VERSO LA LIBERTÀ
Arthur Schnitzler
In copertina: Josef Hoffmann, Orologio, 1903-1904
Recensione
A me sono sembrati straordinariamente attuali alcuni aspetti della società asburgica che Arthur Schnitzler ha descritto nel suo grande romanzo pubblicato nel 1908, Der Weg ins Freie (Verso la libertà). Egli analizza acutamente una crisi che per certi aspetti stiamo vivendo in questi anni. Parlo del racconto di come quella borghesia liberale, in quanto incapace di comprendere le contraddizioni provocate dall’evoluzione dei tempi, bruciasse le sue ultime energie attraverso un processo di dissoluzione dei valori segnale tragico di una profonda e irreversibile crisi.
VERSO LA LIBERTÀ
1
Georg von Wergenthin quel giorno sedeva a tavola tutto solo. Felician, il fratello maggiore, per la prima volta dopo molto tempo aveva preferito pranzare di nuovo con gli amici. Ma Georg non provava ancora nessun desiderio speciale di rivedere Ralph Skelton, il conte Schönstein o gli altri giovani con cui di solito chiacchierava volentieri; per il momento non aveva bisogno di nessun genere di compagnia.
Il domestico sparecchiò e scomparve. Georg accese una sigaretta, poi si mise a passeggiare, secondo la sua abitudine, su e giù per la grande stanza a tre finestre, dal soffitto non molto alto, meravigliandosi di come l’ambiente, che per molte settimane gli era parso tetro, a poco a poco riprendesse l’antico aspetto ridente e piacevole. Involontariamente il suo sguardo si posò sulla sedia vuota a capotavola, su cui splendeva il sole di settembre, che si riversava nella stanza dalla finestra centrale aperta; e gli parve che fosse passata soltanto un’ora da quando aveva visto suo padre, morto da due mesi, seduto laggiù, tanto chiaro gli stava davanti agli occhi ogni gesto del morto, anche il più insignificante, il suo modo di posare la tazzina da caffè, di mettersi gli occhiali, di sfogliare un libro.
Georg pensava a uno degli ultimi colloqui con il padre, avvenuto in primavera avanzata, poco prima di traslocare nella villa sul lago di Veldes. Era appena tornato dalla Sicilia, dove aveva trascorso il mese di aprile con Grace, durante un viaggio di addio malinconico e un po’ noioso, prima del definitivo ritorno dell’amante in America. Erano almeno sei mesi che non lavorava seriamente: non aveva trascritto nemmeno il malinconico adagio udito a Palermo nel mugghio delle onde mentre in un burrascoso mattino passeggiava lungo la spiaggia. Stava suonando il tema a suo padre, improvvisandovi sopra con tale eccesso di ricchezza armonica da soffocare quasi la semplice melodia; e, proprio mentre era immerso in una variazione selvaggiamente modulata, il padre dall’altro capo del pianoforte aveva domandato con un sorriso: « Dove, dove corri? ». Georg, mortificato, aveva lasciato svanire l’onda dei suoni e allora, affettuoso come sempre, ma in tono più grave del solito, il padre aveva cominciato a discutere col figlio del suo avvenire; e questo discorso ora ritornava alla mente di Georg, come se fosse stato carico di presagi.
Andò alla finestra e guardò fuori. Il parco laggiù era quasi vuoto. Su una panchina sedeva una vecchia che aveva sulle spalle una mantella di foggia antica, adorna di perline nere. Passò una bambinaia che teneva un ragazzo per mano; un altro più piccolo, vestito da ussaro, con la spada e la pistola alla cintura, li precedette correndo, guardando fieramente intorno a sé, e salutò militarmente un invalido che se ne veniva avanti fumando. Nell’interno del giardino, intorno al chiosco, la gente, peraltro non numerosa, prendeva il caffè e leggeva il giornale. Il fogliame era ancora fitto e il parco aveva un aspetto triste, polveroso e, nell’insieme, assai estivo per una giornata di settembre avanzato. Georg appoggiò i gomiti al davanzale, si sporse in fuori e guardò il cielo. Dalla morte di suo padre non aveva lasciato Vienna malgrado le molte occasioni che gli si erano presentate. Avrebbe potuto andare con Felician a Schönstein: la signora Ehrenberg l’aveva invitato ad Auhof con una gentile lettera; e avrebbe trovato facilmente un compagno per un giro in bicicletta, nella Carinzia o nel Tirolo, che progettava da tempo e al quale non si decideva mai. Ma non si muoveva da Vienna e passava il tempo a riordinare e rivedere le vecchie carte di famiglia. Trovò documenti che risalivano fino al suo bisnonno, Anastasius von Wergenthin, che era originario del Reno e che grazie al matrimonio con una certa signorina Recco era venuto in possesso di un castelletto vicino a Bolzano, da tempo inabitabile. C’erano anche documenti che raccontavano la storia di suo nonno, colonnello di artiglieria, che nel 1866 era caduto nella battaglia di Chlum. Il figlio di costui, padre di Felician e di Georg, si era dedicato agli studi scientifici, in particolare di botanica, e si era laureato in filosofia a Innsbruck. A ventiquattro anni aveva conosciuto una ragazza proveniente da una famiglia di vecchi funzionari austriaci, che aveva studiato canto, forse più per sfuggire alle condizioni ristrette e meschine della sua famiglia che per vera e propria vocazione. Il barone von Wergenthin la vide e la udì per la prima volta d’inverno durante un concerto in cui si eseguiva la Missa solemnis, e nel maggio successivo la sposò. Nel secondo anno di matrimonio nacque Felician, nel terzo Georg. Tre anni dopo la baronessa si ammalò e i dottori la mandarono nel sud. Poiché la guarigione si faceva attendere, la casa a Vienna fu chiusa, cosicché il barone e i suoi dovettero condurre per molti anni una specie di errabonda vita d’albergo. Gli studi e gli affari richiamavano a volte il padre a Vienna, ma i figli non abbandonavano quasi mai la madre. Vivevano in Sicilia, a Roma, a Tunisi, a Corfú, ad Atene, a Malta, a Merano, in Riviera, infine a Firenze; senza grandi beni, ma col decoro appropriato al loro grado, e senza fare grandi economie, cosicché buona parte del patrimonio baronale fu consumata a poco a poco.
Georg aveva diciotto anni quando sua madre morì. Da allora erano passati nove anni, ma era sempre vivo in lui il ricordo di quella sera di primavera, in cui per caso il padre e il fratello erano usciti e si era trovato solo al capezzale della madre morente, senza poterle prestare aiuto, mentre dalle finestre aperte in fretta entravano, con l’aria di primavera, le risate e le voci della gente che passeggiava fuori, brutalmente sonore.
Tornarono a Vienna con la salma della madre. Il barone si dedicò ai suoi studi con uno zelo nuovo e disperato. Prima non lo si era considerato che un dilettante aristocratico, adesso si cominciava a prenderlo sul serio anche nei circoli accademici, e quando fu eletto presidente onorario della Società Botanica non fu soltanto per il suo titolo nobiliare. Felician e Georg si iscrissero come uditori alla facoltà di giurisprudenza. Ma fu il padre stesso che dopo un po’ di tempo permise al figlio minore di lasciare gli studi universitari per continuare a studiare musica, assecondando la sua vocazione, cosa che Georg accettò con gratitudine e sollievo. Ma anche in questo campo, che aveva liberamente scelto, non mostrava molta tenacia, e a volte si occupava per settimane intere di cose molto lontane da quelli che avrebbero dovuto essere i suoi unici interessi.
E appunto seguendo quella sua tendenza a giocare e distrarsi, sfogliava ora quelle vecchie carte di famiglia con profonda serietà, come se si trattasse di indagare importanti misteri del passato. Commosso, trascorse ore sulle lettere che i suoi genitori si erano scambiati in tempi lontani, lettere nostalgiche e frettolose, tristi e serene, in cui rivivevano non solo gli scomparsi, ma anche altre persone già quasi dimenticate. Ecco apparire il maestro tedesco con la fronte triste e pallida, che durante le lunghe passeggiate gli recitava Orazio; ricompariva il bruno e selvatico viso infantile del principe Alessandro di Macedonia, in compagnia del quale Georg aveva preso a Roma le prime lezioni di equitazione; e come in sogno, disegnata a linee nere sull’azzurro pallido del cielo, emergeva la piramide di Caio Cestio, così come Georg l’aveva vista nell’ombra del crepuscolo tornando dalla sua prima cavalcata nella campagna.1 E continuando così a sognare, affioravano alla sua mente spiagge marine, giardini, strade, di cui non sapeva più da quale paesaggio, da quale città provenissero; gli fluttuavano davanti figure, alcune chiarissime, che pure non aveva incontrato che per un’ora fugace, altre, alle quali forse era stato insieme parecchi giorni, simili a ombre lontane. Esaminate quelle vecchie lettere, Georg volle riordinare anche le proprie carte; e trovò in una vecchia cartella verde alcuni schizzi musicali di quand’era ragazzo, di cui aveva dimenticato l’esistenza al punto che gli si sarebbe potuto benissimo far credere che erano schizzi di un altro. Alcuni di essi lo sorpresero e nello stesso tempo lo immalinconirono piacevolmente, poiché gli sembrava che contenessero quasi delle promesse che forse non avrebbe mai mantenuto. Eppure sentiva, specialmente negli ultimi tempi, che qualcosa di nuovo maturava in lui. Pareva una linea misteriosa, ma sicura, che da quei primi promettenti schizzi nella cartella verde indicava la via verso nuove creazioni; e di questo era certo: i due Lieder dal Divano occidentale-orientale di Goethe, che aveva composto nell’estate, in un afoso pomeriggio, mentre Felician si dondolava sull’amaca e suo padre lavorava al fresco della terrazza, seduto sulla sua sedia a schienale alto, quei due Lieder non avrebbe potuto scriverli chiunque.
Georg si allontanò un poco dalla finestra, come colpito da un’idea del tutto inaspettata. Non si era mai accorto con tanta chiarezza che la sua esistenza era stata come in sospeso, dalla morte di suo padre a oggi. Ad Anna Rosner, cui aveva mandato il manoscritto di quei Lieder, non aveva più pensato un solo istante. E al pensiero di poter di nuovo udire la sua voce armoniosa e profonda, di poterla di nuovo accompagnare su quel pianoforte dal suono un po’ sordo, provò una dolce emozione. E si ricordò della vecchia casa nella Paulanergasse, del portone basso, della scala male illuminata, che non aveva salito più di tre o quattro volte, così come si pensa ad una casa conosciuta da molto tempo e divenuta ormai cara.
Un vento sottile agitò le foglie nel parco di fronte. Sulla punta del campanile di Santo Stefano, che era di fronte alla finestra, al di là del parco e di buona parte della città, apparvero nuvole sottili. Georg aveva a sua disposizione un lungo pomeriggio, libero da ogni impegno. Gli pareva che durante i due mesi di lutto si fossero rotte o per lo meno allentate tutte le vecchie relazioni.
Pensava all’inverno e alla primavera trascorsi, con i molti e complessi avvenimenti; e i ricordi gli si affollarono alla mente, con l’evidenza di immagini reali; la gita con la signora Marianne in fiacrechiuso, nella foresta bianca di neve; il ballo mascherato dagli Ehrenberg, con le profonde e infantili osservazioni di Else su Hedda Gabler, cui pretendeva di sentirsi affine; il fugace bacio di Sissy sotto i pizzi neri della maschera. Un’escursione in montagna, sotto la neve, dall’Edlach fin sulla cima della Rax, col conte Schönstein e Oskar Ehrenberg, il canale, senza avere speciali attitudini alpinistiche, aveva approfittato volentieri dell’occasione per accompagnarsi a due aristocratici. La serata dai Ronacher con Grace e il giovane Labinski, che s’era suicidato quattro giorni dopo, non si era mai saputo bene se a causa di Grace, per debiti, per tedium vitae, o infine, per posa. Lo strano colloquio, freddo e ardente, con Grace, al cimitero, nella neve di febbraio che già cominciava a sciogliersi, due giorni dopo il funerale di Labinski. La serata nella sala di scherma surriscaldata, dalle alte volte, dove la spada di Felician s’era incrociata con la pericolosa arma del maestro italiano. La passeggiata notturna, dopo il concerto di Paderewski, durante la quale il padre gli aveva parlato con insolito abbandono di quella sera lontana in cui sua madre aveva cantato la Missa solemnis in quella stessa sala. E finalmente gli apparve la figura alta e tranquilla di Anna Rosner, appoggiata al pianoforte, un foglio di musica in mano, gli occhi azzurri e sorridenti fissi sulla tastiera; e sentì perfino la sua voce risuonargli nell’animo.
Mentre se ne stava così alla finestra e guardava giù nel parco che si andava pian piano animando, pensò con un grande senso di pace al privilegio di non essere veramente legato a nessun essere vivente, benché vi fossero parecchie persone con cui poteva di nuovo allacciare una relazione, nella cui cerchia avrebbe potuto di nuovo entrare non appena l’avesse voluto. Nello stesso tempo si sentì straordinariamente riposato, pronto per il lavoro e la felicità come non era stato mai. Era pieno di buoni e audaci propositi, lietamente conscio della sua giovinezza e indipendenza. Si accorse con una certa vergogna che il dolore per la morte di suo padre era molto diminuito, almeno per il momento; ma trovò conforto alla sua indifferenza pensando alla fine serena che era toccata a quel caro uomo. Mentre passeggiava su e giù per il giardino chiacchierando con i due figli, ad un tratto aveva guardato intorno a sé, come se avesse udito voci lontane, aveva alzato gli occhi al cielo e improvvisamente, senza un gemito di dolore, senza un sussulto delle labbra era caduto sul prato, morto.
Georg si allontanò dalla finestra, prese il cappello e uscì. La sua intenzione era di andarsene a passeggio per un paio d’ore, dove l’avrebbe condotto il caso, e di rimettersi a lavorare la sera al suo quintetto, per cui si sentiva di nuovo pieno d’ispirazione. Attraversò la strada ed entrò nel parco. Il caldo era cessato, la vecchia con la mantella era ancora seduta sulla panchina guardando davanti a sé. Sulla rotonda sabbiosa circondata dagli alberi giocavano dei bambini. Intorno al chiosco tutte le sedie erano occupate.
Nel casotto meteorologico c’era un signore dal volto rasato che Georg conosceva di vista, e che lo aveva colpito per la sua somiglianza con Grillparzer. Vicino allo stagno incontrò una governante con due bambini ben vestiti che lo osservò con uno sguardo luminoso. Uscendo dal parco sulla Ringstrasse s’imbatté in Willy Eißler, vestito di un soprabito a righe scure da mezza stagione.
« Buongiorno, barone, » gli disse Willy « anche lei è tornato a Vienna? ».
« Sono tornato da un pezzo » rispose Georg. « Dopo la morte di mio padre non ho più lasciato Vienna ».
« Ah, sì, naturalmente... Permetta che le rinnovi ancora... » e Willy gli strinse la mano.
« E che cosa ha fatto lei quest’estate? » domandò Georg.
« Un po’ di tutto. Ho giocato a tennis, ho dipinto, ho sprecato tempo, ho trascorso qualche ora di divertimento ma molte altre di noia... ». Willy parlava molto in fretta, con una leggera raucedine che pareva voluta, con accento marcato e forte, pieno di inflessioni ungheresi, francesi, viennesi ed ebree. « Del resto, » continuò « così come lei mi vede sono tornato stamattina presto da Przemysl ».
« Esercizi militari? ».
« Sì, gli ultimi. Lo dico con malinconia. Per quanto mi avvicini alla vecchiaia, mi piaceva ancora andarmene in giro con le mostrine gialle, con gli speroni e la spada tintinnanti, diffondendo una sensazione di pericolo imminente, per essere creduto un conte dalla gente meschina ».
E i due continuarono a passeggiare lungo la cancellata del parco.
« Sta forse andando dagli Ehrenberg? » domandò Willy.
« Non ne ho nessuna intenzione ».
« Dal momento che siamo sulla strada... A proposito, sa che la signorina Else è fidanzata?».
« Davvero? » disse Georg lentamente. « E con chi? ».
« Indovini, barone ».
« Forse col consigliere Wilt? ».
« Nemmeno per sogno! » esclamò Willy. « Lui se ne guarderebbe bene. Imparentarsi con S. Ehrenberg potrebbe anche compromettere la sua carriera ministeriale, oggi come oggi ».
« Il capitano Ladisc? » arrischiò di nuovo Georg.
« Beh, la signorina Else è troppo intelligente per mettersi proprio con lui ».
Georg allora si ricordò che Willy, un paio di anni prima, aveva avuto un duello con Ladisc. Willy sentì su di sé lo sguardo di Georg, si arricciò con dita un po’ nervose i baffi biondi e spioventi alla moda polacca, e disse in fretta, come per caso:
« L’aver avuto una volta un incidente col capitano Ladisc non mi può impedire di riconoscere onestamente che è sempre stato un sudicio ubriacone. Ho un’avversione insormontabile, che non si può spegnere nemmeno col sangue, per la gente che scrocca il pranzo in casa degli ebrei e appena fuori della porta comincia a inveire contro di loro. Aspettassero almeno fino al caffè! Ma non si affatichi più a indovinare: il fortunato è Heinrich Bermann ».
« Non è possibile! » esclamò Georg.
« Perché? » domandò Eißler. « Tanto qualcuno bisogna pure che sia. Bermann non è un adone, è vero, ma è sulla via della gloria; e quella combinazione di cavallerizzo e di atleta, nella sua forma più perfetta, che evidentemente la signorina Else sognava, è molto difficile da trovare. Intanto ha già ventiquattro anni, ne avrà fin sopra i capelli degli scherzi e della mancanza di tatto di Salomon... dunque... ».
« Salomon... Ah sì... Ehrenberg ».
« Anche lei lo conosce soltanto come S. Ehrenberg? S. naturalmente vuol dire Salomon, e che sulla targhetta della porta di casa ci sia soltanto S. è già una concessione che ha fatto ai suoi. Se dipendesse da lui, preferirebbe comparire ai ricevimenti di madame Ehrenberg in caffettano e con i riccioli ».
« Lei crede?... Ma è dunque così pio? ».
« Pio... beh! Tutto questo ha poco a che fare con la devozione. È soltanto malignità, soprattutto contro suo figlio Oskar, che ha tendenze aristocratiche ».
« Ho capito » disse Georg sorridendo. « Ma Oskar non è già battezzato da un pezzo? È ufficiale della riserva dei dragoni, no? ».
« Dio mio, se è per questo... Nemmeno io sono battezzato, eppure... c’è sempre qualche eccezione... Con un po’ di buona volontà!... ». Willy rise e continuò. « Per quanto riguarda Oskar, preferirebbe certo esser cattolico. Ma probabilmente pagherebbe per ora troppo caro il piacere di andare a confessarsi. Ci avrà pensato anche il testamento, a fare in modo che Oskar non salti il fosso ».
Erano giunti davanti al Café Imperiai. Willy si fermò.
« Ho un appuntamento con Demeter Stanzides ».
« Me lo saluti, per favore ».
« Grazie. Non viene a prendere un gelato? ».
« La ringrazio, ma voglio passeggiare ancora un po’ ».
« Le piace star solo? ».
« È difficile rispondere a domande di natura così generica » rispose Georg.
« Certo » disse Willy, divenuto improvvisamente serio e togliendosi il cappello. « Arrivederci ».
Georg gli strinse la mano. Sentiva che Willy era un uomo che difendeva continuamente una posizione, anche senza averne assoluto bisogno.
« Arrivederci » disse con improvvisa cordialità.
Gli pareva sempre strano che Willy fosse un ebreo. Già il vecchio Eißler, il padre di Willy, che componeva graziosi valzer viennesi e Lieder, che si occupava da esperto di collezioni d’arte e di antichità, e a volte ne faceva anche commercio, e che ai suoi tempi era stato il più famoso pugile di Vienna, con quella sua statura gigantesca, quella lunga barba grigia e quel monocolo sembrava piuttosto un magnate ungherese che un patriarca ebreo; ma le disposizioni naturali, la passione e la ferrea volontà avevano fatto di Willy la copia di un perfetto cavaliere. Ciò che peraltro lo distingueva da altri giovani del suo lignaggio e delle sue tendenze era l’abitudine che aveva preso di non nascondere mai le sue origini, di chiedere spiegazioni e soddisfazione per ogni sorriso ambiguo, e di ridere per primo di tutti i pregiudizi e le vanità di cui non riusciva ancora a liberarsi.
Georg continuò a vagabondare. Gli risuonava nella mente l’ultima domanda di Willy. Se amava la solitudine?... Si ricordava che a Palermo era solito passeggiare per intere mattinate, da solo, mentre Grace, secondo le sue abitudini, stava a letto fino a mezzogiorno. Grace... Dov’era, in questo momento? Da quando le aveva detto addio a Napoli, non s’era più fatta viva, come del resto era inteso fra di loro. Egli pensava a quella notte di un azzurro profondo sospesa sulle acque, quando dopo quell’addio era tornato da solo a Genova, e allo strano, sommesso, quasi fiabesco canto di due bambini che, stretti l’uno all’altro, avvolti nella stessa coperta, stavano seduti sul ponte accanto alla madre addormentata.
Con un crescente senso di benessere continuò a passeggiare tra la folla che gli passava accanto, trascinandosi con una specie di stanchezza domenicale. Qualche gentile sguardo di donna s’incontrò col suo quasi volesse consolarlo del suo vagabondare solitario, e coi segni esteriori del lutto sul vestito, in quel bel pomeriggio festivo. E allora un’altra immagine gli ritornò in mente. Si vide disteso sopra un prato in declivio, a tarda sera, dopo una calda giornata di luglio. Intorno, tenebre fitte. Giù in fondo, folla, risate, schiamazzi, lampioncini accesi. Vicino a lui, nel buio, voci di fanciulle... Accende la sua piccola pipa, che è solito fumare soltanto in campagna; alla luce del fiammifero vede due graziose ragazze di campagna, giovanissime, quasi bambine. Si mette a chiacchierare con loro, che hanno paura, perché è così buio; e si stringono a lui. All'improvviso, un crepitio di razzi su in alto. Laggiù un « Ah! » di stupore, luci di bengala violette e rosse sopra il lago invisibile in fondo. Le ragazze scompaiono giù per la collina. Poi si fa di nuovo buio, è di nuovo solo, guarda in alto verso quel gran buio che vuole piombargli addosso. Era la notte prima che suo padre morisse, e vi ripensava oggi per la prima volta.
Abbandonata la Ringstrasse, s’incamminò in direzione della Wiede. Chissà se i Rosner erano in casa, con una giornata tanto bella? Del resto la strada era così breve, e andava più volentieri da loro che non dagli Ehrenberg. Non provava nessun desiderio di rivedere Else, e gli era quasi indifferente che si fosse veramente fidanzata con Heinrich Bermann o no. La conosceva da molto tempo. Lei aveva undici anni, lui quattordici quando giocavano insieme a tennis in Riviera. Allora sembrava una piccola zingara: ciocche nero-azzurre le incorniciavano disordinatamente la fronte e le guance, ed era scatenata come un ragazzaccio. Suo fratello faceva già allora il lord, e Georg sorrideva ancora oggi ricordando come il quindicenne Oskar fosse comparso un giorno alla passeggiata con una giacca grigio chiaro, abbottonata fino al collo, i guanti bianchi orlati di nero e il monocolo. La signora Ehrenberg aveva allora trentaquattro anni, era maestosa, troppo alta di statura e tuttavia bella, con i suoi occhi velati, ed era sempre stanca. Georg non poteva dimenticare quella volta, quando suo marito, il ricchissimo fabbricante di munizioni, aveva sorpreso i suoi, mettendo fine, con la sua sola presenza, a tutta la signorilità ehrenberghese. Georg lo aveva ancora davanti a sé, così come era comparso sulla terrazza dell’albergo all’ora della prima colazione; era un piccolo signore magro con barba pepe e sale e occhi obliqui, con un vestito bianco di flanella mal stirato, sulla testa rotonda un cappello di paglia nera con un nastro a strisce bianche e rosse e le scarpe nere tutte impolverate. Parlava con accento molto strascicato, con un tono beffardo, anche se si trattava di cose senza importanza, e ogni volta che apriva bocca, un’ansia segreta traspariva sul volto della moglie, dietro l’espressione apparentemente tranquilla. Cercava di vendicarsi di lui trattandolo con scherno, ma non poteva rimediare alla sua mancanza di educazione. Oskar, per quanto gli era possibile, si comportava con lui come un estraneo. Nei suoi tratti c’era un disprezzo, peraltro non esplicito, per il genitore indegno di lui, e sorrideva al giovane barone, come per chiedergli comprensione. Soltanto Else a quei tempi era molto gentile col padre. Andando a passeggio lo prendeva volentieri sottobraccio, e a volte gli buttava le braccia al collo davanti a tutti.
Georg aveva rivisto Else a Firenze, un anno prima della morte di sua madre. A quell’epoca prendeva lezioni di disegno da un vecchio tedesco, dai capelli grigi e scarmigliati, che si diceva fosse stato famoso un tempo. Lui stesso spargeva la voce che quando aveva sentito declinare il suo genio, aveva rinunciato al suo nome originario, molto conosciuto, e abbandonato il luogo della sua attività, che non nominava mai. A sentir lui, la causa della sua decadenza sarebbe stata una donna che egli aveva sposato, e che in un accesso di gelosia aveva distrutto il suo quadro più importante e poi si era suicidata gettandosi dalla finestra. Costui, in cui perfino il diciassettenne Georg intuiva il pazzo e l’imbroglione, fu l’oggetto della prima infatuazione di Else. Aveva allora quattordici anni, la vivacità e la semplicità dell’infanzia se ne erano andate; dinnanzi alla Venere del Tiziano, agli Uffizi, le guance le ardevano di curiosità, di desiderio, di ammirazione, e nei suoi occhi passavano già oscuri sogni di esperienze future. Veniva sovente con la madre nella casa che i Wergenthin avevano affittato al Lungarno; e mentre la signora Ehrenberg cercava di divertire la baronessa malata col suo spirito pungente, benché un po’ stanco, Else se ne stava alla finestra con Georg, parlava in tono saccente dell’arte dei preraffaelliti e rideva dei suoi passati giochi di bambina. Anche Felician compariva a volte, slanciato e bello, guardando come da lontano uomini e cose con i suoi freddi occhi grigi; diceva qualche parola di cortesia, a mezza voce, con tono quasi sprezzante, poi si sedeva accanto al letto di sua madre, baciandole e carezzandole con tenerezza la mano. Generalmente se ne andava presto, non senza lasciarsi dietro, secondo Else, un acerbo profumo di antica aristocrazia, di fredda seduzione, di elegante disprezzo della morte. Aveva sempre l’impressione che lui dovesse recarsi a un tavolo da gioco dove la posta era costituita da centinaia di migliaia di corone, a un duello per la vita o per la morte, oppure da una principessa dai capelli rossi che teneva sempre un pugnale sul tavolino da notte. Georg si ricordava di essere stato un po’ geloso, sia del ciarlatanesco maestro di disegno, sia di suo fratello. Il maestro fu congedato improvvisamente, per ragioni che non furono mai rivelate, e poco dopo Felician partì per Vienna col barone von Wergenthin. Così Georg suonò ancor più spesso di prima il pianoforte in presenza delle signore, musica sua e di altri, mentre Else leggeva a prima vista qualcuno dei Lieder più facili di Schubert e di Schumann, con la sua piccola voce un poco aspra. Else visitava le gallerie e le chiese con sua madre e con Georg; e quando tornò la primavera fecero insieme lunghe passeggiate sulle colline o a Fiesole, e a volte sguardi sorridenti correvano fra Else e Georg, come a testimoniare un’intesa più profonda, che in realtà non esisteva. L’amicizia mantenne questo tono un po’ falso anche quando fu ripresa e continuata a Vienna. Else fu di nuovo piacevolmente colpita dall’atteggiamento affabile che Georg aveva sempre con lei, anche se non si erano visti per mesi. Quanto a lei, si era fatta di anno in anno esteriormente più sicura, interiormente più inquieta. Aveva abbandonato assai presto le sue ambizioni artistiche, e col trascorrere degli anni si sentiva via via chiamata a occupare le più svariate funzioni sociali. A volte si immaginava nelle vesti di futura donna di mondo, organizzatrice di grandi balli e feste floreali, impegnata in recite di beneficenza organizzate da circoli aristocratici; più sovente si vedeva chiamata a regnare in un salotto intellettuale come grande intenditrice d’arte, fra pittori, musicisti e poeti. Poi sognava di nuovo una vita a tinte fortemente romantiche: un matrimonio sensazionale con un ricco americano, una fuga con un violinista o un ufficiale spagnolo, diabolica distruttrice di tutti gli uomini che le si avvicinavano. Ma a volte la cosa più desiderabile le sembrava una vita tranquilla in campagna, accanto a un bravo possidente; e allora si vedeva circondata da molti bambini, magari coi capelli precocemente imbiancati, con un dolce e rassegnato sorriso sulle labbra, mentre accarezzava le rughe sulla fronte severa del marito, seduta dinnanzi alla tavola modestamente apparecchiata. Ma Georg aveva sempre sentito che la sua inclinazione a una vita agiata, più profonda di quanto lei stessa non supponesse, l’avrebbe salvaguardata da ogni passo sconsiderato. Else confidava molte cose a Georg, senza tuttavia mai essere veramente sincera con lui, poiché uno dei suoi desideri più profondi e tenaci era quello di poterlo sposare. Georg lo sapeva bene, ma non era questa l’unica ragione per cui la nuova voce del suo fidanzamento con Heinrich Bermann gli pareva poco degna di fede. Questo Bermann era un uomo magro e glabro, con gli occhi cupi e i capelli forse un po’ troppo lunghi e lisci, che negli ultimi tempi s’era fatto una certa fama come scrittore, e i cui modi e il cui aspetto ricordavano a Georg, non sapeva nemmeno lui perché, un fanatico insegnante ebreo di provincia. Nulla che potesse particolarmente affascinare Else o anche soltanto impressionarla favorevolmente. Certo, quando si parlava più a lungo con lui, l’impressione cambiava. Una sera della scorsa primavera erano usciti insieme da casa Ehrenberg e avevano incominciato a discutere di musica in modo così interessante che erano rimasti a parlare fino alle tre del mattino seduti su di una panchina della Ringstrasse.
Strano, pensò Georg, a quante cose penso oggi che di solito mi sono lontane mille miglia!... Era come se in quella sera d’autunno tornasse a poco a poco alla vita, dopo molte settimane in cui era rimasto come assorto nel suo cupo dolore.
Eccolo davanti alla casa nella Paulanergasse, dove abitavano i Rosner. Georg guardò in su, verso il secondo piano. Una finestra era aperta, e le tende di tulle bianco legate a metà si muovevano dolcemente alla carezza del vento.
I Rosner erano in casa. La cameriera introdusse Georg. Anna era seduta di fronte alla porta, con la tazzina del caffè in mano, gli occhi rivolti verso chi entrava. Il padre, seduto a destra, leggeva il giornale fumando la pipa. Era glabro, fuor che ai lati delle guance dove scendevano due listerelle di barba grigia. I capelli radi, dallo strano colore tra il grigio e il verdastro, erano tirati in avanti sulle tempie e sembravano una parrucca malfatta. Gli occhi erano chiari e acquosi, orlati di rosso.
La madre, grassa, con una fronte su cui aleggiava il ricordo di anni più belli, guardava fisso innanzi a sé, le mani tranquillamente intrecciate sulla tavola.
Anna posò lentamente la tazza, fece un cenno col capo e abbozzò un sorriso. I due vecchi, vedendo entrare Georg, fecero l’atto di alzarsi.
« Prego, prego, non s’incomodino » disse Georg.
A un tratto si udì uno scricchiolìo lungo una parete di fianco. Josef, il figlio dei Rosner, si alzò dal divano su cui stava coricato.
« I miei ossequi, signor barone »disse con voce molto bassa, aggiustandosi la giacca da casa a quadri gialli abbottonata fino al collo e cosparsa qua e là di macchie.
« Come sta, signor barone? » domandò il vecchio alzandosi in piedi, un po’ curvo e magro, né volle più sedersi, finché non si fu seduto anche Georg. Josef avvicinò una sedia sistemandola fra il padre e la sorella, che intanto porse la mano al visitatore.
« È da molto che non ci vediamo » disse Anna, e bevve un sorso dalla tazza.
« Lei ha avuto dei dispiaceri, signor barone » osservò premurosamente la signora Rosner.
« Già » soggiunse il signor Rosner. « Abbiamo letto con grande rincrescimento della sua grave perdita... Eppure il signor barone padre, per quanto ne sappiamo, non era mai stato malato ».
Parlava molto adagio, come se dovesse sempre aggiungere qualcosa; si passava a volte la mano sinistra sulla testa e quando parlava un altro faceva dei cenni col capo.
« Sì, è stata una cosa inaspettata » disse Georg piano, guardando lo stinto tappeto rosso scuro, che aveva sotto i piedi.
« Già, una morte improvvisa, come si suol dire » osservò il signor Rosner e tutti tacquero.
Georg prese una sigaretta dall’astuccio e ne offrì una a Josef.
« Obbligatissimo » disse Josef; prese la sigaretta e fece un inchino, battendo insieme i tacchi senza che ce ne fosse bisogno. Mentre offriva un fiammifero acceso al barone, credette di vedere che teneva gli occhi fissi sulla sua giacca e disse per scusarsi, con voce ancora più bassa del solito: « Giacca da ufficio ».
« Giacca da ufficio viene da ufficio » disse Anna semplicemente, senza guardare suo fratello.
« La signorina ha voglia di fare dell’ironia oggi » disse Josef in tono allegro; ma dal tono trattenuto delle sue parole si capiva benissimo che in altre circostanze si sarebbe espresso in modo meno garbato.
« Tutti hanno preso tanta parte a questa perdita » riprese il signor Rosner. « Ho letto il necrologio del signor barone nella Neue Freie Presse... era del consigliere Kerner, se ben ricordo; un magnifico necrologio. Anche la scienza ha subito una grave perdita ».
Georg fece un cenno imbarazzato con la testa e si guardò le mani.
Anna si mise a parlare delle vacanze trascorse.
« Weissenfeld era bellissimo » disse. « Dietro la nostra casa c’era il bosco con sentieri bellissimi e tutti in piano... non è vero, papà? Si poteva camminare per ore e ore senza incontrare una persona ».
« E aveva un pianoforte, laggiù in campagna? » domandò Georg.
« Sì ».
« Un’orribile vecchia carcassa » osservò il signor Rosner. « Una cosa da far piangere i sassi e impazzire gli uomini ».
« Andiamo, via, non a questo punto » disse Anna.
« Per la piccola Graubinger andava bene » soggiunse la signora Rosner.
« La piccola Graubinger è la figlia del negoziante di Weissenfeld » spiegò Anna. « Le ho insegnato i rudimenti del pianoforte. È una bella ragazzina, con delle lunghe trecce bionde ».
« Era un piacere che si faceva al negoziante » disse la signora Rosner.
« Sì, ma bisogna aggiungere che oltre a ciò ho dato anche lezioni vere, a pagamento » aggiunse Anna.
« Come, anche a Weissenfeld? » domandò Georg.
« Sì, ai bambini di una famiglia in villeggiatura. Del resto è un peccato, signor barone, che lei non sia mai venuto in campagna da noi; le sarebbe certamente piaciuto ».
Soltanto adesso Georg si ricordò di aver detto ad Anna, senza dare troppa importanza alla promessa, che le avrebbe forse fatto una visita in estate, approfittando di una gita in bicicletta.
« Il signor barone avrebbe certo avuto molto da ridire in quel paese, riguardo alle comodità » cominciò a dire il signor Rosner.
« Perché mai? » domandò Georg.
« Non è che si guardi tanto per il sottile, quanto alle esigenze di chi viene dalle grandi città ».
« Oh, non ho particolari esigenze » disse Georg.
« Non è andato neppure all’Auhof? » domandò Anna rivolta a Georg.
« Oh, no » rispose questi rapidamente. Poi soggiunse più calmo: « Sono stato invitato... la signora Ehrenberg, gentilmente... Ho avuto parecchi inviti per l’estate. Ma ho preferito starmene solo a Vienna ».
« Mi dispiace di non vedere quasi più Else » disse Anna. « Lei sa che eravamo nello stesso istituto. Naturalmente ora è passato molto tempo. Le ho voluto sinceramente bene. Peccato, stiamo diventando sempre più estranee ».
« Come mai? » domandò Georg.
« Chi lo sa, forse perché tutto quell’ambiente non mi è troppo simpatico ».
« Neanche a me » disse Josef che faceva anelli col fumo della sigaretta. « Non ci vado da anni. A dire il vero... non so come la pensi il barone su questo punto... ma gli ebrei non mi piacciono molto ».
Il signor Rosner guardò suo figlio:
« Il signor barone frequenta quella casa, mio caro Josef, e gli sembrerà strano... ».
« A me? » disse Georg gentilmente. « Le mie relazioni con casa Ehrenberg non sono di carattere intimo, per quanto mi piaccia molto chiacchierare con le due signore ». E domandò ad Anna: « Ma lei l’anno scorso non dava lezioni di canto a Else, signorina Anna? ».
« Sì. O per meglio dirè... le davo soltanto delle ripetizioni ».
« E continuerà a farlo, ora? ».
« Non lo so. Finora non si è fatta viva. Forse ha rinunciato allo studio del canto ».
« Crede? ».
« Sarebbe meglio » disse Anna dolcemente. « In verità, più che cantare, ha sempre soltanto bisbigliato. A proposito, » e rivolse a Georg uno sguardo che parve un nuovo saluto « i Lieder che lei m’ha mandato sono molto belli. Vuole che glieli canti? ».
« Dunque li ha già studiati? È molto gentile da parte sua ».
Anna si era alzata. Portò le mani alle tempie e si accarezzò lievemente i capelli ondulati, come se volesse riordinarli. Li portava raccolti, così che la sua figura appariva ancora più alta di quel che fosse in realtà. Una sottile catena d’oro formava due giri intorno al collo nudo, ricadendole sul petto e perdendosi nella cintura di pelle grigia. Con un moto quasi impercettibile del capo invitò Georg a seguirla.
« Se permettono... » disse Georg alzandosi.
« Prego, prego, naturalmente » disse il signor Rosner. « Il signor barone è così gentile da voler fare un po’ di musica con mia figlia. Bene, bene ». Anna era entrata nella stanza accanto. Georg la seguì e lasciò la porta aperta. Le tendine bianche di tulle davanti alla finestra aperta si muovevano piano.
Georg sedette al pianoforte e suonò alcuni accordi. Intanto Anna si era chinata davanti a una vecchia étagère nera, con fregi in oro, cercando la musica.
Georg modulò i primi accordi del suo Lied. Poi entrò Anna, cantando sulla melodia di Georg le parole di Goethe:
Deinem Blick mich zu bequemen,Deinem Munde, deiner Brust,Deine Stimme zu vernehmen,War mir erst’ und letzte Lust.2
In piedi, dietro a Georg, seguiva attentamente la musica. A volte si curvava un po’ in avanti, e allora Georg sentiva sulle tempie il soffio delle sue labbra. La sua voce era molto più bella di quella che era rimasta impressa nella mente di Georg.
Nella stanza accanto si parlava un po’ troppo forte; senza interrompere il canto, Anna socchiuse la porta: era Josef che non riusciva a moderare la voce. « Faccio un salto al caffè » disse improvvisamente.
Nessuno gli rispose. Il signor Rosner tamburellava piano sul tavolo, e sua moglie faceva piccoli cenni di assenso, con aria indifferente.
« Arrivederci, dunque ». Giunto alla porta, Josef tornò a voltarsi e disse, con una certa energia: « Mamma, se hai poi un momento di tempo... ».
« Ti ascolto » disse la signora Rosner. « Non si tratterà di un segreto, spero ».
« No. È soltanto perché con te ho già un conto aperto ».
« È proprio necessario andare al caffè? » domandò semplicemente il vecchio Rosner, senza alzare gli occhi.
« Non si tratta di andare al caffè. E insomma... Credetemi, preferirei anch’io non farmi prestare eternamente dei soldi da voi. Ma come si può fare? ».
« Si può lavorare » disse il vecchio Rosner a voce bassa, con accento di dolore, e i suoi occhi si fecero rossi. La donna gettò al figlio uno sguardo pieno di tristezza e di rimprovero.
« Beh, » disse Josef abbottonando e sbottonando la giacca « questo è veramente troppo... per ogni misero fiorino... ».
« Ssssst » disse la signora Rosner con uno sguardo verso la porta chiusa, da cui ora giungeva soltanto il suono sempre più dolce e smorzato del pianoforte, mentre la voce di Anna taceva.
Josef rispose allo sguardo della madre con un gesto sprezzante della mano. « Papà dice che devo lavorare. Come se non avessi già dimostrato che ne sono capace ». Josef vedeva gli occhi dei genitori fissi su di lui con aria interrogativa. « Sissignore l’ho dimostrato, e se non si fosse trattato che di me e della mia buona volontà, me la sarei cavata ovunque. Ma ve lo dico una volta per tutte, il mio carattere non si piega a certe cose, non posso tollerare che i miei superiori mi rimproverino quando arrivo in ritardo di un quarto d’ora... o per sciocchezze simili ».
« Questa storia la sappiamo già » lo interruppe il signor Rosner stanco. « Ma dal momento che abbiamo incominciato a parlarne, sarà bene che tu cerchi di nuovo qualcosa ».
« Cercare... sì... » rispose Josef. « Ma da un ebreo non ci andrò più, mai e poi mai. Questo mi renderebbe ridicolo presso i miei conoscenti... anzi, in tutto il mio ambiente ».
« Il tuo ambiente... » disse la signora Rosner. « E qual è il tuo ambiente? Amici del caffè ».
« Beh, dal momento che ne parliamo, » disse Josef « anche questo è in rapporto con la mia richiesta di soldi. Stasera ho un appuntamento al caffè col giovane Jalaudek. Avrei preferito dirvelo a cose fatte... ma vedo che occorre parlarne prima. Questo Jalaudek è il figlio del consigliere Jalaudek, il famoso commerciante di carta, e il vecchio Jalaudek è notoriamente una personalità molto influente nel partito... intimo amico dell’editore del Christliche Tagesbote, un certo Zelltinkel. E al giornale adesso cercano giovani distinti, di belle maniere, cristiani naturalmente, per le inserzioni. Ebbene, oggi ho appuntamento con Jalaudek al caffè, perché mi ha promesso che suo padre mi presenterà a Zelltinkel. Sarebbe una cosa magnifica... i miei guai sarebbero finiti. In pochissimo tempo potrei guadagnare cento e perfino centocinquanta fiorini al mese ».
« Dio mio » sospirò il vecchio Rosner.
Si udì lo squillo del campanello.
Rosner alzò gli occhi.
« Sarà il giovane dottor Stauber » disse la signora Rosner, e gettò uno sguardo preoccupato verso la porta, attraverso la quale l’eco della musica di Georg giungeva ancora più fievole.
« Beh, mamma? » disse Josef.
La signora Rosner prese la borsa e porse sospirando al figlio un fiorino d’argento.
« Grazie » disse Josef e si apprestò ad uscire.
« Josef » disse il signor Rosner. « Mi pare che sia scortese andartene proprio nel momento in cui giunge una visita... ».
« Ah, grazie tante, non voglio saperne ».
Si udì bussare alla porta, e il dottor Berthold Stauber entrò.
« Mi scusi tanto, dottore » disse Josef. « Stavo proprio uscendo ».
« Prego » rispose freddamente il dottor Stauber, e Josef se ne andò.
La signora Rosner invitò il dottore ad accomodarsi. Il dottor Stauber si sedette sul divano, tendendo l’orecchio al suono del pianoforte.
« È il barone Wergenthin » spiegò la signora Rosner un po’ imbarazzata. « Il compositore. Anna ha appena finito di cantare ». E fece l’atto di andare a chiamare la figlia.
Il dottor Berthold la trattenne afferrandole garbatamente un braccio e disse gentilmente: « No. Non voglio assolutamente che si disturbi la signorina Anna. Non ho la minima fretta. Del resto è una visita di addio ». L’ultima frase gli uscì come a forza dalla gola, mentre continuava a sorridere gentilmente e si accomodava nell’angolo, lisciandosi la barba con la mano destra.
La signora Rosner lo guardò spaventata.
« Una visita di addio? » domandò il signor Rosner. « Il signor dottore si è preso le vacanze? La Camera si è riunita da poco, come ho appreso dai giornali ».
« Ho dato le dimissioni » disse Berthold.
« Come? » gridò il signor Rosner.
« Sì, le dimissioni » ripetè Berthold, sorridendo distratto.
Il pianoforte tacque improvvisamente, la porta socchiusa si aprì e comparvero Anna e Georg.
« Oh, dottor Berthold » disse Anna e tese la mano al dottore che s’era alzato in fretta. « È qui da molto? Forse mi ha sentito cantare? ».
« No, signorina Anna, purtroppo non l’ho sentita. Non ho sentito che qualche accordo sul pianoforte ».
« Il barone Wergenthin » disse Anna, come se volesse fare le presentazioni. « I signori si conoscono? ».
« Certo » disse Georg, tendendo la mano al dottore.
« Il dottore viene a farci una visita di addio » disse la signora Rosner.
« Come? » esclamò Anna sorpresa.
« Parto » disse Berthold e guardò Anna negli occhi con espressione seria e impenetrabile. « Abbandono la carriera politica » soggiunse come per scherzo « ... o meglio, la interrompo per qualche tempo ».
Georg stava appoggiato alla finestra, le braccia incrociate e guardava Anna di profilo. Anna s’era seduta e guardava tranquillamente verso Berthold che se ne stava in piedi, una mano appoggiata allo schienale del divano, come se volesse tenere un discorso.
« E dove se ne va? » domandò Anna.
« A Parigi. Voglio lavorare all’Istituto Pasteur. Ritorno ai miei vecchi amori, alla batteriologia. È un’occupazione più pulita della politica ».
S’era fatto buio. I volti si confondevano come in una nebbia, soltanto la fronte di Berthold, che se ne stava proprio davanti alla finestra, era ancora illuminata. Le sue sopracciglia si contrassero. Bisogna riconoscere che la fisionomia di quell’uomo ha una sua bellezza singolare, pensò Georg, che se ne stava immobile nell’angolo della finestra e si sentiva invadere da un piacevole senso di calma.
La cameriera portò la lampada accesa e l’appese sopra il tavolo.
« Ma sui giornali non ho letto nessun annuncio delle dimissioni del signor dottore » disse il signor Rosner.
« È troppo presto » rispose Berthold. « I miei compagni di partito conoscono le mie intenzioni, ma la notizia non è ancora ufficiale ».
« Questa novità non mancherà di sollevare grande scalpore nei circoli interessati » disse il signor Rosner. « Specialmente dopo la recente tempestosa discussione, in cui il signor dottore è intervenuto con tanta energia. Il signor barone ha letto? » disse volgendosi a Georg.
« Confesso che non seguo i resoconti parlamentari con l’assiduità che sarebbe necessaria » rispose Georg.
« Necessaria! » ripetè Berthold con indulgenza. « Necessaria non è, benché la seduta fosse molto interessante... almeno come prova di quanto in basso può cadere un’assemblea ».
« La discussione è stata accanita » disse il signor Rosner.
« Accanita?... Sì, quello che qui in Austria si chiama accanimento. Indifferenza nell’intimo e all’esterno ci si accanisce ».
« Di che cosa si trattava? » domandò Georg.
« Era il dibattito sull’interpellanza relativa al processo Golowski... di Therese Golowski ».
« Therese Golowski... » ripetè Georg. « Mi pare di conoscere quel nome ».
« Certo che lo conosce » disse Anna. « Anzi, conosce Therese in persona. L’ultima volta che venne a farci visita, lei se ne stava giusto andando via ».
« Ah, sì, è una sua amica » disse Georg.
« Amica proprio non direi; questo presuppone un certo accordo intimo, che non esiste più ».
« Non vorrà sconfessare Therese » disse il dottor Berthold, sorridendo, ma in tono energico.
« Oh, no, nemmeno per sogno » rispose vivacemente Anna. « L’ammiro anzi, come ammiro tutti coloro che sono capaci di rischiare molto per qualcosa che in fondo non li riguarda. E quando poi è una ragazza giovane che lo fa, una ragazza bella e giovane come Therese... » Anna si rivolgeva a Georg che l’ascoltava con curiosità «... ebbene, questo mi interessa ancora di più. Lei deve sapere che Therese è uno dei dirigenti del partito socialdemocratico ».
« E io sa chi credevo che fosse? » disse Georg. « Un’attrice principiante! ».
« Barone, lei è molto perspicace » disse Berthold.
« Infatti una volta voleva dedicarsi al teatro » confermò freddamente la signora Rosner.
« Cara signora, » disse Berthold « quale ragazza dotata di una certa fantasia, che viva in ristrettezze, non ha accarezzato quel sogno in un qualsiasi momento della sua vita? ».
« È carino da parte sua perdonarla » disse Anna sorridendo.
Berthold si accorse troppo tardi di aver toccato un punto tuttora doloroso nel cuore di Anna. Ma continuò, con tono anche più energico: « Le assicuro, signorina Anna, che sarebbe stato un peccato per Therese. Poiché non si può affatto prevedere che cosa potrà ancora fare per il suo partito, se non viene sviata in qualche modo dal suo cammino ».
« Lei crede possibile che si lasci sviare? » domandò Anna.
« Certo » rispose Berthold. « Per Therese ci sono anzi due pericoli; o che un giorno si giochi la testa con i suoi discorsi... ».
« Oppure? » domandò Georg, che ascoltava con curiosità.
« Oppure che sposi un barone » disse Berthold in tono secco.
« Questo non lo capisco » disse Georg un po’ irritato.
« Quando dicevo barone, scherzavo. Invece di barone mettiamo principe, e la cosa sarà più chiara ».
« Ah, così... adesso comincio a capire, dottore... Ma che ragione aveva il parlamento, per occuparsi di lei? ».
« Glielo dirò. L’anno scorso, durante il grande sciopero nelle miniere di carbone, Therese Golowski tenne un discorso in un piccolo villaggio della Boemia. In questo discorso si credette di trovare un’espressione oltraggiosa contro un membro della famiglia imperiale. Therese fu accusata e poi assolta. Da ciò si potrebbe concludere che l’accusa non aveva molta consistenza. Ciò nonostante lo Stato ricorse in appello, si rifece il processo e Therese fu condannata a due mesi di carcere, che del resto sta appunto scontando. Non basta: il giudice che l'assolse la prima volta fu trasferito... non so dove, in qualche città al confine russo, da cui non ha più possibilità di ritorno. Bene, su questo caso abbiamo promosso un’interpellanza, in termini molto moderati secondo me. Il ministro ha risposto in modo alquanto diplomatico, con grande giubilo dei cosiddetti conservatori. Mi sono permesso di replicare, forse in modo ben più energico di quanto non sia abituale qui; e poiché dai banchi dell’opposizione non si poteva rispondere con nessun argomento positivo, si è cercato di farmi tacere con urla e insulti. E lei può immaginare, barone, quale fosse l’argomento più forte che mi opponevano siffatti conservatori ».
« Ebbene? » domandò Georg.
« Chiudi il becco, ebreo » rispose Berthold con labbra tirate e sottili.
« Oh » fece Georg imbarazzato, scuotendo il capo.
« Taci, ebreo! Chiudi il becco! Ebreo! Ebreo! A cuccia! » continuò Berthold che sembrava eccitarsi al ricordo di quell’episodio.
Anna guardava fisso davanti a sé. Georg pensava che stesse ormai trascendendo. Ci fu un breve e penoso silenzio.
« Per questo dunque? » chiese Anna lentamente.
« Come dice? » chiese Berthold.
« Per questo lei dà le dimissioni? ».
Berthold scosse il capo sorridendo. « No, non per questo ».
« Il signor dottore è certo superiore a questi insulti volgari » disse il signor Rosner.
« Non posso precisamente affermarlo » rispose Berthold.
« Ad ogni modo bisogna sempre essere preparati a simili cose. La ragione per cui dò le dimissioni è un’altra ».
« E si può sapere?... » disse Georg.
Berthold lo guardò con occhio distratto eppure penetrante. Poi rispose gentilmente: « Certo che si può. Dopo il mio discorso mi recai alla buvette. Là incontrai fra gli altri uno dei più stupidi e sfacciati rappresentanti della sovranità popolare che, come al solito, era stato anche uno dei più turbolenti mentre io parlavo... il commerciante di carta Jalaudek. Naturalmente non mi occupai affatto di lui. Stava appunto posando il bicchiere vuoto. Appena mi vede, mi fa cenno sorridendo e mi saluta, tutto animato, come se non fosse successo nulla: “Che piacere, signor dottore! Beve qualcosa?” ».
« Incredibile! » esclamò Georg.
« Incredibile?... No, austriaco. Da noi lo sdegno è tanto falso quanto l’entusiasmo. Soltanto la malignità e l’odio verso l’ingegno, quelli sono sinceri ».
« E lei cos’ha risposto a quell’uomo? » chiese Anna.
« Che cosa ho risposto? Nulla, si capisce ».
« E ha dato le dimissioni » concluse Anna con leggero tono di scherno.
Berthold sorrise. Ma nello stesso tempo ebbe l’improvvisa contrazione vicino alle sopracciglia di quando era irritato o commosso. Era troppo tardi per dirle che in fondo era venuto per chiederle consiglio, come in altri tempi. Eppure sentiva che aveva fatto bene a precludersi fin da principio ogni via di ritorno, ad annunciare le dimissioni come già avvenute, il viaggio a Parigi come imminente. Perché ora sapeva che Anna gli era di nuovo sfuggita, forse per molto tempo. Che qualcuno gliela potesse davvero portar via, e per sempre, questo naturalmente non lo credeva, e quanto a essere geloso di questo artista giovane ed elegante che se ne stava tranquillamente a braccia conserte nell’angolo della finestra, non gli veniva neppure in mente. Era già capitato che Anna per qualche tempo si fosse librata, come prigioniera di qualche incantesimo, in un elemento estraneo a lui. E due anni fa, quando pensava sul serio di dedicarsi alla scena e studiava i suoi spartiti, per qualche tempo l’aveva data davvero per perduta. Più tardi, quando per l’insufficienza dei suoi mezzi vocali era stata obbligata ad abbandonare i suoi sogni d’arte, sembrò di nuovo tornare a lui; ma, volutamente, egli non aveva approfittato di quell’occasione.
Prima di sposarla, infatti, voleva aver conseguito qualche successo decisivo nel campo scientifico o politico, voleva essere sinceramente ammirato da lei. E vi era quasi riuscito. Là, dove sedeva ora, guardandolo con occhi limpidi, ma con espressione indifferente, Anna aveva avuto davanti a sé le bozze di stampa del suo ultimo lavoro di medicina e filosofia, dal titolo: Annotazioni provvisorie sulla fisiognomica delle malattie.Poi, quando era passato alla politica, al tempo in cui teneva discorsi elettorali, preparandosi alla nuova professione con rigorosi studi storici e di economia politica, Anna aveva sinceramente ammirato la sua versatilità ed energia. Tutto ciò era finito. Ora Anna sembrava vedere con occhio più acuto di prima proprio i suoi difetti, che del resto lui stesso non ignorava, specialmente quella sua tendenza a ubriacarsi di parole; e questo gli faceva perdere via via la sua sicurezza di fronte a lei. In sua presenza, quando le rivolgeva la parola, non si sentiva più a suo agio. Anche oggi era scontento di sé. Avvertiva con un senso d’irritazione, che pareva meschino anche a lui stesso, di non aver reso con sufficiente efficacia il suo incontro con Jalaudek alla buvette;e avrebbe dovuto esprimere con più forza il suo disgusto per la politica. « Forse ha ragione di sorridere, signorina Anna, delle mie dimissioni per una simile sciocca avventura » disse Berthold. « La vita parlamentare non è possibile senza un po’ di commedia. Avrei dovuto pensarci e recitare a mia volta, possibilmente bere alla salute di colui che mi aveva insultato in pubblico. Sarebbe stato comodo, austriaco, e forse la cosa più giusta che mi rimaneva da fare ». E sentendosi di nuovo in vena, continuò: « In fondo non ci sono, in politica, che due sistemi di qualche utilità pratica: una profonda frivolezza, per cui si considera l’intera vita pubblica come un gioco divertente, che in realtà non suscita né alcuno sdegno né alcun entusiasmo, e per il quale gli uomini, della cui felicità o infelicità in definitiva si tratta, sono completamente indifferenti. Non sono ancora giunto a questo punto, e non so se vi giungerò mai. Confesso che molte volte ho desiderato di potervi giungere. L’altro metodo è quello di esser pronti a giocare in ogni momento la propria esistenza, la propria vita nel senso più rigoroso della parola, per ciò che si ritiene giusto ».
Berthold tacque improvvisamente. Accolto con viva cordialità, era entrato suo padre, il vecchio dottor Stauber. Diede la mano a Georg, che gli fu presentato dalla signora Rosner, e lo guardò con tanta benevolenza che Georg si sentì subito attratto da lui. Aveva l’aria più giovane di quanto fosse in realtà. La lunga barba di un biondo rossiccio non mostrava che pochi fili d’argento e i lunghi capelli lisci erano pettinati all’indietro, in folte e lucide ciocche che ricoprivano la nuca. La fronte, singolarmente alta, dava a tutta la figura tarchiata, dalle spalle quadrate e dal collo corto, una certa dignità. Gli occhi, quando non guardavano con espressione benevola o intelligente, sembravano quasi volersi riposare dietro le ciglia stanche e prepararsi per lo sguardo seguente.
« Ho conosciuto sua madre, barone » disse a Georg con voce bassa.
« Mia madre, dottore?... ».
« Lei se ne ricorderà appena. Allora era un bambino di tre o quattro anni ».
« Lei la curava? » domandò Georg.
« Le facevo a volte visita, sostituendo il professor Duchegg, di cui ero assistente. Allora loro stavano nell’Habsburgergasse, in una vecchia casa che ora è demolita da tempo. Le potrei descrivere ancora oggi la camera in cui mi riceveva suo padre... che è morto anche lui troppo presto... Sullo scrittoio c’era una statua di bronzo, un cavaliere con l’armatura e la bandiera. Alla parete c’era la copia di un Van Dick che si trova nella galleria Liechtenstein ».
« Sì, è vero » disse Georg, stupito della buona memoria del medico.
« Ma ho interrotto la conversazione » disse il dottor Stauber, con il tono malinconico e strascicato, eppure autorevole, che gli era proprio, lasciandosi cadere sopra un divano in un angolo.
« Il dottor Berthold ci stava appunto comunicando, con nostra grande sorpresa, che ha deciso di presentare le dimissioni » disse il signor Rosner.
Il vecchio Stauber guardò tranquillamente suo figlio, che sostenne lo sguardo con pari tranquillità. Georg, che aveva seguito questi sguardi, ebbe l’impressione che ci fosse fra loro una tacita intesa che non aveva bisogno di parole per manifestarsi.
« Sì, » disse il dottor Stauber « ma io non ne sono stato affatto stupito. Ho sempre avuto l’impressione che Berthold sedesse in parlamento soltanto come un ospite, e in fondo sono contento che abbia sentito di nuovo la nostalgia del suo vero mestiere. Sì, del tuo vero mestiere, Berthold » ripetè come per rispondere a una ruga che s’era formata sulla fronte del figlio.
« Con questo non si pregiudica nulla per il futuro. Niente rende l’esistenza più difficile che prendere tanto spesso ogni cosa per definitiva, come facciamo noi... e perdere tempo a vergognarci di un errore, invece di riconoscerlo francamente e imprimere una svolta alla nostra vita ».
Berthold dichiarò che sarebbe partito al più tardi fra otto giorni. Un rinvio ulteriore non avrebbe avuto alcun senso. Chissà, forse non sarebbe rimasto nemmeno a Parigi; i suoi studi potevano rendere necessario un nuovo viaggio. Inoltre era deciso a non fare alcuna visita di congedo; e aggiunse che già da tempo, del resto, aveva abbandonato quegli ambienti borghesi, composti dalla vasta clientela di suo padre, che era solito frequentare in precedenza.
« Non ci siamo incontrati una volta dagli Ehrenberg quest’inverno? » domandò Georg con una certa soddisfazione segreta.
« Sì » rispose Berthold. « Del resto, con gli Ehrenberg siamo lontanamente parenti. Lo strano è che lo siamo proprio per mezzo della famiglia Golowski. Ogni tentativo di spiegarle queste relazioni sarebbe inutile, barone. Le dovrei far intraprendere un vagabondaggio attraverso tutti i municipi e le comunità religiose di Temesvar, Tarnopol e altre simpatiche località, e preferisco risparmiarglielo ».
« Del resto, » disse il vecchio dottor Stauber in tono rassegnato « il barone non ignora certo che tutti gli ebrei sono parenti tra di loro ».
Georg sorrise cortesemente. Ma in realtà era un po’ irritato. Secondo lui non c’era alcuna necessità che anche il vecchio Stauber gli dichiarasse ufficialmente di appartenere all’ebraismo. Lo sapeva benissimo e non gliene faceva certo una colpa. Del resto, non ne faceva colpa a nessuno, ma perché cominciavano sempre a parlarne per primi? Dovunque andasse, non incontrava che degli ebrei che si vergognavano di esserlo, oppure altri che ne erano fieri e avevano paura che si credesse che se ne vergognassero.
« A proposito, ieri ho parlato con la vecchia Golowski » continuò il dottor Stauber.
« Povera donna » disse il signor Rosner.
« Come sta? » domandò Anna.
« Come può stare?... Se lo figuri... la figlia in prigione, il figlio volontario vive in caserma a spese dello Stato... Pensi: Leo Golowski patriota... E il vecchio se ne sta al caffè e guarda gli altri che giocano a scacchi. Lui non ha nemmeno i dieci kreuzer per pagarsi una partita ».
« Credo però che Therese abbia quasi scontato la sua pena » disse Berthold.
« Ne avrà ancora per dodici o quattordici giorni » rispose il vecchio Stauber. « Sì, mia cara Anna, » riprese poi, rivolto alla ragazza « lei farebbe bene a farsi vedere di nuovo nella Rembrandtstrasse; quella vecchia signora le vuole un bene commovente. Non capisco proprio perché » soggiunse sorridendo e guardandola quasi con tenerezza. Ma Anna guardava fisso innanzi a sé e non rispose.
L’orologio a muro scoccò le sette. Georg si alzò, come se non avesse aspettato che quel segnale.
« Il signor barone se ne va di già » disse il signor Rosner alzandosi.
Georg pregò i presenti di non incomodarsi e strinse la mano a tutti.
« È strano come la sua voce somiglia a quella del suo povero padre » disse il vecchio Stauber.
« Sì, me l’hanno detto più volte » replicò Georg. « Io personalmente non trovo ».
« Non c’è nessun uomo a questo mondo che possa conoscere la propria voce » osservò il vecchio Stauber; e sembrò il principio di una conferenza divulgativa.
Georg intanto si congedò. Anna lo accompagnò in anticamera, nonostante le sue deboli proteste, e lasciò la porta semiaperta con un po’ d’intenzione, o almeno, così parve a Georg. « È un peccato non aver potuto fare musica più a lungo » disse Anna.
« Dispiace anche a me, signorina Anna ».
« Il Lied mi è piaciuto ancora di più della prima volta, quando io stessa ho dovuto fare l’accompagnamento. Soltanto verso la fine si perde un poco... non so come dire ».
« Lo so, quel che vuole dire. Il finale è convenzionale, l’ho sentito subito. Spero di poterle portare presto qualcosa di migliore, signorina Anna ».
« Non mi faccia aspettare troppo ».
« No di certo. Arrivederci, dunque, signorina Anna ».
Si strinsero la mano sorridendo.
« Perché non è venuto a Weissenfeld? » domandò Anna in tono scherzoso.
« Sono veramente dispiaciuto, ma vede, signorina Anna, non sarei proprio stato una compagnia piacevole, come può immaginare ».
Anna lo guardò seria. « Non crede che invece avremmo potuto aiutarla a sopportare tante cose? » domandò.
« C’è corrente, Anna » disse la signora Rosner di dentro.
« Vengo, vengo » disse Anna con una certa insofferenza. Ma la signora Rosner aveva già chiuso la porta.
« Quando posso tornare? » domandò Georg.
« Quando le fa piacere. Certo... dovrei darle un piccolo orario scritto, perché lei sappia quando sono a casa, ma in fondo non servirebbe nemmeno questo. A volte vado a passeggio, o faccio commissioni in città, o vado a vedere quadri, mostre... ».
« Potremmo andarci insieme » soggiunse Georg.
« Sì, davvero » disse Anna, e tirato fuori di tasca il portafogli ne trasse un minuscolo libretto per appunti.
« Che cos’è? » domandò Georg.
Anna sorrise, sfogliando il libretto. « Aspetti... Giovedì alle undici volevo andare a vedere la raccolta di miniature nella Hofbibliotek. Se anche questo la interessa, potremmo trovarci là ».
« Volentieri ».
« Bene. E là decideremo subito quando mi accompagnerà di nuovo al pianoforte ».
« D’accordo » disse Georg stringendole la mano. Pensò che mentre lui chiacchierava qui fuori con Anna, il giovane dottor Stauber là dentro ne era certo irritato o addolorato. E si meravigliava che questo riuscisse più spiacevole a lui che ad Anna, che in fondo non sembrava cattiva. Sciolse la sua mano da quella della ragazza, salutò e andò via.
Giunto in strada vide che s’era fatto buio. Si avviò pian piano verso il centro della città, attraversò l'Elisabethbrücke e, passando davanti all’Opera, richiamò di nuovo alla memoria il suo Lied, con tutte le sue armonie, noncurante del chiasso e del traffico che lo circondava. Trovava strano che la voce di Anna, che nella piccola stanza pareva di suono così puro e limpido, dovesse rinunciare a ogni avvenire in teatro e in concerto; più strano ancora che Anna non sembrasse soffrire per questo. Naturalmente non era chiaro se la calma di Anna rispecchiasse il suo vero stato d’animo.
La conosceva superficialmente già da alcuni anni; ma si erano avvicinati l’uno all’altro soltanto una sera della primavera scorsa. Nel Waldsteingarten si erano riuniti in molti per pranzare all’aperto sotto gli alti castagni, allegri, animati e come ebbri della prima calda serata di maggio. Georg rivedeva mentalmente tutti quelli che allora vi avevano preso parte: la signora Ehrenberg, l’organizzatrice della riunione, che faceva volutamente risaltare l’imponenza della sua figura con un ampio vestito di seta scuro; il consigliere di corte Wilt, con la sua maschera di uomo politico inglese, con le sue maniere a un tempo libere e aristocratiche, con il suo tono sempre uguale di cortese superiorità su uomini e cose; la signora Oberberger, che, con i suoi capelli grigi incipriati, gli occhi scintillanti e il neo sul mento, sembrava una marchesa rococò; Demeter Stanzides coi denti bianchi e lucenti e sulla fronte pallida e stanca il segno di una vecchia eroica razza; Oskar Ehrenberg, la cui eleganza ricordava molto quella del primo commesso di un negozio di mode, del « giovane dicitore comico » e, infine, anche un po’ del giovane dell’alta società; Sissy Wyner, che lanciava occhiate ridenti dall’uno all’altro, come se a ciascuno fosse legata da un diverso, allegro mistero; Willy Eißler, che con voce gaia e rauca raccontava ogni sorta di storielle divertenti di quando era soldato e aneddoti riguardanti gli ebrei; Else Ehrenberg, nel suo abito bianco di tela inglese, immagine di una dolce e malinconica giovinezza, con i suoi movimenti da gran dama, che davano una grazia quasi commovente al suo viso infantile e alla sua delicata figura; Felician, freddo e cortese, con quegli occhi alteri, che guardavano lontano, oltre gli ospiti che gli sedevano al fianco e anche oltre quelli seduti alle altre tavole; la madre di Sissy, giovane, chiacchierona e rubiconda, che voleva sentire tutto ciò che si diceva e metter bocca in tutto; Edmund Nürnberger, che negli occhi penetranti e intorno alle labbra sottili aveva il solito sorriso di disprezzo, ormai divenuto quasi una maschera, per quell’affaccendarsi mondano di cui vedeva il fondo e nel quale, con una certa sorpresa, si trovava tuttavia coinvolto al pari degli altri; e infine Heinrich Bermann, con un vestito estivo troppo ampio, con un cappello di paglia troppo ordinario, con una cravatta troppo chiara, che ora parlava più forte di tutti gli altri, ora stava eccessivamente zitto. Da ultima, sola e sicura di sé, era apparsa Anna Rosner, aveva salutato la compagnia con un lieve cenno del capo e si era seduta con disinvoltura fra Georg e la signora Ehrenberg. « L’ho invitata per lei » disse piano la signora Ehrenberg a Georg, che fino a quella sera non si era mai particolarmente occupato di Anna. Quelle parole, suggerite alla signora Ehrenberg forse soltanto da un pensiero fugace, si rivelarono profetiche nel corso della serata. Dal momento in cui la comitiva si alzò e cominciò a passeggiare allegramente per il Prater, dovunque, nei chioschi, nelle giostre, davanti ai burattini, sulla via del ritorno in città, che per divertimento fu convenuto di fare a piedi, Georg e Anna erano sempre stati insieme e infine, nel bel mezzo di discorsi allegri e sconclusionati, avevano incominciato una conversazione più seria. Due o tre giorni dopo Georg le fece visita e le portò, come aveva promesso, lo spartito dell 'Eugenio Onegin e alcuni dei suoi Lieder; alla visita successiva Anna glieli cantò, con altri Lieder di Schubert, e la sua voce gli piacque molto. Poco dopo, giunta l’estate, si separarono, senza traccia alcuna di tenerezza o di malinconia; l’invito di Anna, di venire a Weissenfeld, era stato interpretato da Georg come una mera cortesia, così come credeva fosse stata intesa la sua adesione; e, confrontata all’atmosfera innocente dei precedenti incontri, quella dell’ultima visita sembrò a Georg molto strana.
Sullo Stephansplatz Georg si sentì salutare da una persona che stava in piedi sulla piattaforma di un omnibus. Georg, che era un poco miope, non riconobbe subito chi lo salutava.
« Sono io! » disse l’uomo sulla piattaforma.
« Oh! Signor Bermann! Buona sera! » Georg gli diede la mano. « Dove sta andando? ».
« Vado al Prater. Voglio cenare laggiù. Lei ha qualcosa in programma, barone? ».
« Assolutamente nulla ».
« Allora venga con me ».
Georg salì sull’omnibus, che stava ripartendo. Il discorso volse prima sulle reciproche villeggiature. Heinrich era stato nel Salzkammergut, e poi in Germania, da dove era tornato soltanto da un paio di giorni.
« Ah, a Berlino » disse Georg.
« No ».
« Pensavo che, per l’esecuzione di un nuovo lavoro... ».
« Io non ho scritto nessun nuovo lavoro » lo interruppe Heinrich un po’ scortesemente. « Sono stato nel Taunus e sul Reno, in diversi posti ».
Che cosa va a fare sul Reno? pensò Georg, benché la cosa non lo interessasse in fondo gran che. Notò poi che Bermann aveva l’aria distratta, anzi, cupa.
« E come vanno i suoi lavori, caro barone? » domandò Heinrich con improvviso interesse, mentre si stringeva nel soprabito grigio scuro. « Il suo quintetto è finito? ».
« Il mio quintetto? » ripetè Georg sorpreso. « Le ho parlato del mio quintetto? ».
« No, non lei; me lo ha detto la signorina Else, che lei lavora a un quintetto ».
« Ah, è stata la signorina Else. No, non ci ho lavorato molto. Non ero precisamente nello stato d’animo adatto, come può immaginare ».
« Ah, sì » disse Heinrich, e tacque un istante. « E suo padre era ancora così giovane » soggiunse lentamente.
Georg fece un muto cenno d’assenso.
« Come sta suo fratello? » domandò Heinrich all’improvviso.
« Bene, grazie » rispose Georg un po’ sorpreso. Heinrich buttò il sigaro e ne accese subito un altro.
« Lei si meraviglierà che io domandi notizie di suo fratello, con il quale avrò parlato sì e no due volte. Eppure mi interessa. Per me rappresenta un tipo perfetto nel suo genere, e lo ritengo uno degli uomini più felici che esistano ».
« Può darsi » disse Georg esitante. « Ma come giunge a questa conclusione, se lo conosce appena? ».
« Prima di tutto si. chiama barone Felician Wergenthin-Recco » disse Heinrich molto serio, espirando nuvolette di fumo.
Georg ascoltava con una certa sorpresa.
« Anche lei si chiama Wergenthin-Recco, » continuò Heinrich « ma soltanto Georg, e non è la stessa cosa, non le pare? Inoltre suo fratello è molto bello! Anche lei ha una bella figura, bisogna riconoscerlo. Ma la gente che si fa notare principalmente per la bellezza è molto più fortunata di quella che si fa notare per l’ingegno. Poiché quando si è belli, lo si è sempre, mentre la gente d’ingegno passa almeno nove decimi della propria esistenza senza mostrar traccia di questo talento. Certo, è così. La linea della vita è per così dire più pura quando si è belli che quando si è geniali. Del resto, potrei esprimere assai meglio queste mie intuizioni ».
Che cosa gli prende? pensò Georg, spiacevolmente urtato da quei discorsi. Che sia geloso di Felician... a causa di Else Ehrenberg?
Scesero al Praterstern, e si immersero nel grande fiume della folla domenicale. S’incamminarono a lenti passi lungo il viale principale, dove la folla era più rada. Faceva ormai fresco. Georg fece qualche osservazione sull’atmosfera speciale di quella sera d’autunno, sulla gente che sedeva nelle trattorie, sulle bande che suonavano nei chioschi. Heinrich ascoltò prima distrattamente, poi parve non sentire più ciò che gli veniva detto, cosa che Georg trovò scortese. Si pentiva quasi di essersi accompagnato ad Heinrich, tanto più che non era affatto sua abitudine aderire a inviti improvvisi; e per scusarsi con se stesso, si disse di averlo fatto soltanto per distrazione. Heinrich camminava vicino a lui, oppure lo precedeva di due o tre passi, come se avesse completamente dimenticato la presenza di Georg. Continuava a stringersi nel soprabito appoggiato sulle spalle, aveva il, cappello a cencio grigio scuro calato fin sugli occhi e nell’insieme era estremamente inelegante, al punto che Georg cominciò a sentirsene urtato. Le precedenti osservazioni su Felician gli parvero ora di cattivo gusto, anzi, addirittura prive di tatto, e proprio ora gli tornava alla mente che tutto ciò che conosceva dell’attività letteraria di Heinrich Bermann non gli era mai veramente piaciuto. Aveva visto due dei suoi drammi: uno che si svolgeva in un ambiente popolare, fra operai e artigiani, e finiva con delitti e assassini; l’altro, una specie di commedia brillante, di carattere satirico, che aveva sollevato uno scandalo alla prima rappresentazione, e che era ben presto scomparsa dal repertorio. Del resto, a quel tempo Georg non conosceva ancora personalmente l’autore e non s’era interessato molto a tutto questo. Ricordava soltanto che Felician aveva trovato ridicola la commedia, e che il conte Schönstein aveva detto che, se fosse dipeso da lui, i lavori scritti dagli ebrei avrebbero dovuto essere rappresentati esclusivamente dalla « Società Orpheum » di Budapest. Ma specialmente il dottor von Breitner, battezzato e obbiettivo, aveva dato sfogo al suo sdegno, perché un giovanotto qualunque osava rappresentare sulla scena un mondo che naturalmente gli era precluso, e che, di conseguenza, non poteva assolutamente capire. Mentre Georg ripensava a tutto ciò, la sua irritazione per l’ostinato silenzio e la corsa scortese del suo compagno divenne una vera e propria rabbia, e inconsciamente cominciò a trovar giustificati tutti gli insulti che a quell’epoca erano stati proferiti contro Bermann. Si ricordava anche che Heinrich gli era stato personalmente poco simpatico fin da principio, e che aveva fatto ironici complimenti alla signora Ehrenberg per l’abilità con cui aveva saputo accaparrarsi per il suo salotto anche questo astro nascente. Else naturalmente aveva subito preso le difese di Heinrich, lo aveva dichiarato un uomo interessante, a volte anche amabile, e aveva profetizzato a Georg che prima o poi sarebbe diventato suo amico. Ed effettivamente in Georg, almeno dopo quella conversazione nella notte di primavera sulla panchina della Ringstrasse, era rimasta una certa simpatia residua per Bermann, simpatia che aveva resistito fino a quella sera.
Le trattorie erano state ormai da tempo oltrepassate, la strada biancastra, diritta e solitaria, si stendeva accanto a loro nella notte fra due file di alberi, e non si udiva più, a tratti, che l’eco di una musica lontanissima.
« Dove andiamo? » esclamò a un tratto Heinrich, come fosse stato trascinato fin là contro la sua volontà, e si fermò.
« La colpa non è mia » osservò semplicemente Georg.
« Scusi! » disse Heinrich.
« Era tanto assorto nei suoi pensieri! » osservò Georg freddamente.
« Assorto non direi. Ma a volte capita, che ci si perda così in se stessi! ».
« Lo so » disse Georg, un po’ riconciliato.
« In agosto l’aspettavamo ad Auhof » disse Henrich improvvisamente.
« Mi aspettavate? La signora Ehrenberg fu così gentile da invitarmi una volta, ma io non avevo fatto promesse. Lei è stato parecchio tempo laggiù, Bermann? ».
« Molto tempo no. Non sono stato a casa loro che poche ore ».
« Credevo che fosse loro ospite ».
« Nemmeno per idea. Alloggiavo in albergo, e non vi andavo che di tanto in tanto. C’era troppo chiasso lassù... la casa era sempre piena di gente. E poi non posso soffrire la maggior parte delle persone che la frequenta ».
Un fiacre aperto, in cui sedevano un signore e una signora, passò loro davanti.
« Era Oskar Ehrenberg » disse Heinrich.
« E la signora? » domandò Georg seguendo con lo sguardo quel chiarore che brillava nell’oscurità.
« Non la conosco ».
Presero per un viale laterale buio. La conversazione languiva di nuovo. Finalmente Heinrich riprese: « La signorina Élse mi ha cantato, ad Auhof, un paio dei suoi Lieder. Alcuni, del resto, li avevo già sentiti, mi sembra, dalla Bellini ».
« Sì, la Bellini li ha cantati l’inverno scorso in un concerto ».
« Ecco, la signorina Else mi ha cantato queste e altre sue composizioni ».
« Chi l’accompagnava? ».
« Io stesso, per quel poco che posso. Del resto, caro barone, devo dirle che quei Lieder m’hanno fatto un effetto anche migliore della prima volta in concerto, benché la signorina Else sia per voce e per tecnica notevolmente inferiore alla signorina Bellini. D’altra parte bisogna anche considerare che era un magnifico pomeriggio d’estate, quando la signorina Else cantò i suoi Lieder! La finestra era aperta, si vedevano in fondo le montagne e il cielo azzurro... e, infine, anche la sua musica faceva un certo effetto ».
« Molto lusinghiero » disse Georg, penosamente colpito dal tono beffardo di Heinrich.
« Devo dirle una cosa, » continuò Heinrich, parlando, come faceva a volte, a denti stretti e con un accento perfino troppo marcato « in generale non è mia abitudine far salire sull’omnibus la gente che vedo casualmente per strada, ed è meglio le confessi subito che io... come si dice... ho visto un segno del destino in quel nostro incontro sullo Stephansplatz ».
Georg lo ascoltava stupito.
« Lei forse non ricorda più bene la nostra ultima conversazione sulla panchina della Ringstrasse » riprese Heinrich.
Soltanto ora Georg si ricordò che Heinrich in quell’occasione aveva parlato fuggevolmente del tema per un libretto d’opera al quale stava pensando, e che lui, Georg, si era offerto altrettanto casualmente di musicarlo. E con voluta freddezza rispose: « Sì, mi ricordo ».
« Beh, questo non la impegna per nulla » disse Heinrich ancora più freddamente. « Anche perché io, in verità, non avevo più pensato al mio libretto, fino a quel bel pomeriggio estivo in cui la signorina Else cantò i suoi Lieder. Se ci sedessimo qui? ».
Il giardino della trattoria in cui entrarono era quasi deserto. Heinrich e Georg si sedettero sotto una piccola pergola, vicino alla cancellata verde e ordinarono la cena.
Heinrich si appoggiò all’indietro stendendo le gambe, guardò con occhi scrutatori e quasi beffardi Georg, che taceva ostinatamente, poi disse:
« Del resto, credo di non sbagliare se penso che le cose che ho fatto finora non godono della sua completa approvazione ».
« Ah, » disse Georg arrossendo leggermente « e come è giunto a questa conclusione? ».
« Conosco i miei lavori... e conosco lei ».
« Me? » chiese Georg, quasi offeso.
« Certo » disse Heinrich con tono di superiorità. « Nutro questa sensazione nei confronti della maggior parte degli uomini e ritengo che questa facoltà sia la mia unica, assoluta, incontrastata virtù. Tutte le altre sono problematiche. specialmente la mia cosiddetta abilità artistica è qualcosa di relativo, e ci sarebbe molto da dire sulle mie qualità morali. L’unica cosa che mi dà una certa sicurezza, in fondo, è la certezza di saper vedere nell’animo umano... fin nell’intimo e indistintamente in tutti: mascalzoni e persone oneste, uomini, donne e bambini, atei, ebrei, protestanti e perfino cattolici, nobili e tedeschi, benché abbia sentito dire che proprio questo è immensamente difficile, se non addirittura impossibile, per quelli come noi ».
Georg trasalì lievemente. Sapeva che dopo la sua ultima commedia Heinrich era stato attaccato nel modo più violento da giornali clericali e conservatori. Ma che cosa me ne importa! pensò Georg. Ancora un altro che si sentiva offeso! Era dunque impossibile avere relazioni impersonali con questa gente? E cortesemente, ma in tono distaccato, ricordandosi quasi senza averne coscienza della risposta del vecchio Rosner al giovane dottor Stauber, Georg disse:
« A dire il vero, credevo che un uomo come lei fosse superiore a quella specie di attacchi cui ora allude ».
« Davvero... credeva questo? » domandò Heinrich con il tono freddo e quasi sprezzante che a volte gli era proprio. « Ebbene, » continuò poi, più dolcemente « a volte è vero. Ma purtroppo non sempre. Non ci vuol molto per risvegliare il disprezzo di se stessi, che si cela sempre in noi; e quando questo è avvenuto, non vi è stupido, non vi è mascalzone con cui non avremmo voglia di allearci contro noi stessi. Scusi se dico noi... ».
« Oh, anch’io ho provato più volte qualcosa di simile. Naturalmente non ho ancora avuto occasione di espormi così sovente e così a lungo al pubblico come lei ».
« Ma se anche si esponesse... non dovrebbe mai sopportare quanto ho sopportato io ».
« Perché? » domandò Georg un po’ offeso.
Heinrich lo guardò fisso negli occhi. « Perché lei è il barone von Wergenthin-Recco ».
« Per questo? Vorrei farle notare che oggi molta gente è prevenuta proprio per questo motivo... e talvolta ci si sente rimproverati di essere baroni ».
« Sì, lo so, ma il tono è diverso, questo me lo concederà; e poi è un’altra cosa, rinfacciare brutalmente a uno di essere ebreo, o rinfacciargli di essere barone, benché il primo a volte possa essere... mi perdoni... più nobile. Beh, non c’è bisogno che lei mi guardi con quest’espressione compassionevole » soggiunse poi, in modo un po’ grossolano. « Non sono sempre così sensibile. Ci sono anche momenti in cui niente e nessuno può ferirmi. Allora ho questo solo sentimento: che cosa ne sapete voi tutti, che cosa ne sapete di me?... ».
Tacque, orgoglioso, con uno sguardo beffardo che sembrava voler passar da parte a parte il fogliame della pergola e scrutare le tenebre. Poi voltò la testa, si guardò intorno e disse semplicemente a Georg, in altro tono: « Guardi, siamo rimasti quasi soli ».
« Comincia anche a far fresco » disse Georg.
« Vogliamo passeggiare ancora un poco per il Prater? ».
« Volentieri! ».
Si alzarono e si incamminarono. Passando lungo un prato, videro una striscia sottile di nebbia.
« Questa finta atmosfera estiva si perde durante la notte. A momenti sarà scomparsa del tutto » disse Heinrich con eccessiva malinconia e soggiunse, come per consolare se stesso: « Ebbene, lavoreremo ».
Giunsero al Wurstelprater. Dalle trattorie usciva il suono di musiche diverse, e Georg sentì subito i benefici effetti di quell’atmosfera gaia e chiassosa, sfuggendo così alla tristezza in cui era caduto sedendo in un giardino di osteria, in pieno autunno, immerso in una conversazione penosa.
Davanti a una giostra, da cui un enorme organetto diffondeva le note di un fantastico pot-pourri dal Trovatore e al cui ingresso un imbonitore invitava a fare un viaggio a Londra, ad Atzgersdorf oppure in Australia, Georg ricordò di nuovo la festa primaverile con la comitiva degli Ehrenberg. Su questa panchina stretta, all’interno della giostra, stava seduta la signora Oberberger, con a fianco il proprio cavaliere, Demeter Stanzides, e gli raccontava una delle sue incredibili storie: che sua madre era stata l’amante di un granduca russo; che lei stessa aveva passato una notte con un suo ammiratore nel camposanto di Hallstädt, senza che naturalmente fosse successo nulla; oppure che suo marito, famoso viaggiatore, in una settimana aveva conquistato diciassette donne in un harem di Smirne. In questo vagoncino foderato di velluto rosso, di fronte al consigliere Wilt, stava appoggiata Else, con languida grazia femminile, come se stesse in un fiacre al Derby, riuscendo tuttavia a esprimere, con l’atteggiamento e l’espressione del volto, che, presentandosene il caso, poteva essere tanto infantile quanto quella gente laggiù, più semplice e felice di lei. Anna Rosner cavalcava un cavallo arabo bianco, tenendo negligentemente le redini tra le punte delle dita, con dignità, ma anche con una certa espressione furbesca dipinta sul volto; Sissy si cullava su un destriero che non solo girava in tondo con gli altri animali e le altre vetturette, ma pareva che galoppasse veramente, alzando e abbassando la groppa. Sotto l’ardita acconciatura, con l’enorme cappello di piume nere, ridevano e brillavano i più impertinenti occhi del mondo, e sulle scarpette di vernice molto scollate, sulle calze traforate, svolazzava la gonna bianca. L’apparizione di Sissy aveva colpito due sconosciuti al punto che le gridarono un invito per niente ambiguo, cui seguì una misteriosa e breve conversazione fra i due signori stupefatti e imbarazzati e Willy, subito avvicinatosi: i due sconosciuti cercarono sulle prime di darsi un tono accendendosi con disinvoltura una sigaretta, ma poi pensarono bene di sparire improvvisamente tra la folla.
Anche il baraccone delle « illusioni », coi suoi giochi di luce, risvegliava speciali ricordi in Georg. Qui, mentre Dafne si trasformava in albero, Sissy gli aveva sussurrato all’orecchio un gaio remember,ricordandogli così il ballo mascherato dagli Ehrenberg in cui lei, e certo non per lui solo, aveva alzato il velo di pizzo per un fuggevole bacio. Poi venne la capanna, dove tutta la comitiva si era fatta fotografare; le tre ragazze, Anna, Else e Sissy in pose enfatiche, gli uomini inginocchiati ai loro piedi con gli occhi rivolti al cielo, così che l’insieme pareva un’apoteosi da féerie. E mentre Georg ricordava tutti quei piccoli avvenimenti, gli era sempre presente alla memoria U suo recente congedo da Anna, che gli sembrava carico di assai piacevoli promesse.
La folla si pigiava in modo inverosimile davanti a un tiro a segno. A volte era colpito il tamburino che si metteva subito a far rullare il tamburo con fitti colpi sulla pelle ben distesa, a volte si rompeva con lieve tintinnio una palla di vetro che danzava qua e là su di un getto d’acqua; a volte una vivandiera portava alla bocca una tromba e suonava un energico appello, a volte da una porta che si apriva all’improvviso sbucava fuori rumorosamente un piccolo treno, che, attraversato un ponte sospeso, veniva inghiottito da un’altra porta. Quando Georg e Heinrich riuscirono a farsi avanti e a prendere il posto di alcuni spettatori che si erano allontanati, riconobbero nel tiratore dalla mira infallibile Oskar Ehrenberg, in compagnia della sua dama. Oskar stava appunto puntando il fucile verso un’aquila appesa al soffitto che si dondolava su e giù ad ali spiegate; ma per la prima volta in quella serata sbagliò il colpo. Indignato ripose l’arma, si guardò attorno e, vedendo dietro di sé i due uomini, li salutò.
La giovane donna, col calcio del fucile appoggiato alla guancia, gettò uno sguardo fuggevole ai nuovi venuti, prese di nuovo la mira e premette il grilletto. L’aquila lasciò cadere l’ala colpita e rimase immobile.
« Brava! » gridò Oskar.
La signora posò il fucile sul tavolo.
« Basta, » disse al ragazzo che voleva ricaricare l’arma « ho vinto abbastanza ».
« Quanti colpi erano? » domandò Oskar.
« Quaranta » rispose il ragazzo. « Fanno ottanta kreuzer ». Oskar mise due dita nel taschino, ne tirò fuori un fiorino d’argento e accolse con aria di superiorità i ringraziamenti del ragazzo.
« Permetti, » disse poi, mettendosi le due mani sui fianchi, curvando leggermente il busto in avanti e avanzando il piede sinistro « permetti, Amy, che ti presenti i due signori che sono stati testimoni dei tuoi trionfi. Il barone Wergenthin, il signor von Bermann... la signorina Amelie Reiter ».
I signori si tolsero il cappello. Amelie rispose al saluto facendo due o tre cenni con la testa; portava un semplice abito di seta a disegni bianchi, con una mantellina leggera giallo chiaro, orlata di pizzo e un cappello nero, ma molto vezzoso.
« Il signor von Bermann lo conosco » disse. E volgendosi a lui: « Alla prima rappresentazione della sua commedia, l’inverno scorso, l’ho vista uscire a ringraziare il pubblico. Mi sono molto divertita. Non glielo dico davvero per complimento ».
Heinrich ringraziò serio.
Continuarono a passeggiare tra i baracconi ormai sempre meno gremiti, davanti a giardinetti d’osterie che si vuotavano a poco a poco.
Oskar infilò il braccio in quello della sua compagna, poi si rivolse a Georg.
« Perché non è venuto ad Auhof? Abbiamo sentito tutti la sua mancanza ».
« Disgraziatamente non ero in condizioni di spirito molto socievoli ».
« Immagino » disse Oskar con gravità adatta alla situazione. « Del resto anch’io non ci sono stato che un paio di settimane. In agosto ho ritemprato le mie stanche membra nelle onde del Mare del Nord, sono stato all’isola di Wight ».
« Dicono che sia molto bella » disse Georg. « Ma chi ci va spesso? ».
« Lei vuol dire i Wyner » rispose Oskar. « Almeno, finché stavano a Londra, ci sono sempre andati regolarmente. Adesso ci vanno soltanto ogni due o tre anni ».
« Ma l’ipsilon se lo sono tenuti anche per l’Austria » disse Georg sorridendo.
Oskar rimase serio.
« Il vecchio signor Wyner si è guadagnato onestamente il diritto a quell’ipsilon » replicò. « A tredici anni era già in Inghilterra, si è fatto naturalizzare e giovanissimo è diventato socio della grande acciaieria che ancora oggi si chiama Black e Wyner ».
« Ma la moglie non è forse viennese? ».
« Già. E siccome lui è morto sette o otto anni fa, lei è tornata a stabilirsi qui con i due figli. Ma James non si abituerà mai a vivere qui... Lord Antinous, come lo chiama la signora Oberberger. Adesso è di nuovo a Cambridge, dove, non so perché, studia filologia greca. Del resto anche Demeter è stato due giorni a Ventnor ».
« Stanzides? » chiese Georg.
« Lei conosce il signor von Stanzides, barone? » domandò Amy.
« Sicuro ».
« Dunque, esiste veramente? » esclamò Amy.
« Ma senti! » disse Oskar. « Questa primavera ha scommesso su di lui alle corse a Freudenau e ha guadagnato un mucchio di soldi, e adesso domanda se esiste ».
« Perché dubita dell’esistenza di Stanzides, signorina? » domandò Georg.
« Sa, ogni volta che non so dove va, Oskar mi dice: ho un appuntamento con Stanzides, oppure, faccio una cavalcata al Prater con Stanzides, Stanzides di qua, Stanzides di là, ha più l’aria di una scusa, che di un nome vero! ».
« Taci, adesso » disse Oskar con dolcezza.
« Non solo Stanzides esiste, » spiegò Georg « ma ha i più bei baffi neri e gli occhi più ardenti che ci siano al mondo ».
« Può darsi, ma quando l’ho visto io, sembrava un burattino. Giacca gialla, berretto verde, cravattino viola ».
« E ha guadagnato quaranta fiorini puntando su di lui » concluse umoristicamente Oskar.
« Dove sono quei quaranta fiorini? » sospirò la signorina Amelie... A un tratto si fermò e disse: « Qui sopra non ci sono mai andata ».
« Ebbene, si può fare adesso » disse Oskar semplicemente.
Era la « ruota gigante », che girava adagio, maestosa coi suoi vagoncini illuminati. La giovane comitiva passò il cancelletto, salì in un vagoncino vuoto e si sollevò in aria.
« Sa chi ho conosciuto quest’estate, Georg? » disse Oskar. « Il principe di Guastalla ».
« Quale? » domandò Georg.
« Il più giovane naturalmente, Karl Friedrich. Era là in incognito. È in buonissimi rapporti con Stanzides; uno strano individuo. Le assicuro, » soggiunse poi piano « se uno di noi parlasse di politica come ne parla il principe, starebbe tutta la vita in prigione ».
« Guarda, Oskar! » gridò Amy. « Guarda la gente e i tavoli là sotto! Sembrano usciti da una scatola minuscola, vero? E tutte quelle luci laggiù in fondo, sono certamente in direzione di Praga. Non crede anche lei, signor Bermann? ».
« Può darsi » rispose Heinrich, guardando nella notte con la fronte corrugata attraverso la parete di vetro del vagoncino.
Quando lasciarono lo scompartimento e uscirono all’aperto, il chiasso domenicale stava già per dissolversi nella solitudine e nel silenzio.
« La piccola non sospetta che oggi è l’ultima volta che andiamo a spasso insieme per il Prater » disse Oskar Ehrenberg a Georg, mentre Amy li precedeva con Heinrich.
« Perché l’ultima volta? » domandò Georg senza molto interesse.
« Perché deve finire » rispose Oskar. « Queste cose non devono durare più di un anno. Del resto, da dicembre in poi lei potrà comprarsi i suoi guanti da Amy » soggiunse ridendo, ma non senza malinconia. « Le apro un piccolo negozio. In un certo senso glielo devo, perché l’ho strappata a una situazione relativamente sicura ».
« Sicura? ».
« Sì, era fidanzata con un fabbricante di foderi. Sapeva dell’esistenza di un tale mestiere? ».
Intanto Amy e Heinrich si erano fermati davanti a una scala a chiocciola che conduceva stretta e ripida a un terrazzino e aspettavano gli altri. Tutti furono d’accordo sul fatto che non si poteva lasciare il Prater senza essere stati sulle montagne russe.
Scivolarono vorticosamente nel buio, su e giù, nel vagoncino sferragliante, sotto le chiome nere degli alberi; e in quel rombo cupo e cadenzato Georg udì ben presto un grottesco motivo in ritmo ternario. E mentre ridiscendeva con gli altri la scala a chiocciola aveva anche già deciso che la melodia sarebbe stata suonata dall’oboe e dal clarinetto e accompagnata dal violoncello e dal contrabbasso. Evidentemente sarebbe stato uno scherzo, forse per una sinfonia.
« Se fossi un impresario, » dichiarò Heinrich con energia « farei costruire delle montagne russe lunghe diverse miglia, che attraversassero prati, colline, foreste, sale da ballo; penserei anche a fornire al pubblico qualche sorpresa lungo il cammino ». Ad ogni modo, seguitò poi, pensava che fosse venuto il momento di dare maggior sviluppo all’elemento fantastico nel Wurstelprater. Per il momento aveva in progetto una giostra che, mediante uno strano meccanismo, si elevava girando a spirale sempre più in alto, per finire in una specie di punta di campanile. Purtroppo gli mancavano le conoscenze tecniche per spiegare la cosa più chiaramente. E lungo la via inventava gruppi e figure burlesche per il tiro a segno e finì col proporre a gran voce un grandioso teatro dei burattini, per il quale poeti originali avrebbero dovuto scrivere commedie gaie e al tempo stesso profonde.
Giunsero così all’uscita del Prater, dove la vettura di Oskar era in attesa. Pigiati, ma di buon umore, andarono a un ristorante in città dove si poteva trovare dell’ottimo vino. Oskar fece portare dello champagne in una saletta riservata. Georg sedette al pianoforte e cominciò a improvvisare sul tema che gli era venuto in mente sulle montagne russe. Amy si era rincantucciata in un angolo del divano e Oskar le sussurrava all’orecchio ogni sorta di sciocchezze, che la facevano ridere allegramente. Heinrich era ridiventato silenzioso e rigirava lentamente il suo bicchiere fra le dita. A un tratto Georg cessò di suonare e lasciò cadere le mani sulla tastiera. A volte, quando aveva bevuto del vino, lo assaliva un accorato senso dell’inutilità e irrealtà della vita. Gli sembrava che fossero passati già molti e molti giorni da quando era disceso per una scala male illuminata nella Paulanergasse, e la passeggiata con Heinrich nel cupo viale autunnale era addirittura scomparsa nel passato più brumoso. Invece si ricordò improvvisamente, come se fosse stato ieri, di una donna assai giovane e assai corrotta con cui aveva avuto molti anni prima, per qualche settimana, una relazione allegra e spensierata come quella che adesso aveva Oskar Ehrenberg con Amy. Una sera quella donna lo aveva fatto attendere troppo a lungo per strada, ed egli se n’era andato, impaziente, e non aveva mai più saputo nulla di lei, né l’aveva più rivista. Com’era facile a volte la vita... Sentiva il riso leggero di Amy e voltandosi vide gli occhi di Oskar che cercavano i suoi, sopra i capelli biondi della ragazza. Quello sguardo lo irritò, lo evitò con ostentazione e tornò a suonare qualche motivo malinconico e popolare. Provava il desiderio di annotare tutti i motivi che gli erano venuti in mente durante la giornata e guardò l’orologio sopra la porta. Era l’una passata. Allora scambiò uno sguardo d’intesa con Heinrich ed entrambi si alzarono. Oskar accennò ad Amy, che s’era addormentata sulla sua spalla e fece capire con un sorriso e una scrollatina di spalle che, in quelle condizioni, non poteva pensare ad andar via. Gli altri due gli strinsero la mano, gli augurarono piano la buona notte e uscirono.
« Sa che cosa ho fatto, mentre lei improvvisava così bene, con tale incantevole grazia? » disse Heinrich. « Ho cercato di fissarmi bene in mente quel soggetto di cui le ho parlato la scorsa primavera ».
« Ah, il libretto d’opera! Interessante! Vuole raccontarmelo? ».
Heinrich scosse il capo.
« Vorrei, ma il guaio è che in realtà il soggetto non esiste. Come del resto la maggior parte dei miei cosiddetti soggetti! ».
Georg lo guardò con aria interrogativa.
« In primavera, quando ci siamo visti l’ultima volta, lei ne aveva in mente una gran quantità ».
« Sì, di idee ne ho fin troppe. Ma oggi non mi è rimasta che qualche frase staccata... anzi, qualche parola! Meglio ancora, qualche lettera dell’alfabeto sulla carta bianca! Come se una mano foriera di morte avesse toccato tutto. Ho paura che un giorno o l’altro, appena tocco quella roba, mi si squagli in mano come neve. Sì, sto attraversando un brutto periodo; e chissà se ne verrà mai uno migliore ».
Georg tacque. Poi, ricordandosi improvvisamente di aver letto in qualche giornale una notizia sul padre di Heinrich, l’ex deputato Bermann, domandò: « Suo padre è malato, vero? ».
« Sì » rispose Heinrich, senza guardarlo. « Mio padre si trova da giugno in una clinica per malati di mente ».
Georg scosse il capo con compassione.
« Sì, è una cosa terribile » continuò Heinrich. « Anche se negli ultimi tempi i miei rapporti con lui si erano molto allentati è pur sempre una cosa terribile, più terribile di quanto si possa immaginare ».
« In simili condizioni di spirito, è pienamente comprensibile che non possa progredire nel suo lavoro » disse Georg.
« Sì » rispose Heinrich un po’ incerto. « Ma non è soltanto questo. A dire il vero, nel mio stato d’animo attuale questo non ha grande importanza. Non voglio farmi migliore di quello che sono. Migliore... sarei forse migliore?... ». Rise brevemente, poi continuò: « Vede, fino a ieri pensavo ancora che fosse un insieme di cose a rendermi tanto depresso. Ma oggi ho avuto un’altra prova irrefutabile di come certe cose di nessuna importanza, anzi, ridicole, mi tocchino più da vicino di altre molto importanti, come per esempio la malattia di mio padre. È orribile, vero? ».
Georg guardava innanzi a sé. Perché l’accompagnava, pensava, e perché Heinrich lo trovava così naturale?
« Oggi, nel pomeriggio, ho ricevuto due lettere » continuò Heinrich parlando a denti stretti e con tono più violento del necessario. « Sì, due lettere... una di mia madre che ieri è andata a trovare mio padre in clinica. Questa lettera diceva che mio padre sta male, molto male, che, insomma, non gli rimane più molto da vivere ». Respirò profondamente. « E a questo naturalmente si riallacciano tante altre cose, come lei può immaginare: difficoltà di ogni specie, preoccupazioni per mia madre, per mia sorella e per me. E ora pensi: con questa lettera ne è arrivata un’altra che per così dire non conteneva nulla d’importante. Una lettera di una persona che mi è stata vicina per due anni. E in questa lettera c’era un punto che mi è parso un poco ambiguo. Un punto solo... Del resto, questa lettera, come tutte quelle della stessa persona, era molto affettuosa, molto carina... Si figuri ora che per tutto il giorno sono stato perseguitato, torturato dal ricordo di questo punto ambiguo, che un altro non avrebbe nemmeno notato. Non penso a mio padre che sta al manicomio, non a mia madre e a mia sorella che si disperano, soltanto a quel passaggio insignificante nella sciocca letterina di una donna per niente eccezionale. E questo mi rode internamente, mi impedisce di avere sentimenti filiali, sentimenti umani... Non è orribile? ».
Georg ascoltava stupito. Gli sembrava strano che quell’individuo taciturno e cupo si aprisse improvvisamente a lui, che conosceva appena, e di fronte a questa inattesa confidenza non poteva reprimere una sensazione di penoso imbarazzo. Aveva anche l’impressione di non dovere queste confessioni a una speciale simpatia di Heinrich, ma sentiva in esse piuttosto una mancanza di tatto, una certa incapacità di dominarsi, qualcosa per cui l’espressione « cattiva educazione » - dove l’aveva sentita? forse dal consigliere Wilt? - detta a proposito di Heinrich, gli sembrava molto appropriata. Stavano appunto passando accanto al Burgtor. Un cielo senza stelle si stendeva sulla città muta. Attraverso gli alberi del Volksgarten passava un lieve fruscio, si sentiva il rombo di un veicolo che si allontanava.
Poiché Heinrich continuava a tacere, Georg si fermò e disse in tono che cercò di rendere il più cortese possibile: « Ma adesso le devo proprio dire addio, caro signor Bermann ».
« Oh! » esclamò Heinrich. « Mi accorgo soltanto ora che lei mi ha accompagnato per un bel pezzo, e io le racconto, o per meglio dire, racconto a me stesso in sua presenza, con assoluta mancanza di tatto, un mucchio di storie che non possono minimamente interessarla; mi scusi ».
« Non c’è nulla da scusare » rispose Georg piano, e, sentendosi come colto in fallo da questa autoaccusa di Heinrich, gli tese la mano. Heinrich la strinse, disse: « Arrivederci, barone » e, come se ritenesse importuna ogni altra parola, si allontanò in fretta.
Georg lo guardò allontanarsi provando compassione e avversione a un tempo, e improvvisamente si sentì libero, quasi felice, come deve sentirsi un uomo giovane, senza preoccupazioni e destinato al miglior avvenire. Si rallegrava dell’inverno che era alle porte. Molte cose lo aspettavano: lavoro, svago, tenere esperienze sentimentali, e in fondo gli era indifferente da che parte gli venissero tutte queste gioie. Giunto davanti all’Opera si fermò un istante. Se per tornare a casa fosse passato dalla Paulanergasse, non avrebbe allungato di molto la strada. E sorrise pensando alle passeggiate sotto le finestre di quando era ragazzo. Non molto lontana di qui era la strada dove molte notti aveva alzato lo sguardo a una finestra dietro le cui tendine era solita mostrarsi Marianne, quando suo marito s’era addormentato. Questa donna, che giocava sempre con un pericolo alla cui gravità neppure lei credeva, non era mai stata veramente cara a Georg... Un altro ricordo, assai più remoto di questo, era molto più dolce. A Firenze, giovane diciassettenne, aveva passeggiato molte notti davanti alla finestra di una bella ragazza, la prima creatura femminile che si era data, vergine, a lui, giovane illibato. E pensava al momento in cui aveva visto l’amata incamminarsi all’altare al braccio dello sposo, davanti al prete che doveva benedire le nozze, e allo sguardo che lei gli aveva gettato di sotto il velo bianco, come un eterno addio... Era giunto alla meta, la strada breve era illuminata solo alle due estremità da due lanterne, cosicché si trovava completamente al buio di fronte alla casa. La finestra della camera di Anna era aperta, e come nel pomeriggio le tende di mussola si muovevano leggere nel vento. L’interno era completamente buio. Georg provò una tenerezza commossa. Di tutte le creature che non gli avevano nascosto la loro simpatia, Anna gli sembrava la più pura e la migliore. Era anche la prima che si interessasse alle sue ambizioni artistiche, e il suo interesse era certo più sincero di quello di Marianne che piangeva sempre, qualunque cosa egli suonasse al pianoforte; più profondo di quello di Else Ehrenberg che non voleva altro che assicurarsi orgogliosamente il primato di aver scoperto il suo giovane ingegno. E Anna era adatta come nessun’altra a opporsi alla sua tendenza alla trascuratezza e alla superficialità, a spingerlo a una attività consapevole e proficua. Già nell’inverno scorso Georg aveva pensato di cercarsi un incarico di direttore d’orchestra o di sostituto in un teatro d’opera tedesco; dagli Ehrenberg aveva parlato fuggevolmente di queste sue intenzioni, che non erano state prese molto sul serio; la signora Ehrenberg l’aveva maternamente consigliato, da donna esperta, di intraprendere piuttosto una tournée negli Stati Uniti come compositore e direttore d’orchestra, ed Else aveva soggiunto: « Un’ereditiera americana non sarebbe inoltre da disprezzare ». E mentre ricordava quelle parole, si rallegrava all’idea di potersene andare un po’ in giro per il mondo, provava desiderio di vedere città e persone straniere, sognava di conquistare la gloria e l’amore in paesi lontani; finì per concludere che la sua esistenza scorreva troppo monotona e tranquilla.
Aveva abbandonato da tempo la Paulanergasse senza aver peraltro cessato di pensare ad Anna; e dopo pochi passi fu a casa. Entrando in sala da pranzo vide che in camera di Felician c’era la luce accesa.
« Buona sera, Felician » disse forte.
La porta si aprì, e comparve Felician ancora vestito di tutto punto.
I due fratelli si strinsero la mano.
« Anche tu rientri soltanto ora? » disse Felician. « Credevo che dormissi già da molto tempo ». E mentre parlava chinava la testa a destra, com’era sua abitudine, senza guardarlo in viso. « Che cosa hai fatto? ».
« Sono stato al Prater » rispose Georg.
« Solo? ».
« No, ho incontrato Oskar Ehrenberg con una sua amica e lo scrittore Bermann. Abbiamo tirato al bersaglio e siamo andati sulle montagne russe; ci siamo abbastanza divertiti... Che cos’hai in mano? » disse poi interrompendosi. « Sei uscito così? » soggiunse scherzando.
Felician fece scintillare alla luce della lampada la spada che teneva nella destra.
« L’ho staccata ora dalla parete. Domani ricomincio seriamente a esercitarmi. Il torneo inizia alla metà di novembre, e quest’anno mi voglio battere anche contro Forestier ».
« Perbacco! » esclamò Georg.
« Credi che sia troppo audace? Ma fino alla metà di novembre c’è ancora tempo. E lo strano è che ho la sensazione di aver imparato molto proprio quest’estate, nelle sei settimane in cui non ho neppure preso in mano la spada. Mi pare che il mio braccio abbia trovato da sé tanti bei colpi nuovi. Non riesco a spiegarmi meglio ».
« Capisco ciò che vuoi dire ».
Felician teneva la spada dritta davanti a sé e la guardava con tenerezza. Poi disse: « Ralph ha chiesto di te e anche Guido... Peccato che tu non ci fossi ».
« Hai passato tutto il pomeriggio con loro? ».
« Oh no! Dopo pranzo sono rimasto a casa. Dovevi essere appena uscito. Ho studiato ».
« Studiato? ».
« Sì, ora devo impegnarmi seriamente. Entro maggio voglio sostenere gli esami per intraprendere la carriera diplomatica ».
« Sei dunque deciso? ».
« Assolutamente. Rimanere alla prefettura non ha nessun senso per me. Più ci sto e più me ne persuado. Del resto, non sarà stato tempo perduto. Apprezzano che si sia prestato servizio in patria per qualche anno ».
« Così probabilmente lascerai Vienna già in autunno? ».
« Credo ».
« E dove ti manderanno? ».
« Beh, se si potesse già sapere... ».
Georg guardò fisso davanti a sé. La separazione era dunque così vicina! Perché tutto questo gli faceva a un tratto tanta impressione?... Del resto anche lui era deciso ad andarsene, e recentemente aveva anche già parlato con il fratello delle sue intenzioni per l’anno successivo. Felician continuava forse a credere che non fossero serie? Oh, poter di nuovo parlare con lui, fraternamente, a fondo, a cuore aperto, come quella sera dopo il funerale del padre! Ma soltanto nei momenti tristi della loro vita si trovavano vicini. In ogni altro momento, restava sempre fra loro quella specie di strano imbarazzo. Ma era fatale che fosse così. Bisognava accontentarsi di parlare insieme come buoni conoscenti! E come rassegnandosi, Georg continuò:
« Che cosa hai fatto stasera? ».
« Ho cenato con Guido e con una interessante giovane signora ».
« Davvero? ».
« È di nuovo dolcemente prigioniero di due begli occhi ». « Chi è? ».
« È un'allieva di violino del conservatorio. Ebrea. Non eccezionalmente carina, ma intelligente. Lei lo istruisce, e lui la stima. Lui vorrebbe che lei si facesse battezzare. Ti dico, una relazione buffa. Ti saresti divertito anche tu ».
Georg guardava la spada che Felician teneva ancora in mano.
« Avresti voglia di fare ancora un po’ d’esercizio? ».
« Perché no? » rispose Felician e andò in camera sua a prendere una seconda arma. Intanto Georg aveva spinto contro il muro il grande tavolo che stava al centro.
« È da maggio che non tocco più un fioretto » disse prendendo l’arma. Si tolsero la giacca e incrociarono le spade. Un secondo dopo Georg era toccato.
« Avanti! » disse Georg, felice di potersi misurare arditamente con il fratello, la spada sottile e lucente in mano.
Felician lo colpì ogni volta che gli piacque, senza esser toccato lui stesso una sola volta. Poi lasciò cadere l’arma e disse:
« Oggi sei troppo stanco, è inutile. Ma dovresti venire più sovente al circolo. Con le tue doti è un peccato non esercitarti, te lo assicuro ».
La lode del fratello rallegrò Georg. Depose la spada sul tavolo, respirò profondamente e si avviò verso l’ampia finestra centrale, che era aperta.
« Che aria deliziosa! » disse. Un lampione solitario brillava nel parco, il silenzio era profondo.
Felician si avvicinò a Georg, e mentre questi si appoggiava con tutte e due le mani al davanzale, rimase in piedi, diritto, guardando con la sua aria di tranquilla superiorità la città, il parco, la strada che si stendeva sotto la finestra. Tacquero entrambi a lungo. Ed entrambi sapevano che ognuno pensava alla stessa cosa: a una notte di maggio di quell’anno in cui erano tornati a casa insieme attraverso il parco, e il padre li aveva salutati con un muto cenno del capo da quella stessa finestra dove stavano ora. E tutti e due rabbrividirono leggermente pensando che oggi si erano goduti la vita senza pensare con dolore a quel caro uomo che ormai giaceva sotto terra.
« Allora, buona notte » disse Felician con più intensità del solito, tendendo la mano al fratello. Georg la strinse senza parlare, e ognuno si recò nella propria camera.
Georg accese la lampada sullo scrittoio, prese alcuni fogli di musica e cominciò a scrivere. Non scrisse lo scherzo che gli era venuto in mente quando tre ore prima volava nella notte sotto le chiome nere degli alberi; non scrisse nemmeno la mesta canzone popolare che aveva improvvisato al ristorante; era un nuovo tema che saliva lento e irresistibile da profondità ignote. A Georg pareva ora di doversi abbandonare completamente a qualcosa di incomprensibile e inspiegabile. Scrisse la melodia, che immaginava cantata da una voce di contralto o anche suonata sulla viola; e insieme vi risuonava nella fantasia uno strano accompagnamento, che, ne era certo, non gli sarebbe più sfuggito dalla memoria.
Erano le quattro del mattino quando andò a letto; tranquillo come chi è destinato a non subire alcun male nella vita, e al quale né solitudine, né povertà, né morte possono incutere timore.
1. In italiano nel testo. [N.d.T]
2. Abbandonarmi al tuo sguardo, / Alla tua bocca, al tuo seno, / Udire la tua voce / Era la mia prima e ultima gioia.
II
Nel vano della finestra, sul sofà di velluto verde, sedeva la signora Ehrenberg col suo ricamo. Else, di fronte a lei, leggeva un libro. Nella parte più buia e più interna della stanza, dietro al pianoforte, riluceva un busto in marmo bianco di Iside e attraverso la porta aperta una striscia di luce proveniente dalla stanza vicina si disegnava sul tappeto grigio. Else levò gli occhi dal libro, guardò fuori dalla finestra le alte chiome degli alberi nel parco Schwarzenberg che si agitavano al vento d’autunno e disse come per caso:
« Si potrebbe magari telefonare a Georg Wergenthin, se volesse venire stasera ».
« Non so » disse la signora Ehrenberg, lasciando cadere in grembo il suo ricamo. « Ti ricordi, che bella lettera di condoglianze gli ho scritto, e quanto ho insistito perché venisse ad Auhof. Non è venuto e la sua risposta è stata molto fredda. Io non gli telefonerei ».
« Non si può trattarlo come tutti gli altri » disse Else. « È una di quelle persone a cui ogni tanto bisogna ricordare che si è al mondo. Quando glielo si è ricordato, allora è contento ».
« Tanto non si conclude nulla » disse la signora Ehrenberg continuando tranquillamente il ricamo.
« Non è che si debba concludere qualcosa » ribattè Else. « Non lo sai ancora, mamma? È un mio buon amico e basta, e anche questo, a grandi intervalli. Credi davvero che sia innamorata di lui? Sì, lo sono stata da piccola, quando a Nizza giocavamo a tennis insieme, ma sono tempi passati ».
« Beh, e a Firenze? ».
« A Firenze ero piuttosto innamorata di Felician ».
« E adesso? » domandò la signora Ehrenberg lentamente.
« Adesso?... Probabilmente pensi a Heinrich Bermann... Ebbene, ti sbagli, mamma ».
« Sarei molto contenta di sbagliarmi. Ma quest’estate avevo la netta impressione che... ».
« Credimi, » la interruppe Else un po’ impaziente « non c’è stato nulla e continua a non esserci nulla. Una sola volta, in un pomeriggio molto caldo, mentre andavamo in barca - tu del resto ci hai visto dal balcone, ci guardavi perfino col binocolo - ci siamo spinti un po’ oltre. Ma se anche fossimo caduti l’uno nelle braccia dell’altra, il che del resto non è mai successo, non avrebbe significato nulla. Un’avventura estiva, tutto qui ».
« E poi, si dice che abbia una relazione molto seria » disse la signora Ehrenberg.
« Vuoi dire... con quell’attrice, mamma? ».
La signora Ehrenberg levò gli occhi dal lavoro.
« Ti ha raccontato qualche cosa di lei? ».
«Raccontato!... Direttamente raccontato no. Ma quando passeggiavamo insieme nel parco, o la sera lungo il lago, non faceva che parlare di lei. Naturalmente, senza farne il nome... E siccome gli uomini sono stravaganti, più gli piacevo io, e più era geloso di quell'altra... Del resto, se non fosse che questo! Quale giovane uomo non ha una relazione seria? Credi forse che Georg Wergenthin sia un’eccezione, mamma? ».
« Una relazione seria?... No. Questo non gli capiterà mai. È troppo freddo, troppo calcolatore per farlo... troppo privo di temperamento ».
« È appunto per questo » disse Else valendosi della sua buona conoscenza degli uomini. « Ci cascherà senza neppure accorgersene e ne sarà inghiottito. E un bel giorno si ritroverà sposato... per pura indolenza... con una persona qualunque che probabilmente gli sarà del tutto indifferente ».
« Devi avere dei sospetti concreti! » disse la signora Ehrenberg.
« Certo che li ho ».
« Marianne? ».
« Marianne! La storia è finita da un pezzo, mamma! E poi non è mai stata molto seria ».
« Ma chi è dunque, secondo te? ».
« Dillo tu, mamma! ».
« Non ne ho la minima idea ».
« È Anna » disse Else brevemente.
« Quale Anna? ».
« Anna Rosner, si capisce ».
« Macché!... ».
« Puoi dire “macché” finché vuoi, ma è così ».
« Else, spero non crederai sul serio che Anna, che è una natura così riservata, abbia potuto dimenticarsi a tal punto... ».
« Dimenticarsi a tal punto!... Dio mio, mamma, certe volte tu ti esprimi in un modo! Del resto mi sembra che in questi casi non si tratti poi tanto di dimenticanza ».
La signora Ehrenberg sorrise, non senza un certo orgoglio.
Si udì lo squillo del campanello.
« Sta’ a vedere che è lui » disse Else.
« Potrebbe anche essere Demeter Stanzides » osservò la signora Ehrenberg.
« Stanzides dovrebbe condurci una volta il principe » disse Else incidentalmente.
« Credi che potrebbe? » disse la signora Ehrenberg, e lasciò cadere il ricamo in grembo.
« Perché non dovrebbe potere? » disse Else. « Sono così intimi amici ».
La porta si aprì, ma non entrò nessuno degli attesi, bensì Edmund Nürnberger. Era vestito con gran cura, come sempre, anche se non proprio all’ultima moda. Aveva una giacca un po’ troppo corta e nella grossa cravatta di raso scuro era puntata una spilla di smeraldi. Appena giunto sulla soglia cominciò a fare profondi inchini, non senza lasciar trapelare una certa ironia per la propria compitezza.
« Sono io il primo? » domandò. « Non c’è ancora nessuno? Né un consigliere di corte? né un conte? né un poeta? né una donna fatale? ».
« Soltanto una che purtroppo non lo è mai stata, » disse la signora Ehrenberg tendendogli la mano « e una... che forse lo sarà un giorno ».
«Oh, sono persuaso che la signorina Else riuscirà anche in questo, purché lo desideri » disse Nürnberger. E si passò la mano sinistra sui lisci, lucidi capelli neri.
La signora Ehrenberg gli espresse il proprio rincrescimento per averlo atteso invano ad Auhof. Dunque era proprio stato a Vienna tutta l’estate.
« Perché se ne meraviglia, signora? che io vagabondassi sullo sfondo di un paesaggio alpino o sulla riva del mare oppure tra le quattro pareti della mia stanza, questo in fondo è abbastanza indifferente ».
« Deve essersi sentito molto solo » disse la signora Ehrenberg.
« La solitudine si sente certo di più quando non si ha vicino qualcuno che manifesti il desiderio di intrattenersi con noi... Ma parliamo piuttosto di persone più interessanti e di belle speranze di quanto non sia io. Come stanno i numerosi amici di questa casa, tanto amata da tutti? ».
« Amici! » disse Else. « Bisognerebbe anzitutto vedere quel che lei intende per amici! ».
« Tutte le persone che per qualche ragione dicono delle cose piacevoli, cui si crede ».
La porta della stanza da letto si aprì e ne uscì il signor Ehrenberg che salutò Nürnberger.
« Hai fatto le valigie? » chiesé Else.
« Sono già pronte » rispose Ehrenberg, che indossava un vestito grigio eccessivamente ampio e teneva un grosso sigaro tra i denti. Si voltò verso Nürnberger. « Parto oggi per Corfú, così come sono... Per il momento. La stagione ricomincia e inorridisco se penso ai ricevimenti di casa Ehrenberg ».
« Nessuno pretende che tu li onori della tua presenza » disse con dolcezza la signora Ehrenberg.
« Come presenti bene la situazione » disse Ehrenberg, sbuffando come una locomotiva. « Rinuncerei ben volentieri alle tue serate, naturalmente. Ma se mi capita di voler cenare tranquillo in casa proprio il giovedì, e in un angolo sta un attaché d’ambasciata, nell’altro angolo un ussaro, laggiù c’è un compositore che ci tormenta con le sue ultime ispirazioni; e qui sul sofà un famoso freddurista, alla destra la signora Oberberger che combina un appuntamento con qualcuno... ebbene, tutto ciò mi rende nervoso. A volte si sopporta, a volte no ».
« Ha intenzione di rimanere via tutto l’inverno? » domandò Nürnberger.
« Può darsi. Avrei intenzione di andare verso l’Egitto, la Siria, probabilmente anche la Palestina. Forse è soltanto perché si invecchia, forse perché si parla tanto di sionismo e simili cose, ma insomma, vorrei vedere la Palestina prima di morire ».
La signora Ehrenberg alzò le spalle.
« Queste son cose che mia moglie non capisce e i miei figli ancor meno » disse Ehrenberg. « No, Else, nemmeno tu ne capisci qualcosa. Ma quando si legge ciò che succede nel mondo, si è tentati di credere che non ci sia per noi altra salvezza ».
« Per noi? » ripetè Nürnberger. « Finora non mi è sembrato che l’antisemitismo le abbia particolarmente nuociuto ».
« Perché sono diventato un uomo ricco? Se le dicessi che non me ne importa niente del denaro, lei naturalmente non mi crederebbe, e avrebbe ragione. Ma come ora sono qui davanti a lei, le giuro, darei la metà del mio patrimonio per vedere sulla forca i peggiori dei miei nemici ».
« Ho soltanto paura che lei farebbe impiccare quelli che non lo meritano » disse Nürnberger.
« Il pericolo non è grave » replicò Ehrenberg. « Prendendo nel mazzo si prende sempre qualcuno ».
« Non è la prima volta che noto come lei non affronti questo problema con la necessaria obiettività, caro signor Ehrenberg ».
Ehrenberg mordicchiò il suo sigaro e lo posò sul portacenere con dita tremanti di rabbia. « Quando mi si dicono di queste cose... e... scusi... lei è battezzato? Di questi tempi non si può mai sapere ».
« Non sono battezzato » rispose tranquillamente Nürnberger. « Ma non sono nemmeno più ebreo. È tanto tempo che non professo più una religione, per la semplice ragione che non mi sono mai sentito ebreo ».
« Quando un giorno sulla Ringstrasse le sfonderanno il cilindro perché, scusi la franchezza, lei ha un naso ebreo, allora si sentirà anche lei ebreo, stia certo ».
« Ma papà, perché ti agiti così? » disse Else accarezzandogli il cranio calvo e lucido.
Il vecchio Ehrenberg le prese una mano, l’accarezzò, poi domandò improvvisamente: « Potrò ancora avere il piacere di vedere il mio signor figlio, prima di partire? ».
« Oskar tornerà presto a casa » disse la signora Ehrenberg.
« Le farà piacere sapere che mio figlio Oskar è anche lui un antisemita » disse Ehrenberg rivolto a Nürnberger.
« È una sua idea fissa » disse sospirando la signora Ehrenberg a Nürnberger. « Vede dappertutto degli antisemiti, perfino nella sua stessa famiglia ».
« Questa è l’ultima malattia nazionale degli ebrei » disse Nürnberger. « In quanto a me sono riuscito finora a conoscere un solo vero antisemita. Ma non le posso purtroppo nascondere, caro signor Ehrenberg, che era un noto leader sionista ».
Ehrenberg fece un segno con la mano, che voleva dir tutto.
Con l’entrata di Demeter Stanzides e Willy Eißler l’atmosfera della sala si fece subito vivace e brillante. Demeter portava la sua uniforme con elegante disinvoltura; pareva indossare piuttosto un costume, che non una divisa militare. Willy, in smoking, pallido e un po’ tirato, prese subito in mano la conversazione, e la sua voce, piacevolmente rauca, risuonò nel salotto con amabile autorità. Raccontò dei preparativi per una rappresentazione nei circoli aristocratici, cui era stato chiamato a prender parte come consigliere, regista e attore; descrisse una seduta di giovani nobili in cui, secondo lui, si aveva l’impressione di trovarsi in un’assemblea di malati di mente, e rese con grande comicità una conversazione fra due contesse, il cui tono di voce e modo di parlare sapeva imitare a meraviglia. Ehrenberg si divertiva sempre molto quando c’era Willy Eißler. L’oscura sensazione che quest’ebreo ungherese in un certo senso fosse molto più intelligente di quella banda di aristocratici, che egli odiava così cordialmente, e riuscisse a prendersene gioco gli ispirava un senso di altissima stima per quel giovane.
Else stava seduta con Demeter al tavolino d’angolo, e si faceva raccontare da lui dell’isola di Wight.
« C’è andato con il suo amico, non è vero? » domandò Else. « Col principe Karl Friedrich? ».
« Amico?... mah, il principe non è precisamente mio amico, signorina Else. Il principe non ha amici e io nemmeno. Non è il nostro genere ».
« Da ciò che si dice di lui, deve essere un uomo interessante ».
« Non so se precisamente interessante. In ogni caso ha meditato su molte cose di cui i principi in generale si disinteressano totalmente. Forse, se glielo avessero consentito, avrebbe potuto far molto. Ma forse è meglio che gli abbiano tenuto la briglia corta, meglio per lui e in fondo anche per il paese. Tanto, un uomo solo non può far nulla; in nessun paese e in nessun tempo. Allora è meglio lasciar perdere e ritirarsi, come ha fatto lui ».
Else lo guardò un po’ stupita. « Come mai oggi è in disposizioni di spirito così filosofiche? Temo che Willy Eißler l’abbia guastato ».
« Willy? Guastare me? ».
« Lei non deve frequentare gente così intelligente ».
« Perché no? ».
« Lei deve essere semplicemente giovane, deve vivere, distinguersi; e poi, quando non può più continuare deve fare ciò che preferisce... senza star troppo a riflettere sui suoi casi e su quelli del mondo ».
« Questo avrebbe dovuto dirmelo prima, signorina Else. Quando si è cominciato una volta a diventare intelligenti... ».
« Ma lei avrebbe forse dovuto evitarlo » disse Else seria, scuotendo il capo, ed entrambi dovettero ridere.
Il lampadario si accese in tutte le sue luci. Entrarono Heinrich Bermann e Georg von Wergenthin. Georg, invitato da un sorriso di Else, le si sedette accanto.
« Sapevo che sarebbe venuto »disse Else in tono poco sincero, ma cordiale, stringendogli la mano. Nel rivederlo seduto davanti a lei dopo tanto tempo, con quel suo viso così bello e fiero, nel risentire di nuovo la sua voce un po’ bassa, ma calda, Else fu più contenta di quel che avrebbe creduto.
Poi entrò la signora Wyner; piccola, accesa in volto, allegra e pur sempre un poco imbarazzata. La seguiva la figlia Sissy. Nel salutarsi a vicenda, i gruppi si sciolsero e si ricomposero.
« Ebbene, ha già composto quella canzone per me? » domandò Sissy a Georg con occhi e labbra ridenti, giocherellando con un guanto e ondeggiando come un serpente nel suo vestito verde scuro tutto pagliuzze iridescenti.
« Una canzone? » domandò Georg. Non se ne ricordava davvero.
« O forse era un valzer, o qualcosa di simile. Ma ha formalmente promesso di dedicarmi qualcosa ». Mentre parlava, gettava occhiate vivaci qua e là. Il suo sguardo si accendeva incontrando gli occhi di Willy, passava carezzevole su Demeter, si fissava enigmatico e interrogativo su Heinrich Bermann. Sembrava che fuochi fatui danzassero per il salone.
La signora Wyner comparve a un tratto vicino a sua figlia, rossa in volto. « Sissy è così sciocca... cosa credi, Sissy, il barone Georg ha avuto quest’anno cose ben più importanti da fare che comporre per te ».
« Oh, no di certo » disse Georg cortesemente.
« La scomparsa di suo padre non è una disgrazia da poco ». Gli occhi di Georg si persero lontano. Ma la signora Wyner continuò imperterrita: « Suo padre non era neppure tanto anziano, non è vero? E un così bell’uomo... è vero che era un chimico? ».
« No, » disse Georg pazientemente « era presidente della Società Botanica ».
Heinrich, con un braccio appoggiato al pianoforte chiuso, parlava con Else.
« Dunque è stato in Germania? » domandava la ragazza.
« Sì, saranno già quasi quattro o cinque settimane » rispondeva Heinrich.
« E quando ci ritorna? ».
« Non lo so. Forse mai ».
« Impossibile!... A che cosa sta lavorando? » soggiunse in fretta.
« A un po’ di tutto » rispose Bermann. « In questo periodo sono molto inquieto. Prendo molti appunti, ma non finisco nulla. Del resto, il finire è una cosa che in generale m’interessa poco. Si vede che finisco le cose troppo rapidamente dentro di me ».
« Le cose e gli uomini! » soggiunse Else.
« Può darsi. Peccato che il sentimento a volte resti ancora attaccato agli uomini, mentre la ragione se ne è staccata già da un pezzo. Un poeta - se mi permette di usare questa parola -dovrebbe ritirarsi davanti a chiunque non sia più un mistero per lui... quindi in particolar modo davanti a tutti coloro che ama ».
« Ma si dice anche che conosciamo di meno proprio quelli che amiamo ».
« Questo lo dice Nürnberger, ma non è precisamente così. Se fosse così, cara Else, allora la vita sarebbe probabilmente più bella di quanto non sia. Quelli che amiamo li conosciamo forse meglio degli altri, ma li conosciamo con vergogna, con amarezza, con il timore che anche altri li conoscano altrettanto bene. Amare significa aver paura che altri scoprano i difetti che noi stessi abbiamo scoperto nell’essere amato. Amare vuol dire poter guardare nel futuro e maledire questo dono... Amare significa conoscere qualcuno così bene, da morirne ».
Else si appoggiò al pianoforte, in quel suo atteggiamento da gran dama e insieme infantile. Lo ascoltava con curiosità un po’ distratta. Come le piaceva Bermann in quei momenti. Avrebbe ancora desiderato passargli una mano consolatrice sui capelli, come allora sul lago, quando era tormentato dal suo amore per quell’altra. Ma quando si chiudeva di nuovo in sé all’improvviso, freddo, scontroso e come spento, allora sentiva che non avrebbe mai potuto vivere con lui, che dopo un paio di settimane sarebbe scappata via... con un ufficiale spagnolo o con un violinista.
« Lei fa bene a frequentare Georg Wergenthin » disse con tono protettivo. « Avrà una buona influenza su di lei. È assai più tranquillo. Non credo che abbia il suo talento, e nemmeno che sia così intelligente quanto lei... ».
« Che cosa ne sa lei del suo talento » la interruppe Bermann bruscamente.
Georg si avvicinò ai due e domandò a Else se non si poteva avere il piacere di sentirla cantare un Lied. No, Else non ne aveva voglia. Del resto, negli ultimi tempi studiava principalmente partiture d’opera, che la interessavano di più. In fondo non era una natura lirica. Georg le domandò scherzosamente se non aveva la segreta intenzione di calcare le scene.
« Con questo filo di voce! » disse Else.
Anche Nürnberger si era avvicinato a loro. « Questo non sarebbe un impedimento » disse. « Anzi, sono persuaso che ben presto ci sarebbe un critico alla moda che la proclamerebbe grande cantante appunto perché non ha voce; in compenso scoprirebbe in lei un’altra dote qualsiasi, per esempio la facoltà di caratterizzare i personaggi. Così come oggi ci sono dei pittori di nome che non hanno il senso del colore, ma in compenso sanno ingegnarsi; e poeti di fama, che non hanno una sola idea, ma che sanno sempre trovare per ogni sostantivo l’epiteto più disadatto ».
Else notò che le parole di Nürnberger irritavano Georg e si rivolse a lui. « Volevo farle vedere qualcosa » disse, avviandosi verso lo scaffale dove teneva la musica.
Georg la seguì.
« Ecco qui la raccolta di antiche canzoni popolari italiane. Vorrei che lei mi indicasse le più belle. Per quanto mi riguarda, non me ne intendo molto ».
« Non riesco a capire come possa sopportare accanto a sé individui come quel Nürnberger » disse Georg a bassa voce. « Crea intorno a sé un’atmosfera di diffidenza e di malignità ».
« Gliel’ho già detto tante volte, Georg, lei non conosce gli uomini. Che cosa ne sa di Nürnberger? È diverso da quello che lei crede. Domandi un po’ al suo amico Heinrich Bermann ».
« Lo so che anche Bermann ha molta simpatia per lui » rispose Georg.
« Parlate di Nürnberger? » domandò la signora Ehrenberg avvicinandosi.
« Georg non lo può soffrire » disse Else col suo solito tono leggero.
« Ha torto; ha mai letto qualcosa di suo? ».
Georg scosse il capo.
« Nemmeno quel suo romanzo che ha fatto così sensazione quindici o sedici anni fa? È quasi una vergogna! Ultimamente lo abbiamo prestato al consigliere Wilt. È rimasto sbalordito, mi creda, nel vedere come in quel libro fosse già prefigurata tutta l’Austria attuale ».
« Davvero? » disse Georg senza convinzione.
« Non può immaginare con quanto entusiasmo sia stato accolto allora Nürnberger » continuò la signora Ehrenberg. « Tutte le porte gli si sono aperte improvvisamente ».
« Forse questo gli è bastato » disse Else, pensosa e saccente a un tempo.
Heinrich chiacchierava con Nürnberger, vicino al pianoforte, e si sforzava, come faceva sovente, di persuaderlo a scrivere un nuovo lavoro, oppure a pubblicare i vecchi.
Nürnberger si schermiva, il pensiero di vedere di nuovo trascinato in pubblico il suo nome, di farsi riprendere dal vortice letterario dell’epoca, che gli sembrava sciocco e ripugnante al tempo stesso, lo faceva addirittura rabbrividire. Non aveva nessuna voglia di mettersi in concorrenza anche lui. A che scopo? Ovunque cricche e conventicole, che non si prendevano nemmeno più la briga di nascondersi. C’era forse ancora un ingegno forte e onesto che non dovesse aspettarsi ogni minuto di essere trascinato nel fango? Si trovava forse ancora una sola testa vuota che non potesse dimostrare di essere stata dichiarata genio da qualche giornalucolo? Forse che di questi tempi la fama aveva ancora qualcosa in comune con l’onore? E valeva forse la pena di fare più che una scrollata di spalle, nel vedere che si era dimenticati, superati? Chi poteva poi prevedere quali sarebbero stati i giudizi della posterità? E se i cretini fossero poi stati i veri geni, e i geni i cretini? Era ridicolo avventurarsi a costo della propria tranquillità, anzi, della stima di se stessi, in un gioco nel quale anche la suprema vittoria non avrebbe offerto che magre gioie.
« Magre gioie? » disse Heinrich. « Posso capire che siano tali la fama, la ricchezza, l’influenza esercitata intorno a sé; ma rinunciare a qualcosa di così sicuro com’è la consapevolezza della propria intima forza, semplicemente perché gli altri beni sono tutti equivoci... ».
« La consapevolezza della propria intima forza! Perché non dice addirittura “gioia del creare”? ».
« Esiste, Nürnberger! ».
« Può darsi. Io stesso ricordo di aver provato qualcosa di simile, molto tempo fa... Ma adesso, con gli anni, come lei sa, ho perduto completamente la facoltà di ingannare me stesso ».
« Forse lo crede soltanto » replicò Heinrich. « Chissà che non sia proprio questa facoltà di ingannare se stesso che lei ha sviluppato più di tutte col tempo! ».
Nürnberger rise. « Sa che cosa provo, quando la sento parlare così? Quello che prova un maestro di scherma che riceve un colpo al cuore dal suo stesso allievo ».
« E nemmeno dal migliore di essi » disse Heinrich.
All’improvviso comparve sulla porta il signor Ehrenberg, con grande stupore di sua moglie, che lo credeva già alla stazione. Conduceva per mano una giovane signora vestita di nero con grande semplicità, e con i capelli raccolti molto in alto, secondo una moda superata. Aveva le labbra rosse e carnose, e gli occhi limpidi e freddi in un viso pallido ed espressivo.
« Venga, venga » disse Ehrenberg con una certa malignità che gli brillava nei piccoli occhi di ebreo, e condusse l’ospite proprio davanti a Else, che stava chiacchierando con Stanzides. « Ti porto un’ospite ».
Else tese la mano alla giovane signora. « Che bella sorpresa! ». E fece le presentazioni: « Il signor Demeter Stanzides, la signorina Therese Golowski ».
Therese fece un breve cenno col capo e guardò Demeter per un momento, senza timidezza, come se contemplasse un bell’animale. Poi si rivolse a Else: « Se avessi saputo che avevate tanti invitati... ».
« Non le pare che somigli a una studentessa russa? Eh? » disse Stanzides piano a Georg.
Georg annuì: « Un po’. La conosco. Era una compagna di collegio della signorina Else e adesso, pensi, è una dei leader socialisti. Ultimamente è anche stata in carcere, per lesa maestà, credo ».
« Mi ricordo di aver letto qualcosa di simile, sui giornali » disse Demeter. « Bisognerebbe veramente conoscere più da vicino una simile creatura. È carina. Ha un viso che pare intagliato nell’avorio ».
« E tratti molto energici » soggiunse Georg. « Del resto, anche suo fratello è un uomo strano. Pianista e matematico. L’ho conosciuto di recente. Il padre deve essere un negoziante di pellami ebreo, rovinato da un fallimento ».
« E una razza così strana » osservò Demeter.
Intanto la signora Ehrenberg s’era avvicinata a Therese e aveva deciso di non mostrare nessuna sorpresa. « Si accomodi, Therese » disse. « Come sta? Da quando si è buttata nella politica, non si occupa più dei suoi vecchi amici ».
« Sì, purtroppo la mia attività mi lascia poco tempo per coltivare le relazioni amichevoli » rispose Therese sporgendo il mento, il che diede improvvisamente al suo volto un’espressione maschile e quasi brutta.
La signora Ehrenberg era incerta se dovesse dire o no qualcosa della passata prigionia di Therese. Ad ogni modo bisognava notare che si sarebbe difficilmente trovata un’altra casa a Vienna frequentata da signore appena uscite dal carcere.
« Come sta tuo fratello? » domandò Else.
« Fa il soldato » rispose Therese. « Puoi dunque immaginare come stia... ». E gettò uno sguardo ironico all’uniforme da ussaro di Demeter.
« Non avrà dunque tempo di studiare il pianoforte » disse la signora Ehrenberg.
« Non ci pensa proprio più, a diventare pianista » rispose Therese. « Si è dato tutto alla politica. Lei non lo tradirà, vero tenente? » disse poi, volgendosi verso Demeter.
Stanzides rise, un po’ imbarazzato.
« Cosa vuol dire: politica? » domandò il signor Ehrenberg. « Vuol diventare ministro? ».
« In Austria no davvero » rispose Therese. « È sionista ».
« Cosa? » esclamò Ehrenberg, e il suo viso si illuminò.
« Questo è certo un terreno su cui non ci comprendiamo completamente » soggiunse Therese.
« Cara Therese... » cominciò Ehrenberg.
« Perderai il treno » lo interruppe sua moglie.
« Non perderò il treno, e del resto domani ce ne sono altri. Cara Therese, le dico una sola cosa: ognuno cerca la sua felicità dove la trova. Ma in questo caso è suo fratello il più furbo, non lei. Mi scusi, forse sono un profano in cose politiche, ma le assicuro Therese, che voi ebrei socialdemocratici seguirete la stessa sorte degli ebrei liberali e dei nazionalisti tedeschi ».
« In che senso? » domandò Therese sdegnata. « Perché dovremmo seguire la stessa sorte? ».
« Perché... Glielo dico subito. Chi ha creato il movimento liberale in Austria?... Gli ebrei! Da chi sono stati traditi e abbandonati gli ebrei? Dai liberali. Chi ha creato in Austria il movimento tedesco-nazionale? Gli ebrei! Da chi sono stati piantati in asso... ma che dico, piantati in asso! Trattati come cani?... Dai tedeschi! E sarà la stessa cosa per voi, col comunismo e col socialismo. Quando la minestra sarà servita vi cacceranno da tavola. È sempre stato così e continuerà a esserlo ».
« Vedremo » rispose Therese tranquilla.
Georg e Demeter si guardarono, come due amici naufragati insieme su un’isola deserta. Oskar, che era entrato durante quel discorsetto di suo padre, aveva le labbra serrate ed era molto imbarazzato. E tutti ebbero un senso come di liberazione quando Ehrenberg guardò a un tratto l’orologio e cominciò a prender congedo.
« Per oggi non ci accorderemo » disse a Therese.
« Temo di no » disse Therese sorridendo. « Buon viaggio e ancora una volta grazie, a nome di... ».
« Ssssst » disse Ehrenberg, e scomparve.
« Perché ringrazi papà? » domandò Else sottovoce.
« Per un’elargizione che ho avuto la sfacciataggine di venirgli a chiedere. Del resto, non c’è nessun uomo ricco nella cerchia delle mie conoscenze. Dello scopo di questa elargizione non sono autorizzata a parlare ».
La signora Ehrenberg si avvicinò a Bermann e Nürnberger che conversavano appoggiati al pianoforte e disse piano:
« Lo sanno che... » e indicò Therese con gli occhi « è stata dimessa ora dal carcere? ».
« L’ho letto sul giornale » rispose Heinrich.
Nürnberger strizzò l’occhio, gettò uno sguardo al gruppo nell’angolo, alle tre ragazze che chiacchieravano con Stanzides e Willy Eißler e scosse il capo.
« Quale malignità vuole tirar fuori adesso? » domandò la signora Ehrenberg.
« Penso a quante probabilità avrebbe potuto avere la signorina Else di languire in carcere due mesi, e la signorina Therese invece di tenere cerchio in un salotto elegante come giovane padrona di casa ».
« Probabilità? ».
« Il signor Ehrenberg ha avuto fortuna, il signor Golowski è stato disgraziato... ecco l’unica differenza ».
« Senta, Nürnberger, » disse Heinrich « lei non vorrà, spero, negare completamente il valore dell’individualità in questo mondo... Else e Therese sono due nature molto differenti ».
« Credo anch’io » disse la signora Ehrenberg.
Nürnberger scrollò lo spalle.
« Sono entrambe due belle ragazze, intelligenti... il resto è opera del caso, che ha grande importanza nella vita delle giovani signore, e diciamo pure, anche in quella degli uomini ».
« No, no, » disse Heinrich scuotendo vivamente la testa « la vita non è così semplice ».
« Non si tratta di semplicità, caro Heinrich ».
Lo sguardo della signora Ehrenberg si era posato raggiante sulla porta. Felician entrò, si diresse con sonnambolica sicurezza verso la padrona di casa e le baciò la mano.
« Ho appena avuto il piacere di salutare sulle scale il signor Ehrenberg... Va a Corfú, m’ha detto. Deve essere bellissimo laggiù, adesso ».
« Lei conosce Corfú? ».
« Sì, è un ricordo d’infanzia ». Felician salutò Nürnberger e Bermann e si cominciò a parlare dei paesi del sud, per i quali Bermann aveva grande nostalgia, mentre Nürnberger non ci credeva affatto.
Georg salutò il fratello stringendogli la mano e accomiatandosi nello stesso tempo. Uscendo senza farsi notare dalla porta aperta della sala da pranzo, vide Marianne seduta in fondo al salone, che lo seguiva beffardamente con l’occhialino. Era sempre stata una delle misteriose virtù di questa donna apparire improvvisamente senza che si sapesse da dove veniva. Sulle scale fu trattenuto da una signora velata.
« Non corra così, può ben aspettare ancora un momento » disse la signora. « Non bisogna dar delle cattive abitudini alle donne... Correrebbe dunque così anche se venisse a un appuntamento con me? Lo so, lo so, che non ne vuol sapere di me. Probabilmente perché ha paura che mio marito le tiri un colpo di rivoltella quando torna da Stoccolma; o meglio, oggi probabilmente è già a Copenaghen. Ma la sua fiducia in me è granitica. È giusto che sia così, del resto. Le giuro che più in là di un bacio sulla mano, cioè, per non dire una bugia, fin qui sul collo, finora non è andato nessuno. Anche lei crede certamente che io abbia avuto una relazione con Stanzides? No, quell’individuo non fa proprio per me. Odio gli uomini belli... Non so del resto nemmeno che cosa mai si trovi in suo fratello Felician... ».
Non era possibile prevedere quando la dama velata avrebbe finito di parlare, perché si trattava della signora Oberberger. In altre donne un simile contegno sarebbe stato un invito; ma non in lei, alla quale, per ambigue che fossero le sue maniere, non si poteva attribuire con certezza un amante. Il suo matrimonio era strano; non aveva figli, ma era apparentemente felice. Suo marito, bell’uomo, personalità brillante, di professione geologo, aveva in altri tempi intrapreso dei viaggi di esplorazione in cui, come pretendeva il consigliere Wilt, non contava tanto l’esotismo dei luoghi quanto invece l’efficienza dei mezzi di comunicazione e la qualità della cucina. Ma da qualche anno viaggiava soltanto per tenere conferenze e conquistar donne. Tornato a casa viveva in buona amicizia con sua moglie. Georg aveva considerato già più volte, ma sempre molto superficialmente, la possibilità di una relazione con la signora Oberberger. Era uno di quelli che l’avevano baciata sul collo, senza che lei se ne ricordasse nemmeno più. E mentre la signora Oberberger sollevava la veletta, Georg sentì di nuovo con piacere il fascino di quel viso non più giovane, ma grazioso ed espressivo. Avrebbe voluto interromperla, ma lei continuò:
« Sa che è molto pallido? Deve fare proprio una bella vita. Chi è dunque la donna che la sottrae a me? ».
Il consigliere Wilt comparve a un tratto, come al solito, senza farsi sentire.
« I miei ossequi, bella signora; buonasera, barone... » disse col suo tono di galante e frivola superiorità, e tirò diritto.
Ma la signora Oberberger pensò bene di comunicargli che il barone Georg, secondo la sua abitudine, si stava recando a un’orgia - poi seguì il consigliere Wilt al secondo piano, a rischio e pericolo, disse, che comparendo insieme dagli Ehrenberg, lo credessero il suo novantacinquesimo amante.
Erano le sette, quando Georg poté finalmente salire in una carrozza per farsi condurre a Mariahilf. Era proprio stanco di quelle due ore passate dagli Ehrenberg e si rallegrava più che mai dell’imminente incontro con Anna. Dopo quel mattino alla mostra di miniature si erano visti quasi tutti i giorni; ai giardini pubblici, nei musei, a casa di Anna. In generale parlavano di piccoli avvenimenti della loro vita, oppure discutevano di musica e di libri. Del passato non parlavano molto; e quando lo facevano, ne parlavano senza dubbi e diffidenze, poiché le passate avventure di Georg non erano avviluppate per Anna nel fitto velo del mistero, né il fatto che lei avesse già provato parecchie ardenti simpatie crucciava Georg, che ne ascoltava tranquillamente le scherzose allusioni, senza domandare altro. Georg l’aveva baciata per la prima volta in una sala solitaria della galleria Liechtenstein, otto giorni prima, e da quel giorno Anna gli dava del tu, come se un modo più distaccato di rivolgerglisi le fosse sembrato, da quel momento, menzognero.
La carrozza si fermò all’angolo di una via. Georg scese, accese una sigaretta e si mise a passeggiare su e giù davanti alla casa da cui doveva uscire Anna.
Dopo pochi minuti la vide uscire rapida dal portone. Georg le andò incontro attraversando di corsa la strada e le baciò la mano, felice. Anna aveva come sempre un libro con sé, in una custodia di cuoio sbalzato, avendo l’abitudine di leggere durante i suoi spostamenti.
« Fa freddo, Anna » disse Georg, prendendole il libro e aiutandola a mettersi la giacca che aveva sul braccio.
« Ho fatto un po’ tardi, » disse Anna « ed ero impaziente di vederti. Sì, » soggiunse sorridendo « abbiamo tutti del sangue nelle vene; cosa credi? Che ne dici del mio nuovo vestito? » disse, precedendolo di qualche passo.
« Ti sta benissimo ».
« Alla lezione hanno detto che sembro una dama di corte ».
« Chi l’ha detto? ».
« La signora Bittner e le sue due figlie, cui dò lezione ».
« Io direi piuttosto che sembri una granduchessa ».
Anna fece cenno di sì, soddisfatta.
« Ma adesso raccontami tutto quello che hai fatto ieri ».
« Alle dodici, dopo che ci siamo lasciati sul portone di casa mia, pranzo in famiglia » cominciò Anna, seria. « Nel pomeriggio, un po’ di riposo, pensando a te. Dalle quattro alle sei e mezzo, lezioni in casa, poi lettura di Grüner Heinrich e del giornale della sera. Troppo pigra per uscire ancora, ho gironzolato per casa. Cena. Poi la solita scenata familiare ».
« Tuo fratello? » domandò Georg.
Anna rispose con un « sì » che tagliava corto ad altre domande.
« Dopo cena, un po’ di musica... ho perfino cantato un po’ ».
« Contenta? ».
« Per me è sempre sufficiente » disse Anna, e a Georg parve di sentire una leggera tristezza nel suono delle sue parole. Poi Anna completò rapidamente il suo resoconto: « Alle dieci e mezzo a letto, sonno eccellente, alle otto sveglia... da noi non si può stare a letto fino a tardi... toeletta fino alle nove e mezzo, fino alle undici gi... ».
« ...ronzolato per casa » completò Georg.
« Benissimo. Poi, lezione al ragazzo, dai Weil ».
« Quanti anni ha il ragazzo? » domandò Georg.
« Tredici » rispose Anna con un’espressione comicamente preoccupata.
« Non è poi tanto ragazzo ».
« Certo » disse Anna. « Ma sappi, per tua tranquillità, che ama la zia Adele, una delicata biondina di trentatré anni, e che per il momento non pensa a tradirla... Continuiamo la cronaca. Alle due e mezzo a casa; grazie a Dio ho mangiato sola: papà era già in ufficio, la mamma appisolata. Dalle tre alle quattro riposo, ho pensato a te più intensamente ancora di ieri, poi, commissioni in città, guanti, spille di sicurezza e qualche cosa per mamma, poi finalmente in tram, leggendo, a Mariahilf per dar lezione a quelle due scimmie delle Bittner... Ecco, adesso sai tutto. Contento? ».
« Meno che per il giovane tredicenne ».
« Ammetto che possa destare delle inquietudini, ma sentiamo adesso se per caso non debba farmi anche tu qualche confessione preoccupante ».
Erano giunti in una stradina tranquilla che Georg non conosceva, e allora Anna gli si mise sottobraccio.
« Sono stato adesso dagli Ehrenberg » disse.
« Ebbene, hanno tentato di ammaliarti? » chiese Anna.
« Veramente no. Sembravano anzi perfino un po’ contrariati perché quest’estate non sono andato ad Auhof ».
« La piccola Else ha cantato? » continuò a domandare Anna.
« No. Che cosa sia accaduto dopo la mia partenza naturalmente non lo so ».
« Adesso non ne varrà più la pena » disse Anna con beffarda ironia.
« Ti sbagli, Anna. Vi sono rimaste persone per cui vale la pena di cantare ».
« E chi? ».
« Heinrich Bermann, Willy Eißler, Demeter Stanzides... ».
« Oh, Stanzides! » esclamò Anna. « Adesso rimpiango di non essere andata anch’io dagli Ehrenberg ».
« Mi pare che sotto a queste parole scherzose ci sia un che di vero » disse Georg.
« Certo che c’è del vero » rispose Anna. « Trovo che quel Demeter è bello da morire ».
Georg tacque per qualche secondo, poi all’improvviso domandò con insolita inquietudine:
« Dunque è lui? ».
« Chi, lui? ».
« Quello che tu hai... amato più di me? ».
Anna sorrise, si strinse ancor di più a Georg e rispose con semplicità, ma non senza ironia.
« Credi dunque che abbia amato davvero un altro più di te? ».
« Me lo hai confessato tu stessa » rispose Georg.
« Ma ti ho anche confessato che col tempo ti amerò più di
quanto non abbia mai amato e non possa mai amare nessuno ».
« Ne sei sicura, Anna? ».
« Sì, Georg, ne sono sicura ».
Erano di nuovo giunti in una strada più affollata, e involontariamente si staccarono l’una dall’altro. Si fermarono davanti a diverse vetrine, scoprirono in un portone la bacheca di un fotografo e si divertirono un mondo osservando gli atteggiamenti forzatamente disinvolti in cui erano eternate coppie di sposi che festeggiavano l’anniversario delle nozze, ufficiali subalterni, cuoche vestite a festa e signore agghindate per un ballo in costume.
« Dunque era Stanzides? » domandò di nuovo Georg, senza parere.
« Cosa dici? In tutta la mia vita non gli avrò detto cento parole ».
E continuarono a passeggiare.
« Allora è Leo Golowski? » domandò Georg.
Anna scosse il capo sorridendo.
« È stato un amore giovanile, » disse « e non conta. Del resto vorrei sapere se una ragazza di sedici anni, in campagna, potrebbe non innamorarsi di un bel ragazzo che si batte con un autentico conte e poi gira per una settimana col braccio al collo ».
« Ma in fondo non l’ha fatto per te, l’ha fatto per l’onore di sua sorella ».
« Per l’onore di sua sorella? Cosa ti viene in mente? ».
« Ma se m’hai raccontato tu stessa che quel giovane aveva rivolto la parola a Therese nel bosco, mentre studiava Emilia Galotti ».
« Questo è verissimo. Del resto, a Therese non è affatto dispiaciuto che le rivolgesse la parola. Ma a Leo era antipatico perché apparteneva a una combriccola che si comportava in modo molto impertinente, ed era anche un po’ antisemita. Una volta che Therese passeggiava con suo fratello sulla riva del lago, il conte li aveva seguiti e aveva parlato a Therese come se fossero vecchi amici mentre a Leo aveva appena mormorato il suo nome per presentarsi. Ebbene, Leo fa un inchino e si presenta con queste testuali parole: “Leo Golowski, ebreo di Cracovia”. Che cosa sia accaduto dopo non lo so con precisione. C’è stato uno scambio di parole un po’ vivaci, e il giorno dopo c’è stato il duello nella caserma di cavalleria di Klagenfurt ».
« Allora ho ragione io, si è battuto per l’onore di sua sorella » disse Georg beffardo.
« Ti dico di no. Ero presente, quando una volta, molto tempo dopo, parlando con Therese dell’incidente, Leo ha detto: “Per quanto mi riguarda, puoi fare quello che vuoi, puoi farti fare la corte da chi ti pare” ».
« Purché sia un ebreo... » completò Georg.
« No, non è così » disse Anna scuotendo il capo.
« Lo so » rispose Georg con dolcezza. « Negli ultimi tempi siamo diventati ottimi amici, io e il tuo Leo. Ieri sera siamo stati insieme al caffè e lui era davvero molto compiacente con me. Credo che mi perdoni persino le mie origini. A proposito, non ti ho ancora raccontato che oggi Therese era dagli Ehrenberg ». E raccontò della comparsa della ragazza nel salone degli Ehrenberg e dell’impressione che aveva fatto su Demeter.
Anna sorrideva divertita.
Più tardi, mentre camminavano di nuovo sottobraccio in una strada più solitaria, Georg riprese:
« Ma adesso non so ancora chi sia stato il tuo grande amore ».
Anna tacque, guardando fisso davanti a sé.
« Anna, hai promesso di dirmelo, no? ».
« Se tu sapessi come oggi mi sembra strana questa storia » rispose Anna senza guardarlo.
« Perché strana? ».
« Perché l’uomo in questione in fondo era un vecchio signore ».
« Trentacinque anni, non è vero? » disse Georg per scherzo.
« Cinquantotto o sessanta » disse Anna scuotendo il capo con gravità.
« E tu? » domandò Georg lentamente.
« Sono passati due anni quest’estate. Avevo ventun anni ».
« Adesso so chi è » disse Georg fermandosi all’improvviso. « Era il tuo maestro di canto. Non è vero? ».
Anna non rispose.
« Vedi, dunque » disse Georg, senza però meravigliarsi, poiché sapeva che tutte le allieve si innamoravano del celebre maestro, malgrado i suoi capelli bianchi.
« Dunque, l’hai amato più di tutti gli altri uomini che hai incontrato? » disse Georg.
« Strano, non è vero? Eppure è così ».
« Lo sapeva? ».
« Credo di sì ».
Erano giunti in un’ampia piazza con un piccolo giardino scarsamente illuminato. Dietro il giardino si ergeva una chiesa, di un caldo color mattone. Si misero a passeggiare su e giù sotto i rami neri degli alberi, lievemente ondeggianti, come se fossero attratti dalla tranquillità di quel luogo.
« E che cosa c’è stato tra voi, se è lecito? ».
Anna tacque e Georg fece in quel momento le peggiori supposizioni. Perfino quella che Anna fosse stata l’amante di quell’uomo. Ma accanto al senso di disagio che gli ispirava quel pensiero si agitava in lui, inconscio e quasi impercettibile, il desiderio di sentir confermato il suo timore. Come avrebbe potuto svolgersi facilmente, infatti, e senza responsabilità da parte sua, quell’avventura, se Anna fosse già appartenuta a un altro in precedenza!
« Ti racconterò tutta la storia » disse finalmente Anna. « Non è poi così terribile ».
« Ebbene? » domandò Georg, stranamente ansioso.
« Una volta, dopo la lezione, mi ha aiutato gentilmente a mettermi la giacca » cominciò Anna esitando. « E poi mi ha improvvisamente attratta a sé e mi ha baciata ».
« E tu?... ».
« Io... ero inebriata ».
« Inebriata... ».
« Sì, è stato qualcosa di indescrivibile. Mi ha baciato sulla fronte, sulla bocca, sui capelli... poi ha preso la mia mano e ha mormorato tante cose che non ho nemmeno capito... ».
« E poi? ».
« E poi... poi si sono sentite voci nella stanza vicina... lui ha lasciato andare la mia mano... e tutto è finito lì ».
« Finito? ».
« Sì, finito. Si capisce che tutto è finito ».
« Non lo trovo così naturale. L’hai rivisto? ».
« Certo. Ero sua allieva ».
« E poi? ».
« Ti ho detto che era finito... completamente finito, come se non ci fosse mai stato nulla ».
Georg si meravigliò di sentirsi così stranamente tranquillo.
« E non ha più ritentato? » disse.
« Mai più. Sarebbe stato anche ridicolo. E poiché era molto intelligente, l’ha capito benissimo da sé. Prima, è vero, l’amavo molto. Ma dopo questo incidente per me non fu più nient’altro che il mio vecchio maestro. In un certo senso più vecchio di quel che fosse in realtà. Non so se puoi capirlo fino in fondo. Era come se in quel momento avesse sprecato tutto ciò che rimaneva in lui di giovinezza ».
« Capisco molto bene » disse Georg.
Sì, le credeva e l’amava più di prima. Entrarono in chiesa. Nell’ampia navata era quasi buio. Solo davanti a un altare laterale ardevano delle candele con luce fioca, e laggiù, dietro alla statuetta di un santo, brillava un piccolo lume. Una colonna d’incenso si alzava dal pavimento di pietra e saliva maestosa verso le arcate della volta. Il sagrestano andava di qua e di là, tintinnando con le chiavi. Nei banchi in fondo si intravedeva qualche figura immobile. Georg s’incamminò lentamente con Anna verso l’altare maggiore, e gli sembrava d’essere un giovane sposo che visita una chiesa con sua moglie, durante il viaggio di nozze. Lo disse ad Anna che fece un cenno con la testa.
« Ma sarebbe ancora più bello essere veramente insieme in qualche paese straniero... » bisbigliò Georg, mentre se ne stavano stretti sottobraccio davanti al pulpito.
Anna lo guardò felice, eppure con aria interrogativa; e Georg si spaventò delle sue stesse parole. Se Anna le avesse interpretate come un serio invito, oppure come una specie di richiesta ufficiale? Non era forse tenuto a spiegare che non andavano intese così?... Gli venne in mente un discorso che avevano fatto un giorno di vento e di pioggia, in cui erano andati verso Schönbrunn, a braccetto sotto l’ombrello. Le aveva fatto la proposta di tornare con lui in città e di cenare insieme in una trattoria isolata e lei, con quel tono gelido in cui a volte sembrava irrigidirsi tutto il suo essere, aveva risposto: « Non faccio di queste cose ». Non aveva insistito. Ma un quarto d’ora più tardi, a proposito di un discorso sul tenore di vita di Georg, Anna gli aveva detto, con un sorriso ambiguo: « Tu non hai nessuna iniziativa, Georg ». E in quel momento gli era parso a un tratto che si aprissero davanti a lui certi abissi dell’anima di Anna, abissi pericolosi e insospettati, da cui era bene guardarsi. Adesso ripensava a quegli abissi. Che cosa si svolgeva nell’anima di Anna? che cosa vi si poteva svolgere?... Che cosa desiderava lei, che cosa si aspettava?... E che cosa desiderava, prevedeva lui stesso? La vita era così piena di cose imprevedibili! Se un giorno avesse fatto davvero un viaggio con lei, vivendo un poco di felicità... per poi dirle addio, come lo aveva già detto a tante altre? Ma se pensava alla inevitabile fine di tutto questo, portata dalla morte o dalla vita stessa, sentiva un leggero dolore... Anna continuava a tacere. Forse pensava ancora che lui mancasse di iniziativa... Oppure pensava: tanto riuscirò ugualmente nel mio intento, sarò sua moglie...?
A questo punto sentì la mano di Anna accarezzare lievemente la sua, con una tenerezza nuova, che gli fece bene.
« Georg » disse Anna.
« Ebbene? » domandò Georg.
« Se fossi devota, » disse Anna « adesso chiederei una grazia... ».
« Quale grazia? » domandò Georg con un senso quasi di paura.
« Che tu diventi qualcuno, Georg. Un uomo molto importante. Un vero, grande artista ».
Georg abbassò involontariamente gli occhi, come vergognandosi che i pensieri di lei fossero stati tanto più puri dei suoi.
Un mendicante sollevò al loro passaggio la pesante tenda verde: Georg gli diede una moneta ed eccoli all’aperto. Luci di fanali; strepito di carrozze e di serrande. Georg sentiva che quel finissimo velo tessuto intorno a loro dalla penombra della chiesa si strappava e con tono rassicurato propose una breve passeggiata in carrozza. Anna acconsentì. Andarono in giù verso il Ring in un fiacrescoperto, di cui fecero alzare il mantice, silenziosi e stretti l’uno all’altra, quasi non guardando le case e i giardini che passavano loro dinnanzi. Ognuno sentiva l’impazienza propria e quella dell’altro, e sapeva che non si poteva più tornare indietro.
« Che peccato che tu debba già tornare a casa » disse Georg, quando furono vicini alla casa di Anna.
Lei scrollò le spalle e sorrise in modo strano. Ecco gli abissi, pensò di nuovo Georg, ma senza timore, quasi sereno. Prima che la carrozza si fermasse all’angolo, combinarono un appuntamento per la mattina seguente nello Schwarzenberggarten, poi scesero. Anna corse a casa, e Georg si avviò lentamente verso il centro.
Si chiedeva se andare al caffè. Non ne aveva molta voglia. Bermann era probabilmente a cena dagli Ehrenberg e sulla presenza di Leo Golowski era meglio non contare; e gli altri giovani ebrei, per lo più letterati, che Georg aveva conosciuto superficialmente negli ultimi tempi non lo attiravano particolarmente, anche se alcuni di loro avevano destato in lui un certo interesse. In generale trovava che il tono che quelle persone usavano fra loro fosse ora troppo confidenziale, ora troppo indifferente, ora troppo scherzoso, ora troppo patetico; sembrava che nessuno fosse naturale, non solo con gli altri, ma nemmeno con se stesso. Heinrich del resto aveva dichiarato recentemente di non voler avere più nulla a che fare con quella compagnia, che dopo i suoi successi mostrava di odiarlo cordialmente. Georg era però anche dell’opinione che Heinrich, nelle sue disposizioni di spirito ipocondriache e ambiziose, sospettasse inimicizie e persecuzioni anche là dove forse non c’era che indifferenza o antipatia. Quanto a lui, sapeva che non era tanto l’amicizia che lo attirava verso il giovane scrittore, quanto piuttosto la curiosità di conoscere una personalità singolare; forse anche l’interesse di guardare in un mondo che finora gli era rimasto estraneo. Poiché, mentre lui si comportava in modo molto riservato e aveva sempre evitato ogni allusione alle sue relazioni con le donne, Heinrich non soltanto gli aveva raccontato dell’amante lontana, per cui diceva di soffrire gelosie d’inferno, ma anche di una graziosa donna bionda con la quale passava negli ultimi tempi le sue serate, per stordirsi, come diceva con ironia; gli aveva raccontato non soltanto dei tempi in cui era studente e giornalista a Vienna, tempi relativamente recenti, ma anche di quando era bambino e ragazzo nella piccola città della provincia boema, dove era venuto al mondo trent’anni prima. Strano, e al tempo stesso quasi penoso, sembrava a Georg il tono di tenerezza e ripugnanza insieme, di attaccamento e di indifferenza con cui Heinrich parlava della sua famiglia^ specialmente di suo padre malato, che era stato prima avvocato, poi deputato in quella cittadina. Sì, sembrava perfino fiero di aver saputo predire a quell’uomo troppo fiducioso il suo destino, quando aveva appena vent’anni; e quel destino si era avverato; dopo un breve periodo di popolarità e di successo il prevalere della tendenza antisemita lo aveva cacciato dal partito liberale tedesco, quasi tutti gli amici lo avevano abbandonato, e uno studente sfaticato, che nelle riunioni additava i boemi e gli ebrei come i peggiori nemici della morale tedesca, mentre poi a casa picchiava la moglie e ingravidava le serve, era stato il suo successore nella fiducia degli elettori e in parlamento. Heinrich, che non aveva mai potuto soffrire le belle frasi di suo padre a proposito di sentimento nazionale tedesco, di libertà, di progresso, anche se erano sincere, aveva sulle prime assistito al crollo del vecchio con una certa malignità; ma a poco a poco, quando l’avvocato tanto famoso incominciò a perdere anche la clientela, e le condizioni materiali della famiglia peggioravano di giorno in giorno, il figlio fu colto da una specie di tardiva pietà. Aveva dovuto lasciare molto presto gli studi di legge e venire in soccorso alla famiglia col giornalismo. I suoi primi successi letterari non trovarono nessuna eco nella vecchia casa paterna. Il padre incominciava a manifestare segni indubitabili della follia ormai incombente e la madre, per cui patria e Stato avevano in un certo senso cessato di esistere da quando il marito non aveva più potuto rientrare al parlamento, e da quando la mente di lui aveva perso ogni lucidità, viveva ormai fuori dal mondo. L’unica sorella di Heinrich, ragazza intelligente e vivace, in seguito a un’infelice passione per una specie di dongiovanni di provincia era caduta in una morbosa tristezza, e con patologica ostinazione imputava la colpa della sfortuna familiare al fratello, benché fossero stati sempre molto uniti. Heinrich raccontava anche di altri parenti dei quali aveva memoria e Georg respirava nelle sue parole un’atmosfera ora ridicola ora commovente di vecchio ambiente ebreo gretto e pio, popolato da figure di altri tempi. Alla fine capì che Heinrich in fondo non sentiva nessuna nostalgia per quella piccola città straziata da miserabili lotte di partito, per l’ambiente cupo e opprimente della casa paterna in rovina, e dovette riconoscere che l’egoismo di Heinrich significava per lui salvezza e liberazione.
Suonavano le nove al campanile della Michaelerkirche quando Georg giunse davanti al caffè. Davanti a una finestra non velata dalle tendine vide il critico Rapp, seduto a un tavolo davanti a un mucchio di giornali. Si era appena tolto gli occhiali, e quel suo viso pallido, di solito così intelligente e disincantato, pareva senza vita. Davanti a lui, gesticolando vanamente nel vuoto, stava il poeta Gleißner, di un’eleganza falsa e appariscente, con un’enorme cravatta nera su cui brillava una pietra rossa. Quando Georg, senza udire le loro voci, vide muoversi le labbra dei due e i loro sguardi vagare inquieti, non riuscì a capire come potessero resistere anche soltanto un quarto d’ora in quell’atmosfera di odio. A un tratto sentì chiaramente che era proprio questa l’atmosfera di tutto l’ambiente, le cui sole luci erano, qua e là, lampeggiamenti di autocritica, il brillare di uno spirito mordace che purificava l’aria. Che cosa poteva avere in comune con questa gente? Lo assalì una specie di ribrezzo, si voltò e decise di andare di nuovo al circolo, in cui non aveva più messo piede da mesi, invece di andare al caffè. Il circolo non era che a pochi passi. Qualche minuto dopo Georg saliva l’ampia scala di marmo; entrando nella saletta da pranzo dai tendaggi verde chiaro fu accolto, con la cordialità contenuta che si riserva a qualcuno di cui da tempo si sentiva la mancanza, da Ralph Skelton, addetto all’ambasciata inglese, e dal dottor von Breitner, che cenavano insieme in un angolo. Si parlava dell’imminente torneo di scherma, del banchetto organizzato in onore degli schermidori stranieri, della nuova operetta al teatro Wiedner, in cui la signorina Lovan era apparsa quasi nuda in costume da baiadera; del duello del fabbricante Heidenfeld col tenente Novotny, in cui era rimasto ucciso il marito offeso. Dopo cena Georg giocò una partita al biliardo con Skelton e vinse. Si sentiva sempre più a suo agio e si propose di recarsi da allora in poi più sovente in quei locali ariosi, arredati con discrezione ed eleganza, frequentati da gente giovane, simpatica e ben vestita, con cui ci si poteva intrattenere in maniera così facile e piacevole. Poi giunse Felician, raccontò che la serata dagli Ehrenberg si era fatta via via più divertente e gli portò i saluti della signora Marianne. Breitner, fumando uno dei suoi enormi sigari, raccontò che presto sarebbero stati messi in sala da pranzo i ritratti di alcuni soci meritevoli, primo fra tutti il giovane Labinski che l’anno precedente si era suicidato. E Georg pensò allora a Grace, a quel loro freddo e ardente discorso al cimitero, nella neve acquosa di febbraio, e a quella bellissima notte di luna, sulla nave che li aveva portati da Palermo a Napoli. Chissà di quale donna provava maggior nostalgia in questo momento: di Marianne, abbandonata, di Grace, scomparsa, oppure di quella graziosa creatura con cui aveva passeggiato un paio d’ore prima in una chiesa semibuia, come sposi in viaggio di nozze in una città straniera, e che aveva voluto pregare Dio perché lui diventasse un grande artista. E a quel pensiero si sentì un po’ commosso. Non sembrava quasi che ad Anna importasse più che a lui stesso, se diventava o no un grande artista?... No... non era così. Anna aveva semplicemente espresso quanto si celava, da sempre, nel profondo del suo cuore. Soltanto che lui a volte quasi dimenticava di essere un artista. Ma tutto doveva mutare. Aveva tanti lavori incominciati e il successo non poteva mancare. L’anno venturo se ne sarebbe andato per il mondo. Doveva trovare un posto di direttore d’orchestra, e poi si sarebbe avviato a una professione che gli avrebbe procurato denaro e successo. Avrebbe conosciuto gente nuova, un altro cielo avrebbe brillato su di lui, e da misteriose lontananze, come tra la nebbia, bianche braccia si tesero verso di lui. E mentre la gente vicino a lui discuteva seriamente delle probabilità dei contendenti nel prossimo torneo, Georg nel suo angolo continuava a sognare un avvenire fatto di lavoro, di amore, di gloria.
Intanto Anna se ne stava insonne nella sua piccola stanza buia, gli occhi spalancati rivolti al soffitto; per la prima volta in vita sua aveva la sensazione precisa che c’era al mondo una persona che poteva fare di lei ciò che voleva; giurava di accettare tutti i dolori e tutte le gioie che l’avvenire le avrebbe portato, con una lieve speranza in cuore, più bella di tutte le altre che mai avesse nutrito, che il futuro le recasse invece in dono una felicità durevole e tranquilla.
III
Georg e Heinrich scesero dalle biciclette. S’erano lasciati dietro le ultime case dei sobborghi e la strada ampia, salendo dolcemente, conduceva nel bosco. Il fogliame era ancora abbastanza fitto, ma a ogni leggero soffio di vento le foglie si staccavano a manciate e cadevano lentamente al suolo. Sulle colline striate d’oro e di rossiccio si posava la calda luce dell’autunno. La strada saliva ancora, passava davanti al giardino di una grande osteria, cui conducevano degli scalini di pietra. Non c’era che poca gente fuori; la maggior parte degli avventori stava nella veranda, come se non si fidasse completamente del tepore invitante di quella tarda giornata d’autunno, percorsa pur sempre, qua e là, da una brezza fresca. Georg pensava con malinconia, ma anche con distacco, a quella sera d’inverno in cui lui e Marianne erano venuti qui, soli ospiti di tutto il locale. Seduto accanto a lei, profondamente annoiato, ascoltava con impazienza le sue chiacchiere sul concerto della sera prima, in cui la Bellini aveva cantato i suoi Lieder; e quando, al ritorno, aveva dovuto scendere dalla carrozza in una strada di periferia per tranquillizzare Marianne che temeva di venire scoperta, Georg aveva tratto un respiro di liberazione. Un sentimento simile lo provava purtroppo ogni volta che si allontanava da un’amante, anche dopo un’ora felice. Anche tre giorni prima, nel lasciare Anna davanti al portone di casa sua, dopo la prima serata di completa felicità, si era subito reso conto che il suo sentimento più vivo era la gioia di essere di nuovo solo. E immediatamente, prima ancora di sentirsi compenetrato da un senso di gratitudine e dal presagio di una vera e reciproca appartenenza con questa creatura dolce, che lo circondava di tanta tenerezza, il suo animo si riempì di sognante nostalgia di viaggi su un mare pieno di sole, di coste che si avvicinavano alla nave in tutto il loro incanto, di passeggiate lungo spiagge che scomparivano col giorno seguente; sogni di azzurre lontananze, di solitudine, di libertà. Il mattino dopo, quando il ricordo della sera prima lo aveva circondato al risveglio col suo profumo grave di presagi e di promesse, aveva naturalmente rimandato il viaggio a un’altra epoca, forse non tanto lontana, ma più appropriata. Georg, infatti, era stato conscio perfino in quel momento che anche quest’avventura era destinata a finire, per quanto intenso e serio fosse stato il suo inizio; e quel pensiero era privo di ogni tristezza. Anna gli si era data senza accennare con una sola parola, con un solo sguardo, con un gesto, che ormai, in un certo senso, cominciava per lei un nuovo capitolo della sua vita. E Georg sentiva, proprio per questo, che anche l’addio sarebbe stato senza tragicità e cupezza: una stretta di mano, un sorriso e un pacato « è stato bello ». E si era sentito ancora più sollevato quando, all’incontro successivo, lei lo aveva salutato con tenera semplicità, senza quella malinconia impacciata e stucchevole, senza quegli accenni a un destino fatale, che aveva sentito nelle parole di molte donne, che tuttavia non erano nuove a una simile esperienza.
Una pallida linea di monti apparve in lontananza, mentre la strada cominciava a salire attraverso macchie boschive sempre più fitte. Conifere e piante a fogliame caduco crescevano armoniosamente insieme, e attraverso il colore cupo dei pini brillavano le fronde di betulle e di faggi, che l’autunno tingeva a vivi colori. Passavano escursionisti, alcuni muniti di sacco da montagna, Alpenstock e scarpe chiodate, come se si accingessero ad ascensioni importanti; e come ebbri della loro stessa velocità, i ciclisti scomparivano in un baleno in fondo alla strada.
Heinrich raccontò al suo compagno di un viaggio in bicicletta lungo il Reno, che aveva intrapreso nel settembre scorso.
« È strano, ho già girato il mondo in lungo e in largo, eppure non conosco ancora il paese originario dei miei avi » disse Georg.
« Davvero? » domandò Heinrich. « Così non sente nessuna emozione, nell’udire la parola “Reno”? ».
Georg sorrise.
« In ogni caso saranno quasi cento anni che i miei bisnonni sono andati via da Biebrich ».
« Perché ride, Georg? I miei avi hanno lasciato la Palestina da molto più tempo ancora, eppure certa gente, che del resto è perfettamente logica nel suo ragionamento, esige che il mio cuore senta ancora nostalgia per quel paese ».
« Perché si preoccupa sempre di questa gente? » disse Georg scuotendo il capo con riprovazione. « È una vera mania ».
« Crede che io pensi agli antisemiti? Nemmeno per sogno. Non me la prendo affatto con loro, almeno, molto di rado. Domandi soltanto al nostro amico Leo, come la penso in proposito ».
« Ah, Leo. Ebbene, Leo non prende la cosa così letteralmente, ma, in un certo senso, in modo simbolico... o politico » soggiunse poi incerto.
Heinrich annuì.
« Per una mentalità come quella di Leo questi due concetti sono forse molto vicini ». E cadde per un momento in profonde meditazioni, spingendo la bicicletta con piccoli colpi nervosi, così che si trovò subito a precedere Georg di qualche passo. Poi ricominciò a parlare del viaggio fatto in settembre, cui ripensava quasi con commozione. Non aveva forse goduto di una triplice felicità: solitudine, esercizio fisico e soggiorno in un paese straniero? « Non so descriverle il senso di libertà interiore che ho provato » disse. « Conosce quegli stati d’animo in cui tutti i ricordi, vicini e lontani, si sono spogliati per così dire di ogni peso; in cui tutte le persone cui si è in un certo senso legati da dolori, da preoccupazioni, da tenerezza, si aggirano intorno a noi ridotte a mere ombre, o meglio, come figure create dalla nostra stessa fantasia? E queste figure inventate ci sembrano tanto vive e reali quanto le persone vere che ricordiamo. Allora si formano le più strane relazioni fra figure vere e figure inventate. Le potrei riferire un colloquio che si è svolto fra un mio prozio rabbino, morto da tempo, e il duca Eliodoro, sa, quello del mio libretto d’opera, un colloquio così divertente, così significativo, come generalmente non sono né la vita, né i libretti d’opera... Sì, questi viaggi sono meravigliosi! Si passa attraverso città che non si sono mai viste e che non si vedranno mai più, piene di visi sconosciuti, che scompaiono per l’eternità... e poi via di nuovo sulla strada bianca di polvere, fra i vigneti e il fiume. Stati d’animo veramente catartici! Peccato che si possano godere così di rado! ».
Georg sentiva sempre un certo imbarazzo quando Heinrich diventava elegiaco.
« Forse potremmo di nuovo montare in sella » disse, e risalirono in bicicletta. Una via laterale stretta e sassosa, che si snodava fra boschi e prati, li condusse in breve a una casa a due piani, spoglia e inospitale, che un’insegna arrugginita indicava come osteria. Sul prato che separava la casa dalla strada erano disposti molti tavoli, alcuni ricoperti di tovaglie che in altri tempi erano state bianche, altri di stoffe a fiorami. Dieci o dodici giovani, evidentemente soci di un club ciclistico, erano seduti vicino alla strada, a due o tre tavoli accostati. Alcuni si erano tolti la giacca, altri se l’erano messa negligentemente sulle spalle; sui maglioni azzurri a righe gialle risaltavano emblemi sportivi a ricami rossi e verdi. Con voci poderose, ma non molto intonate, cantavano:
Il Dio che creò il ferro,non voleva schiavitù.
Heinrich gettò un rapido sguardo alla comitiva, chiuse gli occhi e disse a Georg, a denti stretti e in tono impetuoso:
« Non so se questi giovani siano valorosi, coraggiosi e fedeli come credono di essere, ma è certo che puzzano di lana e di sudore, perciò riterrei opportuno prendere posto a rispettosa distanza da loro ».
Che cosa vuole dire con ciò? pensò Georg fra sé. Forse preferirebbe che ci fosse una congrega di ebrei polacchi che cantano salmi?
Spinsero le biciclette verso un tavolo appartato e sedettero. Comparve un cameriere in frac nero coperto di macchie di unto, pulì energicamente il tavolo con un tovagliolo sudicio, prese le ordinazioni e sparì.
« Non è una vergogna che nelle immediate vicinanze di Vienna ci siano osterie così mal tenute? » disse Heinrich. « È una cosa che mi fa diventare proprio di malumore ».
Georg trovò che questo malumore era esagerato e inopportuno.
« Dio mio, » disse « in campagna non si può essere troppo esigenti. È il colore locale ».
Heinrich non accettò questa interpretazione, e cominciò a parlare di un progetto per la costruzione di sette alberghi sui confini del Wienerwald; stava appunto facendo il conto che ci volevano al massimo tre o quattro milioni, quando comparve Leo Golowski. Era vestito in borghese, il che gli dava sempre un aspetto un po’ bizzarro. Portava una giacca grigio chiaro, un gilè di velluto azzurro e una cravatta di seta giallina, trattenuta da un anello di acciaio liscio. Gli altri due lo salutarono affabilmente, ma con un certo stupore.
Leo si sedette vicino a loro.
« Ieri sera ho sentito che combinavate questa gita, » disse « e poiché oggi in caserma avevamo libera uscita alle nove, ho pensato subito che sarebbe stato bello passare un’oretta all’aperto a chiacchierare con due» persone intelligenti e simpatiche come voi. Così sono corso a casa, mi sono messo in borghese e via ».
Leo diceva questo nel suo solito tono cordiale, quasi ingenuo, che sul momento affascinava sempre Georg, sebbene poi, quando ci ripensava, gli sembrasse velato di ironia, se non addirittura falso. Ma questo tono, per così dire brillante, Leo lo dava soltanto a una conversazione senza importanza; nei discorsi seri dimostrava invece una fermezza che non mancava di impressionare Georg. Negli ultimi tempi aveva avuto più volte occasione di assistere al caffè a discussioni fra Leo e Heinrich su questioni artistiche ed estetiche, specialmente sulle relazioni fra le leggi della musica e quelle della matematica. Leo credeva di aver scoperto la ragione per cui le tonalità maggiori e minori toccavano l’animo umano in così differente maniera. Georg lo seguiva volentieri nelle sue argomentazioni acute e chiare, anche se qualcosa in lui si ribellava al tentativo temerario di spiegare per mezzo di leggi il segreto incanto dei suoni; leggi inflessibili quanto quelle che facevano muovere la terra e gli astri e che dovevano avere le stesse radici. Ma quando Heinrich cercava di svolgere le teorie di Leo e di applicarle alla poesia e alla parola, Georg diventava impaziente e si sentiva subito segreto alleato di Leo, che sorrideva di solito delle fantastiche e confuse teorie di Heinrich.
Fu portata la colazione e i giovani non mancarono di gustarla; Heinrich non meno degli altri, benché si esprimesse in termini non certo benevoli sulla mediocrità della cucina e tendesse a interpretare i procedimenti culinari dell’oste non soltanto come espressione di ignoranza, ma anche come fenomeno caratteristico della decadenza dell’Austria in molti altri campi. Il discorso volse poi sulle condizioni militari del paese, e Leo fece divertire gli altri due con la descrizione di camerati e superiori. Li fece ridere soprattutto raccontando di un tenente che si era presentato al corpo dei volontari con le seguenti minacciose parole: « Con me ci sarà poco da scherzare; sono una belva in veste umana ».
Mentre stavano ancora mangiando, un signore si avvicinò al tavolo, batté insieme i tacchi, portò la mano in segno di saluto alla visiera del berretto, gridò uno scherzoso « salve! », aggiunse per Leo un amichevole « ciao » e si presentò ad Heinrich dicendo: « Sono Josef Rosner ». Poi prese parte anche lui alla conversazione.
« Anche i signori hanno fatto una gita in bicicletta... ». E poiché nessuno lo contraddisse, Josef Rosner continuò: « Bisogna approfittare di queste ultime belle giornate, che non dureranno più molto ».
« Si accomodi, signor Rosner » disse Georg, cortesemente.
« Grazie, ma... » e indicò il suo gruppo « stiamo appunto per ripartire e abbiamo ancora un bel po’ di strada da fare. Scenderemo fino a Tulln, poi ritorneremo a Vienna passando da Stockerau. Se i signori vogliono scusarmi... ». E prendendo un fiammifero dal tavolo, si accese elegantemente una sigaretta.
« A quale circolo appartieni? » domandò Leo, e Georg si meravigliò di quel « tu », finché si ricordò che i due si conoscevano fin da ragazzi.
« All’associazione ciclistica di Sechshaus » rispose Josef. E benché nessuno mostrasse di meravigliarsene, soggiunse: « I signori si meraviglieranno che io, nato nel quartiere di Margareten, appartenga a questo circolo di periferia, ma è soltanto perché un mio ottimo amico ne è presidente. Guardino quel grassone laggiù, che in questo momento sta mettendosi la giacca. È il giovane Jalaudek, il figlio del consigliere comunale e deputato ».
«Jalaudek » ripetè Heinrich con tono di disprezzo, ma non aggiunse altro.
« Ah, Jalaudek è quello che poco tempo fa, durante un dibattito sull’associazione per l’istruzione popolare, ha dato quella magnifica definizione della scienza » disse Leo. E soggiunse, volgendosi agli altri: « Avete letto? ».
Gli altri non ricordavano.
« La scienza, » disse Leo ripetendo la frase di Jalaudek « la scienza è quella che un ebreo copia da un altro ».
Tutti risero, anche Josef che però si sentì subito in dovere di spiegare:
« In realtà non è così, lo conosco. Soltanto nella vita politica è così rozzo... del resto è proprio lì che esplodono le contraddizioni della nostra cara patria. Ma solitamente è un uomo molto affabile. Suo figlio è decisamente più radicale ».
« Il vostro circolo è cristiano-sociale o tedesco-nazionale? » domandò Leo con cortese interessamento.
« Oh, noi non facciamo grandi differenze, ma naturalmente... ». E s’interruppe a un tratto imbarazzato.
« Ma sì, è naturale che nel vostro circolo non ci siano ebrei » disse Leo come per incoraggiarlo. « Del resto si vede già lontano un miglio ».
Josef pensò bene di mettersi a ridere, poi disse:
« Per carità, in mezzo alle montagne non si fa della politica; ma poiché siamo in tema, dico subito che vi fate dei concetti errati. Nel nostro circolo per esempio c’è un socio che è fidanzato con un’israelita. Ma mi stanno già facendo segno di andare. È stato un piacere, signori. Ciao, Leo. Salve ». Salutò di nuovo militarmente, poi si allontanò con andatura elastica. Gli altri sorrisero involontariamente.
« A che punto è sua sorella col canto? » domandò Leo bruscamente, rivolto a Georg.
« Come? » sussultò Georg, arrossendo lievemente.
« Therese mi racconta che lei qualche volta fa musica con Anna » continuò tranquillamente. « La sua voce è migliorata, adesso? ».
« Sì » rispose Georg esitando. « Almeno così mi pare. In ogni caso io la trovo molto piacevole e armoniosa, specialmente nel registro basso. Peccato che sia insufficiente, voglio dire per una grande sala ».
« Insufficiente » ripetè Leo sopra pensiero. « Ecco ancora una parola vaga ».
« Come direbbe lei, allora? ».
Leo scrollò le spalle e guardò tranquillamente Georg. « Anch’io ho sempre trovato quella voce molto piacevole, » disse « ma fin dai tempi in cui Anna voleva dedicarsi all’opera... francamente non ho mai creduto che fosse possibile ».
« Lei probabilmente sapeva che Anna soffre di una strana debolezza delle corde vocali » disse Georg con voluta disinvoltura.
« Certo che lo sapevo; ma se fosse stata destinata a fare una carriera artistica, voglio dire, se ne avesse sentito una necessità interiore, avrebbe superato questa debolezza ».
« Lei crede? ».
« Sì, lo credo, lo credo fermamente. Perciò trovo che espressioni come “strana debolezza” oppure “voce insufficiente” siano in un certo senso perifrasi di qualcosa di più profondo, di impedimenti psicologici. La verità è che non è destinata a diventare un’artista. Era in un certo senso votata fin da principio a una vita borghese ».
Heinrich, che accettava in pieno la teoria del destino, sviluppò il pensiero di Leo nel suo solito modo contorto, passando dall’ironia alla stravaganza per finire nell’insensatezza. Poi fece la proposta di stendersi per una mezz’ora sul prato al sole, che probabilmente per quell’anno non sarebbe più stato così tiepido. Gli altri accettarono.
Georg e Leo si distesero sui loro mantelli a un centinaio di passi dall’osteria. Heinrich sedette sull’erba, le braccia intorno alle ginocchia, guardando davanti a sé. Il prato ai suoi piedi declinava dolcemente verso il bosco. In basso, nascoste tra il fogliame, stavano le rustiche case di Neuwaldegg. Laggiù in città i campanili sormontati da una croce, le finestre accecate dal sole, risplendevano in una nebbiolina grigio-azzurra e in lontananza, come sospesa in una leggera nebbia, la pianura sembrava perdersi fra le ombre fumose dell’orizzonte.
La gente attraversava il prato per recarsi all’osteria, interrompendo la passeggiata. Alcuni salutarono passando e uno di loro, un uomo ancora giovane, che teneva un bambino per mano, disse a Heinrich:
« Che bella giornata è mai oggi! Sembra maggio ». Heinrich sentiva a volte aprirsi il cuore, suo malgrado, davanti a certe forme di cordialità inaspettata. Ma subito dopo pensò che quel giovane era soltanto inebriato dalla dolcezza di quella giornata, dalla pace del paesaggio; nel fondo del cuore anche lui gli era nemico, come tutti gli altri che gli passavano davanti, in beata indifferenza. E di nuovo non capiva perché la vista di quelle dolci colline, di quella città perduta nell’ombra luminosa della lontananza, lo toccasse così dolorosamente, mentre invece gli uomini che vi abitavano rappresentavano per lui così raramente qualcosa di buono, anzi, in fondo non rappresentavano nulla.
I soci dell’associazione ciclistica passarono in una nube di polvere lungo la strada a pochi passi dal prato; le giacche volavano al vento, gli stemmi rilucevano e risa sguaiate si perdettero lontano.
« Che gente orribile! » disse Leo come per caso, senza muoversi dal suo posto.
Heinrich accennò con la testa nella direzione in cui erano scomparsi i ciclisti.
« E questa gente, » disse a denti stretti « questa gente immagina ancora di essere, qui, a casa propria più di quanto siamo noi ».
« Beh, in fondo non hanno tutti i torti » disse Leo senza scomporsi.
Heinrich gli si volse beffardo:
« Perdoni, Leo, ho dimenticato per un momento che anche lei desidera sentirsi semplicemente tollerato ».
« Non lo desidero affatto » rispose Leo sorridendo. « Inoltre, la prego di non fraintendermi subito, così malignamente. Ma non bisogna prendersela con questa gente che si considera indigena e reputa lei e me stranieri. In fondo non è che l’espressione della loro sana intuizione di un fatto antropologicamente e storicamente stabilito. Contro tutte le conseguenze che ne derivano non c’è nulla da fare, né ricorrendo al sentimentalismo israelitico, né a quello cristiano ». E volgendosi a Georg domandò in tono eccessivamente cerimonioso: « Non pare anche a lei? ».
Georg arrossì, tossì, ma non fece in tempo a rispondere poiché Heinrich, sulla cui fronte erano apparse due rughe profonde, riprese subito la parola:
« La mia intuizione è per me altrettanto normativa di quella del signor Jalaudek padre e di quella del signor Jalaudek figlio, e questa intuizione mi dice infallibilmente che qui, proprio qui è la mia patria, e non in una qualsiasi terra che non conosco, che dalle descrizioni non mi piace affatto e che certa gente mi vuole affibbiare come patria, con la motivazione che i miei progenitori si sono sparsi per il mondo qualche migliaio di anni fa proprio da quel posto. Al che si potrebbe aggiungere che gli avi del signor Jalaudek e anche quelli del nostro amico il barone von Wergenthin erano tanto poco originari di qui quanto quelli di noi ebrei ».
« Non se ne abbia a male, » rispose Leo « ma la visione che lei ha di queste cose è un po’ limitata. Lei pensa sempre a se stesso e alla circostanza accidentale... mi scusi se la chiamo così, secondo la quale lei è un poeta che, essendo nato in terra tedesca, scrive in tedesco, e vivendo in Austria, scrive di persone e vicende austriache. Ma in fondo non si tratta né di lei né di me, e nemmeno di quei pochi impiegati ebrei che non fanno carriera, né di quei volontari ebrei che non diventeranno mai ufficiali, né di quei liberi docenti ebrei che non vengono mai fatti professori, o lo diventano troppo tardi - questi sono tutti inconvenienti, diciamo, di secondo grado; si tratta qui di tutt’altra gente, che lei non conosce bene o non conosce affatto, si tratta di destini sui quali lei, glielo assicuro, caro Heinrich, non ha ancora riflettuto con la dovuta profondità, malgrado l’obbligo morale che ne avrebbe avuto. Di certo non ha ancora pensato a queste cose... altrimenti non potrebbe parlarne in modo così superficiale... e così egoistico, come fa adesso ». E cominciò a raccontare delle sue esperienze al congresso sionista di Basilea, cui aveva preso parte l’anno precedente, dove aveva avuto modo di guardare più addentro nella natura e nello stato d’animo del popolo israelita di quanto non avesse fatto fino a quel momento. In questa gente, che vedeva per la prima volta da vicino, la nostalgia della Palestina non era opera di artificiosa persuasione; ecco una cosa di cui si sentiva ormai profondamente persuaso. In essi quella nostalgia operava come sentimento vero, mai spento e ravvivato ora dalla necessità. Nessuno poteva dubitarne dopo aver visto un santo sdegno accendersi nei loro occhi quando un oratore aveva dichiarato che bisognava per ora rinunciare alla speranza della Palestina e accontentarsi di insediamenti in Africa e in Argentina. Aveva visto piangere uomini anziani, ma non ignoranti e rozzi, al contrario, uomini di grande saggezza e cultura, al pensiero che la terra dei loro padri, su cui essi non avrebbero potuto mettere il piede, anche se si fossero avverati i più audaci piani sionistici, forse non si sarebbe mai aperta ai loro figli e ai loro nipoti.
Georg aveva ascoltato meravigliato e anche un po’ commosso. Ma Heinrich, che durante il racconto di Leo aveva passeggiato su e giù per il prato, a passi brevi, dichiarò che il sionismo gli pareva la peggior calamità che mai avesse colpito gli ebrei, e le parole di Leo glielo avevano confermato più di qualsiasi riflessione o esperienza precedente. Sentimento nazionale e religione erano parole che lo avevano sempre amareggiato nella loro superficiale, anzi, pericolosa complessità. La patria!... la patria era una finzione, un concetto politico, inafferrabile e mutevole. Soltanto il paese natio rappresentava qualcosa di reale, non la patria... e così il sentimento della propria terra diventava diritto alla terra. In quanto alle religioni, gli piacevano sia le leggende cristiane ed ebraiche che quelle indiane e quelle elleniche; ma tutte gli erano ugualmente insopportabili e sgradite quando cercavano di imporre i propri dogmi. E sentiva di non appartenere a nessuna comunità, no, veramente a nessuna. Tanto poco agli ebrei piangenti di Basilea quanto ai pangermanisti che schiamazzavano in parlamento; tanto poco agli ebrei strozzini quanto agli imbroglioni di nascita aristocratica; non era solidale né con il liquorista simpatizzante con il sionismo, né con il droghiere cristiano-sociale. E tanto meno sarebbe stata per lui un legame la coscienza di persecuzioni sofferte insieme, di un comune rancore verso uomini cui si sentiva intimamente estraneo. Ammetteva il sionismo, come principio morale e assistenziale, quando si presentava sinceramente come tale; ma l’idea di erigere uno Stato israelita su base religiosa e nazionale gli sembrava un’assurda negazione di qualunque sviluppo storico. « E nel profondo del suo animo » gridò, fermandosi davanti a Leo « nemmeno lei crede che questo scopo possa mai essere raggiunto, non lo desidera nemmeno, anche se, per una ragione o per l’altra, si compiace di seguire quella tendenza. Che cos’è per lei la “patria”, la Palestina? Un’espressione geografica. Che cosa significa per lei “la fede dei padri” ? Una raccolta di usi e tradizioni che lei non segue più da tempo, e di cui la maggior parte le sembrano ridicoli e di cattivo gusto, così come sembrano a me ».
Parlarono ancora a lungo, ora con astio, quasi con violenza, ora pacatamente, con il sincero desiderio di persuadersi a vicenda; stupiti a volte di trovarsi d’accordo, per poi allontanarsi un momento dopo seguendo opposte opinioni. Georg ascoltava, disteso sul suo mantello. Ora si trovava d’accordo con Leo, nelle cui parole gli sembrava vibrasse un’ardente pietà per i suoi infelici correligionari, e che si distaccava orgoglioso dagli uomini che non volevano riconoscerlo come un loro pari. Ora invece si sentiva più vicino a Heinrich, che si opponeva con impeto a un progetto, fantastico e cieco a un tempo, che voleva riunire insieme, dai quattro angoli del mondo, gli appartenenti a una razza di cui i migliori avevano dato eccellenti prove o per lo meno avevano contribuito alla cultura dei paesi dove abitavano, per mandarli in un paese straniero, del quale non provavano alcuna particolare nostalgia. E in Georg si faceva strada la persuasione di quanto dovesse pesare tale decisione proprio a quei migliori di cui parlava Heinrich, nel cui animo si preparava l’avvenire dell’umanità; di quanto, proprio per costoro, dovesse farsi confuso il significato della loro esistenza, con i suoi valori e con i suoi diritti, combattuti com’erano tra ostinazione e scoraggiamento, tra il timore di apparire intrusi e l’amarezza di dover cedere a una maggioranza arrogante, tra la consapevolezza di essere a casa propria là dove vivevano e operavano, e lo sdegno di vedersi perseguitati e insultati proprio su quel suolo. Per la prima volta la parola « ebreo », che tante volte aveva pronunciato con leggerezza, con scherno e disprezzo gli si mostrò in una luce nuova e fosca. Ebbe un’oscura intuizione del destino misterioso di questo popolo, espresso in ognuno che vi avesse avuto origine; con ugual forza tanto in coloro che tentavano di sfuggire a quest’origine come a una vergogna, a una pena, a una favola che non li riguardava, quanto in quelli che la identificavano con il destino, con un onore o con un fatto storico cui non era possibile sottrarsi.
Assorto nell’osservare i due che discutevano, guardando le loro figure che si stagliavano con linee precise e marcate, con gesti violenti sul cielo violaceo del tramonto, Georg notò, e non per la prima volta, che Heinrich, il quale pretendeva di essere a casa propria lì dove si trovava, somigliava nella figura e nei gesti a un fanatico predicatore ebreo, mentre Leo, che voleva emigrare in Palestina con la sua gente, ricordava nel taglio del viso e nell’atteggiamento la statua di un giovane greco che aveva visto una volta in Vaticano o al museo di Napoli. E mentre i suoi occhi seguivano con piacere i movimenti vivaci e armoniosi di Leo, comprese molto bene come Anna avesse potuto provare un entusiastico sentimento di ammirazione e simpatia per il fratello della sua amica, anni prima, durante quell’estate trascorsa sul lago.
Heinrich e Leo stavano ancora l’uno di fronte all’altro, sul prato, e la discussione non poteva aver fine. Le parole si scontravano, si accavallavano intricandosi, si staccavano bruscamente, si perdevano nel vuoto, e a un tratto Georg si accorse che non ne ascoltava più che il suono, senza riuscire a coglierne il senso.
Un vento freddo si levò dalla pianura; Georg si alzò dall’erba con un leggero brivido. Gli altri, che avevano quasi dimenticato la sua presenza, furono così richiamati alla realtà e si decise di partire. Era ancora giorno, ma già il sole calava, pallido e cupo, su una striscia di nuvole sinuose.
« Dopo questi discorsi provo sempre un senso di scontentezza, che diventa addirittura una sensazione dolorosa allo stomaco » disse Heinrich, legando il mantello sulla bicicletta. « Davvero! Sono così inconcludenti. E che cosa rappresentano le idee politiche per gente per la quale la politica non è né una professione, né un affare? Esercitano forse il minimo influsso sulla vita, sui suoi sviluppi? Tanto lei, Leo, quanto io, non faremo mai nient’altro, non potremo mai fare nient’altro se non quello che la nostra indole e le nostre capacità ci permettono di fare. Lei non andrà mai in Palestina, anche se venisse fondato lo stato israelita e le fosse offerta subito la carica di primo ministro o per lo meno di pianista di corte... ».
« Questo lei non può saperlo » lo interruppe Leo.
« Lo so con assoluta certezza » disse Heinrich. « Perciò le confesso che, malgrado la mia completa indifferenza verso ogni forma di religione, non mi farò mai battezzare, anche se fosse possibile (e questa possibilità si fa sempre minore) sfuggire per sempre, con una simile menzogna, alla cecità e alla malignità antisemita ».
« Hum, » disse Leo « ma quando saranno riaccesi i roghi... ».
« In quel caso, » rispose Heinrich « mi regolerò esattamente secondo quel che farà lei, lo prometto nel modo più solenne ».
« Oh, quei tempi non tornano più » obbiettò Georg.
Gli altri risero della cortesia di Georg, il quale, come osservò Heinrich, li tranquillizzava così sulla loro sorte a nome di tutta la cristianità.
Intanto avevano attraversato il prato. Heinrich e Georg spinsero le biciclette sul viottolo sassoso. Leo camminava accanto a loro, sull’erba, il mantello al vento. Tutti tacquero per un bel pezzo, come se fossero stanchi. Al punto in cui la stradina sboccava nell’ampia provinciale, Leo si fermò e disse:
« Qui purtroppo dobbiamo separarci ». E tese, sorridendo, la mano a Georg. « Oggi lei si deve essere annoiato' un bel po’ » disse.
Georg arrossì. « Beh, lei ha di me un’opinione... ».
« Io sono dell’opinione che lei sia una persona molto intelligente e anche molto buona » disse Leo tenendo stretta fra le sue la mano di Georg. « Mi crede? ».
Georg tacque.
« Vorrei sapere se lei mi crede, Georg. Ci tengo a saperlo » continuò Leo. Il tono della sua voce era veramente accorato.
« Ma certo che le credo » disse Georg, ancora un po’ impaziente.
« Questo mi fa piacere » disse Leo. « Perché lei mi è veramente simpatico, Georg ». Lo guardò fisso negli occhi, diede ancora una volta la mano a lui e a Heinrich in segno di saluto, poi s’incamminò.
Georg ebbe a un tratto la sensazione che questo giovane che se ne andava nel mezzo dell’ampia strada, a testa china, il mantello al vento, non si dirigesse affatto « verso casa », ma verso qualche luogo straniero, dove non lo si poteva seguire. Questa sensazione era tanto più difficile da spiegare in quanto negli ultimi tempi non solo avevano passato insieme molte ore al caffè, ma aveva saputo da Anna molti particolari su di lui, sulla sua famiglia, sul suo modo di vivere, che lo avevano aiutato a capirne la personalità. Sapeva che quell’estate di sei anni addietro, sul lago, dove aveva avuto inizio l’amore giovanile di Anna, era stata l’ultima estate serena della famiglia Golowski, e che nell’inverno seguente era andata in rovina l’azienda del padre. Secondo quel che diceva Anna, tutta la famiglia si era stranamente adattata alle mutate condizioni di vita con grande facilità, come se da tempo fossero stati preparati a quel mutamento. Dal comodo alloggio vicino al municipio si trasferirono in un misero vicolo nei pressi dell’Augarten. Il signor Golowski aveva preso subito rappresentanze di ogni genere, mentre sua moglie vendeva ricami fatti a mano. Therese dava lezioni d’inglese e di francese e in principio continuò a frequentare la scuola di recitazione. Fu un violinista russo, di nobile famiglia decaduta, che risvegliò in lei l’interesse per le questioni politiche. Ben presto Therese rinunciò all’arte, per cui aveva sempre mostrato più inclinazione che talento, e in breve tempo eccola oratrice e attivista nel movimento social-democratico. Leo si compiaceva della natura giovanile e temeraria della sorella, senza peraltro condividere le sue idee. A volte la accompagnava anche alle sue assemblee; ma poiché non si lasciava impressionare da parole altisonanti, né da promesse che non venivano mai mantenute, né da minacce che non erano mai serie, mentre tornavano a casa insieme si divertiva a dimostrarle con irrefragabile acutezza le contraddizioni di cui erano pieni i suoi discorsi e quelli dei suoi compagni di partito. Ma soprattutto cercava costantemente di spiegarle che non avrebbe potuto dimenticare, a volte per settimane e per mesi, quel suo grande compito, se il suo sentimento di solidarietà coi poveri e i miserabili fosse stato veramente così profondo come pretendeva. Ma intanto anche la vita di Leo non aveva uno scopo preciso. Seguiva corsi universitari di matematica, dava lezioni di pianoforte, a volte sognava perfino di fare una carriera di virtuoso, e allora studiava anche cinque o sei ore al giorno. Ma ancora non era chiaro quale via avrebbe alla fine scelto. Era infatti una particolare esigenza del suo carattere aspettare sempre un miracolo che gli rendesse tutto più facile; per questo aveva rimandato il suo anno di volontariato finché aveva potuto e faceva il servizio militare soltanto ora, a venticinque anni. I genitori lasciavano che Leo e Therese facessero quello che volevano, e benché le divergenze d’opinione fossero molte, in casa Golowski non si litigava quasi mai. La madre stava quasi sempre in casa, cuciva, ricamava e lavorava all’uncinetto, il padre curava sempre meno i propri affari e stava di preferenza al caffè a veder giocare a scacchi, un piacere che gli faceva dimenticare il fallimento della sua esistenza. Di fronte ai ragazzi non sapeva nascondere un certo imbarazzo per aver saputo curare così male i suoi affari, cosicché era quasi fiero quando Therese gli faceva leggere un articolo scritto da lei, o quando Leo si degnava di giocare con lui una partita a scacchi, la domenica pomeriggio.
A Georg pareva a volte che ci fosse un certo nesso fra la sua simpatia per Leo e l’amore che in passato Anna aveva sentito per lui. Non era la prima volta, infatti, che si sentiva stranamente attratto verso un uomo che in precedenza era stato amato da una donna che ora era sua.
Georg e Heinrich erano saliti in bicicletta e passavano per una stretta stradina che si inoltrava nel folto del bosco. Diradatisi gli alberi, furono di nuovo all’aperto e videro che il sole era già sceso all’orizzonte, dietro le loro spalle, e che davanti alle ruote della bicicletta correvano le lunghe ombre delle loro stesse figure. Poi la strada scese più rapidamente, passando davanti a casette basse, ricoperte di fogliame rossiccio. Davanti a una porta, sopra una panca, stava un uomo che all’apparenza pareva avere per lo meno novant’anni; da una finestra aperta si affacciò il viso pallido di una bimba. All’infuori di questi due esseri, la solitudine era completa.
« Sembra un villaggio incantato » disse Georg.
Heinrich annuì. Conosceva questo posto. Anche qui era venuto con la sua amante in una meravigliosa giornata della scorsa estate. E nel ripensarci provò una nostalgia struggente. Ricordava le ultime ore che aveva passato con lei a Vienna, nella sua stanza ombrosa, dalle persiane chiuse, attraverso le quali brillava l’ardente luce d’agosto; l’ultima passeggiata attraverso le strade immerse nella pace domenicale, nel fresco silenzio delle pietre e dei monumenti, lungo vecchi cortili deserti, senza immaginare minimamente che tutto ciò accadeva per l’ultima volta. Soltanto il giorno dopo, infatti, era giunta la lettera, la lettera tremenda, in cui lei gli diceva che aveva voluto risparmiargli il dolore dell’addio e che, quando avrebbe letto quelle parole, sarebbe stata già da un pezzo al di là della frontiera, in viaggio verso la nuova, ignota città.
La strada cominciò ad animarsi. Apparvero graziose ville, circondate da piccoli, tranquilli giardini; dietro le case sorgevano colline boscose, dai dolci declivi. La valle si allargò ancora, mentre il giorno morente mandava i suoi estremi raggi sui prati e sui campi. In un grande giardino di osteria, vuoto, si accendevano le lanterne. Da tutti gli angoli sembravano ora sbucare frettolose le ombre. Ed eccoli al crocevia. Georg e Heinrich scesero dalle biciclette e accesero una sigaretta.
« A destra o a sinistra? » domandò Heinrich.
Georg guardò l’orologio. « Sono le sei... e alle otto devo essere in città ».
« Allora non possiamo cenare insieme? » disse Heinrich.
« Purtroppo no ».
« Peccato. Allora prendiamo la strada più corta, passando per Sievering ».
Accesero i fanali e passarono attraverso il bosco, lungo stradicciole a zig-zag che parevano interminabili. Gli alberi apparivano uno dopo l’altro nel raggio di luce del fanale, per ricadere poi nella notte. Il vento soffiava più forte tra le fronde, facendone cadere le foglie. Heinrich fu scosso da un leggero brivido di paura come gli accadeva a volte in aperta campagna, di notte. Era deluso di dover passare la serata da solo. Era irritato con Georg, anche per il suo atteggiamento riservato. Decise inoltre (e non era la prima volta) di non parlare più con Georg dei suoi affari privati e personali. Meglio così. Non aveva bisogno della confidenza, della comprensione di nessuno. Stava meglio, in fondo, quando se ne andava tutto solo per la sua strada. L’aveva sperimentato più volte. Perché allora aprire il proprio cuore a un altro? Sì, avere dei conoscenti con cui fare passeggiate, per parlare con acutezza, ma anche con distacco, delle cose dell’arte e della vita, avere delle donne per abbracciarle fuggevolmente; ma di un vero amico, di un’amante vera non aveva bisogno. Così l’esistenza sarebbe trascorsa più dignitosa e indisturbata. Heinrich si beava di quei propositi, sentiva crescere in sé qualcosa di forte e di superiore. L’oscurità del bosco non lo spaventava più, e passava nella notte piena di mormorii come attraverso un suo naturale elemento.
Furono presto sulla cima della collina. Il cielo si stendeva buio e senza stelle sulla strada grigia e sulle praterie velate di nebbia che correndo a fianco della via ingannavano l’occhio, simulando ampie distese che si stendevano fino alle colline boscose. Dalla vicina casetta del dazio proveniva una luce. I due salirono in bicicletta e intrapresero la discesa, rapidi quanto lo consentiva l’oscurità. Georg era impaziente di giungere alla meta. Gli sembrava quasi un sogno che tra un’ora e mezzo avrebbe rivisto quella stanza tranquilla di cui solo lui e Anna conoscevano l’esistenza; quella camera in penombra con le oleografie alle pareti, il divano di velluto azzurro, il piccolo pianoforte su cui stavano fotografìe di gente sconosciuta e un busto di Schiller in gesso; con quelle finestre alte e strette, davanti a cui si ergeva la grande chiesa grigia e buia.
I lampioni erano già accesi ai due lati della via. La strada si aprì ancora una volta sullo sfondo delle colline. Poi proseguirono sempre più velocemente, prima fra linde case di campagna, poi in una grande arteria rumorosa e piena di folla, che si addentrava sempre più nel cuore della città. Scesero davanti alla Votivkirche.
« Adieu, » disse Georg « e arrivederci a domani, al caffè ».
« Non so se potrò venire... » rispose Heinrich; e poiché Georg lo guardava con aria interrogativa, soggiunse: « Può darsi che parta ».
« Oh! Una decisione improvvisa? ».
« Sì, a volte si decide così all’improvviso... ».
« Per nostalgia » completò Georg sorridendo.
« O per inquietudine » disse Heinrich con un riso breve.
« Mi sembra che non abbia motivo di essere inquieto » disse Georg.
« Come può saperlo? » domandò Heinrich, beffardo.
« Lei stesso mi ha raccontato... ».
« Che cosa? ».
« Che ha tutti i giorni notizie ».
« Sì, questo è vero, ne ho tutti i giorni. Ricevo lettere tenere e ardenti. Ogni giorno alla stessa ora. Ma che cosa vuol dire? Io ne scrivo di ancora più tenere e ardenti, eppure... ».
« Già, già » disse Georg, che lo capiva. E azzardò la domanda: « Perché non rimane con lei? ».
Heinrich alzò le spalle. « Dica un po’, Georg, non le sembrerebbe un po’ ridicolo modificare la propria vita per un’avventura, andarsene in giro per il mondo con una piccola attrice... ».
« Personalmente mi dispiacerebbe molto, si capisce... ma in quanto al “ridicolo”... che cosa ci sarebbe di ridicolo? ».
« No, non ne ho voglia » disse Heinrich con asprezza, tagliando corto.
« Ma se... se le importasse proprio molto... se glielo chiedesse... quella donna non rinuncerebbe alla carriera? ».
« Può darsi. Ma io non glielo chiedo. Non voglio chiederglielo. No. Preferisco soffrire che avere una simile responsabilità ».
« Sarebbe poi una responsabilità così grande? » domandò Georg. « Voglio dire... il talento di questa donna è così eccezionale, tiene tanto alla sua arte che rinunciarvi le costerebbe un grave sacrificio? ».
« Se ha talento? » disse Heinrich. « Questo non lo so nemmeno io. Credo che sia l’unica persona al mondo sul talento della quale io non azzardo giudizi. Ogni volta che l’ho vista sulla scena, la sua voce mi è sembrata quella di una sconosciuta, come se venisse più da lontano di tutte le altre voci. È strano... Ma anche lei l’ha sentita recitare, Georg. Che impressione le ha fatto? Me lo dica sinceramente ».
« Ecco, le dirò subito... non ho nessun ricordo di quell’attrice. Lei mi scuserà, a quell’epoca non sapevo ancora... Quando mi parla di lei, ho sempre davanti agli occhi dei capelli fulvi che ricadono sulla fronte... e due grandi occhi neri e inquieti in un pallido viso minuto ».
« Sì, che occhi inquieti » ripetè Heinrich mordendosi il labbro, e tacque per qualche minuto. « Arrivederci » disse poi bruscamente.
« Mi scriverà? » disse Georg.
« Certo. E del resto, una volta o l’altra ritornerò » soggiunse, con un sorriso stentato.
« Buon viaggio » disse Georg, dandogli la mano e stringendogliela con particolare cordialità. Questo fece bene a Heinrich. Quella calda stretta di mano non solo gli dava la sensazione che Georg non lo trovava ridicolo, ma gli faceva anche sentire che l’amante, lontana gli era fedele e che lui poteva concedersi cose che non erano concesse agli altri.
Georg lo vide allontanarsi velocemente sulla bicicletta. Come poche ore prima nell’accomiatarsi da Leo, Heinrich gli fece l’impressione di qualcuno che scomparisse in un paese sconosciuto; e in quello stesso momento sentì che, malgrado tutta la simpatia, non ci sarebbe mai stata fra lui e quei due uomini una confidenza completa, così come c’era stata l’anno prima con Guido Schönstein e prima ancora col povero Labinski. Si chiese se questo potesse trovare spiegazione nella differenza razziale, e si domandò se mai sarebbe giunto da solo, senza la conversazione di oggi, ad accorgersi di quella estraneità. Ne dubitava. Non si sentiva forse più vicino, anzi, più affine a questi due e ad altri della loro razza, che non a tanti della sua? Anzi, non sentiva chiaramente che a volte, nelle profondità del loro essere, esistevano fra lui e loro legami più forti che non tra lui e Guido, forse anche tra lui e suo fratello stesso? Ma se le cose stavano così non avrebbe dovuto dirlo, quel pomeriggio stesso o in qualsiasi altra occasione? Avrebbe dovuto gridar loro di confidare in lui, di non escluderlo! Di tentare di considerarlo un amico!... E quando si domandò perché non l’aveva fatto, perché non aveva preso parte alla loro discussione, si accorse con stupore che, per tutto il tempo che era durata, non si era mai potuto liberare da un senso di colpa, come se per tutta la vita fosse stato animato da un senso di inimicizia sconsiderata, per niente giustificata da esperienze personali, verso gli « stranieri », come li chiamava lo stesso Leo; come se avesse contribuito così alla diffidenza e all’ostinazione con cui molti gli avevano chiuso il loro cuore, quando egli stesso aveva desiderio di aprir loro il suo. Questo pensiero gli dava un senso crescente di disagio, che non sapeva spiegarsi, e che non era niente altro che la greve e dolorosa coscienza che relazioni disinteressate non possono esistere ed evolversi tra persone, sia pure disinteressate, quando l’atmosfera che le circonda è satura d’ingiustizia, di stoltezza e insincerità.
Pedalò sempre più velocemente verso casa, come se volesse sfuggire a questa sensazione di disagio. Giunto a casa, si cambiò in fretta, per non fare aspettare troppo a lungo Anna. Mai aveva provato tanta nostalgia per lei. Gli pareva di tornare da un lungo viaggio, verso il solo essere che gli apparteneva interamente.