UNA STORIA RACCONTATA ALL'OSCURITÀ (1)
Estratto da "Storie del buon Dio"
Rainer Maria Rilke
Volevo indossare il mantello per recarmi dal mio amico Ewald, ma mi persi nella lettura di un libro, un vecchio libro, e la sera era scesa come in Russia sorge la primavera. Solo un istante prima la stanza era chiara fin nell’angolo più remoto, poi fu come se tutti gli oggetti non avessero mai conosciuto altro che il crepuscolo: dappertutto si aprivano grandi fiori oscuri e intorno ai loro calici di velluto ogni splendore sembrava scivolare come su ali di libellula.
Il paralitico, di certo, non era più alla finestra, così rimasi in casa. Ma che cosa avrei voluto raccontargli ancora? Non me lo ricordavo più. Dopo poco, però, ebbi la sensazione che qualcuno mi chiedesse quella storia dimenticata, forse un uomo solo, lontano, seduto alla finestra della sua stanza buia, oppure era l’oscurità stessa che circondava me, lui e tutte le cose. Così avvenne che mi misi a raccontare all’oscurità. E questa si chinava sempre più vicina a me e io potevo parlare a voce sempre più bassa, proprio come richiedeva la mia storia. Una storia che si svolge, per lo più, nel presente e comincia così:
– Dopo una lunga assenza il dottor Georg Lassmann ritornò alla sua piccola città. Non vi aveva mai posseduto molto, ora nella sua città natia vivevano soltanto le sue due sorelle, entrambe sposate e, a quanto sembra, ben accasate. Rivederle dopo dodici anni era il motivo della sua visita o così egli credeva. Ma durante la notte, mentre non riusciva a prendere sonno nel treno affollato, si rese conto che ritornava per ricordare la sua infanzia, sperando di trovare qualche traccia nelle vecchie strade: un portone, una torre, una fontana, una cosa qualsiasi che gli ricordasse un momento di gioia o di tristezza e in cui potesse ancora riconoscersi. Ci si smarrisce spesso nella vita. Gli tornarono alla mente dei ricordi: la piccola abitazione, nella Heinrichgasse, con le porte dalle maniglie lucide e i pavimenti di legno scuro, i mobili conservati con riguardo e i genitori, quelle due persone quasi riverenti nei riguardi una dell’altra; e poi ricordò gli affannosi giorni della settimana e le domeniche che somigliavano a stanze vuote, i rari visitatori ricevuti con un sorriso imbarazzato, il pianoforte scordato, il vecchio canarino, la poltrona ereditata sulla quale non ci si poteva sedere, un onomastico, uno zio che arrivava da Amburgo, un teatrino di marionette, un organo di Barberia, una festa di bambini, e qualcuno che chiama: – Clara!
Il dottore era quasi addormentato. Il convoglio era fermo in una stazione, si vedevano scorrere le luci, un martello colpiva le ruote di ferro che risuonavano. Quasi ripetessero: Clara, Clara…
“Clara,” rifletté il dottore ora completamente desto, “ma chi era costei?”
E subito ricordò un volto infantile dai capelli biondi e lisci. Non avrebbe saputo descriverlo, ma aveva la sensazione di una bambina silenziosa, fragile, fedele, dalle esili spalle costrette in un abitino sbiadito. E già lui pensava di dare un volto per quelle spalle, ma immediatamente si rese conto che non era necessario: il viso era là, o piuttosto era là quello di una volta. Così, a stento, il dottor Lassmann si rammentò di Clara, la sua unica compagna di giochi. Fino a quando non era entrato in collegio, all’età di circa dieci anni, aveva diviso con lei tutto quanto gli accadeva, poco o molto che fosse. Clara non aveva fratelli e anche lui sembrava essere figlio unico per il disinteresse che gli mostravano le sorelle maggiori. Da allora non aveva mai chiesto notizie di lei. Come era stato possibile? Si appoggiò allo schienale. Ricordò ancora che era una bambina devota e si domandò: “Che ne sarà stato di lei?”
A lungo lo tormentò il pensiero che potesse essere morta. In quello scompartimento stretto e affollato fu colto da un’angoscia immensa, poiché tutto pareva confermare la supposizione: era una bimba di salute cagionevole, a casa sua non era mai stata particolarmente curata, piangeva spesso. Senza dubbio era morta. Il dottore non poté sopportare più a lungo questo pensiero: disturbò alcuni viaggiatori addormentati, e passò nel corridoio. Aprì un finestrino, e guardò fuori nel buio punteggiato di scintille. Questo lo calmò e, quando tornò nello scompartimento, si addormentò nonostante la scomoda posizione cui era costretto.
L’incontro con le due sorelle sposate avvenne non senza imbarazzo. I tre avevano dimenticato quanto lontani fossero rimasti l’uno dalle altre, nonostante la loro stretta parentela. Per un poco cercarono di comportarsi come fratelli, ma poi, come per tacito accordo, convennero di rifugiarsi in quel semitono formale creato dalla società per tutte le evenienze.
Si sistemò dalla sorella minore, il cui marito godeva di una condizione particolarmente agiata: era un industriale insignito del titolo di Consigliere imperiale. Fu a tavola, dopo la quarta portata, che il dottore domandò:
– Dimmi, Sofia, che ne è stato di Clara?
– Quale Clara?
– Non mi ricordo il suo cognome. La figlia del vicino, sai, con cui giocavo da piccolo.
– Ah, intendi Clara Söllner?
– Söllner, giusto, proprio Söllner. Ora ricordo: il vecchio Söllner era quell’orribile vecchio… Ma che ne è di Clara?
La sorella esitò:
– Si è sposata. Ora vive molto ritirata.
– Già, – fece il consigliere, e il suo coltello scivolò, stridendo, sul piatto – molto ritirata.
– La conosci anche tu? – chiese il dottore rivolgendosi al cognato.
– Ss…ì, così, di sfuggita: qui è piuttosto conosciuta.
I coniugi si scambiarono uno sguardo d’intesa. Il dottore comprese che insistere sopra questo argomento, per una qualche ragione, non era gradito e non chiese più nulla.
Ma il Consigliere mostrò molta voglia di riprendere il discorso quando la padrona di casa ebbe lasciato soli gli uomini dopo il caffè.
– Quella Clara, – disse con un sorriso malizioso, osservando la cenere che dal suo sigaro cadeva nel posacenere d’argento, – doveva certo essere stata una bambina tranquilla e discretamente brutta, vero?
Il dottore non rispose. Il Consigliere gli si avvicinò con fare confidenziale:
– Che storia, la sua! Non ne hai mai sentito nulla?
– Ma io non ne ho parlato con nessuno.
– Parlato? – sorrise il consigliere. – Ma si poteva leggere sui giornali!
– Che cosa? – chiese nervosamente il dottore.
– Che lei gli è scappata. – L’industriale lanciò questa frase sorprendente dietro una nuvola di fumo e con un’espressione di immenso piacere rimase in attesa dell’effetto. Ma questo non gli riuscì gradito. Allora assunse un’aria grave, si drizzò sulla poltrona e cominciò con tono diverso, come offeso:
– Uhm… Era stata data in moglie all’architetto Lehr. Tu non devi averlo mai conosciuto. Un uomo non vecchio, circa della mia età. Ricco, una cosa conveniente sotto tutti i punti di vista. Lei non aveva un soldo, non era bella, non aveva neppure una grande educazione… Ma l’architetto non desiderava una gran dama, voleva una modesta donna di casa. Ma Clara… Era stata accolta dappertutto tra la benevolenza generale… davvero… ci si era comportati in modo corretto… Avrebbe potuto facilmente crearsi una posizione… Ma Clara, un giorno, appena due anni dopo le nozze, se ne andò. Capisci? Sparì. Dove? In Italia. Un breve viaggio di piacere, naturalmente non da sola. Noi da un anno non la invitavamo più a casa nostra, quasi se presentissimo… L’architetto, amico mio, un gentiluomo…
– E Clara? – lo interruppe il dottore alzandosi.
– Ah, sì, la punizione del cielo l’ha già raggiunta. Sembra che il compagno, un artista si dice, fosse un uccello di passo… (2) naturalmente doveva essere solo così… Insomma, quando ritornarono dall’Italia a Monaco, addio, nessuno lo ha più visto. E ora lei è là con il bambino.
Il dottor Lassmann prese a camminare nervosamente avanti e indietro per la camera.
– A Monaco?
– Sì, a Monaco, – rispose il Consigliere alzandosi a sua volta. – Deve condurre una vita davvero misera…
– Che vuol dire misera?
– Beh, – il consigliere guardò il suo sigaro, – dal lato economico e poi in generale… Oddio… una di quelle esistenze… – A un tratto posò la sua mano ben curata sulle spalle del cognato e ridacchiò con evidente piacere:
– Non si sa chi l’ha detto, ma vive di…
Il dottore si voltò bruscamente e uscì dalla stanza. Il signor consigliere, cui era caduta la mano dalla spalla del cognato, impiegò dieci minuti per rimettersi dallo stupore. Poi andò dalla moglie e disse irritato:
– L’ho sempre detto che tuo fratello è uno stravagante.
La donna, che si era appena assopita, sbadigliò pigramente:
– Oh sì, certo.
Due settimane dopo il dottore partì. Aveva capito d’un tratto che doveva recuperare altrove la sua infanzia. A Monaco, nella rubrica trovò: Clara Söllner, Schwabing, via e numero. Annunciò la sua visita e uscì. Una signora slanciata lo accolse in una stanza piena di luce e di bontà.
– Georg, si ricorda di me?
Il dottore rimase perplesso. Poi disse:
– Dunque è lei, Clara.
Ella mantenne immobile il suo viso sereno, dalla fronte pura, come se volesse dargli il tempo di riconoscerla. Al dottore occorse molto tempo, poi sembrò avere trovato qualcosa capace di provargli che la sua vecchia compagna di giochi era realmente davanti a lui. Cercò ancora una volta la sua mano, la strinse, poi la liberò adagio e si guardò intorno. Accanto alla finestra, c’era una scrivania coperta di libri e di carte, dalla quale Clara doveva essersi appena alzata. La sedia era ancora scostata.
– Stava scrivendo? – Il dottore sentì subito quanto sciocca fosse la sua domanda.
Ma Clara rispose con naturalezza:
– Sì, traduco.
– Per la stampa?
– Sì, – confermò Clara semplicemente. – Per un editore.
Georg scorse alle pareti alcune fotografie di capolavori italiani, tra cui il “Concerto” di Giorgione.
– Le piace? – le chiese.
Egli si avvicinò all’immagine.
– E a lei?
– Non ho mai visto l’originale: si trova a Firenze, non è vero?
– A Palazzo Pitti. Dovrebbe andarlo a vederlo.
– Solo per questo?
– Proprio solo per questo.
L’avvolgeva una semplice, libera serenità. Il dottore la guardò pensieroso.
– Che cos’ha, Georg? Non vuole sedersi?
– Sono triste – esitò. – Pensavo… Ma lei non è per nulla in miseria – concluse improvvisamente.
Clara sorrise:
– Ha sentito la mia storia?
– Sì, volevo dire…
– Oh, – lo interruppe in fretta Clara, quando vide che il viso gli si stava rabbuiando. – Non è colpa di nessuno se la raccontano diversamente. Le esperienze che viviamo spesso non possono esprimersi a parole e chiunque le racconti deve fatalmente commettere errori…
Tacque.
– Che cosa l’ha resa così buona? – domandò il dottore
– Tutto – disse lei con voce bassa e calda. – Ma perché dice: “buona”?
– Perché… perché lei, al contrario, avrebbe dovuto diventare dura. Era una bambina debole e fragile e i bambini così, da grandi diventa duri oppure…
– Oppure muoiono, vuol dire. Beh, anch’io sono stata morta per molti anni. Da quando l’ho veduta l’ultima volta, in casa nostra, fino a…
Prese qualcosa sul tavolo e continuò:
– Vede, questo è un suo ritratto. L’hanno fatto un poco più bello. Il suo viso non è così luminoso, ma è più dolce, più semplice. Fra poco le farò vedere anche il nostro bambino, che ora sta dormendo nella stanza accanto. È un maschietto. Si chiama Angelo, come lui. Lui, ora, è in viaggio, lontano.
– E lei vive sola? – domandò il dottore chino ancora sulla fotografia.
– Sì, io e il bambino. Non è sufficiente? Le racconterò ogni cosa. Angelo è un pittore. Il suo nome è poco conosciuto, lei certo non l’avrà mai sentito nominare. Fino a poco tempo fa ha lottato con il mondo, con i suoi progetti, con se stesso e con me. Sì, anche con me, perché era da un anno che lo pregavo: “Devi viaggiare”. Capivo fino a che punto gli fosse necessario. Una volta mi chiese scherzando: “Me o un bambino?” “Un bambino” risposi. Poi è partito.
– E quando ritornerà?
– Quando il bambino saprà pronunciare il suo nome, si è convenuto così.
Il dottore avrebbe voluto fare qualche osservazione. Ma Clara rise:
– E poiché è un nome difficile, ci vorrà ancora del tempo. Angelino compirà due anni in estate.
– Strano – disse il dottore.
– Che cosa Georg?
– Quanto bene lei comprenda la vita. Quanto è maturata, anche se ancora giovane. Dove ha lasciato la sua infanzia? Eravamo entrambi bambini così indifesi. Questo non lo si può cambiare o fare in modo che non sia mai accaduto.
– Lei ritiene che, per principio, avremmo dovuto soffrire per la nostra infanzia?
– Sì, proprio questo intendo. Per quel buio fitto che è rimasto in noi, con il quale stabiliamo rapporti tanto deboli e incerti. A quell’epoca abbiamo affidato tutto, ogni inizio, ogni segreto, ogni seme di quello che un giorno, forse, si sarebbe potuto sviluppare. E improvvisamente ci rendiamo conto che tutto questo è sprofondato in mare, e non sappiamo neppure con esattezza quando. Non lo abbiamo nemmeno notato. Come se uno avesse messo insieme tutti i suoi risparmi per comperarsi una piuma da mettere sul cappello e la prima ventata gliela porta via. Ovviamente torna a casa senza piuma e non gli rimane altro che chiedersi quando essa è volata via.
– Lei si chiede questo, Georg?
– No, ora non più. Vi ho rinunciato. Ho cominciato a esistere in un momento imprecisato dopo i dieci anni, cioè quando ho smesso di pregare. Il resto non mi appartiene.
– E com’è che si è ricordato di me?
– Per questo sono venuto a casa sua. Lei è l’unica testimone di quel tempo. Credevo di potere ritrovare in lei… ciò che non riesco a ritrovare in me. Un gesto, una parola, un nome che mi richiamino qualcosa… una spiegazione…
Il dottore chinò il capo tra le mani fredde e inquiete.
Clara rimase pensierosa:
– Ricordo così poco della mia infanzia, quasi fossero trascorsi mille anni. Ma ora che lei mi ci fa pensare, mi torna alla memoria qualche cosa. Una sera lei arrivò, inatteso, a casa nostra. I suoi genitori erano andati a teatro o non so dove. Da noi era tutto illuminato. Mio padre stava aspettando un ospite, un parente, un lontano ricco parente, se ricordo bene. Doveva arrivare da… da… non so da dove, da lontano in ogni modo. Lo aspettavamo già da due ore. Le porte erano aperte, le lampade accese. La mamma, di tanto in tanto, si muoveva per sistemare la fodera del divano, il babbo era alla finestra. Nessuno osava sedersi per non spostare nemmeno una sedia. Lei arrivò e si fermò ad aspettare con noi. Noi bambini origliavamo dietro l’uscio. E più si faceva tardi, più straordinario diventava l’ospite che attendevamo. Tremavamo addirittura al pensiero che potesse arrivare prima di aver raggiunto l’ultimo grado di splendore cui ci avvicinava ogni minuto di ritardo. Non temevamo che non venisse del tutto, eravamo certi che sarebbe arrivato, ma volevamo lasciargli il tempo di diventare grande e potente.
All’improvviso il dottore alzò la testa e disse triste:
– Ma sappiano entrambi che lui non venne… Neanche io avevo dimenticato.
– No – confermò Clara. – non venne.
E dopo una pausa:
– Ma è stato molto bello.
– Che cosa?
– Beh, l’attesa, tutte quelle lampade, il silenzio, l’aria festosa…
Si udì un rumore nella stanza accanto. Clara si scusò e uscì. Quando riapparve, lieta e serena, disse:
– Tra poco andremo a vederlo. È sveglio e sorride. Ma cosa stava per dire poco fa?
– Stavo pensando a ciò che poteva averla aiutata a… a raggiungere se stessa, questo tranquillo controllo di se stessa. La vita non l’ha davvero favorita. L’ha aiutata qualche cosa che a me manca?
– Che cosa dovrebbe essere stato, Georg?
Clara gli sedette accanto.
– È strano. La prima volta che mi ricordai di lei fu in viaggio, di notte, tre settimane fa, e mi ricordai che lei era una bambina devota. E ora che l’ho rivista, benché sia tanto diversa da quella che mi aspettavo… e vorrei aggiungere: proprio per questo… sento che quanto l’ha guidata attraverso tutte le difficoltà è stata la sua… la sua religiosità.
– Che cosa intende per religiosità?
– I suoi rapporti con Dio, l’amore che gli porta, la sua fede.
Clara chiuse gli occhi.
– Amore per Dio? Mi lasci riflettere.
Il dottore la osservò attento. Ella sembrava formulare i pensieri lentamente, via via che le venivano alla mente.
– Da bambina… amavo Dio? Non credo. Non ho neppure… Mi sarebbe parsa una presunzione… no, non è la parola esatta… come un peccato grave, anche solo pensare: “Egli esiste”. Mi sarebbe sembrato come se con questo pensiero lo avessi voluto costringere a scendere in me, in quella fragile bambina dalle braccia ridicolamente lunghe, in quella nostra misera casa, dove tutto era falso e contraffatto, dai piatti di cartone imitanti il bronzo appesi alle pareti, al vino nelle bottiglie dalle etichette di lusso. Più tardi…
Clara ebbe un gesto con le mani quasi volesse difendersi, gli occhi le si chiusero ancora di più, quasi temessero di vedere attraverso le palpebre qualche cosa di orribile.
– Sì, più tardi avrei dovuto cacciarlo via a forza da me, se mai vi avesse preso dimora. Ma allora non sapevo nulla di lui. Lo avevo completamente dimenticato. Avevo dimenticato tutto… Solo a Firenze, quando per la prima volta in vita mia vidi, sentii, riconobbi e allo stesso tempo imparai a ringraziare per tutto questo, ecco allora pensai di nuovo a lui. Tutto parlava di lui. In ogni quadro trovavo traccia del suo sorriso, le campane vivevano della sua voce, sulle statue riconoscevo l’impronta delle sue mani.
– E là che l’ha trovato?
Clara fissò il dottore con gli occhi colmi di felicità:
– Sentii che egli era esistito, che una volta, chissà quando, c’era stato… Perché avrei dovuto capire di più? Questo era già troppo.
Il dottore si alzò e si avvicinò alla finestra, Si vedeva un pezzo di campo e la piccola, antica chiesa di Schwabing, e sopra il cielo con le prime ombre della sera. Senza voltarsi, il dottor Lassmann chiese improvviso:
– E ora c’è?
Non giunse risposta e lui ritornò, adagio, sui suoi passi.
– Ora… – esitò Clara quando lui le fu di fronte ed ella poté fissarlo negli occhi – ora a volte penso: “Egli sarà”.
Il dottore le prese la mano e la trattenne un attimo tra le sue, lo sguardo smarrito in pensieri.
– A che cosa pensa, Georg?
– Penso che tutto è ancora come quella sera: lei aspetta di nuovo un ospite meraviglioso, Dio, ed è sicura che verrà… Poi per caso arrivo io…
Clara si alzò, leggera e sorridente. Sembrava molto giovane.
– Sì, ma questa volta sapremo attendere fino alla fine.
Le sue parole erano tanto semplici e gioiose che il dottore dovette sorridere. Clara lo condusse nella stanza vicina, dal bambino.
In questa storia non vi è nulla che i bambini non debbano sapere. Tuttavia, i bambini non l’hanno ancora appresa. Io l’ho raccontata solamente all’oscurità. E i bambini hanno paura dell’oscurità, la fuggono, e se una volta ci si trovano stringono forte gli occhi e si chiudono le orecchie. Ma anche per loro verrà il tempo in cui ameranno l’oscurità. Avranno allora da lei questa mia storia e sapranno anche comprenderla meglio.
Note:
1. R.M. Rilke, Eine Geschichte, dem Dunkel erzählt, in Geschichten vom lieben Gott (Storie del buon Dio), 1904. Traduzione e note: © associazione culturale Larici, 2010.
2. Uccello migratore. (N.d.T.)