IL FUOCHISTA
Estratto da "Racconti" Franz Kafka
Recensione
Nelle intenzioni di Franz Kafka, Il fochista doveva costituire il capitolo iniziale di quello che Italo Calvino considerava “‘il romanzo’ per eccellenza nella letteratura mondiale del Novecento e forse non solo in essa”, ovvero Der
Verschollene (Il disperso), o America. L’ambientazione geografica del Fochista, come anche più in generale quella dello stesso romanzo America (Il disperso), è onirico-fantastica, dato che Kafka non visitò mai l’America, non s’imbarcò mai su una nave transatlantica, non vide – entrando nell’Hudson – la Statua della Libertà stagliarsi di fronte alla grande metropoli statunitense. Ciò tuttavia non scalfisce il modo realistico con cui – più che in altri testi kafkiani – vi vengono enucleati temi di carattere politico-sociale.
Proprio la Statua della Libertà diviene l’esplicito rimando a uno dei temi portanti sia del Fochista che dell’intero tessuto narrativo del Disperso: la ricerca – destinata perlopiù all’insuccesso – di giustizia e di rivalsa da parte dei più deboli nei confronti degli oppressori. Una problematica, questa, che si esplicita anzitutto nelle pagine finali del Fochista, allorché Karl, con l’impeto di un adolescente al primo confronto con l’esistenza, di fronte al capitano della nave prende le difese del fochista nei confronti del suo superiore rumeno, il capomacchinista Schubal, che lo perseguita ingiustamente.
IL FUOCHISTA
Quando il sedicenne Karl Rossmann, mandato in America dai suoi poveri genitori perché una cameriera l'aveva sedotto e aveva avuto un figlio da lui, entrò nel porto di New York sulla nave che aveva rallentato, vide la statua della Libertà tanto a lungo contemplata, come se attorno ad essa la luce del sole si fosse improvvisamente fatta più intensa. Il braccio con la spada svettava alto come se si fosse alzato allora, e attorno alla sua figura aleggiava libera l'aria.
«Com'è alta!», si disse, e giacché non pensava minimamente a muoversi fu spinto via via contro il parapetto dalla folla sempre più folta di facchini che gli passavano accanto.
Un giovanotto con cui aveva fatto una superficiale conoscenza durante il viaggio gli disse passando: «Non ha ancora voglia di scendere?». «Io sono pronto», disse Karl e lo guardò ridendo, e un po' per spavalderia, e un po' perché era un ragazzo robusto si mise la valigia in spalla. Ma guardando il suo conoscente che già si allontanava con gli altri facendo lievemente oscillare il bastoncino, si accorse costernato di aver dimenticato giù nella nave il suo ombrello. Pregò in tutta fretta il conoscente, che non parve molto entusiasta, di aspettare per cortesia qualche istante accanto alla sua valigia, diede un'ultima occhiata al luogo per raccapezzarsi al ritorno e si allontanò di corsa. Di sotto trovò con disappunto che un passaggio il quale gli avrebbe di molto accorciato il percorso, era stato chiuso, il che verosimilmente aveva a che vedere con lo sbarco dei passeggeri, e dovette faticosamente cercare delle scale che scendessero fino in basso attraverso corridoi che piegavano in continuazione, una cabina vuota con una scrivania deserta, sinché non si fu davvero perso del tutto, dato che aveva fatto quel percorso una volta o due soltanto, e sempre in numerosa compagnia. Nel suo sgomento, e poiché non incontrava nessuno e sopra di sé udiva soltanto il continuo scalpiccio di migliaia di piedi, e di lontano percepiva l'ultimo ansito delle macchine già spente, senza riflettere si mise a bussare a una porticina davanti alla quale si era fermato nel suo girovagare.
«È aperto», gridarono da dentro, e con vero sollievo Karl aprì la porta. «Perché bussa così come un pazzo?» chiese un uomo gigantesco dandogli appena un'occhiata. Da una specie di lucernario una luce opaca, già consumata nella parte alta della nave, scendeva nella misera cabina nella quale erano stipati, come in un magazzino, un letto, un armadio, una poltrona e l'uomo. «Mi sono perso», disse Karl, «durante il viaggio non me n'ero accorto, ma è una nave terribilmente grande.»
«Sì, in questo ha ragione», disse l'uomo con un certo orgoglio, continuando a trafficare attorno alla serratura di una valigetta che premeva con ambedue le mani, cercando di udire lo scatto della serratura. «Ma venga dentro!», proseguì l'uomo, «non vorrà mica restare là fuori!»
«Non disturbo?», chiese Karl. «E perché dovrebbe disturbare?»
«Lei è tedesco?», cercò ancora di assicurarsi Karl, che aveva udito dei molti pericoli che minacciavano i nuovi arrivati in America, specie da parte degli irlandesi. «Tedesco, tedesco», disse l'uomo. Karl però esitava ancora. Allora l'uomo afferrò all'improvviso la maniglia e chiudendo di colpo la porta spinse Karl dentro la cabina. «Non sopporto che mi si guardi dal corridoio», disse l'uomo che si era rimesso a trafficare attorno alla valigia, «Tutti quelli che passano guardano dentro, non ci resisto!»
«Ma il corridoio è vuoto», disse Karl pressato scomodamente contro il letto. «Già, adesso», disse l'uomo. «Ma è ben di adesso che stiamo parlando», pensò Karl, «è difficile discorrere con quest'uomo.»
«Si metta sul letto, così avrà più spazio», disse l'uomo. Karl vi si arrampicò sopra alla meglio, ridendo di cuore nel vano tentativo che aveva fatto di montarci sopra d'un balzo. Ma non appena fu sul letto, esclamò: «Santo cielo, mi sono completamente dimenticato della valigia!». «Dov'è?»
«Sopra coperta, ci fa la guardia un mio conoscente. Già, ma come si chiama?» E dalla tasca segreta che sua madre gli aveva cucito nella fodera della giacca per il viaggio estrasse un biglietto da visita. «Butterbaum, Franz Butterbaum». «Ha un gran bisogno di quella valigia?»
«Naturalmente.»
«E allora perché l'ha affidata a un estraneo?»
«Avevo dimenticato l'ombrello di sotto e son corso a prendermelo, ma non volevo trascinarmi dietro la valigia. Poi però mi sono anche perso.»
«Lei è solo? Senza compagnia?»
«Sì, solo.»
«Forse dovrei affidarmi a quest'uomo», passò per la testa a Karl, «dove trovo ora come ora un amico migliore?»
«E adesso ha perso anche la valigia. Per non parlare dell'ombrello.» E l'uomo si sedette in poltrona, come se adesso la faccenda di Karl suscitasse in lui un certo interesse. «Credo però che la valigia non sia ancora perduta.»
«La fede rende beati», disse l'uomo e si grattò energicamente tra i capelli scuri, corti e folti, «su una nave, con i porti cambiano anche le usanze. Ad Amburgo forse il suo Butterbaum avrebbe fatto la guardia alla valigia, qui molto probabilmente ormai non c'è più traccia né dell'uno né dell'altra.»
«Ma allora debbo subito andar su a controllare», disse Karl cercando di scendere dalla cuccetta. «Rimanga», disse l'uomo, e con una manata sul petto lo fece ricadere indietro, in modo addirittura brutale. «Ma perché?» chiese Karl irritato. «Perché non ha alcun senso», disse l'uomo, «tra un minuto esco anch'io, così andremo insieme. O la valigia è stata rubata, e allora non c'è niente da fare, oppure quello l'ha lasciata lì, e allora la troveremo più facilmente quando la nave sarà vuota. E così pure il suo ombrello.»
«Lei è pratico della nave?» chiese Karl con una certa diffidenza, parendogli che l'idea, del resto convincente, che sulla nave vuota le cose si sarebbero potute trovare più facilmente contenesse una trappola. «Sono fuochista», disse l'uomo. «Lei è fuochista!», esclamò Karl tutto contento, come se questo superasse ogni sua aspettativa e, appoggiato sul gomito, osservò l'uomo più attentamente. «Proprio di fronte alla cabina dove dormivo con lo slovacco c'era una finestrella da dove si vedeva la sala macchine.»
«Sì, io lavoravo là», disse il fuochista. «Io mi sono sempre un po' interessato di tecnica», disse Karl che seguiva un suo corso di pensieri, «e sarei sicuramente diventato ingegnere se non fossi dovuto partire per l'America.»
«Perché è dovuto partire?»
«Lasciamo perdere», disse Karl, e con un gesto della mano liquidò tutta la storia. Intanto guardava il fuochista sorridendo, come a chiedergli indulgenza per quel che non confessava. «Ci sarà bene un motivo», disse il fuochista, e non si capiva se con queste parole volesse sollecitare o rifiutare la spiegazione di questo motivo. «Adesso potrei diventare fuochista anch'io», disse Karl, «ai miei genitori ormai non importa più niente di quel che diventerò.»
«Il mio posto si libera», disse il fuochista, e nella piena coscienza di ciò si ficcò le mani nelle tasche dei calzoni e allungò sul letto le gambe infilate in pantaloni spiegazzati, color grigio ferro, di una stoffa che sembrava cuoio. Karl dovette farsi più vicino alla parete. «Lei lascia la nave?»
«Sissignore, oggi ci mettiamo in marcia.»
«Ma perché? Non le piace?»
«Mah, sono le circostanze, che una cosa piaccia o no a volte ha poca importanza. Del resto lei ha ragione, non mi piace. Lei probabilmente non pensa sul serio di diventare fuochista, ma è proprio in questo caso che è più facile diventarlo. Io glielo sconsiglio decisamente. Se voleva fare l'università in Europa, perché non qui? Le università americane sono infinitamente migliori di quelle europee.»
«Può darsi», disse Karl, «però praticamente non ho soldi per studiare. È vero che ho letto di uno che di giorno lavorava in un negozio e di notte studiava, e alla fine diventò dottore e credo sindaco, ma per far questo occorre una grande costanza, no? Temo che a me manchi. Inoltre come scolaro non ero particolarmente bravo, l'addio alla scuola non mi è stato davvero difficile. E qui forse le scuole sono anche più severe. Non conosco quasi per niente l'inglese. E poi, in genere qui si è un po' prevenuti contro gli stranieri, credo.»
«Lo ha già saputo anche lei? Beh, allora tutto è a posto. Allora lei è la persona che fa per me. Vede, ci troviamo su una nave tedesca, della linea Amburgo-America, perché allora qui non siamo tutti tedeschi? Perché il capo macchinista è un rumeno? Si chiama Schubal. È una cosa da non credersi. E questo farabutto maltratta noi tedeschi, su una nave tedesca! Non creda» — gli mancò il fiato, e agitò la mano come per prender tempo — «che io mi lamenti tanto per lamentarmi. So che lei non ha influenza e che non è che un povero ragazzo. Ma è troppo dura!» E batté più volte il pugno sul tavolo senza staccar gli occhi dalla mano. «Ho prestato servizio su tante navi» — e snocciolò d'un fiato una ventina di nomi come se fossero una parola sola, Karl era completamente stordito — «e mi son fatto onore, ho avuto degli elogi, ero un lavoratore bene accetto ai miei capitani, sono rimasto persino vari anni sullo stesso veliero mercantile» — si alzò, come se quello fosse stato il punto culminante della sua vita — «e qui, su questa carretta, dove tutto fila liscio come l'olio, dove non occorre essere dei geni, qui sono un buono a nulla, qui sono sempre d'intralcio a Schubal, sono un fannullone, merito di essere buttato fuori e ricevo il salario per misericordia. Lei questa cosa la capisce? Io no.»
«Questo lei non deve tollerarlo», disse Karl indignato. Aveva quasi perso il senso di trovarsi sul suolo incerto di una nave, sulla costa di un continente sconosciuto, tanto si sentiva a suo agio lì sul letto del fuochista. «È già stato dal capitano? Ha già difeso le sue ragioni davanti a lui?»
«Ah, se ne vada, meglio che vada via. Io non la voglio qui. Lei non ascolta quel che dico e viene a darmi dei consigli. Come faccio ad andare dal capitano!» E stancamente il fuochista si rimise a sedere e si nascose il viso tra le mani.
«Miglior consiglio non posso dargli», si disse Karl. E trovò che avrebbe fatto meglio ad andare a prendere la sua valigia, invece di star lì a dare consigli che venivano soltanto considerati sciocchi. Quando suo padre gli aveva affidato per sempre quella valigia, aveva chiesto scherzosamente: «Per quanto tempo la terrai?» e adesso forse quella cara valigia era davvero perduta. L'unica consolazione era che il padre non avrebbe potuto conoscere la sua situazione attuale anche se avesse fatto delle ricerche. La compagnia di navigazione avrebbe potuto dire soltanto che lui era arrivato a New York. Ma a Karl dispiaceva di non aver quasi adoperato le cose che erano nella valigia, sebbene per esempio da un bel pezzo avesse avuto bisogno di cambiarsi la camicia. Aveva fatto male a risparmiare; proprio adesso che, all'inizio della sua carriera, avrebbe avuto necessità di presentarsi vestito pulitamente, si sarebbe dovuto far vedere con una camicia sporca. Per il resto la perdita della valigia non era un danno così grave, perché il vestito che aveva addosso era persino meglio di quello rimasto nella valigia, che in realtà era un vestito rimediato, che la madre aveva dotato rammendare subito prima della partenza. Adesso ricordò anche che nella valigia c'era anche un pezzo di salame di Verona, che la madre aveva aggiunto come dono speciale, ma di cui lui aveva potuto mangiare solo una piccolissima parte perché durante il viaggio non aveva avuto per niente appetito, e gli era stata più che sufficiente la zuppa che distribuivano sull'interponte. Invece adesso avrebbe voluto avere sotto mano quel salame, per farne omaggio al fuochista. Infatti le persone di quel genere si conquistano facilmente mettendo loro in mano qualche piccolezza, Karl lo aveva imparato da suo padre, che distribuendo sigari si ingraziava tutti gli impiegati di rango inferiore con cui aveva a che fare per la sua professione. Adesso, da regalare Karl aveva solo il suo denaro, e quello, dal momento che forse aveva già perso la valigia, per ora non lo voleva toccare. Di nuovo i suoi pensieri tornarono alla valigia, e adesso non capiva proprio perché durante il viaggio aveva sorvegliato la valigia con tanta attenzione che quella guardia gli era quasi costata il sonno, mentre ora se l'era fatta portar via così facilmente. Si ricordò delle cinque notti in cui aveva sospettato di continuo un piccolo slovacco, che dormiva due posti più in là alla sua sinistra, di aver delle mire sulla sua valigia. Questo slovacco aspettava soltanto che Karl, vinto dalla debolezza, finisse per assopirsi un istante, per tirarsi vicina la valigia con un lungo bastone col quale durante il giorno giocava o si esercitava. Di giorno questo slovacco aveva un'aria innocente, ma non appena calava la notte ogni tanto si alzava dal suo giaciglio e guardava tristemente la valigia di Karl. Karl se ne accorgeva benissimo perché c'era sempre qualcuno che, con l'irrequietezza dell'emigrante, accendeva un lumino, nonostante il regolamento della nave lo proibisse, e cercava di decifrare gli incomprensibili prospetti delle agenzie di emigrazione. Se quella luce era lì vicino Karl poteva assopirsi un poco, ma se era lontana oppure c'era buio era costretto a tener gli occhi aperti. Quella fatica lo aveva davvero stremato, e invece forse era stata completamente inutile. Quel Butterbaum, ah, se una volta o l'altra gli fosse capitato di incontrarlo! In quell'istante, nel silenzio totale che aveva regnato sino allora, risuonarono in lontananza piccoli brevi colpi, come di piedi infantili, il rumore aumentava via via che si avvicinavano, e poi divenne una tranquilla marcia di uomini. Evidentemente camminavano in fila, com'era naturale in quello stretto corridoio, e si udiva come un tintinnare di armi. Karl, che stava per abbandonarsi sul letto a un sonno libero da ogni pensiero per la valigia e lo slovacco, sobbalzò e scrollò il fuochista per richiamare la sua attenzione, perché la testa della processione sembrava giunta all'altezza della porta della cabina. «È l'orchestra della nave», disse il fuochista, «hanno suonato di sopra e ora vanno a far le valigie. Adesso è tutto finito e noi possiamo andare. Venga!» Prese per mano Karl, all'ultimo momento staccò dalla parete sopra il letto un quadruccio con l'immagine della Madonna, lo infilò nella tasca interna della giacca, afferrò la valigia e uscì frettolosamente con Karl dalla cabina.
«Adesso vado nell'ufficio e dico la mia a quei signori. Non ci sono più passeggeri, non c'è più da aver riguardi.» Il fuochista ripeteva queste parole in tutti i toni, e mentre camminava tentò di schiacciare colpendolo lateralmente col piede un topo che gli traversava la strada, ma riuscì soltanto a far sì che si infilasse più rapidamente nel buco che aveva fatto in tempo a raggiungere. Era lento di movimenti, perché aveva sì le gambe lunghe, ma troppo pesanti.
Traversarono un reparto della cucina dove alcune ragazze che indossavano dei grembiuli sudici — li macchiavano apposta — lavavano delle stoviglie in grandi mastelli. Il fuochista chiamò una certa Line, le mise un braccio attorno ai fianchi e se la trascinò dietro per un pezzetto, mentre lei si stringeva civettuola al suo braccio. «È ora di paga, vuoi venire?», le chiese. «Perché dovrei fare questa fatica? portami piuttosto il denaro qua», rispose lei, sgusciandogli di sotto al braccio e correndo via. «Dove hai pescato quel bel ragazzo?», gridò ancora, ma non attese la risposta. Si udirono le risate di tutte le ragazze, che avevano interrotto il lavoro.
Ma loro proseguirono, e giunsero a una porta sormontata da un piccolo frontone sorretto da cariatidi dorate. Per un arredamento di nave sembrava davvero un lusso eccessivo. Karl si accorse di non essere mai stato in quella parte della nave, che probabilmente durante la traversata era riservata ai passeggeri di prima e seconda classe, mentre adesso, in vista della pulizia generale, le porte di separazione erano state tolte. In effetti avevano già incontrato degli uomini che portavano una scopa sulla spalla e che avevano salutato il fuochista. Karl era stupito di quel gran movimento, sul suo interponte ne aveva visto ben poco. Lungo i corridoi correvano anche fili di linee elettriche, e si udiva continuamente suonare una piccola campana.
Il fuochista bussò rispettosamente alla porta, e quando fu gridato «Avanti!», con un gesto della mano invitò Karl a entrare senza timore. Questi entrò, ma rimase accanto alla porta. Davanti alle tre finestre della stanza vide le onde del mare, e a contemplare il loro allegro movimento il cuore gli batteva, come se per cinque lunghi giorni non avesse visto mare in continuazione. Grandi bastimenti si incrociavano e cedevano al moto delle onde soltanto per quel che consentiva la loro pesantezza. Se si socchiudevano gli occhi, pareva che quelle navi oscillassero solo a causa del loro enorme peso. Sugli alberi avevano bandiere sottili ma lunghe che, pur se il movimento della nave le faceva tendere, ancora palpitavano irrequiete. Risuonarono dei colpi di salve, probabilmente da qualche nave da guerra, i cannoni di una di queste che passava non troppo distante, lucenti nel loro manto d'acciaio, erano come carezzati dall'andatura sicura, piana e tuttavia non orizzontale del bastimento. I piccoli battelli e le barche, almeno dalla porta li si poteva osservare solo di lontano, infilarsi numerosi nei varchi che si aprivano tra le grandi navi. Ma dietro tutto questo stava New York e guardava Karl con le centomila finestre dei suoi grattacieli. Sì, in quella stanza si capiva bene dove si era.
A un tavolo rotondo sedevano tre signori, un ufficiale di bordo nella sua uniforme blu e due funzionari della capitaneria di porto, che indossavano nere uniformi americane. Sul tavolo erano posate alte pile di documenti, che l'ufficiale scorreva per primo con la penna in mano per poi passarli agli altri due, che ora li leggevano, ora ne prendevano degli appunti, ora li riponevano nelle loro cartelle, quando uno di loro, che faceva quasi ininterrottamente un lieve rumore coi denti, non dettava al suo collega qualcosa in un verbale.
Davanti alla finestra sedeva a una scrivania, con le spalle rivolte alla porta, un signore piuttosto piccolo, che armeggiava con grossi libroni allineati davanti a lui all'altezza del capo su un massiccio scaffale. Lì vicino c'era una cassaforte aperta e vuota, almeno a una prima occhiata.
La seconda finestra era vuota e offriva la vista migliore. Invece accanto alla terza c'erano due signori che parlavano a bassa voce. Uno stava appoggiato vicino alla finestra, indossava anche lui l'uniforme di bordo e giocherellava con l'elsa della spada. Il suo interlocutore era rivolto verso la finestra e ogni tanto muovendosi lasciava intravvedere una parte delle decorazioni che ornavano il petto dell'altro. Era in abiti civili e aveva un sottile bastoncino di bambù che, poiché il signore teneva le mani poggiate sui fianchi, sporgeva anch'esso come una spada.
Karl non ebbe molto tempo per guardar tutto, perché subito si avvicinò loro un servitore che, guardando il fuochista come se questi lì non avesse niente a che fare, gli chiese cosa voleva. Il fuochista rispose con voce sommessa, così com'era stata pronunciata la domanda, di voler parlare col signor cassiere capo. Il servitore da parte sua respinse questa preghiera con un gesto della mano, tuttavia andò in punta di piedi, evitando con un largo giro il tavolo rotondo, dal signore dei libroni. Questo signore — lo si vide chiaramente — alle parole del servitore si raggelò addirittura, ma alla fine si volse verso colui che voleva parlargli e agitò le mani, con aria di severo rifiuto, all'indirizzo del fuochista e per sicurezza anche del servitore. Allora il servitore tornò dal fuochista e disse, con tono sommesso come se gli stesse facendo una confidenza: «Se ne vada subito da questa stanza!».
A questa risposta il fuochista guardò Karl, come se questi fosse il suo cuore al quale poter confidare in silenzio la propria pena. D'impulso Karl si staccò da lui, traversò la stanza di corsa tanto che urtò leggermente la sedia dell'ufficiale, il servitore gli corse dietro, curvo, con le braccia pronte a ghermire, come se desse la caccia a un insetto pericoloso, ma Karl arrivò per primo al tavolo del cassiere capo e vi si aggrappò, nel caso che il servitore cercasse di trascinarlo via.
Naturalmente la stanza subito si animò. L'ufficiale al tavolo era balzato in piedi, i signori della capitaneria osservavano calmi ma attenti, i due signori accanto alla finestra si erano messi fianco a fianco e il servitore, ritenendo di esser fuori di luogo là dove i nobili signori manifestavano il proprio interesse, si fece indietro. Sulla porta il fuochista aspettava, teso, il momento in cui ci sarebbe stato bisogno del suo aiuto. Finalmente il cassiere capo fece un ampio giro a destra con la sua poltrona.
Dalla tasca segreta che non si preoccupava di esporre agli sguardi di quella gente Karl pescò fuori il passaporto, che depose aperto sulla scrivania in luogo di ogni altra presentazione. Il cassiere capo parve trovare irrilevante quel passaporto, perché lo fece schizzar via con due dita, e Karl lo ripose in tasca, come se quella formalità fosse stata soddisfacentemente espletata.
«Mi permetto di dire», cominciò poi, «che secondo la mia opinione al signor fuochista è stato fatto un torto. C'è qui un certo Schubal che ce l'ha con lui. Egli ha già prestato servizio con piena soddisfazione su molte navi che può nominarvi tutte, è diligente, ha voglia di lavorare, e davvero non si capisce perché proprio su questa nave, su cui il servizio non è eccessivamente pesante come per esempio sui velieri mercantili, egli dovrebbe fare una cattiva riuscita. Quindi deve trattarsi soltanto di calunnie, che gli impediscono di farsi strada e lo privano di quel riconoscimento che altrimenti non gli mancherebbe di certo. Io ho parlato solo in generale di questa faccenda, le sue rimostranze particolari le esporrà lui direttamente.» Con questo discorso Karl si era rivolto a tutti i signori, perché in effetti stavano ascoltando tutti e sembrava molto più probabile che tra tutti loro insieme si trovasse un uomo giusto, anziché doverlo proprio trovare nel cassiere capo. Inoltre Karl astutamente aveva taciuto di conoscere il fuochista da così poco tempo. Del resto avrebbe parlato molto meglio se non lo avesse confuso il viso rosso del signore col bastoncino di bambù, che, da dove si trovava, vedeva adesso per la prima volta.
«È tutto vero, parola per parola», disse il fuochista prima ancora che qualcuno gli avesse rivolto una domanda, anzi prima ancora che lo avessero guardato. Questa sua precipitazione sarebbe stata un grosso errore se il signore con le decorazioni il quale, come Karl comprese d'un tratto, doveva essere il capitano, non fosse evidentemente giunto tra sé e sé alla conclusione di ascoltare il fuochista. Infatti tese la mano e gli gridò: «Venga qua!», con voce dura, come per sottolineare quest'ordine a colpi di martello. Adesso tutto dipendeva da come si sarebbe comportato il fuochista, perché quanto alla giustizia della sua causa Karl non aveva dubbi.
Fortunatamente in questa occasione si vide che il fuochista sapeva il fatto suo. Con calma esemplare estrasse con gesto sicuro dalla valigetta un rotolo di documenti e un taccuino, con L quali si diresse come cosa ovvia verso il capitano, ignorando totalmente il cassiere capo, e sciorinò le sue prove sul davanzale della finestra. Al cassiere capo non rimase altra scelta se non scomodarsi lui stesso per andar là. «Quest'uomo è un notorio attaccabrighe», spiegò, «sta più negli uffici cassa che in sala macchine. Ha ridotto alla disperazione Schubal, che è una persona così calma. Ascolti una buona volta!», disse poi rivolto al fuochista, «lei davvero esagera con la sua invadenza. Quante volte è già stato buttato fuori dall'ufficio pagamenti, come si meritava, per le sue pretese totalmente, assolutamente ingiustificate! Quante volte è poi ricorso alla cassa principale! Quante volte le è stato detto con le buone che Schubal è il suo superiore diretto, con il quale soltanto, lei, come sottoposto, deve vedersela! E adesso viene nientemeno qua, quando c'è il signor capitano, non si perita di seccare anche lui, e non si vergogna neppure di portare con sé come portavoce ammaestrato delle sue insulse accuse questo piccolo, che peraltro è la prima volta che vedo su questa nave!» Karl si trattenne a stento dal saltare su. Ma già interveniva il capitano, che disse: «Ascoltiamo una buona volta quest'uomo. Schubal a parer mio da un po' di tempo sta diventando troppo indipendente, con questo però non voglio dir niente in suo favore». Quest'ultima frase era diretta al fuochista, era naturale che il capitano non volesse subito scendere in campo per lui, ma tutto sembrava prendere una buona piega. Il fuochista cominciò a spiegare i suoi motivi, e sin dall'inizio superò se stesso dando a Schubal il titolo di «signore». Com'era contento Karl, vicino al tavolo deserto del cassiere capo, dove per la soddisfazione che provava seguitava a fare oscillare il piatto di una bilancia per lettere! — Il signor Schubal è ingiusto! Il signor Schubal privilegia gli stranieri! Il signor Schubal aveva cacciato dalla sala macchine il fuochista e lo aveva mandato a pulire i cessi, lavoro che certamente non spettava a un fuochista! — Una volta venne persino messa in dubbio la capacità del signor Schubal, che doveva essere più apparente che reale. A questo punto Karl fissò il capitano con uno sguardo in cui mise tutta la sua forza e la sua capacità di convinzione, come se fossero colleghi e lui volesse pregarlo di non farsi una cattiva opinione del fuochista per quel suo modo di esprimersi un po' sgarbato. Comunque da tutti quei discorsi non venne fuori nulla di concreto, e anche se il capitano continuava a guardare davanti a sé con negli occhi la determinazione di ascoltare il fuochista fino in fondo, gli altri signori cominciavano a dar segni di impazienza, e la voce del fuochista non dominò più come prima incontrastata nella stanza, il che dava adito a qualche timore.
Il signore in borghese per primo cominciò ad agitare il suo bastoncino e a batterlo, anche se leggermente, sul pavimento di legno. Gli altri signori distolsero lo sguardo dal gruppo, i signori della capitaneria, che evidentemente avevano molta fretta, ripresero in mano i documenti e cominciarono, anche se un po' distrattamente, a scorrerli, l'ufficiale di bordo si riaccostò al tavolo e il cassiere capo, che credeva di aver ormai partita vinta, emise ironicamente un gran sospiro. Dalla distrazione che stava impadronendosi di tutti sembrava immune solo il servitore, il quale condivideva la sua parte di pene che un pover'uomo deve soffrire quando è sotto gli ordini dei potenti e si mise tutto serio a far dei cenni a Karl, come se volesse spiegargli qualcosa.
Intanto davanti alle finestre la vita del porto continuava il suo corso, una piatta nave da carico con una montagna di barili, che dovevano essere stati stivati magnificamente perché non rotolavano, passò lì davanti gettando la stanza nella semioscurità; piccoli battelli a motore che Karl se avesse avuto tempo adesso avrebbe potuto osservare in tutti i loro dettagli, passavano frusciando, dritti come fusi, obbedendo ai rapidi gesti di un uomo in piedi al timone. Strani corpi galleggianti affioravano dalle acque agitate e subito venivano ricoperti dalle onde e sparivano davanti agli occhi stupiti; scialuppe di transatlantico venivano spinte a remi dal duro lavoro dei marinai ed erano piene di passeggeri seduti lì dentro così come li avevano stipati, silenziosi e pieni di attesa, anche se alcuni non potevano fare a meno di girare il capo a guardare quel mutevole scenario. Un movimento senza fine, un'irrequietudine trasmessa dall'inquieto elemento agli uomini indifesi e alle loro opere!
Ma tutto esortava alla fretta, alla chiarezza, all'esatta rappresentazione; invece che cosa faceva il fuochista? Era tutto sudato dal parlare, ormai non era neanche più capace di reggere nelle mani tremanti le carte che aveva deposto sul davanzale della finestra; da ogni punto dell'universo sentiva che gli affluivano le accuse contro Schubal, una sola delle quali, gli pareva, sarebbe bastata ad affossare per sempre quello Schubal, ma quel che riusciva a dire al capitano era solo un pietoso pasticcio di argomentazioni confuse. Già da tempo il signore col bastoncino di bambù fischiettava sommessamente guardando il soffitto, i signori della capitaneria trattenevano l'ufficiale al loro tavolo e non accennavano a volerlo lasciar libero, il cassiere capo si tratteneva dall'intervenire solo grazie alla calma del capitano, il servitore sull'attenti aspettava da un momento all'altro un ordine del capitano a proposito del fuochista.
A questo punto Karl non poteva più restare a guardare. Perciò si diresse lentamente verso il gruppo, e mentre camminava rifletteva rapidamente in che modo avrebbe potuto affrontare la faccenda con tutta l'abilità di cui era capace. Era davvero tempo, ancora un istante e avrebbero potuto esser scaraventati fuori dall'ufficio tutti e due. Il capitano pareva un brav'uomo e inoltre doveva avere, come Karl credeva di capire, qualche speciale motivo per dimostrar di essere un superiore giusto, ma alla fine non era uno strumento da suonarsi così maldestramente — e proprio così lo trattava il fuochista nella sconfinata indignazione del suo animo.
Karl perciò disse al fuochista: «Deve raccontare in modo più semplice, più chiaro, il signor capitano non può valutar bene le cose da come lei gliele espone. Pensa forse che conosca tutti i macchinisti e i fattorini per nome e cognome tanto da capir subito, quando lei fa uno di questi nomi, di chi si tratta? Metta dunque in ordine le sue rimostranze, dica per prima quella più importante e poi via via le altre, allora forse non ci sarà nemmeno più bisogno di dirle tutte. A me le ha sempre esposte con tanta chiarezza!». «Se in America si possono rubar le valigie, si potrà ben dire anche qualche bugia», pensò per scusarsi.
Se solo fosse servito a qualcosa! Non era già troppo tardi? In realtà il fuochista come udì la voce conosciuta s'interruppe, ma con gli occhi velati dalle lacrime dell'onor virile offeso, dei ricordi terribili, dell'estrema miseria presente non era più neanche in grado di riconoscere Karl. E come poteva adesso — Karl tacitamente lo comprese, guardando colui che ora taceva — come poteva adesso cambiare d'un tratto il suo modo di parlare, dal momento che gli sembrava di aver già detto tutto quel che c'era da dire senza ottenere il minimo riconoscimento e, d'altra parte, di non avere ancora detto niente e di non poter più pretendere che quei signori ascoltassero tutto un'altra volta? E in un momento del genere si fa avanti anche Karl, il suo unico sostenitore, a dargli dei buoni consigli, ma gli dimostra invece che tutto, tutto è perduto.
«Fossi arrivato prima, invece di guardar fuori dalla finestra!», si disse Karl, chinando la testa davanti al fuochista e battendo le mani sulla cucitura dei pantaloni, come a significare la fine di ogni speranza.
Ma il fuochista fraintese quel gesto, sospettò che Karl segretamente si rimproverasse di qualcosa, e con la buona intenzione di allontanare da lui quell'idea, a coronamento delle sue imprese adesso cominciò a litigare con Karl. Adesso, proprio quando i signori al tavolo rotondo erano indignati già da un bel pezzo di quell'inutile chiasso che disturbava il loro importante lavoro, quando il cassiere capo cominciava a trovare incomprensibile la pazienza del capitano e stava per esplodere da un momento all'altro, e quando infine il signore col bastoncino di bambù, al quale persino il capitano aveva lanciato di tanto in tanto un'occhiata amichevole, ormai del tutto indifferente al fuochista, anzi addirittura disgustato, aveva estratto un piccolo taccuino e, evidentemente occupato in tutt'altre faccende, guardava alternativamente ora Karl ora quel suo libriccino.
«Lo so bene», disse Karl, sforzandosi di frenare il torrente di parole che ora il fuochista rivolgeva a lui, e tuttavia serbandogli ancora in questa discussione un sorriso amichevole, «lei ha ragione, ha ragione, non ne ho mai dubitato.» Avrebbe tanto voluto tenergli ferme quelle mani gesticolanti, da cui temeva di essere colpito, ma ancora più avrebbe voluto trascinarlo in un angolo per sussurrargli qualche parola sommessa, tranquillizzante, che nessun altro avrebbe dovuto sentire. Ma il fuochista era fuori di sé. Adesso Karl cominciava persino a trovare una sorta di consolazione nel pensiero che, se fosse stato necessario, con la forza della sua disperazione il fuochista avrebbe potuto tenere a posto tutti e sette gli uomini presenti. Ma sulla scrivania, come si rese conto da una rapida occhiata, c'era un quadrante con troppi pulsanti; e bastava poggiarvi una mano per scatenare l'intera nave, con tutti i suoi corridoi pieni di un equipaggio ostile.
A questo punto il signore con il bastoncino di bambù, che sembrava così distaccato, si avvicinò a Karl e chiese, a voce non troppo alta ma chiaramente udibile in tutto quel gridare del fuochista: «Come si chiama lei?». In quell'istante, come se qualcuno avesse aspettato dietro la porta proprio questa frase del signore, si udì bussare. Il servitore guardò il capitano, il quale fece cenno di assenso. Allora il servitore andò alla porta e la aprì. Fuori stava, in una vecchia giacca a falde, un uomo di medie proporzioni, che a giudicare dall'aspetto non pareva molto adatto a un lavoro alle macchine, eppure era — Schubal. Se Karl non lo avesse capito dalla soddisfazione che traspariva negli sguardi degli altri e dalla quale non restò immune nemmeno il capitano, avrebbe dovuto accorgersene con spavento dal fuochista, il quale irrigidendo le braccia serrò i pugni, come se quel serrare fosse per lui la cosa più importante, alla quale era pronto a sacrificare quel che gli restava della vita. In quei pugni risiedeva ora tutta la sua forza, anche quella che lo teneva in piedi.
Eccolo dunque il nemico, fresco e pimpante nel suo abito buono, con sottobraccio un libro contabile, probabilmente i ruolini di paga e i certificati di lavoro del fuochista e che, dando chiaramente a vedere di voler innanzitutto saggiare la disposizione d'animo dei presenti, guardava tutti negli occhi, uno per uno. I sette erano già tutti dalla parte sua, perché anche se prima il capitano aveva avuto qualcosa da obiettare a suo riguardo, o forse lo aveva soltanto dato ad intendere, dopo il fastidio che il fuochista gli aveva procurato probabilmente non aveva più nulla da ridire su di lui. Con un uomo come il fuochista non si era mai severi abbastanza, e se qualcosa a Schubal andava rimproverato, era di non aver saputo piegare nel tempo la riottosità del fuochista, dal momento che ancora oggi costui aveva osato presentarsi al capitano.
Adesso forse si poteva ancora sperare che il confronto tra il fuochista e Schubal ottenesse anche davanti agli uomini l'effetto che non gli sarebbe mancato davanti a un tribunale più alto, perché anche se Schubal sapeva simulare bene, non avrebbe potuto reggere la finzione sino alla fine. Sarebbe bastato che la sua perfidia si intravvedesse anche solo per un attimo perché quei signori capissero chi era, e a questo avrebbe pensato Karl. Già si era fatto un'idea di quali fossero la perspicacia, le debolezze, le fisime di ciascuno di quei signori, e da questo punto di vista il tempo passato lì dentro non era andato perduto. Se soltanto il fuochista fosse stato in grado di difendersi meglio! ma quello non sembrava assolutamente in grado di lottare. Se qualcuno gli avesse messo davanti Schubal, avrebbe potuto massacrargli di pugni quella testa odiata. Ma non era neppure capace di far quei pochi passi sino a lui. Perché Karl non aveva previsto quel che pure sarebbe stato tanto facile prevedere, che cioè Schubal alla fine si sarebbe pur fatto vivo, se non di sua spontanea iniziativa, almeno perché chiamato dal capitano? Perché nell'andar là non avevano concertato col fuochista un preciso piano di battaglia, invece di entrare, come avevano fatto, irrimediabilmente impreparati da una porta? E soprattutto, il fuochista era ancora in condizioni di parlare, di dir sì e no come avrebbe richiesto il contraddittorio, che peraltro si sarebbe tenuto soltanto nel migliore dei casi? Se ne stava là a gambe larghe, con le ginocchia tremanti, la testa rialzata, e l'aria passava attraverso la sua bocca aperta come se all'interno non ci fossero più polmoni per raccoglierla.
Karl invece si sentiva forte e lucido come forse non gli era mai successo a casa sua. Se almeno avessero potuto vederlo i suoi genitori, come si batteva per il bene in un paese straniero, in mezzo a personaggi importanti e come, anche se non aveva ancora riportato la vittoria, si preparava tutto a sferrare l'ultimo attacco! Avrebbero cambiato l'opinione che avevano di lui? Lo avrebbero fatto sedere tra loro e lodato? E guardato una volta, almeno una volta, negli occhi che esprimevano tanta devozione per loro? Domande incerte, e momento quanto mai inadatto per porsele! «Sono venuto perché credo che il fuochista mi accusi di qualche disonestà. Una ragazza di cucina mi ha detto di averlo visto dirigersi qua. Signor capitano e voi signori tutti, sono pronto a ribattere a ogni accusa sulla base dei miei documenti, e se sarà necessario con le dichiarazioni di testimoni imparziali e non prevenuti, che aspettano fuori della porta.» Così parlò Schubal.
Questo era certamente un discorso chiaro e degno di un uomo, e dal mutamento sul viso di quelli che ascoltavano si sarebbe potuto credere che udissero per la prima volta dopo molto tempo una voce umana. Certo non si accorgevano che anche quel bel discorso aveva delle magagne. Perché la prima parola concreta che gli era venuta in mente era «disonestà»? Forse che l'accusa avrebbe potuto puntare su questo, anziché sulle sue prevenzioni nazionali? Una ragazza di cucina aveva visto il fuochista dirigersi verso l'ufficio, e Schubal aveva subito capito? Non era il suo senso di colpa che gli acuiva l'intelligenza? E aveva subito portato con sé dei testimoni, e per di più li definiva onesti e non prevenuti? Furfanteria, pura e semplice furfanteria! E quei signori lo tolleravano e lo giudicavano anche un comportamento corretto? Perché aveva lasciato che passasse tanto tempo tra l'informazione ricevuta dalla ragazza di cucina e la sua comparsa qui? Di sicuro per nessun altro scopo se non quello che il fuochista avesse modo di stancare quei signori e che questi perdessero la loro lucidità di giudizio, l'unica cosa che Schubal aveva da temere. Lui che sicuramente era restato tanto tempo dietro la porta, non aveva forse bussato proprio nel momento in cui, in seguito alla domanda accidentale di quel signore, poteva sperare che il fuochista fosse ormai liquidato? Tutto era chiaro, e anche Schubal involontariamente lo aveva fatto capire, ma a quei signori bisognava dimostrarlo in altro modo, in un modo ancora più tangibile. Avevano bisogno di uno scossone. Dunque Karl, svelto, profitta almeno del tempo che resta prima che si facciano avanti i testimoni e confondano tutto! Ma proprio allora il capitano congedò Schubal con un cenno e questi, visto che la sua faccenda sembrava rimandata per un po', si fece da parte e cominciò col servitore, che gli si era subito avvicinato, una conversazione a bassa voce durante la quale non mancarono sguardi furtivi verso il fuochista e Karl e neppure gesti che esprimevano la più ferma convinzione. Pareva che Schubal stesse facendo le prove del suo prossimo discorso.
«Voleva chiedere qualcosa a questo giovanotto, signor Jakob?», disse il capitano nel silenzio generale al signore col bastoncino di bambù.
«Certamente», disse costui ringraziando con un piccolo inchino. E di nuovo chiese a Karl: «Lei come si chiama?».
Karl, il quale riteneva che nell'interesse della causa principale fosse opportuno liquidare subito l'incidente di quelle domande ostinate, rispose brevemente, senza presentarsi come faceva di solito esibendo il passaporto, che avrebbe dovuto prima mettersi a cercare: «Karl Rossmann».
«Ma!», disse quello chiamato Jakob facendo qualche passo indietro con un sorriso quasi incredulo. Anche il capitano, il cassiere capo, l'ufficiale di bordo e persino il servitore mostrarono una sorpresa straordinaria nell'udire il nome di Karl. Solo i signori della capitaneria e Schubal rimasero indifferenti.
«Ma», ripetè il signor Jakob e si avvicinò a Karl camminando un po' rigidamente, «allora io sono tuo zio Jakob, e tu sei il mio caro nipote. Me lo sentivo, per tutto il tempo!», disse al capitano, prima di abbracciare e baciare Karl, che lo lasciò fare in silenzio. «Come si chiama lei?», chiese Karl quando si sentì libero, con molta cortesia ma anche con totale indifferenza, sforzandosi di valutare le conseguenze che questo nuovo evento poteva avere per il fuochista. Per il momento nulla indicava che Schubal potesse ricavarne qualche vantaggio.
«Cerchi di capire la sua fortuna, giovanotto», disse il capitano, temendo che la domanda di Karl avesse leso la dignità del signor Jakob, il quale si era voltato verso la finestra, evidentemente per non dover mostrare agli altri il viso agitato, che per di più si asciugava con un fazzoletto. «È il senatore Edward Jakob che si è fatto riconoscere da lei come suo zio. Ormai lei ha davanti a sé una carriera brillante che certo non si aspettava. Cerchi di capirlo, per quanto è possibile così al primo momento, e dica qualcosa!»
«È vero che ho uno zio Jakob in America», disse Karl rivolto al capitano, «ma se ho capito bene, Jakob è il cognome del signor senatore.»
«Così è», disse solennemente il capitano.
«Ora, mio zio Jakob, che è fratello di mia madre, si chiama Jakob di nome, mentre il suo cognome dovrebbe naturalmente essere quello di mia madre, che da ragazza si chiamava Bendelmayer.»
«Signori!», gridò il senatore a questa spiegazione di Karl, abbandonando tutto allegro il suo rifugio accanto alla finestra. Tutti, ad eccezione dei due signori della capitaneria, scoppiarono a ridere, alcuni commossi, altri invece mantenendo un'espressione impenetrabile. «Quel che ho detto non era poi così ridicolo», pensò Karl.
«Signori», ripetè il senatore. «Stanno partecipando, contro la mia e la loro volontà, a una piccola scena di famiglia, e pertanto non posso fare a meno di dar loro qualche spiegazione perché, credo, soltanto il signor capitano» — a queste parole seguì uno scambio di inchini — «è pienamente informato.»
«Adesso però debbo star davvero attento a ogni parola», si disse Karl, e sbirciando dalla parte del fuochista vide con gioia che sul suo volto cominciava a tornare la vita.
«Io ho vissuto, per tutti i lunghi anni del mio soggiorno qui in America — la parola soggiorno però mal si addice a un cittadino americano, quale io mi sento con tutta l'anima —, per tutti questi lunghi anni dunque sono vissuto totalmente separato dai miei parenti d'Europa, per motivi che, innanzitutto, è superfluo menzionare in questa sede, e che, in secondo luogo, mi sarebbe davvero troppo doloroso raccontare. Temo persino il momento in cui sarò forse costretto a raccontarli al mio caro nipote, quando purtroppo sarà impossibile evitare qualche parola franca sui suoi genitori e sulla gente che hanno attorno.»
«È mio zio, non c'è dubbio», si disse Karl con le orecchie tese, «probabilmente si sarà fatto cambiare il cognome.»
«Dunque il mio caro nipote è stato — diciamola pure questa parola, che definisce la situazione così com'è — semplicemente cacciato via dai suoi genitori, come si scaraventa fuori dalla porta un gatto che dà fastidio. Non voglio assolutamente scusare quel che mio nipote ha fatto per meritare una simile punizione, ma la sua colpa è tale, che basta raccontarla per trovarvi giustificazioni a sufficienza.»
«Mi piace come parla», pensò Karl, «però non voglio che racconti tutto. Del resto non può saperlo. E come avrebbe potuto?»
«Egli fu infatti», continuò lo zio e con piccoli scatti si appoggiò al bastoncino piantato per terra davanti a sé, riuscendo così a spogliare la faccenda dell'inutile solennità che altrimenti avrebbe avuto, «egli fu infatti sedotto da una donna di servizio, Johanna Brummer, di circa trentacinque anni. Con il termine "sedotto" non voglio assolutamente offendere mio nipote, ma è difficile trovare parola più adatta.» Karl che si era alquanto avvicinato allo zio si girò per cogliere sul volto dei presenti l'impressione che aveva fatto quel racconto. Nessuno rideva, tutti ascoltavano seri e pazienti. Del resto non si ride del nipote di un senatore alla prima occasione che si presenti. Piuttosto si sarebbe potuto dire che il fuochista guardasse Karl con un lieve sorriso, cosa innanzitutto consolante in quanto denotava in lui ulteriori segni di vita, e anche scusabile, perché nella cabina Karl aveva voluto fare un così gran mistero di'una faccenda che adesso veniva resa di pubblico dominio in questo modo.
«Dunque questa Brummer», continuò lo zio, «ha avuto un figlio da mio nipote, un bimbo robusto che fu battezzato col nome di Jakob, senza dubbio per un riguardo alla mia umile persona che deve aver fatto grande impressione sulla ragazza, magari solo per qualche accenno accidentale di mio nipote. Fortunatamente, dico io. Perché i genitori, per evitare le spese del mantenimento del bambino o comunque lo scandalo che li avrebbe coinvolti — non conosco, debbo precisare, né le leggi di quel paese né le condizioni economiche dei genitori — perché essi, per evitare e le spese e lo scandalo hanno fatto trasportare in America il loro figlio, il mio caro nipote, con un corredo irresponsabilmente inadeguato, come si può toccar con mano; il ragazzo, senza i prodigi e i miracoli che ancora esistono in America, abbandonato a se stesso, si sarebbe sicuramente smarrito in qualche vicolo del porto di New York se quella cameriera, in una lettera a me indirizzata e giunta in mano mia soltanto l'altro ieri, dopo lunghi giri, non mi avesse raccontato tutta la storia e inviato la descrizione di mio nipote e in più, saggiamente, il nome della nave. Se volessi intrattenerli, signori, potrei leggerne qui qualche stralcio» — trasse di tasca e sciorinò due enormi fogli coperti di una fitta scrittura — . «La lettera farebbe sicuramente un certo effetto, perché è scritta con una certa furbizia ingenua, ma pur sempre a fin di bene, e con molto amore per il padre del bambino. Ma non voglio né trattenerli più di quanto è necessario a illuminarli, né forse ferire, proprio mentre gli do il benvenuto, i sentimenti probabilmente ancor vivi di mio nipote il quale, se vorrà, potrà leggere questa lettera nella quiete della sua camera che è già pronta ad accoglierlo.»
Ma Karl non provava alcun sentimento per quella ragazza. Nel confuso affollarsi di un passato che diventava sempre più lontano, essa sedeva in cucina accanto alla credenza, con un gomito appoggiato sul ripiano. Lo guardava, quando a volte lui entrava in cucina a prendere un bicchier d'acqua per il padre o a sbrigare qualche commissione della madre. Talvolta lei scriveva una lettera, in quella posizione contratta a fianco della credenza, e pareva che traesse ispirazione dal volto di Karl. Talvolta si teneva gli occhi nascosti dietro una mano, e allora non c'era verso di farsi dare ascolto. Talvolta stava inginocchiata nell'angusta cameretta accanto alla cucina e pregava davanti a un crocifisso di legno; Karl allora nel passare la osservava timorosamente dalla fessura della porta socchiusa. Talvolta correva come una forsennata per la cucina e faceva un balzo indietro, ridendo come una strega, se Karl le traversava la strada. Talvolta chiudeva la porta della cucina dopo che Karl era entrato, e teneva la mano sulla maniglia sinché lui non diceva che voleva andarsene. Talvolta prendeva cose che lui non aveva chiesto e gliele premeva in mano senza parlare. Una volta però disse «Karl» e tra smorfie e sospiri lo condusse, ancora tutto sorpreso per quell'inaspettato modo di fare, nella sua cameretta che chiuse a chiave. Gli si avvinghiò al collo così forte che quasi gli mancò il respiro, e mentre lo pregava di spogliarla in realtà era lei a spogliare lui, e poi lo mise nel letto, come se non volesse più cederlo a nessun altro, e volesse invece carezzarlo e avere cura di lui sino alla fine del mondo. «Karl, Karl mio!», gridava, come se lo vedesse suo e volesse confermare a se stessa il suo possesso, mentre lui non vedeva nulla e si sentiva a disagio tra le molte calde coperte che essa sembrava aver ammucchiato solo per lui. Poi gli si coricò accanto e voleva sapere da lui certi segreti, ma lui non seppe dirgliene nessuno, lei si arrabbiava o faceva finta di arrabbiarsi, lo scuoteva, ascoltava i battiti del suo cuore, gli porgeva il petto perché anche lui ascoltasse il suo ma non riuscì a indurcelo, premeva il suo ventre nudo contro il corpo di lui, con la mano gli cercava tra le gambe, in modo così ripugnante che Karl levò di scatto la testa dai cuscini, poi lo urtò alcune volte col ventre — a Karl sembrò che fosse diventata parte di lui, e forse per questo fu colto da un tremendo bisogno di aiuto. Finalmente lui tornò piangendo al proprio letto, dopo molte preghiere di lei che si sarebbero rivisti. Questo era tutto, eppure lo zio era riuscito a farne una storia in grande. Anche la cuoca dunque aveva pensato a lui, e aveva informato lo zio del suo arrivo. Era stato un bel gesto da parte sua, e forse un giorno Karl glielo avrebbe ricambiato.
«E adesso», gridò il senatóre, «voglio sentire chiaramente da te se sono o no tuo zio.»
«Sei mio zio», disse Karl baciandogli la mano e ricevendo a sua volta un bacio in fronte. «Sono molto contento di averti incontrato, però sei in errore se credi che i miei genitori dicano soltanto cose cattive di te. Ma a parte questo, il tuo discorso conteneva alcuni errori, voglio dire cioè che non tutto è andato come tu hai detto. Veramente di qui tu non puoi giudicare le cose tanto bene, e credo inoltre che non sarà un gran danno se i signori sono stati informati non del tutto esattamente sui particolari di una faccenda di cui a loro deve importare ben poco.»
«Ben detto», disse il senatore, poi condusse Karl dal capitano che mostrava una grande simpatia e gli chiese: «Non ho un nipote magnifico?».
«Sono felice», disse il capitano con un inchino quale sanno fare solo le persone che hanno ricevuto un'educazione militare, «di aver fatto la conoscenza di suo nipote, signor senatore. È per la mia nave un onore speciale di essere stata il luogo di un simile incontro. Ma il viaggio sull'interponte dev'essere stato molto duro, già, non si può mai sapere con chi si viaggia lì. Facciamo il possibile per render meno dura la traversata ai passeggeri dell'interponte, molto più per esempio delle linee americane, ma far diventare un viaggio del genere un piacere, questo non ci è ancora riuscito.»
«Male non mi ha fatto», disse Karl.
«Male non gli ha fatto!», ripetè il senatore ridendo forte.
«Soltanto la valigia credo di aver...», e così dicendo si ricordò di tutto quel che era successo e di quel che ancora restava da fare, si guardò attorno e vide tutti i presenti che, muti per il rispetto e lo stupore, non si erano mossi dai loro posti, con gli occhi fissi su di lui.
Soltanto nei funzionari della capitaneria si notava, per quanto era dato di capire dai loro volti severi e presuntuosi, il fastidio per essere andati là in un momento così inopportuno, e l'orologio da taschino che adesso avevano posato davanti a sé sembrava per loro più importante di tutto quel che stava succedendo e che poteva ancora succedere nella stanza.
Dopo il capitano, il primo ad esprimere la propria simpatia fu stranamente il fuochista. «Mi congratulo di cuore con lei», disse a Karl e gli strinse la mano, come volendo esternare anche un senso di riconoscenza. Quando volle rivolgere le stesse parole anche al senatore, questi si trasse indietro come se il fuochista abusasse dei suoi diritti; e il fuochista subito desistette.
Ma adesso anche gli altri avevano capito quel che bisognava fare, e subito intorno a Karl e al senatore ci fu una babele. Così accadde che Karl ricevesse le congratulazioni anche da Schubal e le accettasse ringraziando. Da ultimi, ristabilitasi la calma, si fecero avanti i funzionari della capitaneria e dissero due parole in inglese, il che fece un effetto piuttosto ridicolo.
Per assaporare pienamente la sua gioia, al senatore venne voglia di ricordare a sé e agli altri alcuni episodi secondari, e questo naturalmente fu non solo sopportato, ma anche accolto con interesse dagli altri. Così egli raccontò di aver copiato sul suo taccuino i tratti distintivi più salienti di Karl riportati nella lettera della cuoca, per potersene subito servire qualora occorresse. Ora, durante le ciance insopportabili dei fuochista, aveva tirato fuori il taccuino al solo scopo di distrarsi un poco, e aveva cercato così per gioco di collegare l'aspetto di Karl con i dati non certo poliziescamente esatti forniti dalla cuoca. «E così si finisce per trovare un nipote!», concluse con un tono come se volesse ricevere altre congratulazioni.
«Adesso che cosa succederà al fuochista?», chiese Karl sorvolando sull'ultimo racconto dello zio. Pensava che, nella sua nuova posizione, gli fosse concesso dire tutto quel che pensava.
«Al fuochista succederà quel che si merita», disse il senatore, «e quel che il signor capitano riterrà giusto. Credo che del fuochista ne abbiamo abbastanza e più che abbastanza, e tutti i signori presenti saranno senz'altro d'accordo con me.»
«Ma non è questo il punto, in una questione di giustizia», disse Karl. Stava tra lo zio e il capitano e, forse influenzato da quella collocazione, credeva che la soluzione fosse in mano sua.
Eppure il fuochista non pareva sperar più nulla per sé. Teneva le mani mezzo infilate nella cinghia dei pantaloni, che a causa dei suoi movimenti scomposti era spuntata fuori insieme con un pezzo di camicia a disegni. La cosa non lo preoccupava minimamente; aveva espresso a tutti il suo dolore, adesso vedessero pure anche gli stracci che portava addosso, e poi lo portassero pure via. Immaginò che sarebbero stati il servitore e Schubal, come quelli di rango più basso, a rendergli quest'ultimo favore. Così Schubal avrebbe ritrovato la sua pace e non avrebbe avuto più da disperarsi, come aveva detto il cassiere capo. Il capitano avrebbe potuto assumere tutti rumeni, si sarebbe sentito parlar rumeno dappertutto, e così forse tutto sarebbe andato meglio davvero. Più nessun fuochista sarebbe andato a blaterare alla cassa principale, soltanto delle sue ultime chiacchiere si sarebbero ricordati con una certa simpatia perché, come aveva espressamente dichiarato il senatore, gli avevano indirettamente offerto l'occasione di riconoscere il nipote. Del resto questo nipote in precedenza aveva più d'una volta cercato di essergli utile, e perciò si era ampiamente sdebitato in anticipo del servizio resogli riguardo al riconoscimento; al fuochista non veniva neppure in mente di chiedergli ancora qualcosa. Del resto, fosse pure nipote di un senatore, ma un capitano non era di certo, e in fin dei conti dalle labbra del capitano sarebbe venuta la parola di condanna. Conformemente a questi suoi pensieri, il fuochista si sforzava di non guardare nemmeno verso Karl, ma in quella stanza piena di nemici non esisteva altro rifugio che lui per i suoi occhi.
«Non fraintendere la situazione», disse il senatore a Karl, «si tratta forse di uria questione di giustizia, ma allo stesso tempo è in ballo anche una questione di disciplina. Ambedue le cose, e l'ultima soprattutto, qui sono soggette al giudizio del signor capitano.»
«Così è», mormorò il fuochista. Chi sentì e comprese, sorrise stupito.
«Inoltre abbiamo già troppo distolto il signor capitano dalle sue funzioni, che di sicuro all'arrivo a New York debbono moltiplicarsi incredibilmente, e per noi è più che tempo di lasciare la nave, anche perché questa meschina rissa tra due macchinisti non diventi chissà quale affare se ce ne immischiamo a sproposito. Del resto, caro nipote, comprendo perfettamente il tuo modo di agire, ma proprio questo mi dà il diritto di portarti via di qua al più presto.»
«Farò subito calare una scialuppa per lei», disse il capitano, senza obiettar nulla, con gran meraviglia di Karl, alle parole dello zio, che pure potevano essere interpretate senz'ombra di dubbio come un atto di umiliazione. Il cassiere capo si precipitò alla scrivania e comunicò telefonicamente all'ufficiale di coperta l'ordine del capitano.
«Il tempo stringe», si disse Karl, «ma non posso far nulla senza offendere tutti. Non posso lasciar lo zio adesso che mi ha appena ritrovato. Il capitano è cortese, sì, ma questo è tutto. Di fronte alla disciplina la sua cortesia cessa, e lo zio ha di certo interpretato perfettamente il suo pensiero. Con Schubal non voglio parlare, mi dispiace persino di avergli dato la mano. E tutta l'altra gente che è qui non conta nulla.» E immerso in questi pensieri si avvicinò lentamente al fuochista, gli tolse la destra dalla cintura e la tenne giocherellando nella sua.
«Ma perché non dici nulla? Perché sopporti tutto?» Il fuochista corrugò la fronte, come se stesse cercando le parole per quel che aveva da dire. Intanto teneva gli occhi chini a guardare la mano di Karl e la sua.
«A te è stato fatto un torto come a nessun altro su questa nave, lo so bene.» E Karl fece passare più volte le dita tra quelle del fuochista, che si guardò attorno con occhi splendenti, come se gli stesse capitando una gioia che nessuno poteva rimproverargli.
«Ma tu devi difenderti, devi dire sì e no, altrimenti la gente non avrà la più pallida idea della verità. Promettimi che mi obbedirai, perché ho parecchi motivi di temere che non potrò più esserti d'aiuto.» E Karl si mise a piangere, mentre baciava la mano del fuochista, e prese quella mano screpolata, quasi inerte, e se la premette sulla guancia, come un tesoro al quale si deve dire addio. — Ma già lo zio senatore gli era accanto e lo trascinava via, anche se con violenza quasi impercettibile.
«Pare proprio che il fuochista ti abbia stregato», disse, lanciando un'occhiata d'intesa al capitano al di sopra della testa di Karl.
«Ti sentivi abbandonato, hai trovato il fuochista e adesso senti della riconoscenza per lui, questo è assai lodevole. Ma non spingere troppo oltre la cosa, anche solo per amor mio, e impara a comprendere la tua posizione.» Davanti alla porta ci fu un tramestio, si udirono delle grida e sembrò addirittura che qualcuno venisse spinto brutalmente contro la porta. Entrò un marinaio alquanto in disordine, con un grembiule da cameriera legato attorno ai fianchi. «Fuori c'è gente», gridò, e dava gomitate a destra e a sinistra come se si trovasse ancora nella mischia. Infine si ricompose e voleva fare il saluto al capitano, ma si accorse del grembiule, se lo strappò di dosso, lo gettò a terra e gridò: «Che schifo, mi hanno messo un grembiule da donna!». Ma poi batté i tacchi e salutò il capitano. Qualcuno accennò a una risata, ma il capitano disse severamente: «C'è molta allegria, a quanto vedo. Chi c'è lì fuori?».
«Sono i miei testimoni», disse Schubal facendo un passo avanti, «prego umilmente di scusare il loro contegno sconveniente. Quando questa gente ha finito una traversata, a volte è come matta.»
«Li chiami subito qua!», comandò il capitano, e volgendosi al senatore disse cortese ma breve: «Adesso abbia la bontà, egregio signor senatore, di seguire assieme a suo nipote questo marinaio che la condurrà al battello. Non ho bisogno di dire quale piacere e quale onore sia stato per me fare la sua conoscenza personale, signor senatore. Mi auguro solo di potere aver presto occasione di riprender con lei, signor senatore, il nostro discorso, che è rimasto interrotto, sulla situazione della flotta americana e di venir forse interrotto di nuovo altrettanto piacevolmente.»
«Per ora mi basta questo nipote», disse sorridendo lo zio. «E ora accetti i miei migliori ringraziamenti per la sua amabilità, e stia bene. Del resto non è forse impossibile che noi» — strinse affettuosamente Karl a sé — «nel nostro prossimo viaggio in Europa possiamo stare più a lungo in sua compagnia.»
«Ne sarei davvero lieto», disse il capitano. I due signori si strinsero la mano, Karl potè tendere la sua al capitano solo in silenzio e di sfuggita, perché questo era già impegnato con la quindicina di persone che, guidate da Schubal, entravano un po' intimidite, ma pur sempre rumorose. Il marinaio chiese al senatore il permesso di precederlo, e aprì un varco tra la folla per lui e per Karl, che passarono senza difficoltà, tra gli inchini di tutti. Sembrava che quelle persone, brava gente del resto, prendessero la lite di Schubal col fuochista come uno spasso il cui ridicolo non scompariva neanche in presenza del capitano. Tra loro Karl notò anche la sguattera Line la quale, ammiccandogli allegramente, si metteva il grembiale gettato via dal marinaio, che infatti era suo.
Sempre seguendo il marinaio lasciarono l'ufficio e voltarono in un piccolo corridoio che due passi più in là li condusse a una porticina dalla quale una scaletta portava al battello preparato per loro. I marinai di questo battello, sul quale la loro guida saltò con un balzo solo, si alzarono e salutarono. Il senatore stava avvertendo Karl di scendere con prudenza quando questi, ancora sul primo gradino, scoppiò in un pianto dirotto. Il senatore gli mise la destra sotto il mento, e con la sinistra lo strinse a sé carezzandolo. Stretti l'uno all'altro scesero lentamente gradino dopo gradino e salirono sul battello, dove il senatore scelse per Karl un buon posto proprio di fronte al suo. A un suo cenno i marinai scostarono il battello dalla nave e subito si misero a lavorare a pieno ritmo. Si erano allontanati appena di qualche metro dal bastimento quando Karl d'un tratto si accorse che si trovavano proprio lungo la fiancata della nave su cui davano le finestre della cassa principale. Tutt'e tre le finestre erano occupate dai testimoni di Schubal, che salutavano e facevano cenni cordiali, lo zio rispose ai saluti e un marinaio, senza interrompere il ritmo cadenzato della voga, con gran destrezza mandò loro un bacio con la mano. Era proprio come se il fuochista non esistesse più. Karl considerò attentamente lo zio, le cui ginocchia quasi toccavano le sue, e fu assalito dal dubbio se quest'uomo avrebbe mai potuto sostituire il fuochista presso di lui. Lo zio sfuggì il suo sguardo e volse gli occhi alle onde che facevano oscillare il battello.