venerdì 9 agosto 2024

NON AVRAI ALTRO DIO (1954) Philip K. Dick




NON AVRAI ALTRO DIO (1954)
Philip K. Dick


«Mio marito», disse Mary Ellis, «benché sia un uomo molto sollecito e non abbia mai fatto tardi al lavoro in venticinque anni, è ancora in casa da qualche parte». Sorseggiò la sua bibita aromatica di ormoni e carboidrati. «Anzi, per dire la verità, non uscirà prima di dieci minuti».
«Incredibile», esclamò Dorothy Lawrence, che aveva terminato la sua bibita, e adesso si stava esponendo allo spray cutaneo che scendeva sul suo corpo seminudo, uscendo da getti posti sopra il divano. «Le pensano proprio tutte!»
La signora Ellis sprizzava orgoglio da tutti i pori, come se fosse stata un'impiegata dello Sviluppo Terrestre. «Sì, è incredibile. Secondo qualcuno dell'ufficio, l'intera storia della civiltà può essere spiegata in termini di tecniche di trasporto. Naturalmente io non so niente di storia. Quella è roba per i ricercatori del governo. Ma da quanto ha detto quest'uomo a Henry...»
«Dov'è la mia borsa?» domandò una voce agitata dalla stanza da letto. «Buon Dio, Mary. Mi sembrava di averla lasciata sopra la lavatrice, ieri sera».
«L'hai lasciata di sopra», replicò Mary, alzando appena la voce. «Guarda nel ripostiglio».
«Perchè dovrebbe essere nel ripostiglio?» Da sopra giunse il rumore di una frenetica ricerca. «Uno non si può perdere la borsa in questo modo». Henry Ellis infilò un attimo la testa nel soggiorno. «L'ho trovata. Salve, signora Lawrence».
«Buon giorno», rispose Dorothy Lawrence. «Mary mi stava dicendo che lei è ancora qui».
«Sì, sono ancora qui». Ellis si strinse il nodo della cravatta, mentre lo specchio si girava lentamente verso di lui. «C'è niente che devo prendere in città, tesoro?»
«No», rispose Mary. «Nulla che mi venga in mente. Semmai ti chiamerò in ufficio al videofono».
«È vero», chiese la signora Lawrence, «che appena entrato lei è già praticamente in città?»
«Be', quasi in città».
«Duecentocinquanta chilometri! Non ci posso credere. Insomma, mio marito ci mette due ore e mezzo a percorrere col suo monojet le aviostrade commerciali, parcheggiare e arrivare in ufficio».
«Lo so», borbottò Ellis, afferrando cappotto e cappello. «Anch'io ci sono passato. Ma ora non più». Salutò la moglie con un bacio. «Ciao. Ci vediamo stasera. Piacere di averla rivista, signora Lawrence».
«Posso... guardare?» domandò speranzosa la signora Lawrence.
«Guardare? Ma certo». Ellis attraversò di corsa la casa e uscì dalla porta posteriore, scendendo i gradini che portavano in cortile. «Si sbrighi!» le gridò dietro impaziente. «Non voglio fare tardi. Sono le dieci meno cinque e per le dieci devo essere alla mia scrivania».
La signora Lawrence seguì ansiosamente Ellis. Nel cortile posteriore c'era un grosso cerchio che scintillava al sole della tarda mattinata. Ellis girò alcuni comandi alla base, e il cerchio cambiò colore diventando, da argenteo che era, di un rosso brillante.
«Si parte!» gridò Ellis, e si infilò agilmente nel cerchio, che cominciò ad ondeggiare intorno a lui. Vi fu un debole plop. La luminosità svanì.
«Santo cielo!» esclamò senza fiato la signora Lawrence. «È sparito!»
«Si trova a New York», la corresse Mary Ellis.
«Vorrei che mio marito avesse un trasferitore Jiffi. Quando lo metteranno sul mercato forse potrò permettermi di comprargliene uno».
«Oh, sono molto utili», annuì Mary Ellis. «Probabilmente sta salutando i colleghi in questo momento».

Henry Ellis si trovò in una specie di galleria. Tutto intorno a lui un tubo grigio e informe si protendeva in entrambe le direzioni, simile a un nebbioso condotto fognario.
Ellis poteva vedere il profilo indistinto di casa sua che si stagliava alle sue spalle: il portico e il cortile posteriore, Mary in piedi sugli scalini con il reggiseno rosso e i calzoni corti, la signora Lawrence alle sue spalle in calzoncini a quadretti verdi, il cedro e i cespugli di petunie. Una collina. Le case piccole e pulite di Cedar Groves, Pennsylvania. E davanti a lui...
New York City. L'immagine ondeggiante del trafficato angolo di strada proprio davanti al suo ufficio. Il grande palazzo, un blocco di cemento, vetro e acciaio. Gente in movimento. Grattacieli. Monojet che atterravano a sciami. Segnali aerei. Un numero sterminato di impiegati in colletto bianco che correvano da tutte le parti per non fare tardi in ufficio.
Ellis si diresse tranquillo verso l'uscita di New York. Possedeva il trasferitore Jiffi da abbastanza tempo per sapere esattamente quanti passi erano. Cinque passi. Cinque passi lungo la grigia e tremolante galleria ed aveva percorso duecentocinquanta chilometri. Si fermò, guardandosi alle spalle. A quel punto aveva percorso tre passi. Centocinquanta chilometri. Più della metà della strada.
La quarta dimensione era una cosa splendida.
Ellis prese la pipa, e stringendo la borsa fra le gambe si frugò in tasca in cerca del tabacco. Aveva ancora trenta secondi per arrivare in ufficio. Un tempo più che abbondante. L'accendino avvampò e Ellis tirò alcune boccate da fumatore consumato. Poi richiuse l'accendino e lo rimise in tasca.
Proprio una cosa splendida. Il trasferitore Jiffi aveva già rivoluzionato la società. Adesso era possibile recarsi in qualsiasi parte del mondo istantaneamente, senza alcun intervallo di tempo. E senza doversi immettere lungo le interminabili aviostrade insieme a tanti altri monojet, anche di gente importante. Il problema dei trasporti si era già rivelato una questione assai spinosa fin dalla metà del ventesimo secolo. Ogni anno sempre più famiglie lasciavano la città per andare ad abitare in campagna, incrementando il numero già alto di coloro che intasavano le vie aeree e terrestri.
Ma adesso era tutto risolto. Si poteva installare un numero infinito di trasferitori Jiffi, perchè non c'era alcuna interferenza fra loro. Il trasferitore Jiffi copriva le distanze in modo non spaziale, ma attraverso un'altra dimensione di qualche tipo (Ellis non aveva capito bene la spiegazione che gli avevano dato in proposito). Con la modica spesa di un migliaio di crediti qualsiasi famiglia terrestre poteva farsi installare i cerchi terminali di un trasferitore Jiffi, uno nel cortile di casa... e l'altro a Berlino, o a San Francisco, o nelle Bermude, o a Porto Said. In qualsiasi parte del mondo. Naturalmente, c'era un inconveniente. Il cerchio doveva essere ancorato in un posto specifico. Si sceglieva una destinazione, e quella rimaneva.
Ma per un impiegato era una soluzione perfetta. Si entrava da una parte e si usciva dall'altra. Cinque passi... duecentocinquanta chilometri. Duecentocinquanta chilometri che fino a poco prima costituivano un incubo di due ore fra motori rumorosi, sobbalzi improvvisi, monojet che entravano e uscivano, regolatori di velocità, guidatori imprudenti, poliziotti solerti che aspettavano solo il momento di saltarti addosso, arrabbiature e attacchi di ulcera. Adesso era tutto finito. Tutto finito per lui, almeno, come impiegato dello Sviluppo Terrestre, la ditta che aveva costruito il trasferitore Jiffi. E ben presto per tutti, quando fosse stato messo sul mercato.
Ellis sospirò. Era ora di andare al lavoro. Vide Ed Hall che saliva a due alla volta i gradini della sede ST. Tony Franklin stava arrivando di corsa dietro di lui. Bisognava muoversi. Si chinò e allungò la mano per prendere la borsa.
Fu allora che li vide.
In quel punto la grigia nebbiolina ondeggiante era sottile. Una specie di macchia trasparente in cui il bagliore non era così forte. Poco oltre il suo piede e vicino alla sua borsa. Uomini incredibilmente piccoli, non più grandi di insetti. Che lo fissavano con incredulo sbigottimento.
Ellis osservò con attenzione, dimenticandosi della borsa. I tre ometti erano rimasti attoniti. Nessuno dei tre si muoveva: tre figure minuscole irrigidite dalla paura. Henry Ellis si chinò su di loro a bocca aperta, strabuzzando gli occhi.
Una quarta figura si unì alle altre. Erano tutti sopra la macchia, con gli occhi sgranati. Indossavano degli strani abiti, tuniche marroni e sandali; costumi insoliti, non terrestri. Tutto di loro era non terrestre: la statura, i volti scuri e colorati in modo buffo, l'abbigliamento... e le voci.
All'improvviso gli ometti si misero a strillare acutamente l'uno con l'altro, pronunciando strane frasi incomprensibili. Si erano scossi dalla loro immobilità e adesso correvano in cerchio come impazziti. Erano velocissimi e sgambettavano come formiche su una teglia ardente, mulinando freneticamente le braccia e le gambe. E continuavano a strepitare con quelle loro vocette acute e stridule.
Ellis trovò la borsa, e la raccolse lentamente. Le piccole figure osservarono con un misto di meraviglia e di terrore l'enorme borsa che saliva, a breve distanza da loro. Ellis fu colpito da un'idea improvvisa. Buon Dio... potevano penetrare nel trasferitore Jiffi attraverso la nebbiolina grigia?
Ma non aveva tempo per trovare una risposta. Era già abbastanza in ritardo. Si tirò su e corse verso l'uscita di New York. Un secondo dopo emergeva alla luce accecante del sole, ritrovandosi improvvisamente in mezzo alla strada affollata proprio davanti al suo ufficio.
«Ehilà, Hank!» gli gridò Donald Potter che si stava già infilando di corsa nella porta del palazzo ST. «Svelto!»
«Arrivo, arrivo». Ellis gli andò dietro automaticamente. Alle sue spalle l'entrata del trasferitore Jiffi era un cerchio indistinto sopra il marciapiede, come il fantasma di una bolla di sapone.
Salì trafelato le scale ed entrò negli uffici dello Sviluppo Terrestre, con la testa già verso la dura giornata di lavoro che lo attendeva.

Mentre stavano chiudendo l'ufficio e si preparavano a tornare a casa, Ellis bloccò il coordinatore Patrick Miller. «Dica, signor Miller. Lei si interessa anche della sezione ricerca, vero?»
«Già. E allora?»
«Lasci che le chieda una cosa. Dove passa il trasferitore Jiffi? Deve pur passare da qualche parte».
«Passa del tutto al di fuori di questo continuum». Miller aveva fretta di tornare a casa. «In un'altra dimensione».
«Lo so. Ma... dove?»
Miller prese subito il fazzoletto dalla tasca della giacca e lo allargò sul tavolo. «Forse posso spiegarglielo in questo modo. Immagini di essere una creatura a due dimensioni e che questo fazzoletto rappresenti il suo...»
«L'ho visto un milione di volte», lo interruppe Ellis, deluso. «Questa è soltanto un'analogia, e a me non interessano le analogie. Io voglio una risposta concreta. Dove passa il mio trasferitore Jiffi, tra qui e Cedar Groves?»
Miller rise. «Che diavolo gliene importa?»
Ellis divenne improvvisamente attento. Alzò le spalle, simulando indifferenza. «Semplice curiosità. Certo deve passare da qualche parte».
Miller poggiò la mano sulla spalla di Ellis con l'atteggiamento amichevole da fratello maggiore. «Henry, vecchio mio, lasci che ce ne occupiamo noi, d'accordo? Noi siamo i progettisti, e lei è il consumatore. Il suo lavoro è quello di usare il trasferitore, di provarlo per noi, di riferire ogni difetto o inconveniente, in modo che quando lo metteremo in vendita l'anno prossimo saremo sicuri che non c'è niente che non va».
«Per dire la verità...», incominciò a dire Ellis.
«Cosa c'è?»
Ellis troncò a metà la frase. «Niente». Prese la borsa. «Proprio niente. Ci vediamo domani. Grazie, signor Miller. Buonanotte».
Discese di corsa le scale ed uscì dal palazzo ST. Il debole profilo del suo trasferitore era visibile nella luce morente del tardo pomeriggio. Il cielo era già pieno di monojet che decollavano. Impiegati stanchi iniziavano il lungo viaggio di ritorno verso le loro case di campagna. Infiniti pendolari. Ellis si diresse verso il cerchio e vi entrò. All'improvviso la luce del sole si oscurò e svanì.
Ellis si ritrovò nella galleria grigia e ondeggiante. All'altra estremità risaltava un cerchio di verde e bianco. La linea verde delle colline e casa sua. Il cortile posteriore, il cedro e le aiuole di fiori. La città di Cedar Groves.
Percorsi due passi lungo la galleria, Ellis si fermò, e si chinò verso il basso. Studiò attentamente il pavimento, e studiò la parete grigia e nebulosa, laddove si sollevava e scintillava... e quella macchia trasparente che aveva già notato.
Erano ancora lì. Ancora? Si trattava di un altro gruppo, stavolta dieci o dodici. Uomini, donne e bambini, tutti vicini, che lo guardavano dal basso in alto con timore e meraviglia. Ognuno di loro, alto si e no un centimetro, minuscole figure distorte, che si spostavano e cambiavano stranamente forma. Che assumevano colori e tinte diverse.
Ellis si affrettò. Gli ometti lo seguirono con lo sguardo mentre passava. Un'occhiata fugace al loro microscopico sbalordimento... e si ritrovò a camminare nel cortile posteriore di casa.
Spense il trasferitore Jiffi e salì i gradini, entrando in casa immerso nei suoi pensieri.
«Ciao», lo salutò Mary dalla cucina, che poi corse frusciando verso di lui, con la sua camicetta a rete corta fino alla vita e le braccia protese. «Com'è andato il lavoro oggi».
«Bene».
«C'è qualcosa che non va? Mi sembri... strano».
«No. No, va tutto bene». Senza convinzione, Ellis baciò la moglie sulla fronte. «Cosa c'è per cena?»
«Qualcosa di speciale. Bistecca di talpa di Sirio. Uno dei tuoi piatti preferiti, vero?»
«Certo». Ellis gettò cappello e cappotto sulla poltrona. La poltrona li prese e li mise via. Lui aveva sempre quell'espressione pensierosa e preoccupata. «Bene, tesoro».
«Sei sicuro che vada tutto bene? Non hai litigato di nuovo con Pete Taylor, eh?»
«No. Certo che no». Ellis scosse la testa, infastidito. «Va tutto bene, cara. Smettila di fare domande».
«Be', lo spero», replicò Mary con un sospiro.

La mattina successiva lo stavano aspettando.
Li vide appena entrato nel trasferitore. Un gruppetto era in attesa dentro la macchia ondeggiante, come insetti prigionieri di un foglio di carta moschicida. Agitavano forsennatamente braccia e gambe in un folle turbinio di movimento. Cercavano di attirare la sua attenzione. E pigolavano con le loro vocette pateticamente fioche.
Ellis si fermò e si sdraiò a terra. Stavano introducendo qualcosa attraverso la parete della galleria, attraverso quella sottile zona nella superficie grigia. Qualcosa di piccolo, di talmente piccolo che lui riusciva appena a vederlo. Un quadratino bianco all'estremità di un bastone microscopico. Gli ometti lo stavano guardando intensamente, impauriti e pieni di speranza allo stesso tempo. Una speranza sgomenta, supplichevole.
Ellis prese il minuscolo quadrato di carta e quello si staccò come un petalo di rosa dal gambo. Goffamente lo lasciò cadere e dovette cercare tutt'intorno per ritrovarlo. Le piccole figure osservarono con timore la grossa mano che si muoveva alla cieca lungo il pavimento della galleria. Alla fine lo ritrovò e lo sollevò con molta cautela.
Era troppo piccolo perchè Ellis riuscisse a distinguerlo bene. Era uno scritto? C'erano delle minuscole righe... ma lui non fu in grado di leggerle. Erano davvero troppo piccole perchè fossero leggibili. Allora Ellis tirò fuori il portafoglio e ripose il quadratino in mezzo a due carte. Quindi si rimise in tasca il portafogli.
«Lo leggerò più tardi», disse.
La sua voce echeggiò e rimbombò su e giù per la galleria. A quel rumore le creaturine si diedero a una fuga disordinata. Scapparono tutte, gridando con le loro vocette acute e zufolanti, e si allontanarono dal bagliore grigio rifugiandosi nell'oscurità. In un lampo erano scomparsi come topi spaventati. Ellis rimase solo.
Si inginocchiò e avvicinò l'occhio al bagliore grigio, nel punto in cui era più sottile, dove lo avevano aspettato. Riuscì a distinguere qualcosa di confuso e distorto, perduto in un contorno nebuloso. Una specie di indistinto panorama, del quale era impossibile vedere i dettagli.
Colline. Alberi e campi... Ma piccolissimi, e scuri...
Ellis diede un'occhiata all'orologio. Buon Dio, erano le dieci! Si rimise frettolosamente in piedi e corse lungo la galleria, verso lo scintillante pavimento di New York.
Era tardi. Salì di corsa le scale del palazzo ST e si precipitò nel lungo corridoio che portava al suo ufficio.

All'ora di pranzo andò al Laboratorio di Ricerca. «Ehi», disse incontrando Jim Andrews carico di rapporti e di attrezzature. «Puoi concedermi un secondo?»
«Cosa ti serve, Henry?»
«Vorrei prendere in prestito una cosa. Degli occhiali da ingrandimento». Rifletté. «Forse sarebbe meglio un piccolo microscopio fotonico. Cento o duecento ingrandimenti».
«Un giocattolo». Jim gli procurò un piccolo microscopio. «Vuoi anche dei vetrini?»
«Sì, un paio opachi».
Portò il microscopio in ufficio e lo posò sulla scrivania, facendo spazio fra le carte. Per precauzione disse alla sua segretaria, la signorina Nelson, di uscire per il pranzo. Poi estrasse con la massima prudenza il quadratino dal portafogli e lo infilò fra i due vetrini.
Era uno scritto, ma lui non era in grado di leggerlo. Gli era del tutto sconosciuto: piccoli caratteri complessi e intrecciati fra loro.
Per un po' rimase a pensare, poi chiamò il centralino al videofono. «Mi passi il Dipartimento di Linguistica».
Dopo un attimo apparve la faccia gioviale di Earl Peterson. «Ehilà, Ellis. Cosa posso fare per te?»
Ellis esitò. Doveva farlo subito. «Earl, vecchio mio, ho un piccolo favore da chiederti».
«Che tipo di favore? Uno al quale un vecchio amico non può dire di no?»
«Ehm... lì da te c'è quella macchina, vero? Quel traduttore che vi serve per lavorare sui testi delle civiltà non terrestri».
«Sicuro. E allora?»
«Credi che potrei usarlo?» Parlò velocemente. «È una faccenda un po' strana, Earl. C'è quel mio amico di... ehm... Centaurus VI che mi scrive... insomma, capisci, nel sistema semantico centauriano, e io...»
«Ti serve la macchina per tradurre una lettera? Ma si, penso che si possa fare. Almeno per questa volta. Portala giù».
La portò giù. Si fece mostrare da Earl dove bisognava infilare il testo da tradurre e non appena l'altro gli voltò le spalle lui prese quel minuscolo quadratino e lo inserì nella macchina. La Macchina Linguistica ronzò. Ellis pregò fra sé che il pezzo di carta non fosse troppo piccolo e che non si perdesse in mezzo ai meccanismi di analisi del congegno.
Invece dopo un paio di secondi dalla fessura di uscita venne fuori un nastro, che si tagliò da solo e cadde dentro un cestino. La Macchina Linguistica si dedicò subito ad altro materiale più interessante che proveniva dai diversi settori di esportazione dello Sviluppo Terrestre.
Con le dita tremanti Ellis srotolò il nastro e le parole gli balzarono agli occhi.
Domande. Gli rivolgevano delle domande. Dio, la cosa si stava complicando. Lesse le domande con grande attenzione, muovendo le labbra. Dove si era cacciato? Gli ometti si aspettavano da lui delle risposte. Aveva preso il loro foglio di carta e se lo era portato via. Con ogni probabilità lo avrebbero atteso sulla via del ritorno.
Ellis tornò in ufficio e accese di nuovo il videofono. «Collegami con l'esterno», ordinò.
Apparve il consueto videomonitor. «Si, signore?»
«Voglio la Biblioteca Federale», disse Ellis. «Divisione Ricerca Culturale».

Quella sera lo aspettavano, infatti. Ma non erano gli stessi. Era strano... ogni volta un gruppo diverso. Anche il loro abbigliamento era diverso. Un'altra tinta. E il panorama sullo sfondo era cambiato ma solo leggermente. Non c'erano più gli alberi; c'erano le colline ma avevano una sfumatura differente, di un bianco sporco nebuloso. Neve?
Si chinò a terra. Si era organizzato con molta cura. Le risposte ricevute dalla Biblioteca Federale erano tornate alla Macchina Linguistica che le aveva ritradotte. Adesso le risposte erano nella stessa lingua delle domande... ma su un foglio di carta un po' più grande.
Ellis appallottolò il pezzo di carta e lo sospinse dentro il bagliore grigio, facendolo rotolare prima addosso a sei o sette ometti che stavano guardando e poi lungo il fianco della collina sulla quale essi si trovavano. Dopo un attimo di terrorizzata immobilità le piccole figure sgambettarono freneticamente all'inseguimento della pallina di carta, e scomparvero all'interno delle sfumate ed invisibili profondità del loro mondo. Ellis si rimise rigidamente in piedi.
«Be», disse fra sé. «È finita».
Ma non era finita. La mattina successiva c'era un nuovo gruppo... e un nuovo elenco di domande. I minuscoli esseri protesero il loro microscopico quadrato di carta attraverso la macchia trasparente nella parete della galleria e rimasero in attesa, tremanti, mentre Ellis si chinava e frugava con la mano in cerca del foglietto di carta.
Alla fine lo trovò. Lo mise nel portafogli e proseguì la sua strada, uscendo a New York accigliato. La faccenda stava diventando seria. Si sarebbe forse trasformata in un lavoro a tempo pieno?
Ma poi Ellis sorrise. Era la cosa più strana che gli fosse mai capitata. Quei piccoli furfanti erano ingegnosi, a modo loro. Volti piccoli e attenti, che tradivano un grande interesse. E terrore. Avevano paura di lui, molta paura. Perchè non avrebbero dovuto averne? Paragonato a loro, Ellis era un gigante.
Provò a fare delle congetture sul loro mondo. Che tipo di pianeta poteva essere? Strano, per avere degli abitanti così piccoli. Ma poi, grande o piccolo era solo un fatto soggettivo. Certo, in confronto a lui erano piccoli. Piccoli e reverenti. Ogni volta che gli porgevano il loro foglietto di carta, lui poteva leggere sui loro volti un misto di paura e di bramosa, lacerante speranza. Dipendevano da lui. Pregavano che lui gli fornisse le risposte.
Ellis fece una smorfia. «Che strano impegno che mi sono preso», si disse.

«Che succede?» chiese Peterson quando a mezzogiorno Ellis si ripresentò al Laboratorio di Ricerca.
«Ecco, vedi... ho ricevuto un'altra lettera dal mio amico di Centaurus VI».
«Davvero?» Peterson si mostrò insospettito. «Non mi stai prendendo in giro, vero, Henry? Questa macchina ha molto lavoro da svolgere, lo sai. Arriva materiale in continuazione. Non possiamo permetterci di perdere tempo con...»
«È una faccenda seria, Earl». Ellis appoggiò la mano sul portafogli. «Questioni importantissime. Non solo chiacchiere».
«D'accordo. Se lo dici tu». Peterson fece un cenno con la testa alla squadra che stava lavorando al traduttore. «Lascia usare la macchina a quest'uomo, Tommie».
«Grazie», mormorò Ellis.
Continuò come aveva fatto il giorno prima, ottenendo una traduzione e trasmettendo le domande tramite il videofono ai ricercatori della Biblioteca Federale. In serata gli giunsero le risposte nella lingua originale e, dopo averle gelosamente infilate nel portafogli, Ellis uscì dal palazzo dello Sviluppo Terrestre e si infilò nel suo trasferitore Jiffi.
Come al solito, c'era un nuovo gruppo ad attenderlo.
«Eccovi qui, ragazzi», tuonò Ellis, infilando la carta appallottolata nel bagliore attraverso la zona sottile della galleria. La pallina rotolò lungo la minuscola campagna, rimbalzando da una collina all'altra, mentre i piccoli abitanti la rincorrevano freneticamente con quel loro buffo modo di correre a gambe rigide. Ellis li guardò, sorridendo interessato... e orgoglioso.
Erano proprio veloci, su questo non c'era dubbio. Adesso però li vedeva confusamente; nella loro corsa incontrollata si erano allontanati dal bagliore. Apparentemente solo una parte del loro mondo era tangente al trasferitore. Solo quell'unica macchia in cui il bagliore era più evanescente. Ellis scrutò all'interno con più attenzione.
Adesso tre o quattro di loro stavano aprendo la pallina di carta e leggendo le risposte.
Ellis si gonfiò di orgoglio e riprese la marcia lungo la galleria, uscendo nel cortile di casa. Non era in grado di leggere le loro domande... e una volta tradotte, non era in grado di rispondere. Il Dipartimento di Linguistica svolgeva la prima parte, i ricercatori della Biblioteca Federale la seconda. Tuttavia Ellis si sentiva orgoglioso, e nel suo intimo provava una calda e profonda soddisfazione. L'espressione dei loro volti, lo sguardo che avevano quando gli vedevano in mano il foglio di carta appallottolato, quando si rendevano conto che lui stava per dare una risposta alle loro domande, e il modo in cui scappavano via dopo averle lette: tutto ciò era in qualche modo... gratificante. Lo faceva sentire dannatamente bene.
«Niente male», mormorò aprendo la porta posteriore ed entrando in casa. «Proprio niente male».
«Che cosa, tesoro?» gli chiese Mary alzando subito lo sguardo dal tavolo. Posò la rivista che stava leggendo e si alzò in piedi «Insomma, hai l'aria così felice! Che succede?»
«Niente. Proprio niente». La baciò con calore sulla bocca. «Sei proprio splendida stasera, ragazza mia».
«Oh, Henry!» Mary avvampò graziosamente. «Come sei dolce».
Ellis guardò sua moglie con aria soddisfatta, apprezzando il completo a due pezzi di plastica trasparente. «Quello che si vede è proprio invitante».
«Henry! Che cos'hai? Sembri così... così eccitato!»
Ellis sorrise. «Oh, penso di essere molto soddisfatto del mio lavoro. Sai, non c'è niente di più bello che essere soddisfatto di quello fai. Quando lo fai bene. Quando puoi esserne fiero».
«Mi sembrava di averti sempre sentito dire che sei solo un ingranaggio di una grande macchina impersonale. Poco più di un numero».
«Le cose sono cambiate», affermò con decisione Ellis. «Sto lavorando a un... ehm, un nuovo progetto. Ho avuto un nuovo incarico».
«Un nuovo incarico?»
«Devo raccogliere delle informazioni. È una specie di... lavoro creativo».

Alla fine della settimana aveva trasmesso loro un bel po' di informazioni.
Cominciò ad uscire per andare in ufficio alle nove e mezzo. Ciò gli concedeva quasi mezzora da trascorrere accucciato sulle mani e sulle ginocchia a scrutare dentro quella macchia sottile nel bagliore. Lo faceva perchè era felice di osservare gli ometti e le attività del loro microscopico mondo.
La loro civiltà era abbastanza primitiva, non c'erano dubbi. Secondo lo standard terrestre si poteva a malapena definire una civiltà. Per quanto poteva vedere, praticamente non possedevano cognizioni tecniche e scientifiche: la loro era una specie di cultura agricola, di comunismo rurale, un'organizzazione monolitica fondata sulla tribù, composta in apparenza da pochi membri.
Almeno, non ne vedeva mai tanti tutti insieme, e quello era un aspetto che lui non capiva. Ogni volta che passava c'era un gruppo differente. Mai le stesse facce. E anche il loro mondo cambiava. Gli alberi, i campi, la fauna, addirittura le condizioni atmosferiche, o così gli sembrava.
Era diverso il loro modo di calcolare il tempo? Si muovevano rapidamente, a scatti. Come un videonastro mandato a doppia velocità. E quelle voci erano così acute. Forse era così. Un universo del tutto differente in cui era differente anche la struttura del tempo.
Quanto al loro atteggiamento nei suoi riguardi, non ci si poteva sbagliare. Dopo le prime due o tre volte avevano cominciato a fargli dei doni: briciole incredibilmente piccole di cibo cotto dentro i forni o su focolari di mattoni. Se avvicinava il naso al bagliore grigio riusciva anche a sentirne debolmente il profumo. Aveva un buon odore, forte e pungente, molto aromatizzato. Probabilmente si trattava di carne.
Venerdì portò con sé un paio di occhiali da ingrandimento e li osservò con quelli. Si, era proprio carne. Uccidevano e cuocevano degli animali grossi come formiche mettendoli nei forni. Gli occhiali gli consentirono di vederli meglio in faccia. Avevano degli strani volti, forti e scuri, con una espressione curiosa ma decisa.
Naturalmente, da loro Ellis riceveva un solo tipo di sguardo: un insieme di paura, venerazione e speranza. Ciò lo faceva sentire bene. Quello sguardo era solo per lui, perchè tra loro i minuscoli esseri gridavano e discutevano... e a volte ingaggiavano furiosi combattimenti, saltellando e piroettando nelle loro tuniche marroni in una sarabanda frenetica. Era una razza forte e passionale, e lui ne rimase ammirato.
Il che era bello... e lo faceva sentire ancora più soddisfatto. Sentire il timore reverenziale di una razza così fiera e coraggiosa era davvero qualcosa di importante. In loro non c'era nulla di vile.
La quinta volta Ellis scoprì che avevano costruito una struttura piuttosto interessante, una specie di tempio. Un luogo di adorazione religiosa.
Per lui! Stavano pensando una nuova religione tutta per lui. Non c'erano dubbi. Cominciò ad andare al lavoro alle nove, per concedersi un'ora intera da trascorrere con loro. A metà della seconda settimana avevano sviluppato un rituale vero e proprio: processioni, fiaccole e quelli che sembravano essere dei canti o degli inni. C'erano dei sacerdoti con lunghe tuniche, e le solite offerte profumate.
Niente idoli, però. Evidentemente era così grosso che non riuscivano nemmeno a distinguerne le sembianze. Cercò di immaginarsi come poteva apparire dall'altra parte del bagliore. Una forma immensa che troneggiava su di loro, al di là di una parete di nebbiolina grigia. Un essere indistinto, qualcosa che era come loro ma che nello stesso tempo era diverso da loro. Un essere differente, certo. Più grande... ma differente anche sotto altri aspetti. E quando parlava... la sua voce echeggiava come un tuono lungo le pareti del trasferitore Jiffi. Cosa che li faceva fuggire terrorizzati da tutte le parti.
Una religione che si stava evolvendo e che li stava cambiando. Attraverso la sua concreta presenza e attraverso le sue risposte, i responsi precisi ed esaurienti che otteneva dalla Biblioteca Federale e che la Macchina Linguistica traduceva nella loro lingua. Naturalmente, secondo il loro computo temporale dovevano aspettare per generazioni, prima di avere le risposte. Ma ormai ci avevano fatto l'abitudine. Aspettavano. Gli davano le domande e dopo un paio di secoli lui gli restituiva le risposte, risposte delle quali senza dubbio ne facevano buon uso.
«Ma insomma», esclamò Mary una sera in cui Ellis tornò a casa con un'ora di ritardo. «Dove sei stato?»
«Ho lavorato», rispose lui noncurante, togliendosi cappotto e cappello. Si gettò sul divano. «Sono stanco, proprio stanco». Sospirò di sollievo e armeggiò con il bracciolo per avere un bicchiere di whiskey.
Mary si avvicinò. «Henry, io sono un po' preoccupata».
«Preoccupata?»
«Non dovresti lavorare così tanto. Dovresti prendertela più comoda. Quanto tempo è che non ti prendi una vera vacanza? Un viaggio fuori dalla Terra, o dal Sistema Solare. Sai, mi piacerebbe proprio chiamare quel Miller e chiedergli come fa un uomo della tua età a fare...»
«Un uomo della mia età?» strepitò Ellis, risentito. «Non sono mica vecchio».
«Certo che no». Mary si mise a sedere vicino a lui e lo abbracciò affettuosamente. «Ma non dovresti avere così tanto da fare. Ti meriti un po' di riposo, non credi?»
«Questa è un'altra cosa. Tu non capisci. Non è la solita vecchia roba, rapporti, statistiche e tutti quei maledetti dati da archiviare. Questa è...»
«Che cos'è?»
«Questa è diversa. Non mi sento più un semplice ingranaggio. Questa mi dà qualcosa. Temo di non potertelo spiegare, ma è una cosa che devo fare».
«Se magari mi dicessi un po' di più...»
«Non posso dirti altro», rispose Ellis. «Ma non c'è niente di simile al mondo. Sono venticinque anni che lavoro per lo Sviluppo Terrestre. Venticinque anni sempre a fare le stesse cose, fino alla nausea. E in venticinque anni... non mi ero mai sentito così».

«Ah, davvero?» ruggì Miller. «Non mi racconti storie! Venga subito qui, Ellis!»
Ellis aprì e richiuse la bocca. «Di che cosa sta parlando?» chiese, sentendosi invadere dall'orrore. «Cosa è successo?»
«Non cerchi di fare il furbo con me». La faccia di Miller sul videoschermo era paonazza. «Venga subito nel mio ufficio».
Lo schermo si spense.
Ellis rimase seduto alla scrivania, stupito. Recuperò a fatica un minimo di lucidità e si alzò in piedi ancora tremando. «Buon Dio». Si asciugò il sudore freddo dalla fronte. Così all'improvviso, tutto gli stava crollando addosso. Non riusciva a riprendersi dallo shock.
«C'è qualcosa che non va?» gli chiese premurosamente la signorina Nelson.
«No». Ellis si diresse come un automa verso la porta. Era a pezzi. Che cosa aveva scoperto Miller? Santo Dio! Era possibile che avesse...
«Il signor Miller sembrava infuriato».
«Già». Ellis percorse meccanicamente il corridoio, con la mente sottosopra. Miller sembrava proprio fuori di sé. In qualche modo lo aveva scoperto, ma perchè se la prendeva tanto? Che cosa gliene importava? Un brivido gelido scese lungo la schiena di Ellis. Era in una brutta situazione. Miller era il suo superiore... con il potere di assumere e licenziare. Forse Ellis aveva commesso un errore, magari aveva infranto qualche legge. Forse aveva addirittura commesso un crimine. Ma quale?
Che cosa poteva importare a Miller di loro? Di che interesse potevano essere per lo Sviluppo Terrestre?
Aprì la porta dell'ufficio di Miller. «Eccomi, signor Miller», farfugliò. «Qual è il problema?»
Miller lo fulminò con lo sguardo. «Che cosa sono tutte queste idiozie sul suo cugino di Proxima?»
«Lei... ehm, lei intende riferirsi al mio collega di affari su Centaurus VI?»
«Lei... lei è un disonesto!» Miller scattò in piedi. «E dopo tutto quello che la Compagnia ha fatto per lei».
«Non capisco», replicò sommessamente Ellis. «Che cosa ho...»
«Perchè crede che le sia stato dato il trasferitore Jiffi, soprattutto?»
«Perchè?»
«Per provarlo! Per collaudarlo, razza di strabico grillo venusiano! La Compagnia le ha generosamente consentito di utilizzare un trasferitore Jiffi prima che fosse messo in commercio, e lei che cosa fa? Insomma, lei...»
Ellis cominciò a indignarsi. In fondo erano venticinque anni che lavorava con lo ST. «Non sia così offensivo. Io ho sborsato i miei mille crediti d'oro, per averlo».
«Be', allora può anche passare alla cassa e farseli rimborsare. Ho già dato disposizioni perchè una squadra di operai faccia un bel pacco del suo trasferitore e lo riporti in magazzino».
Ellis era stordito. «Ma perchè?»
«Mi chiede perchè? Perchè è difettoso, perchè non funziona. Ecco perchè». Miller provò un senso di rabbia improvvisa, e la tradì con gli occhi. «La squadra di controllo ci ha trovato una falla larga un chilometro». Miller torse le labbra. «Come se non lo sapesse».
Ellis ebbe un tuffo al cuore. «Una falla?» domandò ansioso, con voce gracidante.
«Una falla. Ho fatto maledettamente bene ad autorizzare ispezioni periodiche. Se avessimo dovuto far conto su persone come lei...»
«Ne è certo? A me sembrava che andasse tutto bene. Cioè, mi porta fin qui senza problemi». Ellis si agitò. «Per quanto mi riguarda non ho rilievi da fare».
«No. Lei non ha rilievi da fare. È proprio per questo che non avrà più il suo trasferitore, e stasera se ne tornerà a casa con il monojet. Perchè lei non ha fatto rapporto sulla falla! E se mai cercherà di approfittare nuovamente di questo ufficio per...»
«Come fa a sapere che io ero a conoscenza del... del difetto?»
Miller sprofondò nella poltrona, fuori di sé per la rabbia. «A causa del suo pellegrinaggio quotidiano al Dipartimento di Linguistica», rispose scegliendo le parole. «Con le false lettere di sua nonna da Betelgeuse II. Che erano tutt'altra cosa. Che erano solo un meschino imbroglio per nascondere qualcosa che lei ha preso dalla falla nel trasferitore».
«Come lo sa?» gracchiò in un sussulto di coraggio Ellis, messo con le spalle al muro. «Forse c'era un difetto, ma lei non può dimostrare che esista un collegamento fra il suo trasferitore difettoso e il mio...»
«Quel foglio», lo interruppe con decisione Miller, «che lei ha inserito nella nostra Macchina Linguistica non era un documento non terrestre. Non proveniva da Centaurus VI, né da alcun sistema esterno. Era scritto in ebraico antico. E c'è soltanto un posto in cui lei può esserselo procurato, Ellis. Perciò non tenti di fare il furbo con me».
«Ebraico!» esclamò Ellis, sbigottito. Si voltò, bianco come un cencio. «Dio! L'altro continuum... la quarta dimensione. Il tempo, naturalmente». Fu scosso da un tremito. «E l'universo in espansione. Questo spiegherebbe le loro dimensioni. E spiegherebbe perchè un nuovo gruppo, una nuova generazione...»
«Già corriamo un grosso rischio con questi trasferitori Jiffi, creando una galleria attraverso altri continua spazio-temporali». Miller scosse stancamente la testa. «Lei è un imbroglione. Lei sapeva che avrebbe dovuto fare rapporto su qualsiasi inconveniente».
«Non credevo di fare niente di male». Ellis si sentì all'improvviso terribilmente nervoso. «Sembravano compiaciuti, addirittura riconoscenti. Accidenti, sono sicuro di non aver creato nessun problema».
Miller cominciò a sbraitare come impazzito e si mise a camminare su e giù per la stanza. Alla fine gettò qualcosa sulla scrivania, proprio di fronte a Ellis. «Nessun problema. No, proprio nessuno. Guardi lì. L'ho avuto dall'Archivio dei Prodotti Antichi».
«Che cos'è?»
«Lo guardi! L'ho confrontato con uno di quei foglietti con le domande. Identici. Esattamente identici. E i suoi fogli, con le domande e le risposte, sono tutti lì dentro, rognoso scarafaggio millepiedi di Ganimede!»
Ellis prese il libro e lo aprì. Mentre ne sfogliava le pagine una strana espressione si dipinse sul suo viso. «Santo cielo. E così hanno tenuto una registrazione di tutto quello che gli ho dato. E ne hanno fatto un libro. Parola per parola. E ci sono anche dei commentari. È tutto qui, nero su bianco. Allora ha avuto effetto. L'hanno fatta circolare, e l'hanno messa per iscritto».
«Torni al suo ufficio. Ne ho abbastanza di lei, per oggi. E credo che ne avrò abbastanza anche per il futuro. La lettera di licenziamento le giungerà attraverso i consueti canali».
Come in trance Ellis arrossì, sentendosi stranamente eccitato. Afferrò il libro e si diresse stordito verso la porta. «Posso prenderlo, signor Miller? Posso tenerlo con me?»
«Certo», rispose Miller con aria stanca. «Certo che può prenderlo. Lo leggerà stasera mentre torna a casa con il monojet pubblico».

«Henry ha qualcosa da farti vedere», bisbigliò Mary eccitata alla signora Lawrence, prendendola per un braccio. «Bada di dire la cosa giusta».
«La cosa giusta?» balbettò nervosamente la signora Lawrence, un po' a disagio. «Che cos'è? Niente di vivo, spero».
«No, no». Mary la sospinse verso la porta dello studio. «Basta che tu sorrida». Poi alzò la voce. «Henry, c'è qui Dorothy Lawrence».
Henry Ellis apparve sulla porta del suo studio. Accennò un inchino. Aveva un aspetto molto austero, con la sua vestaglia di seta, la pipa in bocca e la penna stilografica in mano. «Buona sera, Dorothy», la salutò con voce bassa e ben modulata. «Le dispiace accomodarsi un attimo nel mio studio?»
«Studio?» La signora Lawrence entrò con qualche titubanza. «Che cosa studia? Voglio dire, Mary mi ha raccontato che lei recentemente si è dedicato a qualcosa di molto importante, adesso che non ha più... insomma, adesso che sta a casa più a lungo. Però non mi ha fatto minimamente capire che cosa sia».
Gli occhi della donna vagarono incuriositi per la stanza. Lo studio di Ellis, pieno di libri di consultazione e carte geografiche, comprendeva una grossa scrivania di mogano, un atlante, un mappamondo, delle poltrone di pelle ed una macchina da scrivere elettrica incredibilmente vecchia.
«Santo cielo!» esclamò la donna. «Che strano. E tutti questi oggetti antichi».
Ellis scelse attentamente un libro dallo scaffale e lo porse con noncuranza alla signora Lawrence. «A proposito... dia un'occhiata a questo».
«Che cos'è? Un libro?» La signora Lawrence lo prese e lo esaminò con curiosità. «Buon Dio. È pesante, vero?» Lesse la scritta sul dorso, umettandosi la bocca. «Che significa? Sembra vecchio. E che strane lettere! Non ne ho mai viste di simili. Sacra Bibbia». Alzò gli occhi, interessata. «Che cos'è?»
Ellis fece un debole sorriso. «Ecco...»
Come illuminata, la signora Lawrence sussultò. «Santo cielo! Non l'avrà scritto lei, vero?»
Il sorriso di Ellis si allargò fino a trasformarsi in un rossore di dignitosa modestia. «È solo una cosetta che ho messo insieme», rispose con tono indifferente. «La prima, per dire la verità». Pensieroso, giocherellò con la penna stilografica. «E adesso, se vuole scusarmi, devo proprio tornare al mio lavoro...»