domenica 9 marzo 2014


Levin prese la falce e cominciò a provare...

Konstantin Levin, personaggio autobiografico, è uno dei più interessanti nel romanzo Anna Karenina, uno dei più approfonditi nella storia al quale Tolstòj dedica molti capitoli. Ci viene presentato come un uomo fragile e idealista, tormentato dalla necessità di conoscere la sua vera natura e i tanti “perché” della vita, che crede nell’amore e nel lavoro. Quando riceve la visita a casa sua in campagna da parte del fratello scrittore, Levin non riesce ad avere una conversazione piacevole con lui, e manifesta tutto il suo disfattismo su ogni argomento toccato dal fratello. 
“Konstantin taceva. Sentiva d’essere sconfitto da ogni lato, ma nello stesso tempo sentiva che quello che egli intendeva dire non era stato capito dal fratello, non sapeva bene perché: perché non aveva saputo esporlo lui chiaramente o perché il fratello non aveva voluto o non aveva potuto capirlo? Ma non stette a riflettere e, senza replicare, cominciò a pensare a una faccenda del tutto diversa, tutta sua personale.”(Lev Nikolaevic Tolstoj. “Anna Karenina Ita.” SANSONI 1967)
E' allora che decide di estraniarsi da quella conversazione, che lo mette a disagio, per far esperienza del suo amore per il lavoro e vita all'aperto, andando nei campi per falciare insieme ai suoi contadini.
“Levin prese la falce e cominciò a provare. I falciatori che avevano finito la loro fila, uscivano sudati e allegri, uno dopo l’altro, sulla strada e salutavano, sorridendo, il padrone. Tutti lo guardavano, ma nessuno aprì bocca finché un vecchio, uscendo sulla strada, alto, col viso rugoso e glabro, con un giubbotto di montone, si rivolse a lui.
— Attento a te, padrone. Se hai preso l’avvio, non restare addietro! — disse, e Levin udì un riso contenuto fra i falciatori.
— Cercherò di non restare addietro — disse, mettendosi accanto a Tit e aspettando il momento per cominciare.
— Bada a te — ripeté il vecchio.
Tit fece posto a Levin che gli tenne dietro. L’erba era bassa, vicino alla strada, e Levin, che da tempo non falciava e si sentiva confuso sotto gli sguardi di tutti, falciò male al primo momento, pur agitando con forza la falce. Dietro di lui si sentirono delle voci.
— È impostata male, il manico è troppo alto; guarda come deve abbassarsi — disse uno.
— Pòggiati di più col tallone — disse un altro.
— Non fa niente, va bene, taglia lo stesso — continuò il vecchio. — Guarda... è andata.... Stai prendendo la falciata troppo larga, ti stancherai.... Il padrone, non c’è che dire, si sforza per sé. Ma guarda che sgorbio! Per una cosa simile a noi ce la danno sul groppone. L’erba diventò più morbida, e Levin, ascoltando senza rispondere, cercando di falciare come meglio poteva, teneva dietro a Tit. Erano andati avanti di cento passi. Tit procedeva senza fermarsi: ma Levin aveva già il terrore di non resistere, tanto era stanco. Sentiva che ormai falciava con le sue ultime riserve, e decise di pregare Tit di fermarsi. Ma proprio in quel momento Tit si fermò per conto suo e, chinatosi, prese dell’erba, asciugò la falce e si mise ad affilarla. Levin si raddrizzò e, dopo aver respirato, si guardò in giro. Dietro di lui procedeva un contadino che, evidentemente, era stanco anche lui, perché subito, senza raggiungere Levin, si fermò e prese ad affilare. Tit finì di affilare la falce sua e quella di Levin, e insieme proseguirono. Alla seconda ripresa fu lo stesso. Tit procedeva, un colpo dietro l’altro, senza fermarsi e senza stancarsi. Levin lo seguiva, sforzandosi di non restare indietro, ma gli era sempre più difficile: veniva il momento in cui sentiva di non avere più forze, ma proprio in quel momento Tit si fermava e “si metteva ad affilare. Così passarono la prima falciata. E questa lunga falciata parve particolarmente difficile a Levin; in compenso quando fu terminata e Tit, gettandosi la falce sulla spalla, si mise a passo lento a percorrere, sulle orme lasciate dai tacchi, la falciata, anche Levin s’incamminò sulla propria. E sebbene il sudore gli scendes-se a rivoli per il viso e gocciolasse giù dal naso e tutta la schiena fosse bagnata, come immersa nell’acqua, egli si sentiva bene. Lo rallegrava in modo particolare la sicurezza di poter resistere. La sua soddisfazione era amareggiata solo dal fatto che la falciata non gli riusciva bene. «Moverò meno la mano e più il torso» pensava, confrontando la falciata di Tit come tesa su di un filo, con la sua sparpagliata e disposta in modo ineguale. Nel passare la prima falciata, Tit, come aveva notato Levin, era andato particolarmente in fretta, forse per mettere alla prova il padrone e la falciata era capitata lunga. Le altre erano già più facili; Levin tuttavia doveva tendere tutte le sue forze per non restare indietro ai contadini. Egli non pensava a nulla, non desiderava nulla, altro che non restare indietro ai contadini e terminare nel modo migliore. Sentiva solo lo stridere delle falci e vedeva dinanzi a sé la figura diritta di Tit che si allontanava, il semicerchio curvo del terreno falciato, le erbe e le corolle dei fiori che si chinavano lente, a onda, intorno alla lama della falce e dinanzi a sé il termine della falciata, là dove sarebbe giunto il riposo. Nel mezzo del lavoro, senza capir che fosse e donde venisse, provò improvvisamente una piacevole sensazione di fresco giù per le spalle accaldate e sudate. Guardò il cielo mentre affilava la falce. Una nuvola bianca e greve s’era addensata e ne veniva giù una pioggia pesante. Alcuni contadini corsero ai gabbani e se li infilarono; altri, come Levin, si strinsero nelle spalle con gioia sotto la piacevole rinfrescata. Passarono ancora una falciata e poi ancora un’altra. Passavano falciate lunghe e corte, con l’erba buona e con l’erba cattiva. Levin aveva perso ogni nozione del tempo e proprio non sapeva se fosse tardi o presto. Nel suo lavoro si era verificato un cambiamento che gli fece grande piacere. Mentre lavorava, aveva dei momenti nei quali dimenticava quello che faceva, si sentiva leggero, e proprio in quei momenti la falciata gli veniva fuori uguale e bella quasi come quella di Tit. Ma appena si ricordava di quello che faceva, e si sforzava di far meglio, provava subito tutta la pesantezza del lavoro e la falciata gli riusciva male. Passata un’altra falciata, egli voleva di nuovo riprendere a camminare, ma Tit si fermò, e accostandosi al vecchio, gli disse qualcosa sottovoce. Guardarono insieme il sole. «Di che stanno a parlare, e perché non continua a falciare?» pensò Levin, senza rendersi conto che i contadini avevano falciato ininterrottamente non meno di quattro ore e che per loro era tempo di far colazione.