L’AVVERSARIO
Emmanuel Carrère
Recensione
La storia vera di Jean Claude Romand, un mitomane e bugiardo patologico che per più di vent'anni ha condotto una vita basata su una fitta rete di menzogne, spacciandosi per medico senza neanche essere laureato. Quando nel 1993, per una serie di eventi, la sua famiglia rischia di scoprire tutto, lui arriverà a compiere una strage tremenda, uccidendo la moglie, i figli e gli anziani genitori. Una storia vera, descritta in prima persona da un redattore che si mette in contatto con l’assassino per poter raccontare il suo punto di vista e le dinamiche mentali che l’hanno spinto a compiere un tale scempio. Il colpevole, bugiardo truffatore e omicida, sembra estraniarsi dagli eventi. Carrére alterna il racconto degli eventi ai momenti del processo, le testimonianze del protagonista e delle altre persone coinvolte nella vicenda alle sue considerazioni personali. Ma non esprime mai un giudizio personale sull'accaduto o sul colpevole, piuttosto si sofferma sullo stato d'animo che la vicenda gli suscita, interrogando sé stesso e di conseguenza il lettore, ancora una volta, sulla banalità e l'inesplicabilità del male.
L'AVVERSARIO
La mattina del sabato 9 gennaio 1993, mentre Jean-Claude Romand uccideva sua moglie e i suoi figli, io ero a una riunione all’asilo di Gabriel, il mio figlio maggiore, insieme a tutta la famiglia. Gabriel aveva cinque anni, la stessa età di Antoine Romand. Più tardi siamo andati a pranzo dai miei genitori, e Romand dai suoi. Dopo mangiato ha ucciso anche loro. Ho trascorso da solo, nel mio studio, il pomeriggio del sabato e l’intera domenica, in genere dedicati alla vita familiare, perché stavo finendo un libro al quale lavoravo da un anno: la biografia dello scrittore di fantascienza Philip K. Dick. L’ultimo capitolo raccontava i giorni che lo scrittore aveva passato in coma prima di morire. Ho finito il martedì sera, e il mercoledì mattina ho letto il primo articolo di «Libération» sul caso Romand.
Il lunedì, poco dopo le quattro del mattino, Luc Ladmiral è stato svegliato da una telefonata di Cottin, il farmacista di Prévessin. La casa dei Romand aveva preso fuoco, gli amici avrebbero fatto bene ad andare a recuperare i pochi mobili che potevano ancora essere salvati. Al suo arrivo i pompieri stavano portando via i corpi. Luc ricorderà per tutta la vita i sacchi di plastica grigia, sigillati, nei quali erano stati messi i bambini: uno spettacolo troppo orribile. Su Florence avevano gettato solo un cappotto. Il suo volto, annerito dal fumo, era intatto. Accarezzandole i capelli in uno sconsolato gesto di addio, le dita di Luc hanno avvertito qualcosa di strano. Ha tastato meglio, girando con cautela la testa della giovane donna, e ha chiamato un pompiere per mostrargli, appena sopra la nuca, una piaga aperta. Doveva esserle caduta addosso una trave, ha detto il pompiere: gran parte della soffitta era crollata. Poi Luc è salito sul camion rosso dove avevano steso Jean-Claude, l’unico della famiglia a essere ancora vivo. Aveva un battito del polso debolissimo. Era in pigiama, privo di sensi, ustionato ma già freddo come un morto.
È arrivata l’ambulanza e l’ha trasportato all’ospedale di Ginevra. Era buio, faceva freddo e tutti erano bagnati fradici a causa del getto degli idranti. Visto che lì non c’era più niente da fare, Luc è andato ad asciugarsi dai Cottin. Nella luce gialla della cucina, sono rimasti ad ascoltare il singhiozzo della caffettiera, senza avere il coraggio di guardarsi in faccia. Avevano le mani che tremavano sollevando le tazze, e girando i cucchiaini, che facevano un rumore terribile. Poi Luc è tornato a casa per dare la notizia a Cécile e ai bambini. Sophie, la maggiore, era la figlioccia di Jean-Claude. Solo qualche giorno prima, come tante altre volte, aveva dormito dai Romand: avrebbe potuto benissimo dormire da loro anche quella notte e trovarsi ora, pure lei, dentro un sacco grigio.
Avevano studiato Medicina a Lione, e da allora non si erano più lasciati. Si erano sposati più o meno nello stesso periodo, e i loro figli erano cresciuti insieme. Ognuno di loro conosceva tutto della vita dell’altro, la facciata ma anche i segreti, segreti di uomini onesti, di persone perbene, e quindi ancor più vulnerabili alle tentazioni. Quando Jean-Claude gli aveva confidato che aveva una relazione, e voleva mollare tutto, Luc era riuscito a farlo ragionare: «Mi restituirai il favore quando sarò io a essere in vena di cazzate». Un’amicizia come questa fa parte delle cose preziose della vita, preziosa quasi quanto un matrimonio riuscito, e Luc aveva sempre dato per scontato che un giorno, a sessanta, settant’anni – dall’alto di quegli anni come dalla cima di una montagna –, avrebbero guardato insieme la strada percorsa: i punti in cui avevano inciampato, quelli in cui avevano rischiato di perdersi, l’aiuto che si erano prestati a vicenda, il modo in cui, alla fine, se l’erano cavata. Un amico, un vero amico, è anche un testimone, e il suo sguardo ti permette di valutare meglio la tua vita, e per vent’anni ciascuno di loro aveva svolto quel ruolo per l’altro, senza mai tirarsi indietro, senza tante parole. Le loro vite erano simili, anche se sul piano professionale i due uomini non avevano avuto lo stesso successo. Jean-Claude era un luminare nel campo della ricerca, frequentava ministri e partecipava a convegni internazionali, mentre Luc era medico di base a Ferney-Voltaire. Ma non provava la minima invidia. Se si erano un po’ allontanati negli ultimi mesi, era stato solo per un’assurda divergenza riguardo alla scuola che frequentavano i loro figli. Inspiegabilmente, Jean-Claude era andato su tutte le furie, tanto che Luc era stato costretto a fare il primo passo, a dirgli che non valeva la pena di litigare per una sciocchezza simile. Quella storia l’aveva angustiato, lui e Cécile ne avevano discusso per parecchie sere di fila. A pensarci ora, com’era insignificante! Com’è fragile la vita! Soltanto ieri c’era una famiglia unita, felice, quattro persone che si volevano bene, e adesso, per un incidente alla caldaia, solo corpi carbonizzati da trasportare all’obitorio... Moglie e figli erano tutto per Jean-Claude. Che vita sarebbe stata la sua se fosse sopravvissuto?
Luc ha chiamato il pronto soccorso a Ginevra: il ferito era nella camera iperbarica, la prognosi restava riservata.
Ha pregato con Cécile e i bambini perché non riprendesse conoscenza.
Quella mattina, quando ha aperto lo studio, ha trovato ad aspettarlo due agenti. Le loro domande gli sono parse strane. Volevano sapere se i Romand avessero nemici dichiarati, attività sospette... Vedendolo sbalordito, i poliziotti gli hanno detto la verità: da un primo esame dei cadaveri, risultava che fossero morti prima dell’incendio, Florence ferita al capo da un corpo contundente, Antoine e Caroline uccisi a colpi d’arma da fuoco.
E non era tutto. A Clairvaux-les-Lacs, sulle pendici del Giura, lo zio di Jean-Claude era stato incaricato di annunciare la tragedia ai genitori, persone anziane e fragili. Era andato a casa loro insieme al medico di famiglia. Ma la casa era chiusa, il cane non abbaiava. Preoccupato, l’uomo aveva forzato la porta trovando il fratello, la cognata e il cane in un lago di sangue. Anche loro uccisi a colpi d’arma da fuoco.
Assassinati. I Romand erano stati assassinati. Quella frase echeggiava nella testa di Luc con una nota d’incredulità. «Sono stati rapinati?» ha chiesto, come se questa parola potesse ricondurre l’orrore dell’altra a qualcosa di razionale. La polizia non lo sapeva ancora, ma due delitti ai danni della stessa famiglia a ottanta chilometri di distanza facevano pensare piuttosto a una vendetta, o a un regolamento di conti. Gli agenti sono tornati alla domanda iniziale e Luc, sconcertato, ha scosso la testa: nemici, i Romand? Erano benvoluti da tutti. Chi li aveva uccisi era sicuramente uno che non li conosceva.
Ai poliziotti non era chiaro quale mestiere esercitasse esattamente Jean-Claude. Medico, dicevano i vicini, ma non aveva uno studio. Luc ha spiegato che era ricercatore all’Organizzazione mondiale della sanità, a Ginevra. Uno degli agenti ha telefonato, chiedendo di parlare con un collaboratore del dottor Romand, la sua segretaria o un suo assistente. La centralinista non conosceva nessun dottor Romand. Visto che l’altro insisteva, gli ha passato il direttore del personale che, consultati gli schedari, ha confermato: all’OMS non c’era nessun dottor Romand.
Allora Luc ha capito, e ha provato un immenso sollievo. Tutto quel che era accaduto dalle quattro del mattino in poi, la telefonata di Cottin, l’incendio, le ferite di Florence, i sacchi grigi, Jean-Claude al centro grandi ustionati e per finire quella storia dei delitti, tutto gli era parso perfettamente verosimile, tutto si concatenava dando un’impressione di realtà che non lasciava margini al dubbio – ma adesso, grazie a Dio, il copione cominciava a fare acqua e si rivelava per quello che era: un incubo. Presto si sarebbe svegliato nel suo letto. Chissà se al risveglio si sarebbe ricordato tutti i particolari, chissà se avrebbe avuto il coraggio di raccontarlo a Jean-Claude. «Ho sognato che la tua casa bruciava, che tua moglie, i tuoi figli e i tuoi genitori erano morti assassinati, che tu eri in coma e che all’OMS nessuno ti conosceva». Si può dire una cosa simile a un amico, anche se è il tuo migliore amico? A Luc è balenato un pensiero che in seguito avrebbe continuato a ossessionarlo: in quel sogno Jean-Claude era il suo doppio, e affioravano paure che riguardavano lui stesso: paura di perdere i suoi cari ma anche di perdersi, di scoprire che dietro la facciata sociale lui non era niente.
Con il trascorrere delle ore la realtà è diventata sempre più simile a un incubo. Convocato alla polizia nel pomeriggio, nel giro di cinque minuti Luc ha scoperto che nella macchina di Jean-Claude avevano trovato un biglietto in cui lui si accusava dei delitti, e che tutto ciò che credevano di sapere sulla sua carriera e sul suo lavoro era pura invenzione. Erano bastate quattro telefonate e qualche semplice verifica per smascherarlo. All’OMS nessuno lo conosceva. All’ordine dei medici non era nemmeno iscritto. Il suo nome non figurava nelle liste degli ospedali parigini in cui sosteneva di aver fatto il tirocinio, né in quelle della facoltà di Medicina di Lione, benché lo stesso Luc e molti altri giurassero di essere stati suoi compagni di università. Aveva cominciato gli studi, è vero, ma aveva smesso di dare esami alla fine del secondo anno, e da quel momento in poi era tutto falso.
All’inizio Luc ha rifiutato categoricamente di crederci. Se uno viene a dirti che il tuo migliore amico, il padrino di tua figlia, l’uomo più onesto che conosci ha ucciso moglie, figli e genitori, e per di più che da anni mente su tutto, non è naturale che tu continui ad avere fiducia in lui, anche se ti mettono di fronte a prove schiaccianti? Che amico saresti se ti lasciassi convincere così facilmente della sua colpevolezza? Jean-Claude non poteva essere un assassino. Doveva mancare per forza una tessera del puzzle. Prima o poi sarebbe saltata fuori, e allora tutto avrebbe acquisito un altro significato.
I Ladmiral hanno vissuto quelle giornate come una prova voluta da Dio. I discepoli di Gesù hanno visto il Maestro arrestato, processato, messo in croce come l’ultimo dei criminali, eppure, sebbene Pietro abbia vacillato, hanno continuato a credere in lui. Il terzo giorno hanno saputo che avevano fatto bene a non arrendersi. Cécile e Luc hanno lottato con tutte le loro forze per non arrendersi. Ma il terzo giorno, se non prima, sono stati costretti ad ammettere che le loro speranze erano vane e che avrebbero dovuto fare i conti con quella realtà: non soltanto con la perdita di chi non c’era più, ma con la morte della fiducia, con una vita interamente corrosa dalla menzogna.
Se almeno avessero potuto proteggere i loro figli! Limitarsi a dirgli, cosa di per sé già abbastanza terribile, che Antoine e Caroline erano morti in un incendio insieme ai genitori. Ma non serviva a niente abbassare la voce: nel giro di poche ore il paese è stato invaso da giornalisti, fotografi, tecnici televisivi che tempestavano tutti di domande, perfino i bambini delle elementari. Già il martedì non ce n’era uno solo che non sapesse che Antoine e Caroline, con la loro mamma, erano stati uccisi dal papà, il quale poi aveva dato fuoco alla casa. Molti hanno iniziato a sognare la notte che la loro casa bruciava e che il loro papà faceva come quello di Antoine e Caroline. Luc e Cécile si sedevano sul bordo dei materassi, che erano stati trascinati l’uno accanto all’altro perché nessuno riusciva più a dormire da solo ed erano costretti a stringersi tutti e cinque nella camera matrimoniale. Senza sapere ancora che cosa dire ai figli, li cullavano, li coccolavano, cercavano almeno di rassicurarli. Ma si rendevano conto che le loro parole non possedevano più il potere magico di prima. Ormai si era insinuato un dubbio che soltanto il tempo avrebbe potuto sradicare. Era come se avessero rubato l’infanzia, ai bambini e anche ai genitori: i piccoli non si sarebbero mai più abbandonati fra le loro braccia con la stessa miracolosa fiducia, miracolosa ma normale a quell’età, nelle famiglie normali. E proprio pensando a questo, a ciò che era andato irrimediabilmente distrutto, Luc e Cécile hanno cominciato a piangere.
La prima sera il gruppo degli amici si è ritrovato dai Ladmiral, e così ogni sera per una settimana. Restavano lì fino alle tre, alle quattro del mattino cercando di farsi forza tutti insieme. Si dimenticavano di mangiare, bevevano troppo, molti hanno ripreso a fumare. Quelle riunioni notturne non assomigliavano affatto a veglie funebri, anzi erano le serate più animate che la casa avesse conosciuto, perché il colpo era tale, li gettava in un tale baratro di domande e di dubbi da mettere tra parentesi il lutto. Ciascuno di loro andava almeno una volta al giorno alla polizia, o perché l’avevano convocato o per avere notizie sulle indagini, e poi ne parlavano per tutta la notte, confrontavano le informazioni, formulavano ipotesi.
La regione di Gex si estende per una trentina di chilometri, su una pianura che va dalle pendici del Giura alle rive del lago Lemano. Pur essendo in territorio francese, appartiene di fatto alla periferia residenziale di Ginevra: è un insieme di ricchi paesini dove si è stabilita una colonia di funzionari internazionali che lavorano in Svizzera, vengono pagati in franchi svizzeri e in gran parte non sono soggetti alle tasse. Hanno tutti più o meno lo stesso tenore di vita: abitano in vecchie fattorie trasformate in comode ville, il marito va in ufficio in Mercedes e la moglie prende la Volvo per occuparsi della spesa e di svariate attività associative. I bambini frequentano la scuola Saint-Vincent, privata e costosa, all’ombra del castello di Voltaire. All’interno di questa piccola comunità Jean-Claude e Florence erano figure note e stimate, e avevano un tenore di vita consono alla loro posizione sociale, sicché tutti quelli che li avevano conosciuti adesso si chiedevano: da dove venivano i soldi? Se non era chi sosteneva di essere, allora chi era quell’uomo?
Il sostituto procuratore della Repubblica, appena investito del caso, ha dichiarato ai giornalisti che «sotto poteva esserci qualunque cosa». Poi, dopo un primo esame dei movimenti bancari, ha concluso che i delitti avevano un duplice movente: «la paura del falso medico di essere smascherato, e la brusca fine di un traffico dai contorni ancora oscuri di cui Romand era un pilastro fondamentale e che gli fruttava da anni somme ingenti». Questa dichiarazione ha scatenato la fantasia della gente, che ha cominciato a parlare di traffico di armi, valuta, organi, stupefacenti. Di una vasta organizzazione criminale attiva nel blocco socialista ormai in sfacelo. Della mafia russa. Jean-Claude viaggiava parecchio: l’anno prima aveva portato a Sophie, la sua figlioccia, una matrioska da Leningrado. In un accesso di paranoia, Luc e Cécile si sono chiesti se le bambole non contenessero documenti compromettenti, un microfilm o un microprocessore, e se non fosse proprio quello che gli assassini avevano cercato invano a Prévessin e a Clairvaux. Perché Luc, sempre più isolato, si ostinava a credere a un complotto. D’accordo, forse Jean-Claude era una spia, un trafficante di segreti scientifici o industriali, ma non poteva aver ucciso sua moglie e i suoi figli. Qualcuno li aveva uccisi, qualcuno aveva fabbricato le prove per incolparlo di quei delitti, arrivando perfino a distruggere le tracce del suo passato.
«Un banale incidente, un’ingiustizia possono provocare la follia. Chiedo scusa a Corinne, chiedo scusa agli amici, chiedo scusa alla brava gente dell’associazione Saint-Vincent che voleva spaccarmi la faccia».
Questo diceva il biglietto d’addio lasciato in macchina. Quale banale incidente? Quale ingiustizia? si domandavano gli «amici» che si ritrovavano la sera dai Ladmiral. Molti di loro facevano parte della «brava gente», erano membri del consiglio scolastico, e a quelli la polizia non dava tregua. A ciascuno è stato chiesto di fornire una versione dettagliata del dissenso provocato all’inizio dell’anno dalla sostituzione del direttore. Gli inquirenti li ascoltavano quasi con sospetto. Non era forse quella l’ingiustizia che aveva provocato la tragedia? I membri del consiglio erano esterrefatti: certo, avevano litigato, forse qualcuno aveva anche minacciato di spaccare la faccia a Jean-Claude, ma bisognava essere pazzi per immaginare che ci fosse un nesso tra quell’alterco e la strage di un’intera famiglia! Bisognava essere pazzi, ammettevano i poliziotti, ma un nesso doveva pur esserci.
Quanto a Corinne, che i giornalisti, a cui era stata data consegna di tacerne il nome, indicavano come una «misteriosa amante», aveva fornito una testimonianza strabiliante. Il sabato precedente Jean-Claude l’aveva raggiunta a Parigi per portarla a cena dal suo amico Bernard Kouchner, a Fontainebleau. Appena qualche ora prima, stando all’autopsia, aveva fatto fuori moglie, figli e genitori, cosa che naturalmente lei non poteva immaginare. In un angolo isolato del bosco aveva tentato di farla fuori come gli altri. Lei si era difesa, lui aveva desistito e l’aveva riportata a casa, confessandole di essere gravemente malato, e che era quella la causa del suo attacco di follia. Il lunedì, apprendendo la notizia della strage e rendendosi conto di aver rischiato di essere la sesta vittima, la donna aveva preso l’iniziativa di chiamare la polizia, la quale aveva chiamato Kouchner. Questi non aveva mai sentito nominare il dottor Romand e non possedeva una casa a Fontainebleau.
A Ferney, Corinne la conoscevano tutti, perché prima di divorziare e trasferirsi a Parigi abitava lì. Nessuno sapeva, però, che avesse avuto una relazione con Jean-Claude, tranne Luc e sua moglie, che per questo motivo non la stimavano molto. La consideravano un’imbrogliona, capace di raccontare qualsiasi frottola pur di rendersi interessante. Ma poiché con il passare dei giorni l’ipotesi del complotto diventava sempre meno plausibile, a colmare il vuoto veniva quella del delitto passionale. Luc si ricordava delle confidenze di Jean-Claude e della profonda depressione in cui era piombato dopo la rottura. Non gli era difficile intuire come quella relazione, una volta riallacciata, avesse potuto portare il suo amico alla pazzia: l’andirivieni fra moglie e amante, l’ingranaggio delle menzogne e per di più l’angoscia della malattia... Perché Jean-Claude gli aveva anche confidato di avere un cancro, e di essere in cura a Parigi dal professor Schwartzenberg. Luc l’ha riferito alla polizia, che ha verificato. Come Kouchner, il professor Schwartzenberg non l’aveva mai sentito nominare, e le indagini, allargate ai reparti oncologici di tutti gli ospedali francesi, sono risultate vane: non si è trovata da nessuna parte una cartella clinica con il nome di Jean-Claude Romand.
Tramite il suo avvocato, Corinne ha ottenuto che la stampa non parlasse più di lei come dell’amante del mostro ma come di una semplice amica. In seguito si è saputo che gli aveva affidato 900.000 franchi. Lui avrebbe dovuto investirli in Svizzera, e invece se n’era appropriato. I misteriosi traffici si riducevano a una banale truffa. Nessuno ha più parlato di spionaggio né di criminalità organizzata. Gli inquirenti pensavano che avesse abusato della fiducia di altre persone che gli erano vicine, e i giornalisti lasciavano intendere che nessuno osava lamentarsi perché i favolosi investimenti promessi erano illegali. Forse era per questo che la cerchia dei notabili di Ferney si mostrava tanto riservata... Quelle insinuazioni esasperavano Luc. In qualità di «migliore amico» dell’assassino si trovava continuamente tra i piedi dei ceffi in giubbotto di pelle che, brandendo la tessera di giornalista, gli mettevano un microfono sotto il naso e gli offrivano piccole fortune per aprire il suo album di fotografie: lui li metteva sistematicamente alla porta perché non intendeva infangare il ricordo dei morti, e il risultato era che lo sospettavano di frodare il fisco.
Ulteriori rivelazioni sono pervenute dalla famiglia di Florence, che viveva ad Annecy e che i Ladmiral conoscevano bene. Anche loro avevano affidato del denaro a Jean-Claude: la liquidazione del padre e poi, dopo la sua morte, un milione di franchi ricavato dalla vendita della sua casa. Non solo ora sapevano che quei soldi, frutto del lavoro di una vita, erano perduti per sempre, ma un dubbio li tormentava, e corrodeva come un tarlo il loro lutto: il vecchio Crolet era morto cadendo dalle scale un giorno in cui si trovava da solo con il genero. Che Jean-Claude avesse ucciso anche lui?
Si chiedevano tutti la stessa cosa: come abbiamo fatto a vivere così a lungo accanto a quest’uomo senza sospettare nulla? E tutti cercavano nella memoria il ricordo di un momento in cui erano stati sfiorati dal sospetto, o da qualcosa che avrebbe potuto suscitarlo. Il presidente del consiglio scolastico raccontava a destra e a manca di come avesse tentato invano di trovare il suo nome nell’elenco degli organismi internazionali. Lo stesso Luc rammentava di essere rimasto perplesso, pochi mesi prima, quando Florence gli aveva detto che Jean-Claude si era classificato quinto al concorso per medici ospedalieri a Parigi. Non era stato quel successo a stupirlo, ma il fatto di non averlo saputo all’epoca. Perché non gliene aveva mai parlato? Davanti a questa domanda Jean-Claude, accusato di fare il misterioso, aveva risposto con un’alzata di spalle, dicendo che non era la notizia del secolo, e aveva cambiato argomento. Aveva una capacità straordinaria di sviare la conversazione non appena cadeva su di lui. Ci riusciva così bene che era impossibile accorgersene, e alla fine, se uno ci ripensava, era solo per ammirare la discrezione, la modestia, l’impegno con cui metteva in luce gli altri anziché se stesso. Luc, però, aveva avuto il vago sentore che ci fosse qualcosa di strano in quel che Jean-Claude raccontava della sua carriera. Aveva pensato di chiamare l’OMS per capire quali fossero esattamente le sue mansioni, ma poi quel gesto gli era parso assurdo. Adesso si ripeteva che se l’avesse fatto, forse le cose sarebbero andate in modo diverso.
«Chissà,» ha obiettato Cécile quando le ha confidato i suoi rimorsi «forse avrebbe ammazzato anche te».
Quando parlavano di lui, a tarda notte, non riuscivano più a chiamarlo Jean-Claude. Non lo chiamavano nemmeno Romand. Lui si trovava da qualche parte, al di fuori della vita, al di fuori della morte, senza più un nome.
In capo a tre giorni hanno avuto la certezza che sarebbe sopravvissuto.
La notizia, resa pubblica il giovedì, ha gravato sui funerali dei genitori di Romand, celebrati il giorno successivo a Clairvaux-les-Lacs. La sepoltura di Florence e dei bambini era stata rinviata per completare l’autopsia. Queste due circostanze hanno reso la cerimonia ancora più insostenibile. Come credere alle parole di pace e riposo che il parroco si sforzava di pronunciare mentre le bare venivano calate nella fossa, sotto la pioggia? Non c’era spazio per il raccoglimento, nessuno riusciva a trovare in fondo a sé un po’ di quiete, un angolo di dolore accettabile dove l’anima potesse rifugiarsi. Luc e Cécile hanno assistito alla cerimonia, ma siccome conoscevano appena i parenti se ne stavano in disparte. I volti rossi e rugosi di quei contadini del Giura erano segnati dalle notti insonni, da pensieri di morte, rifiuto e vergogna contro i quali è impossibile lottare. Jean-Claude era stato l’orgoglio del paese. Lo ammiravano perché, nonostante la magnifica carriera, era rimasto così semplice, così vicino ai vecchi genitori: telefonava tutti i giorni, e si diceva che avesse rifiutato un posto prestigioso in America per non allontanarsi da loro. Quel giorno, nelle due pagine dedicate al caso, «Le Progrès» pubblicava una fotografia, scattata alla scuola media di Clairvaux, che lo ritraeva in prima fila, mite e sorridente. La didascalia commentava: «Chi poteva immaginare che quel bambino additato a esempio sarebbe diventato un mostro?».
Il padre era stato colpito alla schiena, la madre in pieno petto. Lei sicuramente, e forse entrambi, avevano saputo che stavano morendo per mano del figlio, sicché, nello stesso istante in cui avevano visto la morte – che tutti vedremo e che alla loro età potevano accogliere senza eccessivo stupore –, avevano visto dissolversi tutto ciò che aveva dato senso, gioia e dignità alla loro vita. Adesso, assicurava il parroco, vedevano Dio. Per i credenti l’ora della morte è l’ora in cui si vede Dio, non più in modo oscuro, come dentro uno specchio, ma faccia a faccia. Perfino i non credenti credono in qualcosa di simile: che nel momento del trapasso si veda scorrere in un lampo la pellicola della propria vita, finalmente intelligibile. Per i vecchi Romand, questa visione, anziché rappresentare il pieno coronamento, aveva segnato il trionfo della menzogna e del male. Avrebbero dovuto vedere Dio e al suo posto avevano visto, sotto le sembianze dell’amato figlio, colui che la Bibbia chiama Satana: l’Avversario.
Tutti pensavano, ossessivamente, a queste tre immagini: gli occhi dei vecchi con la loro espressione attonita, da bambini traditi; i corpicini semicarbonizzati di Antoine e Caroline che giacevano accanto alla madre sui tavoli dell’obitorio; e infine l’altro corpo, pesante e molle, quello dell’omicida, che per tutti era stato così vicino, così familiare, che poi era diventato così mostruosamente estraneo, e che ora pian piano ricominciava a muoversi in un letto d’ospedale a pochi chilometri di distanza. Soffriva ancora per le ustioni, dicevano i medici, per gli effetti dei barbiturici ingeriti e degli idrocarburi che aveva inalato, ma con ogni probabilità avrebbe ripreso pienamente conoscenza entro la fine della settimana, e già il lunedì sarebbe stato in grado di sostenere un interrogatorio. Subito dopo l’incendio, quando credevano ancora a un incidente, Luc e Cécile avevano pregato perché morisse: allora pensavano a lui. Adesso pregavano perché morisse, ma pensavano a se stessi, ai loro figli, a tutti quelli che vivevano ancora. Se fosse rimasto nel mondo dei vivi, lui, la morte fatta uomo, avrebbe costituito una spaventosa minaccia, sempre incombente, la certezza che la pace non sarebbe tornata mai più, che l’orrore non avrebbe avuto fine.
La domenica uno dei sei fratelli di Luc ha detto che Sophie aveva bisogno di un nuovo padrino. Si è offerto, e le ha chiesto solennemente se accettava. Quella cerimonia familiare ha segnato l’inizio del lutto.
L’autunno dell’anno precedente, Déa stava morendo di AIDS. Per noi non era un’amica intima, ma una delle migliori amiche di una delle nostre migliori amiche, Élisabeth. Déa era bella, di una bellezza un po’ inquietante, accentuata dalla malattia, con una chioma fulva di cui andava fiera. Verso la fine, diventata molto religiosa, aveva allestito a casa sua una specie di altare con alcune icone davanti alle quali teneva accese delle candele. Una notte una di queste le ha dato fuoco ai capelli, facendola ardere come una torcia. È stata trasportata al centro grandi ustionati dell’ospedale Saint-Louis. Aveva lesioni di terzo grado sulla metà del corpo: non sarebbe morta di AIDS, e forse era quello che voleva. Però non è morta subito, è sopravvissuta quasi una settimana, durante la quale Élisabeth andava a trovarla tutti i giorni – o meglio, andava a trovare ciò che restava di lei. Dopo la visita, si rifugiava a casa nostra per bere e parlare. Diceva che in un certo qual modo il centro grandi ustionati è bello. Con tutti quei veli bianchi, la garza, il silenzio, sembra il castello della Bella Addormentata nel bosco. Di Déa si vedeva soltanto la sagoma avvolta in piccole bende candide, e se fosse stata morta avrebbe emanato quasi un senso di pace. La cosa terribile, invece, era che fosse ancora viva. I medici assicuravano che non era cosciente, ed Élisabeth, benché totalmente atea, passava le notti a pregare che fosse vero. All’epoca io ero arrivato al punto della biografia di Dick in cui l’autore scrive quel romanzo terrificante intitolato Ubik, dove immagina ciò che accade nel cervello degli individui conservati secondo le tecniche criogeniche: frammenti di pensieri alla deriva, segmenti mnemonici devastati, ostinata erosione dell’entropia, cortocircuiti che producono scintille di lucidità sgomenta, insomma tutto ciò che si nasconde dietro la linea tranquilla e regolare di un encefalogramma quasi piatto. In quel periodo bevevo e fumavo troppo, avevo continuamente la sensazione di dovermi risvegliare di soprassalto. Una notte sono arrivato al limite della sopportazione. Mi alzavo, tornavo a sdraiarmi accanto ad Anne addormentata, mi rigiravo, avevo tutti i muscoli tesi, ero un groviglio di nervi. Credo di non aver mai provato in vita mia un malessere fisico e morale così violento, e malessere è un termine troppo blando, sentivo crescere dentro di me, dilagare, pronto a sommergermi, l’indicibile panico dei sepolti vivi. Dopo diverse ore, di colpo, è finito tutto. Ogni cosa è diventata fluida e libera, e io mi sono reso conto che stavo piangendo a grandi lacrime calde, lacrime di gioia. Mai avevo provato un malessere simile, mai ho provato un simile senso di liberazione. Per un attimo sono rimasto senza capire, immerso in quella specie di estasi amniotica. Poi ho capito. Ho guardato l’orologio. Il giorno dopo ho telefonato a Élisabeth: sì, Déa era morta. Sì, subito prima delle quattro del mattino.
Lui, ancora in coma, era l’unico a ignorare di essere vivo, e che le persone che amava erano morte per mano sua. Quello stato di incoscienza non sarebbe durato, stava per uscire dal limbo. Che cos’avrebbe visto riaprendo gli occhi? Una camera dai muri bianchi, bende bianche avvolte intorno al suo corpo. Che cos’avrebbe ricordato? Quali immagini lo avrebbero accompagnato mentre risaliva verso la superficie? Chi sarebbe stato il primo a incrociare il suo sguardo? Probabilmente un’infermiera. Gli avrebbe sorriso? È quel che devono fare sempre in circostanze simili, perché in quei momenti l’infermiera è come una madre che accoglie il suo bambino all’uscita di un lunghissimo tunnel, e sa d’istinto – altrimenti farebbe un altro mestiere – che uscendo da quel tunnel è essenziale trovare luce, calore, un sorriso. Sì, ma nel suo caso? L’infermiera doveva sapere chi era, e anche se cacciava i giornalisti accampati all’entrata del reparto leggeva di sicuro i loro articoli. Aveva visto le fotografie, sempre le stesse: la casa incendiata e i sei volti in formato tessera. L’anziana signora dolce e timorosa. Suo marito, impettito e severo, con gli occhi sgranati dietro i grossi occhiali di tartaruga. Florence bella e sorridente. Lui con il suo aspetto bonario da padre tranquillo, un po’ appesantito, un po’ stempiato. E poi i due bambini, soprattutto i due bambini, Caroline e Antoine, sette e cinque anni. Mentre scrivo queste righe li guardo, e mi pare che Antoine assomigli vagamente a Jean-Baptiste, il mio figlio più piccolo. Immagino le sue risate, le parole che storpiava, i suoi capricci, i momenti di serietà, tutto quello che era della massima importanza per lui, tutte le coccole e tutta la tenerezza che sono l’espressione più autentica dell’amore che proviamo per i nostri figli, e anche a me viene voglia di piangere.
Quando ho preso la decisione di scrivere sul caso Romand, una decisione rapidissima, ho pensato di precipitarmi sul posto, di piazzarmi in un albergo a Ferney-Voltaire e recitare la parte del giornalista invadente e ficcanaso. Ma non riuscivo a immaginare me stesso mentre bloccavo con un piede le porte prima che le famiglie in lutto me le sbattessero in faccia, mentre passavo ore e ore bevendo vin brûlé con i poliziotti della Franca Contea o cercavo un trucco per conoscere la cancelliera del giudice istruttore. Soprattutto ho capito che non era questo a interessarmi. Anche se avessi condotto un’inchiesta per conto mio, anche se fossi riuscito ad aggirare il segreto istruttorio, avrei portato alla luce soltanto dei fatti. I particolari delle appropriazioni indebite di Romand, il modo in cui, un anno dopo l’altro, aveva organizzato la sua doppia vita, il ruolo svolto da Tizio o da Caio, erano tutte cose che avrei saputo al momento opportuno, ma non mi avrebbero rivelato nulla di quanto mi premeva davvero sapere: che cosa gli passasse per la testa durante le giornate in cui gli altri lo credevano in ufficio, giornate che non trascorreva, come si era ipotizzato inizialmente, trafficando armi o segreti industriali, ma camminando nei boschi. (Ricordo una frase, la conclusione di un articolo di «Libération», che mi ha catturato una volta per tutte: «E andava a perdersi, da solo, tra le foreste del Giura»).
A questa domanda, capace di spingermi a cominciare un libro, non potevano rispondere né i testimoni, né il giudice istruttore, né le perizie psichiatriche, ma solo Romand, visto che era vivo, e nessun altro. Finalmente, dopo aver tergiversato per sei mesi, gli ho spedito una lettera presso il suo avvocato. È stata la lettera più difficile che abbia scritto in vita mia.
Parigi, 30 agosto 1993
«Egregio signore,
«so che corro il rischio di urtarla, ma ho deciso di tentare ugualmente.
«Sono uno scrittore, e a tutt’oggi ho pubblicato sette libri, di cui le spedisco l’ultimo. La tragedia di cui lei è stato l’artefice e l’unico superstite mi ossessiona fin dal momento in cui l’ho appresa dai giornali. Vorrei, per quanto è possibile, cercare di capire quel che è accaduto e farne un libro – che naturalmente uscirebbe soltanto dopo il processo.
«Prima di iniziare, mi preme sapere quali sentimenti le ispiri un simile progetto. Interesse? Ostilità? Indifferenza? Stia pur certo che nella seconda ipotesi sarei pronto a rinunciare. Qualora lei invece fosse interessato, spero che accetti di rispondere alle mie lettere e magari, se il regolamento non lo vieta, di ricevermi.
«Desidero farle capire che a spingermi verso di lei non è una curiosità malsana o il gusto del sensazionale. Ai miei occhi, ciò che lei ha fatto non è il gesto di un comune criminale, né di un pazzo, ma di un uomo spinto agli estremi da forze che non controlla, e vorrei mostrare all’opera proprio queste terribili forze.
«Qualunque sia la sua reazione alla mia lettera, le auguro di non perdersi d’animo. Con i sensi della mia più profonda compassione,
Emmanuel Carrère».
Ho imbucato la lettera. Pochi secondi dopo, troppo tardi, ho pensato con sgomento all’effetto che avrebbe potuto fare sul destinatario il titolo del libro che l’accompagnava: Io sono vivo e voi siete morti.
È iniziata l’attesa.
Mi dicevo: se, per puro caso, Romand accetta di parlarmi (di «ricevermi», come avevo scritto cerimoniosamente), se il giudice istruttore, la Procura o il suo avvocato non si oppongono, allora questo lavoro mi condurrà in acque del tutto ignote. Se invece, com’è più probabile, Romand non mi risponderà, scriverò un romanzo «ispirato» a questa vicenda, cambierò i nomi, i luoghi, le circostanze, inventerò liberamente: sarà un’opera di fantasia.
Romand non ha risposto. Sono tornato alla carica con il suo avvocato, che non ha voluto nemmeno dirmi se gli aveva consegnato la lettera e il libro.
Istanza respinta.
Ho cominciato un romanzo, la storia di un uomo che ogni mattina baciava moglie e figli, poi usciva fingendo di recarsi al lavoro, ma in realtà andava a camminare senza meta nei boschi innevati. Dopo qualche decina di pagine sono arrivato a un punto morto, e l’ho abbandonato. L’inverno successivo mi sono ritrovato a scrivere il libro che, senza saperlo, inseguivo da sette anni. L’ho portato a termine in pochissimo tempo, in maniera quasi automatica, e ho capito subito che era di gran lunga la mia opera migliore. Ruotava intorno all’immagine di un padre assassino che vagava da solo in mezzo alla neve, e ho pensato che, come tanti altri progetti naufragati, anche ciò che mi aveva affascinato nella storia di Romand avesse trovato in quelle pagine la sua giusta collocazione, e che scrivendolo mi ero liberato di quel genere di ossessioni. Finalmente potevo passare ad altro. A che cosa? Non ne avevo la più pallida idea, e non me ne importava niente. Se ero diventato scrittore, era per scrivere quel libro. Cominciavo a sentirmi vivo.
Bourg-en-Bresse, 10/9/’95
«Egregio signore,
«se ho tardato tanto a rispondere alla sua lettera del 30 agosto ’93 non è stato né per ostilità né per indifferenza alla sua proposta. Il mio avvocato mi ha convinto a non scriverle finché non si fosse conclusa l’istruttoria. Adesso (dopo tre perizie psichiatriche e duecentocinquanta ore di interrogatorio) ho la mente più libera e le idee più chiare, e posso prendere in considerazione il suo progetto. A influenzarmi in modo determinante è stata anche una circostanza fortuita: ho appena letto il suo ultimo libro, La settimana bianca, e mi è piaciuto molto.
«Se desidera ancora incontrarmi nel comune intento di comprendere questa tragedia, che resta per me di quotidiana attualità, dovrebbe inoltrare una richiesta di autorizzazione ai colloqui al procuratore della Repubblica, allegando due fotografie e la fotocopia della carta d’identità.
«In attesa di una sua risposta o di poterla incontrare di persona, le auguro caldamente che il suo libro abbia successo. Con i sensi della mia riconoscenza per la compassione da lei dimostrata e della mia ammirazione per il suo talento di scrittore.
A presto, forse.
Jean-Claude Romand».
Questa lettera mi ha scosso oltre ogni dire. A due anni di distanza, mi sono sentito riacciuffare per la manica. Ero cambiato, e convinto di esserne fuori. Provavo anzi un vago disgusto per quella storia, e soprattutto per l’interesse che aveva suscitato in me. D’altra parte, non potevo certo rispondergli che non avevo più voglia d’incontrarlo. Ho chiesto un’autorizzazione ai colloqui. Non essendo io un parente, me l’hanno rifiutata, segnalandomi tuttavia che avrei potuto ripresentare la domanda dopo la sua comparizione davanti alla Corte d’assise dell’Ain, prevista per la primavera del 1996. Nel frattempo, rimanevano le lettere.
Sul retro delle buste lui incollava un’etichetta con nome e recapito, «Jean-Claude Romand, rue du Palais, 6, 01011 Bourg-en-Bresse», e nelle mie risposte io evitavo la parola «carcere» nell’indirizzo del destinatario. Immaginando che quella grossolana carta a quadretti non gli piacesse, come l’essere costretto a non sprecarla, e forse anche a scrivere a mano, ho smesso di battere le mie lettere al computer perché almeno sotto quell’aspetto fossimo alla pari. L’angoscia che mi dava la disparità della nostra situazione, la paura di ferirlo ostentando la mia fortuna di uomo libero, marito e padre di famiglia felice, autore stimato, il senso di colpa per non essere a mia volta colpevole – tutto ciò ha determinato il tono quasi ossequioso delle mie prime lettere, tono a cui lui si confaceva puntualmente. Non credo che esistano tanti modi per rivolgersi a un uomo che ha ucciso moglie, figli e genitori, ed è ancora in vita. A posteriori, però, mi rendo conto di averlo preso subito per il verso giusto scegliendo quella gravità compassata e compassionevole, vedendo in lui non un uomo che ha fatto qualcosa di agghiacciante, ma un uomo al quale è accaduto qualcosa di agghiacciante, vittima sventurata di forze demoniache.
Ero tormentato da una tale quantità di domande che a lui non osavo rivolgerne nemmeno una. Dal canto suo Romand era estremamente restio a tornare sui fatti, ma avido di sondarne il significato. Non rivangava mai ricordi, si limitava ad alludere in modo vago e astratto alla «tragedia», mai alle sue vittime, dilungandosi invece volentieri sulla propria sofferenza, sul lutto impossibile, sugli scritti di Lacan che aveva cominciato a leggere nella speranza di comprendere meglio se stesso. Riportava interi stralci dalle relazioni degli psichiatri: «... Nella fattispecie, e a un certo livello arcaico di funzionamento, J.-C. R. non era in grado di distinguere se stesso dai propri oggetti d’amore: lui faceva parte di loro e loro di lui, in un sistema cosmogonico totalizzante, indifferenziato e chiuso. A questo livello non corre grande differenza tra suicidio e omicidio...».
Quando gli chiedevo qualche particolare sulla sua vita in carcere, le sue risposte erano altrettanto nebulose. Avevo l’impressione che non s’interessasse alla realtà, ma solo al significato che essa nasconde, e che interpretasse come un segno tutto ciò che gli capitava, in particolare il mio intervento nella sua vita. Si diceva convinto «che lo sguardo di uno scrittore» su questa tragedia potesse «completare e trascendere largamente altri approcci, più riduttivi, come quello della psichiatria o di altre scienze umane». Ci teneva a persuadere me e a persuadere se stesso che «un qualsiasi “recupero narcisistico”» era «lontano dai [suoi] pensieri (perlomeno consci)». Ne ho dedotto che contava più su di me che sugli psichiatri per aiutarlo a capire la propria storia, e più su di me che sugli avvocati per farla capire alla gente. Una simile responsabilità mi spaventava, ma non era stato lui a venire a cercarmi. Avevo fatto io il primo passo e ora ritenevo di doverne accettare le conseguenze.
Ho dato una svolta alla nostra corrispondenza quando gli ho domandato: «Lei crede in Dio? Intendo dire: ritiene che ciò che lei non è in grado di comprendere in questa tragedia possa essere compreso e forse perdonato da un’entità superiore?».
Risposta: «Sì, “credo di credere”. E non penso che si tratti di una fede di comodo, con il solo scopo di negare la terrificante possibilità di non ritrovarci tutti riuniti dopo la morte nell’Amore eterno, o di giustificare il fatto che io (soprav)viva in una qualche redenzione mistica. Ormai da tre anni, diversi “segni” hanno concorso a rafforzare la mia convinzione, ma spero che vorrà capire la mia riservatezza in proposito. Non so se lei crede in Dio, benché il suo nome possa costituire un indizio positivo».
Anche in questo caso ero stato io a cominciare. Per quanto la domanda fosse imbarazzante, dovevo rispondere con un sì o con un no: alla cieca, ho risposto di sì. «Altrimenti non potrei affrontare una storia terribile come la sua. Per guardare in faccia, senza morbosi compiacimenti, le tenebre in cui lei si è trovato e si trova ancora immerso, bisogna credere che esista una luce grazie alla quale tutto ciò che è accaduto, perfino l’estrema infelicità e l’estremo male, diventerà comprensibile ai nostri occhi».
A mano a mano che il processo si avvicinava, lui era sempre più angosciato. A preoccuparlo non erano i risvolti penali: ovviamente sapeva che la condanna sarebbe stata molto pesante, e non mi sembrava che soffrisse per la mancanza di libertà. Alcune restrizioni del regime carcerario lo infastidivano, certo, ma nell’insieme quella vita non gli pesava troppo. In prigione tutti sapevano quello che aveva fatto, non doveva più mentire e, nonostante la sofferenza, godeva di una libertà psichica assolutamente nuova. Era un detenuto modello, apprezzato dai compagni come dal personale. L’idea di uscire da quel bozzolo nel quale aveva trovato un suo spazio per finire in pasto a gente che lo considerava un mostro lo terrorizzava. Si ripeteva che era un passo necessario, che non poteva non comparire davanti al tribunale degli uomini, perché ciò era essenziale, per lui e per gli altri. «Mi preparo a questo processo» mi ha scritto «come a un appuntamento cruciale: sarà l’ultimo con “loro”, l’ultima possibilità di essere finalmente me stesso di fronte a “loro”... Ho il presentimento che, dopo, mi rimarrà poco tempo».
Ho deciso di andare a vedere i luoghi nei quali aveva vissuto la sua vita di fantasma. Sono stato via una settimana, munito di cartine che lui aveva disegnato con cura su mia richiesta, e ho seguito fedelmente i suoi itinerari commentati, rispettando perfino l’ordine cronologico che mi aveva suggerito. («Devo ringraziarla perché lei mi sta offrendo l’occasione di ripercorrere questo universo familiare: percorso molto doloroso, ma più facile da condividere con qualcuno che da rifare in solitudine...»). Ho visto il borgo della sua infanzia, la casetta dei genitori, il monolocale di quand’era studente a Lione, il casale incendiato a Prévessin, la farmacia Cottin dove sua moglie faceva qualche sostituzione, la scuola Saint-Vincent di Ferney. Avevo il nome e l’indirizzo di Luc Ladmiral, sono anche passato davanti al suo studio ma non sono entrato. Non ho parlato con nessuno. Ho vagato da solo nei posti in cui lui vagava da solo durante le sue lunghe giornate vuote: sui sentieri nei boschi del Giura e nel quartiere delle organizzazioni internazionali di Ginevra dove si trova la sede dell’OMS. Avevo letto che sul muro del salotto dove lui ha ucciso sua madre c’era una grande foto incorniciata dell’edificio. Sulla facciata, una croce indicava la finestra del suo ufficio, ma non sapevo in quale punto, e non mi sono spinto più in là dell’atrio.
Ricalcando i suoi passi provavo pietà, una straziante simpatia per quell’uomo che aveva errato senza meta, un anno dopo l’altro, chiuso nel suo assurdo segreto, un segreto che non poteva confidare a nessuno e che nessuno doveva conoscere, pena la morte. Poi pensavo ai bambini, alle fotografie dei loro corpi scattate all’Istituto di Medicina legale: orrore allo stato puro, tale da costringerti a chiudere gli occhi, a scuotere la testa per cancellare la realtà. Credevo di essermi liberato delle storie di follia, reclusione e gelo. Non che mi aspettassi di mettermi a comporre lodi alla bellezza del mondo e al canto dell’usignolo, con francescana meraviglia, ma almeno pensavo di essermi lasciato alle spalle quelle ossessioni. E invece ero stato scelto (è enfatico, lo so, però non saprei dirlo in altro modo) da quella storia atroce, senza volerlo mi ero messo sulla stessa lunghezza d’onda dell’uomo che ne era responsabile. Avevo paura. Paura e vergogna. Mi vergognavo davanti ai miei figli di occuparmi di quella storia. Ero ancora in tempo per fuggire? O la mia peculiare vocazione era proprio cercare di capirla, di guardarla in faccia?
Per assicurarmi un buon posto, mi sono fatto accreditare presso la Corte d’assise dell’Ain dal «Nouvel Observateur». La sera prima dell’udienza tutta la stampa giudiziaria francese si è ritrovata nell’albergo principale di Bourg-en-Bresse. Fino a quel momento avevo conosciuto un’unica categoria di giornalisti, i critici cinematografici, ora ne scoprivo un’altra, con i suoi raduni tribali che non sono festival ma processi. Quando, dopo aver alzato un po’ il gomito come quella sera, rievocano le loro campagne, non parlano di Cannes, Venezia o Berlino, ma di Digione per l’affaire Villemin o di Lione per il processo a Klaus Barbie, questioni che mi parevano ben più serie. Con il mio primo articolo sul caso mi ero guadagnato una certa stima da parte loro. Lo scafatissimo inviato dell’«Est Républicain» mi dava del tu e mi versava da bere, la bella cronista dell’«Humanité» mi sorrideva. Sembrava quasi una cerimonia d’investitura, mi sentivo accettato da quelle persone che mi piacevano per la loro carica umana.
Spetta all’accusato decidere se autorizzare o no la presenza dei fotografi all’inizio delle udienze, e Romand l’aveva autorizzata, il che per alcuni era sintomo di esibizionismo. Il mattino seguente ce n’era una buona trentina, senza contare i cameraman di tutte le reti televisive che per ingannare l’attesa filmavano la gabbia vuota, i fregi dell’aula e la bacheca, davanti al banco della Corte, dov’erano esposti i reperti: carabina, silenziatore, bomboletta lacrimogena, foto tratte da un album di famiglia. I bambini ridevano e si spruzzavano l’acqua della piscinetta gonfiabile in giardino. Antoine spegneva le candeline del suo quarto compleanno. Florence li guardava con tenerezza, allegra e fiduciosa. Nemmeno lui sembrava triste in una foto che doveva risalire al loro fidanzamento, o ai primi tempi del matrimonio: erano seduti a tavola, in mezzo a gente che si divertiva, lui le teneva un braccio attorno alle spalle, sembravano davvero innamorati. Romand aveva le guance paffute, i capelli ricci e un’espressione gentile, un po’ trasognata. Mi sono chiesto se a quell’epoca avesse già cominciato a mentire. Probabilmente sì.
L’uomo che gli agenti hanno introdotto nella gabbia aveva la faccia giallastra dei carcerati, i capelli rapati a zero, un corpo magro e molle, afflosciato sull’ossatura massiccia. Indossava un abito nero e una polo nera col colletto aperto. Quando ha risposto per declinare le proprie generalità, aveva una voce atona e teneva gli occhi bassi sulle mani giunte, appena liberate dalle manette. I giornalisti di fronte a lui, la presidente e i giurati a destra, il pubblico a sinistra, lo scrutavano impietriti. «Non capita tutti i giorni di vedere il volto del diavolo»: così suonava l’attacco dell’articolo comparso il giorno dopo sul «Monde». Io, nel mio, parlavo di un dannato.
Soltanto le parti civili non lo guardavano. Seduta proprio davanti a me, tra i suoi due figli, la madre di Florence fissava il pavimento, quasi volesse aggrapparsi a un punto invisibile per non svenire. Quella mattina aveva dovuto alzarsi, fare colazione, scegliere che cosa mettersi, arrivare in macchina da Annecy, e adesso era lì, in tribunale, ad ascoltare la lettura delle ventiquattro pagine dell’atto d’accusa. Nel punto in cui si parlava dell’autopsia della figlia e dei nipotini, la sua mano contratta, che stringeva un fazzoletto davanti alla bocca, ha tremato leggermente. Allungando il braccio avrei potuto toccarle la spalla, eppure fra di noi c’era un abisso, una voragine che non era solo l’intollerabile intensità della sua sofferenza. Io non avevo scritto a lei o ai suoi, ma all’uomo che aveva distrutto le loro vite. Era a lui che riservavo le mie attenzioni, perché volevo raccontare quella storia e per me era la sua storia. Andavo a pranzo con il suo avvocato. Stavo dall’altra parte della barricata.
Lui appariva prostrato. Solo verso la fine della mattinata ha azzardato uno sguardo verso l’aula e il settore riservato alla stampa. La montatura dei suoi occhiali scintillava dietro il vetro che lo separava da tutti noi. Quando alla fine i suoi occhi hanno incrociato i miei, li abbiamo abbassati entrambi.
I Romand sono una famiglia di amministratori forestali del Giura stabilitisi ormai da diverse generazioni nel borgo di Clairvaux-les-Lacs o nei paesi vicini. Da quelle parti formano un vero e proprio clan, rispettato per l’austera e caparbia virtù che li contraddistingue: «Si vede che è un Romand» dice la gente. Sono grandi lavoratori, timorati di Dio, e la loro parola vale quanto un impegno scritto.
Nato immediatamente dopo la guerra ’14-’18, chiamato alle armi nel ’39 e fatto subito prigioniero, Aimé Romand è stato internato per cinque anni in uno stalag. Al ritorno in patria, decorato, ha lavorato accanto al padre sostituendolo poi nella gestione della sua impresa forestale. Siccome è relativamente facile imbrogliare sui tagli del legname, questo mestiere richiede la piena fiducia da parte degli azionisti. Aimé, come suo padre prima di lui, questa fiducia se la meritava. Alto, spigoloso, con due occhi penetranti, era un uomo che metteva in soggezione, pur senza avere il carisma sanguigno di Claude, il fratello minore, che faceva il meccanico. Ha sposato una donnina schiva, che tutti si erano abituati a considerare malata senza sapere esattamente di quale malattia soffrisse. Aveva una cattiva salute, si faceva il sangue cattivo. Forse a causa di questa depressione strisciante, o per una certa tendenza ossessiva di Aimé, nella coppia si avverte un che di rigido e pignolo, un’abitudine presto radicata allo scrupolo e all’isolamento. Di solito in famiglie di quel genere si fanno tanti figli, loro invece ne hanno avuto solo uno, Jean-Claude, nel 1954. In seguito Anne-Marie è stata ricoverata due volte in ospedale per gravidanze extrauterine che hanno messo a repentaglio la sua vita. Il padre ha cercato di nascondere al figlio quel che succedeva, perché non si preoccupasse, ma anche perché erano cose che riguardavano la sfera immonda e minacciosa del sesso. L’isterectomia è diventata così un’appendicite, ma entrambe le volte l’assenza della madre e il mormorio sinistro che accompagnava la parola «ospedale» hanno indotto il bambino a credere che lei fosse morta e che glielo stessero nascondendo.
Jean-Claude ha trascorso la prima infanzia in un piccolo borgo, dove suo padre aveva una fattoria di cui si occupava quando non era impegnato come amministratore forestale. Sono andato a vederlo, guidato dalle sue cartine: poche case in fondo a una comba perduta in un’immensa e cupa abetaia. La scuola aveva solo tre allievi. Poi i suoi genitori si sono costruiti una casetta a Clairvaux e si sono trasferiti lì. Jean-Claude amava leggere ed era avanti di un anno. In quinta elementare ha vinto il primo premio. I vicini, i cugini e i maestri lo ricordano come un ragazzino giudizioso, calmo e obbediente: adesso c’è chi è tentato di descriverlo come troppo giudizioso, troppo calmo e troppo obbediente, pur ammettendo che si tratta di un giudizio formulato a posteriori, nel misero tentativo di spiegare un dramma inspiegabile. Un figlio unico, forse un po’ troppo coccolato. Un bambino che non combinava mai guai, che ispirava stima – se si può usare un’espressione simile per un bambino – più che simpatia, ma non per questo veniva considerato infelice. D’altra parte, quando parla di suo padre, lo stesso Jean-Claude ha la curiosa tendenza ad aprire una piccola parentesi cerimoniosa: «Aimé, nomen omen». Racconta che sua madre si angustiava per qualsiasi cosa, e lui ha imparato presto a nascondere la verità per evitarle ulteriori preoccupazioni. Ammirava suo padre perché non lasciava mai trasparire le proprie emozioni, e si è sforzato di imitarlo. Bisognava che andasse sempre tutto bene se non voleva che sua madre peggiorasse, e lui sarebbe stato davvero un ingrato a farla peggiorare per delle sciocchezze, piccoli dispiaceri da bambini. Era meglio nasconderglieli. Per esempio, in paese c’erano molte famiglie numerose, e Jean-Claude vedeva che, diversamente dalla sua, le altre case erano piene di vita, ma quando chiedeva perché lui non aveva né fratelli né sorelle intuiva di dare un dolore ai genitori. Intuiva che dietro quella domanda si nascondeva un segreto, che di fronte alla sua curiosità e soprattutto al suo dispiacere provavano dolore. «Dolore» era una parola di sua madre, alla quale lei attribuiva un significato stranamente concreto, quasi che si trattasse di una malattia organica che la minava. Lui sapeva che, se avesse confessato di essere affetto dalla stessa malattia, quella di sua madre, che era ben più grave della sua e rischiava addirittura di ucciderla, sarebbe peggiorata. Da un lato gli avevano insegnato a non mentire, e questo era un dogma assoluto: un Romand ha una parola sola, un Romand è limpido e cristallino come acqua di fonte. Dall’altro però certe cose, anche se erano vere, non andavano dette. Non bisognava amareggiare gli altri, né vantarsi dei propri successi o delle proprie virtù.
(Durante il processo, per chiarire il concetto, si è messo a raccontare che ogni tanto, mentre tutti li credevano al cinema a Ginevra, lui e sua moglie andavano a insegnare a leggere e a scrivere alle famiglie in difficoltà. Non ne avevano mai parlato con i loro amici né lui ne aveva accennato al giudice istruttore, e quando la presidente, sconcertata, gli ha domandato di essere più preciso – dove avvenissero le lezioni, quali fossero queste famiglie –, lui si è trincerato dietro la discrezione che doveva alla memoria di Florence: lei non avrebbe mai voluto sbandierare la loro generosità).
Stava per chiudersi il capitolo della sua infanzia, quando Abad, il suo avvocato, gli ha chiesto: «È vero che a quei tempi, se provava una gioia o un dolore, il suo unico confidente era il cane?». Romand ha aperto la bocca. Tutti ci aspettavamo una risposta banale, pronunciata con quel tono assennato e lamentoso a cui cominciavamo ad abituarci, ma non è uscito alcun suono. Romand ha vacillato. Ha cominciato a tremare piano, poi forte, dalla testa ai piedi, mentre dalla bocca gli sfuggiva una specie di cantilena disarticolata. Persino la madre di Florence ha girato lo sguardo dalla sua parte. Lui allora si è gettato a terra con un gemito da far gelare il sangue. L’abbiamo sentito sbattere la testa contro il pavimento, abbiamo visto le sue gambe sferzare l’aria sopra la gabbia. Gli agenti attorno a lui hanno fatto del loro meglio per tenere sotto controllo quel grande corpo ossuto in preda alle convulsioni, poi l’hanno portato via ancora scosso da gemiti e sussulti.
Ho scritto «da far gelare il sangue». Ho capito quel giorno quanta verità ci sia sotto tante frasi fatte: dopo la sua uscita si è davvero abbattuto sulla sala «un silenzio di tomba», finché la presidente, con voce incerta, ha annunciato che l’udienza era sospesa per un’ora. Solo una volta fuori dall’aula la gente ha cominciato a parlare, a cercare il significato di quell’episodio. Alcuni vedevano finalmente in quella crisi una reazione emotiva, dopo tutto il distacco ostentato fino a quel momento. Altri giudicavano mostruoso il fatto che a suscitare quella reazione in un uomo che aveva ucciso i propri figli fosse stato il ricordo di un cane. Altri ancora si chiedevano se non stesse fingendo. Io, che in teoria avevo smesso di fumare, ho scroccato una sigaretta a un vecchio disegnatore con la barba bianca e la coda di cavallo. «Lei ha capito» mi ha domandato lui «che sta cercando di fare l’avvocato?». No, non l’avevo capito. «Vuole farlo crollare. Quello sta lì come uno stoccafisso, e lui si rende conto che il pubblico lo trova freddo, per questo vuole mostrare il suo punto debole. Ma non si rende conto di rischiare grosso. Dia retta a me, sono quarant’anni che bazzico i tribunali francesi con la mia cartella da disegno, ormai li sgamo subito. Quell’uomo è completamente fuori di testa, gli psichiatri non avrebbero mai dovuto lasciargli affrontare il processo. Si controlla, controlla ogni cosa, è l’unico modo che ha per tener duro, ma se qualcuno lo punzecchia là dove non riesce più a controllarsi andrà in mille pezzi, così, davanti a tutti, e le assicuro che sarà spaventoso. Lì dentro credono di trovarsi davanti a un uomo, ma quello non è più un uomo, è un pezzo che ha smesso di essere un uomo. È come un buco nero, e vedrà che ci esploderà in faccia. La gente non sa cosa sia la pazzia. È terribile. È la cosa più terribile che ci sia al mondo».
Ho annuito. Pensavo al mio romanzo, La settimana bianca. Romand mi aveva detto che quel libro raccontava esattamente la sua infanzia. Pensavo al grande vuoto bianco che si era scavato a poco a poco dentro di lui fino a lasciare soltanto un simulacro di uomo vestito di nero, un baratro da cui proveniva la corrente d’aria gelida che faceva rabbrividire il disegnatore.
L’udienza è ripresa. Rimesso in sesto da un’iniezione, l’imputato ha provato a spiegare la sua crisi: «... L’accenno al cane mi ha ricordato tanti segreti della mia infanzia, segreti pesanti da portarsi dietro... Può sembrare indecente da parte mia parlare delle sofferenze della mia infanzia... Da piccolo non potevo parlarne perché i miei genitori non avrebbero capito, li avrei delusi... A quei tempi non mentivo, ma non confidavo mai le mie vere emozioni, se non al mio cane... Ero sempre sorridente e credo che i miei genitori non abbiano mai sospettato che ero triste... Non avevo nient’altro da nascondere allora, ma nascondevo questo: la mia angoscia, la mia tristezza... Magari sarebbero stati pronti ad ascoltarmi, come Florence del resto, eppure non sono mai riuscito a parlare... E quando rimani incastrato in questo ingranaggio, per non deludere, la prima bugia chiama la seconda, e poi vai avanti tutta la vita...».
Un giorno il cane è scomparso, e il bambino – questo almeno è quanto racconta da adulto – ha immaginato che il padre lo avesse abbattuto a colpi di fucile. O perché era ammalato e il padre voleva risparmiare al figlio il dolore di assistere alla sua agonia, o perché si era macchiato di una colpa così grave da meritare l’esecuzione capitale. Restava un’ultima possibilità: che il padre fosse stato sincero e il cane fosse veramente scomparso. Ma si direbbe che il bambino non l’abbia mai presa in considerazione, tanto era consueta la pratica della bugia a fin di bene in quella famiglia dove vigeva il divieto assoluto di mentire.
Durante tutto il processo, i vari cani della sua vita hanno risvegliato in lui intense emozioni. Stranamente, di nessuno ha mai pronunciato il nome. Li citava di continuo, faceva riferimento alle loro malattie e alle preoccupazioni che gli avevano causato per ricostruire la data dei vari avvenimenti. Molti hanno avuto l’impressione che, più o meno consapevolmente, con le lacrime che versava per quelle storie lui cercasse di esprimere qualcosa, che qualcosa tentasse di uscire da quella falla, qualcosa che alla fine non è uscito.
Quand’era interno al liceo di Lons-le-Saunier, era un adolescente solitario, poco portato per lo sport, intimidito non tanto dalle ragazze, che vivevano su un altro pianeta, quanto piuttosto dai compagni più svegli che si vantavano di frequentarle. Dice di aver trovato conforto in una fidanzata immaginaria, che chiamava Claude, ma gli psichiatri si chiedono se non se la sia inventata a posteriori a loro uso e consumo. Quel che si sa per certo, invece, è che alla maturità, sessione di giugno 1971, ha ottenuto un ottimo voto in filosofia scegliendo, fra le tre proposte, la traccia: «La verità esiste?».
In vista del concorso per entrare nel Corpo forestale, è stato ammesso per l’anno propedeutico di Agrotecnica al prestigioso liceo Du Parc di Lione, e lì le cose sono andate male. Lui dice di aver subìto i tipici scherzi che si fanno alle matricole, pur riconoscendo che non erano scherzi pesanti. È stato umiliato? Ha reagito ammalandosi: sinusiti a ripetizione, che gli hanno consentito di non tornare a Lione dopo le vacanze dei Morti e di passare il resto dell’anno scolastico rinchiuso in casa dei genitori.
Quel che è accaduto quell’anno a Clairvaux, soltanto lui potrebbe dirlo e non lo dice. È una lacuna nella sua vita. D’inverno, le notti sono lunghe da passare in un paesino del Giura. La gente se ne sta rintanata, accende presto le luci, scruta la provinciale attraverso le tende di garza e la nebbia. Gli uomini vanno al bar, ma lui non ci andava. Usciva poco, non parlava con nessuno tranne che con i genitori. Doveva confortarli nella convinzione che la sua malattia era di origine fisica, perché qualsiasi forma di dubbio o di malinconia sarebbe stata interpretata come un capriccio. Era un ragazzo alto, robusto, con il corpo liscio e flaccido, le dimensioni di un adulto e l’aspetto di un bambino impaurito. Anche la sua camera, che durante gli anni di collegio aveva usato ben poco, restava la cameretta di un bambino. E così sarebbe rimasta fino al giorno in cui, ventidue anni dopo, proprio lì dentro avrebbe ucciso suo padre.
Me lo immagino steso sul letto, ormai troppo piccolo per lui, a guardare il soffitto, a tenere a freno lo spavento quando di colpo fa buio, a stordirsi di letture. I suoi genitori possedevano soprattutto libri «pratici», volumi sui boschi e sull’arte di tenere la casa, qualche opera religiosa e uno scaffale intero dedicato alla seconda guerra mondiale. Diffidavano dei romanzi: soltanto quando il figlio era malato gli davano i soldi per comprarne qualcuno alla cartolibreria, dove l’espositore dei tascabili veniva rinnovato raramente. L’avevano iscritto a un corso per corrispondenza. Ogni settimana – era quasi un evento, in quella casa in cui di lettere ne arrivavano poche – il postino portava una grossa busta color salmone, incollata male, che lui doveva rispedire dopo aver fatto i compiti, in attesa che arrivasse la successiva con le correzioni e i voti. Jean-Claude si piegava a quel rito, ma studiava davvero? Ad ogni modo, per un certo periodo deve aver proseguito il programma solo per salvare la forma: non aveva il coraggio di confessarlo, ma aveva deciso di non frequentare più il corso di Agrotecnica, rinunciando quindi alla carriera nella Forestale.
La famiglia voleva che seguisse le orme di suo padre, e lui invece studierà Medicina. Un cambiamento di rotta che a prima vista dimostra la capacità di imporre la propria volontà nonostante le pressioni esterne. Eppure Romand sostiene di averla fatta a malincuore, quella scelta. In tutti gli interrogatori non fa che dilungarsi sul suo amore per i boschi, ereditato da Aimé, il quale considerava ogni albero come un essere vivente e meditava a lungo prima di indicare quelli da abbattere. La vita di un albero copre fino a sei generazioni di uomini: a casa sua era questa l’unità di misura dell’esistenza umana, collegata in modo organico alle tre generazioni precedenti e successive. Jean-Claude afferma che vivere e lavorare nella foresta, come avevano sempre fatto i suoi, era quanto di più bello potesse immaginare. Perché allora aveva rinunciato a quella prospettiva? Secondo me, lui sognava davvero di diventare forestale come suo padre, perché suo padre era un uomo rispettato, dotato di una reale autorità, insomma perché lo ammirava. Poi al liceo Du Parc la sua ammirazione si è scontrata con il disprezzo dei giovani borghesi benestanti, figli di medici o di avvocati, per i quali un amministratore forestale restava una specie di bifolco subalterno. Il mestiere di suo padre, anche a un livello più alto, dopo la laurea in un’università prestigiosa, ha smesso di sembrargli attraente, anzi dev’essersene vergognato. Si è messo a sognare l’ascesa sociale, un obiettivo assolutamente alla sua portata, visto che era bravo a scuola, e facile da raggiungere se diventava medico. Questo ha provocato in lui – come accade a ogni persona sensibile che si elevi rispetto al proprio ambiente – una lacerazione: sentiva di tradire i suoi, pur superando le loro più rosee aspettative. «Sapevo quale delusione avrei dato a mio padre» dice, anche se in realtà questa delusione non c’è stata: la preoccupazione iniziale ha subito lasciato il posto a un ingenuo orgoglio davanti ai successi del figlio. A quel punto Jean-Claude è costretto a dire che a essere deluso è stato lui, e che la facoltà di Medicina è stata un ripiego, poiché non era affatto la sua vocazione.
L’idea di curare i malati, di toccarne i corpi sofferenti gli ripugnava, non ne ha mai fatto mistero. Ad attirarlo, invece, era l’idea di acquisire conoscenze sulle malattie. Secondo il dottor Toutenu, uno degli psichiatri che lo hanno esaminato, Romand sbagliava quando affermava di non avere nessuna vocazione per la Medicina. A suo parere, invece, l’imputato possedeva le qualità per diventare un bravo medico, un medico vero, e alla base della sua scelta c’era una forte motivazione inconscia, condizione necessaria per prendere qualsiasi iniziativa: il desiderio di capire la malattia di sua madre, forse addirittura di guarirla. E poiché in quella famiglia era difficile distinguere tra la sofferenza psichica, rigorosamente proibita, e le sue manifestazioni organiche, che erano invece autorizzate, il dottor Toutenu è arrivato a dire che Romand sarebbe potuto diventare un ottimo psichiatra.
Jean-Claude aveva un altro buon motivo per iscriversi al primo anno di Medicina a Lione: lo avrebbe frequentato anche Florence, una lontana cugina che gli era capitato di incontrare alle feste di famiglia. Florence abitava ad Annecy con i genitori e due fratelli più piccoli. Suo padre lavorava in una ditta di montature per occhiali e uno dei fratelli è diventato ottico. Era una ragazza alta, sportiva, con un bel corpo, a cui piacevano i falò, le uscite in compagnia, e che preparava torte per le feste in parrocchia. Era cattolica senza ostentazione. Chiunque l’abbia conosciuta concorda nel definirla franca, onesta, tutta d’un pezzo, felice di vivere. «Una bella persona,» dice Luc Ladmiral «un po’ all’antica...». Per niente stupida, ma priva di malizia, ossia incapace di vedere il male non meno che di farlo. Sembrava destinata a una vita come tante, una parabola tracciata a priori, anche deprimente magari a voler essere cattivi (ma lei quelli cattivi non li frequentava): studi superiori ma senza grosse pretese, nell’attesa di trovare un marito solido e simpatico come lei; due o tre bei bambini da crescere con saldi princìpi e in allegria; una villetta nella periferia residenziale, con una cucina ben attrezzata; grandi feste in occasione del Natale e dei compleanni, con nonni e nipotini; un gruppo di amici affiatati; un tenore di vita in progressione moderata ma costante; poi i figli che se ne vanno l’uno dopo l’altro, i loro matrimoni, la camera del maggiore trasformata in sala da musica, perché finalmente hai tempo di ricominciare a suonare il piano; tuo marito che va in pensione, e a un tratto ti accorgi che gli anni sono volati, cominci ad avere qualche momento di tristezza, a trovare la casa troppo grande, le giornate troppo lunghe, le visite dei figli troppo rare; ripensi a quel tizio con cui hai avuto una breve avventura, l’unica, appena passata la quarantina, i segreti, l’euforia, i sensi di colpa, allora ti sentivi uno schifo, e poi hai scoperto che anche tuo marito aveva avuto una relazione, aveva addirittura pensato al divorzio; quando arriva l’autunno cominci a rabbrividire, è già il giorno dei Morti; finché, facendo un esame di routine, scopri all’improvviso di avere un cancro: ecco, è finita, nel giro di qualche mese sarai sottoterra.
Una vita banale, ma Florence avrebbe saputo farla sua, dandole un tocco personale, come una brava casalinga che sa dare un’anima alla propria casa e renderla accogliente per i suoi cari. A quanto pare non ha mai sognato altro, né inseguito in cuor suo una chimera. Forse la proteggeva la sua fede, che tutti ritengono fosse profonda. In lei non vi era traccia di bovarismo, né la benché minima predisposizione per le fughe, per i voltafaccia né ovviamente per la tragedia.
(Prima che la tragedia avvenisse, peraltro, tutti ritenevano che Jean-Claude fosse il marito ideale per una donna come lei. Nel corso del processo, la presidente si è scandalizzata per i suoi acquisti di cassette pornografiche, e gli ha chiesto ingenuamente che cosa se ne facesse. Quando l’imputato ha risposto che le guardava, a volte anche insieme a sua moglie, lo ha accusato di diffamare la memoria della defunta: «Chi mai potrebbe credere che Florence guardasse cassette pornografiche?» ha esclamato. E lui, abbassando il capo, ha mormorato:
«Nessuno, certo, come nessuno avrebbe creduto che le guardassi io»).
Quel sentiero dritto e lineare che sembrava destinato a essere la vita di Florence, lui ha deciso di percorrerlo con lei. A quanto dice, fin da quando aveva quattordici anni era sicuro che l’avrebbe sposata. Ostacoli non ce n’erano, ma non è chiaro se all’inizio lei ricambiasse i suoi sentimenti o no. A Lione, Florence divideva un appartamentino con altre due ragazze, sue compagne di studi. A sentir loro, era piuttosto infastidita dal corteggiamento timido e insistente di quel cugino venuto dal Giura, uno che piaceva soprattutto ai suoi genitori, i quali sembrava lo avessero incaricato di vegliare su di lei, tanto che ogni domenica sera, tornando da Annecy, Florence lo trovava ad aspettarla alla stazione Perrache. Lei aveva una quantità di amici e lui, che non conosceva nessuno, a furia di fare tappezzeria era riuscito ad aggregarsi al suo gruppo. Nessuno ci trovava nulla da ridire, però a nessuno veniva in mente di chiamarlo quando non c’era. In quella compagnia di bravi ragazzi, vivaci ma senza eccessi, che facevano gite in montagna e andavano qualche volta in discoteca il sabato sera, Romand era visto come il classico secchione, non molto divertente, ma nemmeno antipatico. Luc Ladmiral, invece, ne era il leader naturale. Rampollo di una vecchia famiglia di medici di Lione, era un bel ragazzo, sicuro di sé senza darsi arie, cattolico senza essere bigotto, che si preparava per il futuro senza rinunciare a godersi la giovinezza. Lui e Florence erano grandi amici, amici e basta. Jean-Claude gli passava gli appunti delle lezioni, talmente chiari che sembravano presi per essere letti da altri. Luc lo apprezzava per il suo carattere serio e leale. Parlava sempre bene di lui, gli piaceva dimostrare di saper giudicare al di là delle apparenze: là dove gli altri vedevano solo un placido campagnolo un po’ goffo, lui riconosceva un instancabile lavoratore che avrebbe fatto strada, e soprattutto un uomo limpido e corretto, degno di assoluta fiducia. La sua amicizia ha contribuito molto a farlo accettare dal gruppo, influenzando forse anche i sentimenti di Florence.
Le malelingue sostengono che lei aveva finito col cedergli per stanchezza; che era intenerita, commossa, ma non innamorata. Chi può saperlo? Dietro ogni coppia c’è un mistero. Quel che sappiamo è che per diciassette anni hanno festeggiato il primo maggio, che non era l’anniversario del matrimonio, ma quello del giorno in cui Jean-Claude aveva trovato il coraggio di dirle «ti amo», e che dopo questa dichiarazione lui ha avuto con lei – e molto probabilmente lei con lui – i suoi primi rapporti sessuali. Aveva ventun anni.
Il sesso è una delle lacune di questa storia. Per sua stessa ammissione, prima di Corinne, Jean-Claude non aveva conosciuto altre donne a parte sua moglie, e potrei sbagliare ma non credo che Florence abbia avuto avventure extraconiugali. La qualità della vita amorosa non dipende certo dal numero dei partner, e può esistere un’ottima intesa erotica fra persone che si mantengono fedeli per tutta la vita. È difficile però immaginare che questo fosse il caso di Jean-Claude e Florence Romand, altrimenti le cose sarebbero andate diversamente. Interrogato sull’argomento nel corso dell’istruttoria, lui si è limitato a rispondere che da quel punto di vista era tutto «normale», e per quanto strano possa sembrare, nessuna delle quattro coppie di psichiatri incaricate di esaminarlo ha cercato di approfondire quest’aspetto, né di formulare una qualche ipotesi al riguardo. In compenso, durante il processo, tra i veterani della stampa giudiziaria correva voce che a letto l’accusato non doveva essere un drago e che il problema era tutto lì. Questa beffarda diceria non si basava solo sull’impressione generale suscitata da Romand, ma anche su una strana coincidenza: ogni volta che una donna faceva l’amore con lui – Florence nella primavera del 1975, Corinne nella primavera del 1990 –, poi si affrettava a troncare il rapporto, e per Jean-Claude iniziava un periodo di depressione. Subito dopo aver ceduto alle sue avance, Corinne gli ha fatto un discorsetto affettuoso e ragionevole del tipo: fermiamoci qui, tengo troppo alla nostra amicizia per rischiare di rovinarla, credimi, è meglio così, e via di questo passo. Lui è rimasto ad ascoltarla come un bambino punito, al quale si spiega, per consolarlo, che il castigo è a fin di bene. Allo stesso modo, quindici anni prima, dopo essersi messa con lui da qualche giorno, Florence, col pretesto di doversi concentrare sugli esami, aveva deciso che era meglio che non si vedessero più. Sì, sarebbe stato molto meglio così.
A questo rifiuto, Romand ha reagito, come al liceo Du Parc, con una depressione inconfessata e un atto mancato. Forse è la sveglia che non ha suonato, o forse è lui che non ha voluto sentirla, ad ogni modo non si è alzato in tempo per uno degli ultimi esami del secondo anno, ed è stato rimandato alla sessione di settembre. Non era una tragedia, per l’ammissione al terzo anno gli mancavano pochi punti. Eppure ha trascorso un’estate malinconica, perché se da un lato, per il bene dei loro studi, Florence continuava a non volerlo vedere, dall’altro lui sapeva da amici comuni che quell’inflessibile risoluzione non le impediva di uscire con gli altri e di divertirsi, cosa che lo faceva intristire ancora di più, solo com’era a Clairvaux. Poi è arrivato settembre, con la riapertura dell’università, e lui si è ritrovato al bivio.
Tra la separazione decisa da Florence e la ripresa di settembre, subito prima delle vacanze estive, si è verificato un episodio premonitore. Jean-Claude era in discoteca, c’erano tutti i soliti amici tranne Florence, già partita per Annecy. A un certo punto lui ha detto che usciva a prendere le sigarette in macchina. È tornato dopo diverse ore, probabilmente senza che nessuno si fosse preoccupato per quell’assenza prolungata. Aveva la camicia strappata, macchiata di sangue, e un’aria sconvolta. Ha raccontato a Luc e agli altri di essere stato aggredito da alcuni sconosciuti: minacciandolo con una pistola, l’avevano costretto a entrare nel bagagliaio della sua macchina e gli avevano preso le chiavi. L’auto era partita a una velocità pazzesca, mentre lui, in preda al panico, veniva sballottato e ammaccato a ogni scossone. Il viaggio gli era parso lunghissimo: era sicuro che quei tipi, che lui non aveva mai visto prima e che forse lo stavano scambiando per qualcun altro, l’avrebbero ucciso. Alla fine l’avevano fatto uscire dal bagagliaio, nello stesso modo brutale e arbitrario con cui l’avevano gettato dentro, riempito di botte e abbandonato sul ciglio della strada per Bourg-en-Bresse, a cinquanta chilometri da Lione. Gli avevano lasciato la macchina, e lui in qualche modo era riuscito a tornare indietro.
«Ma insomma, che cosa volevano da te?» gli hanno chiesto gli amici stupefatti. Lui ha scosso il capo: «E che ne so? Non ci capisco niente. Mi faccio le stesse domande che vi fate voi». Doveva avvertire la polizia, sporgere denuncia. Jean-Claude ha detto che l’avrebbe fatto, però i registri dei commissariati di Lione non ne recano traccia. Per qualche giorno gli hanno chiesto se c’erano novità; poi sono arrivate le vacanze, ognuno se n’è andato per conto proprio e non sono più tornati sull’argomento. Diciott’anni dopo, cercando nel passato dell’amico qualcosa che potesse spiegare la tragedia, a Luc è tornata in mente quella storia e l’ha raccontata al giudice istruttore, che la conosceva già. In uno dei primi colloqui con gli psichiatri l’imputato l’aveva menzionata spontaneamente per fornire un esempio della sua mitomania: come da adolescente si era inventato una fidanzatina di nome Claude, così si era inventato quell’aggressione per rendersi interessante. «Dopo però non sapevo più se quell’episodio era vero o falso. Ovviamente non ricordo di aver subìto una reale aggressione, so che non si è mai verificata, però non ricordo neppure di averla simulata, di essermi strappato la camicia o graffiato con le mie mani. Se ci penso, mi dico che devo averlo fatto per forza, eppure non me lo ricordo. Così alla fine mi sono convinto di essere stato davvero aggredito».
Ciò che sorprende di più in questa confessione è che non era assolutamente tenuto a rilasciarla. A distanza di diciott’anni nessuno avrebbe potuto verificare quella storia. Nessuno avrebbe potuto verificarla nemmeno quando, tornato in discoteca, l’aveva raccontata ai suoi amici. Peraltro era una storia che non stava in piedi e proprio per questo, paradossalmente, a nessuno era venuto in mente di metterla in dubbio. In genere un bugiardo si sforza di essere plausibile: il suo racconto non lo era, quindi doveva essere vero.
Quando avevo quattordici anni, in prima liceo, molti miei compagni si sono messi a fumare. Io volevo fare come loro, ma ero il più piccolo della classe, e avevo paura che mi prendessero in giro. Così avevo architettato uno stratagemma. Prendevo una sigaretta dalla stecca di Kent che mia madre aveva comprato di ritorno da un viaggio (le teneva in casa per offrirle agli ospiti), la infilavo nella tasca del giaccone e al momento giusto, al bar dove ci incontravamo dopo le lezioni, la tiravo fuori. La esaminavo tutto stupito, aggrottando la fronte. Con una voce che mi pareva pateticamente stridula, chiedevo chi me l’avesse ficcata in tasca. Ovviamente non si faceva avanti nessuno, e soprattutto nessuno prestava molta attenzione all’incidente, che commentavo soltanto io. Ero sicuro di non avere sigarette in tasca quando ero uscito di casa, quindi qualcuno doveva averla messa lì a mia insaputa. Ripetevo che era proprio un mistero, come se questo bastasse ad allontanare il sospetto che fossi stato io a organizzare quella messinscena per attirare l’attenzione su di me. Fatto sta che non l’attiravo per niente. Non che si rifiutassero di ascoltarmi, ma i più concilianti si limitavano a mormorare: «Mah, strano», e tutto finiva lì. Io credevo di averli posti davanti a un vero dilemma, di quelli che non ti danno tregua finché non hai trovato la soluzione. O le cose stavano come dicevo io, e qualcuno mi aveva messo in tasca la sigaretta, allora la domanda era: perché? Oppure ero stato io a mettercela, e stavo mentendo, ma la domanda era sempre la stessa: perché? a che scopo? Alla fine scrollavo le spalle con falsa noncuranza e dicevo che dopotutto, visto che la sigaretta era lì, non mi restava che fumarla; e così facevo. Però rimanevo sorpreso e deluso perché gli altri non sembravano aver notato nulla di particolare, niente di più dei soliti gesti di un fumatore – prendere una sigaretta e accenderla –, quello che facevano tutti e che io desideravo fare senza averne il coraggio. Nessuno pareva essersi accorto delle mie acrobazie, di tutta quella commedia per riuscire a dire che fumavo ma che se fumavo era in seguito a circostanze del tutto eccezionali; che non si trattava insomma di una mia scelta (per cui temevo di essere preso in giro, anche se nessuno ne aveva la benché minima intenzione), ma di un obbligo legato a un mistero. Quindi non ho difficoltà a immaginare lo stupore di Romand quando i suoi amici hanno accettato tranquillamente la sua spiegazione inverosimile. Era uscito, poi era tornato raccontando che qualcuno l’aveva massacrato di botte. E allora?
Il secondo giorno, quello decisivo, ho fatto colazione con l’avvocato Abad. È un uomo della mia età, imponente e imperioso, un concentrato di autorità virile. Ho pensato che Romand aveva di sicuro una gran paura di lui, ma che il fatto di essere difeso da uno così, uno di quelli che a scuola gli avrebbero spaccato volentieri la faccia, lo rassicurasse. Del resto, Abad dedicava alla sua difesa un’enorme quantità di tempo e di energie, senza sperare di ricavarne un centesimo: sosteneva di farlo in memoria dei bambini morti.
Quel mattino era preoccupato. Romand gli aveva detto di aver avuto durante la notte una sorta di illuminazione, e di essersi improvvisamente ricordato il vero motivo per cui non si era presentato all’esame. Gli ho chiesto quale fosse questo motivo. Abad si è limitato a rispondermi che tale motivo avrebbe senz’altro giocato a favore del suo cliente, se si fosse potuto verificare, ma che purtroppo non era possibile verificarlo, o meglio lui si rifiutava di fare il nome che avrebbe consentito di verificarlo. Per rispetto, asseriva, verso i parenti di una persona scomparsa che gli era cara.
«È un po’ come la storia delle famiglie in difficoltà a cui insegnava a leggere...».
«Se lo immagina l’effetto?» ha sospirato Abad. «Gli ho detto di tenerselo per sé. A proposito, gli ha fatto piacere vederla tra le file dei giornalisti. Le manda i suoi saluti».
Non ci sono stati colpi di scena. L’imputato ha ripetuto pari pari alla Corte la stessa versione fornita al giudice istruttore: due giorni prima dell’esame era caduto dalle scale di casa, rompendosi il polso destro. Era cominciato tutto così, per colpa di quel «banale incidente». Romand ha insistito moltissimo sul fatto di essersi realmente infortunato: temeva certo che lo sospettassero di aver inventato l’incidente, a quei tempi o al momento dell’istruttoria, visto che della frattura non resta traccia e nessuno può testimoniare che nel settembre del 1975 avesse il polso fasciato. Poi, come se anche in questo caso l’incoerenza del racconto fosse una garanzia di veridicità, ha aggiunto che all’atto pratico quell’infortunio era irrilevante, perché all’esame avrebbe potuto chiedere di dettare le risposte.
Il mattino dello scritto le lancette della sveglia hanno segnato in sequenza l’ora in cui si sarebbe dovuto alzare, l’ora d’inizio delle prove e l’ora della fine. Lui è rimasto a guardarle, steso sul letto. Dopo aver consegnato i compiti, gli studenti si sono ritrovati all’uscita dell’aula o ai tavolini dei bar per chiedersi com’era andata. Nel primo pomeriggio i genitori di Jean-Claude gli hanno telefonato per rivolgergli la stessa domanda, e lui ha risposto che era andata bene. Nessun altro l’ha chiamato.
Fra il giorno dell’esame e l’affissione dei risultati, sono passate tre settimane. Tutto era ancora in sospeso. Poteva ancora confessare di aver mentito. Naturalmente non sarebbe stato facile, doveva costare moltissimo a un ragazzo serio come lui riconoscere di aver fatto una simile cavolata, una cavolata come quella di Antoine Doinel, il protagonista del film I quattrocento colpi, il quale, trovandosi in difficoltà, racconta alla maestra che sua madre è morta ed è poi costretto ad affrontare le inevitabili conseguenze della sua bugia. Le conseguenze sono inevitabili, è questo il guaio. A meno che per miracolo sua madre non muoia davvero nel giro di ventiquattr’ore. Appena pronunciate le parole tabù, il bambino sa benissimo cosa lo aspetta: stupore, compassione, costernazione; ma poi gli chiederanno altri particolari che lo metteranno ancor più nei pasticci, fino al momento terribile in cui la verità verrà a galla. Bugie del genere scappano di bocca senza premeditazione. Rimpiangi subito di essertele lasciate sfuggire, sogni di poter tornare indietro di un minuto, di cancellare la follia appena commessa. Nel caso di Romand il fatto più sconcertante è che la follia sia stata commessa in due tempi, come uno che mentre lavora al computer schiacci il tasto sbagliato, rischiando di perdere un file prezioso, e quando il programma chiede: «Sei sicuro di voler eliminare il documento?», dopo aver soppesato i pro e i contro, dia ugualmente l’ok. Se si vergognava troppo a confessare una bugia tanto puerile ai suoi genitori, poteva sempre raccontare di essere stato bocciato. Se un fallimento gli pareva inconfessabile quanto la fuga, poteva sempre andare dal professore o dal preside di facoltà, spiegargli del polso rotto, della crisi depressiva, e accordarsi per un recupero. Da un punto di vista razionale, qualunque cosa sarebbe stata preferibile a quella che ha fatto lui: aspettare il giorno dei risultati e poi annunciare che era stato promosso, dunque ammesso al terzo anno di Medicina.
Da una parte c’era la strada normale, quella che seguivano i suoi amici, gli studi per cui, come tutti confermano, aveva attitudini leggermente superiori alla media. Pur avendo commesso un passo falso, è ancora in tempo per riprendersi e raggiungere gli altri: non l’ha visto nessuno. Dall’altra, c’era il sentiero tortuoso della menzogna, e non si può nemmeno dire che questo gli sembrasse cosparso di rose mentre il primo, la strada maestra, appariva impervio e irto di spine come pretendono le allegorie. Per capire che ci si trova davanti a un vicolo cieco non c’è bisogno di imboccarlo e spingersi fino alla prima curva. Non sostenere un esame e affermare di averlo passato non è un bluff audace, il rilancio azzardato di un giocatore, che può funzionare o no: il risultato in questo caso è uno solo, essere smascherati e cacciati dall’università coprendosi d’infamia e di ridicolo, le due cose al mondo che più lo spaventavano. Ma come poteva immaginare che esisteva un’ipotesi peggiore, quella di non essere smascherato, e che quella bugia puerile lo avrebbe portato diciott’anni dopo a massacrare i suoi genitori, Florence e i figli che ancora non aveva?
«Ma insomma,» ha chiesto la presidente «perché?».
Romand ha alzato le spalle.
«Mi sono fatto questa domanda tutti i giorni, per vent’anni, senza trovare risposta».
Silenzio.
«Però i risultati degli esami vengono affissi. Lei aveva degli amici. Nessuno ha notato che il suo nome non compariva?».
«No. Le assicuro che non sono andato ad aggiungerlo di mio pugno. Fra l’altro gli elenchi erano dietro i vetri delle bacheche».
«È un mistero».
«Anche per me».
Chinandosi verso uno dei suoi assistenti, che ha bisbigliato qualcosa, la presidente ha concluso:
«Riteniamo che non abbia risposto alla domanda in modo esauriente».
Dopo aver annunciato il buon esito dell’esame, Jean-Claude si è chiuso nel monolocale che gli avevano comprato i suoi genitori proprio come, dopo la sconfitta al liceo Du Parc, si era chiuso nella sua cameretta di Clairvaux. Ha passato il primo trimestre lì dentro, senza tornare a casa, senza andare all’università, senza rivedere gli amici. Se per caso qualcuno suonava alla porta, lui non rispondeva, stava fermo ad aspettare che se ne andasse. Ascoltava i passi allontanarsi sul pianerottolo. Restava prostrato a letto, non puliva più, si nutriva di scatolette. Le dispense dei corsi posate sul tavolo rimanevano aperte sempre alla stessa pagina. A volte il pensiero di ciò che aveva fatto squarciava il torpore in cui era immerso. Che cosa avrebbe potuto salvarlo? Un incendio all’università che riducesse in cenere tutte le prove? Un terremoto che distruggesse Lione? La sua morte? Suppongo che si chiedesse perché, perché aveva distrutto la propria vita. Perché l’aveva distrutta, su questo non c’erano dubbi. Certo non immaginava che avrebbe perseverato sulla strada della simulazione, e del resto in quel momento lui non simulava, non fingeva di essere uno studente, semplicemente si era ritirato dal mondo, se ne stava barricato in casa aspettando l’inevitabile epilogo come un criminale che sa che un giorno o l’altro la polizia verrà a prenderlo e, anziché scappare, cambiare indirizzo, fuggire all’estero, preferisce restarsene lì, inerte, a rileggere cinquanta volte lo stesso giornale vecchio di un mese, a mangiare carne in scatola, ingrassando di venti chili in attesa della fine.
Nel gruppo di amici, in cui Romand era una figura di secondo piano, qualcuno manifestava un certo stupore, ma limitandosi a qualche vaga domanda, ridotta presto a un rito meccanico: «Hai visto Jean-Claude ultimamente?». No, nessuno l’aveva visto, né a lezione né in reparto, chissà cosa stava combinando. I più informati parlavano di problemi di cuore. Florence li lasciava dire. E lui, nel suo monolocale con le imposte chiuse dove a poco a poco si stava trasformando in un fantasma, immaginava certo con amara soddisfazione la loro indifferenza. Forse, da quel bambinone che era, si compiaceva all’idea di crepare in fondo alla sua tana, abbandonato da tutti.
Non tutti, però, lo hanno abbandonato. Poco prima delle vacanze di Natale qualcuno ha suonato, insistendo finché lui non ha aperto la porta. Non era Florence. Era Luc, con il suo irritante dinamismo e la sua assoluta incapacità di vedere le cose da un punto di vista diverso dal suo, ma anche con la sua smania di mostrarsi altruista, la stessa che lo spingeva a caricare gli autostoppisti, a dare una mano agli amici durante i traslochi e a distribuire grandi pacche sulle spalle quando questi erano giù di corda. Fedele al suo personaggio, ha provveduto subito a dare una bella lavata di capo a Jean-Claude, strigliandolo a dovere e dicendogli che così non avrebbe cavato un ragno dal buco (la sua predilezione per le frasi fatte non ha urtato minimamente l’amico, che la condivideva).
Durante l’istruttoria hanno ricordato entrambi il momento più intenso della loro conversazione. Mentre guidava lungo gli argini della Saona, Luc gli aveva spiegato che è proprio quando tocchi il fondo che devi darti una spinta e risalire in superficie, mentre Jean-Claude stava ad ascoltarlo con un’aria tetra e scoraggiata, quasi fosse già sull’altra sponda. Forse ha avuto la tentazione di confessargli tutto. Come avrebbe reagito Luc? Subito sarebbe sbottato: «Bravo! Hai fatto una bella cazzata!», o qualcosa del genere, ma poi, costruttivo come sempre, avrebbe cercato una soluzione. E una soluzione esisteva, ce l’aveva a portata di mano, doveva solo ammettere il suo errore. Luc gli avrebbe suggerito come fare, avrebbe organizzato tutto, magari sarebbe andato a parlare con il preside di facoltà a nome suo. Sarebbe stato facile affidarsi a lui, come un ladruncolo al proprio avvocato. Raccontargli la verità significava però scadere ai suoi occhi, dover affrontare la sua incomprensione, il fuoco di fila delle sue domande: «Ma insomma, Jean-Claude, è pazzesco! Riesci a spiegarmi perché hai fatto una cosa simile?». Era proprio quello il punto, non ci riusciva. Non ne aveva voglia. Era troppo stanco.
Al semaforo Luc si è girato verso l’amico per incrociare il suo sguardo. Dando per scontato che il motivo della sua depressione fosse la rottura con Florence (il che in un certo senso era vero), gli aveva appena ricordato che le ragazze sono volubili, che niente era perduto. Allora Jean-Claude gli ha detto che aveva un cancro.
Non l’aveva premeditato, era un sogno che accarezzava da due mesi. Un cancro avrebbe risolto tutto. Avrebbe giustificato la sua bugia: quando uno sta per morire, che importanza può avere se è stato ammesso o no al terzo anno? Si sarebbe guadagnato la compassione e l’ammirazione di Florence e di tutti i sedicenti amici che, senza nemmeno rendersene conto, lo consideravano meno di zero. Appena pronunciata quella parola, Jean-Claude ne ha assaporato il potere magico. Aveva trovato la soluzione.
Il cancro che aveva scelto era un linfoma, ovvero una malattia capricciosa, dall’evoluzione imprevedibile, grave ma non necessariamente fatale, che non impedisce a chi ne è affetto di condurre per anni una vita normale. E di fatto è stato proprio così, gli ha permesso di condurre una vita normale, prendendo il posto della menzogna sia per gli altri che per lui. Ormai gli amici più intimi sapevano che viveva portandosi dentro una bomba a orologeria che prima o poi lo avrebbe devastato, ma che per il momento dormiva in fondo alle sue cellule – e lui stesso, non molto tempo dopo, ha annunciato che il tumore era andato in remissione, chiudendo definitivamente l’argomento. Secondo me, preferiva immaginarsi così la minaccia che incombeva sulla sua testa, insieme imminente e lontana, sicché, dopo un periodo di crisi in cui si era visto perduto, impotente di fronte all’inevitabile catastrofe, ha iniziato a sentirsi e a comportarsi come un malato il quale, pur sapendo che la catastrofe è inevitabile, e che ogni giorno potrebbe segnare la fine della remissione, decide di vivere ugualmente, di fare progetti, suscitando così l’ammirazione di chi gli sta accanto per il suo riserbo e il suo coraggio. Sostituendo un imbroglio con un cancro è riuscito a trasporre in termini comprensibili agli altri una realtà troppo particolare e privata. Avrebbe preferito davvero essere malato di cancro piuttosto che di menzogna – perché anche la menzogna era una malattia, con la sua eziologia, i suoi rischi di metastasi, la sua prognosi riservata –, ma il destino aveva voluto che si ammalasse di menzogna, e non era colpa sua.
La vita ha ripreso il suo corso. Lui ha ricominciato a frequentare l’università, a vedere gli amici e soprattutto Florence. Sconvolto dalla notizia, Luc gli aveva chiesto se lei lo sapeva e Jean-Claude, con pudica compostezza, gli aveva risposto che lei non doveva saperlo per nessun motivo al mondo. «Non le dirai niente, vero? Promettimi di non dirle niente» si era arrischiato ad aggiungere, immaginando che Luc, amante com’era della verità, avrebbe obiettato: «Non posso prometterti una cosa simile. Florence è una brava ragazza. È giusto che lo sappia. Se venisse a sapere che io lo so e non gliel’ho detto, non me lo perdonerebbe mai, e avrebbe ragione...». La manovra, se di manovra si trattava, ha funzionato. Le ragazze con cui Florence divideva l’appartamento sostengono che l’amica provava per Jean-Claude stima e affetto, ma non attrazione fisica. Una di loro è arrivata persino ad affermare che il suo corpo sudaticcio la disgustava e che non sopportava di toccarlo né di farsi toccare da lui. Forse però è azzardato concludere che è tornata con Jean-Claude solo perché lo credeva gravemente malato... Quello che sappiamo per certo è che è tornata, e che due anni dopo hanno festeggiato il fidanzamento.
Nel fascicolo delle indagini preliminari figura un documento sconcertante: la corrispondenza tra lo studente del secondo anno Jean-Claude Romand e la facoltà di Medicina di Lione-Nord, dal 1975 al 1986. Per due volte, al momento degli esami di ammissione al terzo anno, Jean-Claude ha scritto alla facoltà adducendo motivi di salute per non presentarsi. Le lettere erano accompagnate da certificati medici firmati da vari dottori i quali, senza indicarne la ragione, gli prescrivevano di stare a riposo una o due settimane – purtroppo proprio durante gli esami. Nel 1978 la formulazione del testo resta la stessa, salvo che «l’accluso certificato» non viene accluso. Seguono vari solleciti ai quali Romand risponde facendo riferimento al famoso certificato come se l’avesse spedito. Recitare la parte del tonto dà i suoi frutti: lo avvertono che non è più autorizzato a ripresentarsi a settembre. Ma non viene precisato che non può più iscriversi al secondo anno, cosa che farà puntualmente fino al 1985. Ogni autunno riceve dalla segreteria dell’università una nuova tessera studentesca e dalla segreteria di facoltà sempre la stessa lettera, firmata dal preside, che gli vieta di ripresentarsi a settembre. Soltanto nel novembre del 1986 la nuova responsabile del servizio s’informa sulla possibilità di impedire a quel Romand non solo di sostenere esami (cosa che non fa) ma anche di iscriversi nuovamente. Le viene risposto che il caso non è contemplato. Allora convoca lo studente fantasma, il quale non si presenta e, certamente allarmato da quella novità, non dà più segni di vita.
Nel rammentare quegli anni tutti, presidente, accusa e difesa hanno manifestato il loro stupore, stupore che lui condivideva: «Ero il primo a non credere ai miei occhi». Poteva contare, al limite, sulle lungaggini burocratiche, cullarsi nell’idea di essere solo un numero nei registri, ma di certo non immaginare che si sarebbe iscritto per dodici anni di seguito al secondo anno di Medicina. Viceversa, nella testa di quelli per cui Jean-Claude non era un numero ma un amico, o più di un amico, il campanello d’allarme avrebbe dovuto scattare ben prima. Invece non è successo nulla. Lui seguiva le lezioni, frequentava la biblioteca universitaria. Aveva sulla scrivania gli stessi manuali e le stesse dispense degli altri, e continuava a prestare i suoi appunti ai compagni meno diligenti. Fingere di fare Medicina gli richiedeva uno zelo e un’energia pari a quelli di cui avrebbe avuto bisogno per farla davvero. Quando si è rimesso con Florence, loro due hanno preso l’abitudine di studiare insieme, interrogandosi a vicenda. Le loro strade tuttavia si erano divise perché Florence era stata bocciata all’esame di ammissione al terzo anno, che lui, ufficialmente, aveva superato, e come le sue due coinquiline, come il loro amico Jacques Cottin, aveva ripiegato su Farmacia. Era rimasta un po’ delusa, ma senza farne un dramma: meglio una buona farmacista che un cattivo medico, mentre Jean-Claude, lui sì che sarebbe diventato un buon medico, forse anche qualcosa di più. Era ambizioso, lavorava duro, tutti i suoi amici pensavano che sarebbe andato lontano. Lei lo aiutava a ripassare i test del concorso per internato, e lui i suoi corsi di Farmacia. Così Romand ha portato a termine l’intero ciclo di studi in Medicina, solo che non sosteneva gli esami e non frequentava i reparti ospedalieri. Per gli esami, in genere si faceva vedere nell’atrio, all’inizio e alla fine, contando sulla ressa e sulla tensione generale per farsi poi dimenticare. Ma la frequenza in reparto era organizzata in piccoli gruppi e ogni studente veniva seguito personalmente dal professore, per cui era impensabile partecipare da clandestino. Dato però che era possibile scegliere tra diversi ospedali della provincia di Lione, lui poteva sempre sostenere che frequentava un reparto diverso da quello del suo interlocutore. Ovvio che da un soggetto simile anche lo sceneggiatore più scalcagnato sarebbe in grado di tirar fuori situazioni da commedia in cui l’impostore si trova incastrato fra due persone alle quali ha fornito versioni differenti. Eppure né lui né i suoi compagni di studi ricordano scene del genere, il che induce a pensare che non siano mai accadute.
I loro amici cominciavano a sposarsi. Jean-Claude e Florence erano molto richiesti come testimoni. Tutti pensavano che presto sarebbe toccato a loro. I genitori di Florence, che stravedevano per il futuro genero, spingevano molto in tal senso. Il matrimonio è stato celebrato proprio a casa loro, vicino ad Annecy, alla presenza di centocinquanta invitati. L’anno dopo Florence si è laureata in Farmacia con il massimo dei voti e Jean-Claude ha superato il concorso per diventare medico ospedaliero a Parigi. Inizialmente ricercatore all’INSERM di Lione, è stato poi distaccato presso l’OMS di Ginevra come responsabile di un gruppo di ricerca. Allora la coppia ha lasciato Lione per stabilirsi a Ferney-Voltaire, dove Luc Ladmiral aveva da poco riaperto lo studio di suo padre e Jacques Cottin aveva rilevato una farmacia nella quale Florence poteva lavorare part-time. A un’ora di strada sia da Annecy che da Clairvaux, quel posto offriva i vantaggi della campagna e della montagna, con una capitale a due passi, un aeroporto internazionale, un ambiente aperto e cosmopolita. E poi, era l’ideale per i bambini.
I loro amici cominciavano ad avere dei figli. Jean-Claude e Florence erano molto richiesti come padrino e madrina, e tutti pensavano che presto sarebbe toccato a loro. Jean-Claude era pazzo di Sophie, la sua figlioccia, la primogenita di Luc e Cécile, che erano già al secondo. Caroline è nata il 14 maggio 1985, Antoine il 2 febbraio 1987. In entrambe le occasioni il loro papà ha portato a casa magnifici regali da parte dei suoi capi dell’OMS e dell’INSERM, i quali da allora non hanno mai dimenticato un compleanno. Pur senza conoscerli, Florence gli scriveva lettere di ringraziamento che il marito s’incaricava di trasmettere.
Quasi tutti gli album della famiglia Romand sono andati distrutti durante l’incendio. Le poche fotografie che si sono salvate assomigliano alle nostre. Come me, come Luc, come tutti i giovani padri, quando è nata sua figlia Jean-Claude ha comprato una macchina fotografica, e si è messo entusiasticamente a scattare ritratti di tutta la famiglia: Caroline e poi Antoine da piccoli, attaccati al biberon, i loro giochi nel box, i loro primi passi, il sorriso di Florence china sui bambini, e lei, a sua volta, ritraeva lui, tutto fiero di portarli in braccio, di lanciarli in aria, di fargli il bagnetto. Di sicuro, l’espressione da imbranato e la faccia rapita di Jean-Claude in quelle foto commuovevano sua moglie, convincendola di aver fatto, in fin dei conti, la scelta giusta, quella di amare un uomo che li amava così tanto, lei e i loro figli.
I loro figli.
Lui chiamava Florence Flo, Caroline Caro e Antoine Titou. Usava molto i possessivi, diceva la mia Flo, la mia Caro, il mio Titou. Spesso poi Titou diventava signor Titou, con quel tono teneramente scherzoso che ispira a noi adulti la serietà dei più piccini. Allora, dormito bene, signor Titou?
«Il lato sociale era falso, ma il lato affettivo era autentico» dice Romand. Dice di essere stato un finto medico, ma un vero marito e un vero padre, di aver amato con tutto il cuore moglie e figli, i quali lo ricambiavano. Chi li ha conosciuti assicura, anche dopo i fatti, che Antoine e Caroline erano felici, sicuri di sé, equilibrati, lei un po’ timida, lui un allegrone: nelle foto di classe contenute nel fascicolo delle indagini ha la bocca spalancata in un sorriso sdentato. Si dice che i bambini sanno tutto, sempre, che non gli si può nascondere nulla; ne sono convinto anch’io. Guardo le foto ancora una volta. Non sono tanto sicuro.
Erano orgogliosi perché il loro papà faceva il dottore. «Il dottore cura i malati» ha scritto Caroline in un tema. Lui non li curava nel senso più comune del termine, non curava nemmeno la sua famiglia di origine – erano tutti seguiti da Luc, lui compreso – e si vantava di non aver mai firmato una ricetta in vita sua. Ma Florence aveva spiegato ai bambini che lui inventava le medicine che permettevano di curarli, e questo faceva di lui un superdottore. Gli adulti non ne sapevano di più. Se qualcuno avesse chiesto cosa faceva Jean-Claude Romand, chi lo conosceva poco avrebbe risposto che occupava una carica importante all’OMS e viaggiava molto; chi lo conosceva bene avrebbe precisato che le sue ricerche vertevano sull’arteriosclerosi, che insegnava all’Università di Digione e che era in contatto con illustri personalità politiche, come Laurent Fabius; lui però non ne parlava mai, e se qualcuno accennava in sua presenza a quelle conoscenze altolocate sembrava piuttosto imbarazzato. Era un uomo «a compartimenti stagni», così lo definiva Florence, che separava rigidamente la sfera privata da quella professionale, non invitava mai a cena i colleghi dell’OMS e non tollerava che lo disturbassero a casa per questioni di lavoro, né che parenti o amici lo importunassero in ufficio. Il numero del suo ufficio, del resto, non l’aveva dato a nessuno, nemmeno a sua moglie, che per mettersi in contatto con lui usava il servizio Operator. Bastava lasciare un messaggio in una casella vocale: il cercapersone che portava sempre con sé lo avvertiva emettendo un segnale acustico, e nel giro di pochi minuti lui richiamava. Né lei né nessun altro trovava la cosa strana, perché Jean-Claude era un po’ orso; spesso Florence ci scherzava su: «Un giorno o l’altro verrò a sapere che mio marito è una spia dei Paesi dell’Est».
La famiglia, genitori e suoceri compresi, era il centro della sua vita, attorno al quale gravitava un piccolo gruppo di amici, i Ladmiral, i Cottin e qualche altra coppia con cui Florence aveva simpatizzato. Persone sui trent’anni come loro, con professioni e redditi simili e figli della stessa età. Si invitavano a vicenda senza tante formalità, andavano insieme al ristorante o al cinema, in genere a Ginevra, qualche volta a Lione o a Losanna. I Ladmiral ricordano di aver visto con i Romand Le Grand Bleu, Le père Noël est une ordure (che poi hanno comprato in cassetta e di cui conoscevano a memoria le battute), alcuni balletti di Béjart, grazie ai biglietti che Jean-Claude aveva avuto tramite l’OMS, lo spettacolo di Valérie Lemercier, ma anche Nella solitudine dei campi di cotone, un’opera teatrale di Bernard-Marie Koltès che nella propria deposizione Luc avrebbe descritto come «un interminabile dialogo sulle durezze della vita tra due persone che raccolgono cotone, giudicato del tutto incomprensibile da parecchi dei nostri amici». A Jean-Claude invece il soggetto era piaciuto e nessuno se n’era stupito, visto che passava per un intellettuale. Leggeva molto, preferibilmente saggi di divulgazione filosofica scritti da grandi personalità scientifiche, come Il caso e la necessità di Jacques Monod. Si definiva razionalista e agnostico, pur rispettando la fede di sua moglie e apprezzando anche il fatto che i figli frequentassero una scuola religiosa: più tardi sarebbero stati liberi di scegliere. Ammirava personaggi diversi fra loro come l’Abbé Pierre e Bernard Kouchner, madre Teresa e Brigitte Bardot. Apparteneva alla nutrita schiera di francesi convinti che se Gesù decidesse di tornare fra noi farebbe il medico in un’organizzazione umanitaria. Era amico di Kouchner e la Bardot gli aveva dedicato un busto in cui raffigurava Marianna. Sosteneva la sua lotta per la difesa degli animali, era membro della sua fondazione, della Società Protezione Animali, di Greenpeace e di Handicap international, ma anche del club Prospettive e realtà di Bellegarde, del golf di Divonne-les-Bains e dell’Automobile Club dei medici, grazie al quale aveva ottenuto il caduceo da attaccare sul parabrezza della macchina. Gli inquirenti hanno trovato traccia di numerosi versamenti a queste istituzioni, di cui lasciava in giro per la casa bollettini, spillette e adesivi. Aveva anche un timbro e dei biglietti da visita intestati al dottor Jean-Claude Romand, ex medico ospedaliero nei nosocomi di Parigi, ma non figurava in alcun albo professionale. Sono bastate poche telefonate, il giorno dopo l’incendio, per far crollare l’intero castello di carte. Durante tutta l’istruttoria il giudice non riusciva a capacitarsi che quelle telefonate non fossero state fatte prima, non con malizia o sospetto, ma solo perché è assurdo che uno, per quanto sia un tipo «a compartimenti stagni», lavori dieci anni senza che sua moglie o i suoi amici lo chiamino mai in ufficio, roba da non credere. Impossibile pensare a questa storia senza immaginare che sotto ci sia un mistero, una spiegazione nascosta. Il mistero, però, è che non esistono spiegazioni, e che per quanto inverosimile possa sembrare, questo è ciò che è accaduto.
Al mattino era lui a portare i bambini alla Saint-Vincent. Li accompagnava fino al cortile, dove scambiava qualche parola con gli insegnanti o con le madri degli altri scolari, che lo ammiravano e lo citavano ai mariti come esempio per il suo attaccamento ai figli. Poi prendeva la strada per Ginevra. Basta fare due chilometri per raggiungere la frontiera: migliaia di persone che risiedono nella regione di Gex e vanno a lavorare in Svizzera l’attraversano ogni giorno, mattina e sera. Come i pendolari sui treni di periferia, hanno orari fissi, si salutano e salutano i doganieri i quali, con un cenno, li lasciano passare senza fare controlli. Molti sono funzionari internazionali: una volta entrati in città, anziché girare a destra verso il centro e la stazione Cornavin, svoltano a sinistra in direzione del giardino botanico e del quartiere residenziale dove hanno sede gli organismi per cui lavorano. Mescolandosi agli altri, Romand percorreva lentamente i grandi viali verdi e tranquilli, e di solito finiva per lasciare l’auto nel parcheggio dell’OMS. Entrava con il tesserino dei visitatori, con la cartella in mano, e si spostava con sicurezza dalla biblioteca del pianterreno alle sale conferenze, fino all’ufficio pubblicazioni, dove arraffava sistematicamente qualsiasi cosa purché stampata e gratuita. Aveva la casa e la macchina piene di scartoffie con intestazioni o timbri dell’OMS, di cui sfruttava tutti i servizi: la posta per spedire le lettere, la banca per effettuare la maggior parte dei prelievi, l’agenzia di viaggi per organizzare le vacanze familiari. Ma non si avventurava mai fino ai piani superiori, dove le guardie avrebbero potuto chiedergli che cosa stesse cercando. Chissà se almeno una volta, approfittando di un’ora morta, è andato a visitare il suo ufficio, quello con la finestra barrata da una croce nella fotografia che aveva regalato ai suoi genitori. Chissà se ha guardato, con la fronte appoggiata al vetro, cosa si vedeva da quella finestra, se si è seduto al suo posto, se ha incrociato la persona che tornava a occuparlo, se l’ha chiamata al telefono. Lui dice di no, che non gli è neanche mai venuto in mente. Sua suocera ricorda che una domenica, in occasione di una gita in Svizzera, i bambini hanno chiesto di vedere l’ufficio di papà. Papà ha acconsentito a mostrarglielo: si sono fermati nel parcheggio e lui ha indicato col dito una finestra. Fine della storia.
I primi tempi andava all’OMS ogni giorno, poi solo ogni tanto. Anziché la strada per Ginevra, prendeva quella di Gex e Divonne, o quella di Bellegarde, che porta all’autostrada per Lione. In una qualsiasi edicola comprava un fascio di giornali: quotidiani, periodici, riviste scientifiche. Poi andava a leggerli in un bar – che si premurava di cambiare spesso e di scegliere abbastanza lontano da casa –, oppure in macchina. Si fermava in un parcheggio o in un’area di servizio e restava lì per ore a leggere, prendere appunti, sonnecchiare. A pranzo mangiava un panino e il pomeriggio riprendeva a leggere in un altro bar o in un’altra area di servizio. Quando questo programma gli veniva a noia passeggiava per le città, a Bourg-en-Bresse, a Bellegarde, a Gex, a Nantua e soprattutto a Lione dove, in place Bellecour, si trovavano la Fnac e Flammarion, le sue librerie preferite. Certe volte sentiva la mancanza della natura, dei grandi spazi, e allora saliva sul Giura. Seguiva la strada tortuosa che porta al Col de la Faucille, dove si trova un alberghetto, Le Grand Tétras. A Florence e ai bambini piaceva andar lì la domenica a sciare e mangiare patatine fritte. Durante la settimana non c’era nessuno. Lui beveva un bicchiere, camminava nei boschi. Dal sentiero in cresta si scorgono la regione di Gex, il lago Lemano e, quando il cielo è limpido, le Alpi. Dinanzi a lui si stendeva la pianura civilizzata dove vivevano il dottor Romand e i suoi simili, alle sue spalle il paese delle combe e dei boschi selvaggi dove aveva trascorso la sua infanzia solitaria. Il giovedì, giorno in cui faceva lezione a Digione, passava a trovare i genitori, che erano tutti contenti di mostrare ai vicini quel figlio così importante, così occupato, ma sempre pronto a fare qualche chilometro in più per abbracciarli. A suo padre si era abbassata la vista, tanto che verso la fine era quasi cieco e non poteva più andare da solo nel bosco. Jean-Claude lo accompagnava tenendolo sottobraccio e lo ascoltava parlare degli alberi e della sua prigionia in Germania. Al ritorno, scorreva con lui le agende nelle quali da quarant’anni Aimé, che era stato corrispondente di una stazione meteorologica, annotava quotidianamente, con la costanza di chi tiene un diario, la temperatura minima e massima.
Infine c’erano i viaggi: congressi, seminari e convegni in tutto il mondo. Lui comprava una guida del paese, Florence gli preparava la valigia. Prendeva la macchina, che avrebbe lasciato come sempre al parcheggio di Ginevra-Cointrin. In una moderna camera d’albergo, spesso nella zona dell’aeroporto, si toglieva le scarpe, si stendeva sul letto e rimaneva per tre o quattro giorni a guardare la televisione e gli aerei che decollavano e atterravano davanti alla finestra. Si studiava la guida turistica, per non commettere errori nei racconti che avrebbe fatto al ritorno. Telefonava a casa ogni giorno per dire che ora era e che tempo faceva a San Paolo o a Tokyo. Chiedeva se tutto andava bene durante la sua assenza. Ripeteva alla moglie, ai figli e ai genitori che sentiva la loro mancanza, che li pensava sempre, che li abbracciava. Non chiamava nessun altro: chi avrebbe dovuto chiamare? Tornava dopo qualche giorno, carico di regali comprati in un negozio dell’aeroporto. A casa lo accoglievano a braccia aperte. Lui era stanco per via del fuso orario.
Divonne è una piccola stazione termale vicina al confine svizzero, nota soprattutto per il suo casinò. Tanto tempo fa l’avevo usata come sfondo per un episodio di un romanzo: la protagonista era una donna che conduceva una doppia vita e si stordiva con il gioco d’azzardo. Il romanzo in questione aveva la pretesa di essere realistico e documentato, ma siccome non avevo visitato tutti i casinò di cui parlavo, ho scritto che Divonne si trova sul lago Lemano; in realtà è a una decina di chilometri di distanza, ma anche lì c’è un piccolo specchio d’acqua, che chiamano lago, sul quale si affaccia il parcheggio dove spesso sostava Romand. Ci ho sostato anch’io. È il ricordo più nitido che conservo del mio primo viaggio sui luoghi della sua vita. C’erano soltanto altre due macchine, vuote. Tirava vento. Ho riletto la lettera che lui mi aveva spedito per guidarmi, ho osservato lo specchio d’acqua, ho seguito nel cielo grigio il volo di uccelli di cui ignoro il nome (purtroppo non so riconoscere né gli uccelli né gli alberi). Faceva freddo, così ho rimesso in moto per accendere il riscaldamento. Il soffio d’aria m’intorpidiva. Pensavo al monolocale in cui vado ogni mattina, dopo aver portato i bambini a scuola. Quella stanza esiste, chiunque può telefonarmi e venirmi a trovare. Quando sono lì, scrivo e sistemo sceneggiature che poi in genere diventano dei film. Ma so che cosa significa passare le proprie giornate senza testimoni, sdraiati a guardare il soffitto per ore, con la paura di non esistere più. Mi sono chiesto che cosa provasse Romand seduto in macchina. Un senso di appagamento? Un’euforia beffarda all’idea di riuscire a ingannare tutti quanti in modo così magistrale? Ero sicuro di no. Angoscia? Immaginava forse come si sarebbe conclusa quella storia, in quale modo sarebbe esplosa la verità e che cosa sarebbe accaduto in seguito? Piangeva, con la fronte appoggiata al volante? Oppure non provava assolutamente nulla? Forse invece, quando restava da solo, si trasformava in un automa capace di guidare, camminare e leggere, ma non di pensare né di provare sentimenti, un dottor Romand residuale e anestetizzato. Di norma una bugia serve a nascondere una verità, magari qualcosa di vergognoso, ma reale. La sua non nascondeva nulla. Sotto il falso dottor Romand non c’era un vero Jean-Claude Romand.
Mi è venuto in mente un film che all’epoca aveva ottenuto un grande successo. È la storia – una tipica leggenda per tempi di crisi – di un dirigente che viene licenziato e non ha il coraggio di confessarlo a moglie e figli. Convinto di trovare rapidamente un nuovo lavoro, si ritrova ben presto senza neanche più il sussidio di disoccupazione. Ogni mattina esce fingendo di andare in ufficio e ogni sera torna a casa alla solita ora. Passa il tempo a girovagare evitando il quartiere dove abita. Non parla con nessuno, qualunque faccia lo spaventa perché potrebbe essere quella di un ex collega, di un amico che si chiederebbe che diavolo ci fa lì, seduto su una panchina a metà pomeriggio... Un giorno però incontra delle persone nella sua stessa situazione, vagabondi o ex detenuti rumorosi e scafati. Con loro scopre un mondo più duro, ma più caloroso e vitale di quello ovattato in cui vegetava prima di essere licenziato. Da quell’esperienza esce più maturo e umano: è un film a lieto fine.
Romand mi ha detto di averlo visto alla televisione insieme a Florence. A lei era piaciuto, non l’aveva minimamente turbata. Lui sapeva che la sua storia non poteva avere un lieto fine. Non ha mai confidato o provato a confidare il suo segreto, né a sua moglie, né al suo migliore amico, né a uno sconosciuto su una panchina, né a una prostituta, né a nessuna delle anime pie che ascoltano e comprendono per mestiere: preti, psicoterapeuti, orecchie anonime del telefono amico. In quindici anni di doppia vita non ha mai parlato con nessuno, non è mai entrato in contatto con quei mondi paralleli – giocatori, drogati, nottambuli – in cui forse si sarebbe sentito meno solo. Né ha mai cercato di ingannare estranei. Quando entrava in scena nella sfera privata, tutti pensavano che avesse appena lasciato un’altra scena, dove svolgeva un altro ruolo – quello dell’uomo importante che gira il mondo, frequenta i ministri, viene invitato a cene ufficiali in sontuose dimore –, ruolo che uscendo sarebbe tornato a interpretare. Invece non esisteva un’altra scena, un altro pubblico davanti al quale recitare quell’altro ruolo. Fuori, era completamente nudo. Tornava all’assenza, al vuoto, al nulla che per lui non costituiva un incidente di percorso ma l’unica esperienza della sua vita. La sola che abbia mai conosciuto, credo, anche prima di ritrovarsi al bivio.
I genitori l’hanno mantenuto fino alla fine degli studi. Gli hanno comprato un monolocale a Lione e un’automobile, e preferivano trattare qualche partita di legname in più piuttosto che vedere il figlio sprecare il suo tempo a dare lezioni private o a fare il baby-sitter per racimolare un po’ di soldi. L’ora della verità sarebbe dovuta scoccare quando, dopo la laurea e il matrimonio, Jean-Claude è entrato nella vita attiva come ricercatore all’INSERM. Invece non è successo nulla. Ha continuato ad attingere al conto in banca dei suoi genitori, sul quale aveva una delega. Considerava suoi i loro averi, e loro lo incoraggiavano in tal senso, senza stupirsi dei prelievi eseguiti sistematicamente dal figlio, che pure guadagnava bene. Quando si è trasferito da Lione nella regione di Gex, ha venduto il monolocale per 300.000 franchi, tenendosi il ricavato. Una volta all’OMS, ha detto o lasciato capire che la sua posizione di funzionario internazionale gli permetteva di fare investimenti molto vantaggiosi, a un tasso del 18%, e che anche i suoi parenti potevano beneficiarne. I Romand, patriottici e contrari a qualsiasi intrallazzo, non erano certo il tipo di persone che deposita i risparmi in Svizzera, ma il fatto che l’idea venisse da Jean-Claude bastava ad allontanare qualunque obiezione. Vedendo il loro gruzzolo diminuire a ogni estratto conto, anziché preoccuparsi benedicevano il figlio che nonostante i suoi numerosi impegni trovava il tempo di gestire il loro piccolo portafoglio di pensionati. Questa fiducia era condivisa dallo zio Claude, che oltre all’officina possedeva alcune quote dell’impresa forestale amministrata dal fratello: anche lui ha affidato al nipote alcune decine di migliaia di franchi, convinto che, a patto di non toccarli, gli avrebbero fruttato dieci volte tanto.
Con quei soldi è riuscito a tirare avanti nei primi tempi del matrimonio. Florence dichiarava al fisco un reddito molto modesto, frutto delle sostituzioni che svolgeva nelle farmacie della zona, e lui zero spaccato perché diceva che lavorando in Svizzera non doveva pagare le tasse. Aspettava che lei avesse firmato, poi aggiungeva sulla comune dichiarazione dei redditi «professione: studente», e allegava copia della sua tessera universitaria. Andavano in giro su una vecchia Volvo, passavano le vacanze dai genitori, qualche volta una decina di giorni in Spagna o in Italia. Il loro appartamento, un bilocale di cinquanta metri quadrati da 2000 franchi al mese, ideale per una giovane coppia, era già meno ideale per una giovane coppia con un figlio e assolutamente inadeguato per una famiglia di quattro persone, tanto più che a volte la madre di Florence andava a trovarli per diverse settimane. I loro amici hanno cominciato a prenderli un po’ in giro. Ormai tutti si erano comprati o fatti costruire una casa, mentre i Romand si ostinavano a restare accampati sui divani letto come studenti fuori corso. «Ma scusa, tu quanto guadagni?» gli ha chiesto un giorno Luc a bruciapelo. «30, 40.000 franchi al mese?». Dava per scontato che la cifra fosse quella, e Jean-Claude ha annuito. «Potresti anche permetterti qualcosa di meglio. Altrimenti finiremo col credere che sei tirchio, oppure che hai un’amante che ti costa un occhio della testa!». Sono scoppiati tutti a ridere, Florence per prima, e lui ha alzato le spalle borbottando che non era sicuro di restare a lungo da quelle parti, che forse l’avrebbero trasferito all’estero e che gli rompeva le scatole dover traslocare due volte di fila. E poi tutto quel denaro facile che circolava nella regione di Gex lo nauseava: non aveva voglia di seguire quell’andazzo, di educare i suoi figli con quel tipo di valori, vivere modestamente costituiva per lui un punto d’onore. Queste due spiegazioni, indolenza e virtù, non erano contraddittorie, anzi contribuivano ad alimentare la sua immagine di intellettuale distaccato dalle cose materiali. Veniva da chiedersi però se Florence lo fosse altrettanto. In realtà, nonostante avesse gusti semplici e fiducia nel marito, alla lunga ha cominciato a trovare ragionevoli le critiche degli amici e a fare pressione perché traslocassero in una casa più grande. Lui rispondeva in modo evasivo, rimandava, non aveva tempo per pensarci. A stento sosteneva le spese correnti.
L’anno della nascita di Antoine il padre di Florence è andato in pensione. In realtà la ditta di occhiali per cui lavorava ad Annecy lo aveva licenziato, dandogli una buonuscita di 400.000 franchi. È poco probabile che Jean-Claude si sia offerto direttamente di investirli: deve averne parlato con Florence, che ne ha parlato con sua madre, che a sua volta ne ha parlato col marito, così lui si è trovato nella comoda posizione di chi viene sollecitato e non di chi sollecita. Ha accettato di fare un piacere al suocero, investendo per lui 378.000 franchi all’UOB, banca ginevrina con sede in quai des Bergues. La somma ovviamente è stata versata su un conto a nome suo, perché soltanto la sua posizione gli permetteva simili investimenti. Il nome di Pierre Crolet non figurava da nessuna parte. In breve, né i Crolet né i Romand, suoi principali azionisti, hanno mai visto un documento bancario che attestasse il deposito del capitale o l’ammontare degli interessi. Ma cosa ci può essere di più sicuro di una banca svizzera se non una banca svizzera raccomandata da Jean-Claude Romand? Pensavano che i loro soldi fruttassero tranquillamente in quai des Bergues, e per nulla al mondo li avrebbero disturbati. Questo almeno era quello che credeva Jean-Claude, fino al giorno in cui suo suocero gli ha detto che voleva ritirare parte del suo capitale per comprarsi una Mercedes. A sua moglie aveva già pensato, i suoi figli volavano con le proprie ali, perché privarsi di quel piacere?
Poche settimane dopo, il 23 ottobre 1988, Pierre Crolet è caduto dalle scale di casa sua mentre era da solo con il genero, ed è morto in ospedale senza riprendere conoscenza.
Dopo la tragedia di Prévessin la famiglia Crolet ha chiesto un supplemento d’indagine, che ovviamente non ha portato a nulla. Al processo il sostituto procuratore ha ritenuto di non poter tacere l’atroce dubbio con cui i Crolet, come se non bastasse quello che stavano passando, erano costretti a vivere. Abad si è opposto con forza, accusando il pubblico ministero di deviare dal caso in esame per aggravare la posizione del suo cliente, e non ce n’era bisogno, visto quello che stava passando anche lui. Alla fine, prima che la Corte si ritirasse in Camera di consiglio, l’imputato ci ha tenuto a dire alla famiglia Crolet, chiamando Dio a testimone, che lui con la morte del suocero non aveva niente a che fare. Ha aggiunto di essere convinto che non esiste perdono per chi non confessa i propri peccati. Salvo future ammissioni di colpa da parte sua, non si saprà mai nient’altro su questa storia, e personalmente io non ho alcuna opinione. Voglio soltanto aggiungere che nel corso di uno dei primi interrogatori Romand ha affermato: «Se l’avessi ucciso lo direi. Al punto in cui sono, uno più uno meno...».
Se dichiara semplicemente di non aver ucciso il suocero, Romand può beneficiare del principio della presunzione d’innocenza. Se lo giura davanti a Dio chiama in causa una dimensione diversa, che può risultare più o meno convincente, a seconda della sensibilità individuale. Ma nel momento in cui dice che un morto in più non cambia niente e che se l’avesse ucciso lo confesserebbe, dimostra d’ignorare o di fingere d’ignorare l’enorme differenza che esiste fra una serie di delitti mostruosi ma irrazionali, e un delitto commesso a scopo di lucro. È vero che sotto il profilo penale non cambia granché, visto che la condanna a morte è stata abolita. Ma dal punto di vista morale o, se si preferisce, dal punto di vista dell’immagine pubblica, importantissima per Romand, la faccenda cambia eccome: è ben diverso essere l’artefice di una tragedia, spinto da un’oscura fatalità a commettere atti che suscitano terrore e pietà, o un piccolo imbroglione che per prudenza si sceglie le vittime, persone anziane e ingenue, nella cerchia familiare, e che per garantirsi l’impunità spinge il suocero giù dalle scale. Ora, anche se quest’omicidio non è dimostrato, una cosa è certa: Romand è anche quel piccolo imbroglione, e per lui è molto più difficile accettare questo aspetto, sordido e infamante, di se stesso che confessare una serie di omicidi la cui mostruosità gli conferisce una dimensione tragica. In un certo senso, questa immagine gli è servita a nascondere l’altra, anche se in modo parziale.
Più o meno allo stesso periodo risale un’altra storia imbarazzante. La sorella di Pierre Crolet, la zia di Florence, aveva un marito malato di un cancro incurabile. Ha testimoniato al processo. Secondo la sua versione dei fatti, un giorno Jean-Claude le avrebbe parlato di un rimedio che stava mettendo a punto insieme al suo capo dell’OMS: si trattava di un nuovo farmaco ottenuto utilizzando cellule di embrioni umani forniti da una clinica dove si praticavano aborti. Purtroppo quel rimedio, che poteva arrestare il processo della malattia ed eventualmente causarne la remissione, non era ancora in commercio, ed era assai probabile che lo zio morisse prima che la cura fosse disponibile. Dopo aver gettato l’esca, Jean-Claude avrebbe aggiunto che forse poteva procurarsene un paio di dosi, ma i costi di produzione a quello stadio della ricerca erano estremamente elevati, 15.000 franchi a capsula, e che per iniziare il trattamento ce ne volevano due. Nonostante il prezzo, hanno deciso di tentare. Qualche mese più tardi, dopo un grave intervento chirurgico subìto dallo zio, si è resa necessaria un’altra doppia dose, così il costo della cura è salito a 60.000 franchi in contanti. In un primo momento il malato si è opposto, non volendo intaccare per un risultato così incerto i risparmi destinati alla vedova, poi si è lasciato convincere. È morto l’anno successivo.
Di fronte a quella testimonianza schiacciante, fornita – cosa rara in quel processo – da una persona viva, fisicamente presente e in grado di contraddirlo, Romand ha risposto, in preda a una crescente agitazione: 1) che l’idea della cura miracolosa non era stata sua ma di Florence che ne aveva sentito parlare (dove? da chi?); 2) che non l’aveva presentata come una cura miracolosa, ma come un placebo, il quale, se non faceva bene, certo non avrebbe fatto male (ma perché allora costava tanto?); 3) che non aveva mai sostenuto di partecipare alle ricerche sul farmaco, e non si era mai appellato all’autorevolezza del suo capo dell’OMS, tanto più che una donna informata come Florence non avrebbe creduto nemmeno per un attimo che uno scienziato di alto livello commercializzasse sottobanco prodotti in via di sperimentazione sul cancro (quella donna informata ha creduto cose ancor meno credibili); 4) che si era limitato a fare da intermediario: lui incontrava un ricercatore alla stazione Cornavin e gli consegnava il denaro in cambio delle capsule. Invitato a fornire precisazioni su questo ricercatore, ha risposto che non ne ricordava il nome, doveva averlo annotato nell’agenda di quel periodo, agenda che purtroppo era andata bruciata nell’incendio. Di fronte all’evidenza, si è difeso come l’uomo che aveva preso a prestito un paiolo nella storia cara a Freud: al proprietario che lo rimprovera di averlo restituito bucato, lui prima ribatte che quando l’ha riportato il paiolo non era ancora bucato, poi che lo era già quando glielo aveva prestato e infine di non aver mai preso a prestito un paiolo in vita sua.
Non si può negare, comunque, che la morte del suocero è stata provvidenziale per lui. Tanto per cominciare, nessuno ha più parlato di toccare le somme investite in Svizzera. Inoltre la signora Crolet ha deciso di vendere la casa, troppo grande per una persona sola, e gli ha affidato i proventi della vendita, che ammontavano a 1.300.000 franchi. Nei mesi successivi all’incidente, Romand è stato un grande sostegno per la famiglia, di cui ormai era diventato il capo. Aveva solo trentaquattro anni, ma la sua matura e serena assennatezza l’aveva preparato al momento in cui si smette di essere figli per diventare padri, non soltanto dei propri figli ma anche dei propri genitori che pian piano scivolano verso l’estrema infanzia. Svolgeva quel ruolo per i suoi e ora anche per la suocera, sprofondata nella depressione a causa del lutto. Anche Florence era molto provata. Così, sperando di distrarla, Jean-Claude ha deciso di lasciare il loro piccolo appartamento e prendere in affitto una fattoria ristrutturata a Prévessin, nelle immediate vicinanze di Ferney, più consona al loro status sociale, che lei si sarebbe divertita ad arredare.
Poi c’è stata una brusca accelerazione. Si è innamorato.
Rémi Hourtin era psichiatra, e sua moglie Corinne psicologa dell’età evolutiva. Avevano aperto uno studio insieme a Ginevra, e affittato a Ferney l’appartamento sopra a quello dei Ladmiral, i quali li avevano introdotti nella loro cerchia di amici. All’inizio tutti li avevano trovati divertenti e pieni di vita, anche se un po’ sbruffoni. Carina, forse poco sicura di sé e ad ogni modo ansiosa di piacere, Corinne, seguendo i dettami delle riviste femminili, manifestava un’ingenua ammirazione per tutto quanto era trendy e un sovrano disprezzo per quanto non lo era. Rémi prediligeva i ristoranti di lusso, i sigari e la vodka dopo cena, le battute salaci e una vita sfarzosa. Per quel mattacchione, i Ladmiral provavano e provano tuttora quella indulgente simpatia che la gente morigerata nutre per i buontemponi dichiarati e fedeli al proprio ruolo. Romand probabilmente lo invidiava, e forse in cuor suo lo odiava, per la sua parlantina, il suo successo con le donne e la sua spensierata familiarità con la vita.
Non c’era voluto molto per capire che la coppia faceva acqua, e che entrambi si prendevano libertà poco apprezzate nella regione di Gex. Attorno a loro aleggiava uno scandaloso profumo di libertinaggio. Luc, che era un bell’uomo e subiva il fascino di Corinne, è riuscito a tirarsi indietro in tempo, ma a Corinne quell’avventura abortita, nonché altre che certamente si erano spinte più in là, hanno procurato una fama di mangiauomini e rovinafamiglie. Quando ha lasciato Rémi per stabilirsi a Parigi con le due figlie, il gruppo di amici si è schierato dalla parte del marito abbandonato. Florence Romand era l’unica a sostenere che Rémi doveva aver tradito la moglie almeno quanto lo aveva fatto lei, che se avevano dei torti l’uno nei confronti dell’altro erano affari loro e che, siccome personalmente non aveva subìto alcun torto, lei, Florence, non intendeva giudicare né l’uno né l’altro e restava amica di entrambi. Telefonava spesso a Corinne, e quando lei e Jean-Claude hanno trascorso qualche giorno a Parigi l’hanno invitata a cena fuori. Sono andati a vedere il suo nuovo appartamento vicino alla chiesa di Auteuil e le hanno mostrato le foto della casa in cui avrebbero presto traslocato. La loro gentilezza e il loro affetto hanno commosso Corinne, ma quella ragazzona sportiva e quel musone di suo marito ormai appartenevano al passato. Lei aveva voltato pagina, aveva chiuso con la vita di provincia, le sue chiacchiere, i suoi piccoli compromessi, e stava lottando per vivere a Parigi insieme alle sue figlie: non avevano più granché da dirsi. Per questo si è molto stupita, tre settimane dopo, quando ha ricevuto un enorme mazzo di fiori con un biglietto in cui Jean-Claude le diceva che, trovandosi a Parigi per una conferenza, sarebbe stato felice di cenare con lei quella sera. Era all’Hôtel Royal Monceau. Anche quel particolare ha stupito Corinne, e l’ha favorevolmente colpita: non avrebbe mai immaginato che fosse tipo da alloggiare in alberghi a cinque stelle. Romand ha continuato a sorprenderla, prima portandola a cena in un grande ristorante anziché in una qualunque brasserie, poi parlandole di sé, della sua carriera e delle sue ricerche. Lei sapeva che era molto riservato in proposito – un aspetto del suo carattere famoso quanto le spiritosaggini di Rémi –, ma vedendo in lui solo un serio uomo di scienza un po’ scialbo come tanti nella regione di Gex, non aveva mai provato a vincerne il riserbo. Tutt’a un tratto scopriva un’altra persona: un ricercatore di levatura e di fama internazionali, che dava del tu a Bernard Kouchner e che presto avrebbe assunto la direzione dell’INSERM (ne aveva accennato di sfuggita, precisando che non era sicuro di accettare perché aveva già troppi impegni). Il contrasto fra quella nuova realtà e l’immagine sbiadita che aveva sempre avuto di lui glielo rendeva ancor più simpatico. Si sa che gli uomini fuori del comune sono anche i più modesti, e i meno preoccupati dell’opinione altrui. Era la prima volta che Corinne – abituata soprattutto a goderecci seduttori come il suo ex marito – entrava in contatto con uno di quei personaggi straordinari, scienziati austeri o inventori tormentati, che fino a quel momento aveva ammirato da lontano, come se vivessero soltanto sulle pagine di cultura dei giornali.
Lui è tornato a Parigi un’altra volta, l’ha di nuovo invitata a cena e ha continuato a parlarle delle sue ricerche e dei suoi congressi. Ma la seconda volta, prima di lasciarla, le ha annunciato di doverle fare una confessione imbarazzante: si era innamorato di lei.
Abituata al desiderio degli uomini, Corinne era lusingata dal fatto che lui l’avesse scelta come amica, senza lo scopo recondito di portarsela a letto: voleva dire che s’interessava davvero a lei. Scoprendo di essersi sbagliata, dapprima è rimasta sbalordita – nonostante tutta la sua esperienza, proprio non se l’aspettava –, poi delusa – era anche lui come gli altri –, vagamente disgustata – non provava per lui la minima attrazione fisica – e infine commossa dal tono supplichevole con cui le aveva confessato che la desiderava.
Il giorno dopo Romand le ha telefonato scusandosi per quella dichiarazione intempestiva e, prima che lei tornasse dal lavoro, ha lasciato a casa sua un pacchetto che conteneva un anello d’oro giallo con uno smeraldo circondato da piccoli diamanti (19.200 da Victoroff). Lei l’ha richiamato per dirgli che era pazzo, che non avrebbe mai potuto accettare un regalo simile. Lui ha insistito. Lei se l’è tenuto.
Quella primavera Romand ha preso l’abitudine di andare a Parigi un giorno alla settimana. Arrivando da Ginevra con il volo delle 12.15, scendeva al Royal Monceau o al Concorde La Fayette e la sera invitava Corinne in un ristorante di lusso. Giustificava quei viaggi con un importante esperimento in corso all’Istituto Pasteur. Rifilava questa scusa anche a Florence: mentendo a entrambe, poteva usare la stessa menzogna.
Quelle cene settimanali con Corinne sono diventate lo scopo della sua vita. Era come una sorgente nel deserto, qualcosa di insperato e miracoloso. Non pensava ad altro, solo a cosa le avrebbe detto e a cosa lei gli avrebbe risposto. Finalmente poteva rivolgere a qualcuno le frasi che da tanto tempo gli ronzavano per la testa. Prima, quando partiva da casa al volante della sua auto, sapeva che fino al ritorno lo aspettava una lunga distesa di tempo vuoto e morto durante il quale non avrebbe parlato con nessuno, non sarebbe esistito per nessuno. Ora quel tempo precedeva e seguiva gli incontri con Corinne, lo separava da quei momenti per poi riavvicinarlo. Si sentiva vivo, pieno di aspettative, d’inquietudine e di speranza. Quando arrivava in albergo sapeva che le avrebbe telefonato, dandole appuntamento per la sera, e poi le avrebbe mandato un mazzo di fiori. Quando si radeva davanti allo specchio, nel lussuoso bagno del Royal Monceau, vedeva il volto che lei avrebbe visto.
Aveva incontrato Corinne nel mondo che tutti conoscevano, ma con una mossa audace, invitandola e creando la consuetudine di quelle cene a due, l’aveva introdotta nell’altro mondo, il mondo in cui era sempre stato solo e dove per la prima volta non lo era più, dove per la prima volta qualcuno era testimone della sua esistenza. Ma era l’unico a saperlo. Si sentiva come lo sventurato mostro della Bella e la Bestia, con un’ulteriore finezza: la Bella non immaginava di cenare con lui in un castello di cui nessuno aveva mai varcato la soglia. Credeva di avere di fronte un abitante normale del mondo normale, nel quale sembrava perfettamente integrato, e non poteva certo supporre, pur essendo una psicologa, che a quel mondo si potesse essere così radicalmente e segretamente estranei.
Chissà se è stato lì lì per raccontarle la verità. Lontano da lei, accarezzava la speranza di riuscire finalmente a pronunciare le parole della confessione, quella volta, la volta successiva. Sarebbe andato tutto bene: in un crescendo di confidenze, una misteriosa intesa avrebbe fatto sì che quelle parole potessero essere dette. Passava ore e ore a provare i preliminari. Magari avrebbe potuto raccontare quella strana storia come se fosse successa a un altro: un personaggio complesso e tormentato, un caso clinico, l’eroe di un romanzo. A poco a poco, la sua voce avrebbe assunto un tono più grave (in realtà temeva che suonasse sempre più stridula), avrebbe accarezzato Corinne, il suo turbamento l’avrebbe commossa. L’affabulatore, fino a quel momento padrone di sé, in grado di dominare magistralmente ogni situazione, diventava umano e fragile. Rivelava finalmente il suo tallone d’Achille. Aveva incontrato una donna. L’amava. Non aveva il coraggio di confessarle la verità, avrebbe preferito morire piuttosto che deluderla, avrebbe preferito morire piuttosto che continuare a mentirle. Corinne posava su di lui uno sguardo intenso. Gli stringeva la mano. Le lacrime scorrevano sulle loro guance. Salivano in camera in silenzio, erano nudi, facevano l’amore piangendo, e quel pianto condiviso aveva il sapore della liberazione. Ormai poteva morire, non aveva più importanza, niente aveva più importanza, aveva ottenuto il perdono, la salvezza.
Quei sogni a occhi aperti riempivano la sua solitudine. Di giorno in macchina, di notte accanto a Florence addormentata, Jean-Claude si inventava una Corinne in grado di capirlo, perdonarlo e consolarlo. Ma sapeva bene che nella realtà le cose avrebbero assunto un’altra piega. Per commuoverla, per impressionarla, la sua storia avrebbe dovuto essere ben diversa, molto più simile a quella immaginata dagli inquirenti tre anni dopo. Come falso medico ma vera spia, vero trafficante d’armi, vero terrorista, forse l’avrebbe conquistata. Ma semplicemente come falso medico, invischiato nella paura e nel trantran quotidiano, pronto a truffare poveri pensionati malati di cancro, non aveva alcuna possibilità, e certo non per colpa di Corinne. Lei poteva anche essere superficiale e piena di pregiudizi, ma se non lo fosse stata non sarebbe cambiato nulla. Nessuna donna avrebbe accettato di baciare quella Bestia, che mai e poi mai si sarebbe trasformata in un principe azzurro. Nessuna donna poteva amarlo per quello che lui era veramente. Si chiedeva se esistesse al mondo verità più inconfessabile, se mai un uomo si fosse vergognato tanto di se stesso. Forse certi maniaci sessuali, quelli che in carcere sono disprezzati e maltrattati dagli altri detenuti.
Poiché lui lavorava molto ed era spesso in viaggio, Florence si è occupata da sola del trasloco a Prévessin. Ha sistemato tutto, arredato le stanze nel suo stile accogliente e senza pretese: scaffali di legno bianco, poltrone di midollino e trapunte dai colori allegri; in giardino aveva appeso un’altalena per i bambini. Lui, fino ad allora piuttosto oculato, firmava gli assegni senza nemmeno ascoltare le spiegazioni della moglie. Si è comprato una Range Rover. Florence non immaginava certo che il denaro provenisse dalla casa di sua madre, né che a Parigi lui lo spendesse con munificenza ancora maggiore. Il fatto ha suscitato molto stupore al processo, ma a quanto pare, benché avessero un conto in comune, lei non ha mai dato un’occhiata agli estratti conto bancari.
Anche i Ladmiral si stavano costruendo una villa a pochi chilometri di distanza, in aperta campagna. Vivevano accampati, metà nella casa vecchia, metà in quella nuova. Cécile, incinta per la terza volta, doveva rimanere a letto. Luc si ricorda di una visita improvvisa di Jean-Claude all’inizio dell’estate. Gli operai erano appena andati via, dopo aver finito la colata di cemento per la soletta del terrazzo. I due amici hanno bevuto una birra nel giardino ingombro di calcinacci. Luc era tutto preso dai problemi di chi ha a che fare con un’impresa edile. Ispezionava il cantiere parlando di scadenze, sforamenti di preventivi, della posizione del barbecue. Era evidente che quei discorsi annoiavano Jean-Claude. Allora Luc si è sentito in dovere di informarsi sul suo trasloco, per non parlare solo del proprio, ma neanche quell’argomento sembrava interessarlo, né tantomeno la vacanza di otto giorni che aveva appena trascorso in Grecia con Florence e i bambini. Jean-Claude rispondeva in modo vago, sorrideva con aria assente, evasiva, quasi inseguisse dentro di sé una stupenda fantasticheria. A un tratto Luc si è accorto che appariva dimagrito, ringiovanito, e che indossava un completo di buon taglio, chiaramente costoso, anziché la solita giacca di tweed con un paio di calzoni di velluto a coste. Ha avuto il sentore di quello che Cécile, se fosse stata presente, avrebbe capito a prima vista. Quasi a confermare quel sospetto, Jean-Claude si è lasciato sfuggire che non escludeva di stabilirsi presto a Parigi. Per motivi professionali, ovviamente. Luc gli ha fatto notare che si erano appena stabiliti a Prévessin. Certo, certo, però poteva sempre affittare un appartamentino e tornare a casa per il week-end. Luc ha alzato le spalle: «Spero che tu non stia combinando qualche cazzata».
La settimana successiva, a tarda sera, Jean-Claude gli ha telefonato dall’aeroporto di Ginevra. Parlava con voce affannosa. Stava malissimo, temeva che gli venisse un infarto, ma non voleva andare all’ospedale. Era in grado di guidare, stava arrivando. Mezz’ora dopo, pallido, agitatissimo, con il respiro affannoso e sibilante, ha spinto la porta d’ingresso, lasciata socchiusa perché non svegliasse l’intera famiglia. Luc l’ha visitato e ha diagnosticato una semplice crisi di panico. Si sono seduti l’uno di fronte all’altro, da vecchi amici quali erano, nella luce soffusa del salotto. La notte era calma, al piano di sopra Cécile e i bambini dormivano. «Allora,» ha detto Luc «vuoi dirmi che cosa sta succedendo?».
Se quella notte, come ha affermato in seguito, Jean-Claude è stato sul punto di raccontargli tutta la verità, la prima reazione del suo confidente l’ha indotto a battere in ritirata. Il solo fatto che avesse un’amante lo mandava in bestia. Che si trattasse di Corinne lo indignava. Non l’aveva mai stimata molto, e ciò che era appena venuto a sapere rafforzava la sua diffidenza. Ma che Jean-Claude tradisse Florence! Jean-Claude! Proprio Jean-Claude! Per lui era il crollo di ogni certezza! In modo poco lusinghiero per l’amico, dava per scontata la distribuzione dei ruoli: lui era il bravo ragazzo con poca esperienza e lei la sirena che, per pura cattiveria, per affermare il proprio potere e distruggere una famiglia che invidiava, l’aveva catturato nella sua rete. Ecco cosa succede a chi non se la spassa a vent’anni: si ritrova in piena crisi adolescenziale alle soglie dei quaranta! Jean-Claude ha cercato di protestare, di non mostrarsi mortificato, ma orgoglioso di quell’avventura, di recitare davanti a Luc la parte del seducente dottor Romand la cui immagine fluttuava negli specchi del Royal Monceau. Fatica sprecata. Alla fine Luc è riuscito a fargli promettere che avrebbe rotto con Corinne il più presto possibile e poi avrebbe confessato tutto a Florence, perché il silenzio è il peggior nemico delle coppie, mentre una crisi superata insieme può rivelarsi il loro migliore alleato. Se non gli avesse dato retta o avesse tardato a mettere in pratica questo consiglio, avrebbe provveduto, lui, Luc, a parlarne a Florence, per il bene di entrambi.
Non c’è stato bisogno che Luc dimostrasse la propria devozione all’amico raccontando ogni cosa a sua moglie. A metà agosto Jean-Claude e Corinne hanno passato insieme tre giorni a Roma. Lui aveva fatto di tutto per convincerla a concedergli quel viaggio, che per lei è stato un incubo. Le loro versioni, ugualmente ellittiche, concordano su un punto: l’ultimo giorno lei gli ha detto che non lo amava perché lo trovava troppo triste. «Troppo triste», sono queste le parole che usano entrambi. Lui si è messo a piangere, a supplicare, come aveva fatto quindici anni prima con Florence e, come Florence, Corinne è stata comprensiva. Si sono lasciati promettendosi di restare amici.
Jean-Claude ha raggiunto la famiglia in vacanza a Clairvaux. Una mattina si è alzato presto ed è andato in macchina nel bosco di Saint-Maurice. Suo padre, che ne era stato l’amministratore, gli aveva mostrato un burrone da cui una caduta sarebbe stata fatale. Lui dice che voleva buttarsi giù, anzi che si è buttato, ma è stato trattenuto dai cespugli di rovi, che gli hanno graffiato il viso e strappato i vestiti. Non è riuscito a morire, ma non ricorda come ha fatto a salvarsi. È andato in macchina fino a Lione, ha preso una camera in albergo e ha telefonato a Florence per avvertirla che aveva appena avuto un incidente sull’autostrada fra Ginevra e Losanna. Era stato sbalzato fuori dalla vettura, una Mercedes di rappresentanza dell’OMS, ora completamente distrutta. L’avevano trasportato in elicottero all’ospedale di Losanna, dal quale stava chiamando. Florence, spaventatissima, voleva precipitarsi lì, allora si è spaventato anche lui e ha cominciato a minimizzare. È rientrato la sera stessa a Prévessin, al volante della propria auto. Le escoriazioni provocate dai rovi ricordavano solo molto vagamente un incidente stradale, ma Florence era troppo sconvolta per accorgersene. Jean-Claude si è buttato sul letto in lacrime. Lei l’ha stretto a sé per consolarlo, chiedendogli con dolcezza che cosa gli stesse succedendo, che cosa lo facesse soffrire. Si era accorta che c’era qualcosa che non andava, negli ultimi tempi. Senza smettere di piangere, lui le ha spiegato di aver perso il controllo della macchina perché era sotto shock. Il suo capo, all’OMS, era appena morto di un cancro che lo minava da diversi anni. Durante l’estate le metastasi si erano diffuse e lui sapeva che non c’era più speranza, però vederlo morto... Ha continuato a singhiozzare per tutta la notte. Florence era molto commossa, ma un po’ stupita per un simile attaccamento a un uomo del quale non le aveva mai parlato.
Anche Jean-Claude dev’essersi reso conto che quella scusa non era sufficiente. All’inizio dell’autunno il linfoma addormentato da quindici anni si è risvegliato sotto forma di morbo di Hodgkin. Sapendo che un cancro sarebbe stato accolto meglio di un’amante, Jean-Claude si è confidato con Luc e gli ha detto che non aveva scampo. Vedendolo così, rannicchiato in poltrona, gonfio e cupo, Luc ripensava al Jean-Claude euforico che era andato a trovarlo nel cantiere. Indossava lo stesso completo, ormai sbiadito, però, e con il bavero coperto di forfora. La passione lo aveva devastato, e adesso attaccava le sue cellule. Pur non arrivando al punto di sentirsi in colpa per averlo spinto con tanta fermezza alla rottura, Luc provava una profonda pietà per l’anima del suo amico, che intuiva malata quanto il suo corpo. Ma, ottimista come sempre, voleva credere che quella prova lo avrebbe riavvicinato a Florence, creando una comunione più profonda tra loro due: «Ovviamente ne parlate molto...». Con sua grande sorpresa, Jean-Claude gli ha risposto di no, che non ne parlavano molto. Lui aveva informato sua moglie drammatizzando il meno possibile, e insieme avevano stabilito di far finta di niente per evitare che l’atmosfera in casa si incupisse. Lei gli aveva proposto di accompagnarlo a Parigi, dov’era seguito dal professor Schwartzenberg (anche questo ha sorpreso Luc: non avrebbe mai immaginato che un medico di tale fama curasse ancora i pazienti, ammesso che ne avesse mai curati), ma lui aveva rifiutato. Il cancro era suo, intendeva combatterlo da solo, senza dar fastidio a nessuno. Se ne sarebbe occupato lui, e lei rispettava la sua decisione.
La malattia e la cura lo sfinivano. Non andava più a lavorare tutti i giorni. Florence svegliava i bambini pregandoli di non far rumore perché papà era stanco. Dopo averli portati a scuola, andava a prendere il caffè dalla mamma di qualche loro compagno, alle lezioni di danza o di yoga, a fare spese. Solo in casa, Jean-Claude passava la giornata nel letto umido, con il piumone sollevato fin sopra la testa. Aveva sempre sudato molto ma ora bisognava cambiare le lenzuola tutti i giorni. Stava lì a rigirarsi nel suo cattivo odore, sonnecchiava o leggeva senza capire nulla, inebetito. Come quando si era rifugiato a Clairvaux dopo aver abbandonato il liceo Du Parc: lo stesso grigio torpore, scosso da brividi.
Benché si fossero lasciati giurandosi eterna amicizia, dopo il catastrofico viaggio a Roma lui e Corinne non si erano più parlati. Appena Florence usciva, lui si metteva a gironzolare intorno al telefono, faceva il numero e quando lei sollevava il ricevitore riattaccava. Aveva una paura terribile che lei lo trattasse da scocciatore. Il giorno in cui ha osato parlarle si è stupito scoprendo che era felice di sentirlo. Corinne stava attraversando un periodo molto complicato: difficoltà professionali, avventure senza futuro. La sua solitudine, le sue figlie, la sua ansiosa disponibilità spaventavano gli uomini, e la loro rozzezza l’aveva ferita al punto da farle accogliere di buon grado quel dottor Romand, così triste e goffo, ma che la trattava come una regina. Gli ha raccontato le sue delusioni e i suoi risentimenti. Lui l’ha ascoltata, confortata, le ha detto che in fondo, al di là delle apparenze, loro due si assomigliavano molto: lei era un po’ la sua sorellina più piccola. In settembre Jean-Claude è tornato a Parigi e tutto è ricominciato: le cene, le uscite, i regali e, dopo Capodanno, una luna di miele di cinque giorni a Leningrado.
Quel viaggio, che all’inizio dell’inchiesta ha scatenato la fantasia di molti, era organizzato dal «Quotidien du médecin», a cui Jean-Claude era abbonato. Avrebbe potuto scegliere decine di formule per trascorrere qualche giorno in Russia, ma non ha trovato di meglio che aggregarsi a un gruppo di medici, molti dei quali si conoscevano fra loro, mentre lui non conosceva nessuno. Cosa che meravigliava Corinne, non meno della cura con cui Jean-Claude evitava i compagni di viaggio, troncava le conversazioni e si isolava con lei, che invece avrebbe socializzato volentieri. Se li trovava così infrequentabili o se piuttosto, come supponeva, aveva paura che qualche pettegolezzo arrivasse a sua moglie, perché partire con loro? Decisamente Jean-Claude la esasperava. Tre giorni dopo gli ha ripetuto lo stesso discorso di Roma: avevano commesso un errore, era meglio rimanere amici, fratellone e sorellina. Lui si è rimesso a piangere e in aereo, al ritorno, le ha detto che aveva il cancro. Presto sarebbe morto.
Che puoi rispondere a una cosa del genere? Corinne era seccatissima. Jean-Claude l’ha supplicata di telefonargli ogni tanto, se provava ancora un po’ d’affetto per lui, ma non a casa, alla sua casella vocale. Il loro codice segreto sarebbe stato: 222 per «ti penso, ma niente di urgente», 221 per «richiamami» e 111 per «ti voglio bene». (Usava un codice dello stesso tipo con Florence, che gli lasciava messaggi cifrati, servendosi dei numeri, da uno a nove, a seconda dell’urgenza della chiamata). Impaziente di chiudere con quella storia, Corinne si è scritta tutto, promettendo di farsi viva. Dalla Russia Romand ha portato due chapka per i figli e una matrioska per la figlioccia.
Dopo questa seconda occasione persa, Jean-Claude è ricaduto nel solito trantran e nella disperazione. Per giustificare la sua presenza in casa Florence ha detto della malattia alla maggior parte dei loro amici, chiedendo però la massima riservatezza, così ognuno credeva di essere il solo a saperlo. Lo circondavano di attenzioni discrete e di allegria forzata.
Durante una cena dai Ladmiral, Rémi, che era andato a trovare le figlie a Parigi, ha cominciato a parlare della sua ex moglie. Instabile come sempre, aveva esitato fra due uomini con cui rifarsi una vita: uno che era carino con lei, un cardiologo o qualcosa del genere, un tipo davvero in gamba nel suo campo ma piuttosto pesante, e un altro, decisamente più sveglio, un dentista parigino che non si lasciava menare per il naso. Pur senza conoscerlo, Rémi le avrebbe consigliato il primo, convinto com’era che Corinne avesse bisogno di equilibrio e protezione, ma lei era un po’ masochista in amore, e aveva scelto il secondo. Luc si ricorda che, mentre ascoltava questi discorsi, Jean-Claude aveva una faccia che faceva veramente pena.
Per mantenere la promessa, ogni tanto Corinne lo chiamava, e per dimostrargli quanto si fidava di lui gli parlava della sua appassionata relazione con il dentista che non si lasciava menare per il naso. La faceva soffrire, ma era più forte di lei, le era entrato nel sangue. Jean-Claude assentiva con voce atona. Tossiva, le spiegava che il linfoma gli stava indebolendo le difese immunitarie.
Un giorno Corinne gli ha chiesto un consiglio. Lo studio di Ginevra di cui lei e Rémi erano coproprietari era stato venduto. La sua parte, che aveva appena incassato, ammontava a 900.000 franchi. Pensava di investirli in un altro studio, probabilmente associandosi con qualcuno, ma voleva rifletterci con calma e, anziché lasciare il denaro fermo sul conto corrente, preferiva farlo fruttare. Le poche SICAV che possedeva non rendevano granché. Per caso il fratellone aveva un’idea migliore? Certo che ce l’aveva: UOB, quai des Bergues, a Ginevra, 18% all’anno. Ha preso subito l’aereo per Parigi, l’ha accompagnata in banca, dove Corinne ha ritirato i 900.000 franchi in contanti, poi, come nei film, ha ripreso l’aereo con una valigetta piena zeppa di banconote. Nessuna ricevuta, nessuna traccia. Ricorda di aver osservato: «Se mi capitasse qualcosa, tutti i tuoi soldi andrebbero perduti». Al che (stando alla versione di Romand) lei avrebbe risposto teneramente: «Se ti capitasse qualcosa, non penserei certo ai soldi».
Era la prima volta che raggirava non un anziano parente preoccupato soltanto di far fruttare il denaro per gli eredi, ma una giovane donna determinata che di quel denaro aveva bisogno e contava di recuperarlo in tempi brevi. Corinne aveva insistito su questo punto: voleva essere libera di ritirare i soldi in qualsiasi momento, e lui gliel’aveva garantito. Il fatto è che Romand era con le spalle al muro. La somma che gli aveva affidato sua suocera si era esaurita. Negli ultimi due anni le sue spese avevano avuto un’impennata. A Prévessin si era allineato al tenore di vita del suo ambiente, pagava 8000 franchi di affitto, ne spendeva 200.000 per una Range Rover, cambiata poi con una BMW da 250.000; a Parigi si era rovinato in alberghi di lusso, cene raffinate e regali per Corinne. Per andare avanti aveva bisogno di quei soldi, tanto che, non appena tornato a casa, si è precipitato a versarli nei suoi tre conti correnti: alla BNP di Ferney-Voltaire, a quella di Lons-le-Saunier e a quella di Ginevra. Il direttore della filiale di Ferney era stupito dall’irregolarità di quelle entrate, ma non osava fargli domande sulla fonte dei suoi redditi. Gli aveva telefonato varie volte per proporgli investimenti e formule di gestione più razionali. Ma lui scantonava. La cosa che lo spaventava di più era l’interdizione bancaria, e anche stavolta ci era andato molto vicino. Ma sapeva di aver ottenuto soltanto una proroga, e che impadronendosi del denaro di Corinne la catastrofe diventava davvero inevitabile.
L’ultimo anno è trascorso sotto il peso di quella minaccia, che fino allora incombeva sulla sua vita in modo diffuso. Ogni volta che incrociava qualcuno, che qualcuno gli rivolgeva la parola o a casa sua il telefono squillava, l’angoscia gli stringeva lo stomaco: l’ora era scoccata, il suo imbroglio stava per essere scoperto. Il pericolo poteva arrivare da qualsiasi parte, il più banale avvenimento della vita quotidiana poteva dare il via a un finale catastrofico che nulla sarebbe stato in grado di fermare. Adesso però una particolare variante del finale sembrava più verosimile delle altre, e per quanto si ripetesse quel che viene ripetuto ai malati gravi, ovvero che potrebbero benissimo morire per un’influenza o per la puntura di una vespa, l’idea di quella versione continuava a ossessionarlo. Più il colpo tardava ad arrivare, più diventava disperatamente inevitabile. Se Corinne gli avesse chiesto indietro i soldi una settimana dopo averglieli affidati, avrebbe potuto ancora restituirglieli e cercare un altro modo – ma quale? – per vivere senza un reddito fingendo di averlo. Ma via via che le settimane e i mesi passavano, la somma che in teoria doveva essere investita diminuiva. Preso nel vortice, Romand non cercava nemmeno più di far durare il capitale, anzi spendeva in modo frenetico. Quando Corinne gli avesse chiesto i soldi, come ne sarebbe uscito? Solo qualche anno prima avrebbe potuto cercare di mettere insieme la somma ricorrendo ai suoi benefattori abituali: i genitori, lo zio Claude e la famiglia di Florence. Ma, per ovvi motivi, conosceva la situazione economica di ciascuno di loro. Aveva già preso tutto, speso tutto. Non aveva più nessuno a cui rivolgersi.
E allora? Raccontare a Corinne che era stato aggredito e che gli avevano rubato la valigetta con le banconote? Confessarle la verità? Una parte della verità: che si trovava in una situazione finanziaria intricatissima in cui aveva trascinato anche lei? Tutta la verità: diciassette anni di menzogne? Oppure prelevare ciò che restava e salire su un aereo diretto all’altro capo del mondo? Non tornare mai più, scomparire? Lo scandalo sarebbe scoppiato in poche ore, ma lui non sarebbe stato costretto a leggere lo sgomento negli occhi dei suoi cari. Poteva darsi per morto, simulando un suicidio. Non avrebbero mai rinvenuto il cadavere, ma avrebbero trovato l’auto con un biglietto d’addio, in montagna, vicino a un dirupo... Una volta dichiarato morto, sarebbe stato davvero al sicuro. Ma anche vivo. E da solo, pur avendo i soldi, di quella vita non avrebbe saputo cosa farsene. Uscire dalla pelle del dottor Romand significava ritrovarsi senza pelle. Più che nudo: scorticato.
Sapeva fin dall’inizio che la conclusione logica della sua storia era il suicidio. Aveva pensato spesso di uccidersi, senza mai trovarne il coraggio, e in un certo senso la certezza che prima o poi l’avrebbe fatto rendeva il coraggio superfluo. Aveva passato la vita ad aspettare il giorno in cui quel gesto sarebbe diventato improrogabile. C’era andato vicino cento volte e cento volte un miracolo, o il caso, l’avevano salvato. Senza illudersi sull’esito finale, era curioso di sapere fino a quando il destino gli avrebbe concesso un rinvio.
Lui che aveva tanto supplicato Corinne di telefonargli, e richiamava dieci volte la casella vocale per risentire la sua voce se per caso gli aveva lasciato un messaggio, adesso preferiva tenerla spenta. Non si faceva più vivo. Corinne, dal canto suo, temendo che rispondesse Florence, non osava telefonare a Prévessin. La sua migliore amica continuava a ripeterle che era stata una pazza ad affidare tutti i suoi soldi, senza garanzia, senza procura, senza niente di niente, a un malato di cancro in fase terminale. Se fosse morto, chi l’avrebbe avvertita? E chi le diceva che non fosse già morto e sepolto? Il conto in Svizzera era a nome suo: lei poteva smuovere mari e monti, la vedova non le avrebbe mai restituito un centesimo. Corinne era sempre più preoccupata, e così il marito della sua migliore amica ha lasciato, a proprio nome, messaggi insistenti nella segreteria di Prévessin. Nessuna risposta. Era già l’inizio dell’estate. Corinne si è ricordata che ogni anno, in luglio, Florence sostituiva la farmacista di un paesino del Giura, e che la famiglia alloggiava dai genitori di Jean-Claude. Li hanno cercati in tutti i modi, e alla fine sono riusciti a incastrarlo. Non aveva mai richiamato perché era stato a lungo in ospedale: aveva fatto la radioterapia, era molto provato. Lei lo ha ascoltato, lo ha compatito, poi è venuta al punto: voleva recuperare il suo denaro, almeno in parte. Non era tanto semplice, ha obiettato lui, bisognava rispettare certe scadenze... «Ma se mi avevi assicurato che potevo ritirarlo quando e come volevo...». In teoria sì, ma solo in teoria. Se voleva guadagnarci anziché rimetterci, l’intero importo doveva restare bloccato fino a settembre; e di fatto lo era comunque, come lui del resto, che era malato, inchiodato a letto, nell’impossibilità fisica di recarsi a Ginevra. Nell’immediato, tutto ciò che poteva fare per venirle incontro era vendere l’automobile. Corinne si è innervosita: gli aveva chiesto di recuperare i suoi soldi depositati in banca, non di vendersi la macchina facendole pesare la cosa, per giunta. In un modo o nell’altro, è riuscito a calmarla.
Quell’anno gli estratti conto della sua Premier Card registrano acquisti regolari di fotoromanzi e cassette pornografiche nei sexy-shop, e circa due volte al mese il pagamento di massaggi al Marilyn Center o al club Only you di Lione. Le impiegate dei due istituti lo ricordano come un cliente calmo, cortese e poco loquace. Lui dice che i massaggi gli davano la sensazione di esistere, di avere un corpo.
In autunno Florence ha smesso di prendere la pillola. Il fatto si presta a una duplice interpretazione, ma secondo la testimonianza della sua ginecologa stava pensando di avere un terzo figlio.
In qualità di vicepresidente del comitato genitori della Saint-Vincent, Florence si occupava del catechismo, organizzava la festa di fine anno e cercava volontari disposti ad accompagnare i bambini in piscina o a sciare. Luc, invece, faceva parte del consiglio scolastico; per distrarre Jean-Claude, ha cercato di coinvolgerlo, e questi, spinto dalla moglie, ha accettato. Per lui non era una semplice distrazione, ma una forma d’inserimento nella vita reale: una volta al mese andava a un appuntamento che non era fittizio, incontrava altre persone con cui parlava e, pur continuando a recitare la parte dell’uomo occupato, avrebbe sollecitato volentieri qualche riunione supplementare.
A un certo punto è successo che il direttore della scuola, sposato e padre di quattro figli, ha allacciato una relazione con una maestra, pure lei sposata. La faccenda è venuta fuori e i genitori l’hanno presa male. Alcuni hanno cominciato a lamentarsi: non valeva la pena di mandare i figli in una scuola cattolica se poi l’esempio che ricevevano era quello di una coppia di libertini. Così il consiglio ha deciso di intervenire. All’inizio delle vacanze estive c’è stata una riunione a casa di Luc, in cui si è deciso di chiedere le dimissioni del colpevole: la direzione diocesana l’avrebbe sostituito con una maestra al di sopra di ogni sospetto. Per evitare lo scandalo, tutto doveva avvenire all’inizio del nuovo anno scolastico, come peraltro è accaduto. Ma le testimonianze su quanto è stato detto nel corso della riunione non coincidono affatto. Luc e gli altri assicurano che la decisione è stata presa all’unanimità, ossia che Jean-Claude era d’accordo con loro. Lui invece sostiene che non era per niente d’accordo, che i toni si sono accesi e che si sono lasciati male. Insiste sul fatto che non era da lui comportarsi in quel modo: sarebbe stato molto più semplice e conforme al suo carattere allinearsi all’opinione degli amici.
Non c’è ragione di pensare che gli altri abbiano mentito, quindi suppongo che Romand abbia manifestato il proprio dissenso, ma con così poca convinzione che in seguito gli amici non solo non se ne sono ricordati, ma sul momento non hanno nemmeno registrato la sua protesta. Erano così abituati a vedergli approvare qualsiasi cosa che non l’hanno letteralmente sentito. Lui, d’altronde, era così poco abituato a farsi sentire che quello che ricorda non è il volume reale del proprio intervento – un balbettio, l’accenno sommesso di una riserva – ma il fragore indignato che gli ribolliva dentro, al quale ha tentato invano di dare voce. Ha sentito se stesso affermare con tutta l’enfasi necessaria quello che avrebbe voluto dire, e non quello che gli altri hanno sentito. Può anche darsi che non abbia detto assolutamente nulla, che abbia semplicemente pensato, sognato di dirlo, poi rimpianto di non averlo detto, e per finire si sia convinto di averlo detto sul serio. Una volta a casa, ha raccontato tutto a sua moglie: la congiura contro il direttore e la cavalleresca battaglia che aveva condotto in sua difesa. Florence era virtuosa ma non bigotta, e non le piaceva intromettersi nella vita privata degli altri. L’ha commossa il fatto che suo marito, conciliante per natura, affaticato dalla malattia, alle prese con problemi infinitamente più importanti, avesse preferito rinunciare alla tranquillità pur di non rendersi complice di un’ingiustizia. E quando alla riapertura delle scuole si è trovata di fronte al fatto compiuto, col direttore decaduto al rango di semplice maestro e sostituito da un’insegnante il cui rigido puritanesimo l’aveva sempre esasperata, Florence, dinamica come al solito, ha organizzato una crociata in favore del perseguitato. Ha portato avanti una campagna per sensibilizzare le madri degli allievi, ottenendo ben presto l’appoggio di una parte del comitato genitori. L’iniziativa del consiglio è stata contestata. I due organi, che fino a quel momento avevano funzionato in perfetto accordo, si sono trasformati in due opposti schieramenti, capeggiati rispettivamente da Florence Romand e Luc Ladmiral, che pure erano amici da sempre. Questo conflitto ha avvelenato il primo trimestre.
Non contento di sostenere la moglie, Jean-Claude rincarava la dose. All’uscita della scuola arringava i presenti: lui, sempre così tranquillo, gridava che uno come lui, dopo essersi battuto per il rispetto dei diritti dell’uomo in Marocco, non era certo disposto a vederli calpestare a Ferney-Voltaire. Stanchi di passare per bacchettoni, i sostenitori del consiglio e della nuova direttrice obiettavano che il problema non era tanto l’immoralità dell’ex direttore quanto la mancanza d’incisività della sua gestione: semplicemente, non era all’altezza dell’incarico. Al che Jean-Claude rispondeva che non sempre si può essere all’altezza, non sempre si fa ciò che si vuole, ed è meglio capire e aiutare piuttosto che giudicare e condannare. Difendeva, contro i grandi princìpi, l’uomo nudo e soggetto all’errore, quello che pur volendo fare il bene non può impedirsi di fare il male, come dice san Paolo. Sapeva che stava perorando la propria causa? Di sicuro sapeva che stava rischiando grosso.
Per la prima volta, nella loro piccola comunità, la gente s’interessava a lui. Correva voce che fosse stato lui a scatenare quel putiferio, alcuni dicevano che era una banderuola, altri che era amico intimo del direttore dalla condotta immorale. L’impressione generale, comunque, era che in quella faccenda si fosse comportato in modo ambiguo. Luc, benché offeso, cercava di placare gli animi: Jean-Claude aveva seri problemi di salute, era per questo che perdeva colpi. Nonostante ciò, gli altri congiurati reclamavano un confronto, cosa che in sé per lui rappresentava un pericolo mortale. Era quello che temeva da diciotto anni. Giorno dopo giorno, un miracolo glielo aveva risparmiato, ma ora gli era impossibile evitarlo: non per una fatalità alla quale non poteva opporsi, ma per colpa sua, perché per la prima volta nella sua vita aveva detto quello che pensava. A farlo piombare nella più cupa angoscia è arrivata una notizia riportata da un vicino: Serge Bidon, un altro membro del consiglio scolastico, aveva minacciato di spaccargli la faccia.
La testimonianza più impressionante del processo è stata quella di Claude Romand, suo zio. È entrato, sanguigno, tarchiato, con le spalle possenti strette in un completo che sembrava sul punto di scoppiare; poi, alla sbarra, anziché guardare la Corte come tutti gli altri, si è girato verso il nipote. Con i pugni sui fianchi, sicuro che nessuno avrebbe osato dirgli nulla, l’ha squadrato, con tutta calma, forse per trenta secondi, un tempo infinito. Romand era annichilito e tutti in sala hanno pensato la stessa cosa, che non era solo per il rimorso e la vergogna: nonostante la distanza, il vetro, gli agenti, aveva paura di essere picchiato.
Ciò che gli si leggeva sul volto in quel momento era il suo terrore della violenza fisica. Aveva scelto di vivere circondato da persone in cui l’istinto dello scontro fisico si era atrofizzato, ma ogni volta che tornava nel suo paese d’origine doveva sentire che quell’istinto era pronto a riaffiorare. Da adolescente, negli occhietti azzurro pallido dello zio leggeva il disprezzo beffardo di un uomo che sta bene nel suo corpo e nel mondo, di fronte a uno sbarbatello sempre immerso nei libri. In seguito, dissimulata dietro l’ammirazione dei parenti per il brillante rampollo, Jean-Claude aveva scorto una carica di violenza destinata a scoppiare alla prima occasione. Lo zio Claude lo prendeva in giro, gli dava pacche sulle spalle, come gli altri gli affidava i suoi risparmi da investire, ma era l’unico a chiederne notizie. Se un giorno, fra loro, qualcuno doveva avere un sospetto, quello era lui. Sarebbe bastato che quel sospetto lo sfiorasse, e avrebbe capito in un attimo, mettendo il nipote con le spalle al muro. Allora l’avrebbe picchiato. Prima di denunciarlo, prima di tutto, l’avrebbe riempito di botte con i suoi pugni enormi. Gli avrebbe fatto male.
Stando a chi lo conosce, Serge Bidon è l’uomo più mite del mondo. La minaccia, ammesso che sia stata proferita, non era certo da prendere alla lettera. Eppure Romand moriva di paura. Non osava più rientrare a casa, né andare nei posti che frequentava di solito. Tutto il suo corpo si ribellava. Da solo, in macchina, biascicava fra i singhiozzi: «Vogliono spaccarmi la faccia... Vogliono spaccarmi la faccia...».
L’ultima domenica dell’Avvento, all’uscita dalla messa, Luc ha lasciato per un attimo Cécile e i bambini per parlare con Florence, che era andata in chiesa con i figli, ma senza Jean-Claude. Prima della comunione si erano scambiati il segno della pace, avevano letto il passo del Vangelo in cui Gesù dice che è inutile pregare se non si è in pace con il prossimo. Così le si è avvicinato per riconciliarsi con lei, per mettere fine, prima di Natale, a quel ridicolo screzio fra loro. «Ok, non sei d’accordo con noi, vuoi che resti quel pagliaccio. Liberissima: gli amici non devono mica essere d’accordo su tutto. Ma mica ci terremo il muso in eterno per una cosa del genere!». Florence gli ha sorriso e si sono abbracciati, felici di riappacificarsi. Comunque, non ha potuto trattenersi dall’aggiungere Luc, se Jean-Claude non era d’accordo doveva dirlo subito, ne avremmo parlato... Florence si è accigliata: ma è quello che ha fatto, no? No, ha risposto Luc, non l’ha fatto, ed è proprio questo che ci è rimasto sul gozzo. Non ce l’abbiamo con lui perché ha preso le difese dell’ex direttore, ovviamente era libero di farlo, ma perché ha votato insieme agli altri a favore della sua rimozione e poi, senza consultare nessuno, è partito lancia in resta per combattere una scelta che lui stesso aveva approvato, mettendo in ridicolo l’intero consiglio. A mano a mano che parlava, rispolverando per puro dovere di cronaca rimostranze che aveva sinceramente deciso di dimenticare, Luc ha visto sbiancarsi il volto di Florence. «Puoi giurarmi che Jean-Claude ha votato a favore delle dimissioni?». Certo che poteva giurarlo, e con lui tutti gli altri, ma ormai non aveva più nessuna importanza: l’ascia di guerra era sotterrata, avrebbero festeggiato il Natale tutti insieme. Più ripeteva che l’incidente era chiuso, più si rendeva conto che per Florence non lo era affatto, anzi, le sue parole, che a lui sembravano insignificanti, aprivano una voragine dentro di lei. «Mi ha sempre detto di aver votato contro...». Luc non osava nemmeno più ribadire che la cosa non aveva importanza. Intuiva invece che era importante, che qualcosa di estremamente importante stava accadendo in quel momento, anche se non capiva che cosa. Aveva la sensazione di veder implodere Florence, lì, di fronte a lui, davanti alla porta della chiesa, e di non poter fare nulla. Lei toccava nervosamente i figli, tratteneva con la mano Caroline che cominciava a spazientirsi, sistemava il cappuccio di Antoine; le sue dita avevano iniziato a muoversi come vespe impazzite e le labbra, ormai esangui, ripetevano piano: «Allora mi ha mentito... mi ha mentito...».
Il giorno dopo, all’uscita della scuola, Florence ha scambiato due parole con una signora, il cui marito lavorava anche lui all’OMS. La signora contava di portare sua figlia alla festa di Natale per i dipendenti, e voleva sapere se Antoine e Caroline ci sarebbero andati. A quel punto, Florence è impallidita e ha mormorato: «Questa volta dovrò arrabbiarmi con mio marito».
Quando al processo si è cercato di interpretare quella testimonianza, Romand ha detto che Florence sapeva da anni che c’era una festa di Natale all’OMS. Ne avevano discusso varie volte: lui era contrario a portarci i bambini perché non gli piaceva approfittare di quel genere di vantaggi, mentre a lei dispiaceva che i suoi princìpi troppo rigidi li privassero di quella gioia. La domanda della signora poteva aver risvegliato l’irritazione di Florence, ma certo non avere su di lei l’effetto di una rivelazione. Del resto, ha sottolineato Romand, se avesse avuto il minimo sospetto, le sarebbe bastato alzare il telefono e chiamare l’OMS.
«E chi ci dice che non l’abbia fatto?» ha chiesto la presidente.
Poco prima delle vacanze di Natale il presidente del consiglio scolastico ha tentato di mettersi in contatto con Romand, sempre per la storia del direttore. Non lo conosceva abbastanza per sapere che nessuno poteva chiamarlo in ufficio e, visto che lavorava anche lui a Ginevra per un organismo internazionale, ha chiesto alla sua segretaria di cercarlo sull’elenco telefonico dell’OMS. Poi nella banca dati del fondo pensione degli organismi internazionali. Stupito di non trovarlo da nessuna parte, ha concluso che un motivo doveva esserci; e siccome la faccenda non era molto importante, non ci ha più pensato fino al giorno in cui, dopo le vacanze, ha incontrato Florence nella strada principale di Ferney. Allora le ha raccontato l’accaduto. Nella sua voce non c’era ombra di sospetto, era solo curioso di scoprire il perché di quella stranezza; e Florence ha reagito sullo stesso tono. Sì, era strano, doveva esserci per forza una spiegazione, ne avrebbe parlato con Jean-Claude. Non si sono rivisti. Una settimana più tardi lei era morta e nessuno saprà mai se ne abbia parlato o meno con il marito. Lui sostiene di no.
Pur non sapendo da dove sarebbe arrivato il primo colpo, Romand sapeva che la tempesta si avvicinava. Presto nei suoi conti in banca non ci sarebbe stato più un soldo, e lui non aveva la minima possibilità di rimpinguarli. La gente parlava di lui, ce l’aveva con lui. Per le strade di Ferney si aggirava un individuo che minacciava di spaccargli la faccia. Mani sfogliavano elenchi. Lo sguardo di Florence era cambiato. Lui aveva paura. Ha telefonato a Corinne e l’ha trovata depressa: aveva appena rotto con il dentista, quello che non si lasciava menare per il naso. Qualche mese prima quella notizia gli avrebbe ridato speranza. Adesso era irrilevante. Ma lui si comportava come il re di una partita a scacchi minacciato su tutti i fronti, al quale resta solo una casella su cui andare: la partita è persa, non c’è dubbio, tanto varrebbe abbandonare, eppure si sposta ugualmente su quella casella, se non altro per vedere come l’avversario riuscirà a metterlo in trappola. Il giorno stesso ha preso l’aereo per Parigi e ha portato Corinne a cena da Michel Rostang; le ha regalato una cornice di radica e una cartella di pelle in cui riporre le lettere, comprati da Lancel per 2120 franchi. Per due ore, nel cerchio di luce soffusa che isolava il loro tavolo, si è sentito al sicuro. Ha recitato la parte del dottor Romand pensando che era l’ultima volta, che comunque presto sarebbe morto e che niente aveva più importanza. Alla fine della cena Corinne gli ha detto che stavolta intendeva davvero recuperare i soldi, ormai aveva deciso. Invece di cercare una scappatoia, lui ha tirato fuori l’agenda per fissare il prossimo appuntamento, in cui le avrebbe portato l’intera somma. Girando le pagine gli è venuta un’idea: all’inizio dell’anno doveva cenare con il suo amico Bernard Kouchner, erano già d’accordo; a Corinne avrebbe fatto piacere unirsi a loro? Certo che a Corinne avrebbe fatto piacere. Preferibilmente un sabato, il 9 o il 16, per Kouchner era indifferente. Allora il 9, ha deciso Corinne, è più vicino. Lui avrebbe preferito il 16, perché era più lontano, ma non ha detto niente. Il dado era tratto. Prima del 9 gennaio sarebbe morto. Durante il viaggio di ritorno ha continuato a studiarsi l’agenda, come un uomo d’affari oberato d’impegni. Natale non era certo la data giusta, sarebbe stato troppo crudele per i bambini. Caroline doveva interpretare Maria e Antoine uno dei pastorelli nel presepe vivente della chiesa. Allora subito dopo Capodanno?
È andato a prendere i genitori a Clairvaux per festeggiare il Natale tutti insieme. Nel bagagliaio, sotto l’albero, aveva sistemato uno scatolone pieno di carte conservate nella sua cameretta di una volta: vecchie lettere, taccuini, un quaderno rilegato di velluto nel quale, assicura lui, all’epoca del fidanzamento Florence gli aveva dedicato delle poesie d’amore. Le ha bruciate in fondo al giardino, insieme ad altri scatoloni che si trovavano in soffitta e contenevano i suoi taccuini. Romand afferma di aver scritto, nel corso degli anni, in decine di taccuini testi più o meno autobiografici, a cui dava una forma romanzesca per fuorviare Florence qualora le fossero capitati tra le mani, ma abbastanza aderenti alla realtà per avere il valore di una confessione. Tra le mani di Florence non sono mai capitati, o forse lei non ha mai avuto la curiosità di leggerli, o quantomeno non gliene ha mai parlato – oppure, ultima ipotesi, quei taccuini non esistevano.
Romand afferma anche che prima di uccidersi voleva lasciare un messaggio a Florence, e che nei giorni tra Natale e Capodanno ci ha provato in continuazione. Lettere, ma anche cassette che incideva da solo in macchina su un piccolo registratore: «Perdonami, non sono degno di vivere, ti ho mentito, però il mio amore per te e per i bambini non era una menzogna...». Ma non ci è riuscito: «Ogni volta che cominciavo mi mettevo al posto suo, mentre leggeva o ascoltava le mie parole e...».
La voce gli si spezza, china il capo.
L’ultima settimana si sentiva stanco, pesante. Si addormentava sul divano o in auto a qualsiasi ora. Gli ronzavano le orecchie come se fosse stato in fondo al mare. Gli faceva male il cervello: avrebbe voluto poterlo estrarre dal cranio e dargli una lavata. Al rientro da Strasburgo, dove avevano festeggiato Capodanno a casa di amici medici, Florence ha fatto un bucato, e Jean-Claude è rimasto in bagno, vicino alla lavatrice, a guardare dietro l’oblò la biancheria che si torceva mollemente nell’acqua caldissima. C’erano le sue camicie e i suoi indumenti intimi, impregnati del suo sgradevole sudore, c’erano quelli di Florence e dei bambini, le magliette, i pigiami con gli animaletti dei cartoni animati e i calzini di Antoine e Caroline, così difficili da distinguere quando bisognava riporli. I vestiti di tutti e quattro mescolati, e i loro fiati mescolati, tranquilli, al riparo di un tetto sicuro che li proteggeva dalla notte invernale... Avrebbe dovuto essere così bello tornare tutti insieme il primo dell’anno, una famiglia unita nella Renault Espace che ronzava sulla strada innevata; arrivare tardi, portare in camera i bambini addormentati, aiutarli a svestirsi e oplà!, a letto!; cercare nelle borse il coniglietto di peluche senza il quale Antoine non si addormentava e provare un enorme sollievo scoprendo di non averlo dimenticato a Strasburgo come avevano temuto; sentire Florence che ci scherzava sopra mentre si struccava: l’hai scampata bella, altrimenti ti toccava andare di corsa a riprenderlo; restare alzato per ultimo, in bagno, tra la camera dove dormivano i bambini e quella in cui Florence lo aspettava sotto il piumone. Con la testa girata per non avere la luce negli occhi, lei gli avrebbe tenuto la mano mentre lui leggeva. Sì, avrebbe dovuto essere calda e piacevole quella vita familiare. Loro credevano che fosse calda e piacevole. Ma lui sapeva che era marcia dentro e che niente, né un attimo, né un gesto, neppure il loro sonno, poteva sfuggire a quel marciume. Gli era cresciuto dentro e a poco a poco aveva divorato tutto dall’interno, senza che da fuori si vedesse niente, e ormai non restava nient’altro, solo quel marciume che presto avrebbe fatto scoppiare il guscio uscendo alla luce del sole. Si sarebbero ritrovati nudi, indifesi, esposti al freddo e all’orrore, e quella sarebbe stata l’unica realtà. Quella era già l’unica realtà, anche se loro non lo sapevano. Lui apriva appena la porta, si avvicinava in punta di piedi ai bambini. Dormivano. Lui li stava a guardare. Non poteva fargli una cosa simile. Non dovevano sapere che era lui, il loro papà, che gli aveva fatto una cosa simile.
Hanno trascorso la domenica al Grand Tétras, lo chalet del Col de la Faucille di cui erano clienti abituali. Florence, che sciava benissimo, ha fatto lezione ai bambini. Sotto la sua guida, andavano praticamente dappertutto. Jean-Claude è rimasto a leggere nella sala ristorante dove loro l’hanno raggiunto per pranzo. Antoine, tutto fiero, ha raccontato che era stato su una pista rossa e che a un certo punto, in una curva difficile, aveva rischiato di cadere ma non era caduto. I bambini avevano il permesso di ordinare enormi piatti di patatine fritte con il ketchup, e quello era uno dei motivi per cui adoravano il Grand Tétras. In macchina all’andata ripetevano come una litania: «Possiamo mangiare le patatine fritte? Possiamo mangiare le patatine fritte?». Florence rispondeva di sì e loro continuavano più di prima: «Possiamo fare il bis? Possiamo prenderne due piatti per ciascuno? Tre piatti per ciascuno?».
Il lunedì mattina la madre di Jean-Claude gli ha telefonato, preoccupatissima. Aveva appena ricevuto dalla banca un estratto conto che le segnalava uno scoperto di 40.000 franchi. Era la prima volta che succedeva, e lei non aveva avuto il coraggio di parlarne a suo marito per paura che si angustiasse troppo. Lui le ha detto che avrebbe sistemato tutto, bastava fare un bonifico, e lei ha riattaccato, rassicurata come sempre dopo aver parlato con suo figlio. (La notifica dell’interdizione bancaria è arrivata la settimana successiva).
Lui ha preso da uno scaffale Le Malheur des autres, il libro che si era fatto dedicare da Bernard Kouchner durante una presentazione in una libreria di Ginevra («A Jean-Claude, compagno d’ideali e di lavoro all’OMS, Bernard»), poi ha raggiunto in auto l’aeroporto di Cointrin, ha comprato una bottiglia di profumo ed è salito sull’aereo delle 12.15 per Parigi. Seduto in cabina, dove tra gli altri passeggeri ha riconosciuto il ministro Jacques Barrot, ha scritto una breve lettera a Corinne («... Questa settimana devo prendere alcune decisioni. Sono felice di passare la serata di sabato in tua compagnia. Forse sarà un addio o forse mi concederai ancora un po’ di tempo: sarai tu a decidere»), poi ha cercato nel libro di Kouchner un brano che l’aveva turbato moltissimo, sul suicidio di un amico di gioventù. Questo amico era un anestesista: mentre assorbiva, secondo un ordine rigorosamente prestabilito, le sostanze che componevano un infallibile cocktail letale, aveva chiamato la donna amata per farle vivere, minuto per minuto, l’evoluzione della sua agonia. Lei aveva una sola linea telefonica e sapeva che se avesse riattaccato per chiedere aiuto lui si sarebbe iniettato immediatamente la dose fatale. Così è stata obbligata a seguire la sua morte in diretta.
Con la speranza che Corinne leggesse e capisse, Romand ha infilato la lettera proprio in quel punto del libro, per poi lasciarlo insieme al profumo al suo studio. Di quel rapido viaggio a Parigi non ricorda altro, e tenendo conto dei tragitti in taxi non deve avere avuto molto tempo per fare altro, visto che è ripartito con il volo delle 16.30: doveva andare all’autorimessa di Ferney prima della chiusura. Dopo la vendita della BMW aveva noleggiato una R 21, poi una Espace, e ormai si era stufato anche di quella (così si esprime). Voleva prendere di nuovo una berlina e, dopo qualche esitazione, la sua scelta è caduta su una BMW verde metallizzato, provvista di diversi optional, al volante della quale è tornato a casa.
Il martedì non è andato a lavorare, ma a fare spese con Florence a Ferney. Lei insisteva perché il marito si comprasse un vestito nuovo, lui si è lasciato tentare da un giaccone da 3200 franchi. La commessa li ricorda come una coppia affiatata, con tempo e soldi a disposizione. Sono passati a prendere i bambini a scuola, compresa Sophie Ladmiral che doveva dormire da loro. Florence li ha portati a casa tutti e tre per la merenda, lasciando Jean-Claude alla farmacia Cottin. Lui aveva trascorso la mattinata a studiare Suicidio: modo d’uso e il dizionario Vidal dei farmaci, scartando quelli che provocano una morte istantanea – sali di cianuro e curaro – a vantaggio di barbiturici a picco sierico rapido che, uniti a un antiemetico, assicurano un sonno tranquillo. Ne aveva bisogno, ha spiegato a Cottin, per le sue ricerche sulle colture cellulari. Cottin avrebbe potuto stupirsi che un ricercatore comprasse in farmacia dei prodotti che gli doveva fornire il laboratorio, invece non si è stupito. Con occhio esperto hanno esaminato insieme i foglietti illustrativi, poi hanno scelto due barbiturici; per maggior sicurezza, Cottin ha proposto di aggiungere una soluzione che avrebbe preparato lui stesso, a base di fenobarbital. Il tutto sarebbe stato pronto per venerdì, d’accordo? D’accordo.
La sera ha letto una storia ai tre bambini, tenendo la figlioccia sulle ginocchia. Visto che il mercoledì era vacanza, e la sera prima ne avevano fatte di tutti i colori, si sono alzati tardi e hanno giocato in pigiama fino all’ora di pranzo. Romand è andato a Lione. Alle 14.08 ha ritirato 1000 franchi dal bancomat della BNP di place Bellecour, e altrettanti alle 14.45. Fra un prelievo e l’altro, sostiene di aver dato una banconota da 500 franchi a un barbone. Poi è entrato in un’armeria e ha comprato un dissuasore elettrico per neutralizzare gli aggressori, due bombolette lacrimogene, una scatola di cartucce e un silenziatore per carabina calibro 22 a canna lunga.
«Quindi,» ha sottolineato la presidente «lei non pensava soltanto al suicidio. Viveva con sua moglie e i suoi figli pensando che li avrebbe uccisi».
«L’idea mi ha sfiorato... Ma veniva subito nascosta da altri falsi progetti, altre idee fittizie. Era come se non esistesse... Facevo finta di ignorarla... Mi dicevo che non era quello che volevo fare, che lo scopo era un altro, però intanto... intanto compravo le pallottole che avrebbero trafitto il cuore dei miei figli...».
Scoppia in singhiozzi.
Ha chiesto che gli facessero due pacchetti regalo, fingendo con se stesso che il materiale di autodifesa fosse per Corinne, che aveva paura rincasando la sera, e le cartucce e il silenziatore per suo padre, che ormai era quasi cieco e non usava più la carabina da anni.
Mentre lui faceva quegli acquisti, Florence aveva invitato a prendere il tè due amiche, madri di compagni di scuola dei suoi figli. Non si è lasciata andare a nessuna confidenza, però a un certo punto, loro non ricordano più perché, ha indicato sulla cappa del caminetto la foto incorniciata di un bimbo di sei o sette anni e ha detto: «Guardate com’è carino, guardate il suo sguardo! Dietro uno sguardo come questo non può nascondersi niente di male». Le due signore, un po’ sconcertate, si sono avvicinate al ritratto convenendo che in effetti Jean-Claude da piccolo era molto carino. Poi Florence ha cambiato argomento.
Il giovedì, giorno in cui faceva lezione a Digione, partiva sempre presto per riuscire a fare un salto a Clairvaux e dare un saluto ai genitori. Il medico di famiglia l’ha incontrato davanti a casa e l’ha aiutato a scaricare una confezione di acqua minerale che aveva comprato per loro. Solo nella sua cameretta, ha sfogliato vecchi manuali di tossicologia, poi ha rassicurato ancora sua madre sulla loro situazione bancaria. Il sostituto procuratore si è chiesto se il vero scopo della visita non fosse prendere la carabina di suo padre, per la quale aveva acquistato il giorno prima le munizioni e il silenziatore. Ma lui sostiene di no: l’aveva già portata a Prévessin l’estate precedente perché voleva fare tiro al bersaglio in giardino (non vi sono testimonianze che confermino questo passatempo). Sulla strada del ritorno ha telefonato a Corinne ricordandole con insistenza la cena di sabato da Kouchner. Poi è passato dai Ladmiral per lasciare un paio di pantofole che Sophie aveva dimenticato da loro. Dice che sperava di vedere Luc per confessargli la verità, che considerava quella visita come la sua ultima occasione, ma che purtroppo ha trovato soltanto Cécile, tutta indaffarata perché una loro comune amica aveva appena partorito e lei doveva tenerle i bambini. Lui sapeva benissimo che alle cinque del pomeriggio Luc non era in casa, ma in studio, eppure non c’è andato. La sera, come tutte le sere, ha chiamato i genitori per augurargli la buonanotte.
Il venerdì ha accompagnato i figli a scuola, ha comprato giornali e croissant, poi, in compagnia di un vicino, che l’ha trovato sorridente, ha aspettato che la farmacia aprisse. Ha preso le boccette di barbiturici e un pacchetto di gomme da masticare, di quelle che dovrebbero far bene ai denti, e poi ha raggiunto Florence dalla fioraia di Ferney. Hanno mandato un’azalea, accompagnata da un biglietto firmato da entrambi, all’amica che aveva partorito. Mentre sua moglie correva alla lezione di pittura su ceramica, lui è andato al Continent, un supermercato, dove ha comprato due taniche e un altro oggetto del valore di 40 franchi, come risulta dallo scontrino. (L’accusa ha accertato che per quella cifra si può comprare un mattarello. A lui sembra di averli spesi per una sbarra metallica con cui voleva sostituire il piolo rotto di una scala. Non sono state ritrovate né la sbarra né la scala rotta). Ha riempito le taniche di benzina al distributore del Continent. Rincasando per pranzo, ha trovato un’ospite, una giovane donna bionda e spigliata, la maestra di Caroline. Stava parlando di una recita che voleva organizzare con gli allievi: i bambini si dovevano travestire da mummie, per cui serviva una gran quantità di bende. Romand, servizievole come sempre, ha detto di potergliene procurare quante voleva all’ospedale di Ginevra, e ha promesso di occuparsene. Il giorno dopo i bambini erano invitati alla festa di compleanno della loro amica Nina, figlia di un diplomatico africano, e quindi bisognava comprare un regalo. Tutta la famiglia, all’uscita da scuola, è andata a scegliere una scatola di Lego in un centro commerciale svizzero. Hanno cenato alla caffetteria e sono tornati a casa presto. Antoine e Caroline, in pigiama, hanno fatto dei disegni da unire al pacchetto. Dopo averli messi a nanna, Florence ha parlato a lungo al telefono con sua madre, che era offesa perché non l’avevano invitata al matrimonio di una cugina. Si è lasciata andare a uno sfogo amaro: era vedova, stava invecchiando, i figli la trascuravano. La sua tristezza ha contagiato Florence, che dopo aver riagganciato è scoppiata a piangere. Jean-Claude l’ha raggiunta sul divano. È l’ultima immagine che ha di loro due: lui è seduto accanto a lei, l’ha presa tra le braccia e cerca di consolarla.
«Le sue ultime parole» dice «non me le ricordo».
Dall’autopsia risulta che Florence aveva nel sangue 0,20 grammi di alcol, il che significa che, se ha dormito l’intera notte, quando si è addormentata doveva essere quasi ubriaca. Strano, perché lei non beveva mai, al massimo un bicchiere di vino a tavola nelle grandi occasioni. Si può immaginare una lite, iniziata con queste parole: «So che mi menti». Lui si schermisce, lei insiste: perché le ha detto di aver votato contro la rimozione del direttore? perché non figura nell’elenco telefonico dell’OMS? La discussione diventa burrascosa, lei per calmarsi beve un bicchiere, poi un altro e un altro ancora. Con l’aiuto dell’alcol, al quale non è abituata, alla fine si addormenta. Lui invece resta sveglio, passa la notte a chiedersi come uscire da quella situazione e la mattina le sfonda il cranio.
Quando gli prospettano questo copione, risponde: «Se ci fosse stata una scenata, perché dovrei negarlo? Non mi sentirei meno in colpa, ma sarebbe una spiegazione... Forse sarebbe più facile da accettare... Non posso dire con certezza che non ci sia stata, però non me la ricordo. Ricordo gli altri omicidi, altrettanto orribili, ma non questo. Non sono in grado di dire che cosa sia successo tra il momento in cui stavo consolando Florence sul divano e quello in cui mi sono svegliato con in mano il mattarello sporco di sangue».
Secondo l’accusa lo avrebbe comprato il giorno prima al Continent, mentre lui sostiene di averlo trovato nella stanza in cui i bambini l’avevano usato per stendere il pongo. Dopo essersene servito, è andato in bagno a lavarlo accuratamente, in modo da togliere qualsiasi traccia di sangue visibile a occhio nudo, poi l’ha rimesso a posto.
È suonato il telefono. Lui ha risposto dal bagno. Era un’amica che faceva la psicologa a Prévessin, voleva sapere se Florence l’avrebbe aiutata a organizzare la messa per i bambini del catechismo quel sabato sera. Lui ha risposto di no, era improbabile, intendevano trascorrere la notte nel Giura dai suoi genitori. Si è scusato perché parlava piano: i bambini dormivano, e anche Florence. Ma se era urgente poteva svegliarla: la psicologa gli ha detto che non occorreva, se la sarebbe cavata da sola.
Il telefono aveva svegliato i bambini, che sono piombati in bagno. Si alzavano sempre con maggiore facilità quando non dovevano andare a scuola. Ha detto anche a loro che la mamma stava ancora dormendo, e sono scesi tutti e tre in salotto. Lui ha messo nel videoregistratore la cassetta dei Tre porcellini, ha preparato le scodelle con latte e Coco Pops. Si sono seduti sul divano a guardare il cartone animato mangiando i cereali, con lui in mezzo.
«Dopo aver ucciso Florence, sapevo che avrei ucciso anche Antoine e Caroline, e che quei minuti davanti alla televisione erano gli ultimi che avremmo passato insieme. Me li sono coccolati. Devo aver sussurrato qualche parola affettuosa, come: “Vi voglio bene”. Lo facevo spesso e spesso loro mi rispondevano con dei disegni. Persino Antoine, che andava ancora all’asilo, sapeva scrivere “Ti voglio bene”».
Un lunghissimo silenzio. Con voce alterata, la presidente ha proposto una sospensione di cinque minuti, ma lui ha scosso la testa, ha deglutito e poi ha continuato:
«Saremo rimasti così più o meno mezz’ora... Caroline si è accorta che avevo freddo e si è offerta di salire a prendermi la vestaglia. Io ho detto che mi sembrava che fossero loro un po’ caldi, forse avevano la febbre, era meglio misurarla. Caroline è salita con me, l’ho fatta stendere sul letto... Sono andato a prendere la carabina...».
Si è ripetuta la scena del cane. Ha iniziato a tremare, il suo corpo si è accasciato. Si è buttato per terra. Non lo vedevamo più, gli agenti erano chini su di lui. Con una voce acuta da bambino, si è messo a gemere: «Il mio papà! Il mio papà!». Una donna del pubblico è corsa verso la gabbia e ha cominciato a battere il vetro supplicandolo come una madre. «Jean-Claude! Jean-Claude!». Nessuno ha avuto il coraggio di allontanarla.
«Che cosa ha detto a Caroline?» ha proseguito la presidente dopo mezz’ora di sospensione.
«Non me lo ricordo... Era stesa a pancia in giù... E io ho sparato».
«Coraggio...».
«L’ho già raccontato diverse volte al giudice istruttore, ma adesso... adesso, loro sono qui... (singhiozzi). Ho sparato un primo colpo contro Caroline... aveva un cuscino sulla testa... devo aver finto che fosse un gioco... (geme, a occhi chiusi). Ho sparato... ho posato la carabina da qualche parte in camera... ho chiamato Antoine... e ho sparato di nuovo».
«Forse sarà il caso che l’aiuti un po’, perché i giurati hanno bisogno di particolari e lei non è abbastanza preciso».
«... Quando è nata Caroline è stato il giorno più bello della mia vita... Era bella... (gemito)... fra le mie braccia... per il primo bagnetto... (spasmo). E io l’ho uccisa... Io l’ho uccisa...».
(Gli agenti lo tengono per le braccia con una sollecitudine sgomenta).
«Non pensa che Antoine abbia potuto sentire gli spari? Aveva messo il silenziatore? L’ha chiamato con la stessa scusa? Misurargli la febbre? Non gli è sembrato strano?».
«Non ho ricordi di quel momento preciso. Erano sempre loro, eppure... non potevano essere Caroline e Antoine...».
«Il bambino non si è avvicinato al letto di Caroline? L’aveva coperta con il piumone perché lui non sospettasse nulla...».
(Singhiozza).
«Durante l’istruttoria ha detto di aver cercato di dare ad Antoine del fenobarbital diluito in un bicchiere d’acqua, e che lui si era rifiutato di berlo perché era cattivo...».
«La mia era solo una deduzione... In realtà non ricordo che Antoine abbia detto che era cattivo».
«Nessun’altra spiegazione?».
«Forse avrei voluto che fosse addormentato».
È intervenuto il sostituto procuratore:
«Dopo lei è uscito a comprare “L’Équipe” e “Le Dauphiné libéré”, e la giornalaia non ha notato in lei nulla di strano. Voleva fare finta di niente, come se la vita potesse continuare?».
«Non posso aver comprato “L’Équipe”, non la leggo mai».
«Alcuni vicini l’hanno vista attraversare la strada per prendere la posta nella cassetta delle lettere».
«Forse in quel modo cercavo di negare la realtà, di fingere che non fosse successo niente...».
«Perché ha preso la carabina, impacchettata con cura, prima di partire per Clairvaux?».
«Per ucciderli, ovviamente, ma continuavo a dire a me stesso che volevo semplicemente restituirla a mio padre».
Sapendo che il labrador dei suoi genitori gli avrebbe sporcato i vestiti facendogli le feste, si è infilato una giacca vecchia e un paio di jeans, però si è premurato di appendere al gancio dell’auto un abito scuro in previsione della cena a Parigi. Ha messo in borsa una camicia di ricambio e l’occorrente per la toilette.
Del viaggio non si ricorda niente.
Si ricorda di aver parcheggiato la macchina davanti alla statua della Vergine di cui suo padre si prendeva cura portandole fiori freschi ogni settimana. Lo rivede mentre gli apre il portone. Poi il vuoto, fino alla sua morte.
Sappiamo che hanno pranzato tutti e tre insieme. Due giorni dopo, quando lo zio Claude è entrato in casa, c’erano ancora i piatti sul tavolo, e dall’autopsia risulta che Aimé e Anne-Marie avevano lo stomaco pieno. Ha mangiato anche lui? Sua madre ha insistito perché prendesse qualcosa? Di che cosa hanno parlato?
Come aveva fatto salire i figli al primo piano, uno alla volta, così ha fatto con i genitori. Prima il padre: l’ha attirato nella sua vecchia camera con la scusa di controllare con lui un condotto di aerazione che mandava cattivo odore. Deve aver salito le scale con la carabina in mano, a meno che non l’avesse già portata su al suo arrivo. Poiché la rastrelliera si trovava al pianterreno, forse ha detto di voler colpire un bersaglio in giardino tirando dalla finestra, o più probabilmente non ha dato alcuna spiegazione. Perché mai Aimé Romand avrebbe dovuto preoccuparsi vedendo suo figlio imbracciare la carabina, quella che erano andati a comprare insieme il giorno del suo sedicesimo compleanno? Il vecchio, che soffriva di dolori lombari e non si poteva chinare, ha dovuto mettersi in ginocchio per mostrargli il condotto difettoso all’altezza del battiscopa. È stato in quel momento che ha ricevuto due pallottole nella schiena. È caduto in avanti. Il figlio l’ha avvolto nel copriletto di velluto a coste color vinaccia, lo stesso di quando era bambino.
Poi è andato a prendere sua madre, che non aveva sentito i colpi, perché lui ha sparato con il silenziatore. L’ha portata nel salottino che non usavano mai. Lei è stata l’unica a ricevere le pallottole in pieno petto. Deve aver cercato di farla girare di spalle, mostrandole qualcosa. Forse si è voltata prima del previsto, e si è ritrovata davanti il figlio con la carabina puntata contro di lei. Forse gli ha chiesto: «Jean-Claude, che mi sta succedendo?» o «che ti sta succedendo?», come ha affermato lui nel corso di un interrogatorio, anche se poi ha detto che non se lo ricordava più, e che lo aveva appreso dal fascicolo dell’istruttoria. Sempre con la stessa incertezza, cercando come noi di ricostruire i fatti, sostiene che sua madre cadendo ha perso la dentiera e che lui gliel’ha rimessa, prima di avvolgerla in un copriletto verde.
Il cane, che era salito insieme a sua madre, correva da un corpo all’altro senza capire, gemendo piano. «Ho pensato che doveva raggiungere Caroline» spiega. «Lei lo adorava». Anche lui lo adorava, tanto che teneva sempre la sua fotografia nel portafoglio. Dopo averlo abbattuto, lo ha coperto con una trapunta azzurra.
Tornato al pianterreno, ha ripulito la carabina con l’acqua fredda, perché il sangue con l’acqua fredda se ne va più facilmente, poi l’ha riposta nella rastrelliera. Si è tolto i jeans e la vecchia giacca e ha indossato l’abito scuro, ma non si è cambiato la camicia: sudava molto, meglio cambiarsela a Parigi. Ha telefonato a Corinne, hanno deciso di vedersi alla chiesa di Auteuil, perché lei doveva accompagnare le figlie alla messa degli scout. Ha chiuso accuratamente casa, e verso le due si è messo in viaggio.
«Lasciando Clairvaux, mi è venuto spontaneo girarmi per guardare la porta di casa. Lo facevo sempre, perché i miei genitori erano vecchi e malati e ogni volta pensavo che forse non li avrei più rivisti».
Aveva detto a Corinne che avrebbe fatto il possibile per assistere alla messa con lei e le sue figlie, così per tutto il viaggio ha continuato a guardare l’orologio e a calcolare quanti chilometri mancavano a Parigi. Prima dell’autostrada, sulla comunale di Lons-le-Saunier, dove ci sono molti dossi, ricorda di aver guidato con una certa imprudenza, contrariamente alle sue abitudini. Era sabato sera: si è innervosito al casello, perché la fila avanzava lentamente, e poi sulla tangenziale. Da porte d’Orléans a porte d’Auteuil ci ha messo tre quarti d’ora, anziché uno come pensava. La messa non veniva celebrata nella navata della chiesa, ma in una cappella sotterranea, e ha faticato a trovare l’entrata. Arrivato in ritardo, è rimasto in fondo e non ha fatto la comunione: di questo è sicuro, perché altrimenti dopo sarebbe andato a sedersi vicino a Corinne. Invece è uscito per primo e le ha aspettate fuori. Ha baciato le due ragazzine, che non vedeva da più di un anno, e sono andati insieme a casa loro. Mentre Corinne si cambiava e si truccava, lui ha chiacchierato con la baby-sitter. Léa e Chloé gli hanno anche mostrato i regali che avevano ricevuto a Natale. Poi è arrivata Corinne, con un tailleur rosa e l’anello che le aveva regalato lui per farsi perdonare la sua prima dichiarazione. Sulla tangenziale, che hanno imboccato in senso inverso, lei gli ha chiesto i soldi. Lui si è scusato, non aveva avuto il tempo di andare a Ginevra, ma lo avrebbe fatto senz’altro lunedì mattina, poi avrebbe preso l’aereo delle 12.15, in modo da darle tutto nel primissimo pomeriggio. Lei era un po’ contrariata, ma la prospettiva della cena mondana che li aspettava le ha fatto riacquistare il buonumore. Sono usciti dall’autostrada a Fontainebleau, e a partire da quel momento Corinne l’ha guidato servendosi di una cartina sulla quale lui aveva segnato a casaccio, con una croce, la casa di Kouchner. Cercavano «una stradina sulla sinistra». La cartina non era molto dettagliata e all’inizio questo è bastato a spiegare la loro difficoltà a orientarsi. Dopo aver girato in tondo per un’ora nel bosco, Romand si è fermato per prendere nel bagagliaio un foglietto dove aveva scritto il numero di telefono di Kouchner, ma non l’ha trovato. Corinne cominciava a preoccuparsi per il ritardo, ma lui l’ha rassicurata: alcuni invitati, anche loro ricercatori, venivano da Ginevra e non sarebbero arrivati prima delle 22.30. Per distrarla ha iniziato a parlarle del suo prossimo trasferimento a Parigi, della direzione dell’INSERM che aveva finito per accettare, dell’appartamento che avevano messo a sua disposizione a Saint-Germain-des-Prés. Gliel’ha descritto precisando che intendeva andarci ad abitare da solo. La sera prima lui e Florence avevano discusso a lungo del loro futuro, e avevano deciso di comune accordo che era la cosa migliore. Sarebbe stata dura, ha sospirato, non vedere più i bambini tutti i giorni. Ora dovevano essere ad Annecy dalla nonna, avevano trascorso il pomeriggio a una festa di compleanno... Corinne stava perdendo la pazienza. Lui dice che in quel momento pensava solo a come guadagnare tempo, a trovare un motivo plausibile per annullare la cena. Si è fermato di nuovo in un’area attrezzata per picnic, deciso a mettere il bagagliaio sottosopra fino a quando non avesse trovato il numero di Kouchner. Ha passato qualche minuto a frugare in vecchi scatoloni che contenevano libri, riviste, e anche una cassetta su cui aveva filmato con la videocamera alcuni momenti del loro viaggio a Leningrado, due anni prima. Un’occhiata a Corinne immobile sul sedile davanti, sempre più tesa, è bastata a convincerlo che non era il momento di evocare teneri ricordi. È tornato mogio mogio, dicendo di non essere riuscito a trovare il foglietto. In compenso, aveva trovato una collana che si era ripromesso di regalarle. Corinne ha alzato le spalle: era una cosa priva di senso. Ma lui ha insistito, e alla fine è riuscito a convincerla a indossarla, almeno per quella sera. Lei è scesa dalla macchina, perché lui doveva mettergliela al collo mentre teneva gli occhi chiusi, come aveva fatto con tutti i gioielli che le aveva regalato.
La prima cosa che ha sentito Corinne è stato il bruciore schiumoso della bomboletta lacrimogena sul viso e sul collo. Ha aperto un po’ gli occhi, ma li ha subito richiusi perché il bruciore era sempre più forte e mentre lui continuava a spruzzarle in faccia il liquido lei ha cominciato a dibattersi, a lottare con tutte le sue forze, tanto che Romand ha avuto l’impressione che fosse lei ad aggredirlo. Sono rotolati accanto all’automobile. All’altezza del ventre, Corinne ha avvertito delle scariche elettriche emesse da una barra cilindrica: era il dissuasore che lui aveva pensato di regalarle. Sicura di morire, si è messa a urlare: «Non voglio! Non uccidermi! Pensa a Léa e a Chloé!» e ha aperto gli occhi.
Incrociare il suo sguardo le ha salvato la vita. Di colpo si è fermato tutto.
Lui le stava di fronte, disorientato, con un’espressione sconvolta e le mani tese: il suo non era più il gesto di un assassino, ma piuttosto quello di un uomo che cerca di calmare una persona in preda a una crisi di nervi.
«Ma Corinne,» ripeteva con dolcezza «Corinne... calmati...».
L’ha fatta sedere in macchina, dove entrambi hanno cercato di riprendersi come se fossero appena sfuggiti all’aggressione di una terza persona. Si sono ripuliti il viso con salviette di carta e acqua minerale. Probabilmente Romand aveva rivolto lo spruzzo anche contro di sé, perché aveva la pelle e gli occhi irritati. Dopo un po’, lei gli ha chiesto se sarebbero andati lo stesso a cena da Kouchner. Hanno deciso di no: lui ha avviato il motore, è uscito dal parcheggio e pian piano ha imboccato la strada in senso inverso. Apparentemente, quel che era appena accaduto sembrava incomprensibile a lui come a lei, e Corinne, frastornata com’era, per poco non si è lasciata convincere che era stata lei a iniziare. Ma è riuscita a resistere. Gli ha spiegato pazientemente che invece era stato lui ad aggredirla. Gli ha raccontato come si erano svolti i fatti. Lui l’ascoltava scuotendo la testa con aria sgomenta.
Al primo paese si è fermato per chiamare Kouchner e scusarsi a nome di entrambi, e lei non si è nemmeno stupita che ora avesse il suo numero di telefono. È rimasta nell’auto, senza chiavi, perché lui, con un gesto che poteva essere tanto meccanico quanto intenzionale, se le era messe in tasca prima di dirigersi verso la cabina telefonica. L’ha guardato, sotto la luce al neon, parlare o far finta di parlare. Un giudice gli ha domandato se aveva composto un numero: lui non se lo ricorda, ma suppone di aver chiamato casa sua a Prévessin e di aver ascoltato il messaggio della segreteria.
Quando è tornato Corinne gli ha chiesto se aveva recuperato la collana. Lui le ha risposto di no, ma comunque non era importante: aveva tenuto la ricevuta e l’assicurazione gliel’avrebbe rimborsata. Allora lei si è resa conto di non aver mai visto nessuna collana; quello che aveva visto, tra le foglie secche, accanto alla macchina, era una cordicella di plastica flessibile, che sembrava fatta apposta per strangolare qualcuno. Per tutto il viaggio di ritorno, durato più di due ore perché Romand guidava molto lentamente, ha temuto che venisse colto da un altro raptus omicida: per questo ha cercato a sua volta di distrarlo, parlandogli in veste di amica devota e di psicologa. Lui dava la colpa di tutto alla malattia. Il cancro non si accontentava di ucciderlo, lo faceva anche impazzire. Spesso negli ultimi tempi aveva avuto amnesie, vuoti di memoria. Piangeva. Lei si sforzava di annuire con aria competente e comprensiva, mentre in realtà moriva di paura. Gli ha detto che doveva assolutamente farsi vedere da qualcuno. Qualcuno? Uno psichiatra? Sì, o uno psicoterapeuta, lei poteva indicargliene alcuni molto in gamba. Oppure poteva chiedere a Kouchner. Era un suo caro amico, gliel’aveva ripetuto spesso, un uomo profondamente sensibile e umano. Sarebbe stata una buona idea raccontargli tutto. Si è addirittura offerta di chiamarlo per spiegargli, senza drammatizzare, quel che era successo. Sì, era una buona idea, ha approvato Jean-Claude. Era commosso fino alle lacrime da quell’affettuosa coalizione: Kouchner e Corinne uniti per salvarlo dai suoi demoni. Si è rimesso a piangere, e lei con lui. Piangevano entrambi quando l’ha lasciata sotto casa, all’una di notte. Lui le ha fatto promettere di non dire niente a nessuno, e lei di recuperare entro lunedì tutti i suoi soldi, fino all’ultimo centesimo. Cinque minuti dopo le ha telefonato da una cabina da cui vedeva le finestre del suo appartamento ancora illuminate: «Non era premeditato,» le ha detto «giura che mi credi. Se avessi voluto ucciderti, l’avrei fatto nel tuo appartamento, e avrei ucciso le tue figlie insieme a te».
Quando è arrivato a Prévessin era già mattina. Aveva dormito un po’ in un’area di servizio vicino a Digione: era troppo stanco, si è accorto che tendeva a sbandare e temeva di avere un incidente. Ha parcheggiato davanti a casa. Prima di partire aveva chiuso le imposte. Dentro si stava bene, il salotto era un po’ in disordine, ma tornando con la famiglia da un week-end a Clairvaux o al Col de la Faucille avrebbe potuto trovare la stessa allegra confusione. Sul tavolo c’erano i disegni fatti dai bambini per il compleanno di Nina e le coroncine di cartone dorato dell’Epifania. L’abete aveva perso quasi tutti gli aghi, ma ogni volta che lui proponeva di buttarlo via i bambini protestavano, scongiurandolo di aspettare ancora un po’: era un gioco, un piccolo rito che l’anno prima erano riusciti a protrarre fino a metà febbraio. Come sempre quando rincasava, ha strappato la pagina del calendario e ascoltato la segreteria. O non c’erano messaggi o li ha cancellati. Poi si è assopito per un po’ sul divano.
Verso le undici ha avuto paura che, vedendo l’auto, a qualche amico venisse in mente di fargli un’improvvisata, allora è uscito di nuovo, per andare a parcheggiarla in centro a Prévessin. Probabilmente è stato allora che ha scritto, sul retro di una busta, la frase che ha incuriosito tanto gli inquirenti. Al ritorno ha incrociato Cottin e si sono salutati. Il farmacista gli ha chiesto se faceva jogging. Solo una passeggiatina, ha risposto.
Allora buona domenica!
Per ricostruire il resto della giornata abbiamo a disposizione due elementi.
Il primo è una cassetta che Romand ha inserito nel videoregistratore al posto dei Tre porcellini. Per centottanta minuti ci ha registrato sopra frammenti di trasmissioni diffuse da decine di canali captati via satellite: spettacoli di varietà e di sport, i soliti programmi della domenica pomeriggio, ma sminuzzati da uno zapping frenetico, un secondo su un canale, due su un altro. Ne è risultato un tetro e inguardabile caos, che nonostante ciò gli inquirenti si sono imposti di guardare. Per scrupolo, hanno deciso di identificare ciascuna microsequenza, e visionando i programmi di tutte le emittenti hanno stabilito l’ora esatta di registrazione. Hanno scoperto così che Romand è rimasto sul divano a giocare con il telecomando dalle 13.10 alle 16.10, e che ha iniziato quando la cassetta era a metà. Una volta giunto alla fine, si è premurato di riavvolgerla e di coprire allo stesso modo tutta la prima parte, il che fa pensare che volesse cancellare una registrazione precedente. Poiché sostiene di non ricordare nulla, possiamo fare solo congetture. L’ipotesi più probabile è che si trattasse di immagini di Florence e dei bambini: vacanze, compleanni, momenti di felicità familiare. Ma ce n’è un’altra. Nel corso di un interrogatorio sui suoi acquisti nei sexy-shop e sulle cassette pornografiche che sostiene di aver guardato anche insieme a Florence, Romand ha aggiunto di aver filmato con la videocamera alcuni amplessi tra lui e la moglie. Della cassetta, ammesso che sia esistita, non resta traccia, e il giudice si è chiesto se non fossero proprio quelle le immagini che aveva distrutto in maniera così sistematica l’ultimo giorno. A lui sembra un’ipotesi improbabile.
Il secondo elemento si ricava dai tabulati di France Telecom, dai quali emerge che tra le 16.13 e le 18.49 ha chiamato nove volte il numero di Corinne. La durata delle telefonate, breve e sempre uguale, conferma che si è limitato per nove volte ad ascoltare il messaggio della segreteria. Alla decima, lei ha risposto e si sono parlati per tredici minuti. Su questo dialogo le due versioni coincidono. Lei aveva passato una giornata terribile, era ancora sconvolta e continuavano a bruciarle gli occhi, e lui la compativa, la capiva, si scusava e parlava della propria depressione. Tenendo conto delle sue condizioni e della malattia, Corinne non intendeva avvertire la polizia, come avrebbe fatto, sottolineava, qualsiasi persona di buon senso, ma lui doveva farsi vedere prima possibile da qualcuno – che ne parlasse con Kouchner, o con chi meglio credeva –, e soprattutto doveva assolutamente mantenere la sua promessa e andare a prelevare i soldi in banca già l’indomani mattina. Romand le ha giurato che al momento dell’apertura sarebbe stato già lì.
Da quando era rientrato in casa non era ancora salito al primo piano, ma sapeva che cosa avrebbe visto. Li aveva coperti accuratamente con i piumoni, ma sapeva cosa c’era sotto. Verso sera si è reso conto che era arrivato il momento di morire, che aveva così a lungo differito. Sostiene di aver iniziato subito i preparativi, ma si sbaglia, li ha rimandati ancora. Ha aspettato mezzanotte, anzi, secondo la perizia le tre del mattino, per versare il contenuto delle taniche che aveva comprato e riempito di benzina al Continent, cominciando dalla soffitta e poi spargendolo sui bambini, su Florence e sulle scale. Poi si è svestito e si è messo in pigiama. Poco prima delle quattro ha appiccato il fuoco, iniziando sempre dalla soffitta per proseguire sulle scale e nella stanza dei bambini. A quel punto è entrato in camera sua. Per essere più sicuro avrebbe dovuto ingerire per tempo i barbiturici, ma doveva averli dimenticati o persi, e così ha ripiegato su un flacone di Nembutal che giaceva da dieci anni in fondo all’armadietto dei medicinali. L’aveva comprato per alleviare l’agonia di uno dei suoi cani, ma poi non era stato necessario. In seguito, poiché era scaduto da un pezzo, aveva quasi deciso di buttarlo. Ma in quel momento deve aver pensato che quelle capsule potessero fare comunque al caso suo, perché ne ha inghiottito una ventina mentre i netturbini, che nel frattempo, durante il giro mattutino, avevano visto le fiamme uscire dal tetto, cominciavano a bussare alla porta. È saltata la corrente, e il fumo ha iniziato a invadere la stanza. Dopo aver spinto dei vestiti contro la porta per tappare la fessura, si è steso accanto a Florence, che sembrava addormentata sotto il piumone. Ma non ci vedeva più, gli bruciavano gli occhi. Insomma, non aveva ancora dato fuoco alla camera, e sul posto erano già arrivati i pompieri (anche se lui assicura di non aver sentito la sirena). Non riuscendo più a respirare, si è trascinato fino alla finestra e l’ha aperta. Udendo sbattere la persiana, i vigili del fuoco hanno allungato la scala per soccorrerlo. Lui ha perso conoscenza.
Quando è uscito dal coma, inizialmente ha negato tutto. Un uomo vestito di nero gli era entrato in casa forzando la porta, aveva sparato ai bambini e appiccato il fuoco. Lui era rimasto paralizzato, impotente, la scena si era svolta sotto i suoi occhi come un incubo. Quando il giudice l’ha accusato della strage di Clairvaux, si è indignato: «Non si uccidono il padre e la madre, lo vieta il secondo comandamento». Quando gli hanno dimostrato che non era ricercatore all’OMS, ha dichiarato di lavorare come consulente scientifico per una certa South Arab United qualcosa, una società con sede in quai des Bergues a Ginevra. Hanno verificato: in quai des Bergues non esisteva nessuna South Arab United qualcosa. Costretto a cedere su questo punto, si è inventato subito qualcos’altro. Per sette ore d’interrogatorio ha lottato con le unghie e con i denti contro l’evidenza. Alla fine, per stanchezza o perché il suo avvocato lo ha convinto che in futuro quell’assurdo sistema di difesa gli avrebbe nuociuto, ha confessato.
Gli psichiatri incaricati di esaminarlo sono rimasti colpiti dalla precisione con cui si esprimeva e dalla sua costante preoccupazione di dare di sé un’immagine positiva. Probabilmente sottovalutava il fatto che non è facile dare un’immagine positiva di te quando hai sterminato un’intera famiglia, e per diciotto anni hai ingannato e truffato parenti e amici. Così come è probabile che non riuscisse a staccarsi dal personaggio che aveva interpretato così a lungo. Per accattivarsi la simpatia degli altri usava le stesse tecniche che avevano determinato il successo del dottor Romand: un contegno calmo, ponderato, un’attenzione quasi ossequiosa verso le aspettative dell’interlocutore. Un simile autocontrollo denunciava uno stato confusionale: in condizioni normali, infatti, il dottor Romand avrebbe capito subito che un comportamento incoerente, disperato, e urla selvagge da animale ferito a morte gli avrebbero giovato di più, viste le circostanze, di quell’atteggiamento mondano. Sicuro di agire per il meglio, non si rendeva conto che gli psichiatri rimanevano esterrefatti nel sentirlo presentare loro un racconto perfettamente articolato dei suoi inganni, parlare della moglie e dei figli senza particolare emozione, come un vedovo beneducato che si fa un punto d’onore di non rattristare i commensali con il suo lutto, e manifestare una certa ansia solo a proposito dei sonniferi che gli venivano somministrati, poiché temeva che potessero creargli assuefazione – timore giudicato «fuori luogo» dagli psichiatri.
Poi, durante i colloqui successivi, l’hanno visto singhiozzare e mostrare segni palesi di sofferenza, ma non sono stati in grado di dire se fosse sincero o simulasse. Avevano la sconcertante impressione di trovarsi davanti a un robot, totalmente incapace di provare sentimenti, ma programmato per analizzare gli stimoli esterni e adeguare a quelli le proprie reazioni. Abituato com’era a funzionare secondo il programma «dottor Romand», gli ci è voluto un periodo di adattamento per elaborare un nuovo programma, «Romand l’assassino», e imparare a usarlo.
Due settimane dopo l’incendio, Luc è rimasto sconvolto quando, nell’aprire la cassetta delle lettere, ha riconosciuto su una busta la calligrafia del morto-vivente. L’ha aperta spaventato, ne ha scorso appena il contenuto e l’ha spedita subito al giudice istruttore perché non voleva tenerla in casa. Era una lettera delirante, nella quale Jean-Claude si lamentava dei sospetti mostruosi che gravavano su di lui e gli chiedeva di trovargli un buon avvocato. Fino a pochi giorni prima Luc si sarebbe sforzato di credere che la verità fosse racchiusa in quelle righe sconnesse e non nell’impressionante mole di prove raccolte dagli inquirenti. Ma ormai i giornali avevano scritto che, dopo aver tentato di negare tutto, l’assassino aveva confessato. Il tempo di arrivare, e la lettera non aveva più senso.
Di ritorno dal funerale di Florence e dei bambini, Luc gli ha scritto un biglietto per dirgli che la cerimonia si era svolta con decoro e che avevano pregato per loro e per lui. Ha ricevuto ben presto un’altra lettera nella quale il detenuto menzionava il suo incontro con un cappellano: «Mi ha aiutato molto a tornare alla Verità. Ma la realtà è così orribile, intollerabile, che temo di rifugiarmi in un altro mondo immaginario e perdere di nuovo questa precaria identità. Il dolore per aver perso tutta la mia famiglia e tutti i miei amici è così grande che ho l’impressione di essere sotto anestesia morale... Grazie per le vostre preghiere, mi aiuteranno a mantenere viva la fede e a sopportare il mio lutto e la mia immensa pena. Vi abbraccio! Vi voglio bene!... Se incontrate qualche amico di Florence o qualche suo parente, chiedetegli perdono da parte mia».
Pur provando un moto di pietà, Luc ha pensato che fosse un po’ troppo comodo da parte sua rifugiarsi nella religione. D’altra parte, chi può mai sapere? La sua fede gli proibiva di giudicare. Non ha risposto, ma ha fatto leggere la lettera a Jean-Noël Crolet, il fratello di Florence che conosceva meglio. I due uomini hanno discusso a lungo, osservando che Romand si soffermava molto sulle proprie sofferenze e ben poco su quelle di coloro che aveva «perso». L’ultima frase, poi, ha lasciato Jean-Noël di stucco: «Che cosa crede? Che sia questo il modo di chiedere perdono? Così, per interposta persona, come si dice: salutali tanto da parte mia?».
Quando lo hanno rivisto, all’inizio dell’estate, gli psichiatri lo hanno trovato in gran forma: aveva recuperato gli occhiali, che nei primi tempi gli mancavano molto, e alcuni effetti personali. Ha raccontato di sua spontanea volontà che aveva progettato di suicidarsi il primo maggio, anniversario della dichiarazione d’amore a Florence, che loro festeggiavano ogni anno. Si era procurato l’occorrente per impiccarsi, ben deciso questa volta a non commettere errori. Ma il mattino fatidico aveva tergiversato un po’, e poi aveva sentito alla radio che anche Pierre Bérégovoy si era appena ucciso. Seccato di essersi fatto battere sul tempo e intuendo che quello era un segnale, e come tale andava interpretato, aveva rimandato la realizzazione del suo progetto e poi, dopo un colloquio con il cappellano – colloquio decisivo, a sentir lui, anche se era poco probabile che un prete lo incoraggiasse a impiccarsi –, aveva preso la solenne risoluzione di rinunciarvi. A partire da quel momento, dice di essersi «condannato a vivere» per consacrare le proprie sofferenze alla memoria dei suoi. Pur restando molto sensibile, secondo gli psichiatri, all’opinione degli altri, è entrato in una fase di preghiera e di meditazione, accompagnata da lunghi digiuni, per prepararsi all’eucarestia. Dimagrito di venticinque chili, ritiene di essere uscito dal labirinto delle apparenze per abitare in un mondo doloroso ma «vero». «La verità vi farà liberi» ha detto Cristo. E lui: «Non sono mai stato così libero, la mia vita non è mai stata così bella. Sono un assassino. La mia immagine agli occhi della società è la peggiore che possa esistere, ma è più facile da sopportare che i miei vent’anni di menzogne». Dopo un periodo di messa a punto, il cambiamento di programma sembra essere riuscito. Al personaggio del ricercatore rispettato si sostituisce quello, non meno gratificante, del grande criminale sulla via della redenzione mistica.
Una seconda équipe di psichiatri, subentrata alla prima, ha formulato la stessa diagnosi: il romanzo narcisistico continua in carcere, permettendo al protagonista di sfuggire ancora una volta alla violenta depressione che lo ha minacciato per tutta la vita. Al tempo stesso Romand si rende conto che qualsiasi sforzo di comprensione dell’accaduto da parte sua verrà visto come un accomodante tentativo di recupero. I dadi sono truccati. «Non gli sarà mai possibile» conclude il rapporto «essere considerato una persona sincera, e teme che nemmeno lui riuscirà mai a ritenersi tale. Prima tutti credevano a tutto ciò che diceva, adesso nessuno crede più a niente, e lui stesso non sa cosa credere, perché non ha accesso alla propria verità, ma la ricostruisce con l’aiuto delle interpretazioni che gli offrono gli psichiatri, il giudice e i media. Poiché attualmente non si può affermare che si trovi in uno stato di grave sofferenza psichica, risulta difficile imporgli un trattamento psicoterapeutico che lui non richiede, limitandosi ad avere dei colloqui con una volontaria. Si può solo auspicare che giunga, anche a costo di una depressione endogena il cui rischio resta alto, a difese meno sistematiche, a una maggiore ambivalenza e autenticità».
Dopo averlo incontrato, uno degli psichiatri ha detto a un collega: «Se non fosse in carcere sarebbe già andato a raccontare la sua storia in televisione!».
Per le feste e per i compleanni dei bambini i Ladmiral hanno ricevuto altre lettere. Ma ai figli non le hanno mai mostrate. Luc le apriva con estremo disagio, le leggeva frettolosamente e poi le riponeva nella cartella medica di un paziente fittizio, sullo scaffale più alto del suo studio, da dove le ha tirate giù per me. L’ultima risale alla fine di dicembre:
«... Lascio che i miei pensieri e le mie preghiere volino liberi verso di voi, prima o poi vi raggiungeranno, qui o altrove. Nonostante tutto ciò che ci separa e le tue “ferite insanabili”, che capisco e che sono legittime, quanto ci ha uniti in passato ci unirà forse al di là del tempo, nella comunione dei vivi e dei morti. Che Natale, simbolo per noi cristiani del mondo salvato dal Verbo che si è fatto uomo, che si è fatto bambino, sia per voi tutti fonte di gioia. Vi auguro tanta felicità.
«P.S.: Forse è stato indelicato da parte mia scrivervi in occasione dei compleanni di Sophie e Jérôme. Prima di prendere in mano la penna avevo pregato, come oggi, e quelle parole mi sono state dettate da uno slancio del cuore, in comunione con Florence, Caroline e Antoine».
«Grazie di averci augurato tanta felicità. Ce ne basterebbe anche poca» si è sforzato di rispondere Luc, solo perché era Natale. Il loro scambio epistolare si è interrotto lì.
Quell’anno e i due successivi sono stati segnati dal lutto e dalla preparazione al processo. I Ladmiral vivevano come chi ha rischiato di morire in un terremoto e non può più fare un passo senza provare ansia. Si dice «terraferma», ma si sa bene che è solo un’illusione. Non c’è più nulla di fermo, nulla di affidabile. È dovuto passare molto tempo prima che riuscissero a fidarsi ancora di qualcuno. I bambini, come molti loro amici, sono stati seguiti da una psicologa, la stessa che aveva telefonato subito dopo la morte di Florence per chiederle di aiutarla a organizzare la messa. Sophie si sentiva in colpa: se fosse stata a casa loro, forse la sua presenza avrebbe fermato il padrino. Cécile invece pensava che Jean-Claude avrebbe ucciso anche lei e ringraziava il cielo che sua figlia non avesse trascorso quella notte, come tante altre, dai Romand. A volte scoppiava in singhiozzi all’improvviso, magari trovando una cartolina dei Romand infilata tra le pagine di un libro. Non sopportava più l’idea di andare a ballare, una cosa che piaceva tanto a lei e a Florence. Quanto a Luc, era ossessionato dal pensiero di dover testimoniare. È stato convocato due volte a Bourg-en-Bresse dal giudice istruttore. Sulle prime il magistrato gli è parso glaciale, poi a poco a poco la tensione è diminuita e Luc ha cercato di fargli capire che a posteriori era facile considerare Romand come un mostro e i suoi amici come un branco di provincialotti borghesi, ridicoli e ingenui, ma prima era tutto diverso. «Sembra una stupidaggine, ma mi creda, era un tipo profondamente gentile. Questo non cambia certo ciò che ha fatto, anzi lo rende ancora più terribile, ma era gentile». Nonostante la durata degli interrogatori, otto e dieci ore, è uscito attanagliato dall’angoscia di aver trascurato l’essenziale. Ha cominciato a svegliarsi di notte per annotarsi i ricordi che gli tornavano in mente: un viaggio in Italia con Jean-Claude quando avevano diciotto anni, una conversazione davanti a un barbecue, un sogno che a pensarci ora gli sembrava premonitore... L’assillo di elaborare un racconto completo e coerente, da esporre alla sbarra, l’ha portato pian piano a rileggere la sua intera vita alla luce di quell’amicizia, che, sprofondando in un baratro, aveva rischiato di trascinare con sé tutto ciò in cui lui credeva.
La sua testimonianza è stata criticata, e lui ne ha sofferto. Alcuni giornalisti sono arrivati al punto di compatire l’imputato per aver avuto come migliore amico quel tipo così pieno di sé, ottuso e moralista. Ho capito solo in seguito che aveva sgobbato come per l’orale di un esame – l’esame più importante della sua vita, perché era proprio la sua vita che andava a giustificare. Ovvio che fosse rigido.
Adesso il peggio è passato. L’uomo che sono andato a trovare dopo il processo è convinto che lui e i suoi «si siano lasciati alle spalle le macerie fumanti». Resta qualche traccia, a volte il passo vacilla, ma hanno ritrovato la terraferma. Mentre stavamo parlando, Sophie è tornata da scuola e lui ha continuato in sua presenza, senza abbassare la voce, a parlare dell’uomo che era stato il suo padrino. Sophie aveva dodici anni, e ci ascoltava con aria attenta e grave. È anche intervenuta per precisare alcuni particolari; io ho pensato che fosse una grande vittoria per quella famiglia riuscire a parlarne liberamente.
In certi giorni di grazia Luc riesce a pregare per il detenuto, ma non riesce né a scrivergli né ad andarlo a trovare. È una questione di sopravvivenza. Ritiene che Romand abbia «scelto l’inferno in terra». Come cristiano questo lo turba profondamente, ma il cristianesimo, afferma, lascia spazio al mistero. Luc non può che inchinarsi, e accettare di non capire tutto.
È stato eletto presidente del consiglio scolastico della Saint-Vincent.
I sacchi di plastica grigia continuano a perseguitarlo in sogno.
La donna che durante la seconda crisi, mentre l’imputato descriveva la morte dei bambini, si è precipitata verso di lui gridando più volte il suo nome si chiama Marie-France. Fa volontariato nelle carceri, gli ha fatto visita per la prima volta a Lione, poco dopo che era uscito dal coma, e ha continuato poi ad andare a trovarlo ogni settimana a Bourg-en-Bresse. È stata lei a regalargli La settimana bianca. Lì per lì sembra una donnetta banale, vestita di blu, prossima alla sessantina. Ma osservandola meglio si resta colpiti, ha un che di ardente e di sereno al tempo stesso, capace di metterti subito a tuo agio. Il mio progetto di scrivere la storia di Jean-Claude ha destato in lei una fiducia che mi ha sorpreso, e che non ero sicuro di meritare.
Nella fase del processo in cui Romand descriveva gli omicidi, lei non aveva smesso di pensare a quell’altra prova, altrettanto terribile per lui, che erano state le ricostruzioni, nel dicembre del 1994. Marie-France aveva temuto che non sopravvivesse. A Prévessin, del resto, lui si era rifiutato di scendere dalla camionetta della polizia. Alla fine era entrato in casa, ed era anche salito al primo piano. Quando stava per varcare la porta della sua camera, aveva pensato che sarebbe accaduto qualcosa di soprannaturale: magari sarebbe stato fulminato sul posto. Non è riuscito a ripetere i gesti descritti nelle sue dichiarazioni. Un agente si è steso sul letto e un altro, armato di un mattarello, ha finto di colpirlo in diverse posizioni. Lui suggeriva e correggeva, come un regista. Avevo visto le fotografie di quelle ricostruzioni: erano insieme sinistre e grottesche. Poi si sono spostati nella camera dei bambini. Lì, su quel che restava dei letti, avevano posato due piccoli manichini con indosso dei pigiami comprati per l’occasione, le cui fatture figurano nel fascicolo dell’istruttoria. Il giudice gli ha chiesto di imbracciare la carabina ma lui non ce l’ha fatta: è svenuto. Il resto della giornata lo ha trascorso seduto su una poltrona al pianterreno, mentre un poliziotto recitava la sua parte. Il primo piano era stato devastato dall’incendio, ma il salotto era esattamente come l’aveva trovato la domenica mattina tornando da Parigi. C’erano perfino i disegni dei bambini e le coroncine dell’Epifania. Il giudice ha dato l’ordine di mettere i sigilli alla cassetta inserita nel videoregistratore e a quella della segreteria telefonica, che qualche giorno dopo gli ha fatto ascoltare. È stato allora che la folgore gli è caduta addosso. Il primo messaggio risaliva all’estate precedente. La voce di Florence, piena di allegria e tenerezza, diceva: «Ehilà, siamo noi, siamo arrivati, aspettiamo che tu ci raggiunga, sii prudente lungo la strada, ti vogliamo bene». E Antoine dietro di lei: «Bacioni, papà, ti voglio tanto bene, tanto, tanto, tanto, vieni presto». Il giudice che lo guardava ascoltare, ascoltando a sua volta, si è messo a piangere. E lui, da quel momento, non ha più smesso di sentire il messaggio. Continuava a ripetere quelle parole che gli dilaniavano il cuore e insieme lo consolavano. Sono arrivati. Mi aspettano. Mi vogliono bene. Devo essere prudente lungo la strada che mi porta da loro.
Poiché Marie-France aveva ottenuto l’autorizzazione di vederlo fra un’udienza e l’altra, le ho chiesto se era al corrente della storia a cui aveva fatto cenno il suo avvocato: il primo giorno del processo diceva di essersi ricordato, grazie a una sorta di illuminazione, il vero motivo per cui aveva saltato l’esame.
«Ma certo! Abad non ha voluto che ne parlasse perché non figurava nel fascicolo delle indagini preliminari e secondo lui avrebbe creato confusione nei giurati. Secondo me ha sbagliato, era importante che lo sapessero. La mattina dell’esame, mentre usciva per andare all’università, Jean-Claude ha trovato una lettera nella cassetta della posta. Gliel’aveva scritta una ragazza che era innamorata di lui, e che lui aveva respinto perché amava Florence. Gli diceva che quando avrebbe aperto quella lettera lei sarebbe stata già morta. Si era suicidata. È per questo, perché si è sentito terribilmente in colpa per la sua morte, che non si è presentato all’esame. È così che è cominciato tutto».
Ero sbigottito.
«Aspetti un momento. Non crederà a questa storia?».
Marie-France mi ha guardato con stupore.
«Perché mai dovrebbe mentire?».
«Non lo so. Anzi lo so benissimo. Perché mente sempre. È il suo modo di essere, non può fare altrimenti, e penso che lo faccia più per ingannare se stesso che per ingannare gli altri. Se questa storia è vera, dovrebbe essere possibile verificarla. Magari non si potrà appurare se la ragazza si è suicidata per amor suo, ma almeno si potrà verificare se una ragazza che lui conosceva si è suicidata in quei giorni. Basterebbe che ne facesse il nome».
«Non vuole. È una forma di rispetto verso la sua famiglia».
«Ovvio. Non vuole nemmeno dire chi era il ricercatore da cui comprava le capsule contro il cancro. Guardi, contrariamente a lei, credo che Abad abbia fatto benissimo a consigliargli di tenersi per sé questa storia».
La mia incredulità ha turbato Marie-France. Incapace com’era di mentire, non le era neppure passato per la testa che quella storia senza capo né coda potesse essere un’invenzione.
Abad, che l’aveva citata come testimone della difesa, contava su di lei per correggere l’impressione che senz’altro avrebbe suscitato la testimone precedente, chiamata dall’accusa: cosa non avrebbe dato, ha ammesso con un sospiro di stanchezza, per non essere lì durante quella deposizione.
La signora Milo, una biondina non più giovanissima ma ancora attraente, era la maestra che aveva avuto la relazione giudicata scandalosa con il direttore della Saint-Vincent. Ha iniziato rievocando i «momenti difficili» vissuti da loro due e il sostegno che avevano ricevuto dai Romand. Qualche mese dopo la tragedia, l’ex direttore ha ricevuto dal carcere di Bourg-en-Bresse una lettera, una vera e propria richiesta d’aiuto. Gliel’ha fatta leggere, e lei si è commossa. Poi la relazione è finita: lui è andato a dirigere una scuola nel Sud della Francia, e lei ha cominciato a scrivere al detenuto. La signora Milo era stata la maestra di Antoine. La morte del piccolo aveva profondamente traumatizzato tutta la classe: gli allievi ne parlavano di continuo, spesso le ore di scuola si trasformavano in terapia di gruppo. Un giorno la maestra ha chiesto ai bambini, che erano all’ultimo anno di asilo, di fare insieme un bel disegno «per dare coraggio a una persona in difficoltà» e, senza specificare che quella persona in difficoltà era il padre e l’assassino di Antoine, gliel’ha spedito a nome di tutti. Qualche tempo dopo ha letto in classe la risposta di Romand, che li ringraziava calorosamente.
A quel punto Abad ha chinato il capo sulle carte, mentre il sostituto procuratore scuoteva la testa con aria pensosa. Avvertendo il disagio, la signora Milo si è zittita. C’è voluto un intervento della presidente per farla proseguire:
«Lei è andata a trovare Jean-Claude Romand in carcere e ha allacciato una relazione amorosa con lui».
«Addirittura...».
«Le guardie riferiscono di “baci appassionati” in parlatorio».
«Addirittura...».
«Tra la posta sequestrata al detenuto figura questa poesia, che le ha spedito Jean-Claude Romand:
«Volevo scriverti
“qualcosa”
una dolce parola di pace
che nell’invisibile giace,
“qualcosa”
di piacevole
di gradevole
“qualcosa”
che possa calmare
che possa stregare
“qualcosa”
che renda fiduciosi
anche in luoghi silenziosi.
E allora ti dico col cuore
“soltanto amore”».
Nel silenzio costernato che ha accolto questa lettura (raramente mi è capitato di vivere una situazione altrettanto imbarazzante, e ritrovo intatto quell’imbarazzo mentre trascrivo i miei appunti) la testimone ha balbettato che per lei era acqua passata, che adesso aveva un altro compagno e non vedeva più Jean-Claude Romand. Credevamo che il supplizio fosse finito, ma oltre alla poesia lui le aveva spedito anche una lettera, in cui citava alcuni brani tratti da un romanzo di Camus, La caduta, che gli pareva esprimessero bene i suoi pensieri. Il sostituto procuratore si è messo a leggere:
«Se avessi potuto suicidarmi e poi vedere le loro facce, allora sì che il gioco sarebbe valso la candela. Solo la morte convince gli uomini delle ragioni, della sincerità e della profondità del dolore altrui. Finché sei vivo il tuo caso rimane dubbio, da loro puoi aspettarti solo scetticismo. Allora, se uno fosse sicuro di potersi godere lo spettacolo, varrebbe la pena di provare loro ciò che non vogliono credere e di stupirli. Invece ti uccidi e non ha alcuna importanza se ti credono o no: non sei lì a raccogliere il loro stupore e la loro contrizione, peraltro fugace, ad assistere al tuo funerale, insomma, che è poi il sogno di tutti...».
Aveva copiato otto lunghe pagine dello stesso genere, che il sostituto procuratore ci ha propinato tutto soddisfatto, prima di chiudere quel florilegio con un brano che equivaleva a una professione di fede: «Non dovrà assolutamente credere agli amici quando le domanderanno di essere sincero con loro. Se si trovasse in una situazione simile, non abbia esitazioni: prometta schiettezza e menta meglio che può».
L’imputato ha cercato di spiegarsi:
«Tutto questo si riferisce alla mia vita precedente... Adesso so che non è così, che soltanto la verità rende liberi...».
L’effetto, come prevedeva Abad, è stato devastante. Venendo subito dopo, la povera Marie-France non aveva la minima possibilità. Ha cominciato col raccontare in modo toccante i suoi primi colloqui con il detenuto. «Quando gli stringevo la mano avevo l’impressione di stringere la mano di un morto, tanto era fredda. Desiderava solo morire, non ho mai visto una persona così triste... Ogni volta che lo lasciavo ero convinta che non l’avrei rivisto al colloquio successivo. E poi un giorno, nel maggio del ’93, mi ha detto: “Marie-France, mi condanno a vivere. Ho deciso di accettare questa sofferenza per la famiglia di Florence, per i miei amici”. E da quel momento tutto è cambiato...». Da quel momento, però, la sua testimonianza è stata molto meno convincente. A tutti tornava in mente la poesiola, l’aberrante idillio con l’ex maestra di Antoine, e questo rendeva ridicole le parole pie sul «perdono che non può aspettarsi dagli altri perché nemmeno lui riesce a perdonare se stesso». Senza rendersene conto, Marie-France ha finito col presentare Jean-Claude come una persona meravigliosa, da cui gli altri detenuti in carcere andavano per ricaricarsi, recuperare gioia di vivere e ottimismo: un raggio di sole. Il sostituto procuratore ascoltava la testimone della difesa con il sorriso di un gatto che digerisce la preda, e Abad era letteralmente scomparso nella toga.
Era la penultima sera del processo, mancavano solo la requisitoria e le arringhe. Ho cenato con un gruppo di giornalisti, tra i quali una veterana di «Libération», Catherine Erhel, che la testimonianza di Marie-France aveva mandato in bestia. Secondo lei, il suo buonismo, oltre che ridicolo, era irresponsabile e addirittura criminale. Romand era una carogna della peggior specie: molle e sentimentale come la sua poesia. Comunque, visto che la pena di morte non esisteva più, sarebbe rimasto per venti o trent’anni in galera, e quindi era necessario interrogarsi sull’evoluzione del suo quadro psichico. L’unica cosa positiva che potesse capitargli da quel punto di vista era di prendere sul serio coscienza dei suoi crimini e, anziché piagnucolare, precipitare sul serio nella grave depressione che aveva fatto in modo di evitare per tutta la vita. Solo a quel prezzo, forse, sarebbe riuscito un giorno ad accedere a qualcosa che non fosse una menzogna, o l’ennesima fuga dalla realtà. Viceversa, la cosa peggiore che potesse capitargli era che una baciapile come Marie-France gli servisse su un piatto d’argento un nuovo personaggio da interpretare, quello del grande peccatore che espia recitando il rosario. Per degli imbecilli del genere Catherine sarebbe stata favorevole a ristabilire la pena capitale, e mi ha detto senza mezzi termini che tra gli imbecilli includeva anche me. «Chissà com’è contento che tu scriva un libro su di lui. Non ha sognato altro per tutta la vita. In fondo ha fatto bene a uccidere l’intera famiglia, finalmente tutti i suoi desideri si realizzano. La gente parla di lui, appare in televisione, uscirà la sua biografia e per la pratica di canonizzazione è già sulla buona strada. È quel che si dice venirne fuori alla grande. Percorso netto. Tanto di cappello».
«Vi parleranno di compassione. Quanto a me, la riservo alle vittime». È iniziata così la requisitoria del pubblico ministero, che è durata quattro ore. L’imputato è stato descritto come un individuo perverso e machiavellico, capace di «prendere una falsa identità, come altri prendono i voti» e di godersi appieno il successo della propria impostura. Dal momento che i fatti non lasciavano alcun margine al dubbio, la questione attorno alla quale si sono azzuffate l’accusa e la difesa è stata se l’imputato avesse avuto davvero intenzione di suicidarsi. Dopo aver riletto, con voce atona, l’insostenibile racconto dell’assassinio dei bambini, il sostituto procuratore è esploso in un teatrale: «Insomma! È inaudito! Quale può essere la reazione di un padre dopo un’azione simile, se non quella di rivolgere l’arma contro di sé? Ma lui no: lui la ripone, esce a comprare i giornali, la giornalaia lo trova calmo e cortese, e ancora oggi si ricorda di non aver comprato “L’Équipe”! E anche dopo aver ucciso i suoi genitori non ha la minima fretta di raggiungerli all’altro mondo: continua ad aspettare, a concedersi proroghe, forse confidando in uno di quei famosi miracoli che finora l’hanno sempre salvato! Quando lascia Corinne torna a casa e fa passare una ventina di ore. Con quale speranza? Che lei lo denunci? Che qualcuno scopra i corpi a Clairvaux? Che la polizia venga a prenderlo prima del gesto fatale? Alla fine si decide ad appiccare il fuoco, ma guarda caso sono le quattro del mattino, proprio l’ora in cui passano i netturbini. Comincia dalla soffitta, in modo che le fiamme si vedano subito, e da lontano. Aspetta che arrivino i pompieri per inghiottire una manciata di pillole scadute da dieci anni. E per finire, casomai cincischiassero convinti che in casa non ci sia nessuno, segnala la sua presenza aprendo la finestra. Gli psichiatri parlano di comportamento “ordalico”, intendendo con ciò che ha messo la propria sorte nelle mani del destino. Benissimo. La morte non ne ha voluto sapere di lui. Uscito dal coma, intraprende forse spontaneamente la dolorosa via dell’espiazione che ci viene raccontata dalle anime belle? Nient’affatto. Nega ogni cosa, s’inventa la storia del misterioso uomo vestito di nero che avrebbe sterminato la sua famiglia sotto i suoi stessi occhi!». Nella foga, basandosi sul fatto che accanto al letto dell’imputato era stata trovata una raccolta di enigmi polizieschi sul tema della camera chiusa, il sostituto procuratore è arrivato al punto di immaginare un piano diabolico, messo in atto con lucidità, con lo scopo non soltanto di sopravvivere, ma di farsi dichiarare innocente. Per Abad non è stato certo difficile dimostrare quanto sarebbe stato raffazzonato quel piano diabolico. Nella sua arringa, veemente quanto la requisitoria era stata caustica, ha puntato soprattutto su questo argomento: Romand era accusato di omicidio plurimo e truffa, perché incolparlo anche di non essersi suicidato? Dal punto di vista giuridico il ragionamento era ineccepibile. Ciò non toglie che dal punto di vista umano era esattamente quello che gli veniva rimproverato.
Le ultime parole di un processo, prima che la Corte si ritiri per deliberare, spettano all’imputato. Era chiaro che Romand si era preparato il discorso, e l’ha pronunciato senza commettere errori, con voce rotta più volte dalla commozione:
«So bene che a me s’impone il silenzio. Capisco che le mie parole e la mia stessa sopravvivenza rendono le mie azioni ancor più mostruose. Non ho voluto sottrarmi al giudizio né al castigo, e credo che questa sia la mia ultima occasione per parlare a coloro che soffrono per colpa mia. Per quanto vane siano le mie parole, devo pronunciarle. Devo dire che la loro sofferenza è con me giorno e notte. So che mi rifiutano il perdono, ma invoco il loro perdono in memoria di Florence. Forse lo otterrò soltanto dopo la morte. Voglio dire alla mamma di Florence, e ai suoi fratelli, che la caduta del marito, del padre, è stata accidentale. Non chiedo loro di credermi, visto che non ho prove, ma lo dico davanti a Florence e davanti a Dio perché so che un delitto inconfessato non riceverà perdono. A tutti loro chiedo perdono.
«Ora vorrei parlare a te, mia cara Flo, a te, mia piccola Caro, al mio Titou, al mio Papà, alla mia Mamma. Voi siete qui, nel mio cuore, ed è la vostra presenza invisibile che mi dà la forza di parlarvi. Voi sapete tutto, e se qualcuno può perdonarmi quelli siete voi. Vi chiedo perdono. Perdono perché ho distrutto le vostre vite, perdono perché non vi ho mai detto la verità. Eppure, cara Flo, sono sicuro che la tua intelligenza, la tua bontà e la tua misericordia avrebbero potuto perdonarmi. Vi chiedo perdono perché non ho sopportato l’idea di farvi soffrire. Sapevo che non avrei potuto vivere senza di voi, ma oggi sono ancora vivo e vi prometto di provare a vivere finché Dio lo vorrà, a meno che chi soffre per colpa mia non mi chieda di morire per attenuare il suo dolore. So che voi mi aiuterete a trovare la via della verità e della vita. Ci siamo dati tanto, tantissimo amore. E in verità io continuerò ad amarvi. Chiedo perdono a chi riuscirà a perdonarmi. Lo chiedo anche a chi non ci riuscirà mai.
«Grazie, presidente».
Dopo cinque ore di Camera di consiglio, Jean-Claude Romand è stato condannato all’ergastolo, e per ventidue anni non potrà godere di alcun beneficio. Nella migliore delle ipotesi, quindi, non metterà piede fuori dal carcere prima del 2015, quando avrà sessantun anni.
Parigi, 21 novembre 1996
«Gentile Jean-Claude Romand,
«sono passati tre mesi da quando ho cominciato a scrivere. A differenza di quanto pensavo all’inizio, il problema per me non è reperire informazioni, ma trovare una mia collocazione rispetto alla sua storia. Quando mi sono messo al lavoro, credevo di poter eludere il problema cucendo insieme pezzo per pezzo tutto quello che sapevo e sforzandomi di restare obiettivo. Ma in una vicenda come questa l’obiettività è una mera illusione. Dovevo scegliere un punto di vista. Sono andato a casa del suo amico Luc, e gli ho chiesto di raccontarmi in che modo lui e la sua famiglia avessero vissuto i giorni successivi alla tragedia. Ho provato a scrivere identificandomi con lui, senza farmi troppi scrupoli perché mi aveva detto di non voler comparire nel libro con il suo vero nome. Ma presto mi sono reso conto che attenermi a quel punto di vista mi era impossibile (tecnicamente e moralmente, le due cose vanno di pari passo). Nella sua ultima lettera lei mi ha suggerito, tra il serio e il faceto, di adottare il punto di vista dei suoi cani. L’idea mi ha divertito, e mi ha fatto capire che anche lei è consapevole di questa difficoltà. Difficoltà che riguarda più lei che me, ovviamente, tanto da indurla a impegnarsi in un lavoro psichico e spirituale: la sua incapacità di accedere a se stesso, quel vuoto che ha continuato a dilatarsi prendendo il posto di colui che dentro di lei deve dire “io”. Non spetta certo a me dire “io” a nome suo, perciò non mi resta che dirlo a nome mio parlando di lei – ossia raccontare in prima persona, senza rifugiarmi dietro un testimone più o meno immaginario o un patchwork di informazioni diciamo così oggettive, quello che della sua storia mi riguarda e produce un’eco nella mia. Il fatto è che non ci riesco. Non trovo le frasi, quell’“io” suona falso. Ho deciso quindi di accantonare il lavoro finché non mi sentirò pronto. Mi dispiacerebbe però che questa temporanea defezione mettesse fine alla nostra corrispondenza. In realtà mi sembra più facile scriverle, e forse anche ascoltarla, ora che ho accantonato questo progetto in cui ciascuno di noi perseguiva un interesse immediato: adesso la parola dovrebbe essere più libera...».
Villefranche-sur-Saône, 10/12/’96
«Gentile Emmanuel Carrère,
«capisco il suo stato d’animo. Apprezzo la sincerità e il coraggio che la inducono ad accettare la delusione di un fallimento, dopo un lavoro considerevole, piuttosto che accontentarsi di un resoconto giornalistico che non sarebbe all’altezza dei suoi obiettivi.
«Se oggi ho ancora un po’ di forza, è perché so di non essere solo nella mia ricerca della verità, e mi sembra anche di cominciare a percepire quella voce interiore carica di senso che finora si è manifestata soltanto attraverso sintomi o azioni. Intuisco fino a che punto sia essenziale sentire dentro di me una parola che trovi conferma nell’ascolto di un altro e di ciò che produce un’eco in lui. Il fatto che lei non riesca a parlare della mia storia in prima persona mi sembra in parte legato alla difficoltà che ho io a parlare di me stesso in prima persona. Quand’anche riuscissi a ottenere questo risultato, sarà comunque troppo tardi, ed è terribile pensare che se a suo tempo avessi avuto accesso a quell’“io” e di conseguenza al “tu” e al “noi”, avrei potuto dire loro tutto quello che avevo da dire senza che la violenza rendesse impossibile ogni dialogo. Nonostante tutto, disperare sarebbe un ulteriore delitto, e credo anch’io che il tempo opererà una trasformazione, che darà un senso a ciò che è stato. Scrivendo queste parole penso a una frase di Claudel: “Il tempo è il senso della vita”, come si parla del senso di una parola, del senso di un fiume, del senso dell’odorato... Quando ne scopriremo il senso, questa terribile realtà si tramuterà in verità e forse sarà ben diversa da quella che davamo per scontata. Se sarà davvero la verità, porterà con sé il rimedio per le persone che coinvolge...».
Come gli avevo predetto senza esserne del tutto convinto, una volta accantonato il progetto del libro la nostra corrispondenza è diventata più facile. Romand ha cominciato a parlarmi del suo presente, della vita in prigione. Da Bourg-en-Bresse l’avevano trasferito al carcere di Villefranche-sur-Saône. Marie-France andava a trovarlo tutte le settimane, e anche un certo Bernard, un altro volontario. All’inizio temeva di subire le violenze riservate in carcere agli infanticidi, ma quasi subito uno dei boss lo ha riconosciuto e gli ha assicurato la sua protezione: un giorno, quando erano entrambi liberi, stava facendo l’autostop e Romand, oltre a dargli un passaggio, gli ha regalato una banconota da 200 franchi perché si pagasse un pasto decente. Quel gesto generoso ha cancellato l’orrore dei suoi delitti e lo ha reso popolare. Alain Carignon, il detenuto più famoso di Villefranche, l’ha invitato a fare jogging con lui. Quando arrivava un soggetto difficile lo mettevano nella sua cella, contando sulla sua influenza perché si calmasse. Jean-Claude si occupava della biblioteca, partecipava ai laboratori di scrittura, informatica e fumetti. Desideroso di impegnarsi in un lavoro di lungo respiro, si è messo a studiare il giapponese. E quando gli ho raccontato del lavoro di lungo respiro che stavo per intraprendere io, una nuova traduzione della Bibbia alla quale collaboravano esegeti e scrittori, si è subito appassionato. Visto che mi avevano affidato il Vangelo di Marco, lo leggeva con particolare fervore, confrontando le cinque traduzioni di cui disponeva la biblioteca, e mi ha subito informato che il prozio di Marie-France altri non era che padre Lagrange, il curatore della Bibbia di Gerusalemme. Il cappellano mi ha proposto di dirigere a Villefranche un laboratorio sull’argomento, ma prima che il progetto potesse andare in porto Romand è stato di nuovo trasferito.
Sono andato a trovarlo soltanto una volta. Ho affrontato quella visita con grande apprensione, e invece è andata bene, fin troppo. Nonostante il sollievo, ne sono uscito un po’ sconcertato. Che cosa mi aspettavo? Che avendo fatto quel che aveva fatto, ed essendo sopravvissuto, girasse con il capo coperto di cenere, si battesse il petto, si rotolasse per terra ogni due minuti lanciando urla da agonizzante? Dopo il processo era ingrassato e, a parte la tuta sformata che è l’uniforme dei detenuti, doveva assomigliare a quel che era stato l’affabile dottor Romand. Si capiva che era contento di vedermi e mi ha fatto gli onori del parlatorio, scusandosi perché era scomodo. Sorrideva un po’ troppo; anch’io. Non ci sono stati grandi silenzi né effusioni dostoevskiane. Abbiamo parlato del più e del meno, come due persone che si sono incontrate in vacanza – nel nostro caso alla Corte d’assise dell’Ain – e hanno scoperto di avere degli interessi in comune. Sul passato nemmeno una parola.
Nella lettera successiva, mi ha chiesto il nome della mia acqua di colonia.
«Le sembrerà una richiesta un po’ buffa, ma è un profumo che mi pare di conoscere e forse, identificandolo, mi torneranno in mente i ricordi legati a esso. Forse lei sa che Florence era affascinata dall’universo dei profumi: ci teneva moltissimo alla sua collezione di campioncini, che comprendeva centinaia di boccette raccolte fin dai tempi dell’adolescenza. Durante le ricostruzioni ho avuto modo di sperimentare, riconoscendo un profumo familiare, che esistono relazioni strettissime fra i centri nervosi dell’olfatto e quelli della memoria...».
Questa richiesta mi ha commosso, non solo per il suo tono semplice e amichevole, ma soprattutto perché era la prima volta in quasi tre anni che, invece di usare espressioni come «i miei» o «chi mi voleva bene» oppure «le persone a me care», aveva scritto il nome di sua moglie.