempo la natura aveva consentito che lui, mio figlio, crescesse senza scosse accanto alle sue sorelle, alle mie figlie. Ma ad un tratto, in maniera assolutamente sbalorditiva, quella stessa natura diede un impulso crudele alle sue attitudini intellettuali, come se ciascuna di esse fosse esclusivamente orientata (escogitata) contro le sue sorelle che erano ancora profondamente immerse nei trastulli e nelle frenesie dell'infanzia e dell'adolescenza. È diventato sempre più difficile, nel senso che non ha mai smesso di distanziarsi da noi. Noi, i suoi genitori, ci sforzavamo soltanto di accostarlo ininterrottamente alle frontiere della verità. Anche se la verità non potevamo percepirla, noi, sua madre ed io, almeno sapevamo dove sono le sue frontiere. Ogni volta, dopo un soggiorno in città, ci faceva sapere: sono felice/infelice! Dopo essere stato in campagna, invece, ci diceva che era infelice. Più tardi, durante gli studi universitari, ci abbandonava sempre, inopinatamente, anche dai nostri pensieri ad un tratto si alzava e se ne andava senza giustificarsi in alcun modo. Nell'età fra i ventuno e i ventitré anni si chiudeva in camera sua per giorni interi, non usciva dalla stanza nemmeno all'ora dei pasti per non disturbare i suoi pensieri. Ognuno di noi ha dei periodi piuttosto lunghi in cui in verità non esiste, e fa soltanto finta di esistere. Talvolta in un uomo l'esistenza effettiva e quella simulata si mescolano in un modo che gli è letale. A Hochgobernitz tutto è concentrato su mio figlio, ma mio figlio è soltanto soggiogato da Hochgobernitz, non è concentrato su Hochgobernitz. Qualche volta mostra di avere delle cognizioni insospettate che mi sbalordiscono, anche se sono cognizioni assolutamente inservibili. Quando tornerà a casa e sarà entrato in possesso dell'eredità, lascerà marcire tutto. È andato a scuola a soli quattro anni e mezzo, la sentiva come un mezzo per rilassare il suo spirito. Pensando a lui, lo colleghiamo sempre a una disgrazia. Se ci dicono che uno è precipitato giù nella gola, pensiamo che si tratti di nostro figlio. Un tipo d'uomo totalmente ontologico» disse il principe. «La sua ultima visita è stata per noi una tenebra che per quattro settimane ci è piombata addosso e ha pervaso tutto e tutti. Tutto Hochgobernitz è stato piombato nelle tenebre. Per varie settimane, prima che lui venisse, Hochgobernitz aveva fatto scendere le tenebre su mio figlio che ancora si trovava in Inghilterra; quando poi è arrivato a Hochgobernitz, è lui che ha fatto scendere le tenebre su Hochgobernitz, cioè su tutti noi. Anche il nervosismo delle donne finisce talvolta per invadere l'intero paesaggio. Nelle stanze di sotto, nelle stanze delle donne, regna l'ordine, nelle stanze di sopra, nelle mie, regna il disordine. Ma l'ordine è là dove c'è il disordine. A voler essere esatti,» disse il principe «devo ammettere che i metodi con cui mio figlio si allontana da me sono i miei stessi metodi. Ci sono degli uomini, infatti, che si accontentano della vita nel suo stato grezzo e non si preoccupano di lavorarla, gli basta la materia grezza. Nelle lettere di mio figlio tutto, tranne lui stesso, è fatto di cartapesta, i pensieri sono soltanto fondali che egli cala dalla parte superiore del palcoscenico del mondo (dell'universo!) e il suo cervello non è altro che un moderno e complicatissimo impianto di illuminazione del quale si vedono continuamente gli effetti su quei fondali. Attraverso questa sua esistenza teatrale di natura politica, io intravedo continuamente la sua tremenda situazione finanziaria. La follia è più sopportabile e il mondo è in sostanza un sistema totalmente carnevalesco. Per le donne il tempo è sempre troppo lungo, a me anche il tempo più breve sembra lunghissimo. Assoluta atarassia: ecco la mia situazione. Il suicidio» disse il principe «è un fenomeno climaterico. Abbiamo la più alta percentuale di suicidi dell'Europa centrale. Perché? Ora, a metà del secolo, non c'è tema che noi abbiamo trattato in maniera più eccelsa del suicidio. Tutto è suicidio. Quello che viviamo, quello che leggiamo, quello che pensiamo: tutto è avviamento al suicidio. I morti» disse il principe «sono più affascinanti dei non-ancora-morti. Qualunque cosa gli altri ci ricordino, qualunque cosa ci facciano notare, ci ricordano sempre la morte, ci fanno notare sempre la morte. Stiamo affacciati a una finestra nella notte e osserviamo dei funamboli che camminano su corde tese nell'infinito: chiamarli significherebbe condannarli a morte. Ma tutte le volte che parliamo di suicidio, tiriamo fuori qualcosa di comico. Mi tiro una pallottola in testa, mi sparo, mi impicco, sono espressioni comiche. Come posso pretendere da te, ho scritto ieri a mio figlio, che tu abbia fiducia in me, se io non ho fiducia in te da nessun punto di vista? Non ho fiducia in mio figlio da nessun punto di vista. È vero, i soldi che hai speso erano tuoi, ancora non mi hai dimostrato però di averli investiti bene nel tuo cervello, come si investono bene in banca o in azioni. L'idea del tuo cervello come un mercato azionario, come un istituto bancario, non mi ha mai convinto del tutto. Naturalmente uno può considerare il proprio cervello come una centrale elettrica che fornisce energia a tutto il mondo… Creda a me,» disse il principe «mio figlio mira soltanto ad avere il mio patrimonio. Non credo ai suoi studi. È deplorevole l'entusiasmo con cui si è lasciato coinvolgere a Londra in una truffa di portata mondiale e ci ha perso la testa. Mi irrita il fatto di vedere mio figlio seduto non in qualche buon ristorante allo Haymarket, ma nella sua stanzetta di studioso, sempre intento a scrivere il suo saggio. Del resto,» disse il principe «l'arte di saper ascoltare è quasi scomparsa. Ma vedo che Lei, dottore, quest'arte la conosce ancora benissimo». Rivolgendosi a me, il principe disse che mio padre doveva portarmi una volta a una delle battute di caccia che si tenevano sui terreni dei Saurau e che lui organizzava due o tre volte all'anno. «Le battute di caccia dei Saurau sono famose. Personalmente non me ne interesso più, ma per la mia famiglia si tratta di consuetudini assolutamente irrinunciabili. Noi sperimentiamo» disse il principe «costantemente sugli altri quello che non sperimentiamo su noi stessi. Continuiamo a uccidere delle persone osservando questo processo e il suo risultato. Le cose più tremende l'uomo le sperimenta costantemente sugli altri, quasi mai su (o in) se stesso. Noi sperimentiamo sempre sugli altri tutte le malattie possibili, uccidiamo continuamente altre persone adducendo motivi di studio. Stamattina» disse il principe «ho sentito improvvisamente il bisogno di stendermi sul pavimento, di stendermi completamente nudo sul pavimento. Mi sono svestito e mi sono disteso completamente nudo sul pavimento. L'ho raccontato mentre facevamo colazione, ma nessuno si è messo a ridere». I suoi pensieri e le sue azioni, durante tutta la sua vita, avevano sempre preso l'avvio dalle sue terre, avevano sempre preso l'avvio da Hochgobernitz. «Anche le idee più peregrine» disse «mi sono sempre venute pensando alle mie terre, a Hochgobernitz. Adesso Lei, dottore, potrebbe farmi delle domande, potrebbe chiedermi: Faccia dei nomi, nomi, nomi, casi precisi! Tu puoi addentrarti nelle scienze, puoi addentrarti nelle arti, se vuoi, ma poi finisci per spiegare tutto pensando alle tue terre, a Hochgobernitz» disse. «L'orizzonte è un concetto assurdo, ma estremamente utile. Stamane,» disse «parlando con la mia sorella maggiore, ho fatto una strana osservazione, le ho detto: Considero il poetico un concetto molto sospetto, perché suscita nella gente l'impressione che il poetico sia la poesia e, viceversa, che la poesia sia il poetico. L'unica vera poesia, ho detto, è la natura, l'unica vera natura è la poesia. È l'unico concetto che si sia dimostrato valido, dottore». Improvvisamente il giorno prima aveva sentito il bisogno di leggere alle donne un brano tratto dalle Affinità elettive e per questo motivo le aveva riunite tutte in biblioteca. Ma quando furono tutte riunite in biblioteca aveva avuto ad un tratto la sensazione che fosse assurdo leggere loro qualche pagina delle Affinità elettive e aveva letto un articolo "da un vecchio numero del 'Times' ". Volevo leggere alle donne il capitolo L'impalcatura era pronta…» disse «e invece ho letto loro come in Inghilterra si conservano le patate per l'inverno. Immediatamente dopo aver letto loro come in Inghilterra si conservano le patate per l'inverno, le ho fatte uscire tutte dalla biblioteca gridando: Al lavoro! Al lavora! Al lavoro, cretine! Poco dopo sono sceso in cortile e ho letto il capitolo L'impalcatura era pronta… per conto mio. Indisturbato. Incontaminato. Defemminizzato!». «Mi capita di vedere molto spesso mio figlio» disse «in un tratto di strada di Londra che io conosco bene dai tempi in cui io stesso studiavo a Londra. Alberi. Persone. Persone che sembrano alberi. Alberi che sembrano persone. Mio figlio indossa lo stesso vestito che indossavo io quando ero a Londra. Qualche volta egli passa con i miei pensieri per Trafalgar Square o per Hyde Park. Con i miei problemi. E io penso, ecco lui sta passando con i tuoi problemi per Trafalgar Square e per Hyde Park. Mio figlio sta seduto con i miei pensieri esattamente sulla stessa sedia di Hyde Park su cui stavo seduto io. E stando seduto a Hyde Park, sulla mia sedia di Hyde Park, egli pensa a Hochgobernitz come io pensavo a Hochgobernitz stando seduto sulla mia sedia di Hyde Park. Quando uno è a Londra e pensa a Hochgobernitz,» disse il principe «immagina che Hochgobernitz non sia per nulla cambiato, così come quando uno è a Hochgobernitz e pensa a Londra, immagina che Londra non sia affatto cambiata, che Londra non cambi, benché Hochgobernitz cambi completamente ad ogni istante. E io penso: ecco, lui adesso sta seduto sulla sedia di Hyde Park o sta girando per la Tate Gallery e pensa a me, perché io, quando ero a Londra e giravo la Tate Gallery per via di William Blake, pensavo a mio padre. Penso che il figlio che è a Londra pensi al proprio padre che è a Hochgobernitz, così come il padre pensa al proprio figlio che è a Londra. Uno che stando a Londra veda continuamente Hochgobernitz diventa, credo, malato e pazzo esattamente come uno che stia a Hochgobernitz e veda continuamente Londra. E io vedo e sento Londra» disse il principe «come mio figlio a Londra vede e sente Hochgobernitz. Ma si tratta sempre di una Londra diversa e di un Hochgobernitz diverso». Suo figlio credeva che solo a Londra il suo spirito potesse espandersi in tutte le direzioni, mentre lui, suo padre, credeva che lo spirito del figlio potesse espandersi in tutte le direzioni solo rimanendo a Hochgobernitz. «È pur vero» disse il principe «che, vivendo a Londra, lo spirito non conosce confini. Eppure, anche vivendo a Hochgobernitz, lo spirito non conosce confini». L'ultima volta che mio padre era venuto a trovare Saurau, questi aveva parlato ripetutamente di un «groviglio di linee», al principe tutto sembrava essere sempre un «groviglio di linee». «Nella mia testa c'è un groviglio di linee» aveva detto a mio padre. Una volta che tutti e due, dopo la morte dell'amministratore, erano andati a parlare con i fittavoli, Saurau aveva continuato a ripetere che i fittavoli erano «entità corporee» con cui lui «doveva fare i conti». Bisognava fare i conti con queste entità corporee, ripeteva, dicendo per esempio: «Bisogna fare i conti con questa entità corporea. Si tratta soprattutto di fare i conti con questa entità corporea». Disse che orrende privazioni stavano consumando rapidamente tutte le sue energie. Hochgobernitz era per lui come uno spazio vuoto nel quale egli era stato generato da una madre ignara. Diceva che per parlare usava sempre delle parole che in realtà non esistevano più. «Le parole con le quali parliamo, in realtà non esistono assolutamente più» disse Saurau. «Tutto l'armamentario di parole che usiamo non esiste assolutamente più. Tuttavia non è neanche possibile ammutolire completamente. Proprio no» disse. «Bisogna usare la vita come una scienza, una scienza finanziaria» disse. «Fra le qualità particolarmente spiccate che ben presto mi sono reso conto di avere» disse «c'è quella spregiudicata capacità per cui io prendo qualsiasi persona che mi vada a genio e la conduco attraverso il suo cervello fino a farla star male, perché quel meccanismo cerebrale attraverso il quale la conduco è comunque, dottore, un meccanismo micidiale. Mio figlio mi rinfaccia la mia vecchiaia» disse «e io gli rinfaccio la sua giovinezza. La mia vecchiaia è di per sé ingenua, mentre la giovinezza di mio figlio di per sé non è ingenua». Lui, il principe, si trovava sempre a dover spiegare a un mondo di stupidi che era un mondo di stupidi e faceva di tutto per dimostrare a questo mondo di stupidi che era un mondo di stupidi. Qualche volta questo mondo di stupidi diceva che lo stupido era lui. «È l'unica scappatoia che hanno» disse. «Certo,» disse il principe «per un lungo periodo della mia vita ho sempre avuto un amico, mio figlio invece no. Perché? La scienza che egli coltiva, gli amici li esclude. È una scienza che distrugge tutto, tutto, dottore, tutto quello che esiste. Un giorno questa scienza avrà distrutto tutto. Proprio perché deve distruggere tutto, è anche una scienza ingenua. Abbiamo a che fare soltanto con scienze ingenue. Sono sempre riuscito senza alcuna difficoltà a spartire per qualche tempo il mio cervello con un altro, mio figlio invece non riesce mai a spartire il proprio cervello con un'altra persona». «Mi rallegra la modernità che esiste dentro un cervello, la sua modernità interiore,» disse «quella esteriore mi disgusta. Mi rallegra la modernità che non si vede,» disse «quella invisibile, che fa progredire tutto, non quella visibile che non fa progredire nulla». La notte precedente si era alzato, era entrato in biblioteca e, rivolgendosi ai libri, aveva detto: Ecco i miei viveri! «Adesso però questi viveri sono tutti avvelenati,» disse «sono letali». Nel preciso momento in cui decise di lasciare le mura interne per ritornare a camminare con noi sulle mura esterne, constatò nel proprio cervello «una dolorosissima persistenza dei rumori. Qualche volta mi piace essere abbandonato a me stesso e invaso dai dolori». Spesso si affezionava per lungo tempo all'idea di essere morto e che i suoi più stretti congiunti non si accorgessero di questa sua morte se non dopo molto tempo. «Tutto quello che Le dico» disse «ha un carattere eminentemente esoterico. Non ho mai visto ridere mio figlio. E nemmeno sua madre. Dottore, Lei ha mai visto ridere Sua madre? No, Lei non l'ha mai vista ridere. E Suo figlio ha mai visto ridere la propria madre? No, non l'ha mai vista ridere. In passato mi capitava spesso di aver motivo di ridere. Adesso rido spesso di un riso senza motivo, Lei capisce, vero? Ben presto ho notato l'avversione di mio figlio contro le favole. E che invece le sue sorelle avevano una spaventosa predilezione per le favole. Trovo che mio figlio alleghi troppe prove. Tutti secondo me allegano troppe prove. Il caos è ormai talmente grande che tutti eccedono nell'allegare prove! Mentre però le sue sorelle danno sempre giudizi avventati, mio figlio non dà mai giudizi avventati. Di me però, caro dottore, Lei sa che io parlo soltanto fra virgolette, tutto quello che dico è detto soltanto fra virgolette! A mezza voce! Ogni giorno mi sveglio e penso: a chi devo lasciare tutti i miei beni? Visto che non c'è nessun altro da prendere in considerazione, finisco sempre per pensare che dovrò lasciare tutto al mio unico figlio maschio. Anche quando mio figlio tace, ho sempre la sensazione di dovermi difendere… Quando sono in compagnia di mio figlio, vengono alla luce tutte quelle mie qualità che a lui (ma anche a me) sono odiose. Queste insopportabili qualità vengono alla luce soltanto quando mi trovo in compagnia di mio figlio, altre invece quando sono in compagnia di un'altra persona, eccetera… Mi chiedo: ci sono anche in mio figlio delle qualità insopportabili che vengono alla luce soltanto in mia presenza? Noi oggi siamo in grado di scomporre nei suoi elementi ogni cosa, dottore, ma non la natura in sé. È sempre e solo una questione di nous. Gli uomini» disse «s'infilano ben presto in un'occupazione come se si infilassero in un vestito che li tiene al caldo, un vestito che portano per tutta la vita, finché non è ridotto a uno straccio sfilacciato, uno straccio che poi rammendano qua e là, foderano, allargano, restringono, per vari decenni, di loro spontanea volontà o perché vi sono costretti, ma il vestito rimane sempre lo stesso straccio sfilacciato. Si vedono popoli interi andare in giro vestiti di stracci ridicoli o completamente sfilacciati. Tutta l'Europa va in giro vestita di stracci completamente sfilacciati. Ognuno s'infila in un'occupazione come se si infilasse in un vestito, e anche una ricerca scientifica non è altro che un'occupazione in cui uno s'infila come se si infilasse in un vestito. La maggior parte di coloro che si sono infilati in un'attività intellettuale alla fine si ritrovano addosso soltanto dei ridicoli stracci. Noi tutti abbiamo addosso soltanto degli stracci molto ridicoli. Ieri, mentre stavo andando a fare la prima colazione,» disse il principe «mi sono immaginato di aver fatto tagliare tutti gli alberi. Guardo giù dall'alto del castello e non vedo che milioni di alberi tagliati. E allora mi viene da pensare che cosa succederebbe se questi milioni di tronchi io li facessi tagliare prima in pezzi da un metro, poi in pezzi da un centimetro e se, alla fine, ordinassi agli operai di ridurli in polvere! All'improvviso ho visto tutta la campagna coperta dalla polvere degli alberi e, camminando nella polvere degli alberi, sono sceso fino alla Mur e poi, a guado, sono arrivato fino al lago Balaton. Di gente non ce n'era, non ce n'era più. Probabilmente, pensai, sono tutti asfissiati sotto questa polvere che gli è piombata addosso all'improvviso. Ieri» disse il principe «le Memorie del Cardinale di Retz, che io studio da tanto tempo e che continuo a ritenere degne di essere studiate, mi hanno irritato. Ah sì, e come? mi chiederà Lei. Per colpa delle Memorie del Cardinale di Retz non sono riuscito a prender sonno. Guardo per ore le Memorie del Cardinale di Retz e non riesco a prender sonno. Ma non sono capace di alzarmi e di gettare il libro dalla finestra. Alla fine però mi alzo e getto le Memorie del Cardinale di Retz dalla finestra, rendendomi conto che sono stato cinque ore a guardarle, che mi hanno irritato per cinque ore senza che io le abbia gettate dalla finestra. Ci sono delle persone» disse «che muoiono con la massima decisione e che sono decisamente morte una volta per tutte, anch'io vorrei morire così, ma gli uomini per lo più muoiono in modo vago, vago per l'occhio, vago per il cervello, non sono mai morti davvero. Ci possiamo divertire come ci pare, ma quel che ci interessa è sempre e soltanto la morte» disse. «La cosa più evidente nella nostra umanità» disse «è che tutto succede nella morte». Poi disse: «Le mie sorelle, ma anche le mie figlie, cercano di tenermi in forma ricorrendo a vari imbroglietti più o meno grandi, a un imbroglio veramente infame: la loro sorveglianza. Ciascuna di loro ha capito da sé» disse «che il mondo crolla, se io all'improvviso non ci sono più. Se perdo la voglia di vivere e faccio esporre la mia salma nel padiglione. Farò esporre la mia salma nel padiglione come fu per mio padre. Un padre defunto» disse «effettivamente incute timore. Spesso passo molte ore a non pensare ad altro che al postino. La posta deve pur arrivare, penso. Posta! Posta! Posta! Una notizia! Un giorno arriverà certamente della posta che non ti deluderà. Da parte di chi? Non sarebbe piacevole, caro dottore, aprire una lettera e dire a se stessi: Bene, il ventiquattro sono morto? Immagino ad un tratto» disse «che la superficie terrestre diventi a poco a poco uno spazio completamente privo d'aria. Osservo delle persone che dapprima non sanno che cosa stia succedendo e si fermano in mezzo alla strada, come è naturale, altre invece, altrettanto naturalmente, continuano a camminare, camminano più velocemente, camminano più lentamente, camminano, camminano, entrano ancora nei negozi ed escono dai negozi, finché, all'improvviso, tutti si accorgono di questo evento, non sanno che cosa significhi, che cosa sia, e uno dopo l'altro, prima i più deboli e dopo i più forti, stramazzano al suolo. Ben presto la strada intera, tutte le strade sono coperte di persone morte soffocate, di cadaveri, tutto è immoto, di molti disastri provocati da automobili prive di autista non ci si accorge nemmeno più, giacché sono avvenuti dopo la totale estinzione dell'umanità, per cui non sono nemmeno più da considerare dei disastri… La fine consiste in un enorme fragore, cui fa seguito un naturale processo di putrefazione» disse. «Conversando,» disse il principe «la gente ha sempre l'impressione di stare in bilico su una corda e gli esseri umani hanno costantemente paura di precipitare a quel basso livello che ad essi si addice. È una paura che provo anch'io» disse Saurau. «Così tutti i discorsi si svolgono sempre fra persone in bilico su una corda che hanno costantemente paura di precipitare giù, di essere ricacciate a quel basso livello che è il loro. Naturalmente è una cosa ben diversa» disse Saurau «se mio figlio, stando in Inghilterra, a Londra, alla stazione Victoria per esempio, dice di odiare gli uomini o se io, trovandomi a Hochgobernitz, dico di odiare gli uomini, eppure si tratta comunque dello stesso ridicolo odio verso un'umanità ridicola. Se noi chiamiamo nostra madre o nostro padre stando alla stazione Victoria è esattamente come se chiamassimo nostra madre o nostro padre stando qui, a Hochgobernitz. Capisce? In realtà noi, se procediamo con coerenza, e soprattutto se stiamo molto attenti a quel che leggiamo nei libri, procediamo sempre attraverso paesaggi che conosciamo da gran tempo. Non arriviamo a scoprire nulla di nuovo. E così pure nelle scienze non scopriamo nulla di nuovo. Tutto è pre-scritto. Il freddo» disse il principe «è dentro di me, per cui non importa dove io vada, perché il freddo che c'è dentro di me viene sempre con me. Io gelo dall'interno verso l'esterno. In biblioteca però questo freddo si sopporta meglio che altrove. Tutti quei talenti stampati a morte» disse il principe. «In ogni libro scopriamo con orrore un uomo che gli stampatori hanno stampato a morte, che gli editori hanno pubblicato a morte, che i lettori hanno letto a morte. Per esempio,» disse Saurau «c'è una lettera da Bombay di un commerciante di lane, un amico di gioventù della mia sorella minore. La lettera si trova nello scrittoio di mia sorella. Io lo so. Tuttavia, pur sapendo da molte settimane che la lettera si trova nello scrittoio, chiedo a mia sorella: Insomma, dov'è la lettera da Bombay? E mia sorella, pur sapendo che io so che la lettera si trova nello scrittoio, dice: Nello scrittoio. Il modo con cui gli uomini si alzano per poi tornare a coricarsi» disse «è così ridicolo che, ovviamente, ci sconvolge ogni volta che lo osserviamo. Perché mai non dovrebbe sconvolgerci? Ogni volta che si alzano e si coricano la ridicolaggine è diversa. È ridicolo, per esempio, anche il modo in cui ora stiamo camminando sulle mura» disse il principe. «Si rende conto di quanto sia ridicolo? E Suo figlio se ne rende conto? Di fronte a certi interrogativi ci sembra di trovarci di fronte a una fossa aperta che venga rapidamente riempita di terra. È anche ridicolo che sia proprio io a notare questi aspetti ridicoli» disse. «Il mio carattere può essere definito a buon diritto un carattere incapace di amore. Ma con ragioni altrettanto valide io sostengo che il mondo è totalmente incapace di amore. L'amore è un'assurdità che in natura non c'è». Disse: «Nell'ambito delle trasformazioni che ho in mente di apportare a Hochgobernitz, tutto qui verrà ridimensionato. Un ampliamento dei terreni comporta un ridimensionamento della nostra esistenza. Spessissimo mi capita di pensare che sono stato abbandonato da tutti. E per me questo pensiero: essere abbandonato da tutti, è un pensiero assolutamente disgustoso. L'isolamento è la strada che porta gli uomini a diventare disgustosi. La vecchiaia è qualcosa di estremamente disgustoso. La giovinezza fa schifo, ma la vecchiaia è disgustosa. I miei parenti si aggirano qua e là come se fossero dei morti. Qualche volta mi viene voglia di chiamarli e di gridare loro in faccia di non essere sempre morti. Ogni giorno è la stessa situazione,» disse il principe «nella mia stanza fa freddo, perché fa freddo in me, a Hochgobernitz fa freddo, perché fa freddo in me, esco dalla mia stanza, esco da Hochgobernitz, esco da Hochgobernitz nel pensiero, Lei mi capisce, e trovo dappertutto lo stesso freddo. Molte volte penso che ho il dovere di scrivere a mio figlio a Londra quello che un giorno, quando io sarò morto, lo aspetta qui a Hochgobernitz: Freddo. Segregazione. Pazzia. Una micidiale tendenza al soliloquio. La follia nata da noi stessi in quanto follia del mondo, della natura. Mio padre» disse il principe «diceva spesso di voler vendere Hochgobernitz e tutte le terre che gli appartengono. Prima voleva disfarsi delle cave di ghiaia, poi delle segherie, poi dei mulini, infine di Hochgobernitz stesso, e aveva incaricato il suo amministratore, un certo Gombrowicz, di abbozzare un piano in base al quale l'intera proprietà sarebbe stata smembrata. Parlava per giorni interi della sua intenzione di liberarsi di Hochgobernitz, ma quando gli venivano in mente gli operai, gli operai delle cave di ghiaia, i mugnai, gli operai delle segherie che dipendevano da Hochgobernitz, e quindi da lui, da lui soltanto, di nuovo quel suo progetto lo mandava all'aria… Negli ultimi tempi diceva spesso: Sono stanco, sono stanco di Hochgobernitz, ma sono troppo stanco per rinunciare a Hochgobernitz, piuttosto rinuncio a me stesso. Mi viene in mente» disse il principe «che egli immaginava che l'amministratore si sarebbe unito in matrimonio con la mia sorella più anziana, era un'unione che lui considerava ormai prossima e sicura. L'amministratore non gli piaceva né dal punto di vista fisico né da quello intellettuale, ma questa unione lui la vedeva e cercava di favorirla. All'amministratore noi dobbiamo tutto, diceva sempre» disse il principe. «Poi l'amministratore precipitò nella gola, fu sepolto e ne venne un altro. Negli ultimi tempi» disse il principe «a mio padre faceva sempre più paura l'idea di dover liquidare Hochgobernitz. Ma alla fine tutto gli era diventato indifferente. La sua è stata una misera fine. Aveva contatto con le donne solo quando aveva fame e con me solo per insultarmi, per maledirmi. Faceva passare sotto la porta della sua camera un biglietto su cui scriveva con la matita rossa quello che desiderava mangiare o bere». Nelle ultime due settimane sul biglietto suo padre aveva scritto soltanto Pane e acqua. Non apriva più la porta. Non si lavava più. Qualche volta, al mattino, lo sentivano camminare su e giù per la sua stanza e parlare ad alta voce con se stesso, ma non riuscivano a capire neanche una parola di quello che diceva. All'improvviso, due giorni prima di suicidarsi, aveva smesso di camminare su e giù per la sua stanza e di tenere incomprensibili conversazioni con se stesso, nella sua stanza non si era sentito più niente. Ma la cosa non li preoccupava più, perché quel loro padre o fratello li aveva fatti diventare tutti completamente apatici. Per due settimane il vecchio Saurau aveva aperto le finestre della sua stanza soltanto per buttare giù nel cortile i bisogni che faceva in un secchio. Prima che si ritirasse definitivamente nella sua stanza, i familiari lo avevano visto di quando in quando seduto, completamente immobile, davanti alla scrivania nel suo ufficio. A notte alta usciva spesso dalla sua stanza e scendeva in ufficio per andarsi a sedere davanti alla scrivania. Suo figlio entrava da lui in ufficio e gli chiedeva se poteva essergli utile in qualcosa, ma il padre non apriva bocca. Al figlio sembrava che il padre avesse ogni volta qualcosa di importante da dirgli, ma che non riuscisse più a dirlo. Il vecchio Saurau rimaneva lì seduto per ore e ore, sempre più immobile, poi si alzava all'improvviso e saliva in camera sua. «Appena entrato in camera,» disse il principe «mio padre vi si chiudeva a chiave». Egli supponeva che il padre, chiuso in camera, piangesse. Gli ultimi giorni le donne non sapevano più che cosa fare per lui. «Quasi tutti i Saurau si sono uccisi,» disse il principe «la vita a Hochgobernitz è finita per quasi tutti i Saurau con il suicidio». Le donne avevano lasciato fare tutto a lui, al figlio del pazzo. Era toccato a lui portare tutto il peso della situazione. Il principe descrisse così l'ultimo giorno di vita di suo padre: Erano già le tre del pomeriggio e lui non aveva ancora sentito il benché minimo rumore proveniente dalla camera di suo padre. Gli sembrava sospetto il silenzio che regnava al piano di sopra, il piano del padre. Stava discutendo in ufficio con gli operai che lavoravano nelle cave di ghiaia, con quelli delle segherie, poi con i guardaboschi, e mentre stava contrattando con loro, continuava a pensare che a quell'ora non c'era mai stato tanto silenzio. Almeno di tanto in tanto gli capitava pur sempre di sentire suo padre camminare su e giù, «strascicarsi qua e là,» disse il principe «ma quel giorno, alla fine di ottobre del '48, niente». Dopo che se ne furono andati gli operai delle cave di ghiaia e delle segherie, e così i guardaboschi, lui si era messo a leggere attentamente e a riordinare vari documenti spediti dalle autorità regionali, «anch'essi relativi a un'alluvione» disse il principe, li aveva riposti in una cartella e poi era andato dalle donne in cucina e le aveva avvertite che saliva a dare un'occhiata. Di sopra aveva bussato alla porta, ma dall'altra parte non aveva sentito muoversi nulla, neanche dopo aver bussato più e più volte! «Padre!». Niente. Di solito suo padre rispondeva sempre, «sia pure in modo confuso». Niente. Allora il figlio era entrato nella camera di suo padre con la violenza, sfondando la porta con un paio di spallate. Aveva trovato il poveretto per terra, in mezzo alla stanza, la testa trapassata da una pallottola. Sui polsi del morto aveva notato delle piaghe che lui aveva subito messo in relazione con la pazzia del padre. Quando poi era venuto il medico condotto (il predecessore di mio padre), per prima cosa il principe gli aveva fatto notare quelle piaghe, ma il medico condotto aveva escluso qualsiasi rapporto fra la pazzia del padre del principe e le piaghe sui polsi. «Eppure io credo, dottore, anzi ne sono sempre più convinto» disse il principe «che esistesse un rapporto fra la pazzia di mio padre e i gonfiori ai polsi. Devo aggiungere» disse il principe «che ai medici non ho mai creduto e che neppure oggi credo all'arte dei medici, Lei infatti viene qui da me non come medico, lo ripeto, non come medico» disse il principe «e ancora oggi io credo che i medici siano le persone più lontane dalla natura umana, le persone che hanno meno dimestichezza con la natura umana». Immaginava che quel giorno, l'ultimo della sua vita, suo padre non fosse stato nemmeno più in grado di alzarsi e che si fosse soltanto trascinato qua e là per la stanza. A parte la follia, da settimane ormai suo padre rifiutava qualsiasi tipo di cibo, perciò di sicuro non era più in grado di reggersi in piedi. «Negli ultimi tempi era completamente privo di forze, assolutamente privo di forze, dottore» disse il principe. Guardando la salma di suo padre esposta nel padiglione non era difficile immaginare, disse poi il principe, quanto suo padre avesse sofferto «per poter morire, per ottenere finalmente il permesso di morire. Su tutto il suo corpo abbiamo scoperto le tracce delle crudeli sevizie che egli stesso si era inferto» disse il principe. Il suo corpo portava dappertutto il segno di crudeli sevizie. «Era un uomo di grandissima intelligenza» disse il principe. «Da quelli che un tempo erano stati i suoi libri preferiti,» disse il principe «dal Mondo come volontà e rappresentazione, per esempio, che lui dalla biblioteca si era portato in camera, erano state strappate le pagine più importanti. Le ha mangiate» disse il principe. «Schopenhauer è sempre stato per me il nutrimento migliore» aveva scritto suo padre un paio di ore prima di suicidarsi su un biglietto trovato da uno dei funzionari della commissione d'inchiesta e datato «22 ottobre '48». Aveva scucito la giacca, ritagliandola per il lungo in strisce sottilissime legate poi insieme per farne una corda. «Dapprima voleva impiccarsi,» disse il principe «ma all'ultimo momento gli era sembrato che fosse meglio spararsi. E così da ultimo ci ha comunicato queste due parole: meglio spararsi, scritte su un foglio di risguardo strappato dal Mondo come volontà e rappresentazione». Tutto lasciava supporre che suo padre si fosse sparato varie ore prima che il figlio lo scoprisse. «A quell'ora eravamo tutti laggiù sulle sponde della Ache a guardare la piena che si ritraeva» disse il principe. Il principe aveva istintivamente spalancato la finestra della camera di suo padre e si era chiesto per un istante se per caso non potesse essersi trattato di una disgrazia. «Ma era stato sicuramente un suicidio,» disse il principe «mio padre si è ucciso con assoluta determinazione. La sua pazzia non escludeva affatto l'assoluta determinazione di uccidersi». Ancora prima di informarne le donne, lui si era messo in contatto con il medico condotto. «Che costui non abbia voluto collegare le piaghe ai polsi di mio padre con la sua malattia» disse il principe «è un bell'esempio dell'ignoranza e dell'angustia mentale dei medici». Le donne stavano lì nella stanza, incapaci di fare alcunché di sensato, come se suo padre, uccidendo se stesso, avesse ucciso anche loro. La commissione d'inchiesta era venuta già alle quattro e mezzo, «dei giovanotti» disse il principe «che continuavano a parlare di altri casi, molto differenti dal nostro. Le donne» disse il principe «trascinarono il morto nel bagno per lavarlo. Mentre esse, seguendo le istruzioni del medico condotto, cercavano di stringere insieme con delle mollette da bucato il cranio fracassato, tappando con dell'ovatta imbevuta nella cera il foro d'entrata della pallottola, un paio di operai sgomberarono il padiglione dove poi esponemmo la salma di mio padre. Il padiglione era ancora pieno di dozzine di fondali, oggetti di scena, costumi, posti a sedere che erano serviti per lo spettacolo di quell'anno; esso, per via del maltempo, era stato rappresentato un paio di settimane prima non in cortile, bensì nel padiglione. Lui stesso era rimasto meravigliato, disse il principe, dalla velocità con cui gli operai avevano trasformato il padiglione in una camera mortuaria. Trasportando il morto attraverso il cortile dalla stanza da bagno fino al padiglione, loro, le donne, se l'erano lasciato sfuggire di mano, e allora il figlio aveva trascinato da solo il padre morto fino al padiglione. Esse lo avevano avvolto soltanto in lenzuola, coprendolo poi con altre lenzuola. Per molte ore il sangue aveva continuato a sgorgargli dalla testa, dalla bocca e dalle orecchie, per cui era stato necessario cambiare molto spesso le lenzuola. Il padre era già freddo quando il figlio era sceso in città per predisporre le cerimonie per la sepoltura. Le donne avevano informato la parentela. «Hanno tutte un'incredibile pratica in fatto di funerali» disse il principe. «Come causa del decesso avevano indicato una improvvisa pazzia. Improvvisa pazzia?» disse il principe. «A parte i nostri parenti più stretti,» disse il principe «i primi a rendere omaggio alla salma di mio padre nel padiglione furono i guardaboschi e gli operai delle segherie e delle cave di ghiaia. Nessuno di loro lo ha mai capito». Dopo il funerale le settimane erano trascorse velocemente. L'azienda era passata con tale rapidità nelle sue mani che per lui la cosa era stata dolorosa e facile insieme. «Sono solo» disse il principe, e disse ancora: «Non posso far La entrare in casa, perché tutto è in disordine, tutto è in grande disordine. Sono solo,» disse, e intanto noi, che stavamo camminando sulle mura interne, fummo colti all'improvviso dall'oscurità «ma nessuno se ne preoccupa. Nella mia solitudine, però, ho meno pretese io di tutti loro. Porto i miei vecchi vestiti, sono dieci anni che non mi compero più un paio di scarpe nuove! Rinuncio a tutto. Ieri sera,» disse «quando la mia figlia maggiore è tornata da una gita a Hohenwart, dove era andata per incontrarsi con il suo amico, mi sono reso conto fino in fondo della mia totale mancanza di pretese. Tu in realtà ormai non esisti più, ho pensato tra me, adesso esistono loro! Quando poi mia figlia ha cominciato a parlare di quella gita, ho pensato che io sono uscito dal mondo dei miei parenti per andarmene via, ma non so assolutamente dove; tanto mi sono allontanato da loro, sono scappato via a tale velocità che mai più potrò ritornare fra loro. Anche Hochgobernitz» disse «è ormai immerso sempre più nelle tenebre. Probabilmente non è lontano il momento in cui sarà totalmente immerso nelle tenebre. Per me è ormai chiaro» disse «che sono una persona che benché ancora qui presente, in verità non è più qui, perché è già morta. Le mie sorelle, a mio avviso, quando conversano con me conversano con un morto. Per le mie sorelle è già dubbio che io sia ancora vivo» disse. «Ma anche a me, quando parlo con quelli di questa casa, sembra proprio di parlare soltanto con dei morti, in quel tono di sussurro che vige qui ormai da anni. Questi morti si alzano, si lavano, fanno colazione, parlano, si separano di nuovo e di nuovo si rintanano nei loro letti» disse Saurau. «Una famiglia morta» disse. «Quando qualcuno che conosciamo bene si suicida» disse il principe «ci chiediamo: perché si è suicidato? Cerchiamo di trovare dei motivi, delle cause, eccetera… Così ripercorriamo all'indietro il più possibile quella vita che egli ha improvvisamente troncato. Per giorni interi ci poniamo il problema: perché si è suicidato? Ricostruiamo tutti i particolari. E alla fine siamo costretti a dire che tutto nella vita di questo suicida — adesso infatti sappiamo che nella sua vita egli è stato sempre un suicida, che ha fatto una vita da suicida — tutto è stato la causa e il motivo del suo suicidio. Il suicidio ci sembra sempre una cosa improvvisa. Perché? Perché, ci chiediamo, abbiamo potuto meravigliarci anche per un attimo solo che questa persona si sia suicidata? Composto nella bara esposta nel padiglione,» disse il principe «mio padre faceva l'impressione di un uomo spaventato a morte. La sua testa fracassata mi appare spesso, di notte, nelle situazioni più stravaganti. Le sue mani, che le donne avevano congiunto sopra le lenzuola» disse il principe «mi facevano un effetto penoso. Adesso mi capita spesso di pensare a lui. Ma il più delle volte non lo vedo vivo, lo vedo morto. Mi è estremamente difficile immaginarmi mio padre vivo. I miei rapporti con lui erano difficili, ma nessuno di noi due ne ha mai approfittato per far del male all'altro» disse il principe. - Sulle mura del castello, disse, riusciva a sopportare la solitudine, «perché sulle mura del castello sono completamente solo. Se sono sempre stato solo? Lei, dottore, dovrebbe poter dire qualcosa in proposito» disse il principe. «Ma no che non è solo, potrebbe dirmi, Lei non è un uomo solo, o qualcosa del genere. Oppure: Un padre è sempre più avanti del proprio figlio o, viceversa, un figlio è sempre più avanti del proprio padre, eccetera… Sì,» disse «qualche volta mi torna in mente una scena alla quale ho assistito una volta a Bruxelles: un uomo cammina e guarda le vetrine, cammina cammina continuando a guardare le vetrine, e alla fine entra in un negozio e poi esce da questo negozio, è un uomo simpatico, elegante, mi sembra, un uomo che fa piacere incontrare in queste ore del mattino a Bruxelles, e tu gli vai dietro e lo osservi; all'improvviso quest'uomo stramazza al suolo, è morto, tu vedi che è morto e rimani a osservare gli altri passanti che si affaticano intorno al morto non preoccupandosi affatto del morto, eccetera… e riprendi a camminare. I giornali» disse il principe «costituiscono il mio unico svago per intere settimane, per settimane intere la mia vita si svolge soltanto nei giornali. Entrando nei giornali, entro nel mondo. Se da un giorno all'altro mi togliessero i miei giornali, sarei un uomo finito» disse.

«Non c'è aria migliore di quella dei giornali, mi dico spesso. Nell'aria di montagna, nell'aria di alta montagna, è lì, dottore, che mi piace respirare soprattutto aria di giornale. Quando mi prende la mania dei giornali, per settimane intere perdo il controllo su Hochgobernitz. Leggere i giornali come favole che conosco perfettamente» disse il principe «è spesso per me il solo modo per poter vivere quassù». E disse: «Quando, per esempio, cammino da solo attraverso un bosco d'alta montagna, ho pur sempre un compagno che cammina con me, uno all'altezza della tematica che mi interessa, un uomo all'altezza della situazione. Non lo si vede, ma è uno che ascolta, è un succubo. Non ho mai trovato un interlocutore migliore di me stesso. Tutto quello che riguarda Hochgobernitz» disse il principe «passa per me sempre più in secondo piano. Con qualsiasi persona io stia conversando, mi chiedo ogni volta: che cosa vuole costui? Le cose che dicono gli uomini non mi interessano più. In autunno penso che l'inverno metterà a posto tutto, in inverno penso che sarà la primavera a farlo, in primavera l'estate, eccetera. Nient'altro. In realtà non succede più nulla. Io parlo con me stesso. Sono vecchio. Me le ha portate le pastiglie? Non è faticosissimo per Lei venire quassù da me? Passare attraverso la gola e venire fin quassù? Che cosa fa Suo figlio? Sono mesi che non vado più a Leoben. Non ho più neanche voglia di osservare gli uomini e tutto quello che essi toccano, che devono toccare, come se fossero strutture artificiali. Mi sono sfinito a forza di osservarli. Chi rimane a osservarli si sfinisce molto in fretta. All'improvviso mi accorgo» disse il principe «che sto marcendo, che sto marcendo di minuto in minuto, sento che marcisco, lo sento e voglio andar via da questo posto, perché all'improvviso ho preso coscienza che questo è un posto dove uno marcisce, ma è troppo tardi. Non riesco più nemmeno a gridare il mio nome. Vorrei gridare il mio nome, ma mi sento soffocare. Dall'alto guardo giù verso me stesso e constato: tu non sei più nulla. In realtà» disse il principe «sogno molto spesso di passare attraverso una sala sterminata per recarmi a un'udienza che è l'udienza più importante della mia vita. Dato che la sala che sto attraversando è una sala molto alta, una sala che dà veramente le vertigini, una sala sterminata, l'udienza non sarà possibile, e poiché la sala è sterminata, non mi sarà nemmeno possibile scoprire chi sia colui che mi concede udienza. Voglio sapere chi (o che cosa) mi riceva, chi mi riceverà, ma cammino e cammino senza riuscire a saperlo. Ci sono ore in cui dico a me stesso: non possiedi più nulla al di fuori del tuo sconforto e di questo devi accontentarti, ogni giorno puoi dipingergli addosso una faccia diversa, dico a me stesso, puoi mostrargli la lingua per vederlo ridere. La natura è infatti, come Lei forse saprà, un mostruoso surrealismo universale. Ma in realtà» disse il principe «chi sta ad ascoltare può avvicinarsi alla cosa di cui si parla soltanto fino ai suoi limiti estremi. Tutta la nostra vita non è che un avvicinarsi ai limiti estremi della vita stessa. All'improvviso,» disse «in una compagnia che è la più banale compagnia che ci si possa immaginare, si instaura un'atmosfera filosofica, per cui questa compagnia, già così banale, diventa ancora più banale. Le persone geniali» disse il principe «vedono solo in sogno la propria genialità, sollecitate da altre persone geniali che le persone geniali vedono soltanto nei propri sogni. Oppure» disse «tutto per me si è forse ormai trasformato in musica? Ho sempre di più l'impressione di essere caduto nelle mani di un tribunale supremo, attorno a me ci sono sempre dei giurati, ma non so proprio chi siano. Per questo motivo m'inchino di tanto in tanto. Non mi aspetto una condanna mite. Ma la condanna a morte mi sembra veramente troppo ridicola per la vita! Mi inquieta scoprire» disse il principe «che io in biblioteca estraggo dagli scaffali sempre più spesso gli stessi libri che leggeva anche mio padre. In me rivivono adesso molte qualità di mio padre». Ci eravamo seduti sull'unica panchina sistemata contro le mura esterne del castello. «Nei bambini» disse Saurau «i genitori giungono a perfezione» e poi, come guardando attraverso le tenebre: «Ci sono città in cui io vorrei vivere per molto tempo, per anni, per decenni, e ci sono altre città che non sopporto nemmeno per brevissimo tempo. Londra» disse «è l'unica città in cui io vorrei vivere per tutta la vita. A Londra avrei potuto svilupparmi nella maniera più profìcua» disse. «Io a Londra mi sarei sviluppato in maniera ben diversa da mio figlio. A Londra ho passato il periodo più felice della mia vita. Di Parigi ho paura. Parigi mi irrita, Londra mi tranquillizza. Parigi è nervosa, Londra è tranquilla. Ad Amburgo resisterei per un paio di anni, a Vienna di sicuro non più di un paio d'ore. Però non conosco Stoccolma, né Marsiglia, né Lisbona, città che certamente mi piacerebbero. A Roma vivo volentieri. Così a Varsavia. Ma per molto, per moltissimo tempo vorrei vivere soltanto a Londra. Sono un uomo fatto apposta per vivere a Londra e che invece è stato imprigionato a Hochgobernitz. Ho sempre considerato Hochgobernitz come un carcere assolutamente micidiale per me. Questo non significa che io non ami Hochgobernitz. Londra infatti io non l'amo. A Londra vorrei stare, vi avrei passato volentieri la vita, ma non l'amo, io amo Hochgobernitz, che pure considero un carcere a vita. Macchine calcolatrici, sono questo gli uomini, nient'altro che questo. Noi calcoliamo sempre, noi pensiamo tutto in rapporto ai numeri. Veniamo al mondo in un sistema di numeri e un giorno ne veniamo espulsi, scagliati nell'universo, nel nulla. Se parliamo per un po' con una persona,» disse il principe «ci assale lo spavento, perché ci rendiamo conto che stiamo parlando con una macchina calcolatrice. Il mondo ormai diventa sempre più un computer, nient'altro. Non serve a nulla se ci mostriamo indifferenti, noi siamo inclusi in tutto questo, non possiamo più uscirne». Disse: «Dato che le mie figlie sono uguali alle mie sorelle, un giorno le mie figlie saranno le mie sorelle. Sono stato sempre ingannato da tutti. Le silence éternel de ces espaces infinis m'effraie…» disse. «Tutto quello che non tengo in mano, mi viene tolto. Se mio figlio vende Hochgobernitz» disse il principe «è perduto». Mio padre disse: «Ma io non credo che Suo figlio venda Hochgobernitz». Il principe disse: «Non lo vende, lo liquida. Una cosa orribile» disse. «Di primo mattino» disse «tutti hanno paura di essere apostrofati, anch'io di mattina ho paura che qualcuno possa rivolgermi la parola, ho paura di essere la prima persona a cui si rivolge la parola. Ci sentiamo l'un l'altro quando ci alziamo, ci laviamo e ci vestiamo, ma abbiamo paura di doverci guardare in faccia. All'improvviso ci rivolgiamo l'un l'altro la parola e ne siamo distrutti. Distrutti per tutta la giornata. Così distrutti, poi, facciamo colazione, discutiamo di faccende che riguardano Hochgobernitz, dell'azienda, delle persone, delle possibilità di svago, di proposte di cibi. Di come riscaldarci meglio in inverno, di come stare più freschi in estate. Di spille per cravatte, di stracci per pulire le scarpe, di progetti di viaggio. Il corso della giornata è sempre stato molto deprimente a Hochgobernitz. Tornare in questa depressione, ecco ciò che teme mio figlio. È un rivoluzionario? Me lo chiedo spesso. È un sognatore geneticamente determinato per la politica? Mi sembra che egli sappia esattali mente che qui tutto è ridotto allo stremo. Estenuato. Da quassù,» disse il principe «con un certo sforzo posso vedere tutto, ma ormai non ho più voglia di fare sforzi. Mi è passata la voglia di fare qualsiasi sforzo. In certi giorni però, senza che io mi affatichi, l'atmosfera diventa talmente limpida che in essa si riflettono perfettamente tutti i caratteri possibili, e io ne godo. Sì, io ne godo. Un vasto orizzonte indisturbato. Ma ben presto anche questa situazione sfocia ovviamente nell'insopportabilità. Ogni cosa sfocia nell'insopportabilità. Non la sopportiamo più, siamo morti. È semplicissimo: non si riesce più a sopportare una certa situazione ed essa finisce. Tutto finisce. L'unica forza che esiste, come Lei ben sa, è la forza immaginativa. Tutto è immaginazione. Ma immaginare è molto faticoso, è micidiale. È un mercoledì pomeriggio,» disse il principe «immagino che sia un mercoledì pomeriggio, mio figlio è a Hochgobernitz e rimane nella sua stanza. Abbiamo fatto una lunga passeggiata, ed essendoci stancati siamo andati entrambi a coricarci, ognuno nella propria stanza. Non importa di cosa abbiamo parlato, non importa a cosa abbiamo pensato, ciascuno di noi durante la passeggiata ha sviluppato a modo suo il tema che più ci sta a cuore: Noi non ci comprendiamo. Durante la cena, cucinata e servita a tavola dalle donne, torniamo all'argomento di cui abbiamo parlato durante la passeggiata e vediamo che nulla ci divide se non l'età. Fuori fa caldo, è una calda sera d'estate, e io faccio a mio figlio la proposta di uscire di nuovo, di andare sulle mura, approfittiamo di questa bella serata, dico, andiamo. Andiamo tutti, anche le donne. In cortile e poi sulle mura ci rallegriamo della seguente congiuntura: sole già tramontato, castello, natura. Poi si fa buio e decidiamo di addentrarci nella tenebra, di scendere nella gola passando vicino ai Krainer. Ci affidiamo completamente alla tenebra. Ci siamo affidati alla tenebra come se fosse una scienza, dico. Mio figlio dice: Una scienza naturale. Io dico: Una scienza politica. La tenebra è una scienza politica. Tutti vorremmo che questa sera d'estate non avesse mai fine. Siamo felici. Siamo tutti felici. Una cosa che non concepisco». Spesso egli aveva la sensazione di poter morire in un attimo, «nello stesso attimo in cui lascio solo il mio corpo. Sembrerebbe che nutrire dell'ammirazione per una persona e poi vedere che questa persona distrugge nel modo più spaventoso l'ammirazione che concepiamo per lei, diventando ad un tratto davanti ai nostri occhi, e contemporaneamente dentro di noi, quello che essa è in realtà, sembrerebbe che questa in fondo sia un'esperienza totalmente distruttiva. Sembrerebbe che in verità al mondo non si senta dire nient'altro che: Questo è bene, questo non è bene, quella persona è così o così, eccetera… Spesso sentiamo dire anche: Quel tale è attento, quell'altro no. Quello parla correntemente il francese, quell'altro no, quello è materialista, quell'altro no, quello è comunista, quell'altro no, quello è un tipo poetico, quell'altro no, quello è ricco, quell'altro no, eccetera. Un vero schifo! Sì,» disse il principe «quando si parla negli strati più bassi della popolazione, compare sempre un lessico ridottissimo, negli strati più alti, invece, compare il lessico al completo. Compare tutto il lessico, un lessico enorme e micidiale che è sempre presente anche quando, anziché essere usato, viene represso. E poi c'è un altro fatto insopportabile» disse. «I compositori di sinfonie non pensano che alle sinfonie, gli scrittori agli scrittori, i costruttori edili ai costruttori edili, i ballerini del circo ai ballerini del circo, è una cosa insopportabile! Ma io per tutta la vita ho sempre temuto, ho sempre temuto per tutta la vita che il fetore del mondo mi soffocasse» disse. «Anche il fatto che la povertà resti sempre povertà e che la ricchezza resti sempre ricchezza è raccapricciante. È da tutta la vita che dico: Vorrei essere qui, ma vorrei essere anche lì, e sono infelice. Perché? Eppure è assurdo porre questa domanda, è inammissibile! Parliamo sempre come se avessimo già discusso di tutto. In effetti, dottore, tutto è già stato detto. Ma l'uomo continua a parlare, parla continuamente, continua a parlare del proprio disgusto ogni volta che parla del proprio destino. E i filosofi, mio caro dottore, anch'essi ci guidano sempre attraverso un museo che ormai conosciamo a memoria da ogni punto di vista, un museo di cui sappiamo tutto nei minimi particolari. Ed è un museo maleodorante quello in cui ci guidano ì filosofi appena ci occupiamo delle loro filosofie. Si sostiene sempre, di tutte le filosofie, che ciascuna di esse ha spalancato le finestre facendo entrare aria fresca in questo museo, aria fresca, aria fresca, dottore. Ma in realtà, nessuno dopo Kant è più riuscito ad arieggiare questo museo, nessuno, glielo posso assicurare! Dal tempo di Kant il mondo è un mondo non arieggiato. E la scienza imita la filosofia, si limita a catalogare una follia perfettamente nota. Viviamo di piccole sorprese che noi stessi ci facciamo perché siamo persone premurose, ma non Le sembra una cosa meschina? Ed è pure meschino che io possa dire a ogni cosa di sì, ma anche di no. Gli uomini si trovano sempre in un punto in cui è assurdo trovarsi. E non esiste assolutamente nulla di pratico, tutto è teoria. Nella musica stiamo ad ascoltare ciò che sentiamo nell'intimo. La verità è tradizione, non è la verità. Non sono mai riuscito a divertirmi,» disse il principe «e neppure a svagarmi. L'interpretazione letterale mi ha sempre rovinato tutto. Tutto viene rovinato dall'interpretazione letterale. E ormai si può nascere soltanto in un mondo di interpretazioni letterali. Quando apriamo bocca, commettiamo una diffamazione, una diffamazione che, al tempo stesso, è un suicidio… Ma qualora non aprissimo bocca, diventeremmo ben presto pazzi, folli, non saremmo più nulla. Tutto quello che diciamo nei nostri discorsi o nei nostri soliloqui noi lo tiriamo su, lo solleviamo con sempre maggior fatica dalla tenebra per poi addurlo come prova, perché la nostra esistenza consiste unicamente di prove, ma poi ci sfugge, e ripiomba nella tenebra. Solo qualche volta, però, nel conversare con gli altri, ci capita di accorgerci della reale brutalità della vita. Conversando, noi richiamiamo in vita i morti e uccidiamo i vivi. È un teatro che sfruttiamo fintanto che in esso possiamo ancora esistere. Quando sono in biblioteca» disse il principe «tutti credono che io, stando in biblioteca, mi occupi di libri, o per lo meno di atlanti, o per lo meno di carta stampata. Ma in realtà sono anni ormai che io non leggo più un libro e non studio più un atlante e sto in biblioteca soltanto per essere in me stesso. Il mondo è consumato da noi, è più il mondo a essere consumato da noi che noi dal mondo. Ma io, caro dottore, le sto raccontando una storia naturale! Le circostanze sono sempre diverse. La mia vita è sempre diversa, come la Sua o quella di Suo figlio o quella di mio figlio, eccetera… quando però mi chiedono, ma nessuno me lo chiede, che tipo di vita sia la mia vita, io dico: È la mia vita. Esistenze coerenti! dico. Il che suscita grandi risate. Disprezzo. Disapprovazione generale. Ho costantemente paura che mi chiedano che tipo di vita sia la mia vita, anche se so che nessuno mi chiederà mai che tipo di vita sia la mia vita. È una domanda che non mi si può fare. È una domanda che si fa per non essere costretti a farla, capisce? Già,» disse il principe «sempre di più mi rendo conto delle cause, divento ogni giorno più vecchio. E in fondo, quando io penso, e quindi penso agli uomini, sento la loro debolezza come una debolezza che mi opprime moltissimo. Ci sono per esempio dei periodi in cui non scrivo neanche una lettera. Non scrivo nemmeno a mio figlio. A nessuno. Non tengo nessun tipo di corrispondenza, non sono capace di mettermi in contatto con nessuno. Poi riprendo di nuovo a scrivere lettere, cartoline, giorno e notte, senza tregua, e in queste lettere e cartoline sta scritto soltanto che io non scrivo più né lettere né cartoline e che non voglio avere nessun tipo di contatto. Quando mi trovo in mezzo alla natura,» disse «penso che sia meglio non trovarmi in mezzo alla natura, quando non mi trovo in mezzo alla natura, penso che dovrei stare in mezzo alla natura. Sono queste le riflessioni che mi fanno invecchiare, che mi mandano in rovina». Io avrei desiderato entrare nel castello, vederne l'interno, ma il principe non voleva assolutamente, per nessun motivo, interrompere la sua «passeggiata». Il più delle volte lui e mio padre camminano per parecchie ore sulle mura esterne o su quelle interne e mio padre sta sempre ad ascoltare il principe. Quel giorno mio padre voleva essere a casa nel tardo pomeriggio, aveva dato appuntamento ad alcuni pazienti, i quali, pensai, lo stavano probabilmente già aspettando da parecchio tempo in ambulatorio. Ma il principe non ci lasciava andar via. Per mio padre non era possibile andarsene. Anche a me però interessava moltissimo quello che il principe diceva. Era sera, ma non faceva freddo, anzi, avremmo potuto tranquillamente toglierci la giacca. Ma io non volevo togliermi la giacca in presenza del principe. «La libertà è come una corazza che mi circonda lo spirito,» disse il principe «la mia è davvero una libertà totale, e da essa io mi sento soffocato. Io sono costruito interamente contro la realtà» disse. «Lei forse riderà, dottore, ma il più delle volte, ormai, trovo conforto soltanto nello sconforto. Se sono solo mi viene voglia di stare fra la gente, se sto fra la gente mi viene voglia di stare solo. Faccio degli sforzi enormi» disse «per capire gli altri come se la loro testa fosse la mia, ma le teste degli altri io non le capisco. In fondo sono un uomo privo di risorse. È senz'altro possibile che mi portino alla tomba le pazzie degli altri, le malattie degli altri, non le mie, o almeno non soltanto le mie e non soltanto quelle degli altri. Vede, dottore, la natura mi appaga completamente, ma io muoio soffocato da questa natura che mi appaga completamente. La realtà mi si presenta sempre come una rappresentazione orrenda di tutti i concetti esistenti. Effetti teatrali, penso sempre, in fuga davanti al pensiero, è così che penso sempre. Perché, comunque, ovviamente, siamo tutti condannati a pensare che non ci sia assolutamente nulla di reale. Proviamo, dicevano i primi secoli, con la filosofia, proviamo con la pratica, dissero i secoli più tardi, proviamo con la pratica e con la filosofia insieme, ci dice la natura. Recentemente poi» disse il principe «si è pensato che il progresso sia qualcosa di intimamente matematico. È una tendenza che porta inevitabilmente alla morte, e questo noi lo avvertiamo, qualunque cosa ci capiti di osservare. I nostri maestri sono morti, e con la loro morte, sempre precocissima, si sono sottratti alle loro responsabilità. I nostri maestri ci hanno lasciati soli. Non ci saranno maestri del futuro e quelli del passato sono morti. Guardando certe persone» disse il principe «si vede che in (o di) loro tutto è teoria, in altre persone non è né la teoria né la pratica a determinare continuamente la loro esistenza. Che cosa allora? Nessun uomo, comunque, ha mai la possibilità di esistere praticamente. Noi riusciamo a vivere grazie all'ipotesi che i problemi insuperabili di notte siano superabili di giorno. E questo ci permette anche di filosofare. Se uno di noi comincia a pensare come fa a camminare,» disse «ben presto non riuscirà più a camminare, se comincia a pensare come fa a ragionare di filosofia, ben presto non riuscirà più a ragionare di filosofia. E se comincia a pensare come fa a esistere, dopo pochi attimi la sua vita si dissolverà. Anche attraverso un individuo,» disse il principe «possiamo tracciare a nostro piacimento una linea di confine, e poi entrare dentro questo individuo aggirando il confine da una parte o dall'altra, per poi uscire di nuovo da lui senza valicare la linea di confine. Le civiltà» disse il principe «ci impongono dei compiti impossibili. Quanto più antiche esse sono, tanto più i compiti sono gravosi. Ma è la nostra civiltà che ci porta alla rovina. Così come le nostre religioni ci portano alla rovina, anche se noi affermiamo: È colpa della natura. È necessario» disse il principe «che noi distruggiamo, in qualsiasi modo e in qualsiasi momento, la nostra immagine del mondo, l'importante è che tutte le immagini del mondo siano sempre da noi distrutte. La ragione» disse «è dittatoriale, non esiste una ragione repubblicana. L'individuo pensante si ritrova sempre più in un immenso orfanotrofio, nel quale gli si dimostra ininterrottamente che egli non ha genitori. Siamo tutti orfani, non siamo solitari, ma sempre soli. Già adesso formiamo tutti insieme, e da molto tempo ormai, una universale legione straniera dello spirito. E poiché sappiamo che non possiamo esistere senza essere giudicati,» disse «noi desideriamo essere continuamente giudicati da un tribunale di implacabile severità, una severità che noi comprendiamo in ogni istante e che perciò riusciamo a tollerare. Ce la prendiamo sempre con noi stessi, come se fossimo proprietà del carattere, finché non ci stanchiamo. Le donne, ovviamente, conoscono meno bene quest'arte. Ma è un'arte che nessuno padroneggia fino in fondo. È possibile» disse il principe «che quassù ci sia un'aria metafisica?». Mio padre non rispose. «Continuiamo pure a camminare» disse il principe. «Non aspiriamo nient'altro che numeri e cifre, e di essi, ormai, possiamo soltanto supporre che siano la natura. Ogni oggetto si presenta a noi come un oggetto che ha la forma del mondo, ci ricorda la storia del mondo, qualunque sia l'oggetto che esso ci rammenti. Anche i concetti, che costituiscono la base della nostra conoscenza, hanno per noi la forma del mondo, sia la forma interna del mondo sia quella esterna. Nel nostro pensiero noi non siamo ancora riusciti ad andare al di là del mondo. Andremo avanti soltanto quando il nostro pensiero si sarà lasciato il mondo completamente alle spalle. È necessario per noi poter dissolvere qualsiasi concetto, sempre e comunque. L'infanzia» disse «non è una base sicura, perciò è micidiale. Come un tempo lasciavo spesso Gobernitz» disse il principe «e affidavo a un amministratore tutti gli impegni connessi a Hochgobernitz, così adesso lascio spesso il mio cervello affidandolo a un amministratore. Ogni situazione» disse «è sempre per un attimo una fatalità squisitamente politica. La mia coscienza è sempre per un attimo totalmente categorica, ipotetica, disgiuntiva. È senz'altro possibile che ci siano davvero dei pescecani che volano in aria, sopra i boschi, perché, in effetti, niente è fantastico… In tutte le lettere, benché non se ne faccia cenno,» disse il principe «io leggo l'amarezza di chi scrive nei confronti del proprio destino. Molto in profondità, molto al di sotto della superficie della sua disperazione, io vedo colui che si sforza di far giungere la sua voce in superficie, tentando di illudere le sue disillusioni, eccetera… Gli elementi di comicità o di allegria presenti nelle persone si manifestano con particolare evidenza nel loro tormento, così come un elemento tormentoso è presente nei loro momenti di comicità, di allegria, eccetera… A poco a poco le stelle, e i corpi celesti in generale» (che noi non vedevamo) disse il principe «finiscono per trasformarsi in quei simboli che per noi sono sempre stati. In questo modo ci illudiamo che esista un creatore. L'intelletto, caro dottore, è a-logico. La salvezza è là dove noi non andiamo, perché non saremmo capaci di tornare indietro. Quanto più grandi sono le difficoltà, tanto più volentieri io vivo, questa frase l'ho passata e ripassata più volte, per notti intere, attraverso il mio cervello, affilandola come una lama. Poiché determiniamo un oggetto mediante la rappresentazione, crediamo di trovarci nell'ambito dell'esperienza. Ma le apparenze, che noi concepiamo come i presupposti del nostro sapere, nella realtà sono impossibili. Abbiamo coscienza delle nostre capacità rappresentative, e questo ci deve bastare. Poesia, proprio perché, ragionevolmente, siamo tenuti a distanza dalla realtà. Se riusciamo a diventare consapevoli della problematica della nostra esistenza, crediamo di essere delle menti filosofiche. Siamo costantemente infastiditi da tutto ciò che tocchiamo, per cui tutto ci infastidisce sempre. Quella parte della nostra vita che non coincide con la natura è per noi un fastidio unico. Quando il tempo è cattivo (quando la visibilità è scarsa I) ci viene vivamente sconsigliato di inerpicarci sulle cime di una certa altezza, per non parlare delle cime più alte. Noi ci sentiamo stanchi, inoltre,» disse il principe «quando la speculazione filosofica ci ha stancato. Ovviamente ognuno di noi si difende ogni volta dicendo: Io non c'entro con quelli! e ne ha pieno diritto. Anch'io, infatti, continuo sempre a dire che non c'entro, che non appartengo a niente e a nessuno. Tuttavia, per un puro caso, ci troviamo insieme. Ci stanchiamo rapidamente se non ricorriamo alla menzogna. È nella terra che si trovano le fondamenta, negli strati più bassi, questo noi lo sentiamo senza dover riflettere, e la paura ci assale. Pretendiamo sempre troppo dagli altri?» chiese il principe. «No,» rispose a se stesso, «penso di no. Io mi faccio incontro a qualcuno e penso: che cosa stai pensando? Posso, mi chiedo, fare un tratto di strada insieme con te nel tuo cervello? La risposta è: no! Non possiamo camminare insieme per una stessa strada in un unico cervello. Noi ci costringiamo a non percepire il nostro abisso. Eppure, per tutta la vita, non facciamo altro che guardare giù, al nostro abisso fisico e psichico, pur senza percepirlo. Le nostre malattie distruggono sistematicamente la nostra vita, come un'ortografia che, diventando sempre più difettosa, distrugga se stessa». Il principe disse: «Ognuno discute ininterrottamente con se stesso e dice: Il me non esiste. Ogni concetto implica in sé un numero infinito di altri concetti. Fin dai primi anni della mia infanzia ho sempre sentito il bisogno di addentrarmi nelle mie fantasie, e ci sono sempre entrato nelle mie fantasie, sono andato molto lontano in esse, più lontano, sempre, di coloro che ho portato con me dentro alle mie fantasie, le mie sorelle, per esempio, o le mie figlie o mio figlio. Come non osano addentrarsi davvero all'infinito dentro la realtà, così non osano neppure addentrarsi davvero all'infinito nelle fantasie, nella sfera fantastica. Noi parliamo molto di malattia e di morte,» disse il principe «e anche dell'attenzione che gli uomini dedicano alla malattia e alla morte, perché per noi la malattia, la morte e il concentrarsi sulla malattia e sulla morte sono fatti inspiegabili. Perché dovremmo sacrificarci adattandoci a uno spettacolo esteriore, a un'azione esterna che si svolge alla superficie della vita? Perché denigrarci così stupidamente se siamo fatti per lo spettacolo interiore, eccetera? La nostra componente mistica ci porta direttamente alle allegorie dell'intelletto: una cosa disperante. Ieri» disse il principe «mi hanno chiesto dove si trovi veramente Hochgobernitz. Si trova a est o si trova a ovest? mi hanno chiesto. Ho risposto subito: A est! E ho detto: A est, naturalmente! Ma poi, tornando a casa, ero stato giù nella gola!, ho pensato che avrei potuto anche rispondere: A ovest! A ovest, naturalmente! A quelli che ci ascoltano» disse Saurau «diciamo sempre cose che loro sanno e che però non capiscono. Noi invece capiamo molte cose che pure non sappiamo» disse. «Ovviamente contro le nostre debolezze, dottore, dobbiamo fare qualcosa. Mi chiedo soltanto, in relazione a mio figlio, quali siano i compiti di un uomo che la natura ha dotato di un talento indubbiamente eccezionale, anche se di tipo politico, soprattutto quando costui, come vorrebbe far credere, onora suo padre e idealizza sua madre (e non perché la madre sia mortai). I genitori pensano di avere il diritto che i loro figli conducano una vita, se non eccezionale, almeno decorosa. Anch'io ho dunque questo diritto, penso. Eccola qui, dunque, la tua educazione: un giovane che studia a Londra e diventa un esaltato sognatore che si sente a proprio agio soltanto all'estero… un uomo che si immerge in categorie politiche e con ciò si allontana sempre più, a quanto mi sembra, da me e quindi da se stesso, e intanto logora le proprie energie, un carattere già equivoco, che alle mie lettere per molto tempo non risponde affatto e poi risponde con due parole. E un simile figlio io lo accetto! Tutte le lettere che mio figlio mi scrive» disse il principe «in realtà non sono delle lettere, sono brevi segnali di divieto che mio figlio piazza tutt'intorno a sé, del tipo Vietato l'ingresso! eccetera… Queste lettere che non rispondono a nessuna delle mie domande, provengono dalla maleodorante atmosfera della sua stanzetta di Londra. Mio figlio è uno studioso inselvatichito che studia un problema già studiato da gran tempo, le masse per esempio, che oggi non interessano più a nessuno. La massa non interessa più a nessuno, perché ormai la massa è al potere. E io penso che ora questo mio figlio se ne sta seduto in Inghilterra e non pensa neanche per un solo istante di avere un gros^ so debito da saldare… Un torpido svolazzare qua e là in tutti i campi del sapere; è questa, mi sembra, l'esistenza di mio figlio, un'esistenza che non lascia spazio alla buona creanza. Per quanto riguarda mio figlio e me, i rapporti fra noi due, non ho mai avuto il piacere di una corrispondenza regolare, mai. In realtà mio figlio scrive soltanto per chiedere denaro, questo è tutto. A lui non interessa che noi qui si vada a fondo, e neppure che la nostra esistenza sia incatenata a Hochgobernitz. Quello che scrive, sono brani tratti da un'opera che è stata abborracciata da un uomo qualunque, brani che mi dimostrano come mio figlio stia sperperando inutilmente le sue doti non meno che il mio denaro. È sempre più evidente che egli ha imboccato la strada di quella follia di massa che è la politica di massa, ridicola sì, ma non al punto da non poter distruggere tutto in futuro. Sempre mio figlio» disse il principe «ci ha fatto soffrire tutti in maniera spaventosa. Ma naturalmente» disse «faccia pure quello che vuole. Le scienze si possono anche contemplare come un paesaggio» disse il principe «nel quale tutte le stagioni sono sempre contemporaneamente presenti. Il nostro Stato» disse «è un ordinamento giuridico basato su tutte le possibili volgarità». E aggiunse che ogni regime dimostra alla fin fine la propria inettitudine. «Noi dormiamo,» disse «e sogniamo un mondo che viene creato contemporaneamente da parecchie altre teste, oltre che dalla nostra, per lo più teste di sconosciuti, e di questo ci meravigliamo perché non possiamo sapere che noi non siamo sempre soltanto noi. Di quando in quando scopriamo qualcuno, più spesso in città che in campagna, nel cui volto non riusciamo a trovare assolutamente nulla che ci procuri dolore. Eppure non possiamo dire che si tratti di uno stupido. Spesso cammino su e giù per la biblioteca e penso che gli altri pensino che io cammini su e giù meditando, mentre io cammino su e giù per la biblioteca assolutamente senza un pensiero in testa. Come i bambini davanti ai loro genitori spesso per spaventarli fanno finta di dormire o addirittura di essere morti, così io faccio finta di meditare. Molte volte, mentre conversiamo con qualcuno,» disse il principe «ci tranquillizza l'ipotesi che a rendere il mondo del nostro interlocutore più grande del nostro per altezza e profondità, sia soltanto una piccola, micidiale differenza. Noi siamo infatti senz'altro in grado» disse «di esaminare una cosa contemporaneamente dal punto di vista dell'infinità della sua larghezza e da quello dell'infinità della sua lunghezza. Nelle nostre lettere ci raccontiamo l'un l'altro quello che ci sembra importante - spesso soltanto piccoli particolari, al fine di descrivere alcuni dettagli della strada che la nostra persona percorre inoltrandosi verso la propria fine - confidando che un'altra persona stia percorrendo lo stesso tratto di strada. Certe persone che non ci sono simpatiche non le lasciamo recitare nello spettacolo che abbiamo allestito; se vi si introducono, noi le scacciamo. Se uno si rende perfettamente conto dell'aspetto meccanico del proprio corpo, non riesce più a respirare. Negli ultimi tempi» disse il principe «più che altro io guardo attraverso la gente come si guarda attraverso un congegno meccanico, e sempre mi rendo conto esattamente dei punti del meccanismo in cui questo loro congegno comincerà a sfasciarsi. Vedo anche molto chiaramente che sono proprio io a tenere in piedi tutti questi meccanismi. Dapprima uno arriva nelle città per andare a trovare molta gente,» disse «gente che già conosce, gente che non conosce ancora, pensa di doverla andare a trovare, questo è il motivo per cui è venuto in città, e tramite contatti umani o addirittura contatti personali cerca di allargarsi su tutte le città e alla fine sul mondo intero. Poi, invece,» disse «uno arriva nelle città per non andare a trovare più nessuno, per nascondersi meglio, per potersi concentrare meglio su se stesso, si addentra nelle città, fra le masse, e in esse scompare. Io sogno molto spesso di arrivare in queste città dove posso scomparire, sparire, sono sogni entusiastici,» disse il principe «e proprio per questo sogni di estinzione. Il pensiero viene raffigurato sempre come una costruzione nella quale uno può abitare per periodi più o meno lunghi, tutti parlano di costruzioni del pensiero, in cui tutti, i filosofi come i loro seguaci, entrano ed escono con fare più o meno agitato. Ma il pensiero non si può raffigurare. Ecco, per me, che cos'è il mio pensiero: delle velocità che non riesco a vedere». Il principe disse: «Le mie sorelle sono state generate contro voglia, come me. Mio padre ha tentato spesso di convincermi del contrario, e così pure mia madre. Ma in quei casi io avevo un improvviso terrore di tutti e due». Disse: «Degli uomini non ci sconvolge tanto la bruttezza, quanto la mancanza di discernimento. Spesso cammino per ore intere attraverso il bosco con la mia sorella maggiore senza dirle neanche una parola. Mia sorella non si accorge che per tutto il tempo che camminiamo attraverso il bosco senza dire neanche una parola non facciamo altro che parlare di lei. La sua noia è una noia esattamente opposta alla mia: è il tentativo di entrare in una certa cosa e nello stesso tempo di esserne già fuori (matrimonio, speculazione filosofica, eccetera). Una volta» disse il principe «i miei rapporti con la gente erano sempre buoni all'inizio, ora all'inizio sono sempre pessimi. È meno faticoso passare da rapporti inizialmente cattivi a rapporti buoni piuttosto che, viceversa, passare da rapporti inizialmente buoni a rapporti cattivi. Se ascolti attentamente,» disse il principe «sentirai che, in ritmi pensati apposta per te, è sempre la tua storia che ti viene raccontata e che ti danno ad intendere. È un'osservazione che puoi fare dovunque, in qualsiasi luogo, soprattutto in viaggio, nelle grandi stazioni ferroviarie, nelle sale d'aspetto. Quando leggi il giornale, senti che è la tua malattia quella che sta scritta nel giornale e che riga per riga ti indebolisce, ti domina, ti uccide. Se camminassimo sempre in un'unica direzione,» disse il principe «ci troveremmo nel modo più naturale in mezzo alla natura. Spesso mi hanno chiesto perché io non abbia un cane. Perché a Hochgobernitz non ci sia un cane. Io allora dico sempre: Perché qui il cane non c'è. La tenebra dipende totalmente dall'elemento geometrico. Sempre dovremmo contemplare tutto dal punto di vista geometrico, da esso dipende ogni cosa. L'aspetto ridicolo degli uomini» disse il principe «consiste in realtà nella loro totale incapacità di essere ridicoli. Non ho ancora mai visto un uomo ridicolo, benché sia ridicolo tutto quello che fa la maggior parte degli uomini che io vedo. In questa casa» disse «si ha l'impressione che tutti siano ragionevoli e non ho mai sentito parlare di questa casa se non come di una casa di persone ragionevoli, ma in realtà non c'è traccia, non può esserci traccia di ragionevolezza nella maggior parte delle persone che incontriamo e delle quali diciamo che sono ragionevoli. Hochgobernitz è un posto ragionevole, ma non vi è traccia di ragionevolezza, eccetera. Per interi decenni ho cercato di piantare degli alberi dappertutto, dovunque ne volessi avere, e in effetti ho piantato, come lei può osservare, centinaia, migliaia, centinaia di migliaia di alberi. Adesso di alberi non ne pianto più e mi limito a vedere le centinaia di migliaia di alberi che ho piantato, mi limito a guardarli. Guardare soltanto non dà soddisfazione. Tutte le strade sono strade tracciate dall'uomo. Nei momenti migliori tu parli una lingua» disse il principe «che tutti comprendono, ma non c'è nessuno che comprenda te». Disse: «Le somiglianze con me (con tutto) arrivano spesso a un tale punto che io non so più se sono là (dove non posso essere) o qui, dove non sono più. I volti invecchiano, così come invecchia la loro volgarità, la loro finezza» disse. «Di notte sento degli uccelli stranissimi, e anche se so di quali uccelli si tratta, di notte sono uccelli completamente diversi. Fuori, davanti alla mia finestra, sono diversi. Se io invece li prendo in mano, sono uccelli che tutti conoscono. Il mio rapporto con gli animali è tale da indurmi a pensare che essi parlino il linguaggio degli uomini, un linguaggio puramente emotivo, e che pratichino il pensiero umano. All'animale io attribuisco un senso filosofico, e mi sembra che esso sia sempre sul punto di padroneggiare perfettamente la grammatica della natura, ed è per questo che io gli animali li temo. Le persone colte pensano sempre di dover proteggere la natura, benché ne siano completamente soggiogate» disse. «Questa notte in sogno ho visto dei viaggiatori i quali mi hanno raccontato che nel bel mezzo del loro viaggio per un istante è stato abolito ogni limite di velocità, per cui tutto è diventato possibile. Quell'istante c'è stato veramente. La vita, in quanto preparazione alla morte, è lunga esattamente quanto serve. Noi parliamo con un tale che è lontano da noi centinaia, migliaia di chilometri, senza che questo tale a cui ci rivolgiamo lo sappia. Facciamo delle domande in sua vece. Rispondiamo per lui. Quando poi lo incontriamo, ci sembra che egli abbia avuto effettivamente con noi una conversazione che ce lo ha allontanato ancora di più. Io parlo spesso in modo tale da lasciare al mio interlocutore molto tempo per riflettere, per stare con se stesso» disse. «Quando si trova nell'alta società, la bassa società ha l'impressione di poter essere utile, mentre nella bassa società l'alta società pensa di essere inutile» disse il principe, e aggiunse: «Gli uomini, presi singolarmente, si possono considerare senz'altro come un romanzo a puntate scritto su un quotidiano e stampato in mezzo alla natura. All'arbitrio raccapricciante che regna nelle redazioni il mondo attribuisce tuttavia ogni giorno, come si può vedere, un grandissimo valore. E i poeti» disse il principe «utilizzano quella verità che ai filosofi. non può servire». Da molto tempo ormai stavamo camminando lentamente sulle mura esterne, quando il principe disse che era in grado di darci alcuni chiarimenti su tutta la zona circostante, «anche al buio» disse. «Ma se faccio questo tentativo, il fascino che ne deriva è soltanto per me, per questo non Le do alcun chiarimento sulla zona circostante. È soltanto la tenebra, infatti, che ci permette di camminare, adesso e nel punto dove stiamo camminando» disse, e poi aggiunse: «Spesso sento arrivare mio figlio e allora chiedo alle sue sorelle, alle mie sorelle, se lo sentano arrivare anche loro, dato che io lo sento distintamente. Ma loro non lo sentono. Io mi affaccio continuamente alla finestra per vedere se arriva. So che arriverà solo fra quattro, cinque ore, ma io passo tutto il mio tempo a guardare fuori dalla finestra. Lo sento arrivare per giorni interi. Per giorni interi sento che sta avvicinandosi a me, mentre io sempre più sono deluso di lui. Da anni ormai vedo chiaramente davanti a me anche la mia morte, vedo come essa si trasforma lentamente da uno spegnersi immaginario in uno spegnersi reale, come l'avvicinarsi di mio figlio si trasforma da fantasia in realtà. Passo delle ore a contemplare la quiete che regna quassù. So che quassù c'è sempre stata questa quiete, una quiete totalmente immutabile che ha cambiato me, che mi cambia, che cambia tutti noi. Il tempo, dottore, è la quiete stessa che si oppone alla natura. Una volta a poco a poco» disse il principe «a Hochgobernitz ho spostato ogni giorno indietro di un'ora tutti gli orologi, finché noi qui a Hochgobernitz a un certo punto ci trovammo indietro di tre giorni. Avrei potuto senz'altro spostare indietro gli orologi di Hochgobernitz di parecchi giorni, di settimane, di anni. Mi sono proprio divertito. Chi riesce a vivere ogni giorno un po' più a lungo, sia pure soltanto qualche istante di più, alla fine si ritrova in mano una vita intera» disse il principe. «L'abitudine di togliere dalle pareti una volta alla settimana tutti i quadri di Hochgobernitz per cambiarli di posto, e di procedere secondo un sistema che conosco soltanto io, quattro all'inizio, due in fondo, poi di nuovo sei all'inizio, otto in fondo, è un'abitudine che in tutti questi anni non ho perduto e conservo tuttora. Per le mie sorelle, come pure per le mie figlie io sono un 'apparizione: quando mi vedono, appaio loro come un pazzo. Beffa infame della loro perfidia,» disse «ottenuta ricorrendo a quel repertorio di immagini visive che qui a Hochgobernitz ognuno di noi ha a disposizione. Quando penso a tutti quei balli in costume, alle feste mascherate, alle feste in giardino, alle feste nel padiglione, a tutti gli spettacoli che noi abbiamo allestito e visto quassù! Alle migliaia di persone che sono venute quassù, che sono ritornate giù! Ogni tanto queste persone io le sento arrivare, ripartire, comparire, sparire, le vedo muoversi con un ritmo che è il ritmo della mia vecchiaia. Le sento ridere. Sento le loro risate, spegnendomi. Quassù le risate si sentono più che mai nitidamente come un che di primordiale» disse il principe. «Hochgobernitz come centro di puro divertimento,» disse «di giochi di prestigio. Qui, una volta,» disse «i più famosi prestigiatori del mondo si sono esibiti nelle loro specialità, qui hanno cantato i cantanti più famosi, hanno recitato gli attori più famosi, i più famosi scrittori hanno letto brani dalle loro opere, i più famosi filosofi hanno discusso di filosofia, qui una volta si riunivano i virtuosi più celebri di tutte le arti. I virtuosi più eccelsi del mondo si sono dati appuntamento quassù per un ultimo addio. Qui una volta» disse il principe «si poteva trovare tutto quello che al mondo esiste di più costoso, di più ambizioso, di più sbalorditivo. In certi momenti si sono sentite parlare qui tutte le lingue del mondo. Hochgobernitz» disse il principe «vista all'apice della sua storia dentro la storia. Il tormento» disse il principe «è come un secondo corpo dentro il mio corpo, un intero secondo corpo che riempie tutto il mio corpo. Sogno gli studi strabilianti che ho abbandonato completamente, perché ormai non studio più. Io qui non faccio altro che camminare avanti e indietro sognando gli studi che ho abbandonato, la vita che ho abbandonato. In piena autonomia cammino avanti e indietro in questo carcere costruito quassù in cima. Cos'è mai la tradizione se non una commedia recitata perfettamente e tuttavia insopportabile, una commedia ormai incomprensibile, che raggela le nostre risate nell'aria e raggela pure noi? Qui si recita uno spettacolo, qui tutto è raggelato, eccetera. È uno spettacolo fatto di stati d'animo, di fantasie, di filosofemi, di idiozie, tutti gelidi, di maschere sorprese e irrigidite nel momento culminante della loro follia. Camminando lungo queste mura, su queste mura,» disse il principe «sento aprirsi le crepe e annunciarsi il crollo totale della fantasia del mondo. Ciò che mi è strettamente imparentato mi ripugna, ma non ciò che conosco alla perfezione. La quiete si dilata nella mia testa e finirà per farla a pezzi. Sento che persone molto ben informate parlano di me con molta serietà e mi fanno intendere la loro angoscia. Per me, invece, la debolezza è sempre stata una forza, il mio essere deriva dalla debolezza. Quando sogno, prima prendo di mira il mondo nella sua interezza e soltanto poi considero il sogno che sto sognando sottoponendolo a un'elaborazione rigorosamente scientifica. La sensazione, frequente in tutti noi, che un uomo possa sottrarsi alla morte per un periodo di tempo più o meno lungo io l'associo a una rozza accozzaglia di lunghe frasi non sempre comprensibili. I libri mi hanno fatto sempre capire quanto io sia infelice, senza scrupoli, inaffidabile, vulnerabile, inutile. Un popolo intero» disse il principe «vive da secoli in uno stato di assoluta incoscienza, e in questo stato crea la Storia, mai come adesso ho preso coscienza con tanta chiarezza di questa situazione. Per capire il senso più profondo di più oggetti collegati fra di loro, non ci basta capire a poco a poco il senso più profondo, la storia, di ogni singolo oggetto. Ho elaborato in me stesso un'idea, un'idea per la quale ho lavorato (in senso metafisico) tutta la vita, per la quale ho vissuto, sono esistito, sono stato maltrattato e denunciato. Nei nostri nervi, dottore, i nessi vengono violati, per cui si arriva al caos totale. Probabilmente c'è un'altra persona che adesso, in questa stagione e in questo secolo, sta camminando come noi sulle mura, ora su quelle interne ora su quelle esterne (è il dottore, forse?), tutto dipende dalle sue risorse intellettuali, e anch'egli forse può dire a se stesso quello che dico io: non ho nulla. Nulla. Il che non mi fa star male fisicamente, mi tormenta soltanto. Per me tutto va visto unicamente come una geometria di controversie, dubbi, sofferenze, insomma una geometria del tormento» disse il principe. «Sto in piedi davanti alla finestra e vedo me stesso nel cortile, sulle mura interne. Mi osservo. Mentre mi osservo, ora mi capisco ora non mi capisco. Ora ho quattro anni, ora ne ho quaranta. Gioco con me stesso, io gioco, investigo, rifletto. Mi chiamano, è una sera d'estate, mia nonna mi sta chiamando, poi mio nonno, mia madre, mio padre. Essi mi chiamano. Stando alla finestra io li vedo, uno dopo l'altro, mio nonno, mia nonna, mio padre, mia madre, mia moglie. Mentre sto alla finestra, le stagioni cambiano continuamente. Tutti mi chiamano. Mio padre indossa il suo vestito invernale, mio nonno il suo cappotto invernale, mia nonna la sua pelliccia di montone, mia madre il suo costume da cavallerizza. Mia moglie io non la vedo, la sento, però non la vedo. Per un'ora intera rimango in piedi davanti alla finestra a osservare questa scena, è una scena che si estende in lontananza, su uno sfondo remoto, e io la modifico a mio gusto e piacimento. Se all'improvviso mi mettessi a gridare, questa scena svanirebbe» disse il principe. «Chiudo la finestra, distolgo lo sguardo dalla scena, ma la scena continua. La dimentico, ma essa continua. Senza che ci sia io a modificarla, a disturbarla continuamente. Adesso non c'è assolutamente più nulla che la possa disturbare. Mi capita spesso» disse il principe «di vedere mia moglie, essa pronuncia molto distintamente delle frasi che diceva anche quando era in vita, io però non riesco a vederla. Talora per qualche istante sono convinto che lei sia presente, mi volto, ma non vedo nulla. Mio suocero, suo padre, quando ormai era morto, le è apparso spesso qui a Hochgobernitz, l'ha incontrata, lei ha potuto vederlo, ha potuto parlargli. Ma io mia moglie la sento soltanto, non la vedo mai. Quando parla, ho l'impressione che la sua lingua, nel periodo trascorso dopo la sua morte, sia cambiata, anche se lei dice le stesse cose che diceva da viva. La sua lingua, penso, continua a invecchiare, anche se lei è morta. Morta? Non è senz'altro una di quelle persone che, quando sono morte, sono morte totalmente, mia moglie si è spenta, ma non è morta. Però un saggio su questo argomento non lo scriverò più, anche se per molto tempo ho avuto voglia di scriverlo, anche se per molto tempo ho avuto in testa un saggio che descrivesse questo fenomeno. Ormai non ho più in testa nessun tipo di saggio. Sento mia moglie dietro dì me, mi volto, lei non c'è, la chiamo correndole dietro, in corridoio, giù nell'atrio, la chiamo in tutte le stanze di sopra e in quelle di sotto: le mie sorelle mi prendono per pazzo, anche le mie figlie mi prendono per pazzo. Mi dicono di tornarmene in camera. Chi dà loro il diritto di rispedirmi in camera? Io però non mi permetto di chiedere spiegazioni e vado subito in camera mia. Dopo la sua morte, il padre di mia moglie le era apparso spesso e dappertutto qui a Hochgobernitz, lei non l'ha soltanto veduto, ha potuto vivere la presenza del padre» disse il principe. «Quando invitavo degli ospiti per conto mio, da anni ormai avevo l'impressione di invitare dei nemici. Nemici della mia testa, soprattutto. Era tutta gente che pensava di potersi permettere di entrare in combutta con le mie sorelle e con le mie figlie. La sfrontatezza con cui i miei ospiti, tutti, si badi bene, passano, dapprima nascostamente, poi palesemente, dalla parte delle donne è una sfrontatezza che io pago, e questo l'ho sempre pensato, tutto ciò che mi irrita io lo pago. Così a un certo punto non ho invitato più nessuno a Hochgobernitz. Tutti temevano le mie conferenze,» disse il principe «perché al mattino, al momento della colazione, avevo l'abitudine di tenere un discorso, di mettere in tavola un filosofema. Più che altro mi interessavano gli argomenti politici, per vari decenni, appena mi svegliavo, o meglio, già prima di svegliarmi veramente, gli argomenti politici mi mettevano in moto. Quando incontravo una persona, dovunque si trovasse, una persona alla mia altezza, cominciavo a discutere di politica. E difendevo immediatamente le mie idee, ancor prima di aver sentito l'altro esprimere le sue, perché tanto io già le conoscevo prima ancora che lui le esprimesse. Non ho bisogno che uno apra bocca per capire quali siano le sue idee politiche. Io le sento in anticipo, le sento immediatamente. Questa persona ha questa e quest'altra idea politica in testa, pensavo ogni volta che incontravo qualcuno, l'ho pensato di tutti, per tutta la vita. Comunque tutti avevano e hanno paura che io rivolga loro la parola. Io disprezzo infatti, come Lei sa, tutto ciò che non richiede fatica, è il mio principio supremo, l'unico che io abbia. Esigo sempre il massimo sforzo. Ma del massimo sforzo la gente ha paura. Ho sempre avuto quasi esclusivamente nemici di famiglia. Ho freddo, dico alle mie sorelle,» disse il principe «e le mie sorelle mi portano il soprabito. Dico di nuovo che ho freddo e loro mi portano il cappotto, torno a dire che ho freddo e loro mi portano gli stivali di pelo e il berretto di pelliccia, e allora io comincio a svestirmi, a sentirmi bene, sono salvo, penso, non ho più freddo, sono completamente nudo, non ho più freddo, e per questo loro si agitano. Il freddo che c'è qui a Hochgobernitz ha sempre avuto un enorme influsso sulla mia vita, ha sempre avuto un grande influsso su tutti. Il freddo associato all'umidità di queste vecchie mura. Anche quando ero immerso in pensieri complicatissimi, ho sempre sentito, constatato questo freddo e questa umidità. Sì,» disse «probabilmente si potrebbe far risalire tutto ciò che mi riguarda a questo freddo e a questa umidità. Ci sono al mondo dei caratteri tra loro totalmente differenti che, in piena autonomia uno dall'altro, subiscono però una continua evoluzione determinata da fattori climatici. Di molte persone si può dire che sono cresciute in una casa asciutta, di molte altre che sono cresciute in una casa umida, o calda o fredda. La Sua casa paterna era una casa fredda, si potrebbe dire a molti, e a molti altri: Lei è nato in una casa asciutta, eccetera. I caratteri si abituano al clima, il clima li modifica adattandoli al clima. Esistono filosofie che potevano nascere solo in case asciutte e non in case umide, e strutture di pensiero la cui origine risiede in mura molto fredde. Noi assumiamo lo spirito delle mura che ci circondano. Vedo spesso dei gruppi di persone e penso: questo gruppo di persone viene da una zona umida, quell'altro da una zona asciutta. Di certi gruppi penso che provengano da territori completamente inariditi. Nel corso dei secoli la natura esterna ha invaso completamente il castello di Hochgobernitz. Mi capita spesso di pensare che io, in mezzo a questa natura, ci passo anche le mie nottate, che dormo in mezzo al freddo e all'umidità che corrispondono a Hochgobernitz. Cosi mi capita di pensare, vivendo in questa umidità e in questo freddo. Hochgobernitz è la dimostrazione evidente che un edificio può annientare delle persone che siano completamente in balìa di questo edificio. E neppure serve abbandonare l'edificio che minaccia di annientarci, per esempio andar via dal castello, Hochgobernitz ci circonda dovunque noi andiamo, anche se ci spingiamo fino a Londra o a Parigi esso ci schiaccia. Non ha senso partire per paesi lontani. Perfino a New York ho avuto la sensazione sempre più netta che fosse Hochgobernitz a schiacciarmi, non New York. Comunque è senz'altro meglio sentirsi schiacciati da Hochgobernitz stando a Hochgobernitz che non stando a New York. Ci piace sempre sentire qualcosa di cattivo,» disse il principe «qualcosa che sia ancora più cattivo di quello che pensiamo noi. Soltanto per questo motivo stiamo ad ascoltare gli altri e ci inseriamo nelle loro conversazioni. A Hochgobernitz talvolta il silenzio» disse «mi permette di distinguere nitidamente tutto, tutto quello che esiste a Hochgobernitz, di vedere tutto il passato e tutto il futuro come se fossero il presente. Per qualche momento, se voglio, quando c'è questo silenzio, riesco a distinguere una dall'altra, senza alcuna fatica, tutte le voci che ho sentito a Hochgobernitz e anche quelle che non ho mai sentito. La veemenza della natura esteriore, che sempre trae origine dalla testa della natura interiore,» disse «corrisponde alla quiete. In effetti» disse il principe «una volta mi sveglio all'improvviso nel cuore della notte e vedo un enorme biglietto attaccato al firmamento, un biglietto su cui sta scritto in caratteri latini: Aperto. Le mie risate svegliano la casa, tutti si precipitano alle finestre, ma non riescono a vedere nulla. Io dico: Aperto! Aperto!, è scritto lassù, lassù c'è scritto davvero: Aperto!, ma loro non vedono nulla, mi prendono per pazzo e io li rimando tutti a letto. Com'è naturale,» disse il principe «ho un timore sempre più grande di me stesso. Ho veramente paura. Cerco di distrarmi da me stesso, ma ormai ci riesco solo sporadicamente. Eppure, ancora un paio di anni fa, che soddisfazione provavo a scendere giù nelle valli o giù nella gola, e inoltrarmi nel bosco di montagna se il tempo era bello, o nel bosco di pianura lungo il fiume nei giorni di pioggia! Spesso mi sono sentito felice contemplando la superficie della Ache, immedesimandomi nel ritmo di quell'acqua che scorreva, rapito dal poetico riflettersi della superficie terrestre! Mi bastava il bosco di pianura lungo il fiume, mi bastava l'Ache per non sentirmi disperato. E se l'Ache non mi bastava, se il bosco di montagna o il bosco di pianura non mi bastavano, c'era pur sempre la biblioteca. Libri che inducono alla contemplazione. C'era pur sempre la mia testa, il mio cervello, c'ero io. E oggi? Per anni mi è bastato pensare a mio figlio, alla mia propria giovinezza, mi è bastato uscire dalla mia stanza e andare giù dalle donne. Un pasto insieme a loro. Una conversazione con loro. Una volta ero convinto che l'infinito fosse vicino. E oggi? Oggi tutto è molto lontano. Sempre più lontano. Sono forse arrivato una volta a pochi passi dal luogo dove si trova la spiegazione di tutto? Disteso sul letto, molte volte mi vergogno di esserci, di esserci ancora. Mi vergogno per ore e ore, poi mi alzo perché ho fame e scendo giù dalle donne, mangio qualcosa e allora mi sembra di essere incappato in una vergogna due volte, cento volte più grande. La vita ha l'alito sempre più cattivo. E io ho paura di essere ad un tratto scoperto nelle mie sensazioni. La mia vita è fatta di tentativi per non essere scoperto. Mi hanno scoperto? Smascherato? penso spesso. Chi di loro mi ha scoperto, smascherato? Io sono il mondo, eppure devo prima incorporare il mondo sotto forma di libri, di biblioteche immense» disse il principe. «È assurdo. Quando leggevo, qualsiasi cosa leggessi, avevo sempre la sensazione che tutto fosse diviso in due parti, una decente e una indecente. Questo è l'aspetto sgradevole della lettura, e cioè che tutto sia diviso in due parti, non dico in buono e cattivo, dico in decente e indecente. Il pensiero, invece, è privo di questo aspetto sgradevole. Leggere cercando di ignorare se stessi» disse il principe. «Un senso continuo di identità inteso come consolazione. Siamo sotto l'influsso di un'attività immaginativa che dapprima è di tipo malinconico, ma poi diventa sempre più tormentosa. Dico continuamente a me stesso: so che tutto questo porta alla morte, ma poi agisco come se fosse vero il contrario. La testa è spesso separata dal corpo per una lunghezza di vari secoli o millenni, la sua maestria nel galvanizzare le viene dall'esperienza. Ho sempre la febbre, dottore, ma la mia è una febbre che non si vede sul termometro. Sono un barometro che non funziona più. Una volta ho incontrato in cortile un uomo» disse il principe «che non avevo mai visto prima e che però mi rammentava tutte le persone che avevo visto nella mia vita. Disse che aveva in mente di fare grandi cose con la sua testa, ma non dovevo pensare che se la sarebbe tagliata da sé. Mi mette in mano un coltello e dice: Mi tagli la testa, mio caro. Ho atteso a lungo che Lei si presentasse per tagliarmi la testa. Perché io ho in mente di fare grandi cose con la mia testa. Non abbia paura, dice quello strano tipo, ho calcolato tutto, andrà tutto bene. Ecco qua, tagli pure! Mi dà tre minuti di tempo. Ecco, qui, è questo il punto, dice, dove voglio che mi si tagli la testa. Io rimango in piedi, perché mi sembra davvero degradante farsi tagliare la testa stando coricati o addirittura seduti. Non le farò fare una brutta figura! dice lo sconosciuto. Fra l'altro, il coltello è della ditta Christofle, dice. Effettivamente scorgo il nome Christofle inciso sul coltello. Afferro la sua testa e gliela taglio. Mi meraviglio moltissimo di come sia stato facile. La testa dice ancora: Vede, è stato veramente facile tagliarmi la testa. Ma poi vedo che la testa non l'ho tagliata affatto, e lo sconosciuto dice: Non avrà creduto davvero di potermi tagliare la testa. O sì? Andiamo avanti, dice lo sconosciuto. È mio cugino. Veramente,» disse il principe «questa storia non me la sono sognata. Per me è stato imbarazzante». Il principe disse: «Siamo senza genitori, siamo orfani di padre e di madre. Questa è la nostra situazione, e da questa situazione non usciremo mai più, l'Europa non ne uscirà mai più. Mi sono sempre chiesto come avrei potuto ampliare e consolidare Hochgobernitz ancora di più. Hochgobernitz non è mai stato cosi isolato e, nello stesso tempo, così in balìa del mondo. Continuamente ho paura del terremoto. Non riesco a camminare senza pensare al terremoto, senza sentire il terremoto, terremoti in arrivo, rumori, rumori sotterranei e, nello stesso tempo, i rumori dentro alla mia testa. Mi sono fatto l'idea» disse il principe «che noi scriviamo delle lettere, spediamo e riceviamo delle lettere, ma che le firme di tutte queste lettere siano illeggibili. Chi scrive tutte queste lettere che poi vengono spedite e arrivano a destinazione? Guardando dalla finestra vedo come si forma la catastrofe, essa si forma senza rumore, avviene senza rumore. Ma io di questo non ho il permesso di parlare. Già solo il fatto che io in questo immenso Hochgobernitz occupi la stanza più piccola, è, dottore, un fatto inquietante. Si tratta anche della stanza più umida e più fredda. Se scrivessi qualcosa che avesse per oggetto soltanto la mia stanza, un saggio intitolato semplicemente La mia stanza?, in esso farei entrare per forza il mondo intero, visto che in effetti nella mia stanza io faccio sempre entrare per forza il mondo intero; penso che in quel caso, dunque, farei entrare il mondo intero sia nella mia stanza sia nel saggio sulla mia stanza. No, niente saggi» disse il principe. «L'individuo pensante deve eliminare sempre più le immagini dalla sua memoria. Raggiungerà il suo scopo quando nel suo cervello non ci sarà più neanche un'immagine. Quando si saranno esaurite le possibilità di raffigurazione insite nel suo cervello. Io non ho» disse «alcuna colpa, lo ripeto molte volte a me stesso, so benissimo che non ho alcuna colpa. Colpa? Per decenni mi sono sforzato di farmi capire, da quando sono nato nient'altro mi divora se non il desiderio di farmi capire. Ho cominciato col farmi capire dai miei genitori, dai miei fratelli, dai miei figli, ho cercato di farmi capire da tutti. Ora cerco di farmi capire da Lei, da Suo figlio. Effettivamente,» disse il principe «queste notti di settembre possono già essere molto fredde. Il freddo viene su dal basso, dalla gola. Qui il freddo è glaciale. Hochgobernitz è fatto di ghiaccio. A Hochgobernitz ci sono persone diventate di ghiaccio. Evidentemente il tempo della nostra vita non basta per riuscire a farci capire. All'inizio» disse il principe «mia madre mi ha considerato un delitto commesso ai suoi danni, poi un delitto commesso da lei stessa, poi le ho dato fastidio, poi ha cominciato a disprezzarmi, ad amarmi, a odiarmi, perché era sempre costretta a identificarsi con me. Per i genitori avere dei figli è come avere una piaga insanabile che li deturpa per tutta la vita. Mi ritiro sempre più nella mia stanza come se fosse un'infermeria. Per me la mia stanza è sempre stata un'infermeria. Mangiare, leggere, pensare, tutto quello che ho fatto in questa stanza, per me è stato sempre come prendere delle medicine, sciroppi di sentimento, sciroppi di cultura, compresse di filosofia. Sono un malato inguaribile, è una situazione che dura da dieci anni, da dieci anni ormai mi vedo in questa condizione, è una malattia ereditaria del tutto aconfessionale» disse il principe.


«Guardi, dottore: mi metto la giacca, mi tolgo la giacca. Questa giacca l'ho comperata a Bruxelles, quella a Londra, quell'altra al Cairo. Mi metto la giacca comperata al Cairo, mi tolgo la giacca comperata a Londra, mi metto la giacca comperata a Bruxelles, mi tolgo la giacca comperata al Cairo. La curiosità costa talmente cara» disse il principe. «Naturalmente non posso più andarmene da Hochgobernitz. Ho sempre comperato i giornali e, senza leggerli, dopo averli appena sfogliati, li ho sempre buttati via a meno di cento passi dal chiosco dove li avevo comperati. Se facessi spingere dal vento nella Karntnerstrasse tutti i giornali che ho comperato durante la mia vita così da suscitare una bufera di giornali, una bufera di giornali simile a una bufera di neve, in brevissimo tempo tutta la Karntnerstrasse ne sarebbe intasata, tutta la gente che si trova nella Karntnerstrasse morirebbe certamente soffocata, mezza Vienna morirebbe certamente soffocata, tutti sarebbero soffocati, sepolti e soffocati dai giornali che ho comperato durante tutta la mia vita, su Vienna piomberebbe un micidiale inverno di giornali. Sui volti dei fanciulli» disse il principe «vedo la febbre della fanciullezza. La fanciullezza si stanca presto, la vecchiaia è un ricordare la fanciullezza. Stare il più possibile a letto e riuscire a prendere sonno, questi sono ormai da molto tempo i miei soli bisogni. Hai utilizzato bene il tuo corpo? penso. Il tuo intelletto? Hai utilizzato bene la tua vita? penso. Se cominci a porti questi problemi, sei spacciato. Osservazioni senza senso» disse il principe. «Spesso, sui binari delle stazioni, mi viene l'idea di buttarmi all'ultimo momento davanti al treno, eppure nei gabinetti pubblici delle metropoli sono ancora curioso. Gioia di inventare frasi complicate, ineccepibili; capita la parola etometro. Capire che gli uomini sono tutti inermi, ma senza compassione; necessità di congelare tutto quello che sai. Chieste spiegazioni all'amministratore» disse il principe «che ha licenziato cinque operai delle cave di ghiaia, gli domando: Perché?, ma lui non mi dà alcuna risposta. Gli dico che gli operai delle cave di ghiaia non vanno licenziati, che è pericoloso licenziare anche un solo operaio delle cave di ghiaia, dico che non possiamo licenziare nessuno di loro, eppure l'amministratore licenzia questi cinque operai. Immediatamente le cave di ghiaia mi appaiono luoghi sinistri… Oppure,» disse il principe «vado sulle mura esterne, esattamente da qui, dove ora. stiamo camminando, e raccolgo da terra una foglia di castagno, la foglia di castagno mi ricorda mia madre, non appena la guardo vedo mia madre, il suo odore mi ricorda Misura per misura, vedo Misura per misura, Misura per misura mi ricorda un vecchio paio di scarpe che portavo da bambino, eccetera… Vediamo una persona» disse «e subito emettiamo una sentenza. Quello è un uomo intelligente, diciamo, è uno stupido, è rozzo, è felice, è una persona colta, è uno scimunito, è solitario, è socievole, è uno che ride sempre, è sempre triste, è un uomo sempre più indaffarato, è sempre volgare, è sempre meschino… eppure non capiamo niente. Lo stesso quando diciamo: Quell'uomo è un disastro, senza conoscerlo, e quando diciamo: È morto, eccetera… Vediamo i punti deboli di una certa persona, che subito ci fanno vedere i punti deboli del Comune in cui viviamo, i punti deboli di tutti i Comuni, dello Stato, li sentiamo, li smascheriamo, li cataloghiamo come disastri. Quanto maggiore è la capacità di giudicare, tanto maggiore è la diffidenza. La nostra diffidenza a poco a poco invade ogni cosa. Fin da bambino mio padre si era trastullato con l'idea di uccidersi e ogni volta che passava sopra la Ache, gli costava un enorme sforzo non buttarsi nella Ache. Impiccarsi. Spararsi. Questo pensiero lo ha dominato, pensare alle varie possibilità di suicidio come a una scienza» disse il principe «capace di sottomettere le scienze della natura. Nei miei ragionamenti l'elemento mistico è stato escluso quasi del tutto. Isolamento. Tutto è vano» disse. «I milioni di tentativi che facciamo di andare alla radice delle cose tenendo gli occhi aperti. Ora li facciamo stando fra le masse, ora nella cosiddetta libera natura. Non c'è nulla di più facile che rifugiarsi nella quotidianità. Mi capita di dire una cosa» disse il principe «e di scoprire immediatamente dentro di me il suo contrario. Possiamo convincerci di non essere soli quando abbiamo un libro, così come possiamo convincerci di non essere soli quando c'è qualcuno insieme con noi. Quando scritturiamo un attore vogliamo che lui ci intrattenga piacevolmente, e nel caso se lo dimentichi, lo malediciamo. Il mondo è come un grande circo Sarrasani. Credendo che questo ci permetta di esistere, viviamo nella perpetua illusione di poter sottrarre completamente alla natura uno almeno dei suoi elementi, per esempio di poter fare la rivoluzione, di poter rovesciare un re dall'alto del suo trono, eccetera… Spesso l'occhio è abbandonato dall'intelletto, spesso l'intelletto è abbandonato dall'occhio. Oggi» disse il principe «ci sentiamo a nostro agio leggendo le descrizioni della Bibbia, abbiamo scoperto la poesia di Sodoma e Gomorra e la sentiamo nostra. Non ci spaventiamo più a morte, andiamo alla morte. Le malattie sono per l'uomo la strada più breve per tornare a se stesso. Dobbiamo pretendere infatti» disse «una certa precisione almeno per quanto riguarda le nostre capacità immaginative. Un uomo senza materia grigia potrebbe essere spensierato. I nostri maestri sono stati i nemici del nostro intelletto. Ci agitiamo per cose che non ci riguardano affatto. Da molto tempo mi interessa non tanto chi arriverà per primo sulla luna, quanto piuttosto chi attraverserà per primo la terra. La totale incapacità di mia moglie a far conversazione, proprio lei che su ogni argomento poteva dimostrarsi sensibile nei confronti di chiunque. Malattie inguaribili che finalmente si fanno strada dappertutto. Nel pensiero paragonare sempre le stanze di sopra, le mie stanze, con quelle di sotto, le loro stanze. Abitudini, inclinazioni da cui un po' alla volta siamo stati divorati tutti. La nostra povertà di azione. Nelle stanze di sotto la filosofia è altrettanto impossibile quanto la mistica in quelle di sopra. Qualche volta tutti gli orologi di casa mi sembrano fare un rumore tale che sono costretto ad alzarmi e fermarli tutti. È un lavoro che richiede parécchie ore. Poi riesco a prendere sonno. Un tempo, quando eravamo bambini, battevamo sulle pareti per farci capire, da mezzo secolo a questa parte, ormai, nessuno batte più alle pareti. In brevissimo tempo» disse il principe «Hochgobernitz sarà dominato dagli scarafaggi e dai ragni. Scarafaggi e ragni, penso spesso, intesi come pazzia della natura. Tutto è mistificazione» disse.


Passando per Landschach tornammo velocemente a casa. «Casi ingrati» disse mio padre. Mia sorella dormiva già. Domani, pensai, farò una lunga passeggiata con lei e le parlerò. Mentre mio padre, erano le undici di sera, dovette andare ancora a Krennhof per visitarvi un macellaio che si era sparato un colpo nella pancia con la pistola da macellazione (ma contava di essere di ritorno prima di mezzanotte), io ripensai a come eravamo scesi da Hochgobernitz nella gola e poi eravamo usciti in macchina dalla gola senza dirci neanche una parola. Domani, nelle prime ore del pomeriggio, tuo padre ti riporterà a Leoben, pensai. Non valeva neanche la pena di tirar fuori la roba dalla borsa. Il poliziotto locale ci aveva aspettato per chiedere a mio padre un'informazione a proposito della defunta moglie dell'oste. Gròssi era stato arrestato. Non volli più svegliare mia sorella. Provai a scrivere una lettera che avrei dovuto scrivere da molto tempo per rispondere a un amico di mio zio che ha una tenuta nei pressi di Guttaring in Carinzia e già più volte mi aveva detto di andarlo a trovare. Volevo scrivergli che non ci sarei andato, che non potevo. Non posso interrompere i miei studi in questo momento, avevo scritto, ma poi strappai la lettera appena cominciata. A letto pensai: che cosa ha detto il principe? «Voler cambiare sempre tutto è per me un bisogno costante, una perfida smania che suscita dissidi estremamente incresciosi. La catastrofe ha inizio nel momento in cui si scende dal letto. Nel momento in cui si vuol dare a tutto un fondamento filosofico e ci si mette in mostra. Quando la testa si spegne, la tenebra diventa fredda». Il taccuino: «Da giorni e giorni» disse il principe «frugo nelle tasche dei miei vestiti cercando il taccuino che ho perduto. In questo taccuino ho scritto delle cose certamente notevoli. Sottolineate! È una mia malattia quella di sottolineare le cose importanti e in questo taccuino ci sono quasi soltanto delle frasi sottolineate che cominciano tutte con la distruzione di queste stesse frasi… Cerco questo taccuino per giorni e giorni nelle tasche dei miei vestiti e ad un tratto lo trovo giù in cucina. Come è finito in cucina? mi domando. Sono giorni che non vado in cucina e ad un tratto trovo il mio taccuino in cucina. Mi affiora un orrendo sospetto. Ho immediatamente il sospetto che la mia sorella maggiore abbia tirato fuori il taccuino dalla tasca della mia giacca e sia andata a leggerselo di nascosto in cucina (io infatti sono un essere totalmente avverso alle cucine!) dimenticandolo poi in cucina. Vado immediatamente da mia sorella maggiore e le dico: La cosa spaventosa è che tu abbia dimenticato il mio taccuino in cucina, non tanto che tu ne abbia divorato il contenuto! Ma poi capisco che non è possibile che sia stata la mia sorella maggiore a dimenticare il taccuino in cucina e corro difilato dalla mia sorella più giovane e le dico in faccia che è una cosa meschina leggere i miei taccuini, tirarli fuori dalle mie tasche e leggerli. Temo, dico, che tu abbia letto tutti i miei taccuini, ma questo è il primo che tu dimentichi in cucina. Ho vissuto finora nell'illusione che nessuno di voi conoscesse il contenuto dei miei taccuini, che non sapeste nulla del contenuto di questi taccuini. Spingo mia sorella dentro l'ufficio, perché mi sembra mostruoso il fatto che proprio lei abbia letto questo taccuino. Mi viene subito in mente che in questo mio taccuino do continuamente dei giudizi sprezzanti sulle mie due sorelle, ma soprattutto sulla mia sorella minore. Ho vissuto nell'illusione, dico, che nessuno sapesse quello che ho scritto nei miei taccuini, quello che vi ho scritto per decenni. E ora scopro che scrivo i miei taccuini sotto gli occhi di tutti, che i miei taccuini sono di pubblico dominio! Ma all'improvviso mi rendo conto che la mia sorella minore non ha nemmeno idea dell'esistenza dei miei taccuini e dico a me stesso: è naturale, una persona così superficiale come mia sorella non ha la minima idea dell'esistenza dei miei taccuini, è naturale, e dico: Le cose che mi riguardano a voi non interessano! E dico: Un giorno in questi taccuini farete le più spaventose scoperte, spedizioni all'interno della vostra scelleratezza. Proprio perché nei miei rapporti quotidiani con voi non parlo mai di nulla, nei miei taccuini parlo di tutto! In questi taccuini mi vedrete piombare senza alcun riguardo su di voi! Su di te, su tua sorella, sulle mie figlie, su mio figlio, su tutti! Poi, quando sarò morto, i miei taccuini oscureranno la vostra vita per un lungo tratto, dico, e penserete con terrore alla mia presenza, a vostro fratello, a vostro padre! Nei miei taccuini, dico, avete assunto la vostra vera forma, una forma orrenda! Insomma, dico, se non sei stata tu a dimenticare il mio taccuino in cucina, chi allora lo ha dimenticato? Esco dall'ufficio e cerco la mia figlia maggiore. Mi viene in mente che può essere stata solo lei a estrarre il taccuino dalla tasca della mia giacca, dimenticandolo poi in cucina. Giro per tutta la casa cercando la mia figlia maggiore, giro prima per le stanze del piano di sotto, poi per quelle del piano di sopra, ma la mia figlia maggiore non riesco a trovarla. Probabilmente si è nascosta, penso, perché ha sentito parlare dell'agitazione che regna in casa per via del taccuino. Chiamo, giro in silenzio per tutta la casa, poi chiamo di nuovo, giro per tutta la casa ora chiamando ora tacendo. Alla fine mi viene in mente che potrebbe essere nel padiglione. Entro nel padiglione e vi trovo mia figlia sdraiata sul sofà che legge un romanzo. Le dico subito: Dov'è il mio taccuino? Già, dico, ho trovato il mio taccuino in cucina. Quest'essere infame adesso ha messo le mani perfino sui miei taccuini, dico. Probabilmente sono anni che metti le mani sui miei taccuini, dico! Probabilmente, dico adesso, hai messo le mani su tutti i miei taccuini! E quello che hai scoperto leggendo tutti i miei taccuini, dico, probabilmente ti ha trasformato con crudeltà inesorabile in una mia nemica. Spero, dico, che ciò ti spinga a sparire da Hochgobernitz, a sgomberare di qui, ad andartene giù, dalla gente che ti assomiglia! Ma all'improvviso» disse il principe «mi fu chiaro che anche la mia figlia maggiore non poteva avere assolutamente nulla a che fare con il mio taccuino. Allora è stata la mia figlia minore, penso. Ma nessuno sa dove si trovi. Voglio sapere dov'è! grido. Mi dicono che è in città. In città! dico. Giro per le camere del piano di sotto e penso che durante la notte staccherò dalle pareti tutti i quadri appesi in queste stanze, tutti. E così pure tutti i quadri delle stanze di sopra, dico. E ne appenderò altri. Più terribili. Un po' alla volta mi calmo» disse il principe «e allora sento che le mie sorelle bisbigliano confusamente fra loro. Questo loro bisbigliare, penso, io lo devo distruggere, mi avvicino e le scaccio. Non importa chi di voi abbia estratto dalla tasca della mia giacca il taccuino e lo abbia dimenticato in cucina, dico, me la pagherete tutte quante, me la pagherete tutte insieme! Un'associazione a delinquere, penso, le donne, un'associazione a delinquere! A Hochgobernitz, penso, io pago della gente che intende rovinarmi, distruggermi! E mentre ordino loro» disse il principe «di fare immediatamente un certo lavoro che va svolto subito, un lavoro domestico raccapricciante, mi viene in mente che sono stato io a lasciare il mio taccuino in cucina, una volta che nel cuore della notte, non riuscendo come al solito a prender sonno, ero andato in cucina a bere qualcosa di fresco». Non riuscivo ad addormentarmi e cominciai a scrivere: Il principe, scrissi, disse: «Un figlio studia il proprio padre studiando ormai soltanto come può annientarlo. Le donne invece sanno sempre come… Secondo la mia abitudine,» disse il principe «continuo ad andare in ufficio con la stessa puntualità che durante la mia vita mi ha guastato al punto che non mi riconosco più. Mi alzo e cammino su e giù per l'ufficio, su e giù, giù e su, tanto per riuscire a resistere in ufficio. Economia agraria, economia forestale, penso, non ne sono capace. Non ho la forza di uscire dall'ufficio, di abbandonare l'ufficio una volta per sempre, sebbene sia assurdo che io stia in ufficio. Se non mi occupo né di economia agraria né di economia forestale, penso, perché mai sto qui in ufficio? Questo pensiero eccita le parti più sensibili del mio cervello e così tiro giù dagli scaffali i più svariati classificatori, tanto per calmarmi un po'. Questa situazione, per cui io vado in ufficio senza sapere che cosa ci vado a fare, si ripete ogni giorno. Non ho più alcun rapporto con quello che c'è in questo ufficio» disse il principe. «Mio figlio» disse «tornerà dall'Inghilterra e annienterà Hochgobernitz. Mi viene in mente quel lungo foglio di carta, quel suo programma. Mi sembra che a Londra mio figlio sia incappato dentro una filosofia da cui potrà uscire soltanto col cervello completamente stravolto. Sento che Hochgobernitz con lui non potrà diventare nient'altro se non qualcosa di folle, questo lo sento. Del resto mio figlio non sa nulla né di economia agraria né di economia forestale. Quello che mio figlio percepisce come natura non è la natura. Probabilmente cercherà di vendere Hochgobernitz per intero. Ma non ci riuscirà, e allora dovrà smembrarlo. Subito dopo la mia morte vedo il castello di Hochgobernitz preso da un grandissimo spavento. Poi arriverà mio figlio e trasformerà il terrore paralizzante in follia. Egli è mio figlio, tutto è in sua balìa. Allora verranno tempi micidiali, soprattutto per le mie sorelle, ma anche per le mie figlie, che si sentiranno completamente inermi, senza difesa. Ma probabilmente sono tutte creature che non meritano riguardi, ma piuttosto spietata intransigenza. Mio figlio si accosta sempre alla natura come se fosse letteratura, tutte le sue lettere lo confermano. Mi creda, dottore, mio figlio mi disprezza. Nelle sue lettere non c'è un briciolo di verità. Nel corso di un solo anno la sua grafia si è completamente modificata. Io pago mio figlio, pago i suoi studi che aborro, e lui, mio figlio, mi annienta. Noi due, mio figlio ed io, non siamo mai stati capaci di parlarci. In Inghilterra lui si è abituato a usare frasi estremamente brevi, un modo di parlare che addolora, che uccide. L'educazione che gli ho dato, penso, è servita a fare di lui il mio distruttore. E quest'uomo ha il coraggio di scrivermi nella sua ultima lettera che io sono un dilettante, e che non sono riuscito a fare della mia vita un'arte. Mentre lui, come posso arguire da questa lettera, avrebbe indubbiamente fatto della propria vita un'arte. Tutte le volte in cui io avrei dovuto avvicinarlo a me, l'ho allontanato da me, da dentro di me. Ma ogni educazione è sempre un'educazione completamente sbagliata. Tutto quello che lui ha fatto lo ha sempre fatto contro di me» disse il principe. «In comune abbiamo soltanto la predilezione per i giornali. Già,» disse il principe «mi procuri per favore un numero del "Times" del 7 settembre e me lo porti su la prossima volta che viene a trovarmi…».

Prima dell’ultimo spettacolo

di Eugenio Bernardi


 


 


 


Nella narrativa di Thomas Bernhard c'è un gesto iniziale e determinante che sostiene la scansione ossessiva, maniacale dello stile e indica direttamente lo sfondo su cui si proietta la costellazione pressoché fissa delle sue figure. Considerare di poco conto questo gesto significherebbe non cogliere un nucleo essenziale che determina, in un rapporto che è insieme di aderenza e di rifiuto, la sostanza dell'opera anche al di là dei fini espliciti del suo accanimento.


È apparso ben presto evidente infatti come questo scrittore, nato in Olanda da genitori austriaci nel 1931 e cresciuto in Austria dove tuttora risiede, s'inserisca - pur ribaltandola - in una prospettiva che è propria della concezione romantica, totalizzante della poesia. Già uno dei suoi primi racconti, Amras (1964), si fregiava di un motto di Novalis, e vi fu chi vide immediatamente come il racconto riprendesse posizioni novalisiane incentrate sul concetto di arte/malattia, pur negando la trascendentale funzione di quel connubio 1. Col passare del tempo è diventato d'obbligo citare, se non altro per un'affinità di figure, il nome di Adalbert Stifter, uno degli scrittori più importanti dell'Ottocento austriaco: se i personaggi di Stifter, soprattutto nel Nachsommer [Estate di san Martino, 1857], si ritiravano nella solitudine per tentare di salvare dalla minaccia della società borghese un patrimonio di idealismo e di bellezza, l'ansia di isolamento che anima i personaggi di Bernhard sembra molto simile, anche se il loro proposito è, proprio al contrario, quello di distruggere inesorabilmente quel patrimonio 2. L'accanimento con cui questa operazione viene compiuta, la sua spietata «intransigenza» (una delle parole chiave di Bernhard) vive ancora degli ultimi, controversi bagliori di un mito che vorrebbe estinguere.


È comprensibile dunque che di fronte alle prime prose di questo autore (precedute da alcune raccolte di liriche che ricordano da vicino i modi di Georg Trakl) si sia visto in lui soprattutto un autore di romanzi a sfondo regionale (Heimatromane) con segno negativo, giacché in essi luoghi geografici perfettamente noti sono popolati non più di nobili bonari e di sani contadini, ma di malati, pazzi, storpi e paralitici con una violenza ossessiva paragonabile a quella con cui un artista austriaco contemporaneo, Arnulf Rainer (simile in questo a un personaggio di Perturbamento), copre di scritte e di scarabocchi le proprie grottesche fotografie. Ma al di là di questa prima impressione, con un impegno che lo pone a un livello diverso rispetto a un'intenzionalità puramente negativa, Bernhard affronta, in modi evidenti e diretti, il problema dell'eredità del passato, ora attraverso l'immagine ricorrente di un immenso patrimonio di cui gli eredi, labili e ossessionati da fantasie di cambiamento radicale, provano e spesso riescono a disfarsi, ora invece (o contemporaneamente) nell'immagine emblematica del rapporto padre/figlio, anch'esso ossessivamente presente (in Perturbamento al doppio livello del medico/figlio del medico e del principe/ figlio del principe/padre del principe). Che questo motivo rappresenti un punto chiave nel mondo narrativo di Bernhard lo dimostra il fatto che là dove la figura del padre non possa essere sviluppata (nel suo libro più recente, Die Kälte [Il freddo, 1981], si raccontano i vari tentativi dell'io narrante e autobiografico per ricostruire la figura di un padre sconosciuto, fuggito dando alle fiamme la propria casa) essa viene mitizzata nella figura del nonno o dello zio. Sia nelle opere in cui prevale la finzione narrativa, sia in quelle più recenti in cui il discorso autobiografico assale sempre più da vicino una verità inafferrabile a priori, le motivazioni più profonde sembrano incontrarsi inevitabilmente con il problema dell'ascendenza, della Ursache, «origine» (titolo di una sua opera del 1975, tradotta nel 1982), che costituisce un nodo più complesso e problematico di quello che la singola figura riesca ad individuare nella ricognizione del proprio passato. Dietro all'inafferrabile centro di ogni racconto, s'intravede un passato potente e vitale, ormai indecifrabile nei suoi grotteschi anacronistici prolungamenti, ma che pur costituisce il punto di riferimento di tutti questi personaggi ammalati o pazzi, di questi «moribondi, gente che va alla deriva e si guarda indietro per l'ultima volta» (p. 157). In Perturbamento il passato vive nel ricordo di un castello «dove in certi momenti si sono sentite parlare tutte le lingue del mondo», dove «si poteva trovare tutto quello che al mondo esiste di più prezioso, di più ambizioso, di più sbalorditivo», un castello dove «i virtuosi più eccelsi del mondo si sono dati appuntamento per un ultimo addio» (p. 203). La foga con cui Bernhard nega la validità del mondo presente, del mondo dei Moser, come avviene anche in Perturbamento, nasce dal ricordo incancellabile di un mondo di splendore che risale molto al di là degli anni di cui si parla negli scritti autobiografici: «La parola politica di per sé, la politica in genere, ma soprattutto la politica austriaca l'austriaco di oggi non l'ha mai tanto presente (…) per cui non tutti sanno da quali splendide altezze, altezze che con i loro raggi illuminavano e riscaldavano tutto il globo terrestre, essa, nel corso di mezzo secolo soltanto, sia precipitata nel suo nulla più totale (…) Oggi, a solo mezzo secolo dalla frantumazione dell'Impero, quell'eredità è stata consumata e gli eredi stessi sono andati in fallimento (…) Nella desolazione della Repubblica regnano, creando condizioni di spirito assolutamente tremende e infami, la perfidia e l'ottusità (…) Il nostro popolo è un popolo senza immaginazione, senza ispirazione, senza carattere. L'intelligenza, la fantasia sono concetti che non conosce (…) Saremo assorbiti in un'Europa che nascerà forse soltanto fra un secolo e non saremo nulla. Non accadrà da un giorno all'altro, ma un bel giorno noi non saremo più nulla. Assolutamente nulla (…) Se apri gli occhi, vedrai che mancano solo pochi millesimi di secondo perché tutta la storia finisca nella tenebra più assoluta (…) La nostra esistenza non dovrebbe essere che un continuo, unico spavento. Invece è soltanto meschina» 3.


In questi ultimi millesimi di secondo sembra inserirsi l'affannosa, concitata scrittura di Bernhard, una letteratura - come ha scritto Claudio Magris 4 - della fine e non del dopo la fine, una scrittura che nella sua profonda sostanza sembra identificarsi con un estremo tentativo, disperato e vitale insieme, di prolungare i tempi del commiato. Come avviene per le persone, anche questo mondo, infatti, rivela la propria essenza solo nel momento in cui si allontana e lo si deve dire definitivamente perduto: «Quello che c'è di essenziale in una persona viene alla luce soltanto quando dobbiamo considerarla perduta per noi, disse mio padre, nel momento in cui, ormai, questa persona può soltanto dirci addio. Ad un tratto, in tutto ciò che in essa è ormai soltanto preparazione alla morte definitiva, questa persona può essere riconosciuta nella sua verità» (p. 25). Ma, paradossalmente, questo sguardo malinconico e intrepido con cui si guarda alla fine (guardare-ascoltare come fa lo spettatore di un'azione teatrale che presenta solo infinite, sinistre ripetizioni di una vicenda che è sempre la stessa, consegnata per sempre alla gestualità congelata dell'agonia) è sempre accompagnato dall'ansia di affrettare il momento in cui la morte suggelli un possesso realizzabile solo in negativo, perché «un essere umano può sentirsi unito a un altro che ama soltanto quando quest'altro è morto, e davvero è entrato a far parte di lui» (p. 25). Dare un significato generale a citazioni come queste, che in Perturbamento sono considerazioni fatte dal medico nel ricordare la propria moglie defunta, non mi sembra arbitrario, perché tutte le diramazioni dello sfacelo sono sentite come un lutto diretto, come un lutto di famiglia, atteggiamento d'altro canto ben noto alla letteratura austriaca. Prolungamento e accelerazione dunque, passività e accanimento, come tensione in cui si sfoga quella vitalità che un tempo era di mitici avi («Quelli prima di me, i miei avi, erano persone meravigliose. Non a caso mi vengono in mente proprio ora che non ho nulla. Allora c'era di tutto: Erano ricchissimi, veramente poveri, criminali, personaggi spaventosi, quasi tutti in qualche modo scellerati, felici…») 5 e che ora si è ridotta alla perversa vitalità della scrittura. Questa diventa una specie di lunga, interminabile frase pronunciata per vincere il cupo rimbombo che preannuncia la fine sia dentro un cervello ridotto a meccanismo che gira a vuoto, sia nella natura percorsa da terremoti e da boati. In questo spazio s'inserisce con straordinaria coerenza di finzioni narrative e di resa stilistica il senso dell'opera complessiva e in fondo monocorde di Thomas Bernhard, la quale, a tutti i livelli, vive di «un paradosso quasi maniacale: creare l'opera, artificioso coacervo di frasi e di vocaboli, per smentirla» 6.


È chiaro dunque che non è la negatività di per sé ad attrarre Thomas Bernhard, ma piuttosto un mito della scrittura romantica, della tradizione austriaca, mito che però ad ogni suo riaffiorare viene ricancellato, non tanto perché si scoprano le ragioni storiche o sociali della sua rovina, quanto perché si ha la vivissima e disperata consapevolezza che anche quest'ultima foga, questa spasmodica «intransigenza», nel suo stesso nascere e nel suo immediato e inevitabile ancorarsi a un'impalcatura di parole vuote, non è diversa dalla avvilente demagogia dei tempi moderni. Ed è proprio a questo punto che l'opera di Bernhard può affrancarsi dalle sue stesse radici austriache per acquistare un significato più generale, inserendosi di autorità nelle complesse diramazioni di quell'arte contemporanea che è più consapevole della problematica del suo stesso esistere. Tutti i personaggi di Bernhard vivono in questa consapevolezza portandola all'estremo. Affascinati, quasi ipnotizzati da qualche idea che pare loro ancora «filosofica», ossia capace di dare un senso all'universo, essi ne diventano completamente schiavi («È noto che tutto a un tratto certe persone, in un momento di svolta decisiva della loro vita, una vita che a loro sembra filosofica, scoprono un carcere nel quale vanno poi a rinchiudersi per consacrare la propria esistenza a un lavoro scientifico o a un'infatuazione poetico-scientifica…» [p. 55]), pur avvertendo nello stesso tempo che «l'armamentario di parole» di cui sono costretti a servirsi non ha nulla che gli corrisponda nella realtà. Le parole sono suoni capaci di produrre immagini che irritano una memoria fatta di sensazioni isolate, al di fuori di ogni connessione logica, e «la verità è tradizione, non è la verità» (p.188). E proprio la tradizione crea l'enfasi di un discorso che sembra ormai affidato soltanto all'implacabilità del ritmo. Alla situazione di un individuo senza più padre («L'individuo pensante si ritrova sempre più in un immenso orfanotrofio, nel quale gli si dimostra ininterrottamente che egli non ha genitori. Siamo tutti orfani, non siamo solitari, ma sempre soli» [p. 192] e ancora: «… siamo orfani di padre e di madre. Questa è la nostra situazione, e da questa situazione non usciremo mai più, l'Europa non ne uscirà mai più» [p. 211]) corrisponde il vuoto segnalato e percorso da un linguaggio che è costituzionalmente affascinato dall'idea di un centro, pur essendo costantemente consapevole di muoversi entro premesse gnoseologico-linguistiche che esso stesso si è fabbricato. Nel momento in cui il principe Saurau vede riunita intorno a sé tutta la propria famiglia (anche il figlio assente), questa pur momentanea ricomposizione dell'unità («Quella mattina constatai che non siamo ancora completamente annientati» [p. 129]) si rivela immediatamente come un'orrenda costruzione della mente («li vedo tutti insieme come se li vedessi attraverso di me, e all'improvviso mi viene in mente una mostruosa costellazione, qualcosa di tremendo, forse la cosa più tremenda che esista: io sono il padre!» [p. 133]) per cui l'ascendenza, il mito dell'inizio del tempo e dalla cultura, si rivela un'illusione costruita dalla farneticante loquacità di un io che si crede ancora creatore del mondo.


Perturbamento esemplifica meglio di ogni altra opera il percorso dell'idea narrativa di Bernhard. Partendo da quella che può sembrare solo una sconfessione del Heimatroman ottenuta tramite l'indicazione ossessiva della brutalità, ottusità e perfìdia della gente di campagna, si arriva, attraverso personaggi intermedi, fino alla solitudine del principe Saurau, il quale, meditando su di sé e sull'assurdità di ogni giudizio consegnato alla scrittura, getta una luce negativa sulla scrittura in genere, anche su quella che l'io narrante aveva usato per dar voce a indimenticabili figure nella prima parte del romanzo. Chiuso nel suo castello concreto e metaforico di Hochgobernitz («e io giudico tutto il resto, tutto il mondo partendo da me, dal mio cervello, da questa specie di Hochgobernitz spirituale» [p. 134]), il principe sembra sperimentare per un'ultima volta dove conduca un rigore non più sorretto da una moralità, dove porti quella tensione che nel Nachsommer stifteriano era ancora nascosta e consolata dalla persuasività della bellezza, e che qui, nel più emblematico dei luoghi di rifugio e di orrore, diventa soltanto mania, ansia di perfezione e di estenuazione. Né questa figura giunge senza preavviso: il sostrato narrativo si articola infatti su una sottile storia della coscienza che ha ai propri estremi la brutalità e l'ottusità da un lato e la follia dall'altro. Bloch, per esempio, è un intellettuale ma anche un uomo pratico, appassionato e spregiudicato nella sua attività professionale, capace ancora di scoprire e utilizzare a proprio vantaggio il meccanismo del mondo. La vecchia Ebenhoh, ormai prossima alla fine, ha ancora barlumi di coscienza rispetto al mondo che la circonda, appigli della memoria (la musica di Schubert, La principessa di Clèves) e i disegni surrealistici del maestro moribondo sono allucinanti giudizi sulla società che lo ha distrutto. Proprio là dove la tenebra è più fitta e lo sfacelo più terrificante, come nella stanza dei vecchi Fochler, può capitare infatti di trovare ancora immagini stupende ed emblematiche di quella scissione insanabile che è alla base sia della brutalità sia della follia, per esempio un quadro che è «assolutamente brutto e nello stesso tempo assolutamente bello. "È bello perché è vero"» (p. 76). L'industriale che si è ritirato nel padiglione di caccia assomiglia a Bloch almeno per la capacità di unire successo negli affari e attività speculativa, ma se il primo dal suo «orrendo inferno privato» (p. 32) riesce ancora a farsi un'idea precisa della realtà, il secondo è già un maniaco che in nome di un rigore intellettuale il cui unico scopo è la continua cancellazione, è disposto a distruggere, insieme al suo lavoro, la realtà che lo circonda.


Una così complessa struttura narrativa che ad ogni rilettura si rivela più fitta di contrappunti ed echi interni (si veda per esempio il modo con cui nella coscienza dell'io narrante si affaccia lentamente l'idea che quanto a lui sembra di sentire nei confronti degli altri sia frutto soltanto della propria immaginazione e come questa stessa idea diventi metodo e provocazione da parte del principe negli incontri con i candidati al posto di amministratore, oppure si consideri il finale incentrato sul tema del taccuino perduto, che è un «prestissimo» da finale di quartetto e, nello stesso tempo, un elemento che mette in discussione l'atteggiamento punitivo-sadico del principe nei confronti delle sue sorelle e delle sue figlie) una così complessa struttura narrativa, dicevo, suppone un autore abilissimo e ancora capace, nei millesimi di secondo che precedono la fine, di tracciare per l'ultima volta una «geometria della tenebra», uno «spartito della follia» 7. II modo indiretto con cui questo avviene, l'uso che Bernhard fa (qui e altrove) di un io narrante che riporta il discorso altrui, è il riflesso stilistico di un'affermazione che ricorre molto spesso nel monologo del principe: dall'alto di Hochgobernitz si riversa su tutto il narrato la convinzione che tutto sia già stato detto e che tutto il mondo sia solo citazione (p. 161).


«Sto citando il principe quasi alla lettera!» (p. 93), dice a un certo punto lo studente che in Perturbamento accompagna il padre medico in un giro di visite durante un sabato di settembre. E il romanzo ha davvero a tutta prima l'aspetto di un resoconto fatto da un io narrante sostanzialmente neutrale a proposito di vicende che gli è toccato vedere e di cui soprattutto ha sentito parlare. Anche la complessa struttura stilistica con cui questo io narrante riferisce i discorsi altrui si articola su un tessuto sintattico che sembrerebbe conservare un'obiettività di verbalizzazione. Ma il «quasi alla lettera» dice che parallelamente alla dimensione del resoconto avviene un processo sotterraneo capace di segnalare un'intenzionalità che questa scrittura, chiusa in se stessa, vuole avere verso l'esterno, verso una possibile istanza di ascolto. Qui, a livello di strutture linguistico-sintattiche, si ritrova quello spazio paradossale in cui vive e di cui si nutre l'opera di Bernhard: la tradizione e il distacco, la solitudine e l'ansia di comunicazione, il nichilismo e il vitalismo. La constatazione che tutto è già stato detto e scritto non porta a un gioco con le parole e le strutture sintattiche, anzi, continua a indicare, a ogni aggressione, un margine di resistenza, una reticenza: il principe, che è il più coinvolto in questa spirale di rigore, dice di parlare solo «fra virgolette! A mezza voce» (pp. 169 sg.), accenna a un suo timore di essere scoperto e smascherato (p. 209) e il romanzo termina con una richiesta di giornali che contrasta con quello che il principe ha detto a proposito della falsità della stampa.


Forse la critica non ha sottolineato abbastanza il fatto che portando con sé il figlio studente in questo suo giro di visite, il medico dà implicitamente una risposta alla lettera che il figlio gli ha scritto e che contiene una prima, sia pure prudentissima protesta di un ragazzo contro la brutalità della vita. Mostrandogli direttamente la miseria del mondo che lo circonda e di cui egli stesso si sente vittima, il padre rivela al figlio la propria solitudine e la propria impotenza, mentre il figlio sembra riconoscere sempre meglio a quali pericoli possa andare incontro la fiducia che egli nutre nelle proprie capacità intellettuali («Meglio essere spaventosamente stremati, aggiunsi, che essere profondamente disperati (…) Dove prevale il raziocinio, la disperazione è impossibile» [pp. 48 sg.]). Mentre quella rete sotterranea di proiezioni che al suo apice ha la figura del giovane Krainer, coetaneo del figlio del medico, si dilata e deborda nelle figure esorbitanti del principe e di suo figlio, fra il medico e il proprio figlio sembra crearsi uno spazio di ancor possibile comprensione, un'intesa umana fondata sul silenzio: il padre non darà una risposta esplicita alla lettera del figlio, e costui preferisce non parlargli delle proprie difficoltà. Situazione labile, provvisoria, destinata forse anch'essa a essere sommersa da un processo di generale degradamento, e che però rappresenta qui un intervallo ancora possibile fra brutalità e follia. Questo margine estremo e costantemente minacciato è segnalato dal modo con cui la scrittura si butta a capofitto nella complessa e in sostanza incerta articolazione del discorso indiretto, per il quale la lingua tedesca non prevede regole così ferme come l'italiano o il francese: spesso le esili categorie sintattiche che lo sostengono sembrano venir sommerse dall'accavallarsi dei tempi dell'azione, per cui i rapporti fra il momento del resoconto e quelli dell'azione riferita ne vengono sconvolti provocando quella irritazione, quel «perturbamento» che non è certo solo il frutto delle affermazioni «filosofiche» dei personaggi. Il fine è il coinvolgimento, una lettura che non offre affatto «un senso continuo di identità inteso come consolazione» (p. 210). Questa irritazione e questo perturbamento, che nascono dall'esperienza diretta della presunta sicurezza dell'ordine logico-sintattico e della simulata precisione di quest'ordine ostentata in una scrittura accattivante e angosciosa insieme, possono trovare un parallelo nel gesto dello scrittore satirico, come ha recentemente osservato W.G. Sebald 8, ed è certamente questa sfida, questo rispetto portato all'assurdo, che garantisce l'umorismo di questo impietoso e commosso autore.


Inserite come bagliori improvvisi in una prosa in bianco e nero, appaiono ogni tanto immagini che alludono a improbabili alternative, a margini di luce non ancora raggiunti dalla devastazione: immagini di paesaggio, momenti di stifteriana trasparenza, di autoriflettersi della natura. Ma un'autentica possibilità di distrazione, non di svago superficiale, bensì di pacata contemplazione della verità (della «più reale delle realtà» come diceva Stifter parlando di una rappresentazione al Burgtheater) è garantita soltanto dal teatro. Anche in questo Bernhard rimane fedele, pur distorcendone le finalità, a un ideale della civiltà austriaca che Hermann Broch, in un famoso saggio su Hofmannsthal 9, ha messo perfettamente in luce. Solo dopo aver assistito allo spettacolo, il principe riesce ad avviare una discussione sul tema degli anticorpi nella natura, un tema che accenna a una capacità interna della natura di salvarsi dalla propria degradazione, a una specie di versione moderna e scientifica della Zurechtweisung holderliniana. Il romanzo non dice nulla sul contenuto di questo spettacolo, ma le caratteristiche che gli si attribuiscono (composto in un giorno solo, da una persona di famiglia, probabilmente da un bambino, per una sola rappresentazione) fanno pensare a una scrittura diversa, esoterica, irripetibile. In Der Italiener, che contiene molti motivi affini a quelli di Perturbamento, si parla vagamente di Goldoni, di commedia dell'arte, di commedia degli equivoci e dei travestimenti, in cui la finzione prevale ed è accettata: «Qui facciamo teatro, qui non siamo noi stessi!» 10. Se davvero tutto è stato già detto e se la citazione è la base teorica e stilistica di questa narrativa (per cui, all'interno di questo unico magma, sarebbe errato isolare singole dichiarazioni dei personaggi per tentare di leggervi il senso dell'impegno dell'autore), niente di meglio della scena per prenderne atto: «Nei miei libri tutto è artefatto, vale a dire che tutte le figure, gli avvenimenti, i casi si svolgono su un palcoscenico, e la scena è totalmente buia. Le figure che vi compaiono camminano in uno spazio scenico, su un palcoscenico, e di esse si vedono soltanto i contorni, per cui si riconoscono meglio che se fossero illuminate al naturale come avviene di solito nella prosa. Nell'oscurità tutto diventa più chiaro (…) E se si aprono i miei libri, succede questo: bisogna immaginare di essere a teatro, aprendo la prima pagina si alza un sipario, compare il titolo, buio totale - a poco a poco dal fondo, dal buio escono le parole, che lentamente si trasformano in avvenimenti di natura esteriore e interiore, particolarmente evidenti proprio grazie alla loro artificiosità» 11. Teatro delle marionette dunque («Si tratta / di un teatro di marionette / non sono uomini ad agire / ma marionette / Qui tutto è innaturale / che è poi la cosa più naturale / di questo mondo» dice un personaggio di Der Ignorant und der Wahnsinnige [L'ignorante e il folle]) 12 nel quale la rappresentazione della «più reale delle realtà» si riduce al puro funzionamento di un meccanismo di parole che alcuni personaggi isolati dal mondo, uniti fra loro da una «congiura contro la vita», pronunciano al di fuori di ogni logica di sviluppo drammatico. Le parole «irritanti» che in Perturbamento il principe pronuncia per provocare la sensibilità malata dei candidati al posto di amministratore, qui si atrofizzano in battute: «Noi esistiamo solo perché uno suggerisce all'altro la battuta» dice il cupo protagonista di Vor dem Ruhestand [Prima del pensionamento] 13. Sulla ribalta la rappresentazione della vita si cristallizza, diventa perfetta e disumana come la scienza. Nella commedia Der Ignorant und der Wahnsinnige l'arte eccelsa di una mozartiana Regina della Notte è paragonata alla descrizione precisa di un'autopsia del cervello. Di qui il doppio aspetto di questo teatro, cui pure è affidata un'ultima possibilità di svago: la verità che esso rappresenta è insieme quiete e morte. In Perturbamento il padiglione in cui ogni anno si rappresenta uno spettacolo diventa anche la camera mortuaria, dove, tolti di mezzo in tutta fretta fondali e costumi, viene esposta la salma del padre suicida del principe Saurau. In Der Italiener, che altro non sembra se non un corollario a Verstörung, il padiglione è anche il luogo dove i tedeschi hanno massacrato un gruppo di soldati polacchi.


Rispetto a queste raffigurazioni estreme, le figure della prosa, immerse nel vortice di un linguaggio continuamente provocato, hanno ancora una possibilità di movimento, sperimentano ancora una vitalità, pur sapendo di andare inevitabilmente incontro alla fine. Conversare, si dice in Perturbamento, è camminare in bilico su una corda tesa nel vuoto, ma è anche il tentativo di «camminare insieme per una stessa strada in un unico cervello» (p. 194), è fiducia che un'altra persona stia percorrendo la nostra stessa strada almeno per un tratto. Padre e figlio assistono come ipnotizzati al soliloquio del principe («Per mio padre non era possibile andarsene. Anche a me però interessava moltissimo quello che il principe diceva» [p. 190]), perché in un mondo nel quale tutto è citazione e dove «se ascolti attentamente, sentirai che, in ritmi pensati apposta per te, è sempre la tua storia che ti viene raccontata e che ti danno ad intendere» (p. 199), in un mondo simile, paradossalmente, c'è anche la possibilità di un improvviso, fugace ritrovarsi «perché proprio questa è la più perfetta delle magie: trovarsi insieme in un momento in cui l'esistenza è sopportabile» (p. 13

Il curatore ringrazia vivamente Renata Colorni per i suggerimenti che gli ha dato durante il lavoro di traduzione.