martedì 2 novembre 2021

È FINITA LA MORTE Estratto da “La morte di Ivan Il’ic" Lev Tolstoj

 



È FINITA LA MORTE

Estratto da “La morte di Ivan Il’ic"
Lev Tolstoj 

“Non ci sarò più. E allora? Allora non succederà niente. E dove andrò a finire quando non ci sarò più? E’ la morte? Possibile? No, no, non voglio … E’ la morte, sì, la morte. E nessuno di loro lo sa e non vogliono saperlo, non vogliono sentirne parlare. Giocano.”

La rabbia lo soffocava. Si sentì addosso un tormento atroce, un peso insopportabile. Non era possibile che tutti, sempre, fossero stati condannati a un simile tremendo orrore. Si risollevò…
Piangeva sulla propria impotenza, sullo propria orribile solitudine, sulla crudeltà della gente, sulla crudeltà di Dio, sull’assenza di Dio.
Non aspettava nessuna risposta, e pianse sull’assenza di una risposta, sull’impossibilità di una risposta…

[…]

E all’improvviso comprese chiaramente che ciò che lo tormentava e non voleva abbandonarlo, se ne stava andando via di colpo, tutt’insieme…
“E il dolore?” si chiese. “Dov’è andato? Dove sei dolore?”
E la morte? Dov’è? Cercò la sua solita paura della morte e non la trovò. Dov’era? Ma quale morte? Non c’era nessuna paura, perché non c’era neanche la morte. Invece della morte c’era la luce. “Ah, è così!” esclamò ad un tratto a voce alta. “Che gioia!”.
Per lui tutto si era compiuto in un attimo e il significato di quell’attimo non cambiò più. Per i presenti la sua agonia durò ancora due ore.
“E’ finita!” disse qualcuno su di lui. Egli sentì quelle parole e le ripetè nel suo animo.
“E’ finita la morte” disse a se stesso. “Non c’è più”. Aspirò l’aria, a metà dei respiro si fermò, si distese e morì

La morte di Ivan Il'ič

I.

Alla gran Corte di giustizia, in un intervallodell'udienza pel processo Melvinsky, i giudici e il procuratores'erano riuniti nel gabinetto di Ivan Iegorovic Scebek, e ildiscorso cadde sul famoso affare Krossovsky. Fedor Vassilievic siriscaldava per dimostrare l'incompetenza, Ivan Iegorovic restavafermo nella sua opinione, e invece Petr Ivanovic, che fin daprincipio non era entrato nella discussione, non prendeva parte aldiscorso, e dava un'occhiata al giornale Il Gazzettino cheavevano portato allora allora.

– Signori – disse – Ivan Ilijc è morto.

– Davvero?

– Ecco, leggete – disse egli a FedorVassilievic, dandogli il numero del giornale che aveva ancoral'odore dell'inchiostro fresco.

Fra due liste nere era stampato quanto segue:«Prascovia Fedorovna Golovina[1] consentito dolore partecipa ai parenti e agli amici la morte del suoamato consorte Ivan Ilijc Golovin, membro della Corte di giustizia,avvenuta il 4 febbraio di questo anno 1882. Il trasporto dellasalma avrà luogo venerdì, all'una dopo mezzogiorno».

Ivan Ilijc era collega di quei signori làriuniti e tutti gli volevano bene. Già da alcune settimane eraammalato: dicevano che la sua malattia era incurabile. Il posto gliera rimasto, ma si vociferava che, nel caso della sua morte,Alexeiev sarebbe designato a succedergli, e al posto di Alexeievandrebbe o Vimikov o Sctabel. Sicchè, nel sentire della morted'Ivan Ilijc, il primo pensiero di ciascuno di quei signori riunitinel gabinetto del presidente fu di chiedersi quale importanzapoteva avere quella morte sui trasferimenti e le promozioni loro odei loro amici.

«Ora di certo otterrò il posto di Sctabel o diVinnikov – pensò Fedor Vassilievic. – Me l'hanno promesso da unpezzo, e questa Promozione consisterà per me in un aumento di 800rubli di stipendio oltre le indennità di cancelleria».

«Bisognerà chiedere il trasferimento di miocognato da Kaluga qui – pensò Petr Ivanovic. – Mia moglie saràmolto contenta. Ora non potrà più dire che io non fo mai nulla peri suoi parenti».

– L'avevo ben detto che non si sarebbe tirato su– disse ad alta voce Petr Ivanovic. – Peccato!

– Ma che cosa aveva in sostanza?

– I dottori non hanno potuto definire il male.Cioè, l'hanno definito, ma ognuno a modo suo. Quando l'ho vedutol'ultima volta mi pareva che stesse meglio.

– E io non sono andato più a trovarlo dopo lefeste. Volevo sempre andarci…

– Ma aveva beni di fortuna?

– Credo che la moglie abbia qualcosa. Ma roba danulla.

– Già, bisognerà andarci. Abitano terribilmentelontano.

– Cioè, lontano da voi. Voi state lontano datutti.

– Ecco che non mi perdona di abitare di là dalfiume – disse Petr Ivanovic, sorridendo verso Scebek. E parlaronodelle grandi distanze nelle città, poi tornarono in udienza.

Oltre alle considerazioni sui possibilicambiamenti nel servizio che avrebbero seguìto questa morte,considerazioni suggerite a ciascuno dalla notizia ricevuta, ilfatto stesso della morte di una persona tanto vicina a loro, avevasuscitato, come accade sempre, in tutti coloro che l'avevanoappreso, un senso di soddisfazione perchè ognuno pensava: è mortolui e non io.

«Come! è morto: e io sono qui» era il pensiero opiuttosto il sentimento di ciascuno. I conoscenti più intimi, icosì detti amici di Ivan Ilijc, davanti a questi fatti pensavanoinvolontariamente che ora toccava di compiere loro un noiosoobbligo di convenienza e andare ai funerali e fare alla vedova unavisita di condoglianza.

I più intimi erano Fedor Vassilievic e PetrIvanovic.

Petr Ivanovic era stato compagno del morto neglistudi di diritto e pensava di aver degli obblighi verso di lui.

A pranzo diede alla moglie la notizia dellamorte di Ivan Ilijc e le parlò della possibilità che il cognatofosse trasferito nelle loro vicinanze: poi, senza far la solitasiesta, si vestì con l'abito di cerimonia e andò a casa di IvanIlijc.

Presso all'entrata dell'alloggio di Ivan Ilijcera ferma una carrozza padronale con due vetture da nolo. Su,nell'anticamera, presso l'attaccapanni, avevano posato,addossandolo alla parete, il coperchio di broccato della baraguarnito di fiocchi, nappe e galloni lustrati con la polvere. Duesignore vestite di nero si toglievano la pelliccia. Una PetrIvanovic la conosceva: era la sorella di Ivan Ilijc: l'altra non laconosceva. Un compagno di Petr Ivanovic, Schwarz, veniva di su, edall'alto della scala avendo scorto lui che entrava, si fermò e glifece segno con l'occhio, come se avesse detto: «Ivan Ilijc è statosciocco: ora è affar nostro».

Il viso di Schwarz, con le basette all'inglese,e tutta la sua magra figura in abito di cerimonia, avevano, comesempre, un'elegante solennità, e questa solennità che contrastavacol carattere allegro di Schwarz, qui aveva un rilievo particolare.Così pensava Petr Ivanovic.

Petr Ivanovic lasciò passare davanti a sè lesignore e lentamente si avviò per le scale dietro a loro. Schwarznon seguitò a scendere ma rimase su. Petr Ivanovic ne capì ilperchè: evidentemente voleva mettersi d'accordo con lui per lapartita di carte di quel giorno. Le signore andarono su per lescale dalla vedova, e Schwarz con le sue forti labbra atteggiate aserietà ma con lo sguardo scherzoso, indicò a Petr Ivanovic, con unmovimento delle sopracciglia, la camera del morto, a destra.

Petr Ivanovic entrò, dubbioso, come accadesempre, di quel che dovesse fare là. Una cosa sola sapeva, che inquesti casi fare il segno della croce non guasta nulla. Ma se,oltre a ciò, si dovesse anche fare un inchino, egli non ne eraperfettamente sicuro e perciò scelse una via di mezzo: entrandonella camera fece il segno di croce e s'inchinò un poco come sesalutasse. Per quanto glielo permettevano i movimenti del braccio edel capo, egli diede intanto un'occhiata alla stanza. Duegiovanetti (uno sembrava studente di ginnasio) entrarono facendo ilsegno di croce. Una vecchia stava in piedi, immobile. E unasignora, dalle sopracciglia stranamente alte, le diceva qualcosasottovoce. Il diacono, in abito ecclesiastico, impettito, risoluto,leggeva qualcosa ad alta voce, con un'espressione che non ammettevala possibilità d'essere contraddetto; il domestico, Gherassim, uncontadino, passando davanti a Petr Ivanovic, in punta di piedi,sparse qualcosa sul pavimento. Vedendo questo, subito Petr Ivanovicsentì un leggero odore di cadavere in decomposizione. Nell'ultimasua visita a Ivan Ilijc, Petr Ivanovic aveva veduto questocontadino nello studio; egli compiva l'ufficio d'infermiere, e IvanIlijc gli voleva particolarmente bene. Petr Ivanovic seguitava afar segni di croce e piccoli inchini, in direzione del morto, deldiacono e delle immagini poste su di una tavola in un angolo. Poi,quando quel gesto di segnarsi gli parve essersi prolungato anchetroppo, smise e cominciò a guardare il morto.

Il morto giaceva, come giacciono sempre i morti,che paiono di una speciale pesantezza, affondando le membrairrigidite nella sottile materassa che guarniva la bara, con latesta reclinata per sempre sul guanciale; la fronte, di un gialloredi cera, pareva sporgere, come sempre si vede ai morti, con deipiani lisci sulle tempie infossate e il naso prominente parevavoler nascondere il labbro superiore. Era molto mutato e ancoradimagrito dacchè Petr Ivanovic l'aveva veduto l'ultima volta, ma,come accade sempre ai morti, il suo viso s'era fatto più bello,specialmente più significativo che non fosse in vita. Sul suo visoera un'espressione che sembrava indicare che era stato fatto quelche doveva esser fatto ed era stato fatto bene. Oltre a ciò inquell'espressione c'era pure un rimprovero o un monito ai vivi.Questo monito parve a Petr Ivanovic fuor di luogo o almeno che nonriguardasse lui. Cominciò a provare un certo malessere e perciò infretta si segnò un'altra volta, si voltò e si diresse verso laporta: ma gli parve d'averlo fatto troppo affrettatamente e in modonon conforme alle convenienze. Schwarz lo aspettava nella stanzaattigua, ritto, con le gambe un po' divaricate e giocherellando contutt'e due le mani col suo cilindro che teneva dietro la schiena.Uno sguardo solo gettato sulla figura elegante, ben curata eallegra di Schwarz sollevò l'animo di Petr Ivanovic. Petr Ivanoviccapiva che Schwarz era al disopra di questi avvenimenti e non silasciava andare a impressioni deprimenti. Il solo aspetto di luidiceva: la circostanza del funerale di Ivan Ilijc non è motivosufficiente per interrompere l'ordine delle nostre riunioni, cioènulla può impedirci stasera di far stridere il mazzo di carte,dissigillandolo, mentre il domestico poserà sulla tavola quattrocandele nuove: del resto non c'è alcuna ragione di supporre chequesto incidente possa impedirci di passare allegramente anche laserata di oggi. – Queste cose le disse pure, a bassa voce, a PetrIvanovic che gli passava davanti, proponendogli di riunirsi per lapartita in casa di Fedor Vassilievic. Ma si vede che non era ildestino di Petr Ivanovic di far la partita quella sera. PrascoviaFedorovna, una donna bassotta e grassa, che malgrado tutti glisforzi che faceva per opporvisi, si andava allargando dalle spallein giù, tutta vestita di nero, con la testa coperta da un velo dicrespo, e con le stesse sopracciglia stranamente sollevate, come lasignora che stava in piedi di faccia alla bara, uscì dal suoappartamento con alcune altre signore e, accompagnandole alla portadella camera mortuaria, disse: «Ora comincerà l'ufficio funebre:entrate».

Schwarz, con un vago inchino, si fermò, nonvolendo evidentemente accettare nè rifiutare l'invito. PrascoviaFedorovna, riconoscendo Petr Ivanovic, sospirò, gli andò vicino,gli prese la mano e disse: – So che eravate un vero amico di IvanIlijc… –, e lo guardò aspettando che egli facesse qualche atto perrispondere a queste parole. Petr Ivanovic sapeva che, come di làaveva dovuto segnarsi, qui bisognava stringere la mano alla vedova,sospirare e dire: – Credete pure… – E così fece. E così facendosentiva di ottenere il risultato che desiderava: che lui fossecommosso e lei fosse commossa.

– Andiamo, prima che cominci l'ufficio: hobisogno di parlare con voi – disse la vedova. – Datemi ilbraccio.

Petr Ivanovic le diede il braccio e si diresseroverso le stanze interne, passando davanti a Schwarz che ammiccò conl'occhio a Petr Ivanovic.

«E la partita? Non ve ne abbiate a male, maprenderemo un altro partner. Forse potremo giocare incinque quando avrete finito», diceva il suo sguardo scherzoso.

Petr Ivanovic sospirò ancora più profondamente etristemente, e Prascovia Fedorovna gli strinse il braccio conriconoscenza. Entrando nel salotto di lei, tappezzato dicretonnerosa e con una lampada che mandava una lucefioca, essi sedettero presso la tavola: lei sul divano e PetrIvanovic su di un pouf basso, dalle molle sgangherate checedevano quando uno si metteva a sedere. Prascovia Fedorovnaavrebbe voluto avvertirlo di mettersi a sedere su di un'altrasedia, ma trovò che questo avvertimento non era conveniente nellasua posizione e tacque. Sedendosi su quel pouf, PetrIvanovic si ricordò di quando Ivan Ilijc aveva ammobiliato quelsalotto e si era consigliato con lui a proposito di quellacretonne rosa a foglioline verdi. Nel sedersi sul divano,passando accanto alla tavola (tutto quel salotto era pieno dimobili e di oggetti) la vedova fece impigliare il crespo nero dellasua mantiglia agl'intagli della tavola. Petr Ivanovic si sollevòper staccare il lembo del crespo, ma il pouf liberato dalsuo peso, cominciò a traballare e a spingerlo di sotto. La vedovasi mise a staccare da sè il crespo e Petr Ivanovic sedette dinuovo, schiacciando sotto di sè il pouf traballante. Ma lavedova non riusciva a staccare il crespo e Petr Ivanovic di nuovofece per alzarsi e di nuovo il pouf traballò e lo spinse,facendo scricchiolar le molle. Quando tutto questo fu terminato,essa tirò fuori un fazzoletto di battista pulito e cominciò apiangere. L'episodio del velo e la lotta col poufavevanoraffreddato Petr Ivanovic ed egli se ne stava lì seduto tuttoimbronciato. Questa situazione imbarazzante fu interrotta daSokolov, il cameriere di Ivan Ilijc, il quale veniva ad annunziareche il posto al cimitero, che Prascovia Fedorovna aveva scelto,costava 200 rubli. Essa smise di piangere, e guardando con un'ariadi vittima Petr Ivanovic, disse in francese che tutte quelle cosele facevano molta pena. Petr Ivanovic fece un cenno che esprimeval'assoluta convinzione che ciò non poteva essere altrimenti.

– Fumate, vi prego – disse la signora con tonoabbattuto e magnanimo nel tempo stesso, e si mise a trattare conSokolov la questione del prezzo chiesto per il posto.

Petr Ivanovic, mettendosi a fumare, udì che essas'informò molto particolareggiatamente dei diversi prezzi delterreno e decise quale convenisse prendere. Oltre a ciò, dopo diaver finito di parlare del terreno, diede le disposizioni per icantori. Sokolov se ne andò.

– Io fo tutto da me – disse poi a Petr Ivanovic,scostando gli albums che stavano sulla tavola; eaccorgendosi che la cenere della sigaretta minacciava di caderesulla tavola, senza parere avvicinò la ceneriera a Petr Ivanovic, edisse: – Trovo che parrebbe una ipocrisia se io non potessioccuparmi di cose pratiche. Anzi, se qualcosa può non dicoconfortarmi… ma distrarmi, è proprio di occuparmi di lui –; dinuovo essa tirò fuori il fazzoletto, come preparandosi a piangere,ma a un tratto, quasi facendo uno sforzo su se stessa, si riscossee si mise a parlare tranquillamente.

– Debbo intrattenervi di un affare.

Petr Ivanovic s'inchinò, badando che le molledel pouf, che già si movevano sotto di lui, non saltasserofuori dal loro posto.

– Negli ultimi giorni ha soffertoterribilmente.

– Ha sofferto molto? – chiese Petr Ivanovic.

– Ah! Terribilmente! Alla fine, non gli ultimiminuti, ma le ultime ore, urlava senza tregua. Per tre giorni hagridato, senza mutar tono di voce. Non ci si poteva reggere. Non socapire come io ho potuto sopportarlo: si sentiva tre stanzelontano. Ah! che cosa mi è toccato di soffrire!

– Ed era in sè? – chiese Petr Ivanovic.

– Sì – disse la signora a bassa voce – finoall'ultimo momento. Ci salutò un quarto d'ora prima di morire, epoi chiese che si allontanasse Valodia.

Il pensiero delle sofferenze di un uomo che egliaveva conosciuto così intimamente, prima ragazzo allegro, studente,poi collega adulto, diede a un tratto una sensazione di terrore aPetr Ivanovic, malgrado la spiacevole coscienza della finzione suae di quella donna. Egli vedeva di nuovo quella fronte, quel nasoche si piegava sul labbro, ed ebbe paura per sè.

«Tre giorni di tremende sofferenze e la morte.Ciò può accedere anche a me, in qualunque momento», pensò, e glienevenne un istantaneo sgomento. Ma subito, senza saper come, glivenne in aiuto il pensiero abituale che, cioè, questo era potutoaccadere a Ivan Ilijc ma non a lui: a lui ciò non doveva, nonpoteva accadere: pensando così egli soggiaceva a un'impressionefunesta, il che non doveva fare, mentre evidentemente il viso diSchwarz esprimeva tutt'altro. E facendo questo ragionamento, PetrIvanovic si calmò e si mise a interrogare premurosamente la vedovasulle circostanze della morte di Ivan Ilijc, come se la morte fosseun caso particolare a Ivan Ilijc, ma che non poteva toccar lui.

Dopo un lungo racconto delle sofferenze fisiche,realmente tremende, che aveva sopportate Ivan Ilijc (questesofferenze Petr Ivanovic veniva ad apprenderle soltanto a traversol'impressione che i tormenti di Ivan Ilijc avevano fatto sui nervidi Prascovia Fedorovna) la vedova, evidentemente, trovò opportunodi cominciare a parlar d'affari.

– Ah! Petr Ivanovic, come è penoso, come èterribilmente penoso, come è terribilmente penoso! – e di nuovoessa cominciò a piangere.

Petr Ivanovic sospirò e attese che essa si fossesoffiato il naso. Quando se l'ebbe soffiato, egli disse: «Crediatepure… » e di nuovo essa cominciò a parlare e a fargli intenderequello che era la cosa principale che voleva dirgli: cioè porgli laquestione in che modo si potesse ottenere denaro dallo Stato,essendo avvenuta la morte del marito; faceva le viste di chiederconsiglio a Petr Ivanovic intorno alla pensione che le sarebbespettata: ma egli si accorse che la signora già sapeva tutto, neiminimi particolari, e sapeva anzi cose che egli medesimo ignoravasul modo di cavar denaro dallo Stato: ma voleva sapere da lui semai fosse possibile ottenere di più. Petr Ivanovic si sforzò dicercare qualche mezzo, ma, dopo aver riflettuto un poco e averbiasimato, per convenienza, la grettezza del governo, disse che glipareva impossibile di avere di più. Allora essa sospirò e,visibilmente, si mise a cercare il mezzo di sbarazzarsi del suovisitatore. Egli lo capì, spense la sigaretta, si alzò, strinse lamano alla signora e uscì nell'anticamera.

Nella sala da pranzo, dov'era un orologio cheIvan Ilijc era stato tanto contento di comprare da un rivenditore,Petr Ivanovic s'incontrò col sacerdote e con alcuni altriconoscenti che venivano per l'ufficio funebre, e vide anche lafiglia di Ivan Ilijc, una bella signorina, che egli conosceva. Essaera tutta in nero. La sua persona molto sottile pareva anche piùsottile. Aveva un aspetto cupo, brusco, quasi sdegnoso. Salutò PetrIvanovic come se egli fosse colpevole di qualche cosa. Dietro a leiera in piedi un giovane che egli conosceva, un giudice istruttore,ricco, suo fidanzato, a quanto si diceva: ed aveva lo stessoaspetto di lei, quasi che qualcuno lo avesse offeso. Petr Ivanovicli salutò con aria triste e voleva entrare nella camera mortuariaquando apparve sulla scala la magra figura di uno studenteginnasiale, figlio di Ivan Ilijc, che somigliava terribilmente alpadre. Era un Ivan Ilijc in piccolo, come se lo ricordava PetrIvanovic quando erano a scuola. Aveva gli occhi torbidi, come hannoi ragazzi viziosi di 13 o 14 anni. Il ragazzo, nel vedere PetrIvanovic, prese un'aria burbera e impacciata, raggrinzando il viso.Petr Ivanovic gli fece un cenno col capo ed entrò nella cameramortuaria. Era cominciato l'ufficio funebre: candele, lamentazioni,incenso, lacrime, singhiozzi. Petr Ivanovic rimase ritto, col visoatteggiato a una smorfia triste, guardandosi la punta dei piedi.Non gettò neppure un'occhiata sul morto e sino alla fine non siabbandonò alla suggestione oppressiva dell'ambiente, e fu dei primia uscire. Nell'anticamera non c'era nessuno. Quel domesticocampagnuolo, Gherassim, venne fuori dalla camera del morto e con lesue forti mani rimosse tutte le pellicce per cercar quella di PetrIvanovic e gliela porse.

– Ebbene, fratello, Gherassim? – disse PetrIvanovic per dir qualcosa. – Peccato, eh?

– Volontà di Dio. Tutti andremo là – disseGherassim, mostrando i suoi bianchi, fitti denti di contadino, ecome un uomo nel tumulto di una fatica sforzata, aprì vivamente laporta, chiamò il cocchiere, fece montare in carrozza Petr Ivanovic,tornò su di corsa, pensando a quel che ancora gli rimaneva dafare.

A Petr Ivanovic tornò gradito il respirarel'aria pura dopo l'odore dell'incenso, del cadavere e dell'acidofenico.

– Dove comandate? – chiese il cocchiere.

– Non è tardi. Posso andare ancora da FedorVassilievic. E Petr Ivanovic vi andò. E difatti li trovò alla finedel primo rober, sicchè potè comodamente prender posto altavolino come quinto nella partita.

II.

La storia della vita passata di Ivan Ilijc erala più semplice, la più comune, e insieme la più tremenda che sipossa immaginare.

Ivan Ilijc era morto a 45 anni, membro dellaCorte di giustizia. Era figlio di un funzionario, che aveva fatto aPietroburgo, in diversi ministeri ed uffici, una di quelle carriereche conducono coloro che le seguono ad una posizione dalla qualenon possono essere rimossi, benchè sia chiaro che essi non sonoatti ad un qualsiasi lavoro effettivo, ma pure, dati i loro lunghiservigi passati e i gradi ottenuti, si crea per loro un postofittizio con uno stipendio non fittizio, che va dai sei aidiecimila rubli, coi quali essi vivacchiano fino alla più tardavecchiaia.

Di questi tali era il consigliere segreto,membro inutile di diverse inutili commissioni, Ilia EfimovicGolovin.

Egli aveva tre figli. Ivan Ilijc era il secondo.Il primogenito seguì la stessa carriera del padre, ma in un altroministero, e già era giunto prossimo al grado nel quale si ricevonoquesti stipendi d'inerzia. Il terzo era stato sfortunato. Avevaavuto diversi posti e dovunque era riuscito male; ora era impiegatoalle ferrovie: e il padre e i fratelli e specialmente le mogli diquesti non soltanto non avevano piacere d'incontrarsi con lui, ma,senza un'estrema necessità, non si ricordavano neppure la suaesistenza. La sorella aveva sposato il barone Gref, un impiegato diPietroburgo, dello stesso stampo del cognato. Ivan Ilijc era lephenix de la famille[2], comesi diceva. Egli non era freddo e misurato come il maggiore nèavventato come il minore. Era qualcosa di mezzo fra loro due:intelligente, vivace, simpatico e di buone forme. Aveva studiatolegge insieme col fratello minore. Il fratello non finì gli studi efu espulso durante la quinta classe, mentre invece Ivan Ilijcterminò lodevomente gli studi. Già alla università s'era mostratoquel che rimase poi per tutta la sua vita: abile, allegro, di buoncarattere, generoso, ma severamente attaccato a ciò che credeva suodovere: e il dovere per lui era quel che si riteneva tale dai suoisuperiori. Non era stato strisciante nè da giovane nè da uomomaturo, ma fino dagli anni della sua prima gioventù aveva avutoquel tale istinto che spinge la mosca verso la luce e spingeva luiverso gli uomini che hanno un'alta situazione nel mondo, facendogliassimilare i loro modi, le loro vedute, e stabilire con lororapporti di amicizia. Tutte le seduzioni dell'adolescenza e dellagioventù passarono attraverso il suo spirito senza lasciarvi granditracce: si abbandonava sì qualche volta alla sensualità e allavivacità, e verso la fine delle ultime classi si diede alliberalismo, ma sempre entro certi limiti, che il suo fiuto glidesignava con sicurezza.

Durante i corsi di legge aveva commesso alcuneazioni che allora gli erano parse indecorose e gli avevano ispiratoil disgusto di sè nel momento stesso che le compiva: ma, inseguito, vedendo che queste medesime azioni erano compiute anche dauomini che stavano in alto e non le consideravano peccaminose, eglinon le riguardò come buone ma le dimenticò completamente o, se lericordava, non se ne affliggeva punto.

Terminati gli studi col diploma della decimaclasse e avendo ricevuto dal padre una somma di denaro perl'uniforme, Ivan Ilijc si ordinò da Scharmer[3] i vestiti, sospese alla catenauna medaglietta con la scritta: Respice finem, si congedòdal principe protettore dell'istituto, diede un pranzo ai compagnida Donon, e con una valigia di ultima moda piena di biancheria,vestiti, rasoi e accessori di toilette, e con unplaid, tutte cose ordinate e comprate nei migliorimagazzini, andò in provincia al posto d'incaricato speciale pressoil governatore, posto che gli aveva procurato il padre.

In provincia Ivan Ilijc immediatamente si creòuna posizione facile e piacevole come aveva fatto all'università.Egli compiva il suo servizio, faceva carriera e intanto sidivertiva discretamente e simpaticamente; di tanto in tanto andavaper incarico dei suoi superiori nei vari distretti, si conducevacon dignità verso chi stava in su e chi stava in giù; e con unapuntualità e un'onestà incorruttibile, della quale non poteva farea meno d'essere orgoglioso, condusse a termine tutte le missioni alui affidate, specialmente quella per l'affare deiraskolniki[4].

Nelle faccende di servizio, malgrado la suagioventù e la sua inclinazione ai facili piaceri, era di unastraordinaria riservatezza ufficiale e anche austero; ma in societàera spesso scherzoso e spiritoso, e sempre di buon carattere,garbato e bon enfant, come dicevano di lui il suo capo ela moglie, presso i quali era diventato familiare.

In provincia ebbe anche una relazione con unasignora, che si mostrò assai arrendevole verso l'elegantemagistrato: ci fu pure una certa modistina: ci furono delle orgecon alcuni aiutanti di campo di passaggio, e dopo cena, dellescorrerie per certe strade lontane: s'insinuò nelle buon grazie delsuo capo e anche in quelle della moglie del suo capo, ma tutto ciòfu fatto con tanto garbo che non se ne poteva parlar male; andavasotto la rubrica del detto francese: Il faut que jeunesse sepasse. Tutto procedeva con le mani pulite, la camicia pulita,le parole francesi e, sopratutto, nella più alta società, e inconseguenza con l'approvazione della gente più altolocata.

Così Ivan Ilijc tenne il suo ufficio per cinqueanni, poi fu trasferito. Si costituirono nuovi tribunali e ci fubisogno di nuovo personale.

E Ivan Ilijc diventò così un uomo nuovo.

A Ivan Ilijc fu offerto un posto di giudiceistruttore, e Ivan Ilijc l'accettò, benchè questo posto fosse in unaltro governatorato e gli toccasse di abbandonare le relazioni cheaveva strette e formarne delle nuove. Gli amici accompagnarono allastazione Ivan Ilijc, si fece un gruppo in fotografia, gliregalarono un portasigarette d'argento, ed egli se ne andò aprender possesso del nuovo posto.

Come giudice istruttore Ivan Ilijc fu egualmentecomme il faut, garbato, abile a separare i doveri diufficio dal resto della vita, e ispirò lo stesso rispetto che avevaispirato nel suo posto precedente. Già l'ufficio di giudiceistruttore presentava per Ivan Ilijc un interesse e un'attrazionemolto maggiori che non l'altro ufficio. Quando era nell'altra cittàgli piaceva passare arditamente, nella sua uniforme diScharmer, davanti ai sollecitatori e agl'impiegati cheaspettavano timidi l'udienza, invidiando lui che entrava difilatonel gabinetto del superiore e sedeva con lui a bere il the e afumare: ma erano poche le persone che dipendevano direttamentedalla sua volontà. Queste persone erano soltanti delegati dipolizia e raskolniki, quando lo avevano mandato inmissione, ed egli amava trattare cortesemente e quasi familiarmentequesti suoi dipendenti, amava far loro intendere che lui, puravendo potere su la loro sorte, li trattava semplicemente,amichevolmente. Ma queste persone allora erano poche. Ora comegiudice istruttore, Ivan Ilijc sentiva che tutti, tutti senzaeccezione, anche i pezzi più grossi, pieni di presunzione, tuttierano nelle sue mani e che bastava che egli scrivesse certe dateparole su di una carta intestata, e quel tale pezzo grosso sarebbestato condotto nel suo gabinetto in qualità di accusato o ditestimone, e se egli non lo avesse fatto sedere, sarebbe rimasto inpiedi davanti a lui, a rispondere alle sue domande. Ivan Ilijc nonabusava mai di questo suo potere, anzi si sforzava di addolcirnel'espressione: ma la coscienza di questo potere e la possibilità diaddolcirlo costituivano per lui il principale interesse e laprincipale attrazione del suo nuovo ufficio. Nel suo ufficio poi, especialmente nelle istruzioni dei processi, Ivan Ilijc acquistòrapidamente l'arte di eliminare tutte le circostanze che nonavevano rapporto col suo còmpito e di ridurre l'affare piùcomplicato ad una forma tale che non ne rimanesse più chel'apparenza esterna tradotta sulla carta, escludendo completamentela sua opinione personale e sopratutto salvaguardando tutte leformalità richieste. Questo modo era nuovo. Ed egli fu uno deiprimi a portare nella pratica le prescrizioni del codice del1864.

Trasferitosi nella nuova città al posto digiudice istruttore, Ivan Ilijc fece nuove conoscenze, nuoveamicizie, si stabilì su di un altro piede e prese un tono alquantodifferente da quello di prima. Frappose una certa distanza fra sè ei funzionari distrettuali, e si scelse un cerchio di conoscenzedistinte, magistrati e ricchi proprietari che vivevano in città eprese un tono di leggera opposizione al governo, ostentando unmoderato liberalismo da cittadino civilizzato. Senza mutar puntol'eleganza della sua toilette, Ivan Ilijc, nel suo nuovoufficio, smise di radersi il mento e lasciò libertà alla barba dicrescere come voleva.

La vita di Ivan Ilijc nella nuova città sisvolgeva molto piacevolmente: la società che rappresentava lafronda contro il governo era cortese e amichevole verso dilui: lo stipendio era cresciuto; allora il whistrappresentava un piacere non piccolo nella vita e Ivan Ilijc simise a giocarlo, avendo l'abilità di giocare a carte allegramente,pronto nel decidere, accorto, sicchè era sempre in vincita.

Dopo due anni di residenza nella nuova città,Ivan Ilijc s'incontrò con la sua futura moglie. Prascovia FedorovnaMikhel era la più intelligente, brillante, seducente fanciulladella società nella quale si aggirava Ivan Ilijc. Fra gli altrisvaghi, nei quali si riposava dalle fatiche del suo ufficio, IvanIlijc contava anche i suoi rapporti scherzosi e leggeri conPrascovia Fedorovna.

Ivan Ilijc, quando era l'impiegato mandato inmissione straordinaria, ballava di solito; diventato giudiceistruttore non ballò più se non per eccezione. Egli ballava conquesto intendimento: benchè io ora sia magistrato di quinta classe,addetto alle nuove istituzioni del codice, pure se si tratta diballare posso dimostrare che anche in questo genere di cose valgomeglio degli altri. Sicchè di tanto in tanto, alla fine dellaserata, ballava con Prascovia Fedorovna, e specialmente durantequeste danze conquistò Prascovia Fedorovna. Essa s'innamorò di lui.Ivan Ilijc non aveva una precisa e definita intenzione diammogliarsi, ma quando la fanciulla s'innamorò di lui, egli si posequesta questione. «Difatti, perchè non mi ammoglierei?» disse a sestesso.

La giovane Prascovia Fedorovna, apparteneva auna buona famiglia della nobiltà, non era brutta, aveva una piccoladote. Ivan Ilijc avrebbe potuto pretendere a un partito piùbrillante, ma anche questo era un buon partito. Ivan Ilijc aveva ilsuo stipendio, lei avrebbe avuto altrettanto, siccome egli pensava.Buona parentela: lei, graziosa, buona e assolutamente per bene.Dire che Ivan Ilijc sposava perchè era innamorato della suafidanzata e trovava in lei una piena conformità delle sue vedutesulla vita sarebbe stato altrettanto inesatto quanto il dire cheegli sposava perchè la gente del suo mondo approvava quest'unione.Ivan Ilijc sposava per tutt'e due i motivi: faceva cosa grata a sestesso acquistando una moglie simile, e intanto faceva una cosatrovata conveniente dalle persone altolocate.

E Ivan Ilijc si ammogliò.

Tutte le cerimonie degli sponsali e il primotempo della vita coniugale, con le tenerezze reciproche deglisposi, i mobili nuovi, l'argenteria nuova, la biancheria nuova,andarono molto bene fino alla prima gravidanza della sposa, sicchèIvan Ilijc cominciava già a pensare che il matrimonio non soltantonon turbava quel suo tenore di vita facile, piacevole, allegro esempre decoroso e approvato dalla società che Ivan Ilijcconsiderava come il centro della sua esistenza, ma lo avrebbe anzimigliorato. Ma fin dai primi mesi di gravidanza della mogliecomparve qualcosa di così nuovo, inatteso, spiacevole, penoso esconveniente che mai si sarebbe potuto aspettare e che non erapossibile rimuovere.

La moglie, senza alcun motivo, almeno cosìpareva ad Ivan Ilijc, de gaîté de coeur, come egli dicevaa se stesso, cominciò a turbare la serenità e il decoro della vita:senza nessuna ragione s'ingelosì di lui; pretendeva che egli lestesse sempre attorno, attaccava lite con tutti e faceva a luiscene spiacevoli e volgari.

Da principio Ivan Ilijc sperò di poter sfuggirealla noia di questa situazione con quel medesimo facile e correttosistema di vita che gli era riuscito tanto bene prima; si provò afingere d'ignorare la disposizione di spirito della moglie eseguitò a vivere con la stessa spensieratezza e lo stesso buonumore di un tempo: invitò alcuni amici a casa sua per far lapartita, tentò di andare al circolo o da qualche conoscente. Ma lamoglie una volta cominciò a investirlo con tanta violenza, e conparole così rozze, e seguitò con tanta ostinazione nelle sueinvettive ogni volta che egli non si arrendeva alle suepretensioni, e appariva così fermamente decisa a non smetterefinchè egli non si fosse sottomesso, cioè non fosse rimasto a casaad annoiarsi come faceva lei, che Ivan Ilijc se ne spaventò. Capìche la vita coniugale, o almeno la vita con sua moglie, noncomportava sempre la piacevolezza e la serenità dell'esistenza, maal contrario spesso la turbava, e perciò era indispensabilesfuggire a queste intromissioni. E Ivan Ilijc si mise a cercare unmezzo per raggiungere questo scopo. I doveri di ufficio erano lasola cosa che ne imponesse a Prascovia Fedorovna, e Ivan Ilijc, colpretesto del suo servizio e degli obblighi che ne scaturivano,cominciò a lottare con la moglie, riservandosi il suo mondoindipendente da lei.

Con la nascita del bambino, coi tentativi diallattamento e diversi altri contrattempi, con le malattie reali edimmaginarie del bambino e della madre, alle quali si pretendeva cheIvan Ilijc s'interessasse, benchè egli non vi potesse capir nulla,il desiderio di Ivan Ilijc di formarsi un mondo estraneo alla suafamiglia diventò ancora più imperioso.

Ma a misura che la moglie si faceva piùirritevole e più esigente, Ivan Ilijc trasferiva sempre più ilcentro di gravità della sua vita nell'ufficio. Cominciò ad amare ilsuo ufficio e diventò più ambizioso che non fosse prima.

Assai presto, un anno circa dopo il suomatrimonio, Ivan Ilijc aveva capito che la vita coniugale, benchèpresentasse qualche vantaggio, in realtà era una cosa moltocomplicata e difficile, e riguardo alla quale, per compiere ilproprio dovere, cioè condursi in modo conveniente e approvato dallasocietà, è necessario imporsi una regola ben definita, come inufficio.

E questa regola riguardo alla vita coniugaleIvan Ilijc se la impose. Egli pretese dalla vita di famigliasoltanto quei vantaggi che essa poteva dargli: il pranzo a casa, labuona tenuta dell'alloggio, il letto comodo, e, principalmente, ildecoro delle forme esteriori che sono richieste dalla società. Nelresto egli pretendeva soltanto buon umore e convenienza, e setrovava queste due cose era molto grato: se incontrava poiresistenza e ostilità, subito si ritirava in quel mondo a parte chesi era creato, e in quello si sentiva felice.

Ivan Ilijc era apprezzato come buon funzionarioe dopo tre anni fu nominato sostituto procuratore. I suoi nuovidoveri, la loro gravità, il potere di rimandare a giudizio e farmettere in prigione chi si sia, i discorsi in pubblico, il successoche otteneva in questo ramo, tutto ciò fece sì che Ivan Ilijc siattaccasse sempre più al suo ufficio.

Vennero altri figli. La moglie diventava semprepiù acida e irritevole, ma le regole stabilite da Ivan Ilijc nellavita domestica lo rendevano quasi tetragono alla irascibilità dilei.

Dopo sette anni di servizio in quella città,Ivan Ilijc fu traslocato in altro governatorato con l'ufficio diprocuratore.

La famiglia si trasferì nella nuova residenza:il denaro era poco e alla moglie non piaceva la nuova città doveerano stati mandati. Lo stipendio era maggiore di prima ma la vitaera più cara: oltre a ciò perdettero due bambini, e la vita difamiglia diventò ancora più penosa per Ivan Ilijc.

Prascovia Fedorovna rimproverava il marito pertutte queste disavventure che accadevano nel loro soggiorno inquesta nuova città. La maggior parte dei soggetti delleconversazioni fra marito e moglie, specialmente quando si trattavadell'educazione dei figliuoli, degenerava in questioni inaciditedal ricordo di antichi litigi, e questi litigi diventavano dimomento in momento più accesi. Restavano soltanto quei rari periodidi passione che risuscitavano nei due coniugi ma non duravano alungo. Erano isolotti sui quali essi sostavano qualche tempo, mapoi di nuovo erano respinti in un mare di ostilità latente che simanifestava col reciproco allontanamento. Questo allontanamentoavrebbe afflitto Ivan Ilijc se non avesse pensato che così dovevaessere, ma già ora egli considerava questa situazione come normale,non soltanto, ma come scopo della sua attività in famiglia. Questoscopo consisteva nel liberarsi sempre più da tutti quei fastidi edar loro un carattere inoffensivo, decoroso: e l'otteneva restandoin casa sempre meno, e quando vi era astretto si sforzava ditogliere alla sua posizione quel che aveva di triste circondandosidi persone estranee. Ma la cosa che maggiormente occupava IvanIlijc era sempre l'ufficio. Nel mondo delle sue funzioni dimagistrato si concentrava l'interesse principale della sua vita. Equesto interesse lo prendeva tutto. La coscienza del suo potere, lapossibilità di rovinare chiunque gli piacesse, l'importanza cheassumeva all'entrare in udienza e incontrando i suoi sottoposti,importanza che gli era riconosciuta anche fuori dal tribunale, isuoi successi tanto davanti ai superiori quanto davanti ai suoiimpiegati, e sopratutto la sua abilità nel condurre gli affari,abilità che sentiva di avere, tutto ciò lo rallegrava e, insiemealle conversazioni coi compagni, i pranzi, le partite diwhist, riempiva la sua vita. Sicchè generalmente la vitadi Ivan Ilijc seguitava a procedere come egli contava che dovesseprocedere: piacevolmente e decorosamente.

Così egli passò ancora sette anni. La figliamaggiore aveva già sedici anni, un altro bambino era morto erestava lo studente di ginnasio, oggetto dei loro litigi. IvanIlijc voleva che andasse alla scuola di legge e PrascoviaFeodorovna, per dispetto, lo mandò al ginnasio. La figlia studiavain casa, e veniva su a modo: anche il ragazzo non studiava male.

III.

Così era scorsa la vita di Ivan Ilijc perdiciassette anni, a contare dal suo matrimonio. Egli era già unprocuratore anziano, aveva rifiutato diversi trasferimenti,aspettando un posto migliore, quando all'improvviso accadde unacircostanza dispiacevole che stava per turbare la sua pacificavita. Ivan Ilijc aspettava il posto di presidente in una cittàuniversitaria, ma Hoppe fece più presto di lui e ottenne questoposto. Ivan Ilijc se ne irritò, gli mosse rimproveri e venne a litecon lui e col suo superiore immediato: ci fu una freddezza, equando si fecero le nomine successive egli fu di nuovo esclusodalla promozione.

Questo accadeva nell'anno 1880. Quell'anno fu ilpiù penoso nella vita di Ivan Ilijc. In quell'anno, da una parte,lo stipendio cominciò a non bastar più alla vita, e, dall'altra,tutti lo dimenticarono e ciò che a lui pareva un'enorme, crudeleingiustizia, per gli altri era una cosa assolutamente regolare.Anche suo padre non si credette in obbligo di aiutarlo. Eglisentiva che tutti lo abbandonavano, considerando che il suostipendio di 3500 rubli lo metteva in una posizione delle piùnormali, anzi delle più invidiabili. Egli solo sapeva che con lacoscienza di queste ingiustizie che gli erano state fatte, e congli eterni piagnistei della moglie, e coi debiti che avevacominciato a fare, vivendo oltre i suoi mezzi, egli solo sapeva chela sua posizione era lontano da essere normale.

Nell'estate di quell'anno, per economia, preseuna licenza e andò a passare un certo tempo in campagna, in casadel fratello di Prascovia Fedorovna.

In campagna, senza i suoi doveri di ufficio,Ivan Ilijc per la prima volta provò non soltanto la noia, ma untedio insopportabile, e decise che era impossibile vivere così eche era necessario prendere qualche misura radicale.

Passando una notte insonne, durante la quale nonfece altro che passeggiare sulla terrazza, Ivan Ilijc decise diandare a Pietroburgo a darsi da fare, e, per punire coloro che nonavevano saputo apprezzarlo, farsi trasferire ad un altroministero.

Il giorno seguente, malgrado tutte le obbiezionidella moglie e del cognato, partì per Pietroburgo.

Partì con un solo proposito: chiedere un postocon lo stipendio di 5000 rubli. Non gl'importava che fosse in unministero più che in un altro, nè qual genere di occupazioni glidovesse essere assegnato. Aveva soltanto bisogno di un posto di5000 rubli, nella amministrazione, nelle banche, nelle ferrovie,nelle istituzioni della imperatrice Maria, magari nelle dogane, mache ci fosse immancabilmente uno stipendio di 5000 rubli e cheimmancabilmente potesse lasciare il ministero dove non lo avevanoapprezzato.

Ed ecco che questo viaggio di Ivan Ilijc fucoronato da un sorprendente e inatteso successo. A Kursk montò nelsuo vagone di prima classe T. C. Ilin, un suo conoscente, il qualegli comunicò un telegramma fresco fresco, ricevuto dal governatoredi Kursk che diceva che in quei giorni ci doveva essere unmutamento nel ministero: al posto di Petr Ivanovic era nominatoIvan Semenovic. Il progettato mutamento, oltre che la suaimportanza per la Russia, aveva un'importanza particolare per IvanIlijc in quanto che, con la promozione di questo nuovo personaggio,Petr Ivanovic, ne veniva di conseguenza quella del suo amico ZakharIvanovic, il quale era in sommo grado legato con Ivan Ilijc. ZakharIvanovic era compagno di scuola e amico di Ivan Ilijc.

A Mosca la notizia fu confermata. Giungendo aPietroburgo, Ivan Ilijc trovò Zakhar Ivanovic e ricevette lapromessa di un posto di fiducia nel suo antico ministero dellaGiustizia.

Dopo una settimana egli telegrafò alla moglie:Zakhar posto Miller al primo rapporto riceverò nomina.

Ivan Ilijc, grazie a questo cambiamento difunzionari, ebbe inaspettatamente nel suo stesso ministero un postotale che lo mise di due gradi al disopra dei suoi compagni:cinquemila rubli di stipendio e tremilacinquecento per indennità ditrasferta. Tutto il suo dispetto contro gli antichi nemici e control'intero ministero fu dimenticato e Ivan Ilijc fu completamentefelice.

Ivan Ilijc tornò in campagna allegro e contento, come non eramai stato da un pezzo. Anche Prascovia Fedorovna si rallegrò, e fraloro si concluse una tregua. Ivan Ilijc raccontò come era statofesteggiato da tutti a Pietroburgo, come tutti coloro che gli eranostati nemici, ora erano umiliati e strisciavano davanti a lui, comelo invidiavano per la sua posizione, e specialmente raccontò cometutti a Pietroburgo gli volevano un ben dell'anima.

Prascovia Fedorovna lo ascoltava e faceva fintadi credergli, senza contraddirlo in nulla, ed elaborava piani peril nuovo genere di vita che avrebbero menato nella città dove eranodestinati. E Ivan Ilijc vedeva con gioia che questi piani erano isuoi propri piani, che coincidevano perfettamente e che di nuovo lasua vita, che fino allora aveva zoppicato, ora acquistava una veraserenità, un vero decoro, il che era conforme al suo carattereallegro.

Dopo poco tempo Ivan Ilijc ripartì. Il 10settembre doveva prender possesso della sua carica e oltre a ciò,ci voleva il tempo di stabilirsi nella nuova città, trasportartutto dalla provincia, far delle compere, ordinare un mondo dicose: in una parola, stabilirsi come lo aveva deciso in mente sua,e quasi appunto come lo aveva anche deciso in cuor suo PrascoviaFedorovna.

E ora, quando tutto era stato messo a posto cosìbene, e s'intendevano così completamente lui e la moglie, e, oltrea ciò, stavano poco insieme, cominciarono ad andar tanto d'accordocome non erano andati d'accordo dai primi anni della loro vitaconiugale. Ivan Ilijc aveva pensato di condur via subito lafamiglia, ma la presenza della sorella e del cognato, che a untratto erano diventati particolarmente affettuosi, come buoniparenti, verso Ivan Ilijc e la sua famiglia, fece sì che Ivan Ilijcpartisse solo.

Ivan Ilijc partì, e la lieta disposizione dispirito, che proveniva dal successo ottenuto e dall'accordo con lamoglie, l'una cosa rinforzando l'altra, non lo lasciò per tutta ladurata del viaggio. Trovò un bellissimo appartamento, tale propriocome lo avevano sognato marito e moglie. Le sale da ricevere ampie,alte di soffitto, decorate in istile antico, uno studio comodo e diaspetto grandioso, camere per la moglie e per la figlia, stanza dastudio per il figlio, tutto come se fosse stato immaginato appostaper loro. Ivan Ilijc attese da sè all'arredamento, scelse letappezzerie, coprì i mobili di oggetti specialmente ad uso antico,il che gli pareva più comme il faut, e tutto venne su apoco a poco secondo quell'ideale che egli si era prefisso diraggiungere. Quando fu a mezzo del suo lavoro, l'effetto gli sembròsuperare la sua aspettativa. Egli vedeva già nell'immaginazionequel carattere comme il faut, elegante, niente affattovolgare, che prenderebbe ogni cosa allorchè tutto sarebbe pronto.Quando si addormentava, vedeva il salone come sarebbe stato.Guardando il salottino, non ancora finito, già vedeva il camino,l'écran, l'étagère, le seggioline sparseall'intorno, i piatti e i vassoi appesi al muro, le statuette dibronzo, come se già tutto fosse in ordine. Lo rallegrava il pensarecome tutto ciò sarebbe piaciuto a Pascia e a Lizanka, che ancheesse amavano quelle cose. Mai si sarebbero aspettate tanto.Specialmente ebbe la fortuna di comprare a buon mercato alcunioggetti antichi che davano all'insieme un'apparenza aristocratica.Nelle sue lettere aveva cura di descrivere tutto al disotto delvero acciocchè esse fossero gradevolmente sorprese. Tutto ciòl'occupava talmente che anche il suo nuovo ufficio, questa cosa chegli stava a cuore sopratutto, ora lo interessava meno di quel cheavrebbe creduto. Durante le udienze aveva dei momenti didistrazione: pensava a quali guarniture avrebbe dovuto apporre alletende, se dritte o a smerli. Era così preso da tutte queste coseche spesso si affaccendava personalmente, cambiando magari da sè diposto un mobile e sospendendo le tendine. Una volta salì su di unascala per mostrare al tappezziere, che non lo capiva, come volevadrappeggiare un panneggio, ma inciampò e cadde; però, essendo unuomo forte e agile, non si lasciò andare e soltanto urtò col fianconella maniglia dell'imposta. La contusione gli dolse, ma prestopassò tutto. Ivan Ilijc si sentiva in tutto quel periodoparticolarmente allegro e in buona salute. Scriveva a casa: «Misento come se avessi quindici anni di meno». Credeva di aver finitoin settembre, ma si andò fino alla metà di ottobre. Però tuttoriuscì benissimo: non lo diceva soltanto lui, ma glielo dicevanotutti quelli che vedevano l'appartamento.

In sostanza, l'appartamento era simile a tuttigli appartamenti della gente non proprio ricca ma che vuol starealla pari con la gente ricca, e quindi tutti questi appartamenti sisomigliano: stoffe al muro, ebano, fiori, tappeti e bronzi, un tonocupo con qualcosa di smagliante; quanto insomma fanno tutte lepersone di una certa categoria per somigliare a tutte le persone diuna certa altra categoria. E a lui era riuscito di far tutto cosìsimile a quello che facevano gli altri che era impossibile difermarvi l'attenzione; ma a lui tutto ciò sembrava qualcosa dieccezionale. Quando andò incontro ai suoi alla stazione, licondusse nel loro appartamento tutto pronto e illuminato e ilcameriere in cravatta bianca aprì la porta dell'anticamera, tuttaadorna di fiori, e poi essi entrarono nel salotto, nello studio emandarono esclamazioni di gioia, egli fu molto felice: li feceandar dappertutto, si bevve i loro elogi e brillava tutto dalpiacere. In quella stessa sera, quando Prascovia Fedorovna, mentreprendevano il the, gli chiese, fra le altre cose, come era andatala sua caduta, egli si mise a ridere e rifece la scena, mostrandoin che modo era scivolato e come aveva spaventato iltappezziere.

– Non per nulla ho fatto ginnastica. Un altro sisarebbe ammazzato, e io appena sono urtato, ecco, qui; quando citocco mi fa male, ma passa subito: non c'è altro che un livido.

Ed essi cominciarono a vivere nella nuova casa,dove, come accade sempre, quando ci furono stati un poco, siaccorsero che mancava soltanto una stanza: e si accorsero anche,come accade sempre, che il nuovo stipendio era insufficiente – dipoco, 500 rubli forse – altrimenti tutto sarebbe andato benone.Furono specialmente piacevoli i primi tempi, quando tutto non eraancora a posto e bisognava terminare l'installazione. Ora comprareuna cosa, ora ordinarne un'altra, ora cambiare di posto un mobile,ora accordare una tinta. Nascevano sì delle piccole divergenze framarito e moglie, ma erano tutti e due così contenti e c'era tantoda fare che ogni cosa terminava senza grandi discussioni. Quandonon ci fu più nulla da mettere a posto, cominciarono ad annoiarsiun poco e a pensare che qualcosa pur mancava: ma già avevano fattodelle conoscenze, preso delle abitudini e la vita si riempiva.

Ivan Ilijc, dopo aver passato la mattinata altribunale, tornava a pranzo, e nei primi tempi era d'ottimo umore,benchè avesse qualche momento d'irritazione proprio per via delloro installamento. (Ogni macchia sulle tovaglie, sulle stoffe deimobili, ogni cordone di tendina che si rompeva, lo faceva andare inescandescenze; aveva durato tanta fatica a mobiliare l'appartamentoche ora ogni piccolo guasto lo faceva soffrire). Ma in generale lavita di Ivan Ilijc scorreva come, secondo la sua idea, la vita devescorrere: facilmente, piacevolmente e con decoro. Si alzava allenove, beveva il suo caffè, leggeva il giornale, poi indossaval'uniforme di piccola tenuta e andava al tribunale. Là già eraabituato al suo còmpito e difilato poteva mettersi al lavoro.Sollecitatori, suppliche, gli affari di cancelleria, le sedute,quelle pubbliche e quelle preparatorie. Intanto bisognava saperliberarsi da tutto ciò che nella vita personale può guastare ilretto corso degli affari di servizio: bisognava aver con la gente isoli rapporti di servizio, i motivi di questi rapporti dovevanoessere esclusivamente di servizio, e i rapporti stessi non eccederemai dal servizio. Per esempio, viene un tale e desidera averequalche informazione: Ivan Ilijc, come uomo privato, non può averalcun rapporto con questo tale: ma se questo tale ha da fare alfunzionario una mozione che può essere trascritta su cartaintestata, nei limiti di questa mozione Ivan Ilijc fa tutto,assolutamente tutto, quel che può, e serba quella contraffazionedei rapporti di umanità e di amore che si chiama cortesia. Appenafiniscono le relazioni di servizio, finisce tutto il resto. IvanIlijc possedeva al più alto grado la scienza di separare tutto ciòche riguardava il suo ufficio, senza mischiarlo alla sua vera vitama la sua lunga pratica e la sua particolare abilità lo avevanofoggiato in tal guisa che egli, al pari di un virtuoso, avolte si permetteva qualche scherzo, mischiando gli affari diservizio a quel che c'era di umano in lui. Si permetteva questoperchè sentiva in sè la forza di poter sempre, quando occorreva,irrigidirsi di nuovo nella sua personalità ufficiale, eliminando laparte umana di sè. E questo lo faceva non soltanto facilmente e conpiacere, ma da vero virtuoso. Negl'intervalli degliaffari, fumava, prendeva il the, chiacchierava un poco di politica,un poco dei pubblici affari, un poco del giuoco di carte, ma più ditutto delle nuove nomine. E stanco, ma col sentimento di unvirtuoso che ha eseguito egregiamente la sua parte diprimo violino nell'orchestra, se ne tornava a casa. A casa, lamadre e la figlia si preparavano per uscire, oppure venivaqualcuno: il figlio, che era al ginnasio, preparava le sue lezionicol ripetitore, e imparava a puntino quel che s'insegnava nelginnasio. Tutto andava bene. Dopo pranzo, se non c'erano ospiti,Ivan Ilijc a volte leggeva un qualche libro del quale si parlavamolto e la sera si metteva al lavoro, cioè leggeva carte,confrontava disposizioni di legge, sfogliava deposizioni, e cercaval'applicazione della legge. Ciò non lo divertiva nè lo annoiava. Sepoi si annoiava, poteva giocare al whist: ma se non c'erada fare la partita era sempre meglio far qualche lavoro chestarsene solo solo senza far nulla o in compagnia della moglie.Quello che poi piaceva davvero a Ivan Ilijc era il dare piccolipranzi, ai quali invitava signore e uomini importanti per la loroposizione brillante, e questi passatempi dovevano essere simili aisoliti passatempi della gente del loro ceto, come il suo salottoera simile a tutti i salotti.

Una volta in casa sua ci fu una serata e siballò. Ivan Ilijc era allegro e tutto andò bene, soltanto ci fu unvivace litigio con la moglie a proposito dei rinfreschi. PrascoviaFedorovna aveva la sua idea, ma Ivan Ilijc si ostinò a prendertutto da un pasticciere molto caro, e ordinò molti dolci, e illitigio fu perchè i dolci avanzarono e il conto del pasticciere fudi 45 rubli. Il litigio fu lungo e sgradevole, tanto che PrascoviaFedorovna disse al marito: «Stupido, bruto!». Egli si prese latesta fra le mani e in cuor suo meditò il divorzio. Ma la serata fuallegra. Ci andò la miglior società e Ivan Ilijc ballò con laprincipessa Trufonova, sorella della ben nota fondatrice dellalega: «Togli via il mio dolore». Le soddisfazioni ufficiali eranosoddisfazioni di amor proprio; le soddisfazioni mondane eranosoddisfazioni di vanità; ma i veri piaceri di Ivan Ilijc eranoquelli del giuoco del whist. Egli confessava che, dopotutto, per quanti avvenimenti spiacevoli ci potessero essere nellasua vita, la gioia che come una face ardeva innanzi a tutte lealtre, era mettersi a tavolino e fare una partita di whistcon dei buoni giocatori e dei partners che non alzasserola voce, e sopratutto essere in quattro (in cinque è moltomalagevole giocare, benchè per cortesia si finga di avernepiacere), e fare un giuoco intelligente, serio (quando le carte sonbuone) e poi una cenetta e un bicchier di vino. E andando a lettodopo la partita, specialmente quando aveva fatta una piccolavincita (una grande vincita gli dava fastidio), Ivan Ilijc siaddormentava in uno stato d'animo particolarmente sereno.

Così essi vivevano. Il giro delle loroconoscenze era dei migliori: andavano da loro personaggi importantie gente giovane.

A riguardo delle loro relazioni di società,marito, moglie e figlia andavano perfettamente d'accordo, e senzaessersi data l'intesa, ognuno per conto suo tentava di liberarsi diquel disgraziato sciame di amici e di parenti che con moltedimostrazioni di tenerezza s'insinuava nel salotto dalle paretiornate di piatti giapponesi. Ben presto questi amici mal vestitismisero di accorrere, e dai Golovin non andò più se non una societàmolto scelta. I giovani facevano la corte a Lizanka, e il giudicePetritcev, figlio di Dmitri Ivanovic Petritcev e unico erede dellesue sostanze, aveva cominciato a intendersela con la ragazza, tantoche Ivan Ilijc già discuteva con Prascovia Fedorovnasull'opportunità di qualche passeggiata in troika[5] o di qualche recita di salone.Così essi vivevano. E tutto andava tranquillamente, senzamutamenti, e tutto procedeva d'incanto.

IV.

Tutti erano in buona salute. Non era possibilechiamar malattia quello di cui Ivan Ilijc parlava qualche volta:cioè di uno strano sapore in bocca e di una certa sensazionemolesta alla parte sinistra dell'addome.

Ma questa sensazione molesta andò crescendo ediventò, non ancora un vero e proprio dolore, ma una pesantezzacontinua al fianco, cagione di uno stato di cattivo umore. Questocattivo umore aumentava via via, e aumentando cominciò a turbarequella vita piacevole, facile, decorosa che s'era stabilita nellafamiglia Golovin. Marito e moglie cominciarono a litigare semprepiù spesso, e presto sparirono la tranquillità e la contentezza, ea fatica si mantenne la sola convenienza. Di nuovo le scenate sifecero frequenti. Di nuovo ci furono soltanto intervalli di pace, eassai rari, nei quali marito e moglie potevano stare insieme senzache ci fosse qualche scatto. E Prascovia Fedorovna, ora, non senzafondamento, diceva che il marito aveva un carattere difficile.Secondo la sua abitudine di esagerare, essa diceva che sempre egliaveva avuto questo tremendo carattere e che ci voleva la sua bontàper averlo sopportato vent'anni. Era vero che i litigi oracominciavano da lui. I suoi brontolamenti cominciavano sempre primadi andare a tavola, e spesso proprio quando cominciavano amangiare, alla minestra. Allora egli si accorgeva o che una posatao un piatto era sciupato, o che una vivanda era mal riuscita, o cheil ragazzo aveva poggiato un gomito sulla tavola, o che lapettinatura della figliuola non gli andava a genio. E di tuttequeste cose dava la colpa a Prascovia Fedorovna. Da principioPrascovia Fedorovna rispondeva e gli diceva cose spiacevoli, ma perdue volte egli, al principio del desinare, montò in tale furore cheessa capì che si trattava di uno stato anormale il quale si acuivain lui con l'ingerire il cibo, e così si calmò: non gli tenne piùtesta e soltanto faceva in modo di abbreviare il pranzo. Questa suasopportazione Prascovia Fedorovna se l'ascriveva a grande merito.Convinta che suo marito aveva un tremendo carattere e che avevafatto l'infelicità della sua vita, essa cominciò a compiangere sestessa. E quanto più compiangeva se stessa tanto più odiava ilmarito. Cominciò a desiderare la sua morte, ma non poteva neppuredesiderarla perchè allora sarebbe mancato lo stipendio. E questol'irritava ancora di più contro di lui. Si credeva terribilmenteinfelice proprio perchè neppur la morte di lui poteva salvarla,s'infuriava, lo nascondeva e questo nascondere il suo furore lafaceva infuriare sempre di più.

Dopo una scenata, nella quale Ivan Ilijc fuparticolarmente ingiusto, e dopo la quale egli aveva riconosciutoche s'era adirato, sì, ma che ciò dipendeva dalla sua malattia,essa gli disse che se era malato doveva curarsi, e pretese cheandasse da un medico di molta fama.

Egli ci andò. Tutto fu come egli si aspettava,tutto come avviene sempre. E l'attesa, e la gravità del medico chepareva rimproverarlo, quella gravità a lui ben nota, la medesimache egli riconosceva in se stesso quando era al tribunale, e icolpetti dati sulla parte dolente, e l'auscultazione, e le domandeche richiedevano risposte già previste ed evidentemente inutili, equell'aspetto imponente che sembra dire: Voi dovete soltantofidarvi di noi, e noi accomoderemo tutto – noi sappiamo come si faad accomodare tutto, sempre nello stesso modo, per qualsiasipersona. – Tutto fu proprio come al tribunale. Il contegno che egliteneva in tribunale verso gli accusati, lo stesso contegno loteneva verso di lui il celebre medico.

Il dottore disse: Il tal sintomo indica questo,il tale altro quello; ma se questa diagnosi non è confermata da unaltro esame, allora bisogna supporre questo e quello. E se sisuppone questo, allora… e così di seguito. Per Ivan Ilijc una solacosa era importante: era il suo caso pericoloso o no? Ma il dottorenon si preoccupava di questa insignificante questione. Dal punto divista del dottore questa questione era oziosa e non doveva esseresottoposta a giudizio: importava soltanto l'esame delle diverseipotesi: si trattava di rene mobile, di catarro cronico o dimalattia dell'intestino cieco? Non si faceva questione della vitadi Ivan Ilijc, ma c'era discussione fra il rene mobile el'intestino cieco. E questa discussione, il dottore, in presenza diIvan Ilijc la decise in forma brillante in favore dell'intestinocieco, con la riserva però che l'analisi dell'orina poteva dareluogo a nuove supposizioni e allora sarebbe stato necessario unaltro esame. Questo era punto per punto ciò che lo stesso IvanIlijc aveva fatto mille volte verso gli accusati con la stessaforma brillante. E anche assai brillantemente e solennemente ildottore fece il suo riassunto, e al disopra degli occhiali guardòcon una certa allegria il suo giudicabile. Dal riassunto deldottore Ivan Ilijc venne alla conclusione che lui stava male, mache al dottore e a tutti gli altri ciò importava poco; lui peròstava male. E questa conclusione colpì dolorosamente Ivan Ilijc,risvegliando in lui un senso di grande pietà verso se stesso e digrande irritazione per l'indifferenza del dottore in un caso cosìgrave.

Ma egli non fece le viste di nulla, si alzò,posò il denaro sulla tavola, e poi con un sospiro disse: – Noimalati, forse, vi facciamo spesso delle domande fuor di luogo. Ingenerale, questa è una malattia pericolosa o no?…

Il dottore lo guardò severamente al disopradegli occhiali come per dirgli: Accusato, se non restate nei limitidelle questioni prescritte, sarò obbligato di ordinare che vi siallontani dalla sala di udienza.

– Io vi ho già detto ciò che credevo opportuno enecessario, – disse il dottore. – Il resto lo dimostrerà l'analisi–. E il dottore lo salutò.

Ivan Ilijc uscì lentamente, montò tutto tristenella slitta e andò a casa. Per tutta la strada non smise diripassare in mente tutto ciò che aveva detto il medico, sforzandosidi tradurre tutte quelle parole scientifiche, confuse ed oscure, inlingua semplice per leggere in esse la risposta alla domanda: stomale, molto male, o non è nulla? E gli parve che il senso di tuttociò che aveva detto il dottore fosse che egli stava molto male. Perle strade, tutto aveva un'aria triste per Ivan Ilijc. Le vetture danolo erano tristi, le case tristi, i passanti, i negozi tristi.Quel dolore sordo, che non smetteva un momento, gli pareva che,messo in relazione con le parole oscure del dottore, prendesse unsenso differente e molto più serio. Ivan Ilijc ora l'osservava conun sentimento nuovo e penoso.

Giunse a casa e si mise a raccontar tutto allamoglie. La moglie lo ascoltava, ma a metà del racconto entrò lafiglia col cappello, pronta per uscire con la madre. Con uno sforzosi sedette ad ascoltare quella noiosa relazione, ma non resistettea lungo e la madre non udì la fine del discorso.

– Su, io sono molto contenta – disse la moglie –sicchè ora abbiti riguardo, prendi esattamente le medicine. Dammila ricetta: manderò Gherassim in farmacia –. E andò a vestirsi.

Egli non aveva ripreso fiato finchè la moglieera nella stanza: quando fu uscita mandò un profondo sospiro.

– Suvvia – disse – può essere che non sianulla.

Cominciò a prendere le medicine, eseguendo leprescrizioni del dottore, che cambiarono dopo l'analisi delleorine. Ma a proposito di questa analisi e di quel che dietro aquest'analisi si doveva fare, nacque una certa confusione.Strascinarsi di nuovo dal dottore non gli era possibile, e accaddeche non si avverò ciò che aveva detto il medico – o egli avevadimenticato, o aveva capito male, o il dottore gli aveva nascostoqualche cosa.

Ma Ivan Ilijc tuttavia continuò ad eseguirepuntualmente le prescrizioni, e per i primi tempi vi trovò un certogiovamento.

La principale occupazione di Ivan Ilijc dopo lavisita del dottore era appunto di eseguire le prescrizioni mediche,sia in quanto all'igiene, sia in quanto alle medicine da prendere,e nello stesso tempo di osservare il suo male e tutte le funzionidel suo organismo. Il principale interesse di Ivan Ilijc siconcentrò nelle malattie della gente e nella salute della gente.Quando davanti a lui si parlava di malati o di morti o di personeguarite, specialmente se si trattava di malattie che somigliasseroalla sua, egli, sforzandosi di nascondere la sua agitazione,tendeva l'orecchio, faceva interrogazioni, e paragonava quellemalattie alla sua.

Il dolore al fianco non diminuiva; ma Ivan Ilijcfaceva uno sforzo su di sè per persuadersi di star meglio. Eriusciva a illudersi finchè nulla veniva a turbarlo. Ma appenaaccadeva qualche urto con la moglie o qualche cosa gli andava arovescio in ufficio, o gli toccavano cattive carte alwhist, subito risentiva tutta la violenza del suo male:prima sopportava queste noie, aspettando che un certo ostacolo sirimovesse, che gli riuscisse di ottenere qualche buon successo, chegli capitasse un grand schlem al whist; ora ogniminima contrarietà lo abbatteva e si dava alla disperazione. Dicevaa se stesso: Ecco, appena cominciavo a migliorare e la curacominciava a fare il suo effetto, mi capita questa maledettadisgrazia, o questo dispiacere… E si irritava contro la sorte ocontro la gente che gli dava dispiaceri e l'uccideva, e sentiva poiche questa stessa irritazione l'uccideva, ma non poteva vincerla.Avrebbe dovuto essergli chiaro che quest'irritazione contro lecircostanze e contro la gente aumentava le sue sofferenze e quindinon avrebbe dovuto far caso di questi incidenti spiacevoli: maseguiva un sistema del tutto opposto: diceva di aver bisogno dicalma e andava dietro a tutto ciò che distruggeva questa calma, ealla minima contrarietà s'irritava. Il suo stato peggiorava ancoraper il fatto che egli leggeva continuamente libri di medicina econsultava medici. Ma il peggioramento aveva un corso così regolareche egli poteva illudersi paragonando un giorno con l'altro: ladifferenza era poca. Quando però consultava i medici, gli pareva diandar sempre verso il peggio ed anche rapidamente. E malgrado ciòconsultava continuamente medici.

In quel mese andò da un altro medico famoso:quest'altra celebrità disse quasi lo stesso dei precedenti, ma fecele domande in modo diverso. E il responso di questo medico famosonon fece altro che accrescere i dubbi e il timore di Ivan Ilijc. Unamico di un suo amico, un bravo dottore, definì la malattia in unamaniera del tutto differente e, malgrado che egli promettesse laguarigione, con le sue domande e le sue ipotesi, confuse ancora dipiù la mente di Ivan Ilijc e aumentò i suoi dubbi. Un medicoomeopatico diede un'altra definizione della malattia e prescrisseun'altra cura, che Ivan Ilijc seguì per una settimana, di nascostoa tutti. Ma dopo una settimana non sentì nessun sollievo, eperdendo la fiducia anche nelle cure precedenti come in questa,cadde in un maggior abbattimento. Una volta una signora di loroconoscenza raccontò di una guarigione ottenuta per mezzo delleimmagini sacre. Ivan Ilijc si sorprese ad ascoltare attentamente ea discutere l'autenticità della cosa. Questo fatto lo spaventò. «Mason forse tanto indebolito di mente?» disse fra sè. «Sciocchezze!Sono tutte assurdità: non bisogna darsi allo sconforto, mascegliere un solo medico e tenersi strettamente alla sua cura. Cosìfarò. Ora è finita. Non voglio pensare, e fino all'estate seguiròesattamente la cura. E allora si vedrà. Ora finiamola con questitentennamenti!… ». Era facile dir questo, ma impossibile farlo. Ildolore al fianco sempre lo tormentava, sempre pareva aumentare, sifaceva continuo, e quel sapore in bocca diventava sempre piùstrano; gli pareva che dalla bocca gli esalasse un odoredisgustoso, e l'appetito e le forze diminuivano sempre. Eraimpossibile illudersi: dentro di lui avveniva qualcosa diterribile, di nuovo e di così significativo che mai aveva provatocosa più significativa di quella. Ed egli soltanto la conosceva,tutti coloro che lo circondavano non la capivano o non volevanocapirla e credevano che tutto andasse come prima. Questo era ciòche più di tutto torturava Ivan Ilijc. Le persone di casaspecialmente, la moglie e la figlia che erano in pieno turbinemondano, non capivano nulla, lui lo vedeva, e s'indispettivano cheegli fosse così depresso e così esigente, come se fosse colpa sua.Benchè esse si sforzassero di nasconderlo, lui si accorgevabenissimo di esser loro d'impiccio, e che la moglie s'erafabbricata una sua opinione sulla malattia di lui,indipendentemente da tutto ciò che egli faceva o diceva.Quest'opinione essa la formulava così: «Voi lo sapete – diceva agliamici – Ivan Ilijc non può, come tutta la gente assennata, seguireesattamente una cura prescritta. Oggi prende le gocce e mangia quelche gli hanno ordinato e va a letto presto, domani, a un tratto, seio non ci bado, dimentica di prendere la medicina, mangia dellostorione (che gli è stato proibito) e sta a giocare alwhist fino al tocco».

– Quando mai? – dice Ivan Ilijc con dispetto. –Una volta, in casa di Petr Ivanovic.

– E ieri da Scebek.

– Tanto vale: non posso dormire per via deldolore…

– Già, trovi sempre una scusa, ma così nonguarirai mai e tormenterai noi.

La ferma opinione di Prascovia Fedorovna (e lodiceva agli amici e a lui medesimo) era che Ivan Ilijc avesse colpadella sua malattia, e che tutta questa malattia non fosse altro cheun nuovo fastidio che egli aveva immaginato di procurare a suamoglie. Ivan Ilijc sentiva che essa nutriva involontariamentequesta convinzione e ciò non gli era certo di sollievo.

Al tribunale Ivan Ilijc notava o credeva dinotare lo stesso strano modo di comportarsi verso di lui: glipareva che lo riguardassero come un uomo che presto doveva lasciarlibero il suo posto: a volte i suoi amici si mettevano a scherzareaffettuosamente sulla sua ipocondria, come se quella cosa tremendae orribile e inaudita, che cresceva dentro di lui e non smetteva diroderlo e irrimediabilmente lo trascinava chi sa dove, non fossealtro che un piacevole soggetto di facezie. ParticolarmenteSchwarz, con la sua gaiezza, la sua vivacità, i suoi modi commeil faut, lo irritava, ricordandogli quel che egli era statodieci anni prima.

Venivano gli amici per fare una partita, sisedevano, prendevano un mazzo di carte nuovo, distribuivano lecarte: ed ecco i quadri capitavano quasi tutti in una mano, fino asette. Il suo partner annunziava: «senza trionfo» esosteneva due quadri. Che altro ci voleva per essere allegro,animato? Schlem! E a un tratto Ivan Ilijc sente queldolore lancinante, quel sapore in bocca, e gli sembra inumano,davanti a questi sintomi, di rallegrarsi per loschlem.

Guarda il suo partner, MikhailMikhailovic, che batte sulla tavola la sua mano sanguigna, ecortesemente, con condiscendenza, gli lascia prendere le carte,gliele spinge anzi davanti per procurargli il piacere diraccoglierle senza affaticarsi a stendere il braccio. «Dunque credeche io sia tanto debole che non possa stendere il braccio», pensaIvan Ilijc, e copre i trionfi, ne tiene uno in più, così cheperdono lo schlem per tre alzate, e quel che è piùtremendo di tutto si è che egli vede come se ne dispiace MikhailMikhailovic, mentre a lui non gliene importa niente. Ed è tremendopensare perchè non gliene importa niente.

Tutti vedono che egli soffre e gli dicono:«Possiamo smettere se siete stanco. Riposatevi». Riposarsi? No, nonè per nulla stanco: e finiscono il rober. Tutti sono cupie silenziosi. Ivan Ilijc sente che è lui a comunicare agli altriquel malessere e non può dissiparlo. Cenano e poi si separano, eIvan Ilijc resta solo con la coscienza che la sua vita è avvelenatae avvelena la vita degli altri, e che questo veleno non siaffievolisce ma sempre più penetra in tutto l'essere suo.

E con questa coscienza, con questo dolorefisico, con questo terrore, bisogna stendersi nel letto e spessoper il dolore non dormire la maggior parte della notte. E lamattina bisogna di nuovo alzarsi, vestirsi, andare al tribunale,parlare, scrivere, e se non esce, restare a casa per tutte leventiquattro ore del giorno, e ognuna di quelle ore gli è untormento. E bisogna vivere così sull'orlo del baratro, solo, senzauna creatura umana che lo capisca e lo compatisca.


V.

Così passò un mese, ne passarono due. Prima delcapo d'anno giunse suo cognato e si fermò presso di loro. IvanIlijc era al tribunale, Prascovia Fedorovna era uscita a farespese. Entrando nel suo studio, Ivan Ilijc vi trovò il cognato,uomo sano, sanguigno, che stava votando da sè la valigia. Al rumoredei passi di Ivan Ilijc alzò la testa e lo guardò un momento insilenzio. Quello sguardo rivelò tutto a Ivan Ilijc. Il cognato aprìla bocca ad un'esclamazione, ma si trattenne. Questo atto confermòla cosa.

– Sono cambiato, eh?

– Già… c'è un cambiamento.

E per quanto poi Ivan Ilijc volesse ricondurreil cognato sul discorso della sua apparenza, il cognato serbò ilsilenzio. Venne Prascovia Fedorovna e il cognato la seguì nelle suestanze. Ivan Ilijc chiuse la porta a chiave e andò a guardarsi allospecchio, prima di faccia, poi di profilo. Prese una suafotografia, fatta con la moglie, e paragonò il ritratto con lafigura che vedeva nello specchio. Il cambiamento era enorme. Poi sidenudò il braccio fino al gomito, l'osservò, ributtò giù la manica,sedette sull'ottomana e si fece più scuro della notte.

«Non si deve far così, non si deve», disse frase stesso: si scosse, si avvicinò alla tavola, aprì unincartamento, si mise a leggerlo, ma non potè. Aprì la porta, andònel salone. La porta del salottino era chiusa. Andò verso di quellain punta di piedi e si mise ad ascoltare.

– No, tu esageri – diceva PrascoviaFedorovna.

– Come esagero? Tu non lo vedi: è un uomo morto:guardagli gli occhi. Sono senza luce. Ma che cosa ha?

– Nessuno lo sa. Nikolaiev (era un altro medico)ha detto questo e questo, ma io non so. Letcetisky (era un famosodottore) ha detto invece…

Ivan Ilijc si scostò, andò nello studio, sisdraiò e si mise a pensare: «Il rene, il rene mobile». Si ricordavatutto quello che gli avevano detto i medici, che il rene s'eraspostato e si moveva. E con uno sforzo d'immaginazione tentò diafferrare questo rene, d'immobilizzarlo: gli pareva che ci volessetanto poco. «No, andrò di nuovo da Petr Ivanovic» (era quell'amicoche aveva un amico dottore). Suonò il campanello, ordinò diattaccare e si preparò ad uscire.

– Dove vai, Jean? – chiese la mogliecon un'espressione insolitamente triste e dolce.

Quest'espressione insolitamente dolce loesasperò. Le gettò una occhiata cupa.

– Debbo andare da Petr Ivanovic.

Andò dall'amico che aveva un amico dottore. Econ lui andò dal dottore. Lo trovò in casa e stette un pezzo adiscorrere con lui.

Osservando anatomicamente e fisicamente iparticolari del suo male, secondo l'opinione del dottore, egli capìtutto.

C'era un'inezia, proprio un'inezia,nell'intestino cieco. Tutto ciò poteva guarire. Aumentare l'energiadi un organo, indebolire l'attività di un altro, render normale lanutrizione, e tutto sarebbe a posto. Egli ritardò un poco a pranzo.Pranzò, discorse allegramente, ma per un pezzo non potè ritirarsinello studio per riprendere le sue occupazioni. Finalmente vi andòe subito si mise al lavoro. Lesse gli incartamenti, lavorò, ma nonpoteva liberarsi dalla sensazione di una cosa rimandata a tempo,grave, personale, della quale avrebbe dovuto occuparsi dopo averfinito gli altri affari. Quando ebbe finito gli altri affari siricordò che questa cosa sua personale era la preoccupazione del suointestino cieco. Ma non si lasciò andare a questo pensiero e sidiresse verso il salotto per prendere il the. C'erano visite, sichiacchierava e si sonava il pianoforte, si cantava: c'era quelgiudice, pretendente di sua figlia. Ivan Ilijc passò la serata piùallegramente del solito, come osservò Prascovia Fedorovna, ma eglinon dimenticava neanche un minuto di avere una preoccupazionegrave, allontanata per il momento, ma pur sempre in agguato: lapreoccupazione del suo intestino cieco. Alle undici egli siaccomiatò, ritirandosi nella sua camera. Dacchè era ammalatodormiva solo, in una piccola camera attigua allo studio. Entrò, sispogliò e prese un romanzo di Zola, ma non lo lesse e si mise apensare. E nella sua immaginazione si rappresentava la desiderataguarigione del suo intestino. «Assimilazione, secrezione…ristabilire il funzionamento normale… ». Già, è così. Soltantobisogna aiutare la natura, diceva a se stesso. Si ricordò dellamedicina, si levò a sedere sul letto, la prese, si sdraiò supino,stette ad aspettare il benefico effetto della medicina che dovevaattutire il dolore. «Prenderla regolarmente ed evitare le influenzenocive: già mi sento un poco meglio, molto meglio». Si tastò ilfianco, non sentì dolore. «Già, non lo sento, davvero sto moltomeglio ». Spense la candela e si voltò sul fianco… «L'intestinocieco migliora, assimila». A un tratto sentì quell'antico dolore,troppo noto, sordo, pesante, ostinato, sottile, imponente. E inbocca quel noto sapore disgustoso. Si sentì mancare il cuore e latesta gli girava. «Dio mio! Dio mio! – esclamò – di nuovo, di nuovoe non smetterà mai». E a un tratto la cosa gli si presentò sotto untutt'altro aspetto. «L'intestino cieco! Il rene! – disse –. Non sitratta nè dell'intestino cieco nè del rene: si tratta della vita… edella morte. Sì, la vita c'era e ora se ne va, se ne va e non possotrattenerla. Già. Perchè illudermi? Non è forse evidente per tutti,tranne che per me, che io muoio, e che è questione soltanto disettimane, di giorni?… posso morire in questo momento. C'era laluce e ora sono tenebre. Io ero qui e ora vado là… Dove?». Fuinvaso da un gelo e gli si fermò il respiro. Sentiva solo i battitidel cuore.

«Io non ci sarò più… ma che cosa ci sarà? Non cisarà nulla. E dove sarò io quando non vivrò più? Sarà dunque lamorte? No, non voglio». Si riscosse, volle accendere la candela,tastò con le mani tremanti, fece cadere in terra la candela e ilcandeliere e di nuovo ricadde indietro sui guanciali. «Perchè?Tanto vale – disse fra sè, guardando nel buio con gli occhi aperti–. La morte! Già, la morte. Ed essi non sanno nulla, non voglionosapere, non hanno pietà. Giocano. (Egli udiva, lontano, di là dallaporta chiusa, il trillo delle voci e dei ritornelli). A loro nonimporta e intanto morranno anche loro! Stupidi! Prima a me, ma dopoanche a loro accadrà lo stesso. E stanno allegri. Bestie!». Larabbia lo soffocava. E la sua tortura diventava orrendamentepenosa. «Non può essere che tutti, sempre, sieno votati aquest'atroce terrore». Si alzò.

«C'è qualcosa che non va: bisogna calmarsi,rifarsi da principio». Ed ecco, cominciò a fantasticare. «Già, ilprincipio della malattia. Urtai col fianco, ma nè quel giorno nè ilgiorno dopo sentii nulla: un po' di fastidio, poi si accrebbe, poii medici, poi l'abbattimento, l'angoscia, di nuovo i medici; esempre sono andato più vicino, più vicino al precipizio. Le forzediminuiscono. Più vicino, più vicino. Ed, ecco, sparirò: non cisarà più luce nei miei occhi. Ecco la morte, e io pensoall'intestino. Penso a guarir l'intestino e si tratta della morte.Della morte, davvero?». Di nuovo fu preso dal terrore: respirava afatica, in preda all'angoscia: si mise a cercare i fiammiferi, urtòcol gomito il comodino. Sentì male, ebbe uno scatto di rabbia, lospinse e lo fece cadere. Disperato, affannando, si ributtò giùsupino, e aspettò la morte, lì, subito.

In quel momento gli ospiti se ne andavano.Prascovia Fedorovna li accompagnava. Udì la caduta del comodino edentrò.

– Che è stato?

– Nulla. È caduto per caso il comodino.

Essa andò a prendere una candela. Ivan Ilijc erasdraiato, respirando rapidamente e con fatica, come chi abbia fattouna versta di corsa, e guardava la moglie con gli occhisbarrati.

– Che hai, Jean?

– Ni… ente… È ca… duto –. Tanto, che dirle? Noncapirebbe, pensò egli.

Davvero essa non capiva. Rialzò il comodino,accese la candela e uscì in fretta: doveva accompagnare gli ospiti.Quando tornò, egli era sempre nella stessa posizione, supino, congli occhi volti in su.

– Che hai? Ti senti peggio?

– Sì.

Essa scosse il capo, si mise a sedere.

– Sai, Jean? Penso di far venireLetcetinsky qui a casa.

Significava far venire una celebrità, senzabadare a spesa. Egli sorrise velenosamente e disse: – No –. Essa siavvicinò e lo baciò in fronte.

Ivan Ilijc l'odiava con tutte le forzedell'anima nel momento in cui essa lo baciava, e fece uno sforzoper non respingerla.

– Addio. Con l'aiuto del Signore, dormi.

– Sì.

VI.

Ivan Ilijc capiva di morire ed eradisperato.

Nel profondo del suo spirito egli sapeva didover morire, ma non soltanto non si era abituato a quest'idea, manon la poteva concepire, mai l'avrebbe potuta concepire.

Quell'esempio di sillogismo che aveva imparatonel trattato di logica di Kizeveter: Caio è un uomo – gli uominisono mortali, quindi Caio è mortale – gli era parso, in tutta lasua vita, giusto soltanto nei riguardi di Caio, ma mai nei riguardisuoi. Caio era un uomo, l'uomo in genere, e il sillogismo eraperfettamente giusto: ma egli non era Caio, nè l'uomo in genere;egli era un essere assolutamente, assolutamente a parte da tuttigli altri: egli era Vania, con la mamma, col papà, con Mitia eValodia, coi suoi giocattoli, col cocchiere, con la bambinaia, poicon Katenka, con tutte le gioie, i dolori, gli entusiasmidell'infanzia, dell'adolescenza, della gioventù. Forse che Caioconosceva quell'odore di cuoio della palla che piaceva tanto aVania? Forse che Caio baciava così la mano della mamma? Forse cheCaio aveva sentito il fruscìo che facevano le pieghe del vestito diseta della mamma? Forse che Caio aveva fatto rissa per i pasticcinia scuola? Forse che Caio era stato innamorato come lui? Forse cheCaio poteva condurre a termine l'istruzione d'un processo? «Caio,sì, è mortale, ed è giusto che muoia, ma non io, Vania, Ivan Ilijc,con tutte le mie sensazioni, i miei pensieri; per me è un altroaffare. E non è possibile che mi tocchi di morire. Sarebbe troppoatroce.

Così sentiva lui.

«Se mi toccasse di morire come a Caio, losaprei, me lo direbbe una voce interna: ma in me non c'è nulla disimile; ed io e tutti i miei amici, abbiamo sempre capito che nonpotrebbe accadere a noi quel che accadde a Caio. Ma, ecco, che cosaè mai questo? Non può essere, non può essere, ma pure è. Come mai?Come si fa a capirlo?». Così parlava fra sè.

E difatti non poteva capire e si sforzava diallontanare quel pensiero come una cosa menzognera, ingiusta,morbosa, e sostituirlo con altri pensieri giusti, normali. Ma quelpensiero, e non era soltanto pensiero, ma realtà, tornava di nuovoe gli si fissava dinanzi.

E di volta in volta chiamava altri pensieri alposto di quello, nella speranza di trovare in essi un appoggio. Siprovava a ritornare a quell'antico giro di pensieri che prima glivelava il pensiero della morte. Ma, strana cosa! tutto ciò cheprima velava, nascondeva, distruggeva la coscienza della morte, oranon poteva più produrre quello stesso effetto. Negli ultimi tempiIvan Ilijc passava la maggior parte delle sue giornate in questitentativi di ritrovare l'antico corso di sensazioni che nascondevala morte. A volte diceva a se stesso: «Riprenderò il servizio: iovivevo per esso». E andava al tribunale, scacciando ogni dubbio:entrava in discorso coi compagni, si sedeva, secondo la sua vecchiaabitudine, e distrattamente, con occhio pensieroso guardava lafolla, e con tutt'e due le mani smagrite si appoggiava suibracciuoli della poltrona di quercia, come faceva di solito, sichinava verso un compagno, sfogliava un incartamento, dicevaqualche parola a bassa voce, e raddrizzandosi sulla sediapronunziava le formule di rito e cominciava il processo. Ma tutt'aun tratto, nel bel mezzo della seduta, il dolore al fianco, senzanessun riguardo allo svolgersi dell'affare, cominciava ilsuo affare che andava di pari passo con l'altro. IvanIlijc stava tutto intento ad ascoltare e voleva scacciare ilpensiero della sua sofferenza, ma essa seguitava il suo lavorìo esi fissava dritta davanti a lui e lo guardava, e lui s'irrigidiva,gli si spegneva la luce negli occhi, e di nuovo cominciava achiedersi: «Ma è forse questa la sola cosa vera?». E icompagni e i sottoposti vedevano con sorpresa e dispiacere cheegli, un magistrato così brillante, così sottile, si confondeva,commetteva degli errori. Egli si riscoteva, si sforzava diriprendere il filo delle idee, e alla meglio giungeva alla finedell'udienza, e tornava a casa con la triste convinzione che le sueoccupazioni di ufficio non potevano come prima nascondergli ciò cheavrebbe voluto che gli fosse nascosto: che, cioè, il suo lavoro nonriusciva a liberarlo dal suo pensiero fisso. E, quel che era peggiodi tutto si era che quel pensiero fisso lo teneva avvinto a sè nonper altro che perchè lui lo guardasse diritto negli occhi e, senzafar nulla, si tormentasse indicibilmente.

Per salvarsi da questo stato, Ivan Ilijc cercavaaltri sollievi, altri schermi, ed ecco, questi schermi loilludevano per qualche tempo, ma subito di nuovo divenivanotrasparenti, come se quel pensiero penetrasse dovunque e nullapotesse nasconderlo.

In quegli ultimi tempi, una volta entrò nelsalotto addobbato da lui, in quel salotto dove aveva fatto la suacaduta, quel salotto per addobbare il quale (il ricordarlo ora lofaceva sorridere velenosamente) aveva sacrificato la vita, perchèegli sapeva che la sua malattia era cominciata da quell'urto: entròe vide che sulla tavola laccata c'era una sgraffiatura prodotta daqualcosa di tagliente. Cercò che cosa avesse potuto produrla e siaccorse che era stato l'ornamento di bronzo di un album, uscitofuori di posto. Prese l'album, che aveva pagato caro e messo lì conamore, e s'indispettì contro la trascuraggine della figlia e dellesue amiche, che ora piegavano gli angoli delle pagine, orascompigliavano le fotografie. Rimise tutto accuratamente in ordine,ricollocò a posto l'ornamento di bronzo.

Poi gli venne il ghiribizzo di trasportare tuttoquell'élablissement dove era la tavola con gli album in unaltro angolo del salotto, presso alle piante. Chiamò il domestico:la moglie e la figlia vennero ad aiutarlo, ma non erano di accordocon lui, lo contraddicevano: lui si mise a discutere, s'irritò: mafu un bene, perchè in quel momento dimenticò il suo pensiero fisso,non lo vide più.

Ma ecco che la moglie disse, mentre egli volevasmuovere da sè un mobile: «Scusa, lascia fare ai domestici. Tifarai da capo del male». E a un tratto, di dietro agli schermi,quel pensiero fisso apparve, egli lo vide. Apparve, però egli speròancora che si dileguasse: ma involontariamente portò la suaattenzione al fianco. Sì, c'era sempre il dolore, sempre gli davalo stesso fastidio, e oramai non poteva più dimenticarlo: era lì, elo distingueva nettamente di dietro alle piante. A che dunque farqualsiasi cosa?

«E proprio io, qui, per questa tendina, come inun assalto, ho perduto la vita? Ma proprio? Com'è terribile estupido! Non può essere! Non può essere, ma è».

Andò nel suo studio, si sdraiò e di nuovo rimasesolo col suo pensiero fisso. A faccia a faccia con esso, e nonpoteva far nulla contro di esso. Solo guardarlo e agghiacciare diorrore.

VII.

Come ciò avvenisse, al terzo mese della malattiadi Ivan Ilijc, nessuno lo avrebbe potuto dire, perchè la cosa sifece passo per passo, senza che nessuno se ne accorgesse, maavvenne questo: che la moglie, la figlia, il figlio, i domestici,gli amici, i medici e sopratutto egli stesso sapevano che tuttol'interesse che gli altri concentravano in lui consisteva soltantonel chiedersi se, finalmente, lascerebbe presto libero il suo postoe libererebbe i vivi dal peso della sua presenza, liberando sèdalle sue sofferenze.

Egli dormiva sempre meno: gli davano dell'oppioe cominciarono a fargli iniezioni di morfina. Ma ciò non losollevava. Soltanto da principio provava qualche sollievo in quellostato di ottuso torpore che lo cullava in una specie didormiveglia: ma poi subito tornava a stare come prima, anzi queltorpore era più tormentoso che un dolore acuto.

Gli preparavano cibi speciali secondo laprescrizione del medico ma questi cibi gli sembravano sempre piùsciapiti, sempre più nauseanti.

Per i suoi bisogni corporali erano stati ancheadottati speciali provvedimenti, e ogni volta era una tortura.Tortura per la sudiceria, per l'indecenza, per il cattivo odore,per la coscienza di dover per forza assoggettarsi agli altri.

Ma da quella così penosa soggezione gli nacqueun conforto. Veniva sempre a portar via il vaso da notte quel talGherassim, quel domestico di campagna.

Gherassim era un giovane contadino pulito, sano,ingrassato al regime cittadino. Era sempre allegro, aperto. Daprincipio la vista di costui, sempre lindo nel suo costume russo,astretto a quegli uffici ripugnanti, infastidiva Ivan Ilijc.

Una volta, alzandosi dalla sedia adibita ai suoibisogni e non avendo la forza di tirarsi su i calzoni, cadde su diuna poltrona e con terrore guardò le sue cosce nude, inerti, daimuscoli fortemente salienti.

Entrò Gherassim, coi suoi grossi stivali,spargendo intorno un piacevole odore di catrame che veniva daglistivali e di buon'aria fresca invernale, entrò con passo leggero efermo, nel suo grembiale di tela di canape ben pulito, nella suacamicia di cotone di bucato, con le maniche rimboccate sulle nude,forti, giovani braccia, e, senza guardare Ivan Ilijc, per nonoffendere il malato con la gioia di vivere che gli traspariva dalvolto, si avviò a ritirare il vaso da notte.

– Gherassim – chiamò debolmente Ivan Ilijc.

Gherassim trasalì, temendo di aver commessoqualche errore, e con un rapido movimento volse verso il malato ilsuo viso giovanile, fresco, buono, semplice, dove appena cominciavaa spuntare la barba.

– Che cosa comandate?

– Penso che questo ti debba ripugnare.Perdonami. Io non posso.

– Lasciatevi servire –. E Gherassim rise con gliocchi e con la bocca, mostrando i suoi bianchi denti giovanili. –Non si deve forse lavorare? Voi siete malato.

E con le sue mani svelte e forti compì il suosolito ufficio ed uscì a passo leggero. E dopo cinque minuti tornò,con lo stesso passo leggero.

Ivan Ilijc stava ancora lì sulla poltrona.

– Gherassim – disse, quando costui ebbe rimessoa posto il vaso pulito, lavato – ti prego, aiutami, vieni qui –.Gherassim si avvicinò. – Sollevami. Mi è penoso farlo da solo, e homandato via Dmitri.

Gherassim s'era accostato; con la stessaleggerezza con la quale camminava, lo prese fra le sue fortibraccia, lo sollevò abilmente, dolcemente, e tenendolo con una manocon l'altra gli tirò su i calzoni e voleva rimetterlo a sedere. MaIvan Ilijc gli chiese di condurlo al divano. Gherassim, senzasforzo e come se non lo toccasse neppure, lo condusse, lo portòquasi fino al divano e ve l'adagiò.

– Grazie. Come sei abile a queste cose… sai fartutto…

Gherassim sorrise di nuovo e fece per andarsene.Ma Ivan Ilijc si trovava così bene con lui che non voleva lasciarloandare.

– Ecco, avvicinami, ti prego, quella sedia. No,mettimela sotto le gambe. Sto meglio quando ho le gambesollevate.

Gherassim portò la sedia senza farla urtare neimobili, la posò piano piano in terra e vi stese su le gambe di IvanIlijc. A questo pareva di soffrir meno, mentre Gherassim gli tenevaalti i piedi.

– Sto meglio quando ho i piedi alzati – disseIvan Ilijc –. Mettimi qui sotto quel cuscino.

Gherassim eseguì. Di nuovo gli sollevò i piedi eli posò sul cuscino. Di nuovo a Ivan llijc parve di star megliomentre Gherassim gli sollevava i piedi. Quando li riabbassò gliparve di star peggio.

– Gherassim, hai da fare, ora?

– No, niente, signore – disse Gherassim, cheaveva imparato dai domestici cittadini a parlar coi padroni.

– Che hai da fare ancora?

– Che debbo fare? Ho finito tutto: debbosoltanto spaccar le legna per domani.

– Allora tienmi un poco su le gambe… puoi?

– Ma certo che posso –. Gherassim alzò le gambedi Ivan Ilijc al quale parve di non sentir più il dolore in quellaposizione.

– E per le legna come si fa?

– Non vi date pensiero. Si farà tutto.

Ivan Ilijc ordinò a Gherassim di mettersi asedere e tenergli le gambe, e intanto discorreva con lui. E, stranacosa, gli pareva di sentirsi meglio quando Gherassim gli teneva legambe.

Da quel momento Ivan Ilijc cominciò a chiamaredi tanto in tanto Gherassim, e gli appoggiava i piedi sulle spalle,e amava discorrere con lui. Gherassim lo faceva facilmente,volentieri, con una semplicità e una bontà che commovevano IvanIlijc. La salute, la forza, il vigore, la vita in tutti gli altrioffendevano Ivan Ilijc; soltanto la forza, il rigoglìo di vita diGherassim non gli dispiacevano, ma gli davano un senso dicalma.

Il maggior tormento di Ivan Ilijc era lamenzogna, la menzogna adottata da tutti, chi sa perchè, checonsisteva nel dire che egli era soltanto malato ma che nonmorrebbe e che quindi se ne doveva star tranquillo e curarsi etutto sarebbe andato bene. E lui invece sapeva già che, per quantosi facesse, non ne sarebbero venute che sofferenze ancora piùatroci e poi la morte. E questa menzogna lo tormentava; lotormentava il vedere che nessuno voleva confessare ciò che tuttisapevano, che lui stesso sapeva, e invece si mentiva sul suoorrendo caso, si voleva che anche lui prendesse parte a quellamenzogna. Menzogna, menzogna, suprema menzogna alla vigilia dellasua morte, che abbassava il tremendo, solenne atto della sua morteallo stesso livello di tutte quelle visite, delle tende, dellostorione per i pranzi… Questo era il suo maggior tormento. E,strano! molte volte, quando la gente gli contava quelle fandonie,ci correva un capello che egli non gridasse: «Smettete di mentire.Voi sapete e io so che sto per morire: sicchè almeno smettetequeste menzogne!». Ma non aveva mai il coraggio di dir quelleparole. Il tremendo, spaventevole fatto del suo avviarsi verso lamorte, per tutti coloro che lo circondavano, egli lo vedeva, eraabbassato al livello di una circostanza spiacevole, quasi di unasconvenienza (come se accadesse che una persona, entrando in unsalotto, spargesse intorno un cattivo odore) e tutta la sua vitaegli aveva avuto il culto delle convenienze: vedeva chenessuno aveva pietà di lui, perchè nessuno voleva capire il suostato. Il solo Gherassim capiva il suo stato e aveva pietà di lui.E quindi Ivan Ilijc si trovava bene soltanto con Gherassim. Sisentiva sollevato quando Gherassim gli teneva le gambe, e a voltegliele teneva nottate intere, e non voleva andarsene a dormiredicendo: «Non vi date pensiero, Ivan Ilijc, avrò tempo da dormire».E, a un tratto, passando al tu, aggiungeva: «Visto che seimalato, perchè non ti debbo servire?». Il solo Gherassim nonmentiva, ma era visibile a tutti che lui soltanto capiva di che sitrattava, e non credeva necessario nasconderlo, ma semplicementecompativa il suo padrone che si consumava ed era tanto debole. Unavolta anzi lo disse apertamente ad Ivan Ilijc che voleva mandarlo adormire:

– Tutti dobbiamo morire, Perchè dovrei scansarequesta fatica? – e con questo intendeva dire che la fatica non glipesava proprio perchè lo considerava come un moribondo e speravache, a suo tempo, qualcuno avrebbe fatto lo stesso per lui.

Oltre a questa menzogna e alle sue conseguenze,quel che più tormentava Ivan Ilijc era il vedere che nessuno locompativa come avrebbe voluto esser compatito: in alcuni momenti,dopo lunghe sofferenze, avrebbe voluto più di ogni altra cosa, perquanto avesse vergogna di confessarlo, che qualcuno lo compatissecome un bambino malato. Avrebbe voluto che qualcuno loaccarezzasse, lo baciasse, piangesse su di lui, come si accarezzanoe si consolano i bambini. Sapeva di essere un grave magistrato, diaver la barba grigia, e che quindi ciò era impossibile; ma pure loavrebbe desiderato. E nelle sue relazioni con Gherassim v'eraqualcosa che si avvicinava a questo: e perciò le sue relazioni conGherassim lo confortavano. Ivan Ilijc aveva voglia di piangere,desiderava che qualcuno lo accarezzasse e piangesse con lui, edecco giungere il suo compagno, il magistrato Scebek, e invece dilacrime e di carezze, Ivan Ilijc faceva un viso serio, severo,profondamente pensieroso, e per forza d'inerzia diceva la suaopinione su di un verdetto della Cassazione e ostinatamente lodifendeva. Questa menzogna intorno a sè e in se stesso avvelenavapiù di tutto gli ultimi giorni della vita di Ivan Ilijc.

VIII.

Era mattina. Appena schiarato giorno, Gherassimse ne andava e veniva un altro domestico, Petr; spegneva lecandele, apriva la tenda e cominciava a rassettare la camera, pianopiano. Fosse mattino o sera, venerdì o domenica, tutto era semprelo stesso, tutto era uniformemente lo stesso: il fastidioso,tormentoso dolore non smetteva un momento: non smetteva lacoscienza disperata che la vita se ne andava, ma che pur semprec'era: si avvicinava continuamente quell'orrenda, odiata morte, cheera la sola realtà, e tuttavia durava sempre la stessa menzogna.Che significavano i giorni, le settimane, le ore?

– Comandate il the?

«Costui ha bisogno della regolarità: la mattinai signori debbono prendere il the», pensò Ivan Ilijc e dissesolamente:

– No.

– Vi piacerebbe passare sul divano?

«Costui vuol mettere in ordine la camera e iogli sono d'impaccio, io sono la sudiceria, il disordine», pensòegli, ma disse solamente:

– No, lasciami stare.

Il domestico seguitò ad affaccendarsi. IvanIlijc stese la mano.

Petr si avvicinò premuroso.

– Che cosa comandate?

– L'orologio.

Petr prese l'orologio che era lì sottomano eglielo diede.

– Le otto e mezzo. Di là non si sono ancoraalzati?

– Nossignore. Vassili Ivanovic (era il figlio) èandato al ginnasio. Prascovia Fedorovna ha ordinato di svegliarlase voi chiedete di lei. Comandate che si chiami?

– No, non occorre –. «Proverò a prendere ilthe», pensò. – Sì, il the… portamelo.

Petr si avviò verso la porta. Ivan Ilijc ebbeterrore di rimaner solo. «Come fare a trattenerlo? Ah sì! lamedicina». – Petr, dammi la medicina –. «Chi sa che non mi facciabene!». Prese il cucchiaio, bevve. «No, non mi fa nulla. Son tuttesciocchezze, illusioni», disse, appena sentì in bocca quel notosapore che gli dava sempre un senso di falsità, di disperazione.«No, non posso crederci più. Ah! questo dolore, questo dolore,cessasse almeno per un minuto! Perchè soffro così?». E si mise agemere. Petr tornò indietro. – No, va. Porta il the.

Petr uscì. Ivan Ilijc, restato solo, cominciò dinuovo a gemere, non tanto per il dolore, benchè fosse atroce,quanto per l'angoscia. «Sempre lo stesso e lo stesso, tutti questigiorni e queste notti interminabili. Se il tempo passasse piùpresto! Ma che cosa deve venire più presto? La morte, il buio… No,no. Tutto è meglio che la morte!».

Quando Petr entrò col vassoio del the, IvanIlijc lo guardò a lungo, tutto sconvolto, senza capire chi fossecolui nè che volesse. Petr si turbò a quello sguardo. Ma Ivan Ilijcritornò in sè.

– Sì, – disse – il the… Va bene, posalo qui.Aiutami soltanto a lavarmi e dammi una camicia pulita.

E Ivan Ilijc cominciò a lavarsi. A più ripresesi lavò le mani, il viso, si pulì i denti, si pettinò e si guardòallo specchio. E gli fece orrore, specialmente gli fece orrore,vedere che i capelli gli si appiccicavano lisci lisci sulla frontepallida.

Mentre si mutava la camicia sapeva che avrebbeavuto sempre più orrore se avesse guardato il suo corpo, e non siguardò. Ma ecco, era finito. Infilò la veste da camera, si coprìcol plaid e sedette sulla poltrona per prendere il the.Per un momento si sentì rinfrescato, ma appena cominciò a bere ilthe, ecco di nuovo quello stesso sapore, quello stesso dolore. Conuno sforzo finì di bere il the, e si sdraiò stendendo le gambe. Sisdraiò e mandò via Petr.

Sempre lo stesso. Ora appare un barlume disperanza, ora si spalanca un mare di disperazione: e sempre queldolore, sempre quel dolore, sempre quella noia e sempre lo stesso.Solo, sente una angoscia atroce: vorrebbe chiamare qualcuno, ma giàda prima sa che in presenza d'altri è anche peggio. «Se almeno midessero di nuovo della morfina, dimenticherei. Lo dirò al medicoche inventi qualche altra cosa. Così è impossibile, impossibiledurare!».

Così passò un'ora, ne passarono due. Ma si senteil campanello nell'anticamera. Sarà forse il dottore? Appunto, è ildottore, fresco, florido, grasso, allegro, con quell'espressione inviso che dice: «Sì, in voi c'è qualcosa che non va, ma noimetteremo tutto in ordine». Il dottore sa che quest'espressione quinon giova, ma egli se l'è applicata al viso una volta per tutte enon la può togliere, come un uomo che dalla mattina s'è messol'abito da cerimonia ed esce con quello a fare le sue visite.

Il dottore si fregò le mani con quella sua ariaspavalda, che doveva rassicurare il malato.

– Sono un pezzo di ghiaccio. Ma queste gelatesono sane. Lasciate che mi riscaldi – disse, come se non ci fosseda fare altro che aspettare un poco, tanto che lui si riscaldasse,e quando si fosse riscaldato tutto sarebbe andato bene.

– Dunque, che c'è? Come si va?

Ivan Ilijc sente che il medico vorrebbe dire:«Come va questo nostro malannuccio?». Ma come egli stesso capisceche non lo può dire, dice invece: «Come avete passato lanotte?».

Ivan Ilijc guarda il dottore come se volessedirgli: «Ma non ti vergognerai mai di mentire?». Il dottore nonvuol capire quello sguardo.

E Ivan Ilijc dice: «Orribilmente, come sempre.Il dolore non passa, non cede. Ci fosse almeno qualcosa dadarmi!».

– Già, voi altri malati siete sempre così. Ecco,mi pare d'aver le mani calde abbastanza e anche la difficoltosaPrascovia Fedorovna non troverebbe nulla da ridire alla lorotemperatura. Dunque, vi saluto –. E il dottore gli stringe lamano.

E, lasciando da parte la sua aria scherzosa, ildottore con aspetto serio si mette ad osservare il malato, ilpolso, la temperatura, e comincia la palpazione,l'auscultazione.

Ivan Ilijc sa di certo, senza alcun dubbio, chequeste son tutte sciocchezze e vuoti inganni, ma quando il medico,in ginocchio, si china su di lui e mette l'orecchio, ora più in su,ora più in giù, e col viso grave fa su di lui diverse evoluzioniginnastiche, Ivan Ilijc si lascia prendere come si lasciavaprendere dalle arringhe degli avvocati quando egli già sapevabenissimo che essi mentivano e perchè mentivano.

Il dottore, stando in ginocchio sul divano,palpava ancora qualche cosa, quando si udì sulla porta il fruscìodel vestito di seta di Prascovia Fedorovna e s'intesero i suoirimproveri a Petr perchè non le aveva annunziato l'arrivo delmedico.

Essa entra, bacia il marito e subito si mette aspiegare che era levata già da un pezzo e soltanto per un malintesonon s'è trovata lì all'arrivo del medico.

Ivan Ilijc la guarda, l'esamina da capo a piedi,e con rimprovero osserva la sua bianchezza, il candore delle manigrassocce, il collo, la lucentezza dei capelli e lo splendore degliocchi pieni di vita. Egli l'odia con tutte le forze dell'anima. Eil suo contatto lo fa soffrire per un parossismo di odio verso dilei.

Il contegno di Prascovia Fedorovna verso ilmarito e la malattia di lui è sempre lo stesso. Come il dottore siè fabbricato un contegno verso i malati del quale non può piùdisfarsi, così essa si è fabbricato anche un contegno verso di lui,e gli dice sempre che non fa quel che dovrebbe, che la colpa è suae lo rimprovera affettuosamente, e non può più smettere questocontegno verso di lui.

– Non vuol stare a sentire, non prende lemedicine in tempo. E più di tutto, si sdraia in una posizione chedi certo gli fa male, coi piedi in alto.

E racconta come egli si fa tenere le gambe daGherassim.

Il dottore ha un sorriso di disprezzo benevolo.«Che ci vogliamo fare? Questi malati s'immaginano a volte certesciocchezze… Ma bisogna perdonarli».

Quando l'esame fu terminato, il dottore guardòl'orologio e allora Prascovia Fedorovna dichiarò al marito che, lovolesse o no, lei sarebbe andata quel giorno stesso a invitare unfamoso medico, che insieme con Mikhailo Danilovic (così si chiamavail medico curante) avrebbe fatto un nuovo esame e presa unadecisione.

– Non ti opporre, fammi il piacere. Lo fo per me– disse ironicamente, dando a intendere che faceva tutto per luiche non aveva il diritto di opporvisi. Egli tacque e aggrottò lesopracciglia. Sentiva che questa menzogna che lo circondava eracosì confusa e complicata che oramai sarebbe stato impossibileraccapezzarcisi dentro.

Essa agiva sempre verso di lui per propriointeresse, e diceva di far per sè ciò che davvero faceva per sè, malo diceva in modo da far credere tutto il contrario.

Difatti alle undici e mezzo venne il celebremedico. Di nuovo le auscultazioni e i soliti discorsi in presenzasua, e poi, nell'altra stanza, le discussioni sul rene,sull'intestino cieco, e domande e risposte, con un'aria cosìsolenne che invece della vera questione di vita o di morte, cheoramai sola preoccupava Ivan Ilijc, pareva si trattasse soltantodel rene e dell'intestino cieco che non funzionavano a dovere, mache subito subito Mikhailo Danilovic e la celebrità chiamata aconsulto avrebbero rimessi a posto.

Il famoso medico si congedò con aspetto serio mache non faceva pensare a un caso disperato. E alla timida domanda,che alzando verso di lui gli occhi lucenti di timore e di speranzainsieme gli rivolse Ivan Ilijc, se cioè ci fosse possibilità diguarigione, egli rispose che non poteva garentire nulla ma che lapossibilità c'era. Lo sguardo di speranza col quale Ivan Ilijcaccompagnò il dottore era così compassionevole, che, vedendolo,Prascovia Fedorovna cominciò a piangere appena fu uscita dallaporta dello studio per dare l'onorario al celebre medico.

Il sollievo prodotto dall'incoraggiamento delmedico non durò a lungo. Sempre la stessa stanza, gli stessiquadri, le stesse tende, le stesse tappezzerie, le stesse boccettedi medicinali, e il suo corpo, malato, dolorante. E Ivan Ilijccominciò a gemere. Gli fecero una iniezione, e s'immersenell'incoscienza.

Quando si risvegliò cominciava a far buio: gliportarono il desinare. Con molto sforzo riuscì a prendere un brodo:e di nuovo tutto come sempre e la notte che si avanzava.

Dopo pranzo, alle sette, Prascovia Fedorovnaentrò in camera sua, vestita da sera, col forte petto compresso dalbusto e tracce di polvere sul viso. Fin dalla mattina gli avevaaccennato che sarebbero andate al teatro. Era giunta SarahBernhardt ed essi avevano un palco che egli aveva insistito per farprendere. Ora egli l'aveva dimenticato, e vedendola così vestita sene offuscò. Ma egli nascose la sua irritazione quando si ricordò diavere egli stesso insistito perchè si procurassero un palco,essendo questo un divertimento estetico ed istruttivo per iragazzi.

Prascovia Fedorovna entrò tutta soddisfatta disè ma con un vago senso di colpevolezza. Si sedette, s'informòdella sua salute, ma egli vide che lo faceva soltanto per dirqualcosa, ma non per desiderio di apprendere alcunchè, sapendobenissimo che non c'era nulla di nuovo da apprendere; e cominciò adire quel che le parve conveniente che, cioè, non sarebbe a nessuncosto andata al teatro, ma che il palco era preso e che non potevalasciare la figlia andar sola con Petricev (quel giudice fidanzatodella figlia). Ma sarebbe stata tanto più contenta di rimanere conlui. Ma almeno, in sua assenza, egli seguisse le prescrizioni delmedico.

– Ah! Fedor Petrovic (il fidanzato) ti vorrebbevedere. Può entrare? E anche Liza…

– Falli entrare.

Entrò la figlia, vestita in gran lusso, colgiovane corpo mezzo nudo, quel corpo per il quale lui soffrivatanto. E lei lo metteva in mostra. Forte, sana, visibilmenteinnamorata, provando ribrezzo per la malattia, per la sofferenza,per la morte, che turbavano la sua felicità.

Entrò anche Fedor Petrovic in frack,coi capelli arricciati à la Capoul[6], conun lungo collo su cui si disegnavano le vene, stretto nel golettobianco, con l'enorme sparato bianco della camicia, con le forticosce strette nei calzoni neri attillati, con un solo guanto biancoinfilato e il gibus in mano.

Dietro di lui scivolò inavvertito lo studente diginnasio, con la uniforme nuova, poveraccio, in guanti e con ungran cerchio nero sotto gli occhi, di cui Ivan Ilijc sapeva ilsignificato.

Il figlio era sempre per lui un oggetto dipietà. E faceva pena davvero lo sguardo del ragazzo, spaventato esfuggevole. Oltre Gherassim, pareva a Ivan Ilijc che soltantoVassia lo capisse e lo compatisse.

Tutti sedettero e di nuovo s'informarono dellasua salute. Poi ci fu un silenzio. Liza chiese alla madre se avessepreso il binocolo. Ci fu un battibecco fra madre e figlia aproposito del binocolo che non si trovava, e ne vennero paroleacri.

Fedor Petrovic chiese a Ivan Ilijc se avesse maisentito Sarah Bernhardt. Ivan Ilijc non capiva da principio checosa gli si chiedesse, ma poi disse: – No. E voi l'avete giàsentita?

– Sì, nell'Adrienne Lecouvreur.

Prascovia Fedorovna disse che in quella parteera specialmente brava. La figlia replicò. Cominciò una discussionesull'eleganza e la verità della sua recitazione, quella discussionemedesima che si faceva sempre a quel proposito.

A metà del discorso Fedor Petrovic diedeun'occhiata a Ivan Ilijc e tacque. Gli altri anche lo guardarono etacquero. Ivan Ilijc aveva gli occhi lucenti, fissi avanti a sè,evidentemente indignato contro di loro. Bisognava far qualcosa perrimediare, ma era impossibile rimediare. Bisognava in qualche modorompere quel silenzio. Nessuno si decideva, e tutti vedevano conterrore che a un tratto quella menzogna di convenienza stava peressere distrutta e la verità sarebbe saltata fuori. Liza fu laprima a decidersi. Avrebbe voluto nascondere ciò che tuttisentivano, ma invece si tradì.

– Se andassimo? È ora – disse, guardando il suoorologio, dono del padre, e volse un sorriso impercettibile masignificativo al giovane, sorriso intelligibile a lui soltanto, esi alzò con un fruscìo del suo vestito.

Tutti si alzarono, si congedarono euscirono.

Quando furono usciti, parve a Ivan Ilijc disentirsi sollevato: non c'era più la menzogna, se n'era andata conloro, ma il dolore restava. Sempre lo stesso dolore, sempre lostesso terrore, sicchè non c'era nè maggior sofferenza nè minore.Pure era sempre peggio.

Di nuovo, un minuto passava dietro un minuto,un'ora dietro un'ora, sempre lo stesso, senza fine, e pur la fineera là, tremenda, inevitabile.

– Sì, mandatemi Gherassim – rispose egli alladomanda di Petr.

IX.

La moglie tornò tardi nella notte. Entrò inpunta di piedi, ma egli l'udì venire: aprì gli occhi e subito lirichiuse. Essa voleva mandar via Gherassim e rimanere lei avegliarlo. Ivan Ilijc riaprì gli occhi e disse: – No. Vattene.

– Soffri molto?

– Sempre lo stesso.

– Prendi dell'oppio.

Egli acconsentì e lo prese. La moglie se neandò.

Fino alle tre stette in uno stato di torporeaffannoso. Gli pareva che lo mettessero a forza in un saccostretto, nero e fondo, e ve lo spingessero senza riuscire a farceloentrare del tutto. Ed egli aveva paura e voleva entrarci, matuttavia lottava e resisteva. A un tratto si liberò e cadde, eallora si svegliò. Gherassim era sempre lì, seduto ai piedi delletto, dormicchiando tranquillo e paziente, come al solito. Egliera sdraiato, con i piedi smagriti coperti dalle calze e appoggiatialle spalle di Gherassim: la solita candela, conl'abat-jour e lo stesso dolore che non dava maitregua.

– Vattene, Gherassim – mormorò egli.

– No: resto qui.

– No, vattene.

Egli ritirò le gambe, si voltò su un fianco,appoggiandosi al braccio, e cominciò a compiangere sè stesso.Aspettò appena che Gherassim fosse andato nella camera accanto, enon potendo più trattenersi si mise a piangere come un bambino.Piangeva sul suo stato senza speranza, sulla sua tremendasolitudine, sulla crudeltà della gente, sulla crudeltà di Dio,sull'assenza di Dio.

«Perchè hai fatto tutto questo? Perchè mi haicondotto a questo punto? Perchè, perchè mi torturi cosìatrocemente?».

Non aspettava risposta e piangeva perchè non ciera nè ci poteva essere una risposta. Il dolore si faceva di nuovopiù forte, ma egli non si mosse, non chiamò. Diceva dentro di sè:«Su dunque, su, colpiscimi! Ma perchè? Che cosa Ti ho fatto?Perchè… ».

Poi tacque, non soltanto smise di piangere, matrattenne il fiato e si fece tutto intento ad ascoltare, adascoltare non una voce che dicesse delle parole, ma la vocedell'anima che gli parlava dentro in un nuovo giro di pensieri.

«Che vuoi?» fu la prima cosa chiara che gliriuscì di udire espressa con parole.

«Che vuoi? che vuoi?», ripeteva la voce dentrodi lui. «Che voglio? Non soffrire, vivere», rispondeva egli. Dinuovo concentrò la sua attenzione al punto da non sentir quasi piùil dolore.

«Vivere? ma vivere come?», chiedeva la vocedell'anima.

«Vivere come son vissuto prima, bene,piacevolmente».

«E prima vivevi tu bene e piacevolmente?»,chiedeva la voce. Egli si mise a vagliare i migliori momenti dellasua piacevole vita. Ma, strana cosa, tutti questi migliori momentidella sua piacevole vita ora non gli sembravano più come gli eranosembrati allora. Tutti, meno i primi ricordi dell'infanzia. Là,nell'infanzia c'era qualcosa di così realmente lieto che valeva lapena di rivivere quei momenti se fosse potuto tornare indietro. Mal'essere che aveva potuto gustare quella gioia ora non esistevapiù: erano soltanto ricordi di un altro individuo.

Ma appena giungeva al periodo della sua vita, ilcui risultato era l'uomo di oggi, Ivan Ilijc vedeva che quelle cheallora erano sembrate gioie si tramutavano ai suoi occhi inqualcosa d'insulso, anzi di disgustoso.

E quanto più si allontanava dall'infanzia,quanto più si avvicinava al presente, tanto più insulse ed incerteerano quelle gioie. Il mutamento cominciava dalla scuola didiritto. Là c'era ancora qualcosa di veramente buono: là c'eraancora allegria, là c'era amicizia, là c'erano speranze. Ma nelleclassi superiori già questi buoni momenti erano più rari. Poi, neltempo in cui prima aveva prestato servizio presso il governatore,di nuovo apparivano alcuni buoni momenti: erano i ricordi del suoamore per la fidanzata. Poi tutto questo cambiò e diventò semprepeggio: e quanto più si andava avanti i buoni momenti erano piùrari.

Il matrimonio… delusioni e sgomento, e l'alitocattivo della moglie, e sensualità, e finzione! E quel lavorod'ufficio monotono, e quelle preoccupazioni di denaro, e così perun anno, e due, e dieci, e venti, e sempre lo stesso. E quanto piùsi andava avanti, più tutto era monotono. Come se io fossi discesoa poco a poco da una montagna immaginandomi di salire su di unamontagna. Così era. Nel mondo si aveva l'opinione che io salissisulla montagna, e invece la vita mi sfuggiva… Ed ecco ora sonopronto, muoio.

«Che cosa è mai questo? Perchè? Non può essere!Non può essere che la vita sia così insulsa, così bassa. E se ècosì bassa e insulsa perchè morire, e morire soffrendo? C'èqualcosa che non va.

«Forse non son vissuto come dovevo? – gli vennein mente a un tratto. – Ma come può essere se ho sempre fatto tuttociò che conveniva fare? – chiedeva a se stesso, ma subito scacciavada sè quest'unica spiegazione di tutta la bruttura della vita edella morte come qualcosa di assolutamente impossibile.

«Che cosa vuoi adesso? Vivere? Vivere come?Vivere come vivevi al tribunale, quando l'usciere annunziava: Entrala Corte? – Entra la Corte, la Corte entra, ripeteva fra sè. Eralui la Corte –. Ma io non ho alcuna colpa! – esclamò con rabbia.Colpa di che? Smise di piangere, e voltando il viso al muro si misea pensare a un'unica cosa: perchè, a che scopo tuttoquest'orrore?».

Ma per quanto pensasse non trovava una risposta.E quando gli veniva, come gli veniva spesso, il pensiero di nonesser vissuto come doveva, subito si ricordava tutta la correttezzadella sua vita e scacciava questo strano pensiero.

X.

Passarono ancora due settimane. Ivan Ilijc nonsi alzava più dal divano. Non voleva stare a letto e stava suldivano. E stava quasi tutto il tempo sdraiato, col viso rivolto almuro, e soffriva solo solo quelle indicibili torture, e solo soloripensava sempre gli stessi inesprimibili pensieri. «Che è questo?Ma è dunque vero che è la morte?». E una voce interna rispondeva:«Sì, è vero». «Perchè queste torture?». E la voce rispondeva:«Così, senza un perchè». E oltre a questo nulla.

Dal primo cominciare della malattia, dal tempoin cui per la prima volta era andato dal medico, la sua vita s'eradivisa in due opposti stati d'animo che si alternavano l'un conl'altro: ora era la disperazione, l'attesa della morteincomprensibile e tremenda: ora era la speranza, l'interessamentoche provocava in lui l'osservazione del funzionamento del propriocorpo; ora gli si metteva davanti agli occhi talvolta il rene,talvolta l'intestino che da tempo si rifiutavano a fare il loroobbligo; ora era soltanto l'idea della morte, tremenda eincomprensibile, che non si poteva evitare.

Questi due stati d'animo si alternavano fin dalprincipio della malattia: ma quanto più la malattia procedeva tantopiù incerta e fantastica diventava l'immagine del rene odell'intestino e tanto più reale la coscienza della morte che siavvicinava.

Bastava che pensasse a quello che era tre mesiprima e a quello che era adesso, che pensasse come a grado a gradodiscendeva dalla montagna, perchè fosse distrutta ogni possibilitàdi speranza.

In quegli ultimi tempi, nella solitudine in cuisi trovava, sdraiato col viso contro la spalliera del divano,solitudine nel centro di una città popolosa, fra i suoi molticonoscenti e fra la sua famiglia, solitudine della quale in nessunposto si sarebbe potuto avere una più completa, nè in fondo almare, nè sulla terra, in quegli ultimi tempi di quella orrendasolitudine, Ivan Ilijc viveva soltanto con l'immaginazione nelpassato. Uno dopo l'altro gli passavano davanti agli occhi i quadridel suo passato. Cominciava sempre col vedere quelli dei tempi piùprossimi ed era poi ricondotto ai più lontani, a quelli della suainfanzia e in quelli si fermava. La marmellata di susine nere cheora gli davano da mangiare gli rammentava le susine crude, quellesusine francesi, tutte grinzose, della sua infanzia, quel lorosapore particolare, e la saliva che gli veniva in bocca quandoarrivava al nocciolo: e questi ricordi dei sapori evocavano tuttauna serie di ricordi di quel tempo: la bambinaia, il fratello, igiocattoli. «No, non ci devo pensare… fa troppo male», diceva frasè Ivan Ilijc e di nuovo tornava al presente. I bottoni dellaspalliera del divano e le pieghe del marrocchino. «Il marrocchino ècostato molto e non dura niente: ci fu un litigio a questoproposito. Ma ci fu a proposito di un altro marrocchino un altrolitigio, quando lacerammo il portafogli del babbo e fummo castigatie la mamma poi venne a portarci i dolci». Di nuovo i suoi pensieritornavano all'infanzia e di nuovo Ivan Ilijc ne soffriva e sisforzava di scacciarli e di pensare ad altro.

E insieme a questo giro di ricordi, nella suamente sorgevano altri pensieri: come s'era aggravata, come eracresciuta la sua malattia. Più guardava indietro, più c'era vita.Più era buona la vita e più era intensa. Gioia e vita andavanoinsieme. «Come le mie sofferenze vanno sempre peggio e peggio, cosìtutta la vita va sempre peggio e peggio», pensava. Un solo puntoluminoso laggiù, al principio della vita, e poi sempre più nero,più nero e il tempo fuggiva sempre più veloce. «È in ragioneinversa del quadrato della distanza dalla morte», pensava IvanIlijc. E quest'immagine della pietra che cade giù con velocitàsempre aumentata gli si ficcò in mente. La vita, catena disofferenze sempre maggiori, precipita sempre più presto, più prestoverso la fine, la sofferenza suprema. «Io mi precipito… ».Trasaliva, si agitava, voleva resistere, ma già sapeva che eraimpossibile resistere, e con gli occhi stanchi dall'osservare mache non potevano non osservare ciò che stava davanti a lui,guardava la spalliera del divano, e aspettava aspettava quellatremenda caduta, l'urto, la distruzione. «È impossibile resistere»,pensava, «ma almeno si potesse capire il perchè. E anche questo èimpossibile. Si potrebbe spiegare se si dicesse che non son vissutocome si deve. Ma questo non si può ammettere», diceva fra sè,ricordandosi tutta la correttezza, la rettitudine, il decoro dellasua vita. «No, non si può ammettere», e sorrideva, come se qualcunopotesse veder quel sorriso ed esserne ingannato. «Nessunaspiegazione! Tormenti, morte… perchè?».

XI.

Così passarono due settimane. In questesettimane accadde il fatto desiderato da Ivan Ilijc e da suamoglie: Petricev fece la sua formale dichiarazione. Ciò accadde disera. Il giorno successivo Prascovia Fedorovna andò dal marito,pensando al modo di annunziargli la dichiarazione di FedorPetrovic, ma in quella stessa notte s'era fatto un nuovo mutamentoin peggio nello stato di Ivan Ilijc. Prascovia Fedorovna lo trovòsul solito divano, ma in una posizione differente. Giaceva supino,gemeva e teneva gli occhi fissi davanti a sè.

Essa cominciò a parlargli delle medicine. IvanIlijc portò il suo sguardo su di lei. Essa non finì di dire lafrase che aveva incominciata, tale era lo sdegno, specialmenteverso di lei, che traspariva in quello sguardo.

– Per amore di Cristo, lasciami morire in pace…– disse egli.

Essa voleva andarsene ma in quel momento entròla figlia e si avvicinò a salutare il padre. Egli guardò la figliacome aveva guardato la madre, e alla sua domanda sulla sua salutele disse seccamente che presto li avrebbe liberati tutti dalla suapresenza. Tutt'e due tacquero, stettero un poco ed uscirono.

– Ma in che cosa siamo colpevoli? – disse Lizaalla madre. – Come se il male glielo avessimo fatto venire noi!Papà mi fa pena, ma perchè ci tormenta così?

All'ora solita venne il dottore. Ivan Ilijc glirispondeva: «sì, no», senza toglier da lui il suo sguardo irritato,e alla fine disse:

– Lo sapete che non potete far nulla per me:sicchè lasciatemi stare.

– Possiamo alleviare le vostre sofferenze –disse il dottore.

– Non lo potete: lasciatemi stare.

Il dottore uscì nel salotto e dichiarò aPrascovia Fedorovna che si andava molto male e che l'oppio eral'unico mezzo di alleviare le sofferenze dell'infermo che dovevanoessere atroci.

Il dottore diceva che le sofferenze fisichedell'infermo dovevano essere atroci, e aveva ragione: ma più atrocidelle sue sofferenze fisiche erano le sofferenze morali, e in ciòconsisteva il suo tormento maggiore.

Le sue sofferenze morali provenivano da ciò: chenella notte, guardando il viso di Gherassim, insonnolito, bonario,dagli zigomi sporgenti, gli era a un tratto venuta in mentequest'idea: «Che avverrà se difatti tutta la mia vita, la mia vitacosciente, non è stata come doveva essere?».

Gli si affacciò al pensiero il dubbio che ciòche prima gli era parso assolutamente impossibile, cioè che la suavita non fosse stata come doveva essere, fosse invece la verità.Dubitò che quelle tentazioni di rivolta, appena percettibili,contro tutto ciò che le persone altolocate approvavano, quelletentazioni appena percettibili, che egli scacciava subito,potessero essere le sole cose buone della sua vita, e che tutto ilresto fosse biasimevole. E che la sua vita ufficiale e la sua vitaprivata e la sua famiglia, e i suoi interessi sociali e le sueoccupazioni di magistrato, tutto ciò potesse essere spregevole. Siprovò a difendere tutte queste cose innanzi a se stesso. E a untratto sentì tutta la debolezza dei suoi argomenti di difesa. Nonc'era nulla che si potesse difendere.

«E se è così – diceva fra sè – e io me ne vadodalla vita con la coscienza di aver rovinato tutto ciò che m'erastato dato, e che non c'è rimedio, allora, che farò?». Si mise agiacere supino e di nuovo esaminò tutta la sua vita. Quando vide,la mattina, il domestico, poi la moglie, poi la figlia, poi ildottore, ognuno dei loro gesti, ognuna delle loro parole gliconfermò la terribile verità che gli era apparsa nella notte. Inloro vedeva se stesso, vedeva tutto ciò per cui era vissuto, ecapiva chiaramente che nulla era stato come doveva essere, tuttoera stato un terribile, enorme inganno, che nascondeva la vita e lamorte. Questa convinzione aumentava, decuplicava le sue sofferenzefisiche. Si lamentava, si agitava, si strappava di dosso i vestiti.Aveva la sensazione che lo soffocassero, lo strangolassero. Eperciò odiava tutti.

Gli diedero una forte dose d'oppio e si calmò.Ma a desinare cominciò da capo. Scacciava via tutti e non potevastar fermo.

La moglie gli si avvicinò e disse:

– Jean, mia piccola colomba, fallo perme (per me?). Non ti può recar danno, ma spesso invece aiuta. Checos'è poi? Nulla. E a volta anche i sani…

Egli spalancò gli occhi.

– Che? I sacramenti? Perchè? No! Ma delresto…

Lei piangeva.

– Sì, amico mio? Chiamerò il nostro sacerdote. Ètanto buono!

– Va bene, va benissimo – proruppe egli.

Quando venne il sacerdote e lo confessò egli siraddolcì, si sentì come sollevato dai suoi dubbi e quindi dalle suesofferenze, ed ebbe un momento di speranza. Di nuovo cominciò apensare all'intestino cieco e alla possibilità di guarirlo. Sicomunicò con le lacrime agli occhi.

Quando, dopo la comunione, lo rimisero agiacere, per un istante stette meglio e di nuovo apparve lasperanza di vivere. Cominciò a ripensare all'operazione che gliavevano proposta. «Vivere, voglio vivere», diceva fra sè. La moglievenne a far le sue congratulazioni: disse le solite parole eaggiunse:

– È vero che ti senti meglio?

Senza guardarla, egli rispose: – Sì.

Il suo vestito, il suo atteggiamento,l'espressione del suo viso, il suono della sua voce, tutto glidiceva soltanto: «Non è così. Tutto ciò per cui sei vissuto e vivi,è menzogna, inganno, che ti nasconde la vita e la morte». E comepensava queste cose, risorgeva il suo odio e insieme con l'odiorisorgevano le atroci sofferenze fisiche, e con le sofferenze laconvinzione della prossima, inevitabile morte. Si produsse in luiqualcosa di nuovo: era come se una vergale gli forasse le viscere equalcuno gliele strappasse, e si sentì soffocare.

L'espressione del suo viso quando aveva detto«sì» era atroce. Nel pronunziare questo «sì», nel guardare drittoin viso alla moglie, si voltò e si mise supino, con una rapiditàinsolita, data la sua debolezza, e gridò:

– Andatevene, andatevene! Lasciatemi!

XII.

Da quel momento cominciarono quelle orribiligrida che durarono per tre giorni e che non si potevano udire senzaterrore da due stanze lontano. Fin dall'istante in cui avevarisposto «sì» alla moglie, aveva capito che era il precipizio, chenon c'era possibilità di ritorno, che era venuta la fine, propriola fine, e il dubbio non era stato risolto e restava sempredubbio.

– Oh! oh! oh! – gridava con diverse intonazioni.Cominciava a gridare: «Non voglio!» e così seguitava a gridare,appoggiando sull'o.

Per tutti quei tre giorni, dopo dei quali iltempo doveva cessare per lui, ebbe sempre la sensazione didibattersi dentro a quel sacco nero, in cui lo spingeva una forzainvisibile, irresistibile. Si dibatteva come si dibatte fra le manidel boia un condannato a morte, sapendo che non può sfuggirgli: ead ogni minuto sentiva che, malgrado tutti gli sforzi di quellalotta, si faceva sempre più vicino, più vicino a quel che era ilsuo spavento. Sentiva che le sue torture venivano daquell'affondare in quel buco nero, e soffriva specialmente per nonpoter affondarvi del tutto. E gl'impediva di affondarvi del tuttola convinzione che la sua vita era stata buona. Questagiustificazione della sua vita lo tratteneva, non lo lasciavaprecipitar giù, e più di tutto lo tormentava.

A un tratto una forza ignota lo colpì nel petto,nel fianco; il suo respiro si fece ancor più debole, e precipitònel buco nero, e là, nel fondo del buco, luccicava qualcosa. Gliaccadeva quel che accade quando si va in ferrovia, che si crede diandare avanti e si va indietro e a un tratto si capisce qual'è lavera direzione.

«Sì, non era questo – disse a se stesso – ma nonfa nulla. Si può, si può far questo». Ma che cosa è «questo?»chiese, e a un tratto si quietò.

Ciò accadde alla fine del terzo giorno, due oreprima della sua morte. In quel preciso momento suo figlio entròpian piano nella camera e si avvicinò al suo letto. Il moribondourlava sempre disperatamente e agitava le braccia. Una mano glicadde sulla testa del fanciullo. Il fanciullo la prese, se lastrinse alle labbra e cominciò a piangere.

In quel punto Ivan Ilijc si sentiva precipitaregiù e vedeva la luce e gli si rivelava che la sua vita non erastata quel che doveva essere, ma che ancora tutto si potevariparare. Egli chiedeva a sè stesso: «Ma che cosa è questo?», e siquietava, con l'orecchio teso ad ascoltare. Allora sentì chequalcuno gli baciava la mano. Aprì gli occhi e guardò il figlio.Gli prese pietà di lui. La moglie si avvicinava. La guardò. Essa,con la bocca aperta, col naso e le gote umidi di lacrime nonasciugate, con un'espressione di sgomento, lo guardava. Egli ebbepietà di lei.

«Sì, io li tormento», pensava. «Essi micompiangono, ma sarà meglio per loro quando io morrò». Avrebbevoluto dir questo ma non aveva la forza di parlare. «Del resto,perchè parlare? Bisogna agire», pensava. Con lo sguardo mostrò ilfanciullo alla moglie e disse:

«Conducilo via… mi fa pena… e anche tu mi faipena… ». Voleva anche dire: «Perdona», ma disse: «Èpassato[7]», e non avendo la forza di correggersi,fece un gesto con la mano sapendo che sarebbe capito.

E a un tratto gli fu chiaro dinanzi il problemache lo aveva tormentato: lo vide illuminarsi da due parti, da dieciparti, da tutte le parti. Aveva pietà di loro, bisognava fare inmodo che non soffrissero. Liberarli e liberarsi da quellesofferenze. «È così bello e così semplice», pensò. «E il dolore?Dov'è andato? Dove sei tu, dolore?».

Si fece attento.

«Eccolo. Ma che importa ora?».

«E la morte dov'è?».

Cercava il suo antico, solito terrore dellamorte e non lo trovava. Dov'è la morte? e che cosa è la morte? Nonesisteva più terrore perchè non esisteva più morte.

Invece della morte c'era la luce.

– Ecco che cos'è! – proruppe a un tratto ad altavoce. – Che gioia!

Tutto ciò accadde in un istante, ma ilsignificato di quell'istante non poteva più mutare. Per i presentil'agonia si protrasse ancora due ore. Si sentiva il suo rantolo, ilsuo corpo sfinito aveva dei sussulti. Poi il rantolo si fece sempremeno frequente.

– È finito! – disse qualcuno, chinandosi su dilui.

Egli udì quelle parole e le ripetette dentro disè. «È finita la morte», disse nel suo pensiero. «La morte nonesiste più».

Diede un respiro, ma rimase a metà del respiro,s'irrigidì e morì.