lunedì 19 agosto 2024

L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL’ESSERE Milan Kundera


 

L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL’ESSERE 

Milan Kundera 

 

Recensione 

Un romanzo dove la leggerezza citata nel titolo, ci ricorda che ogni nostra scelta, ogni nostra esistenza, è leggera, insignificante quasi, poiché momentanea e non impattante sull'equilibrio che il mondo ha. Un equilibrio del quale non ci accorgiamo, poiché concentrati unicamente sul senso della nostra vita, per noi estremamente pesante.

"L'assenza assoluta di un fardello fa sì che l'uomo diventi più leggero dell'aria, prenda il volo verso l'alto, si allontani dalla terra, dall'essere terreno, diventi solo a metà reale e i suoi movimenti siano tanto liberi quanto privi di significato.“

Amore, libertà, responsabilità, identità, sono tutti temi che si snodano durante la lettura offrendo spunti di riflessione sul significato della vita.


Recensione (Antonio Tabucchi)

C’è un concetto elementare che poniamo dentro di noi: che la vita è irripetibile. Ogni nostro istante, ogni nostra azione, ogni nostro gesto, insomma tutto ciò che ci è dato da vivere avviene una volta sola, non avverrà mai più. Eppure viviamo come se ciò fosse un concetto trascurabile, perché se provassimo a rifletterci mentre viviamo, la vita diventerebbe una paradossale nostalgia: la nostalgia del presente. Su questo concetto, insieme elementare e insostenibile, Milan Kundera ha scritto un intero romanzo, un grande romanzo. Un romanzo non è grande se non ha in sé almeno un’interrogazione metafisica. Interrogazione che non è incompatibile col realismo, come a volte si tende a credere, perché realismo e metafisica possono andare perfettamente d’accordo; anzi, più che il fantastico, che è la negazione della metafìsica, è spesso il reale che postula interrogativi metafisici, o che fa scattare quella metafisica del reale che il nostro secolo, a partire da Kafka e da Pirandello, ha visitato con i suoi autori maggiori. Kundera è appunto un romanziere realista e metafisico; di un realismo e di una metafisica estenuati e dolenti: e per questo capaci di lampi, di penose intuizioni, di apparizioni brucianti, di guizzi e di spasimi. Di colpi di coda, mi verrebbe da dire, come di un animale morente che sta lasciando il suo vecchio corpo e sotto i nostri occhi sta producendo un altro corpo a lui consanguineo e a noi sconosciuto, un essere vivente che gli esce dalle viscere e che si sta sostituendo a lui. Il romanzo di Kundera è infatti un testo in mutazione: non è più un romanzo ed è già un altro romanzo, non è tradizionale ma non è neppure quello che con un aggettivo un po’ logoro viene definito “sperimentale”.

Roman philosophique? Certo, ma non nell’accezione settecentesca del termine: L’insostenibile leggerezza dell’essere non è un romanzo moralistico e non è un romanzo sulla ragione, anche se parla di etica e di ragione (e di sentimenti). Se dovessi nominare un filosofo che presiede a questo libro farei il nome di Francis Bradley, del quale Borges ha scritto che “esclude l’avvenire e che riporta l’Attuale all’agonia del momento presente che si disintegra nel passato”. Fino dall’inizio il senso della finitudine congela le figure di questo romanzo in una luce livida, in una fissità da fotografia, nella dimensione dell’Irreversibile. “Sono già molti anni che penso a Tomài, ma soltanto alla luce di queste considerazioni l’ho visto con chiarezza. L’ho visto alla finestra del suo appartamento, gli occhi fissi al di là del cortile sul muro della casa di fronte, che non sa che cosa deve fare”. Le considerazioni del narratore riguardano l’idea dell’eterno ritorno e dell’inesistenza del ritorno, che si traducono nell’idea della leggerezza e della pesantezza e che introducono alla storia. Ma quando la storia comincia, quando cioè il narratore sorprende il suo personaggio alla finestra dell’appartamento, la storia è anche in qualche modo già conclusa. Noi non sappiamo perché, ma intuiamo che la vicenda che ci verrà raccontata è come una fotografia; una fotografia che, come ha detto Susan Sontag, è simultaneamente una pseudo-presenza e l’indicazione di un’assenza.

A metà del romanzo, per esempio, veniamo a sapere attraverso un altro personaggio che Tomài e Tereza sono già morti in un incidente: eppure la loro storia prosegue nel romanzo, essi continuano a vivere fatalmente per noi fino al momento in cui moriranno. La loro storia, già avvenuta, è irreversibile, la loro vita nella narrazione è solo una pseudo-presenza: essi sono un’assenza. Kundera durante il romanzo fa il nome di molti filosofi, da Parmenide a Scoto Eriugena a Nietzsche: manca tuttavia quello di Jankélévitch, il filosofo dell’irrevocabile e della nostalgia, che sono i concetti portanti dell’Insostenibile leggerezza dell’essere specialmente laddove il romanzo tocca, non solo con la storia, ma anche con le riflessioni extra-narrative dell’autore, temi come la resistenza all’irreversibile (il rallentamento del divenire, l’accelerazione del divenire, l’incomprensibilità del divenire), il consenso all’irreversibile (la libertà come potere a senso unico) e la questione dell’irrevocabile (l’attrazione dell’essere stato e del dover essere, la dizione della tautologia). Ha scritto Jankélévitch che “contro la tautologia ottusa, sorda e cieca, e soprattutto muta, protesta il paradosso della contraddizione”. Kundera ha un modo molto originale di definire il dover essere e la tautologia ottusa: il Kitsch. Egli definisce il Kitsch “un accordo categorico con l’essere”, la mancanza di paradosso e di contraddizione. In tal modo egli sposta il concetto di Kitsch dal piano estetico al piano ontologico, ne fa una vera e propria categoria dell’essere. Viene da pensare se nella visione di Kundera non ci sia un accordo un po’ troppo categorico con la sua stessa visione, il che gli potrebbe creare alcuni problemi, perché una teoria di questo genere mi pare plausibile purché essa preveda un margine di dubbio nei confronti di se stessa, insomma tolleri l’ironia e l’autoironia, altrimenti il problema cacciato dalla porta rischia di rientrare dalla finestra.


L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DELL’ESSERE 

PARTE PRIMA

LA LEGGEREZZA E LA PESANTEZZA

L'idea dell'eterno ritorno è misteriosa e con essa Nietzsche ha messo molti filosofi nell'imbarazzo: pensare che un giorno ogni cosa si ripeterà così come l'abbiamo già vissuta, e che anche questa ripetizione debba ripetersi all'infinito! Che significato ha questo folle mito?

Il mito dell'eterno ritorno afferma, per negazione, che la vita che scompare una volta per sempre, che non ritorna, è simile a un'ombra, è priva di peso, è morta già in precedenza, e che, sia stata essa terribile, bella o splendida, quel terrore, quello splendore, quella bellezza non significano nulla. Non occorre tenerne conto, come di una guerra fra due Stati africani del quattordicesimo secolo che non ha cambiato nulla sulla faccia della terra, benché trecentomila negri vi abbiano trovato la morte tra torture indicibili.

E anche in questa guerra fra due Stati africani del quattordicesimo secolo, cambierà qualcosa se si ripeterà innumerevoli volte nell'eterno ritorno?

Sì, qualcosa cambierà: essa diventerà un blocco che svetta e perdura, e la sua stupidità non avrà rimedio.

Se la Rivoluzione francese dovesse ripetersi all'infinito, la storiografia sarebbe meno orgogliosa di Robespierre. Dal momento, però, che parla di qualcosa che non ritorna, gli anni di sangue si sono trasformati in semplici parole, in teorie, in discussioni, sono diventati più leggeri delle piume, non incutono paura. C'è un’enorme differenza tra un Robespierre che si è presentato una sola volta nella storia e un Robespierre che torna eternamente a tagliare la testa ai francesi.

Diciamo quindi che l'idea dell'eterno ritornoindica una prospettiva dalla quale le cose appaiono in maniera diversa da come noi le conosciamo: appaiono prive della circostanza attenuante della loro fugacità.

Questa circostanza attenuante ci impedisce infatti di pronunciare un qualsiasi verdetto. Si può condannare ciò che è effimero? La luce rossastra del tramonto illumina ogni cosa con il fascino della nostalgia: anche la ghigliottina.

Or non è molto, mi sono sorpreso a provare una sensazione incredibile: stavo sfogliando un libro su Hitler e mi sono commosso alla vista di alcune sue fotografie: mi ricordavano la mia infanzia; io l'ho vissuta durante la guerra; parecchi miei familiari hanno trovato la morte nei campi di concentramento hitleriani; ma che cos'era la loro morte davanti a una fotografia di Hitler che mi ricordava un periodo scomparso della mia vita, un periodo che non sarebbe più tornato?

Questa riconciliazione con Hitler tradisce la profonda perversione morale che appartiene a un mondo fondato essenzialmente sull'esistenza del ritorno, perché in un mondo simile tutto è già perdonato e quindi tutto è cinicamente permesso.

Se ogni secondo della nostra vita si ripete un numero infinito di volte, siamo inchiodati all'eternità come Gesù Cristo alla croce. È un'idea terribile. Nel mondo dell'eterno ritorno, su ogni gesto grava il peso di una insostenibile responsabilità. Ecco perché Nietzsche chiamava l'idea dell'eterno ritorno il fardello più pesante ( das schwerste Gewicht).

Se l'eterno ritorno è il fardello più pesante, allora le nostre vite su questo sfondo possono apparire in tutta la loro meravigliosa leggerezza.

Ma davvero la pesantezza è terribile e la leggerezza è meravigliosa?

Il fardello più pesante ci opprime, ci piega, ci schiaccia al suolo. Ma nella poesia d'amore di tutti i tempi la donna desidera essere gravata dal fardello del corpo dell'uomo. Il fardello più pesante è quindi allo stesso tempo l'immagine del più intenso compimento vitale.

Quanto più il fardello è pesante, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tanto più è reale e autentica.

Al contrario, l'assenza assoluta di un fardello fa sì che l'uomo diventi più leggero dell'aria, prenda il volo verso l'alto, si allontani dalla terra, dall'essere terreno, diventi solo a metà reale e i suoi movimenti siano tanto liberi quanto privi di significato.

Che cosa dobbiamo scegliere, allora? La pesantezza o la leggerezza?

Questa domanda se l'era posta Parmenide nel sesto secolo avanti Cristo. Egli vedeva l'intero universo diviso in coppie di opposizioni: luce-buio, spesso-sottile, caldo-freddo, essere-non essere. Uno dei poli dell'opposizione era per lui positivo (la luce, il caldo, il sottile, l'essere), l'altro negativo. Questa suddivisione in un polo positivo e in uno negativo può apparirci di una semplicità puerile. Salvo in un caso: che cos'è positivo, la pesantezza o la leggerezza?

Parmenide rispose: il leggero è il positivo, il pesante è negativo.

Aveva ragione oppure no? Questo è il problema. Una sola cosa era certa: l'opposizione pesante-leggero è la più misteriosa e la più ambigua tra tutte le opposizioni.

3

Sono già molti anni che penso a Tomáš, ma soltanto alla luce di queste considerazioni l'ho visto con chiarezza. L'ho visto alla finestra del suo appartamento, gli occhi fissi al di là del cortile sul muro della casa di fronte, che non sa che cosa deve fare.

Aveva incontrato Tereza per la prima volta circa tre settimane prima in una piccola città della Boemia. Non erano stati insieme nemmeno un'ora. Lei lo aveva accompagnato alla stazione e aveva aspettato con lui fino al momento in cui era salito in treno. Dieci giorni dopo venne a trovarlo a Praga. Fecero l'amore subito, il giorno stesso. Quella notte le venne la febbre e rimase perciò l'intera settimana nel suo appartamento con l'influenza.

Egli provò allora un inspiegabile amore per quella ragazza quasi sconosciuta; gli sembrava che fosse un bambino che qualcuno aveva messo in una cesta spalmata di pece e affidato alla corrente di un fiume perché Tomáš lo tirasse sulla riva del suo letto.

Rimase da lui una settimana finché non fu guarita, poi tornò nella sua città, a duecento chilometri da Praga. E qui era giunto l'istante di cui parlavo e che vedo come la chiave della vita di Tomáš: egli è alla finestra, gli occhi fissi al di là del cortile sul muro della casa di fronte, e riflette:

Deve chiederle di tornare a Praga per sempre? È una responsabilità che lo spaventa.

Se adesso la invitasse a casa sua, lei verrebbe, per offrirgli tutta la sua vita.

Oppure non deve più sentirla? In tal caso, Tereza rimarrà una cameriera in un ristorante di provincia e lui non la rivedrà mai più.

Voleva o no che lei lo raggiungesse?

Guardava in cortile, gli occhi fissi sul muro di fronte, e cercava una risposta.

Ritornava sempre a vederla distesa sul suo divano; non gli ricordava nessuna persona della sua vita passata. Non era né un amante né una moglie. Era un bambino che lui aveva tirato fuori da una cesta spalmata di pece e aveva adagiato sulla riva del proprio letto. Si era addormentata. Lui le si inginocchiò accanto. Il respiro febbricitante si fece più rapido, si sentì un debole lamento. Appoggiò il viso a quello di lei e le sussurrò nel sonno parole rassicuranti. Dopo qualche istante gli parve che il respiro si fosse calmato e che il viso di lei si sollevasse meccanicamente verso il suo. Sentiva dalle sue labbra l'odore un po' acre della febbre e lo aspirò come se avesse voluto impregnarsi dell'intimità del suo corpo. Allora si immaginò che lei fosse lì da lui già da molti anni e che stesse morendo. All'improvviso ebbe la chiara sensazione che non sarebbe sopravvissuto alla sua morte. Le si sarebbe disteso accanto e avrebbe desiderato di morire insieme a lei. Premette il viso sul cuscino accanto alla sua testa e rimase così a lungo.

Adesso stava alla finestra e tornava con il respiro a quell'istante. Che altro poteva essere se non l'amore, che era venuto in quel modo da lui a farsi conoscere?

Ma era davvero l'amore? Quel voler morire accanto a lei era evidentemente un sentimento eccessivo: era solo la seconda volta in vita sua che la vedeva!

Non si trattava piuttosto dell'isteria di un uomo che, scoprendo nel profondo della sua anima la propria incapacità di amare, aveva cominciato a fingere l'amore con se stesso?

D'altra parte, il suo subconscio era tanto vigliacco da scegliere per la sua commedia quella povera cameriera di provincia che non aveva praticamente nessuna possibilità di entrare nella sua vita!

Guardava i muri sporchi del cortile e si rendeva conto di non sapere se fosse isteria o amore.

E gli dispiaceva che in una situazione simile, quando un vero uomo avrebbe saputo immediatamente come agire, lui esitava privando in tal modo l'istante più bello della sua vita (era in ginocchio al capezzale di lei e gli sembrava di non poter sopravvivere alla sua morte) del suo significato.

Se la prese con se stesso, ma alla fine si disse che in realtà era del tutto naturale non sapere quel che voleva.

Non si può mai sapere che cosa si deve volere perché si vive una vita soltanto e non si può né confrontarla con le proprie vite precedenti, né correggerla nelle vite future.

È meglio stare con Tereza o rimanere solo?

Non esiste alcun modo di stabilire quale decisione sia la migliore, perché non esiste alcun termine di paragone. L'uomo vive ogni cosa subito per la prima volta, senza preparazioni. Come un attore che entra in scena senza aver mai provato. Ma che valore può avere la vita se la prima prova è già la vita stessa? Per questo la vita somiglia sempre a uno schizzo. Ma nemmeno “schizzo” è la parola giusta, perché uno schizzo è sempre un abbozzo di qualcosa, la preparazione di un quadro, mentre lo schizzo che è la nostra vita è uno schizzo di nulla, un abbozzo senza quadro.

“Einmal ist keinmal”. Tomáš ripete tra sé il proverbio tedesco. Quello che avviene soltanto una volta è come se non fosse mai avvenuto. Se l'uomo può vivere solo una vita, è come se non vivesse affatto.

Ma poi un giorno, in una pausa tra due operazioni, l'infermiera gli disse che lo volevano al telefono. Nella cornetta sentì la voce di Tereza. Lo chiamava dalla stazione. Ne fu felice. Purtroppo per quella sera aveva già un impegno, e poté invitarla a casa sua soltanto per il giorno dopo. Come ebbe riattaccato, si rimproverò di non averle detto di andare da lui immediatamente. In effetti aveva ancora tempo per disdire l'appuntamento! Si immaginò quello che avrebbe fatto Tereza a Praga in tutte quelle trentasei ore prima del loro incontro ed ebbe voglia di mettersi in macchina e cercarla per le strade della città.

Lei arrivò la sera dopo, portava a tracolla una borsetta con una lunga cinghia, gli sembrò più elegante dell'ultima volta. In mano teneva un grosso libro. Era Anna Karenina di Tolstoj. Aveva un fare allegro, forse anche un po' chiassoso, e cercava di dargli l'impressione di essersi fermata da lui solo per caso, per via di una circostanza particolare: era a Praga per motivi professionali, forse (le sue risposte erano molto vaghe) per cercare un lavoro.

Rimasero poi distesi nudi e stanchi l'uno accanto all'altra sul divano. Era già notte. Le chiese dove stava, per accompagnarla in macchina. Lei gli rispose imbarazzata che doveva ancora trovare un albergo e che aveva la valigia al deposito bagagli della stazione.

Ancora il giorno prima lui aveva paura che, se l'avesse invitata a cena sua a Praga, lei sarebbe venuta a offrirgli la propria vita. Adesso, sentendo che aveva la valigia al deposito bagagli, si disse che in quella valigia c'era la sua vita e che lei l'aveva lasciata in deposito in attesa di potergliela offrire.

Salì con lei sulla macchina parcheggiata davanti a casa, andò alla stazione, ritirò la valigia (era grande ed esageratamente pesante) e la riportò a casa, insieme a Tereza.

Com'è che si era deciso così in fretta, quando era stato quasi due settimane a esitare, incapace anche solo di spedire una cartolina di saluti?

Ne era sorpreso lui stesso. Aveva agito contro i suoi principi. Dieci anni prima, quando si era separato dalla prima moglie, aveva vissuto il divorzio con la festosità che altri mettono nel celebrare il matrimonio. Aveva capito allora di non essere nato per vivere a fianco di una donna, di qualsiasi donna, e che soltanto da scapolo poteva essere pienamente se stesso. Si era adoperato quindi per costruire il sistema della sua vita in modo tale che nessuna donna si sarebbe mai più potuta installare da lui con la valigia.

Per questo nel suo appartamento c'era un solo divano. Benché fosse un divano sufficientemente ampio, Tomáš dichiarava alle proprie amanti di non essere capace di prendere sonno nello stesso letto con un'altra persona, e dopo mezzanotte le riaccompagnava tutte a casa. Del resto, quando Tereza era stata da lui per la prima volta con l'influenza, non aveva dormito mai insieme a lei. La prima notte l'aveva passata in una grande poltrona, le altri notti era andato nel suo studio all'ospedale dove aveva un sofà che usava nei turni di notte.

Questa volta, però, si addormentò accanto a lei. Al mattino, quando si svegliò, si accorse che Tereza, ancora addormentata, gli stringeva una mano. Si erano tenuti così per mano tutta la notte? Gli sembrava poco credibile.

Lei respirava profondamente nel sonno, lo teneva per mano (una stretta salda, non riuscì a liberarsene) e la valigia esageratamente pesante era accanto al divano.

Non osava liberare la mano dalla sua stretta per paura di svegliarla, e con molta cautela si voltò su un fianco per poterla osservare meglio.

Di nuovo gli venne fatto di pensare che Tereza era un bambino messo da qualcuno in una cesta spalmata di pece e affidato alla corrente. Non si può certo lasciare che una cesta con dentro un bambino vada alla deriva sulle acque agitate di un fiume! Se la figlia del Faraone non avesse tratto dalle acque la cesta col piccolo Mosè, non ci sarebbero stati l'Antico Testamento e tutta la nostra civiltà! Quanti miti antichi hanno inizio con qualcuno che salva un bambino abbandonato! Se Polibo non avesse accolto presso di sé il giovane Edipo, Sofocle non avrebbe scritto la sua tragedia più bella!

Tomáš allora non si rendeva conto che le metafore sono una cosa pericolosa. Con le metafore è meglio non scherzare. Da una sola metafora può nascere l'amore.

Con la prima moglie non aveva vissuto neanche due anni e ne aveva avuto un figlio.

Nella causa di divorzio, il tribunale aveva affidato il bambino alla madre e aveva ordinato a Tomáš di pagar loro un terzo del suo stipendio. Gli aveva anche concesso di vedere il figlio ogni due settimane.

Ma ogni volta che doveva andare a trovarlo, la madre accampava qualche scusa. Se avesse portato loro dei regali costosi, gli sarebbe stato certo più facile vederlo. Capì che per avere l'amore del figlio avrebbe dovuto pagare la madre, e in anticipo. Si immaginava un futuro di sforzi donchisciotteschi per inculcare nel figlio le proprie idee che, sotto ogni riguardo, erano l'opposto di quelle della madre. Il solo pensiero già lo spossava. Quando una Domenica la madre gli annullò ancora una volta all'ultimo momento un incontro con il figlio, decise d'impulso che non l'avrebbe mai più visto.

Perché, poi, avrebbe dovuto sentire per quel bambino, al quale nulla lo legava all'infuori di una notte imprudente, più affetto che per un altro? Avrebbe pagato ciò che doveva scrupolosamente, ma che non gli venissero a chiedere di lottare per avere diritto al figlio in nome di un qualche sentimento paterno!

Naturalmente nessuno era disposto ad accettare un ragionamento simile. I suoi stessi genitori lo condannarono e dichiararono che se Tomáš rifiutava di interessarsi di suo figlio, anche loro, i genitori di Tomáš, avrebbero smesso di interessarsi del proprio. Mantenendo quindi rapporti ostinatamente buoni con la nuora, vantandosi tutt'in giro del loro comportamento esemplare e del loro senso di giustizia.

Così, in poco tempo, Tomáš riuscì a liberarsi di una moglie, di un figlio, di una madre e di un padre.

Gli era rimasta soltanto la paura delle donne. Le desiderava ma lo spaventavano. Tra la paura e il desiderio dovette crearsi una sorta di compromesso: lui lo indicava con le parole

“amicizia erotica”. Alle proprie amanti dichiarava: soltanto un rapporto non sentimentale, quando un partner non accampa pretese sulla vita e la libertà dell'altro, può portare la felicità a entrambi.

Per avere la certezza che l'amicizia erotica non avrebbe mai raggiunto l'aggressività dell'amore, si incontrava con ciascuna delle sue amanti fisse soltanto a intervalli molto lunghi. Questo metodo lo considerava perfetto e lo propagandava tra gli amici: “È necessario attenersi alla regola del tre. Si può vedere la stessa donna a intervalli ravvicinati, ma in questo caso mai più di tre volte. Oppure si può avere un rapporto con lei per molti anni, a condizione però che tra un incontro e l'altro, passino almeno tre settimane”.

Questo sistema dava a Tomáš la possibilità di non rompere con le amanti fisse e di avere, allo stesso tempo, una notevole quantità di amanti non fisse. Non sempre veniva capito. Di tutte le amiche, quella che lo capiva meglio era Sabina. Sabina era pittrice. Gli diceva: “Tu mi piaci perché sei l'esatto contrario del Kitsch. Nel regno del Kitsch saresti un mostro. Non esiste nessuna sceneggiatura di film americano o russo nella quale tu potresti esistere altrimenti che come esempio negativo”.

Fu a Sabina che si rivolse quando ebbe bisogno di trovare un lavoro a Praga per Tereza. Come esigevano le regole non scritte dell'amicizia erotica, lei gli promise che avrebbe fatto quanto poteva e di lì a poco infatti scoprì un posto nel laboratorio fotografico di un settimanale illustrato. Il lavoro non richiedeva particolari qualifiche, però innalzò Tereza dallo status di semplice cameriera alla corporazione dei lavoratori dell'informazione.

Quando Sabina stessa presentò Tereza a tutta la redazione, Tomáš si disse che non aveva mai avuto un'amica migliore di lei.

L'accordo non scritto dell'amicizia erotica presupponeva che Tomáš escludesse l'amore dalla propria vita. Nell'istante in cui fosse venuto meno a questa condizione, le altre sue amanti si sarebbero ritrovate in una posizione subalterna e si sarebbero ribellate.

Procurò dunque a Tereza un subaffitto nel quale lei dovette portare la sua pesante valigia. Voleva vegliare su di lei, proteggerla, desiderare la sua presenza, ma non sentiva alcun bisogno di cambiare il proprio modo di vivere. Non voleva perciò che si sapesse che Tereza dormiva da lui. Il dormire insieme era infatti il corpo del reato dell'amore.

Con le altre donne non dormiva mai. Quando andava da loro era facile; poteva venire quando voleva. Il peggio era quando venivano loro a casa sua e lui doveva spiegare che dopo mezzanotte le avrebbe accompagnate a casa perché soffriva di insonnia e non poteva addormentarsi se aveva di fianco un'altra persona. Questo non era lontano dalla verità, ma il motivo principale era meno nobile e non osava confessarlo alle sue amiche: nell'istante che seguiva l'amore, provava un invincibile desiderio di rimanere solo; svegliarsi in piena notte al fianco di un essere estraneo gli era fastidioso; alzarsi al mattino insieme a un altro lo disgustava; non desiderava che qualcuno lo sentisse lavarsi i denti in bagno, e l'intimità di una colazione a due non lo attirava.

Per questo fu così sorpreso quando si svegliò e Tereza gli teneva saldamente la mano.

La guardava e faticava a capire quello che gli era accaduto. Ripensava alle ore appena trascorse e gli sembrava che da esse si effondesse il profumo di una qualche sconosciuta felicità.

Da allora entrambi aspettavano con gioia il momento di dormire insieme. Mi verrebbe quasi da dire che per loro la meta dell'amore non era il piacere bensì il sonno che ne seguiva. Lei soprattutto non riusciva a dormire senza di lui. Se le accadeva di restare sola nella sua stanza in affitto (che stava ormai diventando un semplice alibi), non riusciva a prender sonno l'intera notte. Tra le sue braccia, anche al massimo dell'agitazione, si addormentava sempre. Lui le sussurrava favole che inventava per lei, piccole sciocchezze, parole che ripeteva monotonamente, rassicuranti o scherzose. Quelle parole si mutavano in lei in visioni confuse che l'accompagnavano nel primo sonno. Lui aveva pieno potere sul suo sonno e lei si addormentava nell'istante che lui aveva stabilito.

Quando dormivano, lei lo teneva come la prima notte: Quando lui voleva scostarsi senza svegliarla, doveva usare l'astuzia. Liberava il dito (il polso, la caviglia) dalla sua stretta, cosa che ogni volta la svegliava a metà, perché anche nel sonno lei lo sorvegliava attentamente. Per calmarla, le faceva scivolare nella mano, al posto del proprio polso, un oggetto qualsiasi (un pigiama arrotolato, una pantofola, un libro) che lei poi stringeva con forza come fosse stato una parte del corpo di lui.

Una volta che l'aveva appena addormentata e lei era nell'anticamera del primo sonno e poteva quindi ancora rispondere alle sue domande, le disse: “Bene. Ora me ne vado”.

“Dove?” chiese lei. “Via” rispose Tomáš con voce severa. “Vengo con te!” disse lei tirandosi su a sedere. “No, non puoi. Me ne vado per sempre” disse lui, e passò dalla camera all'ingresso. Lei si alzò e lo seguì, strizzando gli occhi. Aveva indosso una camicia da notte corta, senza nient'altro sotto. Il suo volto era immobile, senza espressione, ma i suoi movimenti erano energici. Dall'ingresso lui uscì nel corridoio (il corridoio in comune con gli altri inquilini) e le chiuse la porta in faccia. Lei aprì con gesto brusco e lo seguì, convinta nel suo dormiveglia che lui volesse andar via per sempre e che lei dovesse trattenerlo. Lui scese le scale fino al primo pianerottolo e si fermò ad aspettarla. Lei lo raggiunse, lo prese per mano e lo riportò con sé a letto.

Tomáš si diceva: fare l'amore con una donna e dormire con una donna sono due passioni non solo diverse ma quasi opposte. L'amore non si manifesta col desiderio di fare l'amore (desiderio che si applica a una quantità infinita di donne) ma col desiderio di dormire insieme (desiderio che si applica a un'unica donna).

Nel bel mezzo della notte lei cominciò a lamentarsi nel sonno. Tomáš la svegliò ma, al vedere la sua faccia, lei disse con odio: “Va' via! Va' via”. Poi gli raccontò il suo sogno: erano tutti e due in qualche posto, con Sabina, in un salone enorme. Al centro c'era un letto, come il palcoscenico di un teatro. Tomáš le aveva ordinato di rimanere in un angolo e poi, davanti a lei, aveva fatto l'amore con Sabina. Quella vista le procurava una sofferenza insopportabile. Per far tacere il dolore dell'anima col dolore del corpo, si infilava degli aghi sotto le unghie. “Faceva una male terribile” disse, chiudendo le mani a pugno, come se fossero davvero ferite.

Lui la strinse a sé e lei a poco a poco (tremando ancora a lungo) si addormentò tra le sue braccia.

Quando il giorno dopo lui ripensò a quel sogno, si ricordò di una cosa. Aprì la scrivania e ne estrasse un pacchetto di lettere che gli aveva scritto Sabina.

Non ci mise molto a trovare questo brano: “Vorrei fare l'amore con te nel mio studio, come su un palcoscenico. E con intorno molte persone, che non avrebbero il permesso di avvicinarsi di un solo passo. Ma non potrebbero toglierci gli occhi di dosso…”.

La cosa peggiore era che la lettera era datata. Era una lettera recente, scritta quando Tereza già da tempo abitava da Tomáš.

“Sei andata a rovistare tra le mie lettere!” l'assalì.

Senza negare lei disse: “E allora cacciami via!”.

Lui però non la cacciò via. Se la vedeva davanti agli occhi, addossata al muro dello studio di Sabina, che si infilava gli aghi sotto le unghie. Prese tra le mani le sue dita, le accarezzò, le avvicinò alle labbra e le baciò come se portassero ancora tracce di sangue.

Ma da allora fu come se ogni cosa cospirasse contro di lui. Quasi non passava giorno che lei non venisse a scoprire qualcosa di nuovo sui suoi amori clandestini.

All'inizio lui negava tutto. Quando le prove furono troppo evidenti, cercò di dimostrare che la sua vita poligama non era affatto in contrasto con il suo amore per lei, Non era coerente: in certi momenti negava le proprie infedeltà, in altri cercava di giustificarle.

Una volta, alla fine di una telefonata a una donna per fissare un appuntamento, sentì dalla camera accanto uno strano suono, come uno sbattere di denti.

Era venuta da lui per caso, a sua insaputa. Aveva in mano una boccetta di calmante, se la stava versando in bocca, e il tremito della mano faceva urtare il vetro contro i denti.

Si lanciò verso di lei, come per salvarla da un annegamento. La boccetta della valeriana cadde a terra e macchiò il tappeto. Lei si dibatteva, voleva liberarsi e lui dovette tenerla stretta per un quarto d'ora come in una camicia di forza prima di riuscire a calmarla.

Sapeva di trovarsi in una situazione ingiustificabile perché fondata su una totale disuguaglianza.

Molto prima che lei avesse scoperto la sua corrispondenza con Sabina, erano andati tutti e due in un locale notturno insieme ad alcuni amici. Festeggiavano il nuovo lavoro di Tereza. Al settimanale l'avevano promossa da tecnico di laboratorio a fotografa. Poiché a lui non piaceva ballare, di Tereza si occupò un suo giovane collega di ospedale. Sulla pista i due si muovevano magnificamente e Tereza gli sembrava più bella che mai. Stupiva al veder con quanta precisione e quanta docilità essa anticipasse di una frazione di secondo il volere del suo compagno. Quel ballo sembrava proclamare che la sua deduzione, quel desiderio entusiasta di fare ciò che leggeva negli occhi di Tomáš, non era necessariamente legato alla persona di Tomáš, e che lei anzi era pronta a rispondere al richiamo di qualsiasi altro uomo incontrato al suo posto. Non c'era niente di più facile dell'immaginarsi Tereza e il suo giovane collega come amanti. E proprio la facilità di questa fantasia lo feriva. Si rese conto che il corpo di Tereza era perfettamente pensabile stretto a qualsiasi corpo maschile e l'idea lo mise di cattivo umore. Soltanto la notte tardi, quando ritornarono a casa, le confessò di essere geloso.

Quell'assurda gelosia, fondata su una possibilità puramente teorica, era la prova che lui considerava la fedeltà di Tereza un postulato intangibile. Ma allora, come poteva prendersela se lei era gelosa delle sue amanti fin troppo reali?

Di giorno lei si sforzava (pur riuscendovi solo in parte) di credere a quello che Tomáš

diceva e di essere allegra com'era stata fino ad allora. Ma la gelosia tenuta a freno durante il giorno si manifestava tanto più violentemente nei suoi sogni che finivano tutti in un lamento che poteva zittire solo svegliandola.

I sogni si ripetevano come temi con variazioni o come le puntate di un telefilm. Le capitava spesso, ad esempio, di sognare gatte che saltavano sul viso e le affondavano gli artigli nella pelle. Noi ne possiamo dare una spiegazione abbastanza facile: in ceco, “gatta” è un espressione gergale per indicare una bella donna. Tereza si vedeva minacciata dalle donne, da tutte le donne. Tutte le donne erano potenziali amanti di Tomáš e lei ne aveva paura.

In un altro ciclo di sogni, era mandata a morire. Una volta che lui l'aveva svegliata in piena notte urlante dal terrore, gli aveva raccontato: “C'era una grande piscina coperta.

Eravamo una ventina. Solo donne. Eravamo tutte quante nude e dovevamo marciare attorno alla piscina. Dal soffitto pendeva un cesto con dentro un uomo. Aveva un cappello a falde larghe che gli nascondeva il viso, ma io sapevo che eri tu. Ci davi ordini. Urlavi. Marciando dovevamo cantare e fare flessioni. Se una faceva male una flessione, tu le sparavi con una pistola e lei cadeva morta nella piscina. E allora tutte scoppiavano a ridere e cantavano a voce ancora più alta. E tu non ci toglievi gli occhi di dosso e non appena una di noi faceva qualcosa di sbagliato, le sparavi. La piscina era piena di cadaveri che galleggiavano a fior d'acqua. E io sapevo di non avere più la forza di fare la flessione successiva e che ti mi avresti uccisa!”.

Un terzo ciclo di sogni raccontava di lei morta.

Stava distesa in un carro funebre grande come un camion per traslochi. Attorno a lei non c'erano che donne morte. Ce n'erano così tante che lo sportello posteriore doveva rimanere aperto e molte gambe penzolavano fuori.

Tereza urlava: “Ma io non sono morta! Ho ancora tutte le mie sensazioni!”.

“Anche noi le abbiamo” ridevano i cadaveri.

Ridevano con la stessa identica risata delle donne vive che un tempo le dicevano allegramente che era normalissimo, che lei avrebbe avuto i denti guasti, le ovaie malate e le rughe, perché anche loro avevano i denti guasti, le ovaie malate e le rughe. Con la stessa risata adesso le spiegavano che era morta e che andava tutto benissimo!

Poi. all'improvviso, le era venuta voglia di orinare. Aveva gridato: “Ma io ho voglia di far pipì! Questa è la prova che sono morta!”.

E loro avevano riso di nuovo: “È normale che tu abbia voglia di far pipì! Tutte queste sensazioni ti rimarranno ancora a lungo. È come quelli a cui amputano una mano, che la sentono ancora per molto tempo. Noi non abbiamo più pipì eppure continuiamo ad avere voglia di pisciare”.

Tereza si strinse a Tomáš nel letto: “E mi davano tutte del tu come se mi conoscessero da sempre, come se fossero state vecchie amiche, e io ero terrorizzata al pensiero di dover stare con loro per sempre!”.

Tutte le lingue che derivano dal latino formano la parola compassione col prefisso

“com-” e la radice passio che significa originariamente “sofferenza”. In altre lingue, ad esempio in ceco, in polacco, in tedesco, in svedese, questa parola viene tradotta con un sostantivo composto da un prefisso con lo stesso significato seguito dalla parola

“sentimento” (in ceco: soucit; in polacco: wspóƒ-czucie; in tedesco: Mit-gefühl; in svedese: med-känsla).

Nelle lingue derivate dal latino, la parola compassione significa: non possiamo guardare con indifferenza le sofferenze altrui; oppure: partecipiamo al dolore di chi soffre.

Un'altra parola dal significato quasi identico, pietà (inglese pity, francese pitié, ecc.) suggerisce persino una sorta di indulgenza verso colui che soffre. Aver pietà di una donna significa che siamo superiori a quella donna, che ci chiniamo, ci abbassiamo al suo livello.

È per questo che la parola compassione generalmente ispira diffidenza; designa un sentimento ritenuto mediocre, di second'ordine, che non ha molto a che vedere con l'amore.

Amare qualcuno per compassione significa non amarlo veramente.

Nelle lingue che formano la parola compassione non dalla radice “sofferenza”

passio) bensì dal sostantivo “sentimento”, la parola viene usata con un significato quasi identico, ma non si può dire che indichi un sentimento cattivo o mediocre. La forza nascosta della sua etimologia bagna la parola di una luce diversa e le dà un senso più ampio: avere compassione (co-sentimento) significa vivere insieme a qualcuno la sua disgrazia, ma anche provare insieme a lui qualsiasi altro sentimento; gioia, angoscia, felicità, dolore.

Questa compassione (nel senso di soucitwspòtczucieMitgefühlmedkänsla) designa quindi la capacità massima di immaginazione affettiva, l'arte della telepatia delle emozioni.

Nella gerarchia dei sentimento è il sentimento supremo.

Quando Tereza aveva sognato di infilarsi gli aghi sotto le unghie, si era tradita, rivelando così a Tomáš di aver frugato di nascosto nei suoi cassetti. Se glielo avesse fatto un'altra donna, lui non le avrebbe mai più rivolto la parola. Tereza lo sapeva e perciò gli aveva detto: “Cacciami via!”. Ma lui non solo non l'aveva cacciata via, ma le aveva preso la mano e le aveva baciato la punta delle dita, perché in quell'istante sentiva lui stesso il dolore sotto le unghie di lei, come se i nervi delle dita di Tereza fossero collegati direttamente al suo cervello.

Chi non possiede il dono diabolico della compassione (co-sentimento), non può che condannare freddamente il comportamento di Tereza, perché la vita privata dell'altro è sacra e i cassetti con la sua corrispondenza intima non si aprono. Ma dal momento che la compassione era diventata il destino (o la maledizione) di Tomáš, gli sembrava di essere stato lui stesso a inginocchiarsi davanti al cassetto aperto della scrivania e a non poter distogliere gli occhi dalle frasi scritte da Sabina. Egli capiva Tereza e non solo era incapace di arrabbiarsi con lei, ma le voleva ancor più bene.

I gesti di lei diventavano bruschi e scomposti. Erano passati due anni da quando aveva scoperto i suoi tradimenti ed era sempre peggio. Non c'era via d'uscita.

Ma davvero lui non poteva rinunciare alle sue amiche erotiche? No, non poteva. Ne sarebbe stati distrutto. Non aveva la forza di dominare il suo appetito di altre donne. E poi, gli pareva superfluo. Nessuno meglio di lui sapeva che le sue avventure non minacciavano affatto Tereza. Perché avrebbe dovuto rinunciarvi? Gli sembrava tanto assurdo quanto rinunciare ad andare allo stadio.

Ma si poteva ancora parlare di gioia? Già nel momento in cui usciva per andare da qualcuna delle sue amanti, ne sentiva disgusto e si riprometteva di vederla per l'ultima volta.

Aveva davanti agli occhi l'immagine di Tereza e, per non pensare a lei, doveva ubriacarsi in fretta. Da quando l'aveva conosciuta non poteva fare l'amore con le altre donne senza l'alcool!

Ma proprio l'alito che sapeva di alcool era la traccia che permetteva a Tereza di accertare ancora più facilmente i suoi tradimenti.

La trappola si era chiusa dietro di lui: nel momento in cui andava da loro, non ne aveva più voglia, ma bastava che rimanesse un solo giorno lontano e già faceva un numero per organizzare un incontro.

Il posto in cui stava meglio era ancora da Sabina perché sapeva che lei era discreta e non doveva aver paura di essere tradito. Il suo studio lo accoglieva come un ricordo della sua vita passata, dell'idilliaca vita dello scapolo.

Forse non si rendeva conto lui stesso di quanto fosse cambiato: aveva paura di tornare a casa tardi perché lì c'era Tereza ad aspettarlo. Una volta Sabina si era addirittura accorta che lui guardava l'orologio mentre facevano l'amore e cercava di accelerarne la fine.

Poi, muovendosi pigramente, ancora nuda, per lo studio, si era fermata davanti a un quadro non finito sul cavalletto e aveva guardato di sbieco Tomáš che si stava rivestendo frettolosamente.

Lui fu pronto in breve, salvo che per un piede nudo. Si guardò attorno, poi si mise carponi, a cercare qualcosa sotto al tavolo.

Lei disse: “Quando ti guardo, ho la sensazione che tu ti stia trasformando nell'eterno tema dei miei quadri. L'incontro di due mondi. Una doppia esposizione. Dietro i contorni del Tomáš-libertino traspare il viso incredibile dell'innamorato romantico. Oppure il contrario: attraverso la figura del Tristano che pensa solo alla sua Tereza, si vede il bel mondo tradito del libertino”.

Tomáš si era alzato e ascoltava distrattamente le parole di Sabina.

“Cosa cerchi?” gli chiese lei.

“Un calzino”.

Ispezionarono insieme la stanza, poi lui si mise di nuovo carponi e ricominciò a cercare sotto al tavolo.

“Qui il tuo calzino non c'é” disse Sabina. “Sarai venuto senza”.

“Come sarebbe, senza!” gridò Tomáš, guardando l'orologio. “Non sono certo venuto con un calzino solo!”.

“Non è escluso. In questi ultimi tempi sei molto distratto. Hai sempre fretta, guardi l'orologio, non c'è da meravigliarsi se ti dimentichi di mettere un calzino”.

Lui era già deciso a infilarsi la scarpa sul piede nudo.

“Fa freddo fuori” disse Sabina. “Ti presto una calza mia!”.

Gli tese una lunga calza bianca a rete, all'ultima moda.

Lui sapeva benissimo che era una vendetta per aver guardato l'orologio mentre stavano facendo l'amore.

Lei aveva nascosto il calzino da qualche parte. Faceva davvero freddo fuori, e non gli restava che arrendersi. Uscì di casa con un calzino su un piede e sull'altro una calza bianca da donna arrotolata alla caviglia.

La sua situazione non aveva via d'uscita: agli occhi delle sue amanti era segnata dal marchio ignominioso del suo amore per Tereza, a quelli di Tereza dal marchio ignominioso delle avventure con le sue amanti.

Per diminuire la sua sofferenza la sposò (poterono finalmente disdire il subaffitto dove lei non abitava ormai da tempo) e le procurò un cucciolo.

La madre era il sanbernardo di un suo collega. Il padre era il cane lupo del vicino. I piccoli bastardi non li voleva nessuno e al collega dispiaceva ucciderli.

Tomáš, scegliendo tra i cuccioli, sapeva che quelli che non avrebbe scelto sarebbero dovuti morire. Si sentiva come un presidente della repubblica davanti a quattro condannati a morte, con la possibilità di graziarne uno soltanto. Alla fine si decise: scelse una femmina, che nel corpo gli ricordava il cane lupo e nella testa la madre, il sanbernardo. Lo portò a Tereza. Lei alzò il cagnolino, se lo strinse al petto e quello le bagnò subito la camicetta.

Poi gli cercarono un nome. Tomáš voleva che anche dal nome fosse chiaro che il cane apparteneva a Tereza, e si ricordò del libro che lei stringeva sotto il braccio quando era arrivata a Praga senza preavviso.

Propose di chiamare il cucciolo Tolstoj.

“Non può chiamarsi Tolstoj,” obiettò Tereza “è una femminuccia. Può chiamarsi Anna Karenina”.

“Non può chiamarsi Anna Karenina, nessuna donna può avere un musetto buffo come questo” disse Tomáš. “Karenin, piuttosto. Sì, Karenin. Me lo sono sempre immaginato proprio così.

“Ma chiamarla Karenin non turberà la sua sessualità?”.

“È possibile” disse Tomáš “che una cagna che i padroni chiamano continuamente con il nome di un cane sviluppi tendenze lesbiche”.

Le parole di Tomáš curiosamente si avverano. Benché in genere le cagne si affezionano di più ai padroni che alle padrone, con Karenin avvenne il contrario. Decise di innamorarsi di Tereza. Tomáš gliene fu riconoscente. Gli accarezzava la testolina e gli diceva: “Fai bene, Karenin. Era proprio quello che volevo da te. Visto che io solo non basto, devi aiutarmi tu”.

Ma nemmeno con l'aiuto di Karenin riuscì a farla felice. Se ne rese conto una decina di giorni dopo che il suo paese fu occupato dai carri armati russi. Era l'agosto del 1968, Tomáš riceveva ogni giorno telefonate da una clinica di Zurigo. Il direttore della clinica, con il quale Tomáš aveva fatto amicizia durante un congresso internazionale, temeva per la sua morte e gli offriva un posto.

Se Tomáš aveva rifiutato senza un attimo di esitazione l'offerta del medico svizzero, era stato a causa di Tereza. Pensava che lei non sarebbe voluta partire. Del resto, i primi sette giorni dell'occupazione lei li aveva passati in una specie di trance che somigliava quasi alla felicità. Girava per le strade con la macchina fotografica e distribuiva le sue pellicole ai giornalisti stranieri, che se le contendevano. Un giorno che esagerò in temerarietà e fotografò da vicino un ufficiale che puntava la pistola contro un gruppo di persone, l'arrestarono e la tennero tutta la notte al quartier generale russo. Minacciarono di fucilarla, ma non appena la rilasciarono, lei tornò di nuovo per le strade a fotografare.

Per questo Tomáš fu sorpreso quando il decimo giorno dell'occupazione lei gli disse:

“Perché poi non vuoi andare in Svizzera?”.

“E perché ci dovrei andare?”.

“Qui hanno dei conti in sospeso con te”.

“Con chi non li hanno?” ribatté Tomáš con un gesto della mano. “Ma tu piuttosto: riusciresti a vivere all'estero?”.

“Perché no?”.

“Ti ho vista pronta a rischiare la vita per questo paese, come puoi abbandonarlo ora?”.

“Da quando Dub⎝ek è tornato, è cambiato tutto” disse Tereza.

Era la verità: l'euforia generale era durata soltanto i primi sette giorni dell'occupazione. I rappresentanti della nazione ceca erano stati portati via dall'esercito russo come criminali, nessuno sapeva dove fossero, tutti tremavano per la loro vita, e l'odio verso i russi stordiva la gente come alcool. Era l'ebbra festa dell'odio. Le città ceche erano coperte da migliaia di manifesti dipinti a mano con scritte di scherno, epigrammi, poesie, caricature di Breznev e del suo esercito del quale tutti ridevano come di un circo di analfabeti. Nessuna festa, però, può durare in eterno. Nel frattempo, i russi avevano costretto i rappresentanti cechi sequestrati a firmare a Mosca un compromesso. Dub⎝ek ritornò con esso a Praga e lesse alla radio il suo discorso. Dopo sei giorni di prigionia era così distrutto che non riusciva a parlare, balbettava, boccheggiava, a metà delle frasi faceva pause interminabili che duravano quasi mezzo minuto.

Il compromesso salvò il paese dal peggio: dalle esecuzioni e dalle deportazioni in massa in Siberia che terrorizzavano tutti. Una cosa, però, fu subito chiara: la Boemia si sarebbe dovuta piegare davanti al conquistatore. Ormai avrebbe per sempre balbettato, tartagliato, boccheggiato come Alexandr Dub⎝ek. La festa era finita. Era giunto il giorno feriale dell'umiliazione.

Tutto questo per Tereza lo spiegò a Tomáš e lui sapeva che era vero, ma che sotto quella verità si nascondeva un altro motivo, ancora più fondamentale, che spingeva Tereza ad andare via da Praga: prima di allora non era mai stata felice.

I giorni più belli della sua vita li aveva vissuti quando fotografava i soldati russi per le strade di Praga e si esponeva al pericolo. Erano stati quelli gli unici giorni in cui il film a puntate dei suoi sogni si era interrotto e le sue notti erano state serene. I russi sui loro carri armati le avevano portato l'equilibrio. Adesso che la festa era finita aveva di nuovo paura delle sue notti e voleva fuggirle. Sapeva ora che esistevano circostanza nelle quali lei poteva sentirsi forte e soddisfatta, e desiderava perciò andare per il mondo con la speranza di ritrovarvi forse circostanze simili.

“E non ti importa” chiese Tomáš “che Sabina sia emigrata anche lei in Svizzera?”.

“Ginevra non è Zurigo” disse Tereza. “Mi darà certo meno fastidio là che non a Praga”.

Chi desidera abbandonare il posto dove vive non è felice. Per questo Tomáš accettò il desiderio di Tereza di emigrare come un colpevole accetta la sentenza. Vi si sottomise e un giorno si ritrovò con Tereza e Karenin nella più grande città della Svizzera.

Per il loro appartamento vuoto comprò un letto (non avevano ancora i soldi per altri mobili) e si gettò nel lavoro con tutta la frenesia di una persona che inizia una nuova vita a quarant'anni passati.

Telefonò varie volte a Sabina a Ginevra. Per caso una sua mostra era stata inaugurata lì una settimana prima dell'invasione russa, e gli amatori d'arte svizzeri, in uno slancio di simpatia per il suo piccolo paese, le avevano comprato tutti i quadri.

“Grazie ai russi sono diventata ricca” rise al telefono, e invitò Tomáš nel suo nuovo studio che, gli assicurò, non era molto diverso da quello che lui conosceva a Praga.

Tomáš le avrebbe fatto visita con gioia, ma non trovò nessuna scusa che potesse giustificare il suo viaggio agli occhi di Tereza. Così fu Sabina a venire a Zurigo. Prese una camera in albergo. Tomáš andò da lei alla fine del lavoro, le telefonò dalla réception e poi salì. Lei gli aprì e rimase davanti a lui sulle sue belle gambe lunghe, seminuda, con solo le mutandine e il reggiseno. In testa portava una bombetta nera. Lo guardò a lungo, immobile e senza dir nulla. Anche Tomáš stava fermo in silenzio. Poi, all'improvviso, si accorse di essere commosso. Le tolse la bombetta dalla testa e la poggiò sul comodino vicino al letto.

Poi fecero l'amore senza dire una sola parola.

Tornando dall'albergo al suo appartamento di Zurigo (dove già da tempo aveva raggiunto un tavolo, sedie, poltrone e un tappeto), si diceva con gioia che portava con sé il suo modo di vivere come una lumaca porta la sua casa. Tereza e Sabina rappresentavano i due poli della sua vita, due poli lontani, inconciliabili, eppure entrambi belli.

Ma appunto perché lui portava dovunque con sé il suo sistema di vita, come un'appendice del suo corpo, Tereza continuava a fare gli stessi sogni.

Erano a Zurigo da sei o sette mesi, quando lui ritornò a casa una sera tardi e trovò sul tavolo una lettera. Tereza gli annunciava che era partita per Praga. Era partita perché non aveva la forza di vivere all'estero.

Sapeva che lì sarebbe dovuta essere un appoggio per Tomáš, ma sapeva anche di non esserne capace. Aveva creduto ingenuamente che all'estero sarebbe cambiata. Si era illusa che, dopo quello che aveva vissuto nei giorni dell'occupazione, non sarebbe più stata meschina, che sarebbe diventata adulta, saggia, forte, ma si era sopravvalutata. Per lui è una zavorra, e non vuole esserlo. Vuole trarne le conseguenze prima che sia troppo tardi. E si scusa con lui di aver portato con sé Karenin.

Tomáš prese un forte sonnifero ma si addormentò ugualmente solo al mattino. Per fortuna era Sabato e poteva restare a casa. Per la centocinquantesima volta ricapitolò l'intera situazione: le frontiere tra la Boemia e il resto del mondo non sono più aperte come quando erano partiti. Né i telegrammi né le telefonate possono ormai richiamare indietro Tereza. Le autorità non le permetterebbero più di andare all'estero.

La partenza di lei è incredibilmente definitiva.

La scoperta di essere del tutto impotente fu come una mazzata, ma allo stesso tempo lo calmò. Nessuno lo obbligava a prendere una decisione, Non era costretto a guardare il muto della casa di fronte e domandarsi se voleva o non voleva vivere con lei. Tereza aveva deciso tutto da sola.

Andò a mangiare al ristorante. Si sentiva triste ma, mangiando, fu come se la disperazione iniziale si fosse indebolita, come se avesse preso vigore e non ne fosse rimasta che la malinconia. Riandava agli anni vissuti con lei e gli sembrava che la loro storia non potesse concludersi in maniera migliore. Se qualcuno avesse inventato quella storia, non avrebbe potuto farla terminare altrimenti.

Un giorno Tereza era venuta da lui non invitata. Un giorno, allo stesso modo, era andata via. Era arrivata con una valigia pesante. Con una valigia pesante era partita.

Pagò, uscì dal ristorante e cominciò a passeggiare per le strade pieno di una malinconia che diventava sempre più bella. Aveva dietro le spalle sette anni di vita passati con Tereza e adesso si rendeva conto che quegli anni erano più belli nel ricordo che non quando li aveva vissuti.

L'amore fra lui e Tereza era stato bello ma anche faticoso: aveva dovuto sempre nascondere qualcosa, mascherare, fingere, riparare, tirarle su il morale, consolarla, dimostrarle ininterrottamente il proprio amore, subire le accuse della gelosia, del suo dolore, dei suoi sogni, sentirsi colpevole, giustificarsi e scusarsi. Ora, la fatica era scomparsa e rimaneva sola la bellezza.

Il Sabato volgeva alla sera, per la prima volta lui passeggiava per Zurigo da solo e respirava a fondo il profumo della sua libertà. Dietro l'angolo di ogni strada si nascondeva un'avventura. Il futuro era diventato di nuovo un mistero. Stava ritornando alla vita dello scapolo, quella vita alla quale un tempo era certo di essere destinato e nella quale soltanto sarebbe potuto essere quello che era in realtà.

Per sette anni aveva vissuto legato a lei e ogni suo passo era stato eseguito dai suoi occhi. Era come se lei gli avesse legato alla caviglia una palla di ferro. Ora il suo passo era tutt'a un tratto più leggero. Quasi si librava nell'aria. Era entrato nello spazio magico di Parmenide: assaporava la dolce leggerezza dell'essere.

(Aveva voglia di chiamare Sabina a Ginevra? Di farsi vivo con qualcuna delle donne di Zurigo che aveva conosciuto negli ultimi mesi? No, non aveva la minima voglia. Sentiva che, se avesse incontrato una qualsiasi donna, il ricordo di Tereza sarebbe diventato subito insopportabilmente doloroso).

Quella strana fascinazione malinconica durò fino alla Domenica sera. Il Lunedì ogni cosa cambiò. Tereza fece irruzione nella sua mente: sentiva il suo stato d'animo mentre gli scriveva la lettera d'addio; sentiva tremare le sue mani; la vedeva mentre trascinava con una mano pesante la valigia, e nell'altra teneva il guinzaglio di Karenin; l'immaginava mentre girava la chiave nella serratura del loro appartamento praghese e sentiva nel proprio cuore la desolazione che le aveva alitato sul viso quando aveva aperto la porta.

In quei due bei giorni di malinconia la sua compassione (questa maledizione della telepatia sentimentale) si era riposata. La compassione dormiva come dorme un minatore la Domenica, dopo una settimana di duro lavoro, per poter scendere giù di nuovo il Lunedì.

Visitava un paziente e al posto suo vedeva Tereza. Si ripeteva dentro di sé: Non pensare a lei! Non pensare a lei! Si diceva: Proprio perché sono malato di compassione è un bene che lei sia partita e che non la riveda più. Devo liberarmi non da lei ma dalla mia compassione, da questa malattia che prima non conoscevo e di cui lei mi ha inoculato il bacillo.

Il sabato e la domenica aveva sentito la dolce leggerezza dell'essere avvicinarglisi dal profondo dell'avvenire. Il Lunedì si sentì oppresso da una pesantezza quale fino ad allora non aveva mai conosciuto. Tutte le tonnellate di ferro dei carri armati russi non erano nulla al confronto di quel peso. Non c'è nulla di più pesante della compassione. Nemmeno il nostro proprio dolore è così pesante come un dolore che si prova con un altro, verso un altro, al posto di un altro, moltiplicato dall'immaginazione, prolungato in centinaia di echi.

Si ripeteva che non doveva arrendersi alla compassione, e la compassione lo ascoltava lo ascoltava a testa bassa, come se si sentisse colpevole. La compassione sapeva di abusare dei propri diritti, ma si ostinava in silenzio, e così il quinto giorno della partenza di Tereza, Tomáš comunicò al direttore della clinica (quello che dopo l'invasione russa gli 15

L’insostenibile leggerezza dell’essere - Milan Kundera telefonava a Praga ogni giorno) di essere costretto a ritornare in patria immediatamente. Si vergognava. Sapeva che al direttore il suo comportamento sarebbe apparso irresponsabile e imperdonabile. Aveva una voglia matta di confidarsi con lui e raccontargli di Tereza e della lettera che lei gli aveva lasciato sul tavolo. Ma non lo fece. Dal punto di vista di un medico svizzero, il comportamento di Tereza doveva certo apparire come isterico e odioso. E Tomáš

non voleva ammettere che si potesse pensare male di lei.

Il direttore era davvero offeso.

Tomáš si strinse nelle spalle e disse: “Es muss sein. Es muss sein”.

Era un allusione. L'ultimo movimento dell'ultimo quartetto di Beethoven è scritto su questi due motivi:

Muss es sein? Es muss sein! Es muss sein!

(Deve essere?)(Deve essere!)(Deve essere!)

Perché il senso delle parole fosse del tutto chiaro, Beethoven scrisse in testa all'ultimo movimento le parole “Der schwer gefasste Entschluss”: la risoluzione presa con difficoltà; la grande risoluzione.

L'allusione a Beethoven era in realtà per Tomáš un modo per ritornare a Tereza, perché proprio lei l'aveva spinto a comprare i dischi con i quartetti e le sonate di Beethoven.

L'allusione era più a proposito di quanto lui immaginasse, perché il direttore era un grande amante della musica. Con un sorriso sereno, disse piano, imitando la melodia di Beethoven: “Muss es sein?”.

Tomáš disse ancora una volta: “Ja, es muss sein”.

A differenza di Parmenide, per Beethoven la pesantezza era a quanto pare qualcosa di positivo. “Der schwer gefasste Entschluss”, la grave risoluzione è unita con la voce del Destino (“Es muss sein!”); la pesantezza, la necessità e il valore sono tre concetti intimamente legati tra loro: solo ciò che è necessario è pesante, solo ciò che pesa ha valore.

Questa convinzione è nata dalla musica di Beethoven e, benché sia possibile (per non dire probabile) che la responsabilità di essa ricada più sugli esegeti di Beethoven che sul compositore stesso, oggi la condividiamo più o meno tutti: la grandezza di un uomo risiede per noi nel fatto che egli porta il suo destino come Atlante portava sulle spalle la volta celeste. L'eroe beethoveniano è un sollevatore di pesi metafisici.

Tomáš si avvicinava al confine svizzero e io mi immagino un Beethoven torvo e capelluto che dirige personalmente la locale banda dei pompieri e suona per lui, come addio all'immigrazione, una marcia intitolata Es muss sein!

Ma poi Tomáš attraversò il confine ceco e si imbatté in colonne di carri armati russi.

Dovette fermare la macchina a un incrocio e aspettare mezz'ora che passassero. Un terrificante carrista con un'uniforme nera stava in mezzo all'incrocio e dirigeva il traffico, come se tutte le strade della Boemia appartenessero a lui solo.

“Es muss sein” si ripeteva Tomáš dentro di sé, ma poi cominciò a dubitarne: doveva davvero essere così?

Si, era insopportabile rimanere a Zurigo e immaginare Tereza da sola a Praga.

Ma per quanto tempo ancora dovrà essere torturato dalla compassione? Tutta la vita?

O tutto un anno? O un mese? O soltanto una settimana?

Come poteva saperlo? Come poteva verificarlo?

Qualsiasi studente nell'ora di fisica può provare con esperimenti l'esattezza di un'ipotesi scientifica. L'uomo, invece, vivendo una sola vita, non ha alcuna possibilità di verificare un'ipotesi mediante un esperimento, e perciò non saprà mai se avrebbe dovuto o no dare ascolto al proprio sentimento.

Con questi pensieri nella testa egli aprì la porta dell'appartamento. Karenin si precipitò a leccargli il viso, facilitandogli così l'istante dell'incontro. La voglia di gettarsi tra le braccia di Tereza (voglia che ancora sentiva nel momento in cui era salito in macchina a Zurigo) era scomparsa del tutto. Gli sembrava di starle di fronte in mezzo a una landa coperta di neve, dove entrambi tremavano di freddo.

Dal primo giorno dell'occupazione gli aeri militari russi sorvolavano Praga tutta la notte. Tomáš si era disabituato a quel rumore e non riusciva a prendere sonno.

Rigirandosi accanto a Tereza addormentata, si ricordò di quello che lei gli aveva detto anni prima durante una conversazione senza importanza. Stavano parlando di un amico di Tomáš, Z., e lei aveva dichiarato: “Se non avessi incontrato te, mi sarei certamente innamorata di lui”.

Già allora quelle parole avevano messo addosso a Tomáš una strana malinconia. Si era infatti reso conto all'improvviso che era soltanto un caso se Tereza amava lui e non l'amico Z. E che, oltre al suo amore realizzato per Tomáš, esisteva nel regno delle possibilità un numero infinito di amori non realizzati per altri uomini.

Tutti noi consideriamo impensabile che l'amore della nostra vita possa essere qualcosa di leggero, qualcosa che non ha peso riteniamo che il nostro amore sia qualcosa che doveva necessariamente essere; che senza di esso la nostra vita non sarebbe stata la nostra vita. Ci sembra che Beethoven, in persona, torvo e scapigliato, suoni al nostro grande amore il suo “Es muss sein!”.

Tomáš ripensava ora a quell'osservazione di Tereza sull'amico Z., e constatò che dalla storia d'amore della sua vita non risuonava nessun “Es muss sein!”, bensì un “Es könnte auch anders sein”: poteva benissimo essere altrimenti.

Sette anni prima, all'ospedale della città di Tereza era stata scoperta per caso una forma insolita di meningite e il primario dell'ospedale di Tomáš era stato chiamato per un veloce consulto. Il primario, però, aveva per caso la sciatica, non poteva muoversi, e al posto suo all'ospedale di provincia aveva mandato Tomáš. In città c'erano cinque alberghi, ma Tomáš era sceso per caso proprio in quello dove lavorava Tereza . Per caso prima della partenza del treno gli era rimasto un po' di tempo libero per andare a sedersi al ristorante.

Tereza era per caso di servizio e per caso serviva al tavolo di Tomáš. Erano stati dunque necessari dei casi fortuiti per spingere Tomáš verso Tereza, come se lui, da solo, non ne avesse avuto voglia.

Era tornato in Boemia a causa di lei. Una decisione così fatale si fondava su un amore a tal punto fortuito che non sarebbe esistito affatto se il suo capo sette anni prima non avesse avuto la sciatica. E quella donna, quell'incarnazione della casualità assoluta, era ora distesa accanto a lui e respirava profondamente nel sonno.

Era già notte avanzata. Sentiva che cominciava a fargli male lo stomaco, come gli accadeva spesso nei momenti di malessere spirituale.

Il respiro di lei si trasformò una o due volte in un leggero russare. Tomáš non sentiva dentro di sé alcuna compassione. L'unica cosa che sentiva era una pressione allo stomaco e la disperazione di essere tornato.

PARTE SECONDA

L'ANIMA E IL CORPO

Sarebbe stupido da parte dell'autore cercare di convincere il lettore che i suoi personaggi sono realmente esistiti. Non sono certo nati da un grembo materno, ma da una o due frasi suggestive o da una situazione di fondo. Tomáš è nato dal detto “einaml ist keinmal”. Tereza è nata dal brontolio di uno stomaco.

La prima volta che entrò nell'appartamento di Tomáš, la sua pancia si mise a gorgogliare. Non c'è da meravigliarsene, non aveva né pranzato né cenato, solo prima di mezzogiorno aveva mangiato un sandwich sul marciapiede della stazione prima di salire in treno. Era tutta concentrata sul suo viaggio ardimentoso e si era dimenticata del cibo. Ma chi non pensa al proprio corpo, ne diventa più facilmente vittima. Era terribile stare davanti a Tomáš e sentire la propria pancia parlare a voce alta. Aveva voglia di piangere. Per fortuna dopo dieci secondi Tomáš l'aveva abbracciata e lei aveva potuto dimenticare le voci del suo ventre.

Tereza è quindi nata da una situazione che rivela brutalmente l'inconciliabile dualità di corpo e anima, esperienza umana fondamentale.

Tanto tempo fa, l'uomo ascoltava con stupore un suono di colpi regolari che veniva dal suo petto e non si immaginava certo cosa fosse. Non riusciva a identificarsi con una cosa tanto estranea e sconosciuta come un corpo. Il corpo era una gabbia e al suo interno c'era qualcosa che guardava, ascoltava, aveva paura, rifletteva e si stupiva; questo qualcosa, questo resto lasciato dalla sottrazione del corpo, era l'anima.

Oggi, ovviamente, il corpo non è più uno sconosciuto: sappiamo che ciò che batte nel petto è il cuore, e che il naso è l'estremità di un tubo che sporge dal corpo per portare ossigeno ai polmoni. Il viso non è che un quadro di comando dove vanno a sfociare tutti i meccanismi del corpo: la digestione, la vista, l'udito, la respirazione, il pensiero.

Da quando l'uomo sa nominare ogni sua parte, il corpo lo preoccupa meno. Oramai sappiamo anche che l'anima non è che un'attività della materia grigia del cervello. La dualità di corpo e anima si è avviluppata in una terminologia scientifica come di un pregiudizio fuori moda.

Ma basta innamorarsi follemente e sentire il brontolio del proprio intestino, perché l'unità di corpo e anima, questa lirica illusione dell'età della scienza, svanisca di colpo.

Lei cercava di vedere se stessa attraverso il proprio corpo. Per questo stava così spesso davanti allo specchio. E avendo paura di essere sorpresa dalla madre, gli sguardi allo specchio avevano il marchio di un vizio segreto.

Quello che l'attirava verso lo specchio non era la vanità bensì la meraviglia di vedere il proprio io. Dimenticava che stava guardando il quadro di comando dei meccanismi del corpo. Credeva di vedere la sua anima che le si rivelava nei tratti del suo viso. Dimenticava che il naso non è che l'estremità di un tubo che porta aria ai polmoni. In esso vedeva l'espressione fedele del proprio carattere.

Si guardava a lungo e a volte la contrariava vedere sul proprio viso i tratti della madre. Allora si guardava con più ostinazione, cercando con la forza della volontà di cancellare la fisionomia della madre, di sottrarla, così da far rimanere solo ciò che era lei stessa. Quando ci riusciva, era un momento di ebbrezza: l'anima saliva sulla superficie del corpo, come quando un equipaggio irrompe dal ventre della nave, riempie tutto il ponte di coperta, agita le mani verso il cielo e canta.

Non solo assomigliava fisicamente alla madre, ma a volte ho l'impressione che la sua vita non sia stata che un prolungamento della vita della madre, un po' come la corsa di una palla sul biliardo è il prolungamento del movimento del braccio del giocatore.

Dove e quando incominciò quel movimento che in seguito si era trasformato nella vita di Tereza?

Forse nel momento in cui il nonno di Tereza, commerciante di Praga, cominciò a esaltare a voce alta la bellezza della propria figlia, la madre di Tereza. Lei allora aveva tre o quattro anni e lui le diceva che assomigliava tutta a una madonna di Raffaello. La madre di Tereza, a quattro anni, se l'era impresso bene nella memoria e in seguito, sui banchi del liceo, invece di ascoltare l'insegnate, pensava a quali quadri poteva somigliare.

Quando giunse il tempo di sposarsi, aveva nove pretendenti. Erano tutti inginocchiati in cerchio attorno a lei. Lei stava al centro come una principessa, e non sapeva chi scegliere: uno era più bello, un altro più spiritoso, il terzo più ricco, il quarto più sportivo, il quinto era di famigli migliore, il sesto recitava versi, il settimo viaggiava dappertutto, l'ottavo suonava il violino e il nono era il più virile degli uomini, Tutti, però, erano inginocchiati allo stesso modo e tutti avevano gli stessi calli alle ginocchia.

Che poi lei avesse scelto il nono, questo non era dipeso tanto dal fatto che fosse il più virile degli uomini, quanto dal fatto che quando lei gli sussurrava all'orecchio, mentre facevano all'amore: “Sta' attento, mi raccomando, sta' attento!”, lui lo faceva apposta a non stare attento e lei se lo dovette sposare in tutta fretta, non essendo riuscita a trovare in tempo un medico disposta a farla abortire. Così era nata Tereza. L'innumerevole famiglia si raccolse da tutti gli angoli del paese, si chinava sulla carrozzina e cinguettava. La madre di Tereza non cinguettava. Taceva. Pensava agli altri otto pretendenti e le sembravano tutti migliori del nono.

Come la figlia, anche la madre di Tereza amava guardarsi allo specchio. Un giorno si accorse di avere le rughe attorno agli occhi e si disse che il suo matrimonio era un'assurdità.

Incontrò un uomo non virile che aveva dietro le spalle alcune truffe e due matrimoni falliti.

Lei odiava gli amanti con i calli alle ginocchia. Aveva una voglia furiosa di inginocchiarsi lei stessa. Cadde in ginocchio davanti al truffatore e abbandonò il marito e Tereza.

Il più virile degli uomini diventò il più triste degli uomini. Era tanto triste che non gli importava più di nulla. Diceva dappertutto e a voce alta quello che pensava, e la polizia comunista, scandalizzata dalle sue enormità, lo arrestò, lo condannò e lo mise in prigione.

Tereza fu cacciata via dall'appartamento sigillato e mandata dalla madre.

In breve il più triste degli uomini morì in prigione e la madre, seguita da Tereza, andò con il truffatore in una piccola città ai piedi delle montagne. Il patrigno di Tereza lavorava in un ufficio. Mise al mondo altri tre figli. Poi si guardò di nuovo allo specchio e scoprì di essere vecchia e brutta.

Quando ebbe constatato di aver perso ogni cosa, cercò il colpevole. Colpevoli erano tutti: colpevole era il primo marito, virile e non amato, che non le aveva dato ascolto quando lei gli sussurrava all'orecchio di stare attento. Colpevole era il secondo marito, non virile e amato, che l'aveva trascinata via da Praga in una cittadina di provincia e correva dietro a tutte le donne, tenendola in un continuo stato di gelosia.

Contro due mariti lei era impotente. L'unica persona che le appartenesse e non potesse sfuggirle, l'ostaggio che poteva pagare per tutti gli altri, era Tereza.

Del resto, forse era davvero proprio lei la colpevole del destino della madre. Lei, l'assurdo incontro dello sperma del virile degli uomini con l'ovulo della più bella delle donne. In quel fatale istante che rispondeva al nome di Tereza aveva preso il via la maratona della sua vita rovinata.

La madre le spiegava continuamente che essere madre significava sacrificare ogni cosa. Le sue parole suonavano convincenti perché dietro c'era l'esperienza di una donna che aveva perso ogni cosa a causa della figlia. Tereza ascolta e crede che il valore supremo della vita sia la maternità, e che la maternità sia un grosso sacrificio. E se la maternità è l'incarnazione del Sacrificio, allora il destino di figlia è la Colpa che non si potrà mai espiare.

Naturalmente Tereza non conosceva la storia della notte in cui la madre sussurrava all'orecchio del padre di stare attento. Il senso di colpa che sentiva era indefinito come il peccato originale. Faceva di tutto per espiarlo. La madre l'aveva tolta dal liceo a quindici anni e da allora lei lavorava come cameriera e tutto ciò che guadagnava glielo consegnava.

Era disposta a tutto per meritare il suo amore. Badava alla casa, si occupava dei fratelli e delle sorelle, passava tutte le Domeniche a lavare e strofinare. Era un peccato perché al liceo era la più dotata della classe. Avrebbe voluto arrivare in alto, ma in quella cittadina non esisteva per lei alcuna possibilità. Lavava la biancheria con un libro e sul libro cadevano gocce d'acqua.

A casa non esisteva pudore. La madre girava per l'appartamento con indosso soltanto la biancheria intima, talvolta senza il reggiseno, talvolta, d'estate, nuda. Il patrigno non girava nudo ma entrava nel bagno tutte le volte che Tereza era nella vasca. Una volta che lei si era chiusa dentro a chiave, la madre aveva fatto una scenata: “Ma che ti prende? Chi ti credi di essere? Hai forse paura che lui ti mangi la tua bellezza?”.

(Questa situazione mostra con evidenza che nella madre l'odio verso la figlia era più forte della gelosia per il marito. La colpa della figlia era infinita e includeva anche i tradimenti del marito. Che la figlia volesse emanciparsi e insistesse nel pretendere alcuni suoi diritti come ad esempio chiudersi a chiave nel bagno per la madre era ancora più inammissibile di un eventuale interesse sessuale del marito per Tereza).

Una volta, in inverno, la madre stava girando nuda con la luce accesa. Tereza corse immediatamente a tirare le tende perché non la vedessero dalla casa di fronte. Dietro le spalle sentì la sua risata. Il giorno dopo alcune amiche vennero a trovare la madre: una vicina, una collega del negozio, un'insegnante e altre due o tre donne che avevano l'abitudine di incontrarsi con regolarità. Tereza entrò per un attimo nella stanza insieme al figlio sedicenne di una di loro, per salutarle. La madre ne approfittò subito per raccontare di come il giorno prima la figlia avesse voluto proteggere il suo pudore. Rise, e tutte le donne risero con lei. La madre disse poi: “Tereza non vuole rassegnarsi al fatto che il corpo umano piscia e scoreggia”.

Tereza di era fatta rossa, ma la madre continuò: “C'è forse qualcosa di male?” e rispondendo lei stessa alla propria domanda emise delle sonore scoregge. Tutte le donne risero.

La madre si soffia il naso rumorosamente, parla a voce alta con la gente della sua vita sessuale, esibisce la sua dentiera. È bravissima a liberarla con la lingua, facendo cadere l'arcata superiore sui denti inferiori in un ampio sorriso, e il suo viso assume ad un tratto un'espressione sinistra.

Il suo comportamento non è che un unico gesto brutale col quale essa rinnega la sua bellezza e la sua giovinezza. Al tempo in cui nove pretendenti si inginocchiavano in cerchio attorno a lei, essa proteggeva con cura la sua nudità, come voler esprimere, attraverso la misura del pudore, il valore del suo corpo.

Se oggi non si vergogna, lo fa in maniera radicale, usa la sua impudicizia per tirare un solenne tratto di penna sulla vita e gridare forte che la giovinezza e la bellezza, che lei aveva sopravvalutato, non hanno in realtà alcun valore.

Tereza appare ai miei occhi come il prolungamento di quel gesto, del gesto con il quale la madre si era liberata della propria vita di donna giovane e bella.

(E se Tereza ha movimenti nervosi, se nei suoi gesti manca una certa grazia lenta, non ce ne dobbiamo meravigliare: quel grande gesto della madre, violento autodistruttivo, è rimasto in Tereza, è diventato Tereza).

La madre chiede giustizia per sé e vuole che il colpevole sia castigato. Per questo insiste affinché la figlia rimanga con lei nel mondo dell'impudicizia dove la giovinezza e la bellezza non significano nulla, dove l'intero universo non è che un enorme campo di concentramento di corpi identici fra loro e con l'anima invisibile.

Adesso possiamo capire meglio il senso del vizio segreto di Tereza, i suoi continui e lunghi sguardi nello specchio. Era una lotta con la madre. Era il desiderio di non essere un corpo come gli altri corpi, ma di vedere sulla superficie del proprio viso “l'equipaggio dell'anima irrompere dal ventre della nave”. Non era facile perché l'anima, triste, timida, spaurita, si nascondeva nel fondo delle viscere di Tereza e si vergognava a mostrarsi.

Così era accaduto il giorno in cui aveva incontrato Tomáš per la prima volta. Lei si faceva strada tra gli ubriachi del ristorante, il suo corpo era curvo sotto il peso delle birre che portava sul vassoio, e la sua anima era in fondo allo stomaco o nel pancreas. Proprio allora Tomáš le rivolse la parola. Quel richiamo era importante, perché veniva da qualcuno che non conosceva né sua madre né gli ubriachi che le rivolgevano ogni giorno i soliti commenti osceni. Il suo stato di estraneo lo elevava al di sopra degli altri.

E qualcos'altro lo elevava: teneva sul tavolo un libro aperto. In quel bar nessuno aveva mai aperto un libro sul tavolo. Un libro era per Tereza il segno di riconoscimento di una fratellanza segreta. Contro il mondo della volgarità che la circondava, essa aveva infatti un unica difesa: i libri che prendeva in prestito alla biblioteca comunale; soprattutto i romanzi: ne aveva letti un'infinità, da Fielding a Thomas Mann.

Le offrivano la possibilità di una fuga immaginaria da quella vita che non le dava alcuna soddisfazione, ma avevano significato per lei anche in quanto oggetti: le piaceva passeggiare per strada con dei libri sotto il braccio. Essi rappresentavano per lei ciò che il bastone da passeggio rappresentava per un dandy del secolo scorso. La distinguevano dagli altri.

(Il paragone tra il libro e il bastone da passeggio del dandy non è del tutto preciso. Il bastone non serviva soltanto a distinguere il dandy, lo rendeva anche moderno e alla moda. Il libro distingueva Tereza, ma la rendeva antiquata. Naturalmente, lei era troppo giovane per potersi accorgere della sua aria antiquata.

I giovani che le passavano accanto con le loro rumorose radioline le sembravano stupidi. Non si accorgevano che erano moderni).

L'uomo che le rivolse la parola era quindi, allo stesso tempo, un estraneo e il membro di una confraternita segreta. Le parlò con voce gentile e Tereza sentì la propria anima precipitarsi alla superficie attraverso tutte le vene, tutti i capillari e tutti i pori, per mostrarsi a lui.

Quando Tomáš tornò a Praga da Zurigo, fu preso da una sensazione di malessere al pensiero che il suo incontro con Tereza fosse stato determinato da sei improbabili coincidenze.

Ma non è invece il giusto contrario, che un avvenimento è tanto più significativo e privilegiato quanti più casi fortuiti intervengono a determinarlo?

Soltanto il caso può apparirci come un messaggio. Ciò che avviene per necessità, ciò che è atteso, che si ripete ogni giorno, tutto ciò è muto. Soltanto il caso ci parla. Cerchiamo di leggervi dentro come gli zingari leggono le immagini formate dai fondi del caffè in una tazzina.

Tomáš apparve a Tereza nel suo ristorante come il caso assoluto. Sedeva a un tavolo, davanti a un libro aperto. Alzò gli occhi su Tereza e sorrise: “Un cognac”.

In quel momento la radio suonava della musica. Tereza andò al bancone a prendere il cognac e girò la manopola dell'apparecchio per alzare il volume. Aveva riconosciuto Beethoven. Lo conosceva da quella volta che nella sua cittadina era arrivato un quartetto di Praga. Tereza (che, come sappiamo, agognava a qualcosa di “più alto”) era andata al concerto. La sala era vuota. Insieme a lei c'erano solo il farmacista e la moglie. Ecco dunque sul palcoscenico un quartetto di musicisti e in sala un trio di ascoltatori, ma i musicisti erano stati così gentili da non annullare il concerto, e quella sera suonarono solo per loro i tre ultimi quartetti di Beethoven.

Il farmacista aveva poi invitato i musicisti a cena e aveva chiesto all'ascoltatrice sconosciuta di unirsi a loro. Da allora Beethoven era diventato per lei l'immagine del mondo dall'altra parte, del mondo che lei agognava. Mentre portava dal bancone il cognac per Tomáš, cercava di leggere in quella coincidenza: com'era possibile che, proprio mentre stava portando un cognac a quell'uomo sconosciuto che le piaceva, sentisse Beethoven?

Non certo la necessità, bensì il caso è pieno di magia. Se l'amore deve essere indimenticabile, fin dal primo istante devono posarsi su di esso le coincidenze, come gli uccelli sulle spalle di Francesco d'Assisi.

La chiamò per pagare. Aveva chiuso il libro (segno di riconoscimento della confraternita segreta) e lei aveva voglia di domandargli che cosa stesse leggendo.

“Lo può mettere sul mio conto?” chiese lui.

“Certo” rispose. “Qual'è il suo numero?”.

Lui le mostrò la chiave alla quale era legata una tavoletta di legno con su disegnato un sei rosso.

“È strano,” gli disse lei “il numero sei”.

“Cosa c'è di strano?” chiese lui.

Si era ricordata che la casa dove aveva vissuto a Praga coi genitori, prima che si separassero, era al numero sei. Però disse qualcos’altro (e noi possiamo apprezzare la sua astuzia): “Lei ha la camera numero sei e io alle sei smetto di lavorare”,

“E io ho il treno alle sette” disse lo sconosciuto.

Lei non seppe cosa rispondere, gli diede il conto per farglielo firmare e lo portò alla réception. Quando finì di lavorare, lo straniero non sedeva più al tavolo. Aveva capito il suo discreto messaggio? Uscì dal ristorante agitata.

Di fronte c’era un giardinetto spelacchiato, il misero parco di una sporca città di provincia, che per lei aveva sempre rappresentato un’isola di bellezza: c’erano un prato, quattro pioppi, delle panchine, un salice piangente e cespugli di forsythia.

Lui era seduto su una panchina gialla da dove di poteva vedere l’ingresso del ristorante. Proprio su quella stessa panchina si era seduta lei il giorno prima con un libro in grembo! In quell’istante capì (gli uccelli delle coincidenze si erano posati sulle sue spalle) che quello sconosciuto le era destinato. Lui la chiamò, la invitò a sederglisi accanto.

(L’equipaggio della sua anima si precipitò sul ponte di coperta del suo corpo). Poi lo accompagnò alla stazione e lui, quando si salutarono, le diede il suo biglietto da visita col numero di telefono: “Nel caso dovesse venire una volta a Praga...”.

Molto più del biglietto da visita che lui le ha dato all’ultimo momento, è stato il richiamo di quelle coincidenze (il libro, Beethoven, il numero sei, la panchina gialla del parco) a darle il coraggio di andar via di casa e di cambiare (del resto assai modeste, grigie, davvero degne di quell’insignificante città) a mettere in moto il suo amore e a diventare fonte di un’energia che essa non esaurirà fino alla fine della sua vita.

La nostra vita quotidiana è bombardata da coincidenze o, per meglio dire, da incontri fortuiti tra le persone e gli avvenimenti chiamati coincidenze. Una co-incidenza significa che due avvenimenti inattesi avvengono contemporaneamente, si incontrano: Tomáš compare nel ristorante proprio mentre la radio suona Beethoven. La stragrande maggioranza di queste coincidenze passa del tutto inosservata. Se al tavolo del ristorante al posto di Tomáš si fosse seduto il macellaio dell’angolo, Tereza non avrebbe notato che la radio suonava Beethoven (sebbene anche l’incontro di Beethoven e di un macellaio sia una coincidenza ugualmente degna di interesse). L’amore nascente ha acceso in lei il senso della bellezza, e quella musica lei non la dimenticherà più. Ogni volta che la sentirà sarà commossa. Tutto ciò che accadrà intorno a lei in quell’istante, apparirà nell’alone di quella musica e sarà bello.

All’inizio del romanzo che Tereza teneva sotto il braccio quando era arrivata da Tomáš, Anna incontra Vronskij in strane circostanze. Sono sul marciapiede di una stazione dove poco prima qualcuno è finito sotto un treno. Alla fine del romanzo sarà Anna a gettarsi sotto il treno. Questa composizione simmetrica, nella quale un identico motivo appare all’inizio e alla fine, può sembrarvi molto “romanzesca”. Sì, sono d’accordo, ma a condizione che la parola “romanzesca” non la intendiate come “inventata”, “artificiale”,

“diversa dalla vita”. Perché proprio in questo modo sono costruite le vite umane.

Sono costruite come una composizione musicale. L’uomo, spinto dal senso della bellezza, trasforma un avvenimento casuale (la musica di Beethoven, una morte alla stazione) in un motivo che va poi a iscriversi nella composizione della sua vita. Ad esso ritorna, lo ripete, lo varia, lo sviluppa, lo traspone, come fa il compositore con i temi della sua sonata. Anna avrebbe potuto togliersi la vita in maniera diversa. Ma il motivo della stazione e della morte, quel motivo indimenticabile legato alla nascita dell’amore, nel momento della disperazione l’aveva attratta con la sua cupa bellezza. L’uomo senza saperlo compone la propria vita secondo le leggi della bellezza persino nei momenti di più profondo smarrimento.

Non si può quindi rimproverare al romanzo di essere affascinato dai misteriosi incontri di coincidenze (come l’incontro tra Vronskij, Anna, il marciapiede della stazione e la morte, o l’incontro tra Beethoven, Tomáš, Tereza e il cognac), ma si può a ragione rimproverare all’uomo di essere cieco davanti a simili coincidenze nella vita di ogni giorno, e di privare così la propria vita della sua dimensione di bellezza.

Incoraggiata dagli uccelli delle coincidenze che si posavano sulle sue spalle, senza dir nulla alla madre si prese una settimana di ferie e salì sul treno. Andò spesso in gabinetto a guardarsi nello specchio e a pregare l’anima di non abbandonare nemmeno per un istante il ponte del corpo nel giorno decisivo della sua vita. Mentre così si guardava, all’improvviso si spaventò: aveva sentito un’irritazione alla gola. Non si sarebbe mica ammalata, il giorno decisivo della sua vita?

Ma ormai non si poteva più tornare indietro. Gli telefonò dalla stazione e, quando lui aprì la porta, la sua pancia cominciò a gorgogliare in maniera terribile. Si vergognò. Era come se nella pancia ci fosse sua madre che sghignazzava per rovinare il suo incontro con Tomáš.

Temette sulle prime che lui, a causa di quei rumori così volgari, l’avrebbe cacciata via, ma lui invece l’abbracciò. Gli fu riconoscente di aver ignorato quei brontolii, e lo baciò con passione, gli occhi velati. Non passò nemmeno un minuto che già facevano l’amore.

Facendo l’amore lei gridò. Aveva già la febbre. Aveva preso l’influenza. L’estremità del tubo che portava ossigeno ai polmoni era rossa e intasata.

Venne poi una seconda volta con una pesante valigia nella quale aveva infilato tutte le sue cose, decisa a non tornare mai più nella piccola città. Lui la invitò a casa sua per la sera del giorno dopo. Passò la notte in un albergo da poco. Il mattino seguente portò la valigia al deposito bagagli della stazione, e vagabondò tutto il giorno per Praga con Anna Karenina sotto il braccio. La sera suonò il campanello, lui aprì la porta e lei non lasciò il libro che teneva in mano, come se fosse il biglietto di ingresso ne mondo di Tomáš. Si rendeva conto di non avere che quell’unico misero lasciapassare e le venne da piangere. Per non piangere fu loquace, parlò a voce alta, rise. Ma anche questa volta aveva appena passata la soglia che lui la prese tra le braccia e fecero l’amore. Entrò in una nebbia nella quale non si vedeva nulla e si sentiva soltanto il suo grido.

Non era un gemito, non era un lamento, era proprio un grido. Gridò così forte che Tomáš allontanò la testa dal suo viso, come se quella voce lì accanto al suo orecchio dovesse rompergli il timpano. Quel grido non era un’espressione di sensualità. La sensualità è la mobilitazione massima dei sensi: si osserva intensamente l’altro e si ascolta ogni suono. Il grido di Tereza voleva invece oscurare i sensi perché non vedessero e non sentissero. Ciò che gridava in lei era l’ingenuo idealismo del suo amore che voleva essere abolizione di tutti i contrasti, abolizione della dualità di anima e corpo, e forse anche abolizione del tempo.

Aveva gli occhi chiusi? No, ma i suoi occhi non guardavano nulla, fissavano il vuoto del soffitto. Di tanto in tanto essa agitava violentemente la testa da una parte all’altra.

Quando il grido tacque, si addormentò accanto a lui, e gli tenne la mano per tutta la notte.

Già da quando aveva otto anni si addormentava stringendosi una mano con l’altra e immaginandosi di tenere in quel modo l’uomo che amava, l’uomo della sua vita. Se, quindi, nel sonno stringeva la mano di Tomáš con tanta caparbietà, lo possiamo capire: era dall’infanzia che ci si preparava e ci si allenava.

Una ragazza che, invece di farsi strada “verso l’alto”, è costretta a portare birra agli ubriachi e la Domenica deve lavare la biancheria sporca dei fratelli, accumula dentro di sé una grossa riserva di vitalità inimmaginabile per quelli che studiano all’università o sbadigliano sui libri. Tereza ne aveva letti più di loro, sapeva più cose di loro sulla vita, ma non ne sarà mai cosciente. Ciò che distingue una persona che ha studiato da un autodidatta non è la quantità di conoscenza, ma il grado di vitalità e di coscienza di sé. Lo slancio col quale Tereza, una volta a Praga, si gettò nella vita era allo stesso tempo vorace e fragile.

Come se si aspettasse che un giorno o l’altro qualcuno le dicesse: “Questo non è il tuo posto.

Tornatene da dove sei venuta!”. Tutta la sua voglia che un giorno aveva tratto alla luce l’anima timidamente nascosta nelle sue viscere.

Tereza trovò un posto nel laboratorio fotografico di un settimanale, ma non le bastava. Voleva essere lei a fare le foto. Sabina, l’amica di Tomáš, le prestò tre o quattro monografie di fotografi famosi, si incontrarono in un caffè e, sopra i libri aperti, le spiegò cosa rendeva interessanti quelle fotografie. Tereza l’ascoltava con una concentrazione silenziosa che pochi professori hanno visto sul viso dei loro studenti.

Grazie a Sabina, capì la parentela tra fotografia e pittura, e obbligò Tomáš ad accompagnarla a tutte le mostre che si tenevano a Praga. In breve tempo riuscì a pubblicare le sue foto sulla rivista e un giorno dal laboratorio passò tra i fotografi professionisti del settimanale.

Quella sera andarono con degli amici in un locale a festeggiare la sua promozione.

Ballarono. Tomáš si rabbuiò e, poiché lei insisteva per sapere che cosa avessero, alla fine, quando furono a casa, le confessò di essere stato geloso nel vederla ballare col collega.

“Davvero sei stato geloso di me?” gli chiese lei quasi una decina di volte, incredula, come se lui le avesse annunciato che le avevano assegnato il premio Nobel.

Poi lo prese per la vita e cominciò a ballare con lui per la stanza. Non era il ballo alla moda di un’ora prima nel locale notturno. Era una sorta di rustica polka, un matto saltabeccare: gettava le gambe in aria, faceva balzi scomposti e lo trascinava su è giù per la stanza.

Purtroppo, non molto tempo dopo cominciò lei stessa a essere gelosa e la sua gelosia non fu per Tomáš un premio Nobel ma un fardello del quale si sarebbe liberato soltanto poco prima della morte.

Marciava nuda attorno alla piscina insieme a una moltitudine di altre donne nude, Tomáš stava in alto con un cesto che pendeva dalla volta, gridava contro di loro, le obbligava a cantare e fare flessioni. Se una di loro faceva male una flessione, lui la uccideva.

Voglio tornare ancora a quel sogno: l’orrore che ispirava non iniziava nel momento in cui Tomáš sparava il primo colpo. Il sogno era orribile fin dall’inizio. Camminare nuda a passo di marcia insieme ad altre donne nude era per Tereza l’immagine stessa dell’orrore.

Quando viveva con la madre, le era proibito chiudersi a chiave in bagno. Con ciò la madre voleva dirle: il tuo corpo è come tutti gli altri corpi; non hai alcun diritto al pudore; non hai alcun motivo di nascondere qualcosa che esiste con forma identica in miliardi di altri esemplari. Nel mondo della madre tutti i corpi erano uguali e marciavano uno dietro l’altro in fila interminabile. Fin dall’infanzia, la nudità era stata per Tereza il segno dell’uniformità obbligatoria del campo di concentramento; un segno di umiliazione.

E c’era un altro orrore all’inizio del sogno: tutte le donne dovevano cantare! Non soltanto i loro corpi erano uguali, ugualmente privi di valore, non soltanto erano semplici meccanismi sonori senz’anima, ma le donne erano contente! Era la gioiosa solidarietà di esseri senz’anima! Le donne erano felici di essersi liberate della zavorra dell’anima, di questo ridicolo orgoglio, di questa illusione dell’unicità, e di essere tutte uguali fra loro.

Tereza cantava insieme a loro ma senza gioia. Cantava perché aveva paura che se non avesse cantato le donne l’avrebbero uccisa.

Ma che cosa voleva dire che Tomáš sparava contro di loro e che loro cadevano morte, una dopo l’altra, nella piscina?

Le donne contente della loro identicità e indistinguibilità celebravano in realtà la loro morte futura che avrebbero reso assoluta la loro identicità. Lo sparo non era quindi che la felice conclusione della loro macabra marcia. Per questo dopo ogni colpo di pistola scoppiavano in una risata di gioia e, mentre il cadavere sprofondava sotto la superficie dell’acqua, cantavano ancora più forte.

E perché era proprio Tomáš a sparare, e perché voleva sparare anche a Tereza?

Perché era stato proprio lui a mandare Tereza tra di loro. È questo ciò che il sogno voleva rivelare a Tomáš, dal momento che Tereza stessa non era capace di dirlo. Era andata da lui per fuggire dal mondo della madre dove tutti i corpi erano uguali. Era andata da lui perché il suo corpo diventasse unico, insostituibile. E lui adesso aveva tracciato un segno di uguaglianza fra lei e le altre: le baciava tutte allo stesso modo, le accarezzava allo stesso modo, non faceva nessuna, proprio nessuna differenza tra il corpo di Tereza e gli altri corpi.

L’aveva nuovamente mandata nel mondo dal quale lei aveva voluto fuggire. L’aveva mandata a marciare nuda con altre donne nude.

Sognava in successione tre serie di sogni: la prima, dove imperversavano i gatti, parlava delle sofferenze della sua vita. La seconda mostrava, in innumerevoli varianti, immagini della sua esecuzione. La terza parlava della sua vita dopo la morte, dove la sua umiliazione diventava uno stato senza fine.

In quei sogni non c’era nulla da decifrare. L’accusa che essi rivolgevano a Tomáš era così chiara che lui non poteva far altro che star zitto e carezzare le mani di Tereza a testa bassa.

Quei sogni non erano solo eloquenti, erano anche belli. Questo è un aspetto che è sfuggito a Freud nella sua teoria dei sogni. Il sogno non è soltanto una comunicazione (magari una comunicazione cifrata), ma anche un’attività estetica, un gioco dell’immaginazione, che è di per sé un valore. Il sogno è la prova che immaginare, sognare ciò che non è accaduto, è tra i più profondi bisogni dell’uomo. Qui sta la radice del perfido pericolo del sogno. Se il sogno non fosse bello, sarebbe possibile dimenticarlo in fretta.

Tereza, invece, tornava continuamente ai propri sogni, se li ripeteva dentro di sé, li trasformava in leggende. Tomáš viveva sotto l’incantesimo ipnotico della torturante bellezza dei sogni di Tereza.

“Tereza, Tereza cara, dove sei finita? Ogni giorno sogni della morte come se davvero te ne volessi andare...” le disse una volta, mentre sedevano l’uno di fronte all’altra in un bar.

Era giorno, la ragione e la volontà erano nuovamente al potere. Una goccia di vino rosso scendeva lentamente sul vetro del bicchiere. Tereza disse: “Tomáš, io non ci posso far nulla. Capisco benissimo. Lo so che mi ami. Lo so che i tuoi tradimenti non sono una tragedia...”.

Lo guardava con amore, ma aveva paura della notte che sarebbe sopraggiunta, aveva paura dei propri sogni. La sua vita era spaccata in due. Essa era la posta di una lotta tra il giorno e la notte.

Chi tende continuamente “verso l’alto” deve aspettarsi prima o poi d’essere colto dalla vertigine. Che cos’è la vertigine? Paura di cadere? Ma allora perché ci prende la vertigine anche su un belvedere fornito di una sicura ringhiera? La vertigine è la voce del vuoto sotto di noi che ci attira, che ci alletta, è il desiderio di cadere, dal quale ci difendiamo con paura.

Il corteo di donne nude attorno alla piscina, i cadaveri nel carro funebre lieti che Tereza fosse morta come loro, questo era il “basso” che la spaventava, il luogo da dove già una volta era fuggita, ma che la allettava misteriosamente. Era questa la sua vertigine: sentiva un invito dolce (quasi gioioso) a rinunciare al destino e all’anima. Era l’invito alla solidarietà degli esseri senz’anima e, nei momenti di debolezza, essa aveva voglia di dare ascolto a quel richiamo e di tornare dalla madre. Aveva voglia di richiamare l’equipaggio dell’anima dal ponte del suo corpo; di scendere a sedersi tra le amiche della madre e ridere quando una di loro lasciava andare una sonora scoreggia; aveva voglia di marciare con loro nuda attorno alla piscina e cantare.

È vero che fino a quando non era andata via da casa Tereza aveva lottato con la madre, ma non dobbiamo dimenticare che intanto l’amava di un amore infelice. Perla madre avrebbe fatto qualsiasi cosa, se lei glielo avesse chiesto con la voce dell’amore. Era solo perché quella voce non l’aveva mai sentita che aveva trovato la forza di andarsene.

Quando la madre capì che la sua aggressività aveva perso potere sulla figlia, prese a scriverle a Praga lettere lacrimose. Si lamentava del marito, del datore di lavoro, della salute, dei figli, diceva che Tereza era l’unica persona che le restasse al mondo. Tereza credette di sentire finalmente la voce di quell’amore materno che aveva desiderato per vent’anni, ed ebbe voglia di tornare. Tanto più l’ebbe perché si sentiva debole. I tradimenti di Tomáš le avevano rivelato all’improvviso la sua impotenza e da quella sensazione di impotenza nasceva la vertigine, l’immenso desiderio di cadere.

Una volta la madre le telefonò. Disse che aveva un cancro. Le restavano al massimo pochi mesi di vita.

Quella notizia trasformò in rivolta la disperazione di Tereza per i tradimenti di Tomáš. Si rimproverava di aver tradito la madre per un uomo che non l’amava. Era pronta a dimenticare tutto ciò che la madre le aveva fatto soffrire. Adesso riusciva a capirla. In fondo, si trovavano entrambe nella stessa situazione: la madre amava il patrigno di Tereza come Tereza amava Tomáš, e il patrigno faceva soffrire la madre con i suoi tradimenti così come Tomáš tormentava Tereza. Se la madre era stata cattiva con lei, era soltanto perché aveva sofferto troppo.

Parlò a Tomáš della malattia della madre e gli annunciò che avrebbe preso una settimana di ferie per andare a trovarla. La sua voce era piena di sfida.

Come presentendo che ad attivarla verso la madre era la vertigine, Tomáš era contrario al viaggio. Telefonò all’ospedale della piccola città. In Boemia gli esami oncologici vengono accuratamente registrati, e a Tomáš fu facile accertare che la madre di Tereza non aveva alcun sospetto di cancro e che anzi nell’ultimo anno non era mai stata dal medico.

Tereza diede ascolto a Tomáš e non andò dalla madre. Ma quello stesso giorno cadde per strada e si ferì un ginocchio. Il suo passo diventò incerto, cadeva ogni giorno, o andava a sbattere contro qualcosa o, quantomeno, lasciava cadere quello che teneva in mano.

C’era in lei un irresistibile desiderio di cadere. Viveva in una vertigine continua.

Chi cade dice: “Alzami!”. Tomáš l’alzava, pazientemente.

“Vorrei fare l’amore con te nel mio studio, come su un palcoscenico. E con intorno molte persone che non avrebbero il permesso di avvicinarsi di un solo passo. Ma non potrebbero toglierci gli occhi di dosso...”.

Col passare del tempo quell’immagine perdeva la sua crudeltà originaria e cominciava a eccitarla. Diverse volte, mentre facevano l’amore, rievocò quella situazione bisbigliando nell’orecchio di Tomáš.

Le venne in mente che esisteva una strada per sfuggire alla condanna che vedeva nei tradimenti di Tomáš: che lui la portasse con sé! Che la portasse dalle sue amanti! Forse in quel modo il suo corpo sarebbe ridiventato il primo e l’unico fra tutti. Il suo corpo sarebbe stato l’aiutante di lui, il suo assistente, il suo alter ego.

“Te le spoglierò, te le laverò nella vasca e poi te le condurrò...” gli sussurrava quando stavano stretti l’uno all’altra. Desiderava che divenissero entrambi un unico essere ermafrodita e che i corpi delle altre donne fossero il loro gioco in comune.

Diventare l’alter ego della sua vita poligama. Tomáš non voleva capirlo, ma lei non riusciva a liberarsi da quell’idea e cercò di fare amicizia con Sabina. Le propose di farle una serie di ritratti.

Sabina la invitò nel suo studio e lei finalmente vide la stanza spaziosa al centro della quale c’era l’ampio divano quadrato, che pareva un palco.

“Che vergogna che tu non sia mai venuta qui prima” disse Sabina mostrandole i quadri appoggiati al muro. Le tirò fuori persino una vecchia tela che aveva fatto quando era ancora a scuola. Mostrava il cantiere di un’acciaieria in costruzione. L’aveva dipinto al tempo in cui l’Accademia esigeva il più rigoroso realismo (allora l’arte non realista veniva considerata un tentato sovvertimento del socialismo) e Sabina, guidata dallo spirito della scommessa, cercava di essere ancor più rigorosa degli insegnanti e dipingeva con una tecnica che mascherava la pennellata e produceva l’effetto di una foto a colori.

“Quel quadro mi si era rovinato. Ci era gocciolato sopra del rosso. All’inizio mi infuriai, ma poi quella macchia cominciò a piacermi perché sembrava una crepa. Come se il cantiere non fosse un cantiere autentico, bensì un vecchio scenario teatrale strappato con sopra dipinto un cantiere. Cominciai a giocare con quella crepa, ad allargarla, a immaginare cosa sarebbe stato possibile vedere dietro. Fu così che dipinsi il mio primo ciclo di quadri che intitolai "Fondali". Naturalmente non potevo mostrarli a nessuno. Mi avrebbero cacciato dall’Accademia. Davanti c’era sempre un mondo perfettamente realistico e un po’ più in là, come dietro alla tela strappata di uno scenario, si vedeva qualcos’altro, qualcosa di misterioso o di astratto”.

Tacque, poi aggiunse: “Davanti c’era la menzogna comprensibile, e dietro, l’incomprensibile verità”.

Tereza ascoltava ancora con quell’attenzione incredibile che pochi professori hanno conosciuto sul viso di uno studente, e constatava che davvero tutti i quadri di Sabina, sia quelli vecchi che quelli attuali, parlavano sempre della stessa cosa, erano tutti l’incontro simultaneo di due temi, di due mondi, erano come fotografie risultate da una doppia esposizione. Un paesaggio oltre il quale si intravedeva una vecchia lampada da tavolo accesa. Una mano che squarciava da dietro un’idilliaca natura morta con mele, noci e un alberello di Natale illuminato.

Sentì un’improvvisa ammirazione per Sabina e, poiché la pittrice la trattava come un’amica, questa ammirazione non era accompagnata da paura o da diffidenza, e andava trasformandosi in simpatia.

Si era quasi dimenticata di essere andata lì per farle delle fotografie. Dovette ricordarglielo Sabina stessa.

Staccò gli occhi dai quadri e vide di nuovo il divano al centro della stanza, come un palco.

Accanto al divano c’era un comodino e sul comodino un supporto a forma di testa umana, una di quelle sagome che i parrucchieri usano per poggiarvi su le parrucche. Sulla testa finta di Sabina non c’era una parrucca bensì una bombetta. Sabina sorrise: “È una bombetta che mi viene da mio nonno”.

Un cappello come quello, nero, duro, tondo. Tereza l’aveva visto solo al cinema.

Chaplin portava un cappello simile. Sorrise, prese la bombetta in mano e la osservò a lungo.

Poi disse: “Vuoi che ti fotografi con questa in testa?”.

La domanda fece ridere a lungo Sabina. Tereza mise via la bombetta, prese in mano la macchina fotografica e cominciò a scattare.

Dopo quasi un’ora di foto, all’improvviso disse: “Ti andrebbe di posare nuda?”.

“Nuda?” rise Sabina.

“Sì” e Tereza ripeté coraggiosamente la sua proposta.

“Qui ci vuole una bevuta” disse Sabina e aprì una bottiglia di vino.

Tereza sentiva in corpo la debolezza e taceva, mentre Sabina girava per la stanza col bicchiere di vino e chiacchierava del nonno che era stato sindaco di una piccola città; Sabina non l’aveva mai conosciuto; tutto quel che restava di lui era quella bombetta e una fotografia dove si vedeva una tribuna con una fila di notabili della borghesia; uno di loro era suo nonno; non si capiva bene che cosa stessero facendo su quella tribuna, forse presenziavano a qualche cerimonia, forse inauguravano un monumento a qualche altro notabile che nelle occasioni solenni portava anche lui la bombetta.

Sabina raccontò a lungo della bombetta e del nonno, e quando ebbe vuotato il terzo bicchiere disse: “Aspetta un attimo” e sparì nel bagno.

Tornò con addosso l’accappatoio. Tereza prese la macchina fotografica e l’avvicinò all’occhio. Sabina aprì l’accappatoio.

A Tereza, la macchina fotografica serviva, allo stesso tempo, da occhio meccanico attraverso il quale osservare l’amante di Tomáš, e da velo con il quale nascondere davanti a lei il proprio viso.

Sabina ebbe bisogno di un certo tempo prima di decidersi a metter via del tutto dell’accappatoio. La situazione era in realtà un po’ più imbarazzante di quello che aveva immaginato. Dopo aver posato per diversi minuti, si avvicinò a Tereza e disse: “Adesso sarò io a fotografare te. Spogliati!”

Quella parola “spogliati” Sabina l’aveva sentita molte volte da Tomáš e le si era impressa nella mente. Era quindi un ordine di Tomáš che l’amante di Tomáš rivolgeva ora alla moglie di Tomáš. Le due donne erano così unite dalla stessa magica frase. Era questo il suo modo di trasformare, in maniera inattesa, un’innocente conversazione con le donne in una situazione erotica: non con le carezze, i contatti, i complimenti, le preghiere, ma con un ordine che lui dava all’improvviso, in maniera inattesa, a voce bassa eppure decisa e autoritaria, e a distanza: in quell’istante lui non toccava mai la donna. Anche a Tereza diceva spesso, in tono identico: “Spogliati!”, e anche se lo diceva a bassa voce, anche se soltanto lo sussurrava, era un ordine e ubbidirgli le dava sempre una certa eccitazione. Ora sentiva la stessa parola e la voglia di ubbidire era forse ancora maggiore perché ubbidire a un estraneo è pura follia, una follia in questo caso ancora più bella perché l’ordine non era dato da un uomo ma da una donna.

Sabina le prese la macchina fotografica e Tereza si spogliò. Stava davanti a Sabina nuda e disarmata. Letteralmente disarmata, vale a dire privata della macchina fotografica della quale un istante prime si era servita per nascondere il viso puntandola allo stesso tempo contro Sabina come un’arma. Era alla mercé dell’amante di Tomáš. Quella bella docilità l’inebriava. Desiderava che i secondi che passava nuda di fronte a lei non finissero mai.

Penso che anche Sabina sentisse il particolare fascino di una situazione che le metteva davanti la moglie del suo amante, stranamente docile e timida. Abbassò lo scatto due o tre volte, poi, come spaventata da quella fascinazione e ansiosa di scacciarla rapidamente, scoppiò a ridere forte.

Anche Tereza scoppiò a ridere e tutt’e due si rivestirono.

Tutti i precedenti crimini dell’Impero russo sono stati compiuti al riparo di un’ombra discreta. La deportazione di mezzo milione di lituani, l’assassinio di centinaia di migliaia di polacchi, la liquidazione dei tatari di Crimea, tutto ciò è rimasto nella memoria senza documenti fotografici e quindi, in fondo, come qualcosa di indimostrabile che, prima o poi, sarà fatto passare per una mistificazione. Invece l’invasione della Cecoslovacchia del 1968 è stata fotografata e filmata e depositata negli archivi di tutto il mondo.

I fotografi e gli operatori cechi capirono che proprio loro potevano fare l’unica cosa che si potesse ancora fare: conservare per un lontano futuro l’immagine di una violenza.

Tereza passò sette giorni interi sulle strade a fotografare soldati e ufficiali russi in ogni genere di situazioni compromettenti. I russi non sapevano che fare. Avevano ricevuto precise istruzioni su come comportarsi se qualcuno avesse sparato contro di loro o gettato delle pietre, ma nessuno aveva dato ordini su come reagire se qualcuno avesse puntato su di loro l’obiettivo di una macchina fotografica.

Tereza riempì una quantità di rullini. Ne distribuì quasi la metà, ancora da sviluppare, ai giornalisti stranieri (le frontiere erano ancora aperte, i giornalisti arrivavano dall’estero, almeno per dare un’occhiata, ed erano grati di qualsiasi documentazione). Molte delle sue foto comparvero sui più diversi quotidiani stranieri: si vedevano carri armati, pugni che minacciavano, case distrutte, morti coperti da una bandiera bianca rossa e blu insanguinata, ragazzi in motocicletta che giravano attorno ai carri armati a velocità folle agitando bandiere ceche sopra lunghe aste, e giovani ragazze con minigonne incredibili che provocavano i poveri soldati russi, tenuti a digiuno di sesso, e baciavano davanti ai loro occhi passanti sconosciuti. Come ho già detto, l’invasione russa non fu solo una tragedia, fu anche una festa dell’odio piena di una strana euforia che nessuno riuscirà mai a spiegare.

In Svizzera aveva portato con sé una cinquantina di fotografie che aveva sviluppato lei stessa con tutta la cura e tutta la maestria possibili. Andò a proporle a una grossa rivista illustrata. Il caporedattore l’accolse con cortesia (tutti i cechi portavano ancora attorno alla testa l’aureola della loro sventura, che commuoveva i buoni svizzeri), la fece sedere in un poltrona, osservò le foto, le elogiò e le spiegò che essendo ormai passato un po’ di tempo dagli avvenimenti erano foto (“certo molto belle!”) che non avevano alcuna speranza di essere pubblicate.

“Ma a Praga non è affatto finita!” protestava Tereza cercando di spiegarli, in un cattivo tedesco, che proprio adesso, con il paese occupato, a dispetto di tutto nelle fabbriche si formavano consigli operai, gli studenti scioperavano per protesta contro l’occupazione, e l’intero paese continuava a vivere come voleva. Era proprio questa la cosa incredibile! E non interessava più nessuno!

Il caporedattore fu contento quando nella stanza entrò una donna energica che interruppe la loro conversazione. Essa gli consegnò una cartella e disse: “È quel servizio sulla spiaggia nudista”.

Il caporedattore era una persona abbastanza delicata da temere che una ceca che fotografava carri armati trovasse frivole le immagini di gente nuda su una spiaggia. Mise quindi la cartelletta sul bordo più lontano del tavolo, e disse in fretta alla nuova venuta: “Ti presento una tua collega di Praga. Mi ha portato a vedere delle bellissime foto”.

La donna strinse la mano a Tereza e prese le sue fotografie.

“Guardi intanto le mie” disse.

Tereza si sporse verso la cartelletta ed estrasse le fotografie.

Il caporedattore disse a Tereza, con voce quasi di scusa: “Sono esattamente l’opposto di quello che ha fotografato lei”.

Tereza disse: “Niente affatto. Sono esattamente la stessa cosa”.

Nessuno capì quella frase, e anch’io trovo difficile spiegare ciò che Tereza voleva dire paragonando una spiaggia nudista all’invasione russa. Guardò le fotografie e si soffermò a lungo su una dove di vedeva una famiglia di quattro persone disposte in circolo: la madre nuda china sui bambini, con i grossi seni penduli come pendono le mammelle di una capra o di una mucca e, di schiena, chino allo stesso modo, il marito, con il pene e lo scroto che somigliavano anch’essi a una mammella in miniatura.

“Non le piace?” chiese il redattore.

“È ben fotografato”.

“È piuttosto l’argomento a scioccarla” disse la fotografa “Si vede subito che lei non andrebbe mai su una spiaggia di nudisti”.

“No” disse Tereza.

Il caporedattore sorrise: “È facile indovinare da dove viene. I paesi comunisti sono terribilmente puritani”.

La fotografa, con affettuosità materna, disse: “Corpi nudi! Non c’è niente di male! È

Normale! tutto ciò che è normale è bello!”.

Tereza si ricordò della madre che girava nuda per l’appartamento. Sentiva ancora la risata alle sue spalle quella volta che era corsa a tirare le tende affinché nessuno vedesse la madre nuda.

La fotografa invitò Tereza a prendere un caffè al bar.

“Le sue foto sono molto interessanti. Mi sono accorto che lei ha una sensibilità fantastica per il corpo femminile. Sa a cosa alludo! Quelle ragazze in atteggiamenti provocanti!”.

“Quelle che si baciano davanti ai carri armati russi?”.

“Sì. Lei sarebbe un’eccellente fotografa di moda. Certo, sarebbe necessario mettersi in contatto con qualche modella. Magari con una che stia cercando anche lei di mettersi in luce. Poi potrebbe fare una serie di foto fa mostrare alle agenzie. Naturalmente ci vorrà un po’ di tempo prima di sfondare. Intanto potrei fare una cosa per lei. Presentarla al redattore che dirige la rubrica "Il vostro giardino". Forse lì potrebbero aver bisogno di cactus, di rose e così via”.

“La ringrazio molto” disse Tereza sinceramente, vedendo che la donna che le stava davanti era piena di buona volontà.

Ma poi disse: Perché mai dovrei fotografare dei cactus? E sentì il disgusto di dover ripetere daccapo quello che aveva già fatto a Praga: lottare per il posto di lavoro, per la carriera, per ogni foto pubblicata.

Non era mai stata ambiziosa per vanità. Quello che voleva era fuggire dal mondo della madre. Sì, ora le era tutto chiaro: aveva fatto la fotografa con grande zelo, ma quello stesso zelo avrebbe potuto dedicarlo a qualsiasi altra attività, Perché fotografare non era che un mezzo per arrivare “più in alto” e vivere accanto a Tomáš.

Disse: “Sa, mio marito è medico e può mantenermi. Non sono obbligata a fare fotografie”.

La fotografa disse: “Non capisco come lei possa smettere, quando ha fatto delle foto così belle!”.

Sì, le foto dei giorni dell’invasione, quelle erano tutta un’altra cosa! Quelle non le aveva fatte per Tomáš. Le aveva fatte per passione. Ma non per la passione della fotografia bensì per la passione dell’odio.

Una situazione simile non si sarebbe ripetuta mai più. Del resto, proprio quelle foto che lei aveva fatto per passione non le voleva più nessuno perché non erano più attuali. Solo un cactus è attuale in eterno. E i cactus non la interessavano.

Disse: “Lei è molto gentile. Ma preferisco rimanere a casa. Non ho bisogno di un lavoro”.

La fotografa disse: “E rimanere a casa la soddisfa?”.

Tereza disse: “Più che fotografare cactus”.

La fotografa disse: “Anche se lei fotografa solo dei cactus, si tratta pur sempre della sua vita. Se vive solo per suo marito, la sua vita non è più sua”.

Tereza di colpo si irritò: “La mia vita è mio marito, non i cactus”.

Anche la fotografa era irritata ora: “Intende dire che lei è felice?”.

Tereza (sempre irritata) ribatté: “Certo che sono felice!”.

La fotografa disse: “Una donna che parla così dev’essere...” e non volle terminare il proprio pensiero.

Tereza lo completò: “Vuol dire: una donna molto limitata”.

La fotografa si controllò e disse: “Non limitata. Anacronistica”.

Tereza disse pensosa: “Ha ragione. È precisamente quello che dice di me mio marito”.

Ma Tomáš stava giornate intere all’ospedale e lei era a casa da sola. Era già tanto avere Karenin e poter fare con lui lunghe passeggiate! Quando tornava a casa, si sedeva davanti a un manuale di inglese o di francese. Ma era triste e si concentrava male. Le tornava spesso in mente il discorso che Dub⎝ek aveva pronunciato alla radio dopo il suo ritorno da Mosca. Ormai non ricordava più niente di quello che aveva detto, ma continuava a sentire la sua voce tremante. Pensava a lui: soldati stranieri l’avevano arrestato, arrestato lui, il capo di uno Stato indipendente, nel suo stesso paese, l’avevano portato via, l’avevano tenuto quattro giorni da qualche parte tra le montagne dell’Ucraina, gli avevano fatto capire che lo avrebbero fucilato così come avevano fucilato dodici ani prima il suo predecessore ungherese Imre Nagy, poi l’avevano trasferito a Mosca, gli avevano ordinato di farsi un bagno, di rasarsi, di vestirsi, di mettersi la cravatta, gli avevano comunicato che non era più destinato all’esecuzione, gli avevano ingiunto di considerarsi nuovamente un capo di Stato, lo avevano fatto sedere a un tavolo di fronte a Breznev e l’avevano costretto a negoziare.

Era ritornato umiliato e aveva parlato a una nazione umiliata. Era umiliato al punto di non poter parlare. Tereza non avrebbe mai dimenticato quelle terribili pause a metà delle frasi. Era davvero così esausto? Era malato? L’avevano drogato? Oppure non era che la disperazione? Se di Dub⎝ek non rimanesse nulla, quelle pause lunghe e terribili duranti le quali non riusciva a respirare, durante le quali boccheggiava davanti all’intera nazione incollata agli apparecchi, quelle pause rimarranno dopo di lui. In quelle pause c’era tutto l’orrore che si era abbattuto sul paese.

Era il settimo giorno dell’invasione, lei stava ascoltando quel discorso nella redazione di un quotidiano che in quei giorni si era trasformato nel portavoce della resistenza. Tutti quelli che erano lì ad ascoltare Dub⎝ek in quel momento lo odiarono. Gli rimproveravano il compromesso che aveva accettato, si sentivano umiliati dalla sua umiliazione e la sua debolezza li offendeva.

Quando adesso a Zurigo ripensava a quel momento, non sentiva più disprezzo per Dub⎝ek. La parola debolezza non suonava più come una condanna. Di fronte a una forza maggiore si è sempre deboli, anche quando si ha un corpo da atleta come Dub⎝ek. La debolezza che a quel tempo era sembrata loro insopportabile, ripugnante, e che li aveva cacciati via dal loro paese, quella debolezza all’improvviso l’attirava. Si rendeva conto di appartenere ai deboli, al campo dei deboli, a una nazione di deboli, e che ad essi doveva essere fedele appunto perché erano deboli e boccheggiavano a metà delle frasi.

Era attratta da quella debolezza come da una vertigine. Ne era attratta perché si sentiva lei stessa debole. Ricominciò a essere gelosa e ripresero a tremarle le mani. Tomáš se ne accorse e fece un gesto familiare: gliele prese tra le sue, e gliele strinse per calmarla. Lei si divincolò.

“Cos’hai?” disse lui.

“Niente”.

“Cosa vuoi che faccia per te?”.

“Voglio che tu sia vecchio. Più vecchio di dieci anni. Di vent’anni!”.

Con questo gli voleva dire: Voglio che tu sia debole. Che tu sia debole quanto me.

Karenin non aveva mai visto con entusiasmo il trasferimento in Svizzera. Karenin odiava i cambiamenti. Il tempo di un cane non è una linea retta, non si muove sempre in avanti, da una cosa alla successiva. Si muove in circolo, come il tempo delle lancette dell’orologio, le quali appunto non corrono come folli in avanti, bensì ruotano tutt’intorno al quadrante, un giorno dopo l’altro lungo lo stesso percorso. A Praga bastava che comprassero una sedia nuova o cambiassero posto a un vaso di fiori, e Karenin lo registrava con risentimento. Disturbava il suo senso del tempo. È come se le lancette si trovassero continuamente spostati i numeri del quadrante.

Tuttavia riuscì in breve a restaurare anche nell’appartamento di Zurigo il vecchio ordine e il vecchio cerimoniale. Come a Praga, la mattina saltava sul loro letto per dar loro il buongiorno, poi accompagnava Tereza a fare la spesa mattutina ed esigeva, come a Praga, le sue passeggiate regolamentari.

Era l’orologio della loro vita. Nei momenti di sconforto, Tereza si diceva che doveva resistere per lui, perché lui era più debole di lei, forse ancora più debole di Dub⎝ek e della sua patria abbandonata.

Ritornarono dalla passeggiata proprio mentre suonava il telefono. Lei sollevò la cornetta e chiese chi era.

Era una voce di donna, parlava tedesco e chiedeva di Tomáš. Era una voce impaziente e a Tereza parve di indovinare del disprezzo. Quando disse che Tomáš non era in casa e che non sapeva quando sarebbe ritornato, la donna dall’altra parte rise e attaccò senza salutare.

Tereza sapeva che si trattava di una cosa senza importanza. Poteva essere stata un’infermiera dell’ospedale, una paziente, una segretaria, chiunque. Eppure era innervosita e non riusciva a concentrarsi su nulla. Allora si rese conto di aver perso anche quel poco di forza che aveva un tempo in Boemia e di esser totalmente incapace di sopportare un incidente totalmente privo di importanza.

Chi viene all’estero cammina su un filo teso in alto nel vuoto senza la rete di protezione offerta dalla propria terra dove ci sono la famiglia, i colleghi, gli amici, dove ci si può facilmente far capire nella lingua che si conosce dall’infanzia. A Praga Tereza dipendeva da Tomáš soltanto nelle cose del cuore. Qui dipende da lui in tutto. Se lui l’abbandonasse, che ne sarebbe di lei? Deve dunque passare tutta la vita con la paura di perderlo?

Dice tra sé: Fin dall’inizio il loro incontro era fondato su un errore. L’ Anna Karenina che lei teneva sotto il braccio era la carta d’identità falsa con la quale aveva ingannato Tomáš. Si erano creati a vicenda un inferno, pur volendosi bene. Il fatto che si volevano bene era la dimostrazione che l’errore non era in loro stessi, nel loro comportamento o nel loro sentimento labile, bensì nella loro incompatibilità, poiché lui era forte e lei debole. Lei era come Dub⎝ek che a metà di una frase faceva una pausa di mezzo minuto, era come la sua patria che balbettava, boccheggiava e non riusciva a parlare.

Ma è proprio il debole che deve saper essere forte e andar via, quando il forte è troppo debole per poter dare del male al debole.

Questo si diceva, e poi, premendo la guancia contro la testa pelosa di Karenin: “Non arrabbiarti, Karenin. Dovrai cambiare appartamento un’altra volta”.

Sedeva schiacciava in un angolo dello scompartimento, la pesante valigia sopra la testa, Karenin tutto raggomitolato contro le gambe. Stava pensando al cuoco del ristorante dove lavorava quando viveva dalla madre. Approfittava di ogni occasione per darle una pacca sul sedere e molte volte davanti a tutti le aveva proposto di andare a letto con lui. Era strano che pensasse proprio a lui, ora. Per lei il cuoco rappresentava l’esempio tipico di tutto ciò che le ripugnava. Adesso però non pensava che a trovarlo e dirgli: “Dicevi di voler venire a letto con me. Ebbene, eccomi”.

Desiderava fare qualcosa che non lasciasse possibilità di ritorno. Desiderava distruggere brutalmente tutto il passato dei suoi ultimi sette anni. Era la vertigine.

L’ottenebrante, irresistibile desiderio di cadere.

La vertigine potremmo anche chiamarla ebbrezza della debolezza. Ci si rende conto della propria debolezza e invece di resisterle, ci si vuole abbandonare a essa. Ci si ubriaca della propria debolezza, si vuole essere ancor più deboli, si vuole cadere in mezzo alla strada, davanti a tutti, si vuole stare in basso, ancora più in basso.

Cercava di convincersi che non sarebbe rimasta a Praga e non avrebbe più fatto la fotografa. Sarebbe ritornata nella piccola città da dove un tempo l’aveva chiamata la voce di Tomáš.

Ma una volta a Praga, bisognava pure restarci un po’ per sbrigare molte cose pratiche. Cominciò a rimandare la partenza.

Così passarono cinque giorni e, all’improvviso, nell’appartamento comparve Tomáš.

Karenin si precipitò a leccargli il viso, risparmiando loro per un lungo istante la necessità di dirsi qualcosa.

Erano faccia a faccia in mezzo a una landa coperta di neve e tremavano di freddo.

Po si avvicinarono come amanti che si siano ancora mai baciati.

Lui le chiese: “Va tutto bene?”.

“Sì” rispose lei.

“Sei stata al giornale?”.

“Ho telefonato”.

“E allora?”.

“Niente Aspettavo”.

“Cosa?”.

Lei tacque. Non gli poteva dire che aspettava lui.

Torniamo a un istante che già conosciamo. Tomáš era disperato e aveva male allo stomaco. Si addormentò solo a tarda notte.

Poco dopo Tereza si svegliò. (Gli aerei russi giravano sopra Praga e non era possibile dormire con quel rumore). Il suo primo pensiero fu: lui era tornato a causa sua. A causa sua aveva mutato il proprio destino. Ora non era più lui a essere responsabile di lei, ora era lei responsabile di lui.

Quella responsabilità le sembrava superiore alle sue forza.

Ma poi all’improvviso si ricordò che la sera prima, un attimo dopo che lui era apparso sulla porta dell’appartamento, a una chiesa di Praga erano battute le sei. La prima volta che si erano incontrati, lei aveva finito di lavorare alle sei. Se lo vedeva davanti, seduto sulla panchina gialla e sentiva i rintocchi del campanile.

No, non era superstizione, era il senso della bellezza che liberava di colpo dall’angoscia e la riempiva di un nuovo desiderio di vivere. Ancora una volta gli uccelli delle coincidenze si erano posati sulle sue spalle. Aveva le lacrime agli occhi ed era immensamente felice di sentirò respirare accanto a sé.

PARTE TERZA

LE PAROLE FRAINTESE

Ginevra è una città di getti d’acqua e fontane, e di parchi con chioschi dove un tempo suonavano le orchestrine. Anche l’università si perde tra gli alberi. Franz aveva appena terminato la sua lezione del mattino ed era uscito dall’edificio. Un pulviscolo d’acqua schizzava dai mulinelli e ricadeva sull’erba. Franz era di ottimo umore. Lasciata l’università andò direttamente dalla sua amante. Abitava a un paio di strade da lì.

Si fermava spesso da lei, ma sempre come amico attento, mai come amante. Se avesse fatto l’amore con lei nel suo studio ginevrino, in una stessa giornata sarebbe passato da una donna a un’altra, dalla moglie all’amante e viceversa, e poiché a Ginevra marito e moglie dormono alla francese nello stesso letto, nel giro di poche ore lui sarebbe passato dal letto di una donna a quello di un’altra. Gli sembrava che così facendo avrebbe umiliato l’amante e la moglie, e in fin dei conti anche se stesso.

Il suo amore per la donna della quale era innamorato da alcuni mesi era per lui così prezioso che cercava di crearle nella propria vita uno spazio autonomo, un territorio inaccessibile di purezza. Veniva spesso invitato a tenere lezioni in diverse università straniere e ora accettava con sollecitudine tutti gli inviti. Dal momento che non erano poi molti, li arricchiva inventando congressi e simposi inesistenti, per motivare alla moglie le sue partenze. L’amante, disponendo liberamente di se stessa, lo accompagnava. In questo modo lui le aveva permesso di conoscere in poco tempo molte città europee e una città americana.

“Tra dieci giorni, se non hai niente in contrario, potremmo andare a Palermo” le disse.

“Preferisco Ginevra” rispose lei. Stava in piedi davanti al cavalletto ed esaminava una tela iniziata.

“Come puoi vivere senza conoscere Palermo?” cercò di scherzare Franz.

“Io Palermo la conosco” disse lei.

“Com’è possibile?” chiese lui, quasi con gelosia.

“Un’amica mi ha mandato una cartolina da lì. L’ho incollata in bagno con lo scotch.

Non te n’eri accorto?”.

Poi aggiunse: “C’era un poeta, all’inizio del secolo. Era già molto vecchio e il suo segretario lo accompagnava a fare le passeggiate. "Maestro," gli dice un giorno "guardi lassù! Oggi sopra la città vola il primo aeroplano!" "Posso immaginarmelo" disse il maestro al segretario, senza alzare gli occhi da terra. Vedi? Anch’io posso immaginarmi Palermo. Là ci sono gli stessi alberghi e le stesse automobili di tutte città. Almeno nel mio studio i quadri sono sempre diversi”.

Franz ci rimase male. Era così abituato a questo legame tra la sua vita amorosa e i viaggi, che aveva caricato il suo invito “Andiamo a Palermo” di un inequivocabile messaggio erotico. L’affermazione “Preferisco Ginevra” aveva quindi per lui un chiaro significato: l’amante non lo desiderava più come amante.

Come spiegare questa sua incertezza nei confronti di lei? Non ne aveva alcun motivo!

Anzi, era stata lei quella che aveva fatto le prime avances poco dopo che si erano conosciuti; lui era un bell’uomo; era all’apice della carriera scientifica, era addirittura temuto dai propri colleghi per l’orgoglio e la testardaggine che dimostrava nelle discussioni fra specialisti.

Perché, allora, si ripeteva ogni giorno che la sua amante voleva lasciarlo?

Non riesco a spiegarmelo se non col fatto che per lui l’amore non era un prolungamento della sua vita pubblica bensì il suo polo opposto. Significava per lui il desiderio di darsi in balìa all’altro. Chi si dà all’altro come un soldato si dà prigioniero, deve prima consegnare tutte le armi. E così privato di ogni difesa, non può fare a meno di chiedersi quando arriverà il colpo. Posso dunque affermare che Franz l’amore era una continua attesa di un colpo imminente.

Mentre lui si abbandonava alla propria angoscia, la sua amante aveva posato il pennello ed era andata nella stanza accanto. Tornò con una bottiglia di vino. Senza parlare l’aprì e riempì due bicchieri.

A lui cadde un peso dal cuore e si sentì ridicolo. Le parole “Preferisco Ginevra” non significavano che lei non volesse più fare l’amore con lui, ma esattamente il contrario, che ormai non la interessava più limitare i momenti d’amore soltanto alle città straniere.

Lei sollevò il bicchiere e bevve fino in fondo. Anche Franz alzò il bicchiere e bevve.

Certo, era felicissimo che il rifiuto del viaggio a Palermo si fosse dimostrato un invito a fare l’amore, ma subito gli dispiacque un po’: la sua amante aveva deciso di infrangere la regola di purezza che lui aveva introdotto nel loro rapporto; non aveva compreso i suoi sforzi angosciosi per salvaguardare l’amore dalla banalità e per separarlo radicalmente dal suo tetto coniugale.

Non fare l’amore con la pittrice a Ginevra era in fondo un castigo che lui si era inflitto da sé per essere sposato con un’altra donna. Lo sentiva come una colpa o come un difetto. Anche se di una vita sessuale con la moglie non era nemmeno il caso di parlare, dormivano pur sempre nello stesso letto, si svegliavano l’un l’altro nella notte con i loro respiri rochi, aspiravano reciprocamente gli odori dei loro corpi. Lui avrebbe certo preferito dormire da solo, ma il letto comune rimaneva il simbolo del matrimonio, e i simboli, come sappiamo, sono intoccabili.

Ogni volta che si sdraiava nel letto accanto alla moglie, pensava all’amante che lo stava immaginando nell’atto di sdraiarsi nel letto accanto alla moglie. Ogni volta quell’idea lo riempiva di vergogna, e appunto per questo voleva mettere quanto più spazio possibile tra il letto dove dormiva con la moglie e il letto dove faceva l’amore con l’amante.

La pittrice si versò ancora del vino, bevve un sorso e poi, in silenzio, con una strana indifferenza, come se Franz non ci fosse affatto, si tolse lentamente la camicetta. Si comportava come l’allievo di una scuola d’arte drammatica che debba mostrare, nell’ora di esercitazione, come si comporta quando è solo in una stanza e nessuno lo vede.

Rimase in gonna e reggiseno. Poi (come se soltanto allora si fosse ricordata di non essere sola nella stanza) posò su Franz un lungo sguardo.

Quello sguardo lo mise in imbarazzo perché non ne capiva il senso. Tra gli amanti si stabiliscono rapidamente delle regole del gioco di cui essi non sono coscienti, ma che hanno però validità e non devono essere trasgredite. Lo sguardo che lei aveva posato in quell’istante su di lui si sottraeva a quelle regole; non aveva niente in comune con gli sguardi e i gesti che precedevano di solito il momento di fare l’amore. In esso non c’era né provocazione né civetteria, quanto piuttosto una domanda. Solo che Franz non aveva la minima idea di che cosa chiedesse quello sguardo.

Lei si tolse la gonna. Prese Franz per mano e lo girò verso un grande specchio che stava a un passo da loro, appoggiato alla parete. Senza lasciargli la mano, continuò a guardare nello specchio sempre con quel lungo sguardo interrogativo, un po’ se stessa e un po’ lui.

A terra, vicino allo specchio, c’era un supporto su cui posava una vecchia bombetta nera. Lei si chinò a prenderla e se la mise in testa. L’immagine nello specchio mutò di colpo: ora c’era una donna in mutandine e reggiseno, bella, inaccessibile, indifferente, con sulla testa una bombetta terribilmente fuori luogo. Teneva per mano un uomo in abito grigio e cravatta.

Lui dovette nuovamente sorridere di quanto poco capiva la sua amante. Non si era spogliata per invitarlo a fare l’amore ma per eseguire una strana farsa, un happening intimo solo per loro due. Sorrise con l’aria di chi ha capito ed è d’accordo.

Si aspettava che la pittrice gli sorridesse a sua volta, ma non fu così. Lei non gli lasciava la mano e guardava alternativamente nello specchio se stessa e lui.

La durata dell’happening aveva superato il suo limite. Franz cominciò a pensare che quella farsa (certo graziosa, lo riconosceva) si prolungava un po’ troppo. Prese perciò delicatamente la bombetta con due dita, la tolse con un sorriso dalla testa di lei e la poggiò nuovamente sul supporto. Fu come se avesse cancellato con un colpo di gomma i baffi che qualche discolo aveva disegnato su un quadro della Madonna.

Lei rimase ancora per qualche istante immobile a guardarsi nello specchio. Poi Franz la coprì di teneri baci. La pregò nuovamente di partire con lui per Palermo tra una decina di giorni. Questa volta lei glielo promise senza fare obiezioni e lui andò via.

Era di nuovo di ottimo umore. Ginevra, che per tutta la vita aveva maledetto come una metropoli di noia, gli appariva bella e piena di avventure. Era già in strada e si voltò indietro a guardare, alzando lo sguardo all’ampia finestra dello studio. Erano gli ultimi giorni di primavera, faceva caldo, tutte le finestre erano schermate da tende a strisce. Franz raggiunse il parco: al di sopra degli alberi si stagliavano in lontananza le cupole d’oro della chiesa ortodossa, come palle di cannone dorate che una forza invisibile avesse fermato un attimo prima che toccassero terra lasciandole sospese nell’aria. Era bello. Franz scese verso la banchina per prender il battello pubblico e farsi portare sulla riva nord del lago dove abitava.

Sabina era rimasta sola. Ritornò davanti allo specchio. Era sempre in mutandine e reggiseno. Si mise di nuovo la bombetta e rimase a lungo a osservarsi. Si meravigliava lei stessa di inseguire da così tanti anni un istante perduto.

Una volta, molti anni prima, Tomáš era andato da lei ed era stato attratto dalla bombetta. Se l’era messa ed era stato a guardarsi nel grande specchio che anche allora, come qui, era appoggiato al muro dello studio praghese. Voleva sapere come gli stava l’aria da sindaco del secolo scorso. Quando poi Sabina aveva cominciato lentamente a spogliarsi, lui le aveva messo la bombetta in testa. Erano rimasti davanti allo specchio (ci stavano sempre davanti quando lei si spogliava) e vi si erano guardati. Lei aveva indosso soltanto la biancheria intima e la bombetta in testa. Poi, all’improvviso, lei aveva capito che quella vista li eccitava entrambi.

Com’era possibile? Ancora un istante prima la bombetta che aveva in testa le era parsa un semplice scherzo. C’è forse soltanto un passo tra ciò che è comico e ciò che è eccitante?

Sì. Quando quella volta si era guardata nello specchio, nei primi istanti non vi aveva visto altro che una situazione buffa. Ma immediatamente il comico era stato sommerso dall’eccitazione: la bombetta non era più uno scherzo, significava una violenza; una violenza fatta a Sabina, alla sua dignità di donna. Si vedeva con le gambe nude, con le mutandine sottili attraverso le quali si intravedeva il triangolo del pube. La biancheria intima sottolineava la grazia della sua femminilità e il cappello duro da uomo quella femminilità la negava, la violentava, la metteva in ridicolo. Tomáš le stava accanto, completamente vestito, sicché ne risultava che l’essenza di ciò che entrambi vedevano non era affatto uno scherzo (anche lui avrebbe dovuto essere in biancheria intima e con una bombetta in testa), bensì l’umiliazione. Invece di rifiutare quell’umiliazione, lei la sfoggiava orgogliosamente e con provocazione, come sottomettendosi volontariamente e pubblicamente a uno stupro, e all’improvviso, incapace di resistere oltre, aveva rovesciato Tomáš a terra. La bombetta era rotolata sotto il tavolo mentre loro si dimenavano sul tappeto davanti allo specchio.

Torniamo ancora alla bombetta.

Per prima cosa era un ricordo molto vago di un nonno dimenticato, sindaco di una cittadina ceca del secolo scorso.

In secondo luogo era un ricordo del padre. Dopo il funerale, suo fratello si era appropriato di tutti i beni dei genitori e lei, per un ostinato orgoglio, si era rifiutata di battersi per i nostri diritti. Aveva dichiarato sarcasticamente che come unica eredità del padre avrebbe preso la bombetta.

In terzo luogo era l’accessorio dei giochi amorosi con Tomáš. In quarto luogo era un segno della sua originalità, che lei coltivava deliberatamente. Quando era emigrata, non aveva potuto portare con sé molte cose e prendere quell’oggetto voluminoso e per nulla pratico aveva voluto dire rinunciare ad altri più pratici. In quinto luogo all’estero la bombetta era diventata un oggetto sentimentale. Quando era andata da Tomáš a Zurigo, aveva preso con sé la bombetta, e l’aveva in testa quando gli aveva aperto la porta della camera d’albergo. Quella volta era accaduto qualcosa che lei non si aspettava: la bombetta non era più né buffa né eccitante, era diventata un ricordo del tempo passato. Erano entrambi commossi. Avevano fatto l’amore come mai prima: non c’era posto per i giochi osceni, perché il loro incontro non era la continuazione dei loro incontri erotici, quando inventavano ogni volta qualche nuovo piccolo vizio, bensì una ricapitolazione del tempo, un canto al loro passato comune, la somma sentimentale di una storia non sentimentale che si perdeva in lontananza.

La bombetta era diventata il tema della musicale che costituiva la vita di Sabina. Quel tema ritornava in continuazione, e ogni volta con un significato diverso; tutti quei significati scorrevano attraverso la bombetta come l’acqua nel letto di un fiume. Potrei chiamarlo il letto del fiume di Eraclito: “Non si può entrare due volte nello stesso fiume!”. La bombetta era il letto nel quale Sabina vedeva scorrere ogni volta un altro fiume, un altro fiume semantico: lo stesso oggetto risvegliava ogni volta un nuovo significato, ma insieme a quel significato risuonavano (come un’eco, come un corteo di echi) tutti i significati trascorsi.

Ogni nuova esperienza risuonava di un’armonia sempre più ricca. Tomáš e Sabina in quell’albergo di Zurigo si erano commossi alla vista della bombetta e avevano fatto l’amore quasi piangendo, perché quella cosa nera non era soltanto un ricordo dei loro giochi d’amore ma anche un ricordo del padre di Sabina e del nonno vissuto in un secolo senza automobili e senza aerei.

Ora, forse, possiamo capire meglio l’abisso che separava Sabina e Franz: lui ascoltava con avidità la storia della sua vita e lei, con la stessa avidità, lo ascoltava.

Capivano perfettamente il significato logico delle parole che si dicevano, ma non sentivano il mormorio del fiume semantico che scorreva in quelle parole.

Per questo, quando lei si era messa la bombetta davanti a Franz, lui si era sentito a disagio, come se qualcuno gli avesse parlato in una lingua sconosciuta. Quel gesto non gli era parso né osceno né sentimentale, era soltanto un gesto incomprensibile che lo sconcertava per la sua assenza di significato.

Fintanto che le persone sono giovani e la composizione musicale della loro vita è ancora alle prime battute, essi possono scriverla in comune e scambiarsi i temi (così come Tomáš e Sabina si sono scambiati il tema della bombetta), ma quando si incontrano in età più matura, la loro composizione musicale è più o meno completa, e ogni parola, ogni oggetto, significano qualcosa di diverso nella composizione di ciascuno.

Se seguissi tutte le conversazioni tra Sabina e Franz, con i loro fraintendimenti potrei mettere insieme un grosso dizionario. Accontentiamoci di uno piccolo.

Piccolo dizionario di parole fraintese

(prima parte)

DONNA.

Essere donna è per Sabina un destino che lei non si è scelta. Ciò che non abbiamo scelto non possiamo considerarlo né un nostro merito né un nostro fallimento.

Sabina pensa che sia necessario tenere un atteggiamento corretto nei confronti del destino che le è stato assegnato. Ribellarsi contro il fatto di essere nata donna le sembra altrettanto sciocco che farsene un vanto.

Una volta, durante uno dei loro primi incontri, Franz le aveva detto, con una sottolineatura curiosa: “Sabina, lei è una donna”. Lei non capiva perché lui le desse questo annuncio con la solennità di un Cristoforo Colombo che ha appena avvistato la costa dell’America. Solo più tardi aveva capito che la parola donna, che lui aveva pronunciato con un’enfasi particolare, non designava per lui uno dei due sessi della specie umana, ma rappresentava un valore. Non tutte le donne erano degne di essere chiamate donne.

Ma se per Franz Sabina è una donna, che cos’è per lui Marie-Claude, la sua vera moglie? Più di vent’anni prima, quando si conoscevano da alcuni mesi, Marie-Claude lo aveva minacciato di togliersi la vita se lui l’avesse abbandonata. Franz era rimasto affascinato da quella minaccia. Marie-Claude non gli piaceva molto, ma il suo amore gli pareva meraviglioso. Gli sembrava di non essere degno di un così grande amore e di doversi inchinare profondamente davanti a esso.

Si inchinò quindi fino a terra e la sposò. E anche se Marie-Claude non aveva mai più manifestato la stessa intensità di sentimento di quando aveva minacciato di suicidarsi, in lui era rimasto vivo l’imperativo: non farle del male e rispettare in lei la donna.

Questa frase è interessante. Non diceva: rispettare Marie-Claude, bensì: rispettare la donna in Marie-Claude.

Ma se Marie-Claude è appunto una donna, chi è quell’altra donna che si nasconde in lei e che lui deve rispettare? Che sia l’idea platonica della donna?

No. È sua madre. Mai gli sarebbe venuto in mente di dire che rispettava la donna in sua madre. Adorava la madre e non una qualche donna in lei. L’idea platonica della donna e la madre erano tutt’uno.

Franz aveva dodici anni quando il padre abbandonò la madre all’improvviso. Il ragazzo intuì che era accaduto qualcosa di grave, ma la madre velò il dramma dietro parole misurate e neutre, per non turbarlo. Quello stesso giorno erano andati in città e Franz, uscendo di casa, si era accorto che la madre aveva ai piedi scarpe diverse. Rimase confuso, voleva farglielo notare, ma allo stesso tempo temeva in quel modo di ferirla. E così aveva passato due ore con lei in giro per la città e per tutto il tempo non aveva potuto staccare gli occhi dai suoi piedi. Allora, per la prima volta, aveva cominciato a capire che cos’è la sofferenza.

FEDELTÀ E TRADIMENTO.

L’aveva amata dall’infanzia fino al momento in

cui l’aveva accompagnata al cimitero, e l’amava anche nel ricordo. Da questo gli veniva l’idea che la fedeltà sia la prima fra tutte le virtù, che la fedeltà conferisca unità alla nostra vita, la quale altrimenti si frantumerebbe in migliaia di impressioni fuggitive.

Franz raccontava spesso a Sabina della madre, forse persino con una sorta di calcolo inconscio: supponeva che Sabina sarebbe stata affascinata dalla sua capacità di essere fedele e che, in quel modo, lui l’avrebbe conquistata.

Non sapeva che Sabina era affascinata dal tradimento e non dalla fedeltà. La parola fedeltà le ricordava il padre, un puritano provinciale che la domenica dipingeva per proprio piacere il tramonto del sole al di là del bosco e vasi di rose. Grazie a lui aveva cominciato a dipingere fin da bambina. A quattordici anni si era innamorata di un ragazzo della sua età. Il padre si spaventò e per un anno non le permise di uscire da sola. Un giorno le mostrò delle riproduzioni di Picasso ridendone forte. Se lei non aveva il permesso di amare il compagno quattordicenne, avrebbe amato almeno il cubismo. Dopo la maturità era andata a Praga con l’euforica sensazione di poter finalmente tradire la sua famiglia.

Il tradimento. Fin da piccoli il papà e il maestro ci dicono che è la cosa peggiore che si possa immaginare. Ma che cos’è questo tradire? Tradire significa uscire dai ranghi.

Tradire significa uscire dai ranghi e partire verso l’ignoto. Sabina non conosceva niente di più bello che partire verso l’ignoto.

Studiava all’Accademia di Belle Arti ma non le era per messo di dipingere come Picasso. Era l’epoca in cui si doveva obbligatoriamente praticare il cosiddetto realismo socialista e a scuola si confezionavano ritratti di uomini di Stato comunisti. Il suo desiderio di tradire il padre rimase inappagato perché il comunismo non era che un altro padre, ugualmente severo e limitato, che vietava l’amore (l’epoca era puritana) e anche Picasso.

Sposò un mediocre attore di Praga solo perché aveva fama di testa calda ed era inaccettabile per entrambi i padri.

Poi morì sua madre. Il giorno dopo che era tornata a Praga dal funerale, ricevette un telegramma: il padre si era tolto la vita per il dolore.

Fu presa dai rimorsi: era così terribile che il padre dipingesse vasi di rose e che non gli piacesse Picasso? Era così condannabile che avesse paura che lei, la figlia quattordicenne, tornasse a casa incinta? Era così ridicolo che non potesse continuare a vivere senza la moglie?

Fu nuovamente assalita dal desiderio di tradire: di tradire il proprio tradimento.

Annunciò al marito (non vedeva più in lui la testa calda, ma solo un fastidioso ubriaco) che lo avrebbe lasciato. Ma se tradiamo B, per il quale abbiamo tradito B, non ne deriva necessariamente che ci riconcilieremo con A. La vita della pittrice divorziata non somigliava alla vita dei genitori traditi. Il primo tradimento è irreparabile. Esso provoca una reazione a catena di nuovi tradimenti, ciascuno dei quali ci allontana sempre più dal punto del tradimento originario.

MUSICA.

Per Franz è l’arte che più si avvicina alla bellezza dionisiaca intesa come ebbrezza. Un uomo non può essere ebbro di un romanzo o di un quadro, ma può ubriacarsi della Nona di Beethoven, della Sonata per due pianoforti e percussione di Bartók o di una canzone dei Beatles. Franz non fa distinzione tra musica classica e musica leggera.

Questa distinzione gli sembra antiquata e ipocrita. Ama allo stesso modo il rock e Mozart.

Considera la musica come una forza liberatrice: essa lo libera dalla solitudine, dalla chiusura, dalla polvere delle biblioteche, apre nel suo corpo una porta attraverso la quale l’anima esce nel mondo per fraternizzare. Ama ballare e gli spiace che Sabina non condivida con lui questa passione.

Siedono insieme al ristorante e dall’altoparlante una rumorosa musica ritmata li accompagna mentre mangiano.

Sabina dice: “È un circolo vizioso. La gente diventa sorda perché mette la musica a volume sempre più alto. E poiché diventa sorda, non le rimane che metterla a volume ancora più alto”.

“A te la musica non piace?” chiede Franz.

“No” dice Sabina. Poi aggiunge: “Magari, se fossi vissuta in un’altra epoca...” e pensa al tempo in cui viveva Johann Sebastian Bach e la musica assomigliava a una rosa fiorita sulla sconfinata landa nevosa del silenzio.

Il rumore mascherato da musica la insegue fin dalla prima giovinezza. Quando studiava all’Accademia di Belle Arti doveva passare tutte le vacanze in un cosiddetto cantiere della gioventù. Abitavano in camerate comuni e lavoravano alla costruzione di un’acciaieria. La musica strepitava dagli altoparlanti dalle cinque del mattino alle nove di sera. Lei aveva voglia di piangere, ma la musica era allegra e non si poteva sfuggirle da nessuna parte, nemmeno al gabinetto, nemmeno a letto sotto le coperte, gli altoparlanti erano dappertutto. La musica era come una muta di cani lanciati contro di lei.

A quel tempo lei pensava che quella barbarie della musica regnasse solo nel mondo comunista. All’estero, ha scoperto che la trasformazione della musica in rumore è un processo planetario che fa entrare l’umanità nella fase storica della bruttezza totale. La bruttezza si è manifestata dapprima come onnipresente bruttezza acustica: le automobili, le motociclette, le chitarre elettriche, i martelli pneumatici, gli altoparlanti, le sirene.

L’onnipresenza della bruttezza visiva non tarderà a seguire.

Cenarono, salirono in camera, fecero l’amore, e a Franz i pensieri si confusero sulla soglia del sonno. Si ricordò della musica rumorosa durante la cena e gli venne da pensare: “Il rumore ha un vantaggio. Non fa sentire le parole”. Si rese conto che, dalla giovinezza, non aveva fatto altro che parlare, scrivere, fare lezione, pensare frasi, cercare formulazioni, correggerle, sicché alla fine nessuna parola era precisa, il loro senso sfumava, sbiadiva, perdevano contenuto e si trasformavano in briciole, in crusca, in polvere, in sabbia che gli vagava per il cervello, gli faceva male alla testa, era la sua insonnia, la sua malattia. E in quell’istante desiderò, in maniera confusa ma intensa, una musica vastissima, il rumore assoluto, il frastuono bello e allegro che abbraccia ogni cosa, che inonda e assorda, e nel quale scompariranno per sempre il dolore, la vanità e la vacuità delle parole. La musica era la negazione delle frasi, la musica era l’antiparola! Desiderava stare in un lungo abbraccio con Sabina, tacere, non dire mai più una sola frase e lasciar confluire il piacere nel tumulto orgiastico della musica. In quel beato fragore immaginario si addormentò.

LUCE E BUIO.

Per Sabina vivere significa vedere. Il vedere è limitato da due confini: la luce forte che acceca il buio totale. È forse questo a determinare in Sabina il disgusto verso qualsiasi forma di estremismo. Gli estremi significano i confini oltre i quali la vita termina, e la passione i confini oltre i quali la vita termina, e la passione per l’estremismo, in arte come in politica, è un desiderio di morte mascherato.

La parola “luce” non evoca in Franz l’immagine di un paesaggio sul quale si posa il morbido splendore del giorno, bensì la fonte della luce in quanto tale: il sole, una lampadina, un riflettore. A Franz vengono in mente metafore note: il sole della verità, la luce accecante della ragione, ecc.

Così come la luce, anche il buio lo attira. Sa che oggigiorno viene considerato ridicolo spegnere la luce quando si fa l’amore, e per questo lascia accesa sopra il letto una piccola lampada. Però, nell’istante in cui penetra Sabina, chiude gli occhi. Il piacere che lo riempie richiede il buio. È un buio puro, perfetto, senza pensieri e senza visioni, è un buio senza fine, senza confini, è il buio dell’ìnfinito che ciascuno di noi porta dentro di sé. (Sì, se si cerca l’infinito, basta chiudere gli occhi!).

Nell’istante in cui sente il piacere spandersi nel suo corpo, Franz si allunga e si dissolve nell’infinito del proprio buio, diventa egli stesso infinito. Ma quanto più un uomo ingrandisce nel proprio buio interiore, tanto più rimpicciolisce nell’aspetto esteriore. Un uomo con gli occhi chiusi è un rifiuto umano. Per Sabina quella vista è spiacevole, non vuole guardare Franz e perciò chiude gli occhi anche lei. Ma per lei quel buio non significa l’infinito bensì un semplice dissidio con la cosa vista, la negazione della cosa vista, il rifiuto di vedere.

Sabina si era lasciata convincere a partecipare a una riunione di connazionali.

Discutevano, come al solito, se si fosse dovuto o no combattere contro i russi con le armi in pugno. E naturalmente lì, nella sicurezza dell’emigrazione, tutti dichiaravano che si sarebbe dovuto combattere. Sabina disse: “E allora tornate là a combattere!”.

Non era una cosa da dire. Un uomo dai capelli brizzolati e arricciati puntò su di lei il lungo indice: “Non parli in questo modo! Siete tutti responsabili di ciò che è stato. Anche lei.

Cosa ha fatto lei in patria contro il regime comunista? Ha dipinto dei quadri, e basta...”.

Nei paesi comunisti la valutazione e il controllo dei cittadini è l’attività sociale principale e costante. Se un pittore deve ricevere il permesso di esporre, se un cittadino deve ottenere il visto per andare in vacanza al mare, se un calciatore deve entrare nella nazionale, per prima cosa si devono raccogliere tutti i giudizi e le informazioni su di lui (dalla portinaia, dai colleghi, dalla polizia, dalla cellula di partito, dai sindacati), giudizi che poi vengono addizionati, soppesati e riassunti da particolari funzionari a ciò preposti. Questi giudizi però non hanno mai a che fare con la capacità del cittadino di dipingere, con la sua capacità di giocare a pallone o con la sua salute che necessita di un soggiorno al mare. Hanno a che fare semplicemente con quello che viene chiamato il “profilo politico del cittadino” (ciò che il cittadino dice, ciò che pensa, come si comporta, come partecipa alle riunioni o ai cortei del primo maggio). Dal momento che ogni cosa (la vita di ogni giorno, l’avanzamento nel lavoro, anche le vacanze) dipende da come il cittàdino sarà valutato, chiunque (se vuole giocare a pallone nella nazionale, oppure organizzare una mostra o passare le vacanze al mare) deve comportarsi in modo tale da ricevere un giudizio favorevole.

A questo stava pensando in quel momento Sabina mentre ascoltava parlare l’uomo dai capelli grigi. Egli non si preoccupava di sapere se i suoi connazionali giocavano bene al calcio o dipingevano bene (nessun ceco si era mai interessato a quello che Sabina dipingeva); gli interessava solo stabilire se si erano opposti al regime comunista in maniera attiva o passiva, sul serio o soltanto in apparenza, fin dall’inizio o soltanto adesso.

Essendo una pittrice, Sabina aveva occhio per i visi e fin dai tempo di Praga conosceva la fisionomia delle persone la cui passione è valutare gli altri. Avevano tutti l’indice leggermente più lungo del medio e lo puntavano sugli interlocutori. Del resto, anche il presidente Novotný, che era stato al potere in Boemia per quattordici anni fino al 1968, aveva quegli stessi capelli grigi arricciati dal barbiere col ferro rovente e vantava l’indice più lungo di tutti gli abitanti dell’Europa Centrale.

Quando l’emerito emigrante sentì dalle labbra di quella pittrice, i cui quadri lui non aveva mai visto, che assomigliava al presidente comunista Novotný, si fece paonazzo, impallidì, tornò a farsi paonazzo, impallidì di nuovo, voleva dire qualcosa, non disse nulla e ammutolì. Tutti tacevano con lui, e Sabina finì per alzarsi e uscire.

Si sentiva rattristata ma, come fu sul marciapiede, si chiese perché mai dovesse mantenere i contatti con gli altri cechi. Che cosa la univa a loro? Un paese? Se ognuno di loro avesse dovuto dire che cosa evocava il lui il nome Boemia, ai loro occhi si sarebbero offerte immagini, disparate, prive di qualsiasi unità.

La cultura, allora? Ma che cos’è la cultura? La musica? Dvorák e Janácek? Sì. Ma se un ceco non ha orecchio per la musica? Ecco che l’essenza del carattere ceco svanisce di colpo.

O forse i grandi uomini? Jan Hus? Nessuna di quelle persone aveva letto una solo riga dei suoi libri. L’unica cosa che potessero capire concordemente erano le fiamme, la gloria delle fiamme nelle quali era stato bruciato come eretico sul rogo, la gloria della cenere che egli era divenuto, sicché l’essenza del carattere ceco, diceva Sabina tra sé, per loro è solamente cenere, niente di più. Ciò che unisce quelle persone è soltanto la loro sconfitta e rimproveri che si rivolgono l’un l’altro.

Camminava veloce per la strada. Più che l’addio agli emigrati, la turbavano i suoi pensieri. Sapeva di essere ingiusta. Tra i cechi c’erano in realtà anche persone diverse dall’uomo col lungo indice. Il silenzio imbarazzato che aveva fatto seguito alle sue parole non voleva affatto dire che tutti fossero contro di lei. Erano probabilmente sorpresi da quell’odio improvviso, da quell’incomprensione di cui qui in emigrazione tutti rimangono vittima. Ma allora perché non provava pietà per loro? Perché non vedeva in loro delle creature commoventi e abbandonate?

Il perché noi già lo sappiamo: quando ha tradito suo padre, la vita le si è aperta davanti come una lunga strada di tradimenti, e ogni nuovo tradimento la attira come un vizio e come una vittoria. Non vuole stare e non starà nei ranghi! Si rifiuta di stare nei ranghi, sempre con le stesse persone e gli stessi discorsi! Per questo la turba tanto la propria ingiustizia. Ma non è un turbamento spiacevole, anzi, Sabina ha la sensazione di avere appena ottenuto una vittoria e di essere applaudita da un personaggio invisibile.

Ma quell’ebbrezza cedette ben presto all’angoscia: Quella strada deve pur finire a un certo punto! Una volta o l’altra lei deve smetterla con i tradimenti! Una volta o l’altra deve fermarsi!

Era sera e lei si affrettava sul marciapiede della stazione. Il treno per Amsterdam si era già formato. Cercò il suo vagone. Aprì la porta dello scompartimento dove l’aveva accompagnata un controllore gentile, e vide Franz seduto su un letto già pronto. Lui si alzo per salutarla e lei gli buttò le braccia al collo e lo coprì di baci.

Aveva un desiderio terribile di dirgli, come la più banale delle donne: Non lasciarmi, tienimi con te, dòmami, soggiògami, sii forte! Ma erano parole che non poteva né sapeva pronunciare.

Quando l’ebbe sciolto dall’abbraccio, disse soltanto: “Come sono felice di essere con te”. Con il suo carattere riservato, era il massimo che potesse dire.

Piccolo dizionario di parole fraintese (continuazione) CORTEI.

Per la gente in Italia o in Francia è facile. Quando i genitori li obbligano ad andare in chiesa, loro si vendicano iscrivendosi a un partito (comunista, maoista, trockista, ecc.). Il padre di Sabina invece l’aveva mandata prima in chiese e poi, per paura, l’aveva obbligata lui stesso a entrare nella Gioventù comunista.

Quando andava alla parta del primo maggio. Sabina non riusciva a tenere il passo, e la ragazza che le veniva dietro la insultava e le pestava i talloni. E quando si doveva cantare, non conosceva mai il testo delle canzoni e si limitava ad aprire e chiudere la bocca. Le sue compagne però se ne accorgevano e le facevano rapporto. Dalla giovinezza Sabina odiava ogni tipo di corteo.

Franz aveva studiato a Parigi e poiché era straordinariamente dotato, già a vent’anni aveva davanti a sé una carriera scientifica assicurata. Già allora sapeva che avrebbe passato tutta la vita tra le pareti di uno studiolo universitario, delle biblioteche pubbliche e di due tre aule; questa idea gli dava una sensazione di soffocamento. Voleva uscire dalla propria vita come da un appartamento si esce in strada.

Per questo, quando viveva a Parigi, amava partecipare alle manifestazioni. Era bello andare a celebrare qualcosa, a rivendicare qualcosa, a protestare contro qualcosa, non essere soli, stare all’aperto e insieme agli altri. I cortei che affluivano dal Boulevard Saint-Germain o da Place de la République verso la Bastiglia lo affascinavano. La folla che marciava scandendo slogan era per lui l’immagine dell’Europa e della sua storia. L’Europa era la Grande Marcia. Una marcia di rivoluzione in rivoluzione, di battaglia in battaglia, sempre avanti.

Potrei metterla in un altro modo: a Franz la vita tra i libri pareva irreale. Desiderava fortemente la vita reale, le loro grida. Non si rendeva conto che ciò che lui considerava irreale (il suo lavoro nella solitudine di uno studio o delle biblioteche) era la sua vita reale, mentre i cortei che rappresentavano per lui la realtà, non erano che teatro, una danza, una festa, o per dirla in altro modo: un sogno.

Al tempo dei suoi studi, Sabina abitava in una Casa dello studente. Il primo maggio tutti gli studenti dovevano trovarsi al mattino presto nel punto di raccolta del corteo.

Affinché non mancasse nessuno, i funzionari studenteschi controllavano che l’edificio fosse vuoto. Lei si nascondeva nei gabinetti e tornava nella sua camera soltanto quando tutti erano via già da un pezzo. C’era un silenzio che non aveva mai conosciuto prima. Solo da molto lontano giungeva la musica del corteo. Era come essere nascosta dentro una conchiglia e sentir giungere da molto lontano il mare di un mondo nemico.

Un paio d’anni dopo aver lasciato la Boemia, si trovò del tutto casualmente a Parigi proprio nell’anniversario dell’invasione russa. Si teneva una manifestazione di protesta e lei non poté fare a meno di parteciparvi. I giovani francesi sollevavano il pugno urlando slogan contro l’imperialismo sovietico. Quegli slogan le piacevano, ma all’improvviso scoprì con stupore di non essere capace di gridare insieme agli altri. Non resistette nel corteo che pochi minuti.

Confidò quell’esperienza agli amici francesi. Ne furono stupefatti: “Ma allora tu non vuoi lottare contro l’occupazione del tuo paese?”. Lei voleva dir loro che dietro il comunismo, dietro il fascismo, dietro tutte le occupazioni e tutte le invasioni si nasconde un male ancora più fondamentale e universale, e che l’immagine di quel male era per lei un corteo di gente che marcia levando il braccio e gridando all’unisono le stesse sillabe. Ma sapeva che non sarebbe riuscita a spiegarglielo. Imbarazzata, spostò la conversazione su un altro argomento.

LA BELLEZZA DI NEW YORK. Passavano ore intere a girare per New York: la scena cambiava a ogni passo, come quando si cammina lungo un sentiero serpeggiante in un incantevole paesaggio montano: un giovanotto pregava inginocchiato in mezzo al marciapiede, a poca distanza da lui, appoggiata a un albero, sonnecchiava una bella negra, un uomo vestito di nero attraversava la strada dirigendo con ampi gesti un’orchestra invisibile, in una fontana zampillava l’acqua e tutt’attorno sedevano muratori a fare colazione. Scalette di ferro si arrampicavano su per le facciate di brutte case di mattoni rossi, ma case così brutte che in realtà erano belle; subito accanto si alzava un gigantesco grattacielo di vetro e, dietro, un altro grattacielo sul cui tetto era stato costruito un palazzetto arabo con torrette, gallerie e colonne dorate.

A Sabina vennero in mente i suoi quadri: anche lì si incontravano cose che non avevano nulla in comune fra loro: il cantiere di un’acciaieria e, dietro di esso, una lampada a petrolio; o ancora, un’altra lampada il cui antiquato paralume di vetro dipinto esplodeva in minuti frammenti che si libravano sopra una paesaggio desolato di paludi.

Franz disse: “In Europa la bellezza è sempre stata premeditata. C’è sempre stata un’intenzione estetica e un progetto a lungo termine; ci sono voluti decenni per costruire, secondo quel progetto, una cattedrale gotica o una città rinascimentale. La bellezza di New York ha una base completamente diversa. È una bellezza inintenzionale. È sorta senza intenzione da parte dell’uomo, un po’ come una grotta di stalattiti. Forme in sé brutte si trovano per caso, senza un piano, in ambienti così incredibili che di colpo brillano di una poesia magica”.

Sabina disse: “Una bellezza inintenzionale. Sì. Si potrebbe anche dire: la bellezza per errore. Prima di scomparire definitivamente dal mondo, la bellezza esisterà ancora un poco per errore. La bellezza per errore è l’ultima fase della storia della bellezza”.

E si ricordò del suo primo quadro maturo: era nato grazie al fatto che per errore vi era gocciolato sopra del rosso. Sì, i suoi quadri si fondavano sulla bellezza dell’errore e New York era la patria segreta e autentica della sua pittura.

Franz disse: “Forse la bellezza inintenzionale di New York è molto più ricca e variegata della bellezza troppo severa e troppo composta di un progetto umano. Ma non è più la bellezza europea. È un mondo estraneo”.

Ma allora essi sono finalmente d’accordo su qualcosa?

No. C’era una differenza. L’estraneità della bellezza di New York attira terribilmente Sabina. Franz ne è affascinato ma anche spaventato; essa risveglia in lui la nostalgia dell’Europa.

LA PATRIA DI SABINA.

Sabina capisce l’avversione di Franz per l’America.

Franz è l’incarnazione dell’Europa: la madre veniva da Vienna, il padre era francese e lui è svizzero.

Franz, a sua volta, ammira la patria di Sabina. Quando lei gli racconta di sé e dei suoi amici cechi, Franz sente le parole prigione, persecuzione, carri armati sulle strade, emigrazione, volantini, letteratura vietata, mostre vietate, e prova una strana invidia mista a nostalgia.

Confessa a Sabina: “Un giorno, un filosofo ha scritto di me che tutto quello che dico sono speculazioni indimostrabili e mi ha definito un "Socrate quasi inverosimile". Io mi sono sentito terribilmente umiliato e gli ho risposto con collera. Pensa un po’! Quel ridicolo episodio è stato il più grande conflitto che io abbia mai vissuto! Lì la mia vita ha raggiunto il massimo delle sue possibilità drammatiche! Noi due viviamo secondo scale diverse. Tu sei entrata nella mia vita come Gulliver nel regno dei nani”.

Sabina protesta. Dice che il conflitto, il dramma, la tragedia, non significano un bel nulla, non hanno alcun valore, non c’è niente in loro che meriti rispetto o ammirazione.

Quello che chiunque può invidiare a Franz è il lavoro che lui può svolgere in tranquillità.

Franz scuote la testa: “In una società ricca, la gente non è costretta a lavorare manualmente e si dedica all’attività intellettuale. Aumentano le università e aumentano gli studenti. Per potersi laureare, bisogna trovare argomenti per le tesi di laurea. Gli argomenti sono una quantità infinita perché è possibile scrivere tesi su ogni cosa la mondo. Risme su risme di fogli scritti si accumulano negli archivi, che sono più tristi dei cimiteri, perché non ci entra nessuno nemmeno il giorno dei morti. La cultura scompare nell’abbondanza della sovrapproduzione, nella valanga dei segni, nella follia della quantità. Ecco perché ti dico che un libro vietato nel tuo vecchio paese significa infinitamente di più dei miliardi di parole vomitati dalle nostre università”.

In questo senso potremmo capire il debole di Franz per tutte le rivoluzioni. Un tempo ha simpatizzato con Cuba, poi con la Cina e poi, quando la crudeltà dei loro regimi lo ha disgustato, si è rassegnato malinconicamente al fatto che ormai non gli resta che quel mare di lettere che non pesano nulla e non sono la vita. È diventato professore a Ginevra (dove non ci sono mai dimostrazioni) e, con una sorta di abnegazione (in una solitudine senza donne e senza cortei), ha pubblicato con notevole successo alcuni volumi scientifici. Poi un giorno è giunta Sabina, come un’apparizione; veniva da un paese nel quale già da tempo erano sfiorite le illusioni rivoluzionarie, ma dove rimaneva ciò che nelle rivoluzioni lui maggiormente ammirava: la vita giocata sulla grande scala del rischio, del coraggio e del pericolo di morte.

Sabina gli restituiva la fede nella grandezza del destino umano. Era ancora più bella perché dietro di lei traspariva il dramma doloroso del suo paese.

Solo che Sabina quel dramma non lo ama. Le parole prigione, persecuzione, libri vietati, occupazione, carri armati, sono per lei parole brutte e prive del benché minimo profumo romantico. L’unica parola che risuoni in lei con dolcezza, come il ricordo nostalgico del paese natale, è la parola cimitero.

CIMITERO. In Boemia i cimiteri assomigliano a giardini. Le tombe sono coperte di erba e di fiori variopinti. Le lapidi modeste si perdono nel verde del fogliame. Quando fa buio, il cimitero è pieno di candeline accese, come se i morti stessero organizzando un ballo infantile. Sì, un ballo infantile, perché i morti sono innocenti come bambini. Anche quando la vita era piena di crudeltà, nei cimiteri regnava sempre la pace. Anche durante la guerra, anche con Hitler, con Stalin, con tutte le occupazioni. Quando lei si sentiva triste, prendeva la macchina e andava lontano, fuori da Praga, a passeggiare in uno di quei cimiteri di campagna che le piacevano. Quei cimiteri, sullo sfondo di colline azzurre, erano belli come una ninnananna.

Per Franz il cimitero è un orrendo immondezzaio di ossa e di pietrame.

6

“Io in macchina non ci andrei mai. Ho terrore degli incidenti! Anche se non si muore, si resta traumatizzati per tutta la vita!” disse lo scultore afferrandosi meccanicamente l’indice che una volta si era quasi amputato mentre sbozzava una statua di legno. Erano riusciti a salvarglielo solo per miracolo.

“Macché!” squillava Marie-Claude, in gran forma. “A me è capitato un incidente ed è stato fantastico! E non sono mai stata meglio che all’ospedale! Non riuscivo a chiudere occhio e così leggevo ininterrottamente, giorno e notte”.

Tutti la guardavano con uno stupore di cui lei si beava visibilmente. In Franz, al disgusto (sapeva che dopo l’incidente in questione la moglie era stata molto depressa e non smetteva di lamentarsi) si mescolava una sorta di ammirazione (la capacità di Marie-Claude di trasformare tutto ciò che aveva vissuto era segno di una vitalità autentica).

Lei continuava: “Fu lì che cominciai a dividere i libri in due categorie: quelli per il giorno e quelli per la notte. Sul serio, ci sono libri per il giorno e libri che si possono leggere solo di notte”.

Tutti mostrarono uno stupore ammirato; soltanto lo scultore, che si teneva sempre il dito, corrugava la fronte allo spiacevole ricordo.

Marie-Claude si voltò verso di lui: “In quale gruppo includeresti Stendhal?”.

Lo scultore non aveva seguito e alzò le spalle imbarazzato. Un critico d’arte che gli stava accanto affermò che secondo lui Stendhal era una lettura adatta al giorno.

Marie-Claude scosse la testa e dichiarò col suo tono squillante: “Ti sbagli! No, no, no, ti sbagli! Stendhal è un autore notturno!”.

Franz seguiva la discussione sull’arte diurna e notturna in modo distratto, pensava solo al momento in cui avrebbe fatto la sua comparsa Sabina. Avevano riflettuto entrambi molti giorni per decidere se lei doveva accettare o no l’invito a quel cocktail che Marie-Claude dava per tutti i pittori e gli scultori che avevano esposto nella sua galleria privata. Da quando aveva conosciuto Franz, Sabina evitava la moglie. Temendo però di tradirsi, alla fine avevano deciso che sarebbe stato più naturale e meno sospetto che lei ci andasse.

Mentre lanciava occhiate furtive in direzione dell’anticamera, Franz si accorse che, dall’altro lato della sala, veniva la voce incessante della figlia diciottenne Marie-Anne. Dal gruppo dominato dalla moglie passò al circolo dominato dalla figlia. Alcuni erano seduti in poltrona, altri erano in piedi, Marie-Anne sedeva per terra. Franz era certo che anche Marie-Claude, dalla parte opposta della sala, si sarebbe tra breve seduta sul tappeto. Sedersi per terra davanti agli ospiti era allora un gesto che significava naturalezza, disinvoltura, spirito progressista, socievolezza, e faceva tanto Parigi. La smania con la quale Marie-Claude si sedeva per terra in qualsiasi posto era tale che spesso Franz temeva che si sarebbe seduta per terra anche nel negozio dove andava a comprare le sigarette.

“A che sta lavorando ora, Alan?” chiese Marie-Anne all’uomo ai piedi del quale sedeva.

Alan era un ragazzo onesto e molto ingenuo e volle rispondere con sincerità alla figlia della gallerista. Cominciò a spiegarle la sua nuova maniera di dipingere, che combinava fotografia e pittura a olio. Aveva appena detto tre frasi che Marie-Anne cominciò a fischiettare. Il pittore parlava lentamente, concentrandosi, e non se ne accorse.

Franz le bisbigliò: “Puoi dirmi perché fischietti?”.

“Perché non mi piace quando si parla di politica” rispose lei a voce alta.

Effettivamente, due uomini in piedi nello stesso gruppo parlavano delle prossime elezioni in Francia. Marie-Anne, che si sentiva obbligata a dirigere la conversazione, chiese ai due se la settimana dopo sarebbero andati a sentire un’opera di Rossini messa in scena a Ginevra da una compagnia italiana. Intanto il pittore Alan continuava a cercare formulazioni sempre più precise per spiegare il suo nuovo tipo di pittura e Franz provava vergogna per la figlia. Per farla tacere dichiarò che lui all’opera si annoiava a morte.

“Che mostro!” disse Marie-Anne cercando di colpire da seduta la pancia del padre.

“Il protagonista è bellissimo. Bellissimo! L’ho visto due volte e me ne sono innamorata”.

Franz scopriva che la figlia assomigliava terribilmente alla madre. Perché non a lui, invece? Niente da fare, non gli assomigliava. Aveva già sentito innumerevoli volte Marie-Claude dichiarare di essere innamorata di questo o quel pittore, cantante scrittore, uomo politico, e una volta persino di un corridore ciclista. Naturalmente non era che la retorica delle serate e dei cocktail, ma Franz di tanto in tanto si ricordava che una volta, vent’anni prima, Marie-Claude aveva detto la stessa cosa di lui, minacciando per giunta di suicidarsi.

In quel momento entrò Sabina. Marie-Claude la vide e le andò incontro. La Figlia continuava la sua conversazione su Rossini, ma Franz faceva attenzione solo a quello che si stavano dicendo le due donne. Dopo alcune frasi amichevoli di benvenuto, Marie-Claude prese in mano il ciondolo di ceramica che Sabina aveva al collo e disse a voce alta: “Cos’hai qui? Ma che orrore!”.

Quella frase attirò l’attenzione di Franz. Non era stata pronunciata in tono aggressivo, anzi, la risata squillante doveva mostrare subito che il rifiuto del ciondolo non cambiava nulla nell’amicizia di Marie-Claude per la pittrice, eppure era una frase insolita nel suo modo di trattare gli altri.

“L’ho fatto io” disse Sabina.

“Ma è un orrore, davvero!” ripeté Marie-Claude a voce molto alta. “Non dovresti portarlo!”.

Franz sapeva che alla moglie non interessava affatto che il ciondolo fosse brutto o no.

Brutto era ciò che lei voleva vedere brutto, bello ciò che voleva vedere bello. I gioielli delle sue amiche erano belli a priori. E se anche li trovava brutti, lo teneva nascosto perché l’adulazione era divenuta da molto tempo la sua seconda natura.

Perché, allora, aveva deciso che il gioiello fatto da Sabina stessa era brutto?

Tutt’a un tratto Franz capì: Marie-Claude aveva dichiarato che il gioiello di Sabina era brutto perché se lo poteva permettere.

O più precisamente: Marie-Claude aveva dichiarato che il gioiello di Sabina era brutto per dimostrare che poteva permettersi di dire a Sabina che il suo gioiello era brutto.

La mostra di Sabina dell’anno prima non aveva avuto un gran successo e Marie-Claude non desiderava troppo la benevolenza di Sabina. Al contrario, Sabina aveva buoni motivi per desiderare la benevolenza di Marie-Claude. Il suo comportamento, però, non lo lasciava trasparire.

Sì, ora Franz capiva benissimo: Marie-Claude aveva approfittato di quell’occasione per mostrare a Sabina (e agli altri) qual era il vero rapporto di forze tra loro due.

7

Piccolo dizionario di parole fraintese (ultima parte) LA VECCHIA CHIESA DI AMSTERDAM.

Da un lato ci sono le case, e

dietro le grandi finestre del pianterreno, simili a vetrine di negozi, ci sono le stanzette delle puttane che siedono, in mutandine e reggiseno, accanto al vetro, in poltrone piene di cuscini.

Sembrano grosse gatte annoiate.

L’altro lato della strada è formato da una gigantesca cattedrale gotica del quattordicesimo secolo.

Tra il mondo delle puttane e il mondo di Dio, come un fiume che separa due regni, si stende un’intensa puzza di urina.

All’interno, del vecchio stile gotico non restano che gli alti muri bianchi e spogli, le colonne, le volte e le finestre. Non un solo quadro alle pareti, non una statua da nessuna parte. La chiesa è vuota come una palestra. Soltanto al centro sono state disposte, in un grande quadrato, file di sedie che circondano un palco in miniatura con il podio del predicatore. Dietro le sedie ci sono delle cabine di legno, gli stalli per le ricche famiglie borghesi.

Quelle sedie e quegli stalli sono lì senza il minimo riguardo per la forma dei muri e la disposizione delle colonne, come per esprimere la loro indifferenza e il loro disprezzo verso l’architettura gotica. Sono ormai molti secoli che la fede calvinista ha trasformato la chiesa in un semplice hangar senza altra funzione che proteggere la preghiera dei fedeli dalla pioggia e dalla neve.

Franz era affascinato: in quell’enorme sala era passata la Grande Marcia della storia.

Sabina ricordò come, dopo il colpo di Stato comunista, tutti i castelli della Boemia erano stati nazionalizzati e trasformati in scuole professionali, in pensionati e persino in stalle. Aveva visitato una di quelle stalle: nei muri a stucco erano stati piantati ganci di ferro con anelli e le mucche, legate agli anelli, guardavano trasognate dalle finestre il parco del castello dove razzolavano le galline.

Franz disse: “Questo vuoto mi affascina. La gente accumula altari, statue, quadri, sedie, poltrone, tappeti, libri, poi arriva il momento dall’esultanza liberatrice, e allora si spazza via ogni cosa come gli avanzi di un pranzo da una tavola. Ti immagini la scopa di Ercole che ha spazzato questa cattedrale?”.

Sabina indicò uno stallo di legno: “I poveri dovevano stare in piedi mentre i ricchi avevano gli stalli. C’era però qualcosa che univa il banchiere e il povero: l’odio per la bellezza”.

“Che cos’è la bellezza?” disse Franz, e gli tornò in mente un vernissage al quale aveva dovuto partecipare poco tempo prima a fianco della moglie. L’infinita vanità dei discorsi e delle parole, la vanità della cultura, la vanità dell’arte.

Quando era studentessa e lavorava al cantiere della gioventù e aveva nell’animo il veleno delle allegre marce che sgorgavano senza sosta dagli altoparlanti, Sabina una domenica aveva preso una moto e si era diretta verso le colline. Si era fermata in un villaggio sperduto che non conosceva. Appoggiò la moto al muro della chiesa entrò. Stavano celebrando al messa. A quel tempo la religione era perseguitata dal regime e la maggior parte della gente evitava le chiese. Sulle panche sedevano soltanto vecchi e vecchie, perché loro non avevano paura del regime. Avevano paura solo della morte.

Il prete pronunciava una frase con voce cantilenante e la gente la ripeteva in coro dopo di lui. Era una litania. Parole sempre uguali ritornavano come un pellegrino che non riesce a staccare gli occhi da un paesaggio o come un uomo che non sa dire addio alla vita.

Lei si sedette su una delle ultime panche, e di tanto in tanto chiudeva gli occhi per sentire solo la musica delle parole, e poi li riapriva: vedeva in alto la volta dipinta d’azzurro con sopra grandi stelle d’oro. Era incantata.

Ciò che lei aveva incontrato all’improvviso in quella chiesa non era Dio ma la bellezza. Sapeva benissimo, d’altronde, che quella chiesa e quelle litanie non erano belle già di per sé, ma appunto se accostate al cantiere della gioventù dove lei passava le sue giornate nel chiasso delle canzoni. La messa era bella perché le era apparsa di colpo e clandestinamente come un mondo tradito.

Da allora sa che la bellezza è un mondo tradito. La possiamo incontrare solo quando i persecutori l’hanno dimenticato per errore da qualche parte. La bellezza è nascosta dietro i fondali della parata del primo maggio. Se la vogliamo trovare dobbiamo strappare la tela dal fondale.

“È la prima volta che una chiesa mi affascina” disse Franz.

Non era il protestantesimo né l’ascesi a entusiasmarlo. Era qualcos’altro, qualcosa di molto personale di cui non aveva il coraggio di parlare davanti a Sabina. Gli sembrava di udire una voce che lo esortava a prendere in mano la scopa di Ercole e a spazzare via dalla propria vita i vernissage di Marie-Claude, i cantanti di Marie-Anne, i congressi e i simposi, i discorsi inutili, le parole vane. Il grande spazio vuoto della cattedrale di Amsterdam gli era apparso come l’immagine della propria liberazione.

FORZA.

Nel letto di uno dei tanti alberghi dove avevano fatto l’amore, Sabina stava giocando con le braccia di Franz: “È incredibile,” disse “i muscoli che hai”.

Franz fu contento di quel complimento. Si alzò dal letto, afferrò una pesante sedia di quercia per una gamba e la sollevò lentamente.

“Non devi avere paura di nulla”, disse “ti proteggerei in ogni situazione. Un tempo sono stato campione di judo”.

Riuscì a distendere il braccio in alto tenendo la pesante sedia sopra la testa e Sabina disse: “È bello sapere che tu sei così forte”.

Nel profondo dell’anima aggiunse però ancora qualcosa: Franz è forte, ma la sua forza si rivolge soltanto verso l’esterno. Nei confronti delle persone con le quali vive, alle quali vuol bene, è debole. La debolezza di Franz ha nome bontà. Franz non darebbe mai ordini a Sabina. Non le comanderebbe mai, come Tomáš, di poggiare a terra lo specchio e di camminarci sopra nuda. Non è che gli manchi la sensualità, quello che si possono realizzare solo con la violenza. L’amore fisico è impensabile senza violenza.

Sabina guardava Franz camminare su e giù per la stanza tenendo alta la sedia; la scena le sembrava grottesca e la riempiva di una strana tristezza.

Franz poggiò la sedia a terra e vi si sedette rivolto verso Sabina.

“Non che mi dispiaccia essere forte,” disse “ma a che mi servono questi muscoli a Ginevra? Li porto come un ornamento. Come penne di pavone. Non ho mai fatto a pugni con nessuno”.

Sabina continuava nelle proprie malinconiche riflessioni: E se avesse avuto o un uomo che le dava degli ordini? Un uomo che voleva dominarla? Quanto tempo l’avrebbe sopportato? Nemmeno cinque minuti! Ne derivava che nessun uomo le andava bene. Né uno forte né uno debole.

Disse: “Perché significa rinunciare alla forza” disse Franz piano.

Sabina capì due cose: primo, che si trattava di una frase bella e vera. Secondo, che con quella frase Franz si squalificava dalla sua vita erotica.

VIVERE NELLA VERITÀ. È una formula usata da Kafka nel diario o in qualche lettera. Franz non ricorda più dove. Quella formula l’ha attratto. Cosa vuol dire vivere nella verità? Una definizione negativa è facile: significa non mentire, non nascondersi, non celare nulla. Da quando ha conosciuto Sabina, Franz vive nella menzogna. Racconta alla moglie di un congresso ad Amsterdam o di lezioni a Madrid che non si sono mai tenuti e ha paura ad andare in giro con Sabina per le strade di Ginevra. Mentire e nascondersi lo diverte appunto perché non l’ha mai fatto. Ne trae una piacevole eccitazione, come un primo della classe che, per una volta in vita sua, ha deciso di marinare la scuola.

Per Sabina vivere nella verità, non mentire né a se stessi né agli altri, è possibile soltanto a condizione di vivere senza pubblico. Nell’istante in cui qualcuno assiste alle nostre azioni, volenti o nolenti ci adattiamo agli occhi che ci osservano, e nulla di ciò che facciamo ha più verità. Avere un pubblico, pensare a un pubblico, significa vivere nella menzogna.

Sabina disprezza la letteratura nella quale gli autori rivelano ogni piega intima di se stessi e dei loro amici. L’uomo che perde la propria intimità perde tutto, pensa tra sé Sabina. E

l’uomo che se ne sbarazza di sua spontanea volontà è un mostro. Per questo Sabina non soffre per nulla di dover tenere nascosto il proprio amore. Al contrario, solo in quel modo può “vivere nella verità”.

Franz invece è convinto che nella divisione della vita in sfera privata e sfera pubblica sia contenta l’origine di ogni menzogna: l’uomo è una cosa in privato e un’altra in pubblico.

Per lui, “vivere nella verità” significa abbattere la barriera tra il privato e il pubblico. Gli piace citare la frase di André Breton che diceva di voler vivere “in una casa di vetro” dove nulla è segreto e ognuno può guardare.

Quando aveva sentito la moglie dire a Sabina: “Ma che orrore, questo gioiello!”, aveva capito che non avrebbe potuto continuare a vivere nella menzogna. In quel momento avrebbe dovuto prendere le difese di Sabina. Se non lo aveva fatto era perché aveva avuto paura di tradire il loro amore segreto.

Il giorno dopo il cocktail, doveva andare con Sabina un paio di giorni a Roma.

Continuava a sentire dentro di sé la frase “Ma che orrore, questo gioiello!” e vedeva la moglie in una luce completamente diversa. L’aggressività di lei, invulnerabile, rumorosa e dinamica, toglieva dalle sue spalle il fardello della bontà che aveva portato pazientemente per i ventitré anni del loro matrimonio. Si ricordò dell’enorme spazio interno della cattedrale di Amsterdam e sentì dentro di sé lo strano e incomprensibile entusiasmo che quel vuoto aveva risvegliato in lui.

Stava preparando la valigetta quanto alle sue spalle entrò Marie-Claude; parlava degli ospiti della sera precedente, elogiava con energia alcune opinioni che aveva sentito sa loro e ne biasimava con scherno altre.

Franz la guardò a lungo e poi disse: “Non c’è nessuna conferenza a Roma”.

Lei non capiva: “E allora perché ci vai?”.

Disse: “Sono nove mesi che ho un’amante. Non voglio incontrarmi con lei a Ginevra.

Per questo viaggio così spesso. Penso sia meglio che tu lo sappia”.

Dopo le prime parole, si spaventò; il coraggio iniziale lo aveva abbandonato. Spostò lo sguardo per non dover vedere sul viso di Marie-Claude la disperazione che pensava di aver causato con le sue parole.

Dopo una breve pausa sentì: “Sì, anch’io penso sia meglio che io lo sappia”.

La voce suonava ferma e Franz alzò gli occhi: Marie-Claude non era affatto sconvolta. Assomigliava sempre alla donna che la sera precedente aveva detto con voce squillante: “Ma che orrore, questo gioiello!”.

Lei continuò: “Visto che sei stato tanto coraggioso da farmi sapere che sono nove mesi che mi tradisci, puoi anche dirmi con chi?”.

Lui si era sempre detto che non avrebbe dovuto far del male a Marie-Claude, che in lei doveva rispettare la donna. Ma dov’era finita la donna in Marie-Claude? In altri termini, dov’era finita l’immagine della madre che lui associava a sua moglie? La madre, la mamma triste e ferita con ai piedi scarpe diverse, aveva abbandonato Marie-Claude, o forse non l’aveva neanche abbandonata, perché non vi era mai stata. Se ne rese conto con un odio improvviso.

“Non ho alcun motivo di tenerlo nascosto” disse. Se la sua infedeltà non la feriva, l’avrebbe sicuramente ferita sapere chi era la sua rivale. Guardandola dritto in viso, le raccontò di Sabina.

Un poco più tardi incontrò Sabina all’aeroporto. L’aereo si sollevava e lui si sentiva sempre più leggero. Si diceva che, dopo nove mesi, tornava finalmente a vivere nella verità.

Per Sabina fu come se Franz avesse forzato la porta della sua intimità. Come se, all’improvviso, si fossero affacciate lì dentro la testa di Marie-Claude, la testa di Marie-Anne, la testa del pittore Alan, la testa dello scultore che si teneva continuamente il dito, la testa di tutte le persone che lei conosceva a Ginevra. Contro la sua volontà sarebbe diventata la rivale di una donna che non la interessava affatto. Franz avrebbe divorziato e lei avrebbe occupato il posto accanto a lui sull’ampio letto matrimoniale. Tutti avrebbero osservato, da vicino o da lontano, e lei sarebbe stata obbligata a recitare davanti a tutti, invece di essere Sabina avrebbe dovuto recitare la parte di Sabina e pensare a come recitare quella parte. L’amore reso pubblico sarebbe aumentato di peso e sarebbe diventato un fardello. Solo a pensarci, Sabina si curvava sotto quel fardello.

Stavano cenando in un ristorante romano e bevevano vino. Lei era taciturna.

“Davvero non sei arrabbiata?” le chiese Franz.

Lei lo assicurò di non essere arrabbiata. Era ancora confusa e non sapeva se doveva essere contenta oppure no. Pensava al loro incontro nel vagone letto per Amsterdam. Allora avrebbe voluto cadere in ginocchio davanti a lui e supplicarlo di tenerla con sé, magari con la forza, e di non mandarla mai via. Allora avrebbe voluto che quella pericolosa strada piena di tradimenti potesse, un giorno o l’altro, finire. Avrebbe voluto fermarsi.

Ora cercava di tornare con tutta l’intensità possibile a quel desiderio di allora, di rievocarlo, di appoggiarvisi. Era inutile. La sensazione di disgusto era più forte.

Stavano tornando in albergo a piedi, la sera. Gli italiani tutt’intorno facevano chiasso, gridavano, gesticolavano, sicché loro potevano camminare uno accanto all’altra senza parlare, senza sentire il proprio silenzio.

Poi Sabina rimase a lungo in bagno a lavarsi mentre Franz l’aspettava a letto sotto le coperte. Come sempre, la lampada del comodino era accesa.

Quando tornò dal bagno, lei la spense. Era la prima volta che lo faceva. Franz avrebbe dovuto prestare più attenzione a quel gesto. Non lo notò perché per lui la luce non aveva significato. Come sappiamo, mentre faceva l’amore teneva gli occhi chiusi.

E proprio a causa di quegli occhi chiusi Sabina aveva spento la lampada. Non voleva vedere neanche un secondo di più quelle palpebre abbassate. Gli occhi, come dice il proverbio, sono lo specchio dell’anima. Il corpo di Franz che si dimena su di lei con gli occhi chiusi è per Sabina un corpo senz’anima. Somiglia a un cucciolo di animale, ancora cieco, che emette suoni impotenti perché ha sete. Con i suoi muscoli meravigliosi, Franz nel coito è come un enorme cagnolino che succhia al suo seno. E difatti, ha proprio in bocca uno dei suoi capezzoli come per succhiare il latte! L’idea che Franz sia in basso un uomo adulto e in alto un cucciolo che succhia il latte, e quindi l’idea di essere a letto con un neonato, è per lei al limite del disgusto. No, non vuole più vederlo agitarsi disperatamente su di lei, non gli offrirà più il proprio seno come una cagna al suo piccolo, quella sarà l’ultima volta irrevocabilmente l’ultima volta!

Sapeva naturalmente che la sua decisione era il colmo dell’ingiustizia, che Franz era l’uomo migliore che avesse mai avuto, che era intelligente, che capiva i suoi quadri, che era bello, che era buono, ma più se ne rendeva conto e più desiderava fare violenza a quell’intelligenza, a quella bontà, fare violenza a quella forza impotente.

Quella notte fece l’amore con lui con più impeto che qualsiasi altra volta, eccitata dalla consapevolezza che sarebbe stata l’ultima. Faceva l’amore con lui ed era già altrove, lontana. Già sentiva di nuovo suonare in distanza la tromba dorata del tradimento e sapeva che era una voce alla quale non avrebbe resistito. Le sembrava che davanti a lei si aprisse ancora uno spazio illimitato di libertà e la distesa di quello spazio l’eccitava. Faceva l’amore con Franz follemente, selvaggiamente, come non aveva fatto mai.

Franz singhiozzava sul suo corpo, sicuro di capire ogni cosa: a cena Sabina era stata taciturna e non gli aveva detto che cosa pensasse della sua decisione, ma ora gli stava rispondendo. Gli mostrava la sua gioia, la sua passione, il suo consenso, il suo desiderio di vivere con lui per sempre.

Gli sembrava di essere un cavaliere che cavalchi verso un meraviglioso vuoto, un vuoto senza moglie, senza figlia, senza casa, un vuoto meraviglioso che lui avrebbe riempito col proprio amore.

Andavano tutti e due come a cavallo l’uno dell’altra. Andavano tutti e due verso le lontananze che desideravano. Erano ebbri del tradimento che li liberava. Franz cavalcava Sabina e tradiva sua moglie, Sabina cavalcava Franz e tradiva Franz.

Per più di vent’anni, nella moglie aveva visto la madre, un essere debole che bisognava proteggere; quell’immagine era troppo radicata in lui perché se ne potesse liberare nel giro di due giorni. Tornando a casa, gli rimordeva la coscienza: aveva paura che lei fosse crollata dopo la sua partenza e che adesso l’avrebbe vista accasciata dal dolore. Aprì timidamente la porta ed entrò nella propria camera. Rimase per un po’ fermo in silenzio ad ascoltare: sì, era in casa. Dopo un attimo di esitazione andò da lei per salutarla, com’era sua abitudine.

Lei alzò le sopracciglia con studiata sorpresa: “Sei tornato qui?”.

“Dove sarei dovuto andare?” ebbe voglia di dire Franz (con autentico stupore), ma non disse nulla.

Lei continuò: “Perché tra noi le cose siano chiare: io non ho niente in contrario a che tu ti trasferisca da lei immediatamente”.

Quando il giorno della partenza le aveva confessato ogni cosa, lui non aveva un piano preciso. Era pronto a discutere amichevolmente al suo ritorno per sistemare ogni cosa in modo da farle meno male possibile. Non aveva previsto che lei avrebbe insistito freddamente perché lui se ne andasse.

Anche se ciò gli facilitava le cose, non poté fare a meno di provare delusione. Per tutta la vita aveva avuto paura di ferirla e solo per questa si era imposto la disciplina volontaria di una rimbecillente monogamia. Ed ecco che dopo vent’anni si accorgeva all’improvviso che le sue attenzioni erano state completamente inutili e che si era privato di decine di donne a causa di un malinteso!

Il pomeriggio aveva una lezione e poi dall’università andò direttamente da Sabina.

Voleva chiederle di lasciargli passare la notte da lei. Suonò il campanello ma non gli aprì nessuno. Andò al bar di fronte e rimase a lungo a fissare l’ingresso della casa.

Era già sera tardi e non sapeva che cosa fare. Per tutta la vita aveva dormito nello stesso letto con Marie-Claude. Se adesso ritornava a casa, dove avrebbe dovuto dormire?

Certo, poteva prepararsi il divano nella camera accanto. Ma non sarebbe stato un gesto esagerato? Non sarebbe parso come un segno di ostilità? In fondo, voleva rimanere in amicizia con sua moglie! Dormire accanto a lei, però, non era possibile comunque. Sentiva già dentro le sue domande ironiche: Ma come? Non preferiva il letto di Sabina? Prese una camera in albergo.

L’indomani tornò a suonare alla porta di Sabina, inutilmente, per tutta la giornata.

Il terzo giorno andò dalla portinaia. Questa non sapeva nulla, e consigliò di rivolgersi alla proprietaria che aveva affittato lo studio a Sabina. Le telefonò e venne a sapere che due giorni prima Sabina le aveva dato la disdetta pagando i tre mesi d’affitto successivi, come prevedeva il contratto.

Tornò ancora altre volte, nella speranza di sorprenderla a casa, fino a che un giorno non trovò l’appartamento aperto e dentro tre uomini in tuta azzurra che stavano caricando i mobili e i quadri su un grosso camion da traslochi parcheggiato davanti alla casa.

Chiese loro dove stessero trasportando il mobilio.

Risposero che avevano l’ordine esplicito di non comunicare l’indirizzo.

Stava per allungar loro qualche biglietto per farsi dire il loro segreto, ma all’improvviso sentì di non averne la forza. La tristezza l’aveva paralizzato. Non capiva nulla, non riusciva a spiegarsi nulla, sapeva soltanto che si era aspettato quell’istante fin dal giorno in cui aveva conosciuto Sabina. Era successo quello che doveva succedere. Franz non vi si oppose.

*Si trovò un appartamentino nella città vecchia. Un giorno che sapeva di non trovare né la figlia né la moglie, tornò alla sua vecchia casa per portar via i vestiti e i libri più importante. Fece attenzione a non prendere nulla che potesse mancare a Marie-Claude.

Un giorno la vide dietro la vetrina di un caffè. Era con altre due signore e il suo viso, sul quale una mimica infaticabile aveva impresso già da tempo una quantità di rughe mostrava nei movimenti tutta la sua animazione. Le signore l’ascoltavano ridendo in continuazione. Franz non poteva liberarsi dall’impressione che parlassero di lui.

Marie-Claude certo sapeva che Sabina era scomparsa da Ginevra nel momento stesso in cui lui aveva deciso di andare a vivere con lei. Era veramente una storia comica! Non poteva meravigliarsi di essere motivo di divertimento per le amiche della moglie.

Tornò nel suo nuovo appartamento dove arrivava ogni ora il suono delle campane della chiesa di Saint-Pierre. Proprio quel giorno gli avevano consegnato un tavolo da un grande magazzino. Dimenticò Marie-Claude e le sue amiche. E per il momento dimenticò anche Sabina. Si sedette al tavolo. Era contento di esserlo scelto da solo. Per vent’anni aveva vissuto con un arredamento non scelto da lui. A ogni cosa provvedeva Marie-Claude. Per la prima volta in vita sua aveva finito di essere un ragazzo ed era indipendente. Il giorno dopo aveva appuntamento col falegname per farsi fare una libreria. Erano già alcuni giorni che si dedicava a disegnarne la forma, le misure e la posizione.

Allora, di colpo, si accorse con stupore di non essere infelice. La presenza fisica di Sabina era molto mento importante di quanto immaginasse. Importante era l’impronta dorata, l’impronta magica che lei aveva lasciato nella sua vita e della quale nessuno poteva privarlo. Prima di sparire dal suo orizzonte, lei aveva fatto in tempo a mettergli in mano la scopa di Ercole e con essa lui aveva spazzato via dalla propria vita tutto ciò che non gli piaceva. Quell’inattesa felicità, quella quiete, quella gioia che derivava dalla libertà e dalla nuova vita, erano il regalo che lei gli aveva lasciato.

Del resto, aveva sempre preferito l’irreale al reale. Così come si sentiva meglio nei cortei (i quali, come ho detto, non sono che teatro e sogno) che non dietro una cattedra a fare lezione agli studenti, era più felice con una Sabina trasformata in dea invisibile che non con la Sabina con cui girava il mondo e il cui amore temeva continuamente di perdere. Lei gli aveva donato l’inattesa libertà dell’uomo che vive solo, gli aveva offerto l’aureola della seduzione. Diventò attraente per le donne, una sua studentessa si innamorò di lui.

E così, tutt’a un tratto, in uno spazio di tempo incredibilmente breve, lo scenario della sua vita cambiò. Ancora poco tempo prima viveva in una grande appartamento borghese con una cameriera, una figlia e una moglie, ora invece occupa un appartamentino nella città vecchia e quasi ogni giorno la giovane amante passa la notte da lui. Non è costretto a farle girare gli alberghi di tutto il mondo, può fare l’amore con lei nel suo appartamento, nel suo letto, in presenza dei suoi libri e del suo portacenere sul comodino!

La ragazza non era né bella né brutta, ma era tanto più giovane di lui! E ammirava Franz nello stesso modo in cui, poco tempo prima, Franz ammirava Sabina. Ciò non era spiacevole. E se lui forse vedeva l’aver sostituito Sabina con una studentessa con gli occhiali come una piccola degradazione, la sua bontà si preoccupò di accettare con gioia la nuova amante e di provare verso di lei quell’amore paterno che prima non aveva mai potuto soddisfare, dal momento che Marie-Anne non si comportava come una figlia ma come una seconda Marie-Claude.

Un giorno andò a trovare la moglie e le disse che avrebbe voluto riposarsi.

Marie-Claude scosse la testa.

“Se divorziamo, in fondo non cambierà nulla! Non perderai nulla! Ti lascio tutto quello che ho!”.

“Non è questione di quello che mi lasci” disse lei

“E allora di che?”.

“Di amore” sorrise lei

“Di amore?” si meravigliò Franz.

“L’amore è lotta” disse Marie-Claude, sempre sorridendo. “Lotterò a lungo. Fino alla fine”.

“L’amore è lotta? Io non ho nessunissima voglia di lottare” disse Franz e uscì.

Dopo quattro anni passati a Ginevra, Sabina si era stabilita a Parigi senza riuscire a riprendersi dalla malinconia. Se le avessero chiesto che cosa le era successo, non avrebbe trovato le parole per dirlo.

Un dramma umano si può sempre esprimere con la metafora della pesantezza.

Diciamo, ad esempio, che ci è caduto un fardello sulle spalle. Sopportiamo o non sopportiamo questo fardello, sprofondiamo sotto il suo peso, lottiamo con esso, perdiamo o vinciamo. Ma che cos’era successo in realtà a Sabina? Niente. Aveva lasciato un uomo perché voleva lasciarlo. Lui l’aveva forse perseguitata? Aveva cercato di vendicarsi? No. Il suo non era un dramma della pesantezza, ma della leggerezza. Sulle spalle di Sabina non era caduto un fardello, ma l’insostenibile leggerezza dell’essere.

Fino ad allora, i momenti di tradimento la riempivano di eccitazione e di gioia al pensiero che davanti a lei si apriva un nuova strada, in fondo alla quale c’era un nuova avventura di tradimento. Ma se un giorno o l’altro quella strada fosse terminata? Una persona può tradire i genitori, il marito, l’amore, la patria, ma quando poi non ci sono più né genitori, né marito, né amore, né patria, che cosa resterà da tradire?

Sabina sentiva attorno a sé il vuoto. E se quel vuoto fosse stato allora la meta di tutti i suoi tradimenti?

Fino ad allora, naturalmente, non se ne era resa conto e ciò è comprensibile: la meta che l’uomo persegue è sempre velata. La ragazza che desidera il matrimonio desidera qualcosa di cui non sa nulla. Il giovane che brama la gloria non ha alcuna idea di che cosa sia questa gloria. Ciò che dà un senso al nostro comportamento è sempre qualcosa che ci è totalmente sconosciuto. Anche Sabina non sa quale meta si celi dietro il suo desiderio di tradire. L’insostenibile leggerezza dell’essere, è questa la meta? Dopo la partenza da Ginevra essa le si è notevolmente avvicinata.

Era a Parigi ormai da tre anni quando ricevette una lettera dalla Boemia. Veniva dal figlio di Tomáš. Era riuscito in qualche modo a sapere di lei, si era procurato il suo indirizzo e le si rivolgeva come all’“amica più vicina” a suo padre. Le annunciava la morte di Tomáš e di Tereza. Negli ultimi anni, a quanto pare, vivevano in un paesino dove Tomáš lavorava come autista di camion. Andavano sovente insieme nella città vicina dove passavano sempre la notte in un piccolo albergo. La strada attraversava delle colline, era piena di curve, e il camion era precipitato in una scarpata. Avevano trovato i corpi ridotti in poltiglia. La polizia aveva in seguito appurato che i freni erano in condizioni disastrose.

Non riuscì a riprendersi da quella notizia. L’ultimo legame che la univa ancora al passato si era spezzato.

Secondo la sua vecchia abitudine, decise, per calmarsi, di andare a fare una passeggiata in un cimitero. Il più vicino era il cimitero di Montparnasse. Era tutto fatto di casette, di cappelle in miniatura costruite sopra le tombe. Sabina non capiva perché i morti volessero sopra di sé delle imitazioni di palazzi. Quel cimitero era la presunzione fatta pietra.

Invece di diventare più ragionevoli dopo la morte, gli abitanti del cimitero erano ancora più sciocchi che non in vita. Mettevano in mostra sulle lapidi la propria importanza. Qui erano sepolti non padri, fratelli, figli o nonne, ma notabili e funzionari pubblici, portatori di titoli, gradi e onorificenze; persino un impiegato delle poste ostentava la sua posizione, il suo significato sociale la sua dignità.

Camminando lungo un viale del cimitero, vide che poco lontano stavano seppellendo qualcuno. Il cerimoniere aveva le braccia piene di fiori e li distribuiva a uno a uno ai familiari e agli amici. Fecero un lungo giro intorno a molti monumenti prima di arrivare a una fossa da cui era stata tolta la pietra tombale. Sabina si chinò sopra, la fossa era molto profonda. Lasciò cadere il fiore che scese in piccole spirali e si posò sulla bara. Tombe così profonde in Boemia non ce ne sono. A Parigi le tombe sono tanto profonde quanto le case sono alte. Lo sguardo le cadde sulla pietra tombale, poggiata a lato della fossa. Quella pietra le mise paura e si affrettò a tornare a casa.

Tutto il giorno stette a pensare a quella pietra. Perché l’aveva spaventata tanto?

Si rispose in questo modo: Se una tomba è coperta da una pietra, il morto non potrà più uscire.

Ma se il morto non uscirà comunque! Non è la stessa cosa se è coperto dalla terra o da una pietra?

No, non è la stessa cosa: se chiudiamo la tomba con una pietra, vuol dire che non vogliamo che il morto ritorni. La pietra pesane dice al morto: “Rimani lì dove sei!”.

Sabina ripensa alla tomba del padre. Sulla sua bara c’è la terra, dalla terra crescono i fiori e un acero allunga le sue radici verso la bara, e si può pensare che lungo quelle radici e quei fiori il morto esca dalla bara. Se il padre fosse stato coperto da una pietra, lei non sarebbe riuscita a parlargli dopo la sua morte, non avrebbe mai potuto sentire nelle foglie dell’albero la sua voce che la perdonava.

Chissà com’è il cimitero dove riposano Tereza e Tomáš!

Ricominciò a pensare a loro. Di tanto in tanto andavano nella città più vicina e passavano la notte in albergo. Quel brano della lettera l’aveva colpita. Attestava che erano felici. Rivedeva Tomáš come fosse stato uno dei suoi quadri: in primo piano Don Giovanni, come un finto scenario dipinto da un pittore naïf; attraverso una crepa dello scenario si intravedeva Tristano. La sua morte era quella di Tristano, non quella di Don Giovanni. I genitori di Sabina erano morti nella stessa settimana. Tomáš e Tereza nello stesso istante.

All’improvviso le venne nostalgia di Franz.

Quando, una volta, gli aveva raccontato delle sue passeggiate nei cimiteri, lui era rabbrividito dal disgusto e aveva definito il cimitero un immondezzaio di ossa e pietrame. In quell’istante si era aperto tra loro un abisso di incomprensione. Soltanto oggi, al cimitero di Montparnasse, Sabina capisce quello che lui voleva dire. Le dispiaceva di essere stata impaziente. Forse se fossero rimasti insieme ancora per qualche tempo, avrebbero cominciato a capire a poco a poco le parole che dicevano. I loro vocabolari si sarebbero pudicamente e lentamente avvicinati l’uno all’altro come amanti molto timidi, e la musica dell’uno avrebbe cominciato a intrecciarsi con la musica dell’altro. Ma è troppo tardi.

Sì è troppo tardi, e Sabina sa che non resterà a Parigi, che andrà più lontano, ancora più lontano, perché se morisse qui la chiuderebbero sotto a una pietra e, per una donna che non riesce mai a star ferma, l’idea che la sua fuga debba fermarsi per sempre è insopportabile.

11

Tutti gli amici di Franz sapevano di Marie-Claude e tutti sapevano della sua studentessa dai grandi occhiali. Soltanto di Sabina nessuno sapeva niente. Franz si sbagliava a pensare che la moglie ne parlasse con le amiche. Sabina era una bella donna e Marie-Claude non voleva che la gente confrontasse dentro di sé i loro visi.

Temendo di scoprirsi, Franz non aveva mai voluto da lei né un quadro, né un disegno, nemmeno una sua piccola fotografia. Era così accaduto che lei era scomparsa dalla sua vita senza lasciar traccia. Non era rimasta nessuna prova tangibile del fatto che avesse passato insieme a lei l’anno più bello della sua vita.

Tanto più per questo gli piaceva restarle fedele.

Quando sono soli insieme in camera, la sua giovane amante alza qualche volta la testa dal libro e lo osserva con sguardo indagatore: “A che pensi?” gli chiede. Franz siede in poltrona con gli occhi fissi al soffitto. Qualunque cosa le risponda, è certo che sta pensando a Sabina.

Se pubblica uno studio in qualche rivista scientifica, la sua studentessa è la prima lettrice e vuole discuterne con lui. Ma lui pensa a quello che direbbe Sabina di quel testo.

Tutto ciò che fa lo fa per Sabina e lo fa come piacerebbe a Sabina.

È un’infedeltà molto innocente e cucita su misura per Franz il quale non riuscirebbe mai a far del male alla sua studentessa con gli occhiali. Il culto di Sabina è coltivato da lui più come una religione che come amore.

Del resto, dalla teologia di questa religione deriva che la sua giovane amante gli è stata mandata da Sabina. Tra il suo amore terreno e quello ultraterreno regna, perciò, una pace assoluta. E se l’amore ultraterreno contiene necessariamente (in quanto ultraterreno) una forte componente di inspiegabilità e incomprensibilità (ricordiamoci del dizionario di parole fraintese, di quel lungo elenco di travisamenti!), il suo amore terreno si fonda invece su una comprensione reale.

La studentessa è molto più giovane di Sabina, la composizione musicale della sua vita è appena accennata e lei vi inserisce riconoscente motivi presi in prestito da Franz. La Grande Marcia di Franz è anche il suo credo. Come per lui, anche per lei la musica è ebbrezza dionisiaca. Vanno spesso a ballare. Vivono nella verità, nulla di ciò che fanno è segreto per gli altri. Frequentano un gruppo di amici, colleghi, studenti e gente sconosciuta, amano sedere insieme a loro, bere e chiacchierare. Fanno spesso delle gite sulle Alpi. Franz si accovaccia, la ragazza gli salta sulle spalle e lui si lancia al galoppo sui prati e intanto declama a gran voce una lunga poesia tedesca che sua madre gli aveva insegnato da piccolo.

La ragazza ride forte, si tiene al suo collo e ammira le sue gambe, le sue spalle e i suoi polmoni.

L’unica cosa di cui le sfugge il senso è questa singolare simpatia che Franz dimostra per i paesi occupati dall’Impero russo. Per l’anniversario dell’invasione, un’associazione ceca organizza a Ginevra una cerimonia commemorativa. Nella sala ci sono pochissime persone. L’oratore ha i capelli grigi arricciati col ferro dal barbiere. Legge un lungo discorso che annoia anche i pochi entusiasti venuti ad ascoltarlo. Parla un francese corretto ma con una pronuncia orribile. Di tanto in tanto, per sottolineare qualche concetto, solleva l’indice come per minacciare la gente nella sala.

La ragazza con gli occhiali siede accanto a Franz e trattiene a stento gli sbadigli.

Franz invece sorride beato. Guarda fisso l’uomo dai capelli grigi che trova simpatico col suo prodigioso indice. Gli sembra che quell’uomo sia un messaggero segreto, un angelo che mantiene i contatti tra lui e la sua dea. Chiude gli occhi e sogna. Chiude gli occhi come li ha chiusi sul corpo di Sabina in quindici alberghi europei e in uno americano.

PARTE QUARTA

L'ANIMA E IL CORPO

Tereza rincasò verso l’una e mezza di notte, andò in bagno, si infilò il pigiama e si distese accanto a Tomáš. Lui dormiva. Lei si chinò sul suo viso e baciandolo gli sentì nei capelli un odore strano. Li annusò più volte. Lo fiutò tutto, come un cane, e alla fine capì: era l’odore di sesso femminile.

Alle sei squillò la sveglia. Era il momento di Karenin. Si svegliava sempre molto prima di loro ma non aveva il coraggio di disturbarli. Aspettava pazientemente il suono della sveglia che gli dava il diritto di saltare sul letto, di zampettare sui loro corpi e di dare musate.

Per un po’ avevano cercato di impedirglielo e lo cacciavano giù dal letto, ma lui era più testardo di loro e alla fine si era conquistato i propri diritti. Del resto, negli ultimi tempi Tereza si era accorta che era piacevole ricevere il buon giorno da Karenin. Il momento del risveglio era una vera e propria gioia per lui: si meravigliava ingenuamente e stupidamente di essere ancora al mondo e ne provava una felicità sincera. Lei invece si svegliava con disgusto, col desiderio di prolungare la notte e di non aprire gli occhi.

Adesso Karenin era in ingresso e guardava in alto l’attaccapanni dov’era appeso il collare con il guinzaglio. Lei glielo mise al collo e si avviarono insieme verso il negozio. Lì comprò latte, pane, burro e come sempre un panino per lui. Sulla strada del ritorno, lui le trotterellava accanto, col panino in bocca. Si guardava attorno con orgoglio, soddisfattissimo di essere notato e indicato dalla gente.

A casa si allungò col panino sulla soglia della camera aspettando che Tomáš si accorgesse di lui, si accovacciasse e cominciasse a ringhiare, facendo finta di volergli prendere il panino. Era così ogni giorno: per cinque minuti buoni si rincorrevano su e giù per l’appartamento fino a che Karenin non si infilava sotto al tavolo e divorava rapidamente il panino.

Quella volta, però, sollecitò invano la cerimonia mattutina. Tomáš aveva davanti a sé sul tavolo una piccola radio a transistor e la stava ascoltando.

Alla radio trasmettevano un programma sull’emigrazione ceca. Si trattava di un montaggio di conversazioni private registrate clandestinamente da qualche spia ceca infiltratasi tra gli emigrati e ritornata poi a Praga con tutti gli onori. Erano chiacchiere di nessun conto dove, di tanto in tanto, comparivano parole dure sul regime d’occupazione, ma anche frasi nelle quali gli emigrati si davano l’un l’altro del cretino o dell’impostore. Erano proprio quelle le frasi su cui insisteva la trasmissione: dovevano dimostrare non solamente che costoro parlavano male dell’Unione Sovietica(cosa che in Boemia non indignava nessuno), ma che si insultavano a vicenda con abbondante uso di parolacce. È strano come tutti dicano parolacce dalla mattina alla sera, ma quando sentono alla radio una persona conosciuta, una persona che rispettano, dire a ogni frase “cazzo”, ci rimangono un po’ male.

“È incominciata così, con Procházka” disse Tomáš continuando ad ascoltare.

Jan Procházka era un romanziere ceco, una quarantenne con la vitalità di un toro, che già prima del 1968 si era messo a criticare a voce molto alta la situazione politica. Fu uno degli uomini più amati della Primavera di Praga, quella vertiginosa liberalizzazione del comunismo che si concluse con l’invasione russa. Poco dopo l’invasione, tutta la stampa prese a dargli addosso, ma più l’attaccava più la gente lo amava. La radio allora (si era nel 1970) cominciò a trasmettere, a puntate, delle conversazioni private che due anni prima (quindi nella primavera del 1968) Procházka aveva avuto con un professore universitario. A quel tempo nessuno dei due immaginava che nell’appartamento del professore ci fosse nascosto un microfono e che ogni loro passo fosse seguito già da un pezzo! Procházka divertiva sempre i suoi amici con iperboli ed enormità. Adesso quelle enormità venivano trasmesse a puntate alla radio. La polizia segreta, che aveva realizzato il programma, aveva sottolineato con cura i punti nei quali lo scrittore prendeva in giro i suoi amici, ad esempio Dub⎝ek. La gente non perde occasione per sparlare dei propri amici, ma il loro beneamato Procházka li scandalizzò più che non l’odiata polizia segreta.

Tomáš spense la radio e disse: “Tutti i paesi hanno una polizia segreta. Ma una polizia segreta che manda in onda alla radio le proprie registrazioni esiste solo da noi! È

inaudito!”.

“Ma no!” disse Tereza. “Quando avevo quattordici anni tenevo un diario segreto.

Avevo il terrore che qualcuno lo potesse leggere. Lo tenevo nascosto in soffitta. Mia madre lo scovò. Una volta, a pranzo, mentre stavamo tutti chini sulla minestra, se lo tolse di tasca e disse: "Attenzione, ascoltate tutti!". E cominciò a leggere forte e a ogni frase scoppiava a ridere. Ridevano tutti tanto che non riuscivamo a mangiare”.

Lui cercava sempre di convincerla a lasciargli fare colazione da solo e a rimanere a letto. Ma non c’era modo di farglielo intendere. Tomáš lavorava dalle sette alle quattro e lei dalle quattro a mezzanotte. Se non avesse fatto colazione con lui, avrebbero potuto parlarsi soltanto la domenica. Per questo si alzava insieme a lui e poi, quando lui usciva, tornava a letto.

Quella volta, però, aveva paura a riaddormentarsi perché alle dieci voleva andare a fare la sauna allo stabilimento dell’isola di Zofín. La sauna allettava molti, ma i posti erano pochi, e si poteva entrare solo con qualche raccomandazione. Fortunatamente la cassiera era la moglie di un professore espulso dall’università. Il professore era amico di un vecchio paziente di Tomáš. Tomáš aveva parlato con il paziente, il paziente aveva parlato con il professore, il professore aveva parlato con la moglie e Tereza aveva sempre un biglietto riservato una volta alla settimana.

Ci andò a piedi. Odiava i tram continuamente stracolmi dove le persone si stringevano l’una all’altra in un abbraccio pieno di astio, si pestavano i piedi, si strappavano i bottoni dei cappotti e si urlavano insulti a vicenda.

Piovigginava. La gente frettolosa apriva l’ombrello sulla testa e di colpo anche sui marciapiedi ci fu ressa. Le cupole degli ombrelli si urtavano fra loro. Gli uomini erano cortesi e incrociando Tereza sollevavano in alto l’ombrello per farla passare. Le donne, invece, non si spostavano affatto. Guardavano con durezza davanti a sé e aspettavano tutte che fosse l’altra a riconoscere la propria debolezza e a farsi di lato. L’incontro degli ombrelli era una prova di forza. Tereza all’inizio si spostava, ma quando capì che la sua cortesia non veniva mai ricambiata, strinse forte il suo manico, come le altre. Urtò più volte gli ombrelli che le venivano incontro, ma nessuna disse: “Mi scusi”. In genere non veniva detta una parola; due o tre volte sentì un “Merda!” o un “Vaffanculo!”.

Tra le donne armate di ombrelli ce n’erano di giovani e di vecchie, ma le lottatrici più dure erano proprio le giovani. Tereza ripensava ai giorni dell’invasione. Ragazze in minigonna agitavano la bandiera nazionale in cima a lunghe aste. Era un attentato ai sensi dei soldati russi tenuti in una pluriennale ascesi sessuale. A Praga dovevano sentirsi come su un pianeta uscito dal cervello di uno scrittore di fantascienza, un pianeta di donne incredibilmente eleganti che esibivano il loro disprezzo dall’alto di lunghe gambe ben tornite, come in tutta la Russia non se n’erano viste negli ultimi cinque o sei secoli.

In quei giorni lei aveva scattato molte foto di quelle giovani donne sullo sfondo dei carri armati. Come le aveva ammirate! E quelle stesse identiche donne adesso le venivano contro, insolenti e cattive. Invece della bandiera reggevano un ombrello, ma lo reggevano con la stessa alterigia. Erano capaci di lottare con la stessa caparbietà contro un esercito straniero e contro un ombrello che si rifiutava di cedere loro il passo.

Arrivò nella piazza della Città Vecchia con la severa cattedrale di Týn e le case barocche disposte in un quadrilatero irregolare. Il vecchio Municipio del quattordicesimo secolo, che un tempo occupava tutto un lato della piazza, era in rovina da ormai ventisette anni. Varsavia, Dresda, Berlino, Colonia, Budapest erano state terribilmente mutilate dall’ultima guerra, ma i loro abitanti le avevano ricostruite e in genere avevano cercato di restaurare con cura i vecchi centri storici. I praghesi si sentivano inferiori a quelle città.

L’unico edificio famoso che la guerra avesse loro distrutto era il Municipio della Città Vecchia. Decisero di lasciarlo in rovina per non dare la possibilità a qualche polacco o a qualche tedesco di accusarli di aver sofferto poco. Davanti a quei ruderi gloriosi, che sarebbero dovuti essere per l’eternità un atto d’accusa contro la guerra, era stata innalzata una tribuna di tubi metallici per qualche manifestazione alla quale il partito comunista aveva trascinato gli abitanti di Praga il giorno prima o li avrebbe trascinati il giorno dopo.

Tereza guardava il Municipio distrutto e all’improvviso le venne in mente la madre: quella perversa necessità di ostentare le proprie rovine, di vantarsi della propria bruttezza, di esibire la propria miseria, di denudare il moncone del braccio amputato e obbligare tutto il mondo a guardarlo. Negli ultimi tempi ogni cosa le ricorda la madre. Le sembra che il mondo della madre, dal quale era fuggita dieci anni prima, ritorni verso di lei e l’accerchi da ogni lato. Per questo la mattina aveva raccontato di quando la madre a pranzo aveva letto il suo diario intimo alla famiglia che si sbellicava dal ridere. Quando una conversazione privata fatta davanti a un bicchiere di vino viene trasmessa pubblicamente alla radio, che altro vuol dire se non che il mondo si è trasformato in un campo di concentramento?

Tereza usava quella parola fin quasi dall’infanzia per esprimere come appariva ai suoi occhi la vita nella sua famiglia. Il campo di concentramento è un mondo nel quale le persone vivono continuamente una accanto all’altra, giorno e notte. Le crudeltà e le violenze sono soltanto una aspetto secondario (e per nulla necessario). Il campo di concentramento è l’eliminazione totale della vita privata. Procházka, che non aveva potuto chiacchierare con il suo amico davanti a un bicchiere di vino nel sicuro dell’intimità, viveva (senza nemmeno immaginarlo, e questo era stato il suo errore fatale!) in un campo di concentramento. Tereza aveva vissuto in un campo di concentramento quando abitava con la madre. Da allora sapeva che un campo di concentramento non è qualcosa di straordinario, qualcosa di sensazionale, ma, al contrario, qualcosa di dato, di fondamentale, nel quale si nasce e da dove si può evadere soltanto a prezzo di un’enorme fatica.

Su tre panche disposte a gradini le donne sedevano così vicine che non potevano evitare di toccarsi. Accanto a Tereza sudava una donna di circa trent’anni con un visino grazioso. Sotto le spalle le pendevano due seni incredibilmente grossi che dondolavano al minimo movimento. Quando si alzò, Tereza si accorse che anche il suo sedere assomigliava a due enormi bisacce e non aveva niente a che fare col viso.

Chissà se anche quella donna stava spesso in piedi davanti allo specchio e studiava il suo corpo per scorgervi in trasparenza l’anima, come cercava di fare Tereza dall’infanzia?

Certo anche lei aveva ingenuamente creduto di poter usare il corpo come insegna dell’anima.

Ma che anima mostruosa doveva essere, se assomigliava a quel corpo, a quell’attaccapanni con quattro sacche.

Tereza si alzò e andò sotto la doccia. Poi uscì all’aperto. Continuava a piovigginare.

Stava su un pontile di assi gettato su pochi metri quadrati di Vltava e delimitato da un alto parapetto di legno che difendeva le signore dagli sguardi della città. Abbassando gli occhi vide, sulla superficie dell’acqua, il viso della donna a cui stava pensando un attimo prima.

La donna sorrideva. Aveva un naso delicato, grandi occhi castani e uno sguardo infantile.

Come salì i gradini, sotto il tenero viso comparvero nuovamente le due bisacce che sobbalzavano gettando tutt’intorno goccioline d’acqua fredda.

Andò a vestirsi. Si fermò davanti a un grande specchio.

No, sul suo corpo non c’era niente di mostruoso. Sotto le spalle non aveva delle sacche ma due seni piuttosto piccoli. La madre la prendeva in giro perché non erano grandi come si deve, e lei si era creata dei complessi dai quali l’aveva liberata soltanto Tomáš. Ma anche adesso che riusciva ad accettare le loro dimensioni, le spiacevano le areole attorno ai capezzoli, troppo grandi e troppo scure. Se avesse potuto progettare lei stessa il proprio corpo, avrebbe avuto capezzoli meno appariscenti, delicati, sporgenti solo un poco dall’arco del seno e di un colore appena più scuro del resto della pelle. Quel grosso bersaglio rossobruno le sembrava l’opera di un pittore di paese che aveva voluto fare dell’erotismo per poveri.

Si guardava e cercava di immaginare che il naso le si allungasse di un millimetro al giorno. Dopo quanti giorni il suo viso sarebbe diventato diverso?

E se le varie parti del suo corpo avessero cominciato a ingrossare e a rimpicciolire in modo da togliere ogni somiglianza con Tereza, sarebbe stata ancora lei, ci sarebbe stata ancora una Tereza?

Ma certo. Anche se Tereza fosse stata del tutto diversa da Tereza, la sua anima, dentro, sarebbe stata sempre la stessa e non avrebbe potuto che guardare con terrore quello che stava accadendo al corpo.

Ma allora, che rapporto c’è fra Tereza e il suo corpo? Il suo corpo ha diritto al nome

“Tereza”? E se non ne ha diritto, a che cosa si riferisce quel nome? Solo a qualcosa di incorporeo, di intangibile?

(Sono sempre le stesse domande che passano per la testa di Tereza fin dall’infanzia.

Perché le domande veramente serie sono solo quelle che possono essere formulate da un bambino. Solo le domande per le quali non esiste risposta. Una domanda per la quale non esiste risposta è una barriera oltre la quale non è possibile andare. In altri termini: sono proprio le domande per le quali non esiste risposta che segnano i limiti delle possibilità umane e tracciano i confini dell’esistenza umana).

Tereza è immobile davanti allo specchio, ammaliata, e guarda il proprio corpo come se le fosse estraneo; estraneo, eppure assegnato proprio a lei. Ne prova disgusto. Quel corpo non ha avuto la forza di diventare per Tomáš l’unico corpo della sua vita. Quel corpo l’ha delusa e tradita. Per tutta la notte ha dovuto respirare dai capelli di Tomáš il profumo del sesso di un’altra donna!

All’improvviso vorrebbe poter licenziare quel corpo come si fa con un domestico.

Poter rimanere con Tomáš soltanto come anima e il corpo cacciarlo nel mondo, a comportarsi come gli altri corpi femminili si comportano con i corpi maschili! Se il suo corpo non ha saputo diventare l’unico corpo per Tomáš e ha perso la più grossa battaglia della vita di Tereza, ebbene, che se ne vada!

Tornò a casa, mangiò qualcosa senza voglia in piedi in cucina. Verso le tre e mezza mise il guinzaglio a Karenin e andò con lui (di nuovo a piedi) in periferia, all’albergo dove lavorava. Quando l’avevano licenziata dal settimanale, aveva trovato un posto di barista. Era successo alcuni mesi dopo il suo ritorno da Zurigo; non le avevano perdonato alla fin fine di aver fotografato per sette giorni i carri armati russi. Quel nuovo posto l’aveva ottenuto con l’aiuto di amici, altre persone sbattute fuori dal lavoro in quello stesso periodo e che avevano trovato rifugio lì. Alla contabilità c’era un ex professore di teologia, nell’ufficio un ex ambasciatore.

Aveva di nuovo paura per le sue gambe. Un tempo, quando lavorava al ristorante della piccola città, osservava con paura i polpacci coperti di varici delle colleghe. Era la malattia di tutte le cameriere obbligate a passare la vita a camminare, a correre, oppure a star ferme in piedi con un peso in mano. A dire il vero adesso il lavoro era più comodo di quando lavorava nella piccola città. Certo, prima di incominciare il servizio doveva trasportare pesanti casse di birra e di acqua minerale, ma poi non doveva fare altro che stare dietro al bancone del bar, versare gli alcoolici ai clienti e intanto lavare i bicchieri in un piccolo lavabo installato in fondo al bancone. Per tutto il tempo Karenin stava accucciato pazientemente ai suoi piedi.

Era già passata da molto la mezzanotte quando finì i conti e consegnò il denaro al direttore dell’albergo. Poi passò a salutare l’ambasciatore che aveva il turno di notte. Dietro al lungo banco dell’ufficio c’era una porta che immetteva in una stanzetta dove, su uno stretto divano, era possibile schiacciare un pisolino. Sopra il divano c’erano foto incorniciate, dove l’ambasciatore compariva con altri personaggi che sorridevano rivolti all’obiettivo, o gli stringevano la mano, oppure sedevano a un tavolo accanto a lui e firmavano qualcosa. Alcune avevano una firma con dedica. Al posto più in vista era appesa una foto dove accanto alla testa dell’ambasciatore, si vedeva il viso sorridente di John F.Kennedy.

Adesso l’ambasciatore non stava parlando col presidente americano bensì con un sessantenne sconosciuto che, quando vide Tereza, tacque.

“È un’amica” disse l’ambasciatore. “Puoi parlare tranquillamente”. Poi si rivolse a Tereza: “Proprio oggi hanno condannato suo figlio a cinque anni”.

Tereza venne a sapere che durante i primi giorni dell’invasione il figlio del sessantenne insieme ai suoi amici aveva tenuto d’occhio l’ingresso dell’edificio dov’erano sistemati i servizi speciali dell’esercito russo. Era chiaro che i cechi che uscivano di lì erano agenti al servizio dei russi. Il giovane li seguiva insieme ai suoi amici, identificava i numeri di targa delle loro macchine e ne informava i giornalisti di un’emittente ceca clandestina i quali poi mettevano in guardia la popolazione. Lui stesso con l’aiuto degli amici ne aveva picchiato uno.

Il padre disse: “Questa foto era l’unica prova concreta. Ha negato ogni cosa fino a che non gliel’hanno mostrata”.

Tirò fuori dal taschino un ritaglio di giornale: “È uscito sul "Times" nell’autunno del 1968”.

Sulla foto c’era un giovane che teneva per il collo un uomo. Tutt’attorno la gente osservava. Sotto c’era una didascalia: “Punizione di un collaborazionista”.

Tereza tirò un sospiro di sollievo. No, la foto non era sua.

Tornò a casa con Karenin, attraversando la Praga notturna. Pensava ai giorni in cui fotografava i carri armati. Com’erano stati ingenui! Credevano di rischiare la vita per la patria, e intanto, senza nemmeno saperlo, lavoravano per la polizia russa.

Arrivò a casa che era quasi l’una e mezza. Tomáš dormiva già. I suoi capelli odoravano di sesso di donna.

Che cos’è la civetteria? Si potrebbe dire che è un comportamento che mira a suggerire la possibilità di un’intimità sessuale, senza che questa possibilità appaia mai come certezza. In altri termini: la civetteria è una promessa di coito non garantita.

Tereza è in piedi dietro al bancone e i clienti ai quali serve gli alcoolici le fanno la corte. È forse spiacevole per lei quel flusso continuo di complimenti, doppisensi, barzellette, proposte, sorrisetti, sguardi? Niente affatto. Prova un desiderio irresistibile di esporre il proprio corpo (quel corpo estraneo che lei vuole gettare nel mondo) a quella marea.

Tomáš le ripete continuamente che l’amore e il fare l’amore sono due cose diverse.

Lei non voleva ammetterlo. Ora si trova circondata da uomini per i quali non prova la minima simpatia. Che effetto farebbe fare l’amore con loro? Desidera provarlo, almeno nella forma di quella promessa non garantita chiamata civetteria.

Intendiamoci: non cerca di vendicarsi di Tomáš. Cerca solo una via d’uscita dal labirinto. Sa di essere diventata un peso per lui: prende tutto troppo seriamente, di ogni cosa fa una tragedia, non riesce a capire la leggerezza e la gioiosa futilità dell’amore fisico. Come vorrebbe imparare la leggerezza! Come vorrebbe che qualcuno le insegnasse a non essere così anacronistica.

Se per altre donne la civetteria è una seconda natura, una routine senza significato, per Tereza essa è diventata il campo di un importante indagine che le deve insegnare di che cosa lei è capace. Ma proprio perché per lei è una cosa tanto importante e seria, la sua civetteria ha perso ogni leggerezza, è forzata, voluta, eccessiva. L’equilibrio tra la promessa e la mancanza di garanzia (dove appunto risiede l’autentica virtuosità della civetteria!) è alterato. Essa è troppo sollecita a promettere, e non mostra con sufficiente chiarezza che la sua promessa non è garantita. In altre parole, dà a tutti l’impressione di essere accessibilissima. Quando poi gli uomini reclamano ciò che sembrava loro promesso, urtano contro una forte resistenza che non sanno spiegarsi se non attribuendo a Tereza una raffinata cattiveria.

Su uno sgabello vuoto accanto al bancone venne a sedersi un ragazzo sui sedici anni.

Disse alcune frasi provocanti che rimasero nella conversazione come in un disegno rimane una riga sbagliata che non si può né continuare né cancellare.

“Ha delle belle gambe, lei” disse.

“Riesce a vedere attraverso il legno?” ribatté Tereza.

“L’ho vista in strada” spiegò il ragazzo, ma Tereza si era già allontanata e si occupava di un altro cliente. Poi il ragazzo ordinò un cognac. Lei rifiutò.

“Io ho già diciott’anni” protestò il ragazzo.

“Mi mostri la carta d’identità” disse Tereza.

“Non mi va di mostrargliela” disse il ragazzo.

“E allora beva una limonata” disse Tereza. Il ragazzo scese dallo sgabello senza parlare e uscì. Una mezz’oretta dopo ritornò e si sedette nuovamente al bar. I suoi gesti erano incerti e la puzza d’alcool del suo fiato si sentiva a tre metri di distanza.

“Una limonata” ordinò.

“Lei è ubriaco!” disse Tereza. Il ragazzo indicò la scritta appesa al muro dietro le spalle di Tereza: “È severamente vietato servire alcoolici ai minori di diciotto anni”.

“È vietato che lei mi serva alcoolici,” disse con un gran gesto della mano verso Tereza “ma non c’è scritto da nessuna parte che io non posso essere ubriaco”.

“Dove si è ridotto a quel modo?” chiese Tereza.

“All’osteria di fronte” rise il ragazzo, e di nuovo ordinò una limonata.

“E perché non c’è rimasto?”.

“Perché voglio guardarla” disse il ragazzo.“Io l’amo!”.

Lo disse contraendo stranamente la faccia. Tereza non capiva: la stava prendendo in giro? La stava corteggiando? Scherzava? Oppure semplicemente era ubriaco e non sapeva quello che diceva?

Gli mise davanti la limonata e si dedicò agli altri clienti. La frase “Io l’amo!”

sembrava avere esaurito le forze del ragazzo. Non disse più nulla, posò in silenzio i soldi sul banco e scomparve senza che Tereza se ne accorgesse.

Ma era appena uscito che si sentì la voce di un omino pelato che aveva buttato giù la sua terza vodka: “Signora, sa bene che ai minori non si servono alcoolici”.

“E infatti non gliene ho dati! Ha preso una limonata!”.

“Ho visto benissimo che cosa ci ha messo dentro!”.

“Ma che sta inventando?” gridò Tereza. “Un’altra vodka” ordinò l’uomo pelato e aggiunse: “È già parecchio tempo che la tengo d’occhio”.

“E allora ringrazi di poter guardare una bella donna e tenga la bocca chiusa!”

intervenne un uomo alto che si era avvicinato al bancone e aveva assistito a tutta la scena.

“Lei non si impicci! Non sono cose che la riguardino!” gridò l’uomo pelato.

“Mi può spiegare cosa riguarda lei?” chiese l’uomo alto.

Tereza versò al pelato la vodka che quello aveva ordinato. Lui la bevve d’un sorso, pagò e uscì.

“La ringrazio” disse poi Tereza all’uomo alto.

“Di nulla” disse l’uomo e uscì anche lui.

Alcuni giorni dopo ricomparve nel bar. Quando lei lo vide, gli sorrise come a un amico: “Devo ringraziarla ancora. Quel pelato viene qui spesso ed è proprio sgradevole”.

“Lo dimentichi!”.

“Perché voleva farmi del male?”.

“Non è che un ubriaco. Glielo ripeto: lo dimentichi!”.

“Se è lei a chiedermelo, lo dimenticherò”.

L’uomo alto la guardava negli occhi: “Me lo prometta!”.

“Promesso”.

“È bello sentire che lei mi promette qualcosa” disse l’uomo, continuando a guardarla negli occhi.

Era cominciata la civetteria: un comportamento che suggerisce come possibile un’intimità sessuale, anche se questa possibilità rimane senza garanzia e puramente teorica.

“Com’è che nel più brutto quartiere di Praga si incontra una donna come lei?”.

E Tereza: “E lei? Cosa ci fa lei nel più brutto quartiere di Praga?”.

Lui le disse che abitava poco lontano, che era ingegnere e che la volta prima si era fermato lì per puro caso tornando dal lavoro.

Guardava Tomáš. Il suo sguardo non era puntato sui suoi occhi ma dieci centimetri più in alto, sui suoi capelli che odoravano del sesso di un’altra donna.

Diceva: “Tomáš, io non ne posso più. Lo so che non dovrei lamentarmi. Da quando sei tornato a Praga a causa mia, mi sono imposta di non essere gelosa. Non voglio essere gelosa, ma non sono abbastanza forte da impedirmelo. Ti prego, aiutami!”.

Lui la prese sottobraccio e la portò al parco dove anni prima andavano spesso a passeggiare. C’erano panchine azzurre, gialle, rosse. Si sedettero e Tomáš disse:

“Io ti capisco. So quello che vuoi. Ho predisposto ogni cosa. Adesso salirai sulla collina di Pet⎠ín”.

All’improvviso la prese l’angoscia: “Sulla collina di Pet⎠ín? Perché sulla collina di Pet⎠ín?”.

“Salirai fino in cima e capirai tutto”.

Lei non aveva alcuna voglia di andare; il suo corpo era così debole che non riusciva a tirarsi su dalla panchina. Ma non sapeva dire di no a Tomáš. Si alzò a fatica.

Si voltò a guardare. Lui era sempre seduto sulla panchina e le sorrideva quasi con allegria. Fece con la mano un gesto che doveva incoraggiarla ad andare.

Quando arrivò ai piedi della collina di Pet⎠ín, l’altura verdeggiante che si erge al centro di Praga, si accorse con stupore che non c’era nessuno. Era strano, perché di solito vi passeggiavano ininterrottamente folle di praghesi. Aveva l’angoscia nel cuore, ma la collina era così silenziosa e quale silenzio così consolante, che non si oppose e si abbandonò fiduciosa al suo abbraccio. Cominciò a salire, e ogni tanto si fermava a guardare indietro: vedeva sotto di sé un’infinità di torri e di ponti; i santi agitavano i pugni minacciosi e fissavano le nuvole con occhi di pietra. Era la più bella città del mondo.

Arrivò in cima. Dietro i chioschetti con i gelati, le cartoline e i biscotti (dentro non c’era nessun venditore), si stendeva a perdita d’occhio un prato disseminato di radi alberi. Lì vide alcuni uomini. Più si avvicinava loro e più camminava adagio. Erano in sei. Stavano fermi oppure passeggiavano con molta lentezza, come giocatori su un campo di golf che studino il terreno, soppesino in mano la mazza e cerchino di concentrarsi in vista della partita.

Alla fine li raggiunse. Dei sei ne riconobbe con sicurezza tre che erano venuti lì per recitare la sua stessa parte: erano incerti, sembravano ansiosi di fare una quantità di domande ma timorosi di essere importuni, e perciò preferivano star zitti e guardarsi intorno con aria interrogativa.

Gli altri tre irradiavano un’indulgente benevolenza. Uno di loro aveva in mano un fucile. Quando vide Tereza, le fece un cenno sorridendo: “Sì, è proprio qui”.

Lei salutò con un cenno del capo e sentì una terribile angoscia.

L’uomo aggiunse: “Affinché non ci siano errori, è suo desiderio, vero?”.

Era facile dire: “No, no! Non è mio desiderio!” ma era impensabile per lei deludere Tomáš. Che scusa avrebbe trovato se fosse tornata a casa? E così disse: “Sì. Naturalmente. È

mio desiderio”.

L’uomo col fucile continuò: “Voglio che lei capisca perché glielo domando. Noi questo lo facciamo solo se abbiamo la certezza che le persone che vengono da noi desiderano loro stesse espressamente morire. Noi ci limitiamo a rendere un servizio”.

Guardava Tereza in maniera interrogativa, sicché lei dovette rassicurarlo ancora una volta: “No. Non abbia timore. È mio desiderio”.

“Vuole andare per prima?” chiese l’uomo.

Lei doveva ritardare l’esecuzione, fosse anche solo di pochi secondi, e così disse:

“No, la prego, no. Se è possibile, vorrei essere l’ultima”.

“Come vuole” disse l’uomo e si allontanò in direzione degli altri. I suoi due assistenti non avevano armi ed erano lì solo per occuparsi di quelli che dovevano morire. Li prendevano per un braccio e li accompagnavano sul prato. La superficie erbosa era ampia e si stendeva a perdita d’occhio. I condannati potevano scegliersi l’albero. Si fermavano, si guardavano attorno senza riuscire a decidersi. Alla fine due di essi scelsero due platani, ma il terzo continuava a camminare, come se nessun albero gli sembrasse sufficientemente degno della sua morte. L’assistente che lo teneva con delicatezza per il braccio, lo accompagnava senza spazientirsi, finché l’uomo alla fine perse il coraggio di proseguire oltre e si fermò vicino a un acero frondoso.

Allora gli assistenti legarano a tutti e tre gli uomini una benda sugli occhi.

E così lì sull’ampio prato c’erano tre uomini con le spalle contro tre alberi, ciascuno con una benda sugli occhi e la testa rivolta al cielo.

L’uomo col fucile prese la mira e fece fuoco. Non si sentì nulla, solo il canto degli uccelli. Il fucile aveva il silenziatore. Si vedeva soltanto che l’uomo appoggiato all’acero cominciava ad accasciarsi.

Senza spostarsi dal punto in cui si trovava, l’uomo col fucile si voltò in un’altra direzione e l’uomo appoggiato al platano si accasciò anche lui nel più assoluto silenzio; alcuni istanti dopo (l’uomo col fucile aveva solo ruotato di un poco su se stesso) cadde sull’erba anche il terzo giustiziato.

13

Uno degli assistenti si avvicinò a Tereza senza dir parola. In mano teneva una benda di colore azzurro scuro.

Lei capì che voleva bendarle gli occhi. Scosse la testa e disse: “No, voglio vedere ogni cosa”. Ma non era quello il vero motivo del suo rifiuto. Non c'era in lei nulla di quegli eroi decisi a guardare coraggiosamente negli occhi il plotone d’esecuzione. Voleva soltanto ritardare la morte. Le sembrava che, nell’istante in cui avesse avuto la benda sugli occhi, si sarebbe trovata già nell’anticamera della morte, da dove non ci sarebbe più stata via di ritorno. L’uomo non cercò di forzarla e la prese per il braccio. Si incamminarono sull’ampio prato e Tereza non riusciva a decidersi per questo quell’albero. Nessuno la obbligava ad aver fretta, ma sapeva che non avrebbe potuto ugualmente fuggire. Quando vide di fronte a sé un castagno in fiore, lo raggiunse e si fermò. Si appoggio con la schiena al tronco e guardò in alto: vedeva il fogliame illuminato dal sole e sentiva la città mormorare lontano, debole e dolce, come il suono di migliaia di violini.

L’uomo alzò il fucile.

Tereza sentiva che il coraggio le stava sfuggendo. Era disperata per la sua debolezza ma non riusciva a dominarla. Disse: “Ma non è mio desiderio”. L’uomo abbassò immediatamente la canna del fucile e disse, molto tranquillo: “Se non è suo desiderio noi non possiamo farlo. Non ne abbiamo il diritto”.

E la sua voce era gentile, come se si scusasse con Tereza di non poterla uccidere se non era lei stessa a desiderarlo. Quella gentilezza le spezzava il cuore: voltò il viso verso la corteccia dell’albero e scoppiò a piangere.

Il corpo scosso dai singhiozzi, abbracciava l’albero come se non fosse un albero ma il padre che aveva perduto, il nonno che non aveva conosciuto, il bisnonno, il trisavolo, un uomo infinitamente vecchio giunto dalle più lontane profondità del tempo per offrirle il suo viso nelle sembianze della ruvida corteccia di un albero.

Poi si voltò. I tre uomini erano già lontani, andavano e venivano piano sul prato come giocatori di golf e il fucile in mano a uno di loro sembrava davvero una mazza da golf.

Ridiscese i viottoli della collina di Petrin e dentro le era rimasta la nostalgia di quell’uomo che doveva ucciderla e non l’aveva fatto. Lo desiderava. Qualcuno deve aiutarla, dopo tutto! Tomáš non vuole, Tomáš la manda a morire. Solo un altro può soccorrerla!

Più si avvicinava alla città, più aumentava in lei la nostalgia per quell’uomo e la paura di Tomáš. Non le avrebbe perdonato di esser venuta meno alla sua promessa. Non le avrebbe perdonato di non essere stata abbastanza coraggiosa e di averlo tradito. Era già nella strada dove abitavano e sapeva che tra poco l’avrebbe visto. Ne sentiva una tale paura, che aveva i crampi allo stomaco e voglia di vomitare.

L’ingegnere l’aveva invitata a casa sua. Già due volte lei aveva rifiutato. Quella volta accettò.

Mangiò qualcosa come sempre in piedi in cucina e poi uscì. Non erano ancora le due.

Avvicinandosi alla sua casa, sentiva le gambe rallentare da sole il passo, senza l’intervento della sua volontà.

Ma poi le venne in mente che in fondo era Tomáš a mandarla dall’ingegnere. Non le spiegava continuamente che l’amore e la sessualità non hanno nulla in comune? Lei sta andando semplicemente a mettere alla prova le sue parole e a confermarle. Le sembra quasi di sentire dentro di sé la sua voce: “Io ti capisco. So quel che vuoi. Ho predisposto ogni cosa.

Salirai fino in cima e capirai tutto”.

Sì, non sta facendo altro che eseguire gli ordini di Tomáš.

Vuole rimanere dall’ingegnere solo un attimo; giusto il tempo di bere un caffè, giusto il tempo di capire che effetto fa arrivare fino al confine dell’infedeltà. Vuole spingere il suo corpo fino a quel confine, lasciarverlo un attimo come alla gogna e poi, quando l’ingegnere cercherà di abbracciarla, lei dirà, come aveva detto all’uomo col fucile sulla collina di Petrin:

“Ma non è mio desiderio”.

E l’uomo abbasserà la canna del fucile e dirà con voce gentile: “Se non è suo desiderio, non posso farlo. Non ne ho il diritto”.

E lei si volterà verso il tronco dell’albero e scoppierà a piangere.

Era una casa di periferia costruita all’inizio del secolo in un quartiere operaio di Praga. Entrò in un corridoio dalle pareti sporche e imbiancate di calce. I gradini consumati di una scala di pietra con una ringhiera di ferro la portarono al primo piano. Girò a sinistra. Era la seconda porta, senza nome e senza campanello.

Bussò.

Lui aprì.

L’intero appartamento consisteva in un’unica stanza divisa a due metri dalla porta da una tenda che formava così una specie di ingressino, dove c’erano un tavolo con un fornello e un frigorifero. Superata la tenda, vide di fronte il rettangolo verticale della finestra in fondo a una stanza stretta e lunga; da un lato c’era una libreria, dall’altro un divano e una poltrona.

“Il mio è un appartamento molto semplice” disse l’ingegnere. “Spero che non le dia fastidio”.

“No, per niente” disse Tereza, guardando la parete tutta coperta di scaffali pieni di libri. Quest’uomo non aveva nemmeno un tavolo come si deve, però aveva centinaia di libri.

Tereza ne era contenta e l’angoscia con la quale era andata lì si placò leggermente. Fin dall’infanzia considerava il libro come segno di una fratellanza segreta. Un uomo che aveva in casa una biblioteca come quella non poteva farle del male.

Lui le chiese che cosa poteva offrirle. Del vino?

No, no, non voleva del vino. Se proprio doveva prendere qualcosa, allora un caffè.

Lui andò dietro la tenda e lei si avvicinò alla libreria. Un libro la attirava. Era una traduzione dell’Edipo di Sofocle. Com’è strano trovare lì questo libro. Molti anni prima, Tomáš l’aveva dato a Tereza pregandola di leggerlo attentamente e gliene aveva parlato a lungo. Poi aveva pubblicato le proprie riflessioni su un giornale e a causa di quell’articolo tutta la loro vita era andata a gambe all’aria. Lei guardava il dorso di quel libro e quella vista la tranquillizzava. Era come se Tomáš avesse lasciato lì apposta una sua traccia, il messaggio che ogni cosa era stata predisposte da lui. Prese il libro e lo aprì. Appena l’uomo alto fosse ritornato gli avrebbe chiesto come mai aveva quel libro, se l’aveva letto e che cosa ne pensava. Sarebbe stata un’astuzia per spostare la conversazione dal pericoloso territorio dell’appartamento di uno sconosciuto all’universo familiare delle idee di Tomáš.

Poi sentì una mano sulla spalla. L’uomo le prese il libro di mano, lo rimise senza parlare nella libreria e la guidò verso il divano.

Le ritornò ancora in mente la frase che aveva detto al giustiziere della collina di Petrin. La pronunciò adesso ad alta voce: “Ma non è mio desiderio!”.

Era convinta che fosse una formula incantata che avrebbe mutato all’istante la situazione, ma in quella stanza le parole persero il loro potere magico. Credo addirittura che incitassero l’uomo a mostrarsi ancor più risoluto: la strinse a sé e le mise una mano sul seno.

Cosa strana: quel contatto la liberò di colpo dall’angoscia. La mano dell’ingegnere indicava il suo corpo, e lei si rese conto che in fondo non si trattava affatto di lei stessa (della sua anima), ma del suo corpo, del suo corpo soltanto. Di quel corpo che l’aveva tradita e che lei aveva spinto nel mondo tra gli altri corpi.

Le slacciò un bottone della camicetta e le fece cenno di continuare da sola. Lei non obbedì a quell’ordine. Aveva spinto il suo corpo nel mondo, ma non voleva prendersi alcuna responsabilità per esso. Non si difendeva ma nemmeno lo aiutava. L’anima voleva mostrare in quel modo che, pur disapprovando ciò che stava accadendo, aveva deciso di mantenersi neutrale.

Lui la spogliava e lei rimaneva pressocché immobile. Quando lui la baciò, le sue labbra non risposero al contatto. Ma all’improvviso si accorse che il suo sesso era umido e si spaventò.

Sentiva la propria eccitazione, che era tanto più grande perché lei era eccitata contro la sua volontà. L’anima era già segretamente d’accordo con tutto ciò che stava accadendo, ma sapeva anche che se quella grande eccitazione doveva durare, il suo consenso doveva rimanere tacito. Se avesse detto sì ad alta voce, se avesse accettato di partecipare direttamente alla scena d’amore, l’eccitazione sarebbe venuta meno. Perché l’anima era eccitata proprio dal fatto che il corpo agiva contro la sua volontà, la tradiva, e che lei assisteva a quel tradimento.

Poi lui le tolse le mutandine: ora era completamente nuda. L’anima vedeva il corpo nudo tra le braccia di uno sconosciuto e quella vista le sembrava inverosimile, come osservare da vicino il pianeta Marte. Illuminato dall’incredibile, il suo corpo perdeva per la prima volta la sua banalità; per la prima volta lei lo guardava affascinata: tutta l’individualità di quel corpo, tutta la sua unicità, tutta la sua inimitabilità erano proiettate in primo piano.

Non era il più ordinario dei corpi (come l’aveva visto finora), era il più straordinario.

L’anima non poteva staccare lo sguardo dalla macchia bruna della voglia appena sopra il triangolo peloso del sesso; vedeva in quel segno il marchio che lei stessa aveva impresso sul corpo e le sembrava sacrilego il movimento di un membro sconosciuto, così vicino a quella sacra impronta.

Quando poi guardò il viso di lui, si rese conto di non aver mai acconsentito che il corpo, sul quale l’anima aver inciso la propria firma, si trovasse tra le braccia di qualcuno che lei non conosceva e non voleva conoscere. Fu presa da un odio accecante. Riempì la bocca di saliva per sputarla in faccia a quello sconosciuto. Lui la osservava con la stessa bramosia; si era accorto della sua rabbia e accelerava i propri movimenti sul suo corpo.

Tereza sentiva arrivare da lontano il piacere, cominciò a gridare: “No, no, no!”, resisteva al godimento che si avvicinava e, resistendogli, il piacere trattenuto si diffondeva a lungo per il corpo che non voleva dargli sfogo da nessuna parte; scorreva in lei come morfina iniettata in una vena. Lei si dibatteva tra le sue braccia, colpiva alla cieca e gli sputava in faccia.

Nelle stanze da bagno moderne, le tazze del gabinetto si alzano dal pavimento come bianchi fiori di ninfea. L’architetto fa di tutto affinché il corpo dimentichi la sua miseria e l’uomo non sappia ciò che avviene dei rifiuti delle sue interiora quando scroscia su di essi l’acqua liberata dal serbatoio. I tubi di scarico, pur penetrando con i loro tentacoli nei nostri appartamenti, sono accuratamente nascosti ai nostri sguardi e noi non sappiamo nulla delle invisibili Venezie di merda sulle quali sono costruiti i nostri bagni, le nostre camere da letto, le nostre sale da ballo e i nostri parlamenti.

Il bagno della vecchia casa di periferia in un quartiere operaio di Praga era meno ipocrita: il pavimento era di mattonelle grigie, la tazza del gabinetto vi si alzava misera e sola. La sua forma non ricordava il fiore della ninfea, sembrava invece quello che era: l’imboccatura allargata di un tubo. Mancava persino il sedile di legno e Tereza dovette sedersi sulla gelida lamiera smaltata.

Sedeva sulla tazza e il desiderio di vuotare gli intestini che l’aveva assalita all’improvviso era il desiderio di arrivare al fondo dell’umiliazione, di essere, quanto più possibile e quando interamente possisibile, un corpo, quel corpo del quale la madre diceva che era lì solo per digerire ed evacuare. Tereza libera gli intestini e sente in quel momento una tristezza e una solitudine infinite. Non c’è nulla di più miserevole di quel suo corpo nudo seduto sull’imboccatura allargata di un tubo di scarico.

La sua anima aveva perso la sua curiosità di spettatrice, la sua cattiveria e il suo orgoglio; era già ritornata nelle profondità del corpo, nelle sue viscere più nascoste, e aspettava disperata che qualcuno la richiamasse all’aperto.

Si alzò dalla tazza, tirò l’acqua e andò nell’ingressino. L’anima tramava nel corpo, nudo e respinto. Sentiva ancora sull’ano il contatto della carta con la quale si era pulita.

E in quel momento avvenne qualcosa di indimenticabile: ebbe voglia di andare da lui nella stanza e di sentire la voce, le sue parole. Se lui le avesse parlato con voce calma e profonda l'anima avrebbe trovato il coraggio di uscire sulla superficie del corpo e lei sarebbe scoppiata a piangere. Lo avrebbe abbracciato come nel sogno aveva abbracciato il grosso tronco del castagno.

Stava nell’ingressino e cercava di dominare quell’immenso desiderio di sciogliersi in lacrime davanti a lui. Sapeva che se non ci fosse riuscita sarebbe arrivata dove non voleva. Si sarebbe innamorata di lui.

In quell’istante, dalla stanza interna giunse la sua voce. Al sentire quella voce d’incarnata (senza vedere nel medesimo tempo l’alta figura dell’ingegnere), rimase sbalordita: era sottile e acuta. Com’era possibile che non se ne fosse mai accorta?

Fu forse grazie all’impressione sconcertante e spiacevole che le procurava quella voce, che le riuscì di scacciar via la tentazione. Entrò nella stanza, raccolse le sue cose sparse, si vestì in fretta e uscì.

20

Ritornava dal negozio insieme a Karenin che teneva in bocca un panino. Era una mattina fredda, c’era un po’ di gelo. Stavano passando accanto a un complesso di case dove, negli spiazzi tra gli edifici, la gente aveva ricavato minuscoli orti e giardinetti.

All’improvviso Karenin si bloccò con gli occhi fissi in quella direzione. Guardò anche lei, ma senza notare nulla di particolare. Karenin diede uno strattone e lei si lasciò portare.

Soltanto allora scorse, sulla terra ghiacciata di un’aiuola vuota, il capino nero di una cornacchia con un grande becco. Il capino senza corpo sussultava piano e il becco di tanto in tanto emetteva un suono triste e rauco.

Karenin era tanto eccitato che lasciò cadere il panino. Tereza lo dovette legare a un albero perché non facesse del male alla cornacchia. Poi si inginocchiò e cercò di rimuovere la terra premuta attorno al corpo dell’uccello sepolto vivo. Non era facile. Si ruppe un’unghia, le uscì del sangue.

In quel momento a una passo da lei cadde una pietra. Si voltò e vide due ragazzini di non più di dieci anni dietro l’angolo di una casa. Sia alzò. Quelli videro il suo movimento e il cane vicino all’albero e scapparono via.

Si inginocchiò di nuovo per rimuovere il terriccio e alla fine riuscì a liberare la cornacchia dalla sua tomba. Ma l’uccello era paralizzato e non poteva né camminare né volare. Lo avvolse nella sciarpa rossa che aveva al collo e se lo strinse al corpo con la sinistra. Con la destra slegò Karenin dall’albero e dovette usare tutta la sua forza per quietarlo e tenerlo al passo.

Suonò alla porta, non avendo le mani liberi per cercare la chiave in tasca. Tomáš le aprì. Lei gli diede il guinzaglio con Karenin. “Tienilo!” gli ordinò e portò la cornacchia nel bagno. La posò a terra sotto il lavabo. La cornacchia si dibatteva ma non riusciva a spostarsi.

Un denso liquido giallognolo le colava dal corpo. Tereza le fece un letto di vecchi stracci sotto la lavabo perché non sentisse il freddo delle piastrelle. Ogni tanto l’uccello agitava disperatamente l’ala paralizzata; il suo becco puntava verso l’alto come un rimprovero.

Sedeva sul dorso della vasca senza riuscire a staccare gli occhi dalla cornacchia in agonia. Vedeva nella sua desolata solitudine l’immagine del proprio destino e si ripeteva che, tranne Tomáš, non aveva nessuno al mondo.

La storia con l’ingegnere le ha forse insegnato che le avventure amorose non hanno nulla a che fare con l’amore? Che sono leggere e non pesano nulla? È più tranquilla ora?

Niente affatto.

Nella sua mente torna spesso questa scena: è appena uscita dal bagno e il suo corpo è fermo nell’ingressino, nudo e respinto. L’anima, spaventata, trema nel profondo delle viscere. Se, in quell’istante, l’uomo che era nella stanza interna avesse parlato alla sua anima, lei sarebbe scoppiata in lacrime, gli sarebbe caduta tra le braccia.

Pensava se lì, nell’ingressino, accanto al bagno, al posto suo ci fosse stata un’amante di Tomáš e dietro la tenda, al posto dell’ingegnere, Tomáš. Lui avrebbe detto alla ragazza una parola, una sola, e lei l’avrebbe abbracciato in lacrime.

Tereza sa che il momento in cui nasce l’amore si presenta così: la donna non resiste alla voce che chiama all’aperto la sua anima spaventata; l’uomo non resiste alla donna la cui anima presta orecchio alla sua voce. Tomáš non è mai al sicuro dalle insidie dell’amore e Tereza deve temere per lui ogni ora e ogni minuto.

Che armi ha a disposizione? Solo la sua fedeltà. Gliel’aveva offerta fin dall’inizio, dal primo giorno, come se fosse stata consapevole di non aver nient’altro da offrirgli. Il loro amore è un’architettura curiosamente asimmetrica: si fonda sull’assoluta certezza della fedeltà di lei come un palazzo gigantesco su un unico pilastro.

La cornacchia non muoveva quasi più le ali, solo ogni tanto contraeva la zampetta ferita e spezzata. Tereza non si voleva allontanare, quasi vegliasse al capezzale di una sorella morente. Ma finì per andare lo stesso in cucina, a mangiare in fretta qualcosa.

Al suo ritorno la cornacchia era morta.

Nel primo anno della loro relazione, Tereza gridava facendo l’amore e quel grido, come ho detto, voleva accecare e assordare i sensi. In seguito gridò meno, ma la sua anima continuava a essere accecata dall’amore e non vedeva nulla. Soltanto quando era andata a letto con l’ingegnere, l’assenza di amore aveva fatto sì che la sua anima riacquistasse la vista.

Ora era di nuovo alla sauna, e di nuovo era ferma davanti allo specchio. Si guardava e rivedeva dentro di sé la scena dell’amore fisico nell’appartamento dell’ingegnere. Ciò che ricordava di quella scena non era l’amante. A essere sinceri, non avrebbe saputo nemmeno descriverlo, forse non aveva nemmeno fatto caso a come apparisse nudo. Quello che ricordava (e che adesso guardava eccitata nello specchio) era il proprio corpo; il triangolo peloso e la macchia rotonda poco più sopra. Quella macchia, che fino ad allora era stata per lei un semplice difetto cutaneo, le si era impressa nella mente. Voleva vederla ancora e poi ancora in quell’incredibile vicinanza al membro di un estraneo.

Non posso che sottolinearlo ancora una volta: non voleva veder il membro di un estraneo. Voleva vedere il proprio sesso vicino a quel membro. Non desiderava il corpo dell’amante. Desiderava il proprio corpo, improvvisamente scoperto, tanto più eccitante perché più vicino e più sconosciuto.

Guardava il proprio corpo coperto di goccioline rimaste dalla doccia e immaginava che uno di questi giorni l’ingegnere sarebbe venuto a trovarla al bar. Voleva che venisse, che la invitasse a tornare da lui! Lo voleva disperatamente!

Ogni giorno temeva che l’ingegnere si sarebbe fatto vedere al bar e che lei non avrebbe saputo dirgli di no. Col passare dei giorni, il timore che venisse lasciava il posto alla paura che non venisse.

Passò un mese e l’ingegnere non si era fatto vedere. A Tereza sembrava inspiegabile.

Il desiderio deluso passò in secondo piano, sostituito dall’inquietudine: perché non è venuto?

Serviva i clienti. Tra di loro c’era di nuovo l’uomo pelato che, tempo prima, l’aveva accusata di servire alcoolici ai minorenni. Stava raccontando a voce alta una barzelletta sconcia, la stessa che lei aveva udito centinaia di volte dagli ubriachi ai quali portava la birra un tempo nella piccola città. Si sentì ancora una volta assalita dal mondo della madre e interruppe bruscamente l’uomo pelato.

Quello si offese: “Lei non mi può dare ordini. Si consideri già fortunata che noi la lasciamo lavorare in questo bar”.

Noi? Chi sono questi noi?”.

“Noi” disse l’uomo, e ordinò un’altra vodka. “E si ricordi che io non mi lascio insultare da lei”.

Poi, indicando il collo di Tereza, che portava alcuni giri di perle da poco prezzo: “Da chi ha avuto quelle perle? Non gliele ha certo date suo marito, che lava le finestre! Lui non ce li ha di sicuro i soldi per comprarle dei regali! Le ha avute dai clienti qui al bar? E in cambio di che cosa?”.

“Chiuda immediatamente la bocca!” sibilò Tereza. L’uomo cercò di prendere la collana tra le dita: “Si ricordi che da noi la prostituzione è un reato!”.

Karenin balzò su, appoggiò le zampe anteriori sul bancone e ringhiò.

24

L’ambasciatore disse: “Era un collaboratore della polizia”.

“Se lo era, avrebbe dovuto essere più discreto” obiettò Tereza. “A che serve una polizia segreta che non agisce in segreto?”.

L’ambasciatore si sedette sul divano incrociando le gambe sotto di sé, come aveva imparato ai corsi di yoga. Sopra di lui, nella cornicetta, Kennedy sorrideva, dando alle sue parole una particolare consacrazione.

“Signora Tereza” disse paternamente “questi collaboratori hanno varie funzioni. La prima è quella classica. Ascoltano ciò che la gente dice e ne informano i superiori.

“La seconda è una funzione intimidatoria. Fanno vedere che ci hanno in loro potere e vogliono metterci paura. Questo è ciò a cui mirava il suo uomo pelato.

“La terza funzione consiste nell’inscenare situazioni che possano comprometterci.

Oggi nessuno ha più interesse ad accusarci di complotti ai danni dello Stato perché questo ci procurerebbe soltanto nuove simpatie. Preferiscono trovarci in tasca dell’hascich o provare che abbiamo violentato una bambina di dodici anni. Troveranno sempre una bambina disposta a testimoniarlo”.

Tereza si ricordò dell’ingegnere. Perché non era più tornato?

L’ambasciatore continuò: “Hanno bisogno di prendere la gente in trappola per poterla avere al loro servizio e poi, col loro aiuto, tendere nuove trappole ad altre persone ancora e trasformare così, a poco a poco, l’intera nazione in un’unica organizzazione di confidenti”.

Tereza non pensava più che a una cosa, che l’ingegnere le era stato mandato dalla polizia. Chi era quello strano ragazzo che si era ubriacato all’osteria di fronte e le aveva fatto una dichiarazione d’amore? Era a causa sua che lo spione pelato l’aveva assalita e l’ingegnere l’aveva difesa. Tutti e tre avevano recitato la loro parte in una commedia già pronta, il cui fine era di ben disporla nei confronti dell’uomo che doveva poi sedurla.

Come aveva fatto a non pensarci? Quell’appartamento aveva un aspetto strano e non si accordava per nulla con quell’uomo! Perché un ingegnere vestito così elegantemente avrebbe dovuto abitare in un alloggio così misero? Era poi davvero un ingegnere? E se lo era, come mai aveva potuto assentarsi dal lavoro alle due del pomeriggio? E come immaginarsi un ingegnere che legge Sofocle? No, quella non era la biblioteca di un ingegnere! La stanza assomigliava piuttosto all’appartamento confiscato di qualche povero intellettuale ora agli arresti. Quando lei aveva dieci anni e avevano arrestato suo padre, anche allora avevano confiscato l’appartamento e tutta la biblioteca. Chissà a che cosa era servito?

Adesso era chiaro perché lui non era più tornato. La sua missione era compiuta.

Quale missione? Il collaboratore della polizia, ubriaco, se l’era fatto scappare quando le aveva detto: “La prostituzione da noi oggi è un reato, non se lo dimentichi!”. Il sedicente ingegnere avrebbe testimoniato che lei aveva dormito con lui e aveva preteso dei soldi!

Avrebbero minacciato uno scandalo e l’avrebbero ricattata per farle denunciare la gente che andava a ubriacarsi al suo bar.

“Non mi sembra che ci sia nulla di pericoloso, nella sua storia” la tranquillizzava l’ambasciatore.

“Forse no” disse lei con voce strozzata, e uscì con Karenin nelle strade notturne di Praga.

La gente di solito si rifugia nel futuro per sfuggire alle proprie sofferenze. Traccia una linea immaginaria sulla traiettoria del tempo, al di là della quale le sue sofferenze di oggi cessano di esistere. Ma Tereza non vede nessuna linea del genere davanti a sé. L’unico sollievo glielo può dare solo uno sguardo all’indietro. Era di nuovo domenica. Salirono in macchina e si allontanarono da Praga.

Tomáš era al volante, Tereza accanto a lui, e Karenin, dal sedile posteriore, si sporgeva ogni tanto a leccare loro un orecchio. Dopo due ore arrivarono a una piccola città termale dove circa sei anni prima avevano trascorso alcuni giorni insieme. Volevano passarvi la notte.

Fermarono la macchina sulla piazza e scesero. Non era cambiato nulla. Di fronte a loro c’era l’albergo dove erano stati e davanti all’albergo lo stesso vecchio tiglio da allora. A sinistra correva un vecchio porticato di legno in fondo al quale, in una vasca di marmo, sgorgava l’acqua di una sorgente. Anche oggi, come allora, la gente vi si chinava sopra con i bicchieri in mano.

Poi Tomáš indicò nuovamente l’albergo. In effetti qualcosa era cambiato. Un tempo si chiamava Grand Hotel, ora invece l’insegna diceva Bajkal. Guardarono la targa all’angolo dell’edificio: piazza Mosca. Percorsero insieme (Karenin li seguiva da solo, senza guinzaglio) tutte le strade che conoscevano e ne cercarono i nomi: c’era via Stalingrado, via Leningrado, via Rostov, via Novosibirsk, via Kiev, via Odessa, c’era la casa di cura Cajkvskij, la casa di cura Tolstoj, la casa di cura Rimskij Korsakov, c’era l’albergo Suvorov, il cinema Gorkij e il caffè Puškin. Tutti i nomi erano tratti dalla geografia e dalla storia russe.

Tereza si ricordò dei primi giorni dell’invasione. In ogni città la gente staccava le targhe coi nomi delle vie, dalle strade venivano rimossi i cartelli indicatori. Nel giro di una notte il paese era diventato anonimo. Per sette giorni l’esercito russo aveva vagato per il paese senza sapere dove si trovasse. Gli ufficiali cercavano gli edifici dei giornali, della televisione, della radio, per occuparli, ma non riuscivano a trovarli. Chiedevano alla gente, ma la gente alzava le spalla o dava nomi e indicazioni sbagliate.

Anni dopo, improvvisamente, si direbbe che quell’anonimato sia stato pericoloso per il paese. Le vie e le case non erano più potute ritornare ai loro nomi originari. Una città termale ceca si era trasformata così, all’improvviso, in una piccola Russia immaginaria, e il passato che Tereza era andata a cercarvi era scomparso, confiscato. Era impossibile passare lì la notte.

26

Tornavano alla macchina in silenzio. Ogni cosa, pensava lei, ogni persona si mostrava travestita. Una vecchia città ceca era coperta di nomi russi. I cechi che avevano fotografato l’invasione in realtà avevano lavorato per la polizia segreta. L’uomo che l’aveva mandata a morire aveva sul viso la maschera di Tomáš. Il poliziotto si era fatto passare per ingegnere, e l’ingegnere voleva recitare la parte dell’uomo della collina di Pet⎠ín. Il segno del libro nel suo appartamento era falso, doveva servire a fuorviarla.

Ricordandosi ora del libro che aveva preso in mano là, le venne in mente d’un tratto una cosa e si fece rossa: com’era possibile? L’ingegnere aveva detto che avrebbe portato il caffè. Lei sei era avvicinata alla libreria e ne aveva tirato fuori l’Edipo di Sofocle. Poi l’ingegnere era rientrato. Ma senza il caffè!

Pensava e ripensava a quella situazione: quando lui era andato a preparare il caffè, quanto tempo era stato via? Certo non meno di un minuto, magari due, forse tre. Che cosa aveva fatto per tutto quel tempo nel minuscolo ingressino? Era andato al gabinetto? Tereza cerca di ricordare se aveva sentito chiudere la porta o tirare l’acqua. No, l’acqua di sicuro non l’aveva sentita, se ne ricorderebbe. Ed è quasi certa di non aver sentito nemmeno lo scatto della serratura. Che cosa faceva, allora, nell’ingressino?

All’improvviso le sembrò fin troppo chiaro. Se vogliono prenderla in trappola, a loro non basta la semplice testimonianza dell’ingegnare. Hanno bisogno di una prova che sia indiscutibile. Durante l’assenza sospettosamente lunga, l’ingegnere aveva installato in ingresso una cinepresa. Oppure, più verosimilmente, aveva fatto entrare qualcuno munito di macchina fotografica che poi li aveva fotografati da dietro la tenda.

Neanche due settimane prima lei aveva riso di Procházka che non sapeva di vivere in un campo di concentramento dove non esiste più vita privata. E lei, allora? Quando aveva lasciato la casa di sua madre, pensava ingenuamente di essere diventata, una volta per tutte, padrona della propria vita privata. Ma la casa di sua madre si estende all’intero universo e allunga le mani verso di lei. Tereza non le sfuggirà in nessun luogo.

Stavano scendendo le scale tra i giardini, verso la piazza dove avevano lasciato la macchina.

“Cos’hai?” le chiese Tomáš.

Prima che lei avesse il tempo di rispondergli, qualcuno lo salutò.

Era un uomo sulla cinquantina, con il viso scavato e rugoso, un contadino che Tomáš

aveva operato tempo addietro. Da allora, ogni anno lo mandavano in cura a quelle terme.

Invitò Tomáš e Tereza a prendere un bicchiere di vino. Poiché la legge vietava ai cani l’ingresso nei locali pubblici, Tereza portò Karenin al caffè. Quando fece ritorno, il contadino stava dicendo: “Da noi si sta tranquilli. Due anni fa mi hanno addirittura eletto presidente della cooperativa”.

“Complimenti!” disse Tomáš.

“Lei lo sa com’è la campagna. La gente da lì scappa. Quelli in alto sono ben contenti che ci sia chi ha voglia di restare. A noi non ci possono cacciare dal lavoro”.

“Sarebbe il posto ideale per noi” disse Tereza.

“Lei ci si annoierebbe, cara signora. Non c’è niente da fare, lì. Proprio niente”.

Tereza guardava il viso segnato del contadino. Lo trovava simpatico. Erano secoli che non provava simpatia per qualcuno! Davanti agli occhi le apparve un’immagine di vita campestre: un villaggio con il campanile della chiesa, campi, boschi, una lepre che saltella in un solco, guardaboschi con il cappello verde. Non aveva mai vissuto in campagna.

Quell’immagine se l’era fatta per sentito dire. O da qualche libro. Oppure le era stata impressa nel subcosciente da qualche lontano antenato. Eppure, quell’immagine era dentro di lei, chiara e parlante come la foto di una bisnonna nell’album di famiglia o come una vecchia incisione.

“Le dà ancora dei disturbi?” chiese Tomáš.

Il contadino indicò la zona dietro al collo dove il cranio si unisce alla colonna vertebrale. “Ogni tanto mi fa male qui”.

Senza alzarsi dalla sedia, Tomáš tastò il punto e fece ancora qualche domanda al suo vecchio paziente.

Poi disse: “Io non ho più il diritto di prescrivere medicine. Ma lei dica al suo medico al paese che ha parlato con me e che io le consiglio di prendere questo”. Estrasse un blocchetto dalla tasca interna della giacca, ne strappò un foglio e vi scrisse in stampatello il nome della medicina.

Ripartirono per Praga.

Tereza pensava alla foto con il suo corpo nudo tra le braccia dell’ingegnere. Cercava di rassicurarsi: anche se quella foto esiste, Tomáš non la vedrà mai. A quelli là la foto serve solo per poter ricattare Tereza. Nell’istante in cui fosse spedita a Tomáš, perderebbe di colpo ogni valore.

Ma se a un certo punto la polizia decidesse che Tereza a loro non serve? In quel caso, la foto diventerebbe ai loro occhi un semplice oggetto divertimento, nessuno potrebbe impedire a chi ne avesse voglia di infilarla in una busta e spedirla a Tomáš, tanto per farsi due risate.

Cosa succederebbe se Tomáš ricevesse una foto simile? La scaccerebbe? Forse no.

Quasi certamente no. Ma il fragile edificio del loro amore crollerebbe sicuramente. Perché quell’edificio poggia sull’unico pilastro della sua fedeltà e gli amori sono come gli imperi: quando scompare l’idea su cui sono fondati, periscono anch’essi.

Aveva davanti agli occhi un’immagine: una lepre che saltella in un solco, un guardaboschi con il cappello verde e il campanile della chiesa in alto sul bosco.

Voleva dire a Tomáš che dovevano andar via da Praga. Andar via dai bambini che seppelliscono vive le cornacchie, via dalle spie della polizia, via dalle ragazze armate di ombrelli. Voleva dirgli che dovevano andare in campagna. Che quella era l’unica via di salvezza.

Si girò verso di lui. Ma Tomáš taceva, gli occhi fissi sulla strada davanti a sé. Lei era incapace di superare la barriera di silenzio che si ergeva tra loro. Perse il coraggio di parlare.

Si sentiva come quella volta che stava scendendo dalla collina di Petrin. Aveva i crampi allo stomaco e voglia di vomitare. Tomáš le faceva paura. Era troppo forte per lei e lei era troppo debole. Le dava ordini che lei non capiva. Lei cercava di eseguirli, ma non ne era capace.

Voleva ritornare sulla collina di Petrin e chiedere all’uomo del fucile di permetterle di bendarsi gli occhi e di appoggiarsi al tronco del castagno. Aveva voglia di morire.

Si svegliò e si accorse di essere sola in casa.

Uscì in strada e si incamminò verso il lungofiume. Voleva vedere la Vltava. Voleva fermarsi sulla riva e guardare a lungo l’acqua, perché la vista dell’acqua che scorre placa e guarisce. Il fiume scorre da sempre e le vicende degli uomini si svolgono sulla riva. Si svolgono per essere dimenticate il giorno dopo e perché il fiume scorra oltre.

Si appoggiò alla ringhiera e guardò giù. Era la periferia di Praga, la Vltava aveva già attraversato la città, lasciandosi alle spalle lo splendore di Hradcany e delle chiese, era come un’attrice dopo lo spettacolo, stanca e pensosa. Scorreva tra rive sporche fiancheggiare da steccati e muri oltre i quali c’erano fabbriche e campi da gioco abbandonati.

Guardò a lungo l’acqua, che qui sembrava ancora più triste e più scura, e all’improvviso in mezzo al fiume vide uno strano oggetto, qualcosa di rosso, sì, una panchina. Una panchina di legno con le gambe di ferro, come ce ne sono a centinaia nei parchi di Praga. Scivolava lentamente al centro della Vltava. E, dietro, un’altra panchina. E

un’altra, e un’altra ancora, e soltanto ora Tereza capisce che le panchine dei parchi di Praga si allontanano dalla città sul filo della corrente, sono tante, aumentano sempre di più, scivolano a fior d’acqua come in autunno le foglie che l’acqua porta lontano dai boschi, sono rosse, sono gialle, sono azzurre.

Si girò come per chiedere alla gente che cosa volesse dire quello spettacolo. Perché le panchine dei parchi di Praga si allontanavano sull’acqua? Ma la gente le passava accanto con indifferenza, a loro non importava affatto che un fiume scorresse da sempre in mezzo alla loro effimera città.

Fissò nuovamente il fiume. Provava una tristezza infinita. Capiva che ciò che vedeva era un addio.

Le panchine erano ormai quasi tutte scomparse, ne vide ancora tre o quattro, le ultime ritardatarie, poi una panchina gialla e poi ancora una, azzurra, l’ultima.

PARTE QUINTA

LA LEGGEREZZA E LA PESANTEZZA

1


Quando Tereza era arrivata all’improvviso a Praga da Tomáš, lui aveva fatto l’amore con lei, come ho già detto nella prima parte, quello stesso giorno, quella stessa ora, ma poco dopo a lei era venuta la febbre. Era distesa nel suo letto e lui le stava accanto persuaso dentro di sé che lei fosse un bambino deposto da qualcuno in un cesto e inviatogli sul filo della corrente.


L’immagine del trovatello gli era perciò divenuta cara e ripensava spesso agli antichi miti nei quali quell’immagine ricorreva. In questo probabilmente bisogna vedere il motivo nascosto per cui un giorno prese in mano la traduzione dell’ Edipo di Sofocle.


La storia di Edipo è nota: un pastore trovò un neonato abbandonato e lo portò al re Polibo che lo allevò. Un giorno Edipo, ormai diventato un giovanotto, incontrò su una strada di montagna un carro sul quale viaggiava un nobile sconosciuto. Sorse una discussione, Edipo uccise il nobile. In seguito sposò la regina Giocasta e diventò re di Tebe. Non immaginava certo che l’uomo che aveva ucciso tra le montagne fosse suo padre e la donna con la quale dormiva fosse sua madre. Intanto il fato perseguiva i suoi sudditi tormentandoli con malattie. Quando Edipo capì di essere lui stesso il colpevole delle loro sofferenze, si cavò gli occhi con degli spilloni e, cieco, partì da Tebe.

2


Chi pensa che i regimi comunisti dell’Europa Centrale siano esclusivamente opera di criminali, si lascia sfuggire una verità fondamentale: i regimi criminali non furono creati da criminali ma da entusiasti, convinti di aver scoperto l’unica strada per il paradiso. Essi difesero con coraggio quella strada, giustiziando per questo molte persone. In seguito, fu chiaro che il paradiso non esisteva e che gli entusiasti erano quindi degli assassini.


Allora tutti cominciarono a inveire contro i comunisti: Siete responsabili delle sventure del paese (è impoverito e ridotto in rovina), della perdita della sua indipendenza (è caduto in mano alla Russia), degli assassini giudiziari!


Coloro che venivano accusati rispondevano: Noi non sapevamo! Siamo stati ingannati! Noi ci credevamo! Nel profondo del cuore siamo innocenti!


La discussione si riduceva a questa domanda; Davvero loro non sapevano? Oppure facevano solo finta di non aver saputo nulla?


Tomáš seguiva la discussione (così come la seguivano tutti i dieci milioni di cechi) e si diceva che tra i comunisti c’era sicuramente chi non era del tutto all’oscuro (dovevano pur sempre aver sentito parlare degli orrori che erano stati commessi e che venivano ancora commessi nella Russia postrivoluzionaria). Ma era probabile che la maggior parte di loro non ne sapesse davvero nulla.


E si disse che la questione fondamentale non era: Sapevano o non sapevano?, bensì: Si è innocenti solo per il fatto che non si sa? Un imbecille seduto sul trono è sollevato da ogni responsabilità solo per il fatto che è un imbecille?


Ammettiamo pure che un procuratore ceco che all’inizio degli Anni Cinquanta chiedeva la pena di morte per un innocente sia stato ingannato dalla polizia segreta russa e dal proprio governo. Ma ora che sappiamo tutti che le accuse erano assurde e i giustiziati innocenti, com’è possibile che quello stesso procuratore difenda la purezza della propria anima e si batta il petto: La mia coscienza è senza macchia, io non sapevo, io ci credevo. La sua irrimediabile colpa non risiede proprio in quel suo “Io non sapevo! Io ci credevo”.


Fu allora che a Tomáš tornò in mente la storia di Edipo: Edipo non sapeva di dormire con la propria madre ma, quando capì ciò che era accaduto, non si sentì innocente. Non poté sopportare la vista delle sventure che aveva causato con la propria ignoranza, si cavò gli occhi e, cieco, partì da Tebe.


Tomáš sentiva le grida dei comunisti che difendevano la loro purezza interiore e diceva tra sé: Per colpa della vostra incoscienza la nostra terra ha perso, forse per secoli, la sua libertà e voi gridate che vi sentite innocenti? Come potete ancora guardarvi intorno? Come potete non provare raccapriccio? Siete o non siete capaci di vedere? Se avete gli occhi, dovreste trafiggerveli e andarvene da Tebe!


Questo paragone gli piaceva tanto che lo usava spesso nelle discussioni con gli amici e, col passare del tempo, lo formulava in termini sempre più precisi ed eleganti.


In quei giorni lui, come tutti gli intellettuali, leggeva un settimanale pubblicato in circa trecentomila copie dall’Unione degli scrittori cechi, che era riuscito a crearsi una certa autonomia all’interno del regime e parlava di cose delle quali gli altri non potevano parlare pubblicamente. Il settimanale degli scrittori pubblicava articoli in cui si chiedeva chi e in che misura fosse colpevole degli assassinii giudiziari commessi in seguito ai processi politici del primo periodo del potere comunista.


In tutte queste discussioni ritornava continuamente la stessa domanda: Sapevano o non sapevano? Tomáš, che considerava tale domanda secondaria, un giorno scrisse le proprie riflessioni su Edipo e le mandò al settimanale. Dopo un mese ricevette risposta: lo invitavano a passare in redazione.


Quando vi andò venne ricevuto da un redattore piccolino e dritto come un fuso, che gli propose di modificare la struttura di una frase. Poco tempo dopo il testo comparve in penultima pagina nella rubrica “Lettere dei lettori”.


Tomáš non ne fu affatto contento. Avevano ritenuto di doverlo convocare in redazione per fargli approvare un cambiamento di sintassi, e poi, senza nemmeno chiederglielo, avevano così tagliato il suo testo che le sue riflessioni si riducevano ora alla sola tesi fondamentale (troppo schematica e aggressiva) e non gli piacevano più.


Questo accadeva nella primavera del 1968. Al potere c’era Alexandr Dub⎝ek e con lui quei comunisti che si sentivano colpevoli ed erano pronti a rimediare in qualche modo alla colpa. Ma gli altri comunisti, che gridavano di essere innocenti, avevano paura che la nazione adirata li potesse mettere sotto processo. Andavano perciò ogni giorno a lamentarsi dall’ambasciatore russo e a chiedere il suo appoggio. Quando comparve la lettera di Tomáš gridarono: Ecco a che punto siamo arrivati! Ora si scrive pubblicamente che devono cavarci gli occhi!

Due o tre mesi più tardi i russi decisero che le libere discussioni erano inammissibili nella loro provincia e nel giro di una notte occuparono con il loro esercito il paese di Tomáš.

3

Quando Tomáš era tornato a Praga da Zurigo, aveva ripreso a lavorare nel suo vecchio ospedale. Ma un giorno il suo capo lo mandò a chiamare.


“In fin dei conti, caro collega,” gli disse “lei non è uno scrittore né un giornalista, e nemmeno un salvatore della nazione, bensì un medico e uno studioso. Non vorrei perderla e farò di tutto per tenerla qui. Ma lei deve ritrattare quel suo articolo su Edipo. Ci tiene tanto?”.


“Professore,” disse Tomáš, ricordando come gli avessero tagliato il testo di un buon terzo “è la cosa cui tengo di meno al mondo”.


“Lei sa che cosa c’è in gioco” disse il primario.


Lo sapeva: sulla bilancia c’erano due cose: da una parte il suo onore (che esigeva di non ritrattare ciò che aveva scritto), dall’altra quello che lui era abituato a considerare come il senso della sua vita (il suo lavoro di studioso e di medico).


Il primario continuò: “Questa insistenza che uno ritratti pubblicamente affermazioni passate, ha in sé qualcosa di medioevale. Che cosa significa poi “ritrattare”? Nell’epoca moderna, un’idea è possibile soltanto confutarla, non certo ritrattarla. E poiché, caro, collega, ritrattare un’idea è qualcosa di impossibile, qualcosa di puramente verbale, formale, magico, non vedo motivo perché lei non dovrebbe fare ciò che vogliono. In una società retta dal terrore, le dichiarazioni non rappresentano alcun impiego, perché sono estorte con la violenza, e un uomo onesto ha l’obbligo di non tenerne conto, di non prestar loro ascolto. Caro collega, io le dico, nel mio interesse e nell’interesse dei suoi pazienti, che lei deve restare qui al suo posto”.


“Lei ha certo ragione” disse Tomáš con aria triste.


“Però?” disse il primario cercando di indovinare i suoi pensieri.


“Ho paura di vergognarmi”.


“Davanti a chi? Ha forse una così alta opinione di quelli che la circondano da preoccuparsi di ciò che pensano?”.


“No, non ne ho un’alta opinione” disse Tomáš.


“Del resto,” aggiunse il primario “mi hanno assicurato che non si tratterà di una dichiarazione pubblica. Sono dei burocrati. Hanno bisogno di avere nei loro schedari qualcosa che dimostri che lei non è contro il regime, per potersene servire nel caso qualcuno li attaccasse per averla lasciata al suo posto. Mi hanno garantito che la sua dichiarazione rimarrà tra lei e loro e che non prevedono di pubblicarla”.

“Mi dia una settimana per rifletterci” disse Tomáš, e chiuse la conversazione.

4

Tomáš era considerato il miglior chirurgo dell’ospedale. Già si diceva che il primario, che si avvicinava all’età della pensione, gli avrebbe presto ceduto il suo posto. Quando si sparse la voce che le autorità esigevano da lui una dichiarazione autocritica, nessuno dubitò che Tomáš avrebbe acconsentito.


Fu quella la prima cosa che lo stupì: benché lui non ne avesse mai dato alcun motivo, la gente puntava sulla sua disonestà piuttosto che sulla sua integrità.


La seconda fonte di stupore furono le reazioni della gente al suo ipotizzato comportamento.


Potrei dividerle in due tipi fondamentali:


Il primo tipo di reazione si incontrava in coloro che (personalmente o in chi era loro vicino) avevano ritrattato qualcosa, che erano stati costretti a dichiararsi pubblicamente d’accordo con il regime di occupazione o che stavano per farlo (a malincuore certo: nessuno era contento di farlo).


Queste persone gli rivolgevano un sorrisetto curioso, che lui non aveva mai conosciuto prima: il sorriso timido di una segreta complicità. Era il sorriso tra due uomini che si incontrano per caso in un bordello: un po’ si vergognano ma, allo stesso tempo, sono contenti che la vergogna sia reciproca; sorge tra loro un legame quasi di fratellanza.


Gli sorridevano tanto più soddisfatti in quanto lui non aveva mai avuto fama di conformista. La sua presunta accettazione della proposta del primario era dunque una prova che la vigliaccheria stava diventando, lentamente ma sicuramente, una norma di comportamento e che in breve avrebbe smesso di essere vista per quello che era. Costoro non erano mai stati amici suoi. Tomáš si rese conto con spavento che, se avesse fatto davvero la dichiarazione che il primario gli chiedeva, essi lo avrebbero invitato a bere un bicchierino a casa loro ed avrebbero cercato di fare amicizia Il secondo tipo di reazione veniva da persone che (personalmente o chi era loro vicino) erano perseguitate, che avevano rifiutato di cedere a qualsiasi compromesso con il potere di occupazione, oppure persone alle quali nessuno aveva mai chiesto compromessi o dichiarazioni (magari perché troppo giovani e non ancora direttamente coinvolte in nulla) ma che erano convinte che non lo avrebbero mai fatto.


Uno di loro, il giovane S., un medico molto dotato, chiese un giorno a Tomáš: “Allora, gliel’hai scritta?”.


“Scusa, di che parli?” chiese Tomáš.


“Della tua ritrattazione” disse S. Non lo diceva con cattiveria. Sorrideva persino. Il suo era, nel ricco erbario dei sorrisi, un sorriso del tutto diverso: il sorriso della tranquilla superiorità morale.


“Senti,” disse Tomáš, “che ne sai tu della mia ritrattazione? L’hai letta?”.


“No” rispose S.


“E allora di che vai parlando?” disse Tomáš.


S. continuava a sorridere tranquillo: “Guarda che noi sappiamo come vanno queste cose. Una dichiarazione del genere viene scritta sotto forma di lettera al direttore, o al ministro o chi altri, il quale promette che non sarà resa pubblica perché lo scrivente non si senta umiliato. È così, no?”.


Tomáš alzò le spalle e lo lasciò continuare.


“La dichiarazione viene poi conservata per benino in un cassetto, ma chi l’ha scritta sa che può essere resa pubblica in qualsiasi momento. In queste condizioni, non può più dire nulla, non può più criticare nulla, protestare contro nulla, perché altrimenti la sua dichiarazione verrebbe pubblicata e lui si troverebbe disonorato davanti a tutti. Tutto sommato è un sistema piuttosto cortese. Se ne potrebbero immaginare di peggiori”.


“Sì, è un sistema molto cortese” disse Tomáš. “Ma mi interesserebbe sapere chi ti ha detto che io abbia accecato”.


Il collega alzò le spalle, ma il sorriso non gli era scomparso dalla faccia.


All’improvviso Tomáš si rese conto di un fatto strano. Tutti gli sorridono, tutti desiderano che lui scriva la ritrattazione, tutti ne gioirebbero! Gli uni sarebbero felici, perché l’inflazione di vigliaccheria renderebbe banale il loro comportamento e restituirebbe loro l’onore perduto. Gli altri si sono ormai abituati a considerare il loro onore come un privilegio speciale al quale non vogliono rinunciare. Nutrono perciò un segreto amore per i vigliacchi: senza di essi, il loro coraggio diventerebbe una fatica banale e inutile che non stupirebbe più nessuno.


Tomáš non poteva sopportare quei sorrisi e gli sembrava di vederli dappertutto, anche per strada sulla faccia degli sconosciuti. Non riusciva a dormire. Ma come? Dà forse tanta importanza a queste persone? No. Di loro non pensa niente di buono e si arrabbia con se stesso perché si lascia sconvolgere a tal punto dai loro sguardi. Ciò non ha alcuna logica. Com’è possibile che qualcuno che tiene in così poca considerazione la gente dipenda a tal punto dalla loro opinione?


Forse la sua profonda sfiducia nei confronti degli uomini (il suo dubbio se abbiamo o no il diritto di decidere per lui e di giudicarlo) aveva già avuto un ruolo nella sua scelta di una professione che lo teneva lontano dagli sguardi del pubblico. Chi sceglie, ad esempio, la carriera dell’uomo politico fa volontariamente del pubblico il proprio giudice con la certezza ingenua e dichiarata di potersi guadagnare il favore. L’eventuale disapprovazione della folla lo incita a imprese sempre più impegnative così come Tomáš era stimolato dalla difficoltà di una diagnosi.


Un medico (a differenza di un politico o di un attore) è giudicato solo dai propri pazienti e dai colleghi più vicini, quindi fra quattro mura e faccia a faccia. Agli sguardi di quelli che lo giudicano può rispondere nello stesso istante con il proprio sguardo, può spiegare o difendersi. Ma Tomáš si trovava ora (per la prima volta in vita sua) in una situazione in cui gli sguardi puntati su di lui erano molti più di quanti lui potesse cogliere. A essi non riusciva a rispondere né con il suo sguardo né con le parole.


Era alla loro mercé. Si parlava di lui dentro l’ospedale e fuori dell’ospedale (a quel tempo, Praga aveva i nervi a fior di pelle e le informazioni su chi tradiva, chi denunciava, chi collaborava si propagavano con la straordinaria velocità di un tam-tam africano) e lui lo sapeva e non poteva farci nulla. Era lui stesso sorpreso di quanto ciò gli fosse insopportabile e lo riempisse di panico. Tutto quell’interesse per lui gli era spiacevole, come una folla o come il contatto della gente che ci strappa i vestiti di dosso in un incubo.


Andò dal primario e gli annunciò che non avrebbe scritto nulla.


Il primario gli strinse la mano con molta più energia del solito e disse che si aspettava quella decisione.


Tomáš disse: “Professore, forse voi mi potreste tenere qui anche senza dichiarazione” e voleva in quel modo fargli intendere che bastava che tutti i suoi colleghi minacciassero di dare le dimissioni se lui fosse stato costretto ad andarsene.

A nessuno però venne in mente di minacciare le dimissioni e così, poco tempo dopo (il primario gli strinse la mano con ancor più energia dell’ultima volta; gliene rimasero sopra i lividi) Tomáš fu costretto a lasciare il suo posto all’ospedale.

5


Dapprima trovò lavoro in una clinica di provincia a quasi ottanta chilometri da Praga. Ci andava tutti i giorni in treno e ritornava stanco morto. Un anno più tardi riuscì a trovare un posto più comodo ma molto più umile in un ambulatorio di periferia. Qui non poteva più esercitare la chirurgia e faceva il medico generico. La sala d’attesa era stipata, poteva dedicare a malapena cinque minuti a ciascun paziente; prescriveva aspirine, redigeva certificati di malattia per i datori di lavoro e inviava i malati a visite specialistiche. Non si considerava più un medico ma un impiegato.


Un giorno, alla fine dell’orario di visita, venne a trovarlo un uomo sulla cinquantina, cui una leggera pinguedine conferiva un’aria di serietà. Si presentò come funzionario del ministero degli Interni e invitò Tomáš al bar di fronte.


Ordinò una bottiglia di vino. Tomáš obiettò: “Sono in macchina. Se mi ferma la polizia, mi ritirano la patente”. L’uomo del ministero degli Interni sorrise: “Qualunque cosa le accada, basta che faccia il mio nome” e diede a Tomáš un biglietto da visita col nome (certamente falso) e il numero di telefono del ministero.


Parlò poi a lungo della stima che aveva per Tomáš. Al ministero erano tutti dispiaciuti che un chirurgo del suo calibro fosse ridotto a prescrivere aspirine in un ambulatorio di periferia. Gli fece capire indirettamente che la polizia, anche se non poteva dirlo ad alta voce, deplorava che gli specialisti venissero così drasticamente cacciati dal loro posto di lavoro.


Poiché era già molto tempo che nessuno lo elogiava, Tomáš ascoltava con attenzione l’uomo panciuto, sorpreso di quanto fosse informato con precisione e fin nei minimi particolari dei suoi successi di chirurgo. Come si è indifesi di fronte alle adulazioni! Tomáš non poteva impedirsi di prendere sul serio quello che gli diceva l’uomo del ministero.


Ma non era soltanto vanità. Era soprattutto inesperienza. Quando sedete di fronte a qualcuno che si mostra amabile, deferente, cortese, è molto difficile tenere sempre a mente che nulla di ciò che dice è vero, che nulla è sincero. Diffidare (continuamente e sistematicamente, senza vacillare nemmeno per un attimo) richiede uno sforzo enorme e anche un suo allenamento, vale a dire frequenti interrogatori da parte della polizia. A Tomáš quell’allenamento mancava.


L’uomo del ministero continuò: “Noi sappiamo, dottore, che lei a Zurigo aveva un’ottima posizione. E apprezziamo molto il fatto che lei sia tornato. È stato un bel gesto. Lei sapeva che il suo posto era qui”. Poi aggiunse, come rimproverando Tomáš di qualcosa: “Ma il suo posto è al tavolo operatorio!”.


“Sono d’accordo con lei” disse Tomáš.


Ci fu una breve pausa, poi l’uomo del ministero riprese con voce accorata: “Ma mi dica, dottore, lei pensa sul serio che ai comunisti si dovrebbero cavare gli occhi? Non le pare strano che a dirlo sia proprio lei, che ha restituito la salute a così tante persone?”.


“Ma questo non ha senso!” protestò Tomáš. “Si legga bene quello che ho scritto”.


“L’ho letto” disse l’uomo del ministero con una voce che voleva essere molto triste.


“E io ho forse scritto che bisogna cavare gli occhi ai comunisti?”.


“Tutti l’hanno inteso in questo modo” disse l’uomo del ministero e la sua voce era sempre più triste.


“Se lei avesse letto il testo completo, così come l’avevo scritto, non le sarebbe mai venuta in mente una cosa simile. Fu tagliato”.


“Cosa?”. L’uomo del ministero drizzò le orecchie. “non hanno pubblicato il suo testo così come lei l’aveva scritto?”.


“L’hanno accorciato”.


“Di molto?”.


“Di circa un terzo”.


L’uomo del ministero sembrava sinceramente indignato: “Non è stata certo una cosa ben fatta da parte loro”.


Tomáš alzò le spalle.


“Lei doveva protestare! Doveva esigere immediatamente una rettifica!”.


“Di lì a poco arrivarono i russi. Avevano tutti ben altro a cui pensare” disse Tomáš.


“Ma perché lasciar credere alla gente che lei, un medico, voleva che qualcuno fosse privato della vista?”.


“Andiamo! Il mio articolo fu stampato in una delle ultime pagine, tra le lettere. Non ci fece caso nessuno. Eccetto l’ambasciata russa, per la quale capitava a puntino”.


“Questo non lo deve dire, dottore! Io stesso ho avuto a che fare con molte persone che mi hanno parlato del suo articolo meravigliandosi che lei avesse potuto scriverlo. Ora però che lei mi ha spiegato che l’articolo non è stato pubblicato così come l’aveva scritto, le cose mi sono molto più chiare. Sono stati loro a chiederle di scriverlo?”.


“No” disse Tomáš. “Gliel’ho mandato io di mia iniziativa”.


“Conosce quelle persone?”.


“Quali?”.


“Quelli che hanno pubblicato il suo articolo”.


“No”.


“Non ha parlato mai con loro?”.


“Li ho visto una volta sola. Mi avevano invitato a passare in redazione”.


“Perché?”.


“A causa dell’articolo”.


“E con chi ha parlato?”.


“Con un redattore”.


“Come si chiamava?”.


Soltanto allora Tomáš capì che quello era un interrogatorio. All’improvviso si accorse che ogni sua parola avrebbe potuto mettere in pericolo qualcuno. Naturalmente conosceva il nome del redattore, ma negò: “Non lo so”.


“Suvvia, dottore!” disse l’uomo con un tono pieno di indignazione davanti alla mancanza di sincerità di Tomáš, “Si sarà pur sempre presentato!”.


È tragicomico che sia stata proprio la nostra buona educazione a diventare un’alleata della polizia. Noi non sappiamo mentire. L’imperativo “Di’ la verità!” inculcatoci dai nostri genitori agisce su di noi in maniera così automatica che ci vergogniamo della nostra menzogna anche davanti a un poliziotto che ci sta interrogando. Troviamo più facile discutere con lui, insultarlo (cosa che non ha alcun senso), che non mentirgli guardandolo in faccia (che è l’unica cosa da fare).


Quando l’uomo del ministero gli rimproverò la sua mancanza di sincerità, Tomáš si sentì quasi colpevole; dovette superare una sorta di resistenza morale per insistere nella sua menzogna: “Si sarà certo presentato,” disse “ma dato che il suo nome non mi diceva nulla, l’ho subito dimenticato”.


“Che aspetto aveva?”.


Il redattore con il quale aveva parlato allora era piccolo e aveva i capelli biondi tagliati a spazzola. Tomáš cercò di scegliere caratteristiche diametralmente opposte: “Era alto. Con i capelli lunghi e neri”.


“Ah!” disse l’uomo del ministero. “E il mento grosso!”.


“Sì” disse Tomáš.


“Leggermente curvo”.


“Sì” confermò ancora una volta Tomáš, e capì che l’uomo del ministero aveva identificato qualcuno. Non solo Tomáš aveva denunciato un povero redattore, ma la sua denuncia era per giunta falsa.


“E perché l’aveva convocata? Di che avere parlato?”.

“Volevano cambiare la sintassi di una frase”.

Aveva tutta l’aria di una scappatoia ridicola. L’uomo del ministero si mostrò nuovamente indignato che Tomáš rifiutasse di dirgli la verità: “Andiamo dottore! Un attimo fa lei sosteneva che il suo testo è stato tagliato di un terzo, e adesso mi dice che hanno discusso con lei per un cambiamento di sintassi! Ma non è affatto logico!”.

Questa volta Tomáš non ebbe difficoltà a rispondere subito, perché quello che diceva era la pura verità: “Non è logico ma è così” rise. “Mi chiesero il permesso di cambiare la sintassi di una frase e poi mi tagliarono un terzo dell’articolo”.

L’uomo del ministero scosse nuovamente la testa, come se non riuscisse a capire un comportamento così immorale, e disse: “Non sono stati per niente corretti nei suoi confronti”.

Vuotò il bicchiere di vino e concluse: “Dottore, lei è stato vittima di una manipolazione.

Sarebbe un peccato se le conseguenze dovessero essere pagate da lei e dai suoi pazienti. Noi, dottore, conosciamo benissimo le sue qualità. Vedremo quel che si può fare”.

Prese la mano di Tomáš e gliela strinse calorosamente. Poi uscirono dal bar e ciascuno andò alla propria auto.