LA PADRONA
Fedor Dostoevskij
Recensione
Scritta nel 1847 la novella si incentra sulla figura del giovane sognatore Ordynov, che vagabonda per la città che si innamora della dolce e misteriosa Katerina incontrata in una chiesa durante una funzione. La narrazione si sviluppa intorno al vano tentativo di Ordynov di salvare Katerina dal suo persecutore, tra colpi di scena e improvvisi mascheramenti.
Katerina, donna tutt’altro che fatale, anzi piuttosto ingenua, che nello sguardo porta le ferite che l’esistenza le ha inferto e che diventa, qualche giorno dopo l’incontro, la sua padrona di casa. Ordynov, infatti, riesce a farsi affittare un angolo nell’appartamento che la donna condivide con Murin, un vecchio del quale la donna è succube. Dostoevskij è già abile, in queste pagine, nel descriverci come la passione possa divorare dall’interno una persona.
LA PADRONA
PARTE PRIMA
I
Ordynov si decise finalmente a cambiare appartamento. La sua padrona di casa, la vedova assai povera e anziana di un impiegato presso la quale egli affittava un alloggio, in seguito a circostanze impreviste era partita da Pietroburgo per non so quale remota località di provincia dove intendeva sistemarsi presso certi suoi parenti, senza aspettare il primo del mese, data alla quale scadeva il suo contratto d'affitto. Il giovane, in attesa della scadenza del termine, pensava con rimpianto al suo vecchio angolo e si rammaricava di doverlo abbandonare: egli era povero e gli affitti erano cari. All'indomani stesso della partenza della padrona egli prese il berretto e si mise a girare per i vicoli di Pietroburgo, adocchiando tutti i cartellini inchiodati ai portoni delle case, alla ricerca di quella più malridotta, più affollata e più d'affitto, nella quale fosse più facile trovare presso qualche inquilino povero l'angolo che faceva al caso suo.
Era già un pezzo che stava cercando con estrema diligenza, ma ben presto sensazioni nuove, quasi sconosciute, lo assalirono. Egli prese a guardarsi attorno dapprima distrattamente e negligentemente, poi con attenzione e infine con estrema curiosità. La folla e la vita della strada, il frastuono, il movimento, la novità degli oggetti, la novità della situazione, tutta questa vita minuta e tutte le banalità quotidiane, da lungo tempo venute a noia all'indaffarato e pratico pietroburghese, infruttuosamente ma attivamente alla ricerca durante tutta la sua vita dei mezzi per pacificarsi, calmarsi e tranquillizzarsi da qualche parte in un caldo nido, conquistato col lavoro, col sudore e con svariati altri mezzi - tutta questa volgare e noiosa prosa suscitò, all'opposto, in lui una strana sensazione quietamente gioiosa e luminosa. Le sue guance pallide si coprirono di un leggero rossore, i suoi occhi cominciarono a brillare come per una nuova speranza, ed egli prese a inspirare avidamente e profondamente l'aria fredda e pura e si sentì straordinariamente leggero.
Aveva sempre condotto una vita tranquilla, completamente solitaria. Circa tre anni prima, avendo conseguito il titolo accademico ed essendo divenuto relativamente libero, si era recato da un vecchietto, che fino ad allora conosceva solo per sentito dire, ed era rimasto a lungo in attesa finché il cameriere in livrea si era deciso ad annunciarlo per la seconda volta. Era poi entrato in una sala dal soffitto alto, oscura e vuota, che dava un senso estremo di noia, come se ne vedono ancora nelle vecchie case signorili risparmiate dal tempo, e in essa aveva visto un vecchietto coperto di decorazioni e ornato da canizie, amico e collega di suo padre, nonché suo tutore. Il vecchietto gli aveva consegnato una manciata di denari. La somma era risultata insignificante: si trattava dei resti dell'eredità del bisnonno, venduta all'asta per debiti. Ordynov ne aveva preso possesso con indifferenza, si era congedato per sempre dal suo tutore ed era uscito nella strada. Era una serata autunnale, fredda e tetra; il giovane era pensieroso e una inconsapevole tristezza gli dava una fitta al cuore. Aveva il fuoco negli occhi; avvertiva i sintomi della febbre, brividi e un gran calore 19
alternatamente. Strada facendo aveva calcolato che con i mezzi di cui disponeva avrebbe potuto sopravvivere due o tre anni, persino quattro, facendo la fame. Era calato il crepuscolo e aveva cominciato a piovigginare. Aveva contrattato il prezzo del primo angolo che gli era capitato e un'ora dopo aveva traslocato. Lì era come se si fosse chiuso in un Convento separandosi dal resto del mondo. Dopo due anni, senza rendersene conto, si era completamente inselvatichito; per il momento non gli veniva neppure in mente che esistesse un'altra vita - rumorosa, chiassosa, eternamente agitata, eternamente in trasformazione, eternamente invitante e sempre, prima o poi, inevitabile. Egli, è vero, non poteva fare a meno di sentirne parlare, ma non la conosceva, né la cercava mai. Fin dall'infanzia era vissuto in maniera singolare; ora questa singolarità aveva preso una forma definita. Lo divorava la passione più profonda e insaziabile, quella che assorbe l'intera vita di un uomo e che alle creature come Ordynov non consente neppure un angolo nell'altra sfera, quella dell'attività pratica, ordinaria. Questa passione era la scienza. Per ora essa stava divorando la sua giovinezza, come un veleno lento e inebriante avvelenava il suo riposo notturno, lo privava di un cibo sano e dell'aria fresca, della quale non c'era mai traccia nel suo soffocante angolo, ma Ordynov, tutto preso dalla sua passione, non voleva accorgersene. Egli era giovane e per il momento non chiedeva di più. Questa passione lo aveva trasformato in un lattante per quanto riguarda la vita esteriore, ormai per sempre incapace di far sì che certe brave persone si scansassero, quando ciò si rendeva necessario, per ritagliargli almeno un angolino in mezzo a loro. La scienza di certa gente abile è un capitale nelle loro mani; la passione di Ordynov era invece un'arma rivolta contro lui stesso.
In lui c'era un'attrazione inconscia, piuttosto che un motivo logicamente definito di imparare e di sapere, come in qualsiasi altra, anche la più insignificante, delle attività di cui si era occupato fino ad allora. Fin dagli anni dell'infanzia aveva avuto fama di testa balzana e non assomigliava ai compagni. Non aveva mai conosciuto i genitori e, a causa del suo carattere strano e poco socievole, aveva dovuto soffrire per la crudeltà e la grossolanità dei compagni. A causa di ciò era diventato davvero poco socievole e tetro e a poco a poco si era accentuata la sua singolarità. Ma nei suoi studi solitari mai, neppure ora, c'era stato un ordine e un sistema definito; ora non v'era altro che il primo entusiasmo, il primo slancio, la prima febbre dell'artista. Egli si andava creando da sé un suo sistema, che via via prendeva forma in lui nel corso degli anni, e nella sua anima ormai stava sorgendo a poco a poco l'immagine ancora oscura, confusa, ma in un certo qual modo stupendamente rallegrante, di un'idea incarnata in una forma nuova, luminosa, e questa forma chiedeva di sgorgare dalla sua anima straziandola; egli avvertiva ancora timidamente l'originalità, la verità e l'autenticità di essa: la creazione stava già facendo appello alle sue forze; essa cresceva e si rafforzava. Ma il giorno in cui essa si sarebbe incarnata e avrebbe preso forma era ancora lontano, forse molto lontano, forse addirittura del tutto irraggiungibile!
Ora egli camminava per le strade come un estraneo, come un eremita venuto dal suo muto deserto nella città rumorosa, assordante. Tutto gli pareva nuovo e strano. Ma egli era così estraneo al mondo che gli ribolliva e gli rumoreggiava intorno che non gli passò neppure per il capo di meravigliarsi della strana sensazione che provava. Non sembrava neppure accorgersi della propria selvatichezza; al contrario nasceva in lui una specie di gioioso sentimento, una specie di ebbrezza, come quella che prova un affamato al quale dopo un lungo digiuno diano da mangiare e da bere; sebbene, naturalmente, fosse strano che una così insignificante novità nella sua situazione, come il cambio di appartamento, potesse suscitare turbamento ed emozione in un abitante di Pietroburgo, si trattasse pure di Ordynov; ma è vero anche che fino ad allora non gli era accaduto quasi neppure una volta di uscire per sbrigare delle faccende.
Gli piaceva sempre di più vagare per le strade. Egli sgranava gli occhi su ogni cosa come flâneur.
Ma anche ora, fedele alla sua disposizione di sempre, nel brillante quadro che gli si apriva dinanzi egli leggeva come tra le righe di un libro. Ogni cosa lo colpiva; non si lasciava sfuggire una sola impressione e con sguardo raziocinante guardava in viso i passanti, scrutava la fisionomia di ogni persona che gli stava attorno, tendeva l'orecchio con amore ai discorsi della gente, come se 20
volesse verificare su ogni cosa le ipotesi nate nel silenzio delle sue notti solitarie. Sovente una qualche inezia lo colpiva facendo scaturire un'idea e, per la prima volta, cominciò a provare rimpianto d'essersi seppellito vivo a quel modo nella sua cella. Qui tutto andava più in fretta; il suo polso batteva pieno e rapido, il suo intelletto, oppresso dalla solitudine, sollecitato e innalzato soltanto da un'attività tesa ed esaltata, ora lavorava velocemente, tranquillamente e con audacia.
Inoltre provava quasi inconsciamente il desiderio di entrare in qualche maniera anche lui a far parte di quella vita a lui estranea, che fino ad allora aveva conosciuta, o, per dir meglio, aveva soltanto presentita con l'infallibile istinto dell'artista. Inavvertitamente il suo cuore prese a battere d'una nostalgia d'amore e di solidarietà. Egli fissava più attentamente le persone che gli passavano accanto; ma quelle persone erano estranee, indaffarate e pensierose... E poco a poco la spensieratezza di Ordynov cominciò inavvertitamente a dissolversi; la realtà già lo opprimeva, ispirandogli un involontario timoroso rispetto.
Cominciò ad esser stanco del flusso di nuove sensazioni, fino ad allora a lui ignote, come un inalato che gioiosamente si alzi dal suo letto di dolore e cada spossato dalla luce, dallo scintillio, dal turbinio della vita, dal rumore e dalla varietà di colori della folla che gli guizza accanto, stordito e ottenebrato dal movimento. Provò un senso di tristezza e di malinconia. Incominciò a temere per tutta la sua esistenza, per la sua attività e persino per il suo futuro. Un pensiero nuovo uccideva la sua quiete. All'improvviso gli venne in mente che durante tutta la sua vita egli era stato solo, che nessuno lo aveva mai amato e che non era riuscito ad amare nessuno. Alcuni tra i passanti, con i quali casualmente aveva scambiato qualche parola all'inizio della sua passeggiata, lo avevano guardato con un'aria aspra e strana. Egli vedeva che lo prendevano per un pazzo o per un tipo strampalato e bizzarro, il che, del resto, era perfettamente vero. Si rammentò che tutti avevano sempre provato una sensazione penosa in sua presenza, che fin dall'infanzia tutti l'avevano sfuggito per il suo carattere pensieroso e caparbio, che la sua solidarietà si era manifestata in maniera penosa e depressa, passando inosservata agli occhi degli altri, che essa era presente in lui, ma in essa non si era mai osservata traccia di eguaglianza morale, cosa che lo aveva fatto soffrire fin da quando era bambino, quando si era accorto di non assomigliare in nulla ai suoi coetanei. Ora se ne rammentò e si rese conto che da sempre e in ogni occasione tutti lo avevano sfuggito ed evitato.
Senza avvedersene si addentrò in uno dei sobborghi di Pietroburgo lontani dal centro. Dopo aver alla meglio pranzato in una trattoria fuori mano, egli uscì e riprese a vagare senza meta. Di nuovo attraversò numerose vie e piazze. Dietro di esse si stendevano lunghe file di staccionate gialle e grigie e, al posto delle ricche case, cominciò a incontrare vetuste casupole ed enormi edifici adibiti a fabbriche, orribili, anneriti, rossi, con alte ciminiere. Il luogo era deserto e vuoto; ogni cosa aveva un aspetto tetro e ostile: così per lo meno parve a Ordynov. Era ormai sera. Dopo aver percorso un lungo vicolo sbucò in una piazza dove sorgeva una chiesa parrocchiale.
Vi entrò distrattamente. La funzione era appena terminata; la chiesa era quasi completamente vuota e c'erano soltanto due vecchiette in ginocchio vicino all'ingresso. Il sacrestano, un vecchietto dai capelli bianchi, spegneva le candele. I raggi del sole che tramontava irrompevano dall'alto come un ampio torrente attraverso l'angusta lanterna della cupola, illuminando con un mare di luce scintillante uno degli altari; ma essi si facevano via via sempre più deboli, e quanto più nera diventava l'oscurità che si addensava sotto le volte del tempio, tanto più splendevano qua e là le icone dorate, illuminate dal tremolante chiarore delle lampade e delle candele. In un accesso di struggente nostalgia e oppresso da un sentimento indefinito Ordynov si addossò alla parete nell'angolo più buio della chiesa e per un attimo si abbandonò all'oblio. Si riscosse quando sotto le volte del tempio echeggiò il suono cadenzato e sordo dei passi di due parrocchiani che erano entrati. Egli sollevò gli occhi e una sorta di strana e inesprimibile curiosità si impadronì di lui alla vista dei due nuovi venuti. Si trattava di un vecchio e di una giovane donna. Il vecchio era alto, ancora diritto ed energico, ma magro e pallidissimo. Dall'aspetto lo si poteva prendere per un mercante venuto da qualche luogo lontano. Indossava un lungo caffetano nero, evidentemente il suo abito delle feste, foderato di pelliccia, portato aperto. Sotto il caffetano si scorgeva un altro lungo abito di foggia russa, accuratamente abbottonato per tutta la sua lunghezza.
Intorno al collo scoperto portava annodato negligentemente un fazzoletto d'un rosso vivace; in mano aveva un colbacco di pelliccia. Una barba lunga, sottile e brizzolata gli ricadeva sul petto e di sotto alle sopracciglia folte e aggrottate scintillava uno sguardo infuocato, febbrilmente acceso, altero e penetrante. La donna poteva avere vent'anni ed era meravigliosamente bella. Indossava una ricca casacca azzurra foderata di pelliccia e aveva in testa un fazzoletto di raso bianco annodato sotto il mento. Camminava con gli occhi abbassati e una sorta di pensosa dignità, che pervadeva tutta la sua figura, si rifletteva in modo netto e triste sul tenero disegno delle linee infantilmente dolci e miti del suo volto. C'era qualcosa di strano in questa coppia inattesa.
Il vecchio si arrestò in mezzo alla chiesa e si inchinò in tutte e quattro le direzioni, sebbene la chiesa fosse completamente vuota; lo stesso fece la sua compagna. Poi egli la prese per mano e la condusse ai piedi della grande icona della Vergine locale, in onore della quale era stata costruita la chiesa, che brillava accanto all'altare dello scintillio accecante delle fiammelle che si riflettevano sul rivestimento fiammeggiante d'oro e di pietre preziose. Il sacrestano, che era l'ultima persona rimasta nella chiesa, si inchinò rispettosamente davanti al vecchio e questi gli rispose con un cenno del capo. La donna si prosternò davanti all'icona. Il vecchio prese un lembo del drappo che pendeva dalla predella dell'icona e le coprì la testa. Sordi singhiozzi risuonarono nella chiesa.
Ordynov era colpito dalla solennità di tutta questa scena e ne attendeva con impazienza la conclusione. Dopo un paio di minuti la donna sollevò la testa e di nuovo la viva luce della lampada illuminò il suo volto incantevole. Ordynov trasalì e fece un passo in avanti. Ella aveva già porto la mano al vecchio ed entrambi si avviarono silenziosamente verso l'uscita della chiesa. Le lacrime sgorgavano dai suoi occhi azzurro-scuri, dalle lunghe ciglia abbassate, che risaltavano sul latteo candore del viso, e rigavano le sue gote pallide. Sulle sue labbra aleggiava un sorriso; ma sul suo viso erano visibili le tracce di chissà quale infantile timore e di un misterioso terrore. Ella si stringeva timidamente al vecchio e si vedeva bene come trepidasse tutta per la commozione.
Colpito, sferzato da una sensazione tenace di sconosciuta voluttà Ordynov si avviò rapidamente dietro a loro e sul sagrato della chiesa tagliò loro la strada. Il vecchio lo guardò con un'espressione ostile e severa; ella pure gli gettò uno sguardo, ma senza curiosità e distrattamente, come se un altro, remoto pensiero occupasse la sua mente. Ordynov continuò a seguirli senza nemmeno rendersi conto di quel che faceva. Era ormai sceso il crepuscolo ed egli camminava a una certa distanza. Il vecchio e la giovane donna imboccarono una strada principale, larga e sporca, affollata di popolazione operaia di vario genere, di depositi di farina e di locande, che conduceva direttamente alla porta della città, poi svoltarono in un vicolo lungo e stretto, con lunghe staccionate su entrambi i lati, che andava a terminare contro la parete enorme e annerita di una casa d'affitto a quattro piani, attraverso il doppio ingresso della quale si poteva uscir fuori su un'altra strada anch'essa principale e affollata. Stavano già avvicinandosi alla casa, quando improvvisamente il vecchio si voltò e guardò con impazienza Ordynov. Il giovane si fermò come impietrito; a lui stesso apparve strana quella sua attrazione. Il vecchio si voltò una seconda volta, quasi volesse assicurarsi che la sua minaccia avesse fatto effetto, e poi entrambi, lui e la giovane donna, entrarono attraverso lo stretto portone nel cortile della casa. Ordynov ritornò indietro.
Era nello stato d'animo più spiacevole e si indispettiva con se stesso al pensiero di aver inutilmente perduto la giornata, di essersi inutilmente stancato e, per giunta, di aver concluso con una sciocchezza, attribuendo il significato di una vera e propria avventura a un avvenimento più che banale.
Per quanto quella mattina si fosse indispettito con se stesso per la propria selvatichezza, pure l'istinto gli suggeriva di rifuggire da tutto ciò che, nel mondo esterno, non nel suo mondo interiore, artistico, poteva distrarlo, colpirlo e scuoterlo. Ora pensò con tristezza e con una sorta di pentimento al suo angolo tranquillo; poi lo invasero l'angoscia e la preoccupazione per la sua situazione non risolta e per le seccature che lo attendevano, e, nello stesso tempo, lo infastidì il fatto che simili piccolezze potessero preoccuparlo. Infine, stanco e non più in grado di collegare tra di loro due idee, giunse ormai la sera tardi al suo appartamento e si accorse con meraviglia di esser passato oltre la casa in cui abitava. Stupefatto e scuotendo la testa al pensiero della sua distrazione egli la 22
attribuì alla stanchezza e, salite le scale, entrò finalmente nella sua camera in soffitta. Qui accese la candela e, un momento più tardi, l'immagine di quella donna piangente colpì vividamente la sua immaginazione. L'impressione fu così forte e fiammeggiante, con tale amore il suo cuore rievocò i tratti miti e tranquilli di quel viso sconvolto da una misteriosa commozione e dal terrore, bagnato di lacrime di entusiasmo o di infantile pentimento, che i suoi occhi si annebbiarono e gli sembrò che il fuoco gli corresse per tutte le membra. Ma la visione non durò a lungo. L'entusiasmo lasciò il posto prima alla riflessione, poi all'irritazione, infine a una sorta di rabbia impotente; senza spogliarsi egli si avvolse in una coperta e si gettò sul suo duro giaciglio...
Ordynov si svegliò ormai abbastanza tardi la mattina dopo, in uno stato d'animo irritato, pavido e depresso, si preparò in fretta, cercando quasi con sforzo di pensare alle sue preoccupazioni impellenti, e si avviò nella direzione opposta a quella della sua passeggiata del giorno prima; Infine riuscì a trovare un alloggio da qualche parte, nella stanzetta di un povero tedesco soprannominato Špis, che viveva assieme alla sua figliuola Tinchen. Spis, non appena ebbe ricevuto la caparra, staccò subito il cartellino inchiodato sul portone e, dopo aver chiamato gli altri pigionanti, lodò Ordynov per il suo amore per la scienza e promise che si sarebbe messo seriamente a studiare assieme a lui. Ordynov disse che avrebbe traslocato verso sera. Di lì si avviò verso casa, ma cambiò idea e svoltò nella direzione opposta; si sentiva di nuovo energico e sorrise dentro di sé della propria curiosità. La strada per l'impazienza gli parve estremamente lunga, ma infine arrivò alla chiesa dove era stato la sera prima. Stavano celebrando la messa. Egli si scelse un posto dal quale poteva vedere praticamente tutti i fedeli; ma quelli che cercava non c'erano. Dopo aver atteso a lungo usci arrossendo. Reprimendo tenacemente dentro di sé non so quale involontario sentimento, egli tentava con ostinazione e con sforzo di mutare il corso dei propri pensieri. Riflettendo sulle sue faccende quotidiane, si sovvenne che era ora di pranzare e, accorgendosi di avere veramente fame, entrò in quella stessa trattoria dove aveva pranzato il giorno prima. Più tardi non ricordava nemmeno come ne fosse uscito. Errò a lungo e inconsapevolmente per le vie, passando per vicoli affollati e solitari, e, infine, capitò in un angolo remoto dove ormai non c'era più la città e si stendeva un prato ingiallito; si riscosse colpito dalla sensazione nuova, a lui da tanto tempo sconosciuta, che provocava in lui il silenzio assoluto. Era una giornata secca e gelida, come non di rado accade a Pietroburgo in ottobre. Poco lontano sorgeva una casupola; accanto ad essa c'erano due cumuli di fieno; un piccolo cavallo dalle costole sporgenti era ritto senza finimenti, con la testa abbassata e il labbro pendente, accanto a un calesse a due ruote, come se stesse meditando. Un cane da cortile accanto a una ruota rotta rosicchiava ringhiando un osso, mentre un bambino di tre anni coperto soltanto di una camiciola, grattandosi la testa bianca e lanuginosa, guardava meravigliato il solitario intruso cittadino. Dietro la casupola si stendevano orti e campi. Lungo l'estremità del cielo azzurro nereggiava il bosco, mentre dal lato opposto avanzavano nel cielo nivee nubi arruffate, come cacciando davanti a sé uno stormo di uccelli di passo che, senza grida, in fila l'uno dietro l'altro, attraversavano il cielo. Tutto era silenzioso e, per così dire, solennemente malinconico, pieno di un'attesa palpitante e nascosta... Ordynov si sarebbe inoltrato sempre più nei campi, ma quel deserto lo opprimeva. Tornò sui suoi passi, verso la città dalla quale improvvisamente risuonò un fitto suono di campane che chiamavano i fedeli alla funzione serale. Egli affrettò i passi e poco dopo entrò nuovamente nel tempio che conosceva così bene dal giorno precedente.
La sua sconosciuta era già lì.
Era inginocchiata proprio vicino all'ingresso in mezzo alla folla dei fedeli in preghiera.
Ordynov si fece strada attraverso la folta folla di mendicanti, di vecchiette coperte di stracci, di malati e di storpi in attesa delle elemosine presso le porte del tempio, e si inginocchiò accanto alla sconosciuta. Il suo abito sfiorava la veste di lei ed egli udiva il respiro affannoso che usciva dalle sue labbra che mormoravano una fervida preghiera. I tratti del suo viso erano sempre animati da un sentimento di infinita devozione e di nuovo le lacrime scorrevano e si seccavano sulle sue guance ardenti, come a lavare qualche orrendo delitto. Nel luogo dove si trovavano regnava una perfetta oscurità e solo a tratti la fioca fiammella di una lampada votiva agitata dal vento che penetrava attraverso un'angusta finestrella aperta illuminava di un chiarore tremolante il volto di lei, ogni 23
lineamento del quale si scolpiva nella memoria del giovane offuscandogli la vista e lacerandogli il cuore con una pena sorda e intollerabile. Ma in quella sofferenza era racchiusa una sorta di frenetica ebbrezza. Alla fine egli non riuscì più a resistere; tutto il suo petto cominciò a un tratto a sussultare e a spasimare in uno slancio di ignota tenerezza ed egli, scoppiando in singhiozzi, si prosternò fino a toccare con la fronte infuocata il freddo piancito di legno della chiesa. Non udiva e non sentiva nulla all'infuori della fitta che gli serrava il cuore palpitante di dolci spasimi.
Era stata la solitudine a sviluppare quell'esasperata impressionabilità, inerme e indifesa, del suo sentimento? O era stato nell'esasperante, soffocante, disperato silenzio delle lunghe notti insonni, che si era preparata tra gli slanci inconsapevoli e gli impazienti sussulti dell'animo, questa condizione esplosiva del cuore, pronta, infine, a saltare in aria, oppure ad effondersi? Ad essa doveva accadere come quando, improvvisamente, in un giorno torrido e afoso tutto il cielo d'un tratto si oscura e un temporale inonda d'acqua e di fuoco la terra assetata appendendo perle di pioggia ai rami smeraldini, gualcendo l'erba, i campi, abbattendo a terra le tenere corolle dei fiori, acciocché, poi, ai primi raggi del sole, tutto di nuovo riprenda vita e slancio sollevandosi incontro ad esso ed esalando solennemente al cielo il suo sontuoso, dolce incenso, gioendo e rallegrandosi della propria vita rinnovata... Ma Ordynov non sarebbe stato neppure in grado in quel momento di pensare a ciò che stava avvenendo in lui: a stento egli aveva coscienza di sé...
Egli quasi non si accorse che la funzione era terminata e ritornò in sé solo mentre si faceva strada seguendo la sua sconosciuta attraverso la folla che faceva ressa alla porta. A tratti egli incontrava il suo sguardo stupito e luminoso. Arrestandosi ogni momento a causa della gente che stava uscendo, ella si voltò ripetutamente verso di lui; si vedeva come il suo stupore aumentasse sempre più e, d'un tratto, ella arrossì tutta come illuminata da una vampata. In quell'istante, all'improvviso, spuntò dalla folla il vecchio del giorno prima e la prese per mano. Ordynov incontrò di nuovo il suo sguardo irritato e beffardo e una strana rabbia improvvisamente invase il suo cuore.
Alla fine egli li perse di vista nell'oscurità; allora, con uno sforzo sovrumano, si gettò in avanti ed uscì dalla chiesa. Ma la fresca aria della sera non ebbe il potere di rinfrescarlo: il respiro gli rimaneva imprigionato e compresso nel petto e il cuore prese a battergli lentamente e violentemente, come se volesse balzargli fuori dal petto. Alla fine si rese conto di aver veramente perduto di vista i suoi sconosciuti; di essi ormai non c'era più traccia né nella via, né nel vicolo.
Nella testa di Ordynov, però, era già apparso un pensiero, aveva già preso forma uno di quei piani strani e risolutivi, che, benché pazzeschi, in compenso quasi sempre riescono e vanno a segno in simili casi; il giorno successivo, alle otto del mattino, egli raggiunse quella casa dalla parte del vicolo ed entrò nell'angusto, sudicio e fangoso cortile posteriore, una specie di immondezzaio. Il custode, che era intento a fare non so che cosa nel cortile, si fermò, appoggiò il mento sul manico della pala, squadrò Ordynov dalla testa ai piedi e gli chiese che cosa volesse.
Il custode era un giovanotto di circa venticinque anni con un volto straordinariamente vecchio e grinzoso, piccolo di statura, un tartaro.
«Cerco alloggio», rispose con impazienza Ordynov.
«Di che genere?», domandò il custode con un sogghigno. Guardava Ordynov come se fosse al corrente di tutta la sua faccenda.
«Una camera in subaffitto», rispose Ordynov.
«Nell'altro cortile non ce ne sono», rispose enigmaticamente il custode.
«E qui?».
«Qui neppure». E a questo punto il custode diede di nuovo di piglio alla pala.
«Forse qualcuno me l'affitterà», disse Ordynov porgendo al custode una moneta da dieci copeche.
Il tartaro lanciò un'occhiata a Ordynov, prese la moneta, poi diede di nuovo di piglio alla pala e dopo un attimo di silenzio dichiarò che «no, niente alloggio». Ma il giovane non lo stava più ascoltando e si era incamminato sulle assi putride e traballanti gettate sopra la pozzanghera verso l'unico ingresso che dall'ala della casa dava su questo cortile, un ingresso nero, sudicio, fangoso che sembrava annegare nella pozzanghera. Al piano inferiore era installato un povero fabbricante di 24
bare. Dopo esser passato accanto alla sua pittoresca bottega, Ordynov salì al piano superiore per una scala a chiocciola mezza rotta e scivolosa, tastò nel buio una spessa e rozza porta ricoperta di stuoie lacere, trovò la maniglia e la socchiuse. Non si era sbagliato. Davanti a lui era ritto il vecchio che conosceva, il quale lo fissava intento e con estremo stupore.
«Che vuoi?», gli domandò parlando a scatti e quasi sussurrando.
«Ci sarebbe un alloggio? ... », domandò a sua volta Ordynov, quasi dimentico di tutto quello che voleva dire. Dietro le spalle del vecchio aveva scorto la sua sconosciuta.
Il vecchio senza rispondere cominciò a richiudere la porta spingendo fuori Ordynov.
«L'alloggio c'è», risuonò d'improvviso la carezzevole voce della giovane donna.
Il vecchio lasciò la porta.
«Mi occorre un angolo», disse Ordynov, entrando in fretta nella stanza e rivolgendosi alla bella giovane.
Ma subito si arrestò sbalordito, come inchiodato a terra, guardando i suoi futuri padroni di casa; sotto i suoi occhi si stava svolgendo una straordinaria scena muta. Il vecchio era pallido come un morto, come se stesse per perdere i sensi. Egli fissava la donna con uno sguardo plumbeo, immobile, penetrante. Anche lei dapprima impallidì, ma poi tutto il sangue le affluì al viso e i suoi occhi scintillarono stranamente. Ella condusse Ordynov nello stambugio adiacente.
Tutto l'appartamento consisteva di un'unica stanza abbastanza ampia, suddivisa in tre parti per mezzo di due divisori; dall'andito si entrava direttamente in un angusto e buio corridoio, in faccia una porta dava oltre il divisorio in quella che, evidentemente, doveva essere la stanza da letto dei padroni. A destra, attraverso il corridoio, si accedeva a una stanza che veniva data in affitto.
Questa era stretta, schiacciata dal divisorio contro due basse finestre. Tutto lo spazio era occupato e ingombrato dagli oggetti indispensabili a ogni soggiorno; tutto era povero, angusto, ma, nella misura del possibile, pulito. Il mobilio era composto da un semplice tavolo bianco, da due semplici sedie e da una cassapanca lungo due delle pareti. Una grande icona antica con una corona dorata era appoggiata su una mensola in un angolo e davanti a essa ardeva una lampada. Nella camera che veniva affittata e, in parte, nel corridoio, si ergeva un'enorme, goffa stufa russa. Era chiaro che in un appartamento del genere era impossibile vivere in tre.
Si misero a prendere gli accordi, ma in maniera sconclusionata e comprendendosi a stento.
Ordynov a due passi di distanza sentiva come batteva il suo cuore; egli vedeva come lei tremasse tutta per l'agitazione e come di paura. Finalmente riuscirono in qualche modo a mettersi d'accordo.
Il giovane dichiarò che avrebbe subito traslocato e guardò il padrone di casa. Il vecchio era ritto sulla porta sempre pallido; ma un sorriso quieto, persino pensieroso, spuntava sulle sue labbra.
Incontrando lo sguardo di Ordynov egli aggrottò nuovamente le ciglia.
«Hai il passaporto?», domandò improvvisamente parlando a scatti e ad alta voce mentre gli apriva la porta che dava sull'andito.
«Sì!», rispose Ordynov, leggermente sconcertato.
«Chi sei, tu?».
«Vasìlij Ordynov, nobile, non sono in servizio, mi occupo di faccende mie», rispose facendo il verso al vecchio.
«E io pure», rispose il vecchio. «Io sono Il'jà Murin, borghese; ti basta? Vattene ... ».
Un'ora dopo Ordynov si trovava già nel suo nuovo alloggio, con grande sorpresa sua e del tedesco, il quale, assieme alla mite Tinchen, cominciava ormai a sospettare che l'inquilino che gli era capitato lo avesse ingannato. Ordynov stesso non riusciva a capire come tutto ciò fosse avvenuto, e neppure voleva capirlo...
II
Il suo cuore batteva così forte che gli si oscurava la vista e gli girava la testa.
Macchinalmente si mise a sistemare nel nuovo alloggio i suoi poveri averi, slegò il fagotto che conteneva svariate cose indispensabili, aprì il baule coi libri e cominciò a disporli sul tavolo; ma 25
presto gli caddero le braccia. Ogni momento gli balenava davanti agli occhi l'immagine della donna, l'incontro con la quale aveva sconvolto e scosso tutta la sua esistenza, l'immagine che riempiva il suo cuore di una tale incontenibile, spasmodica estasi: tanta felicità aveva fatto irruzione di colpo nella sua squallida esistenza, che i suoi pensieri si confondevano e gli mancava il fiato per l'angoscia e il turbamento. Nella speranza di vederla, prese il suo passaporto e lo portò al padrone di casa, ma Murin socchiuse appena la porta, prese il documento, gli disse: «Bene, vivi in pace», e si rinchiuse nuovamente nella sua camera. Un sentimento sgradevole invase Ordynov. Non sapeva perché, ma la vista di quel vecchio gli era divenuta odiosa. Nel suo sguardo c'era qualcosa di sprezzante e di astioso. Ma quella sensazione spiacevole ben presto si dissolse. Era ormai il terzo giorno che Ordynov viveva in una sorta di turbine in confronto alla quiete della sua vita antecedente; ma non era in grado di riflettere e ne aveva anzi paura. Tutta la sua esistenza era uscita dai binari ed era stata messa sottosopra; avvertiva sordamente che tutta la sua vita era come spaccata in due; un'unica aspirazione, un'unica attesa lo dominavano e nessun altro pensiero lo turbava.
Perplesso tornò nella sua stanza. Lì, accanto alla stufa, sulla quale si cucinava, era affaccendata una vecchietta minuscola e tutta curva, così sudicia e coperta di stracci così ripugnanti che metteva pena a guardarla. Aveva un'aria assai rabbiosa e, a tratti, brontolava biascicando con le labbra sotto il naso. Era la domestica dei padroni. Ordynov tentò di attaccar discorso con lei, ma ella rimase muta, evidentemente perché maldisposta. Venne infine l'ora di pranzo; la vecchia tolse dalla stufa gli sc i, dei pirogì e della carne di manzo e portò tutto ai padroni. Le stesse cose servì a Ordynov. Terminato il pranzo, nell'appartamento scese un silenzio di morte.
Ordynov prese in mano un libro e lo sfogliò a lungo cercando di afferrare il significato di quello che aveva già riletto varie volte. Spazientito gettò il libro e provò di nuovo a mettersi a riordinare le sue cose; infine prese il berretto, indossò il mantello e uscì in strada. Camminando a caso, senza badare a dove andava, si sforzava continuamente, per quanto gli era possibile, di concentrarsi, di rimettere ordine tra i suoi pensieri frammentari e di riflettere un po' sulla sua situazione. Ma quello sforzo si tramutava per lui in una sofferenza, in una tortura. Alternatamente era preso da brividi di freddo e da vampate di calore e, a tratti, il cuore cominciava a battergli così forte che era costretto a fermarsi e ad appoggiarsi al muro. «No, meglio la morte», pensava, «meglio la morte», mormorava con labbra ardenti e tremanti, senza rendersi conto di quel che diceva.
Camminò assai a lungo; infine, accorgendosi di essersi inzuppato fino alle ossa e avvedendosi per la prima volta che stava piovendo a dirotto, si diresse verso casa. Non lontano da casa scorse il custode. Gli parve che il tartaro lo fissasse per qualche istante intensamente e con curiosità e poi, accorgendosi di essere stato visto, riprendesse per la sua strada.
«Salve», disse Ordynov raggiungendolo. «Come ti chiami?». «Mi chiamo custode», rispose questi sogghignando.
«Fai il custode qui da molto tempo?».
«Sì, da molto tempo».
«Il mio padrone di casa è un borghese?». «Sarà un borghese, se ha detto così».
«Che cosa fa?».
«È malato; campa, prega Dio, ecco cosa fa». «Lei è sua moglie?».
«Quale moglie?».
«Quella che vive con lui».
«Sarà sua moglie, se ha detto così. Addio signore».
Il tartaro si toccò il colbacco ed entrò nel suo stambugio.
Ordynov salì nel suo alloggio. La vecchia biascicando e brontolando qualcosa tra di sé gli aprì la porta, la richiuse col chiavistello e poi si arrampicò di nuovo sulla stufa dove trascorreva quel che le restava della sua vita. Calava ormai il crepuscolo. Ordynov andò a cercare del fuoco e si avvide che la porta della stanza dei suoi padroni era chiusa con un lucchetto. Chiamò la vecchia la quale, appoggiandosi su un gomito, lo osservava dalla stufa con sguardo vigile, chiedendosi, pareva, cosa andasse mai cercando vicino alla porta dei padroni. Questa, in silenzio, gli gettò giù un 26
pacchetto di fiammiferi. Egli ritornò nella sua stanza e si mise di nuovo, per la centesima volta, a riordinare le sue cose e i suoi libri. Ma, a poco a poco, senza rendersi ben conto di quello che faceva, si lasciò andare su una delle panche e gli parve di addormentarsi. A tratti egli ritornava in sé e intuiva che in realtà il suo non era un vero sonno, ma una sorta di penoso, morboso torpore. Udì aprirsi e sbattere la porta e capì che i suoi padroni erano ritornati dalla funzione serale. Allora gli venne in mente che bisognava che si recasse da loro per qualche motivo. Si alzò, e gli parve di avviarsi da loro, ma inciampò e cadde sopra un mucchio di legna che la vecchia aveva raccolto in mezzo alla camera. A questo punto perse del tutto conoscenza e, quando riaprì gli occhi dopo lungo tempo, si avvide con stupore di essere sdraiato sulla stessa panca nella stessa posizione In cui era prima, vestito, e che sopra di lui, con tenera premura, era chino un volto di donna, stupendamente bello e tutto bagnato, gli parve, di silenziose lacrime materne. Sentì che gli mettevano un cuscino sotto la testa, che gli mettevano addosso qualcosa di caldo e che una tenera mano si posava sulla sua fronte ardente. Avrebbe voluto esprimere la sua riconoscenza, avrebbe voluto prendere quella mano, accostarla alle labbra riarse, bagnarla di lacrime e baciarla, baciarla per un'intera eternità.
Avrebbe voluto dire tante cose, ma che cosa, egli stesso non lo sapeva; provò il desiderio di morire in quell'istante. Ma le sue mani erano come di piombo e non riusciva a muoverle; era tutto come intorpidito e avvertiva soltanto il sangue scorrere veloce attraverso tutte le sue vene come sollevandolo al di sopra del letto. Qualcuno gli diede da bere dell'acqua... Alla fine cadde in deliquio.
Si svegliò il mattino successivo verso le otto. Il sole gettava un fascio di raggi dorati attraverso le finestre verdi e ammuffite della sua camera; un ignoto sentimento di gioia pervadeva dolcemente tutte le membra del malato. Egli era tranquillo e quieto, infinitamente felice. Gli pareva che ci fosse qualcuno accanto al suo capezzale. Si risvegliò cercando con sollecitudine attorno a sé quell'essere invisibile; avrebbe voluto abbracciare quella persona amica e dirle per la prima volta in vita sua: «Salve, buon giorno a te, cara».
«Come dormi a lungo!», disse una dolce voce femminile.
Ordynov aprì gli occhi e su di lui si chinò con un sorriso cordiale e luminoso come il sole il volto della sua bella padrona di casa.
«Quanto a lungo sei stato malato», diceva, «ora basta, alzati; perché rimani lì come in prigione? La libertà è più dolce del pane e più bella del sole! Alzati, colombo mio, alzati».
Ordynov afferrò e strinse forte la sua mano. Gli pareva di stare ancora sognando.
«Aspetta, ti ho preparato il tè; vuoi del tè? Prendilo, ti farà bene. Anch'io sono stata malata e lo so».
«Sì, dammi da bere», disse Ordynov con voce debole e si alzò in piedi. Era ancora molto stanco. I brividi gli correvano per la schiena e gli facevano male tutte le membra come se fossero state rotte. Ma nel suo cuore c'era una sensazione luminosa e gli pareva che i raggi del sole gli infondessero una gioia chiara e solenne. Sentiva che per lui era cominciata una vita nuova, forte, mai immaginata prima. Cominciò a girargli lievemente la testa.
«Ti chiami Vasìlij, non è vero?», gli chiese lei. «Se non ho sentito male, il padrone ti ha chiamato così ieri».
«Sì, Vasìlij. E tu come ti chiami?», chiese Ordynov, avvicinandosi a lei reggendosi in piedi a malapena. Egli barcollò. Lei lo afferrò per le mani scoppiando a ridere.
«Io mi chiamo Katerina», replicò, fissandolo con i suoi grandi e limpidi occhi azzurri. Si tenevano a vicenda per le mani.
«Mi vuoi dire qualcosa?», proferì lei finalmente.
«Non lo so», rispose Ordynov mentre la vista gli si annebbiava.
«Guarda in che stato sei. Basta, colombo mio, basta; non darti pena, non sforzarti; siediti qui a tavola, al sole; stattene lì tranquillo e non venirmi dietro», aggiunse lei vedendo che il giovane faceva un movimento quasi volesse trattenerla, «verrò io da te tra un istante; avrai tempo di guardarmi a sazietà». Un attimo dopo ella portò il tè, lo depose sulla tavola e si sedette dirimpetto a lui.
«Ecco, bevi», disse. «Ti fa male la testa?».
«No, adesso non mi fa male», rispose lui. «Non so, però, forse mi fa anche male... non voglio... basta, basta!... Non so che cos'ho», proseguì ansimando e riuscendo, infine, a prenderle la mano, «resta qui, non allontanarti da me; dammi, dammi ancora la tua mano... Mi si annebbia la vista; quando ti guardo è come se guardassi il sole», disse lui come se si strappasse dal cuore ogni parola, col fiato mozzato dall'emozione con la quale le pronunciava. I singhiozzi gli serravano la gola.
«Poverino! Si vede che non hai avuto accanto a te una persona buona. Sei solo e abbandonato; non hai parenti?».
«Non ho nessuno; sono solo... ma non fa niente, pazienza! Ora sto meglio... ora sto bene!», disse Ordynov come nel delirio. Gli sembrava che la stanza gli girasse attorno.
«Anch'io per molti anni non ho visto nessuno. Mi guardi in una maniera tale ... », proferì lei dopo un attimo di silenzio.
«Perché? Come?».
«Come se i miei occhi ti riscaldassero! Sai quando si ama qualcuno... Sin dalle tue prime parole ti ho accolto nel mio cuore. Se ti ammalerai ancora ti curerò. Ma tu cerca di non ammalarti, no. Quando ti rimetterai vivremo come fratello e sorella. Vuoi? È difficile, si sa, procurarsi una sorella, se Dio non te ne ha dato una per nascita».
«Chi sei? Di dove vieni?», domandò Ordynov con un fil di voce.
«Non sono di qui... che t'importa? Sai, raccontano che dodici fratelli vivevano in una buia foresta e che in quella foresta si smarrì un giorno una bella fanciulla. Essa entrò nella loro casa e rassettò ogni loro cosa, prodigando a tutti il proprio amore. Tornarono a casa i fratelli e si accorsero che quel giorno era stata loro ospite una sorella. Si misero allora a chiamarla ed ella si mostrò loro.
Tutti la trattarono come una sorella, le diedero la libertà e la trattarono come una loro pari. La conosci la favola?».
«La conosco», mormorò Ordynov.
«La vita è bella; ti piace stare a questo mondo?».
«Sì, sì; vorrei vivere un secolo, vorrei vivere a lungo», rispose Ordynov.
«Non so», replicò pensierosamente Katerina, «Io desidererei anche morire. È una cosa buona amare la vita, amare le persone buone, sì... Guardati, sei diventato di nuovo bianco come la farina!».
«Sì, mi gira la testa ... ».
«Aspetta, ti porterò qui le mie lenzuola e le mie coperte e un cuscino, un altro; ti preparerò il letto qui. Ti addormenterai, sognerai di me e il male se ne andrà. Anche la nostra vecchia è ammalata ... ».
Ella continuò a parlare mentre preparava il letto, ogni tanto voltandosi a guardare con un sorriso Ordynov al di sopra della spalla.
«Quanti libri hai!», esclamò spostando la cassa.
Ella gli si avvicinò, gli prese la mano destra, lo condusse al letto, lo fece coricare e lo ricoprì con la coperta.
«Dicono che i libri guastino l'uomo», aggiunse poi pensierosa scuotendo la testa. «Ti piace leggere quel che c'è scritto nei libri?».
«Sì», rispose Ordynov senza rendersi conto se stesse sognando oppure no e stringendo più forte la mano di Katerina per convincersi che non stava sognando.
«Il mio padrone ha molti libri, vedessi quali! Dice che sono libri divini. Mi legge sempre qualcosa. Poi te li mostrerò; mi spiegherai poi che cosa mi legge?».
«Te lo spiegherò», sussurrò Ordynov senza staccare lo sguardo da lei.
«Ti piace pregare?», gli domandò lei dopo un momento di silenzio. «Sai una cosa? Io ho sempre paura, ho sempre paura...».
Ella non terminò la frase, sembrava che stesse riflettendo su qualche cosa. Ordynov, finalmente, si portò la mano di lei alle labbra.
«Perché baci la mia mano?». (E le sue gote arrossirono leggermente). «Ecco, baciala», proseguì ridendo e porgendogli entrambe le mani; poi ne liberò una e la accostò alla sua fronte ardente cominciando poi a lisciargli e ad accarezzargli i capelli. Ella arrossiva sempre più; infine si sedette sul pavimento accanto al suo letto e appoggiò la sua guancia contro la guancia di lui; il suo respiro tiepido e umido gli sfiorava il viso... Improvvisamente Ordynov sentì che lacrime ardenti sgorgavano copiosamente dagli occhi di lei e cadevano come gocce di piombo fuso sulle sue guance. Egli si sentiva sempre più debole e non era già più in grado di sollevare la mano. In quell'istante si udì bussare alla porta e il rumore del chiavistello. Ordynov sentì anche il padrone di casa entrare nella stanza al di là del divisorio. Egli sentì poi che Katerina si alzava, senza fretta e senza scomporsi, e prendeva i propri libri; la sentì poi fargli il segno della croce prima di andarsene e chiuse gli occhi. D'improvviso un ardente, lungo bacio si posò sulle sue labbra riarse e fu come se gli avessero piantato un coltello nel cuore. Emise un debole grido e perse i sensi...
Ebbe poi inizio per lui una strana vita.
A tratti, in qualche attimo di confusa consapevolezza, balenava nella sua mente l'idea di essere condannato a vivere in una sorta di lungo, interminabile sogno, pieno di strane e sterili inquietudini, di lotta e di sofferenze. Atterrito si sforzava di insorgere contro l'esiziale fatalismo che lo opprimeva, ma nel momento in cui la lotta era più tesa e disperata una forza sconosciuta si abbatteva di nuovo su di lui ed egli sentiva, avvertiva chiaramente che perdeva di nuovo la conoscenza, che di nuovo un invalicabile, sterminato abisso di tenebre si spalancava davanti a lui ed egli vi sprofondava con un lamento di angoscia e di disperazione. A volte sopravvenivano fulminei istanti di intollerabile, annichilante felicità, quando la vitalità si intensifica fino allo spasimo in ogni componente dell'uomo, si fa chiaro il passato, risuona di una trionfale gaiezza il luminoso attimo presente e si sogna a occhi aperti l'ignoto avvenire; quando una speranza inesprimibile cade sull'anima come una rugiada vivificatrice; quando si prova il desiderio di gridare per la gioia; si sente che la carne non può resistere a un tale impeto di impressioni e che si spezza il filo dell'esistenza, e quando, nello stesso tempo, ci si rallegra con la propria vita per il suo rinnovamento e la sua resurrezione. A tratti invece ricadeva nel sopore e allora tutto quello che gli era accaduto negli ultimi giorni si ripeteva di nuovo e passava attraverso la sua mente come uno sciame di impressioni confuso e tumultuante; ma quella visione gli si presentava con un aspetto strano ed enigmatico. Certe volte il malato si dimenticava di quello che gli era accaduto e si meravigliava di non trovarsi ancora nel vecchio appartamento, presso la sua vecchia padrona di casa. Egli si meravigliava che la vecchietta non si avvicinasse, come era sempre solita fare all'ora del crepuscolo, alla stufa che si spegneva che, a tratti, inondava d'intermittenti bagliori tutto l'angolo oscuro della stanza, e non si scaldasse, secondo la sua abitudine, le mani ossute e tremolanti alla fiamma morente, sempre chiacchierando e borbottando tra sé e sé e solo di rado gettando uno sguardo perplesso su di lui, su quel suo strambo pigionante che riteneva uscito di senno per esser rimasto troppo a lungo chino sul libri. Altre volte ricordava di aver cambiato alloggio, ma come ciò fosse avvenuto, che cosa gli fosse accaduto e perché avesse dovuto traslocare lo ignorava, sebbene tutto il suo spirito venisse meno per l'incessante, incontrollabile slancio verso qualcosa... Ma verso che cosa? Che cosa lo chiamava e lo tormentava e chi aveva gettato in lui quell'insostenibile fiamma che soffocava e divorava tutto il suo sangue? Neppure questo lo sapeva né lo ricordava.
Spesso egli cercava avidamente di afferrare con le mani qualche ombra, spesso gli pareva di udire un fruscio di passi vicini e lievi accanto al suo letto e un mormorio, dolce come una musica, di parole carezzevoli pronunciate da qualcuno; il respiro di qualcuno, umido e affannoso, sfiorava il suo volto e tutto il suo essere era scosso dall'amore; le lacrime ardenti di qualcuno bruciavano le sue gote fiammeggianti e, all'improvviso, un bacio lungo e tenero si imprimeva sulle sue labbra; allora la sua vita si struggeva in un tormento inestinguibile; pareva che tutto l'essere, che tutto l'universo, si arrestasse per interi secoli attorno a lui e che una lunga, millenaria notte si stendesse su tutto...
Talvolta era come se fossero ritornati per lui i teneri, placidi anni della prima infanzia, con la loro luminosa allegria, con la loro inestinguibile felicità, con il primo, voluttuoso stupore davanti alla vita, con gli sciami di spiritelli luminosi che volavano fuori da sotto ogni fiore che coglieva, che 29
giocavano con lui sul verde e folto prato davanti alla casetta circondata dalle acacie, che gli sorridevano dal lago di cristallo che si stendeva a perdita d'occhio, sulla riva del quale egli rimaneva seduto per ore intere ad ascoltare il rumore delle onde e il frullare delle ali attorno a lui, che amorosamente cullavano con sogni luminosi, iridescenti, la sua piccola culla, quando sua madre, chinandosi su di essa, gli faceva il segno della croce, lo baciava e gli cantava piano-piano una ninna-nanna nelle lunghe, placide notti. Ma a questo punto, all'improvviso, appariva un essere che lo turbava incutendogli un terrore non infantile, infondendo nella sua vita il primo, lento veleno del dolore e delle lacrime; egli avvertiva confusamente che l'ignoto vecchio reggeva nelle sue mani tutti i suoi anni a venire, e, tremante, non riusciva a distogliere gli occhi da lui. Il malvagio vecchio lo seguiva ovunque. Spuntava facendogli cenni ingannevoli da ogni cespuglio del bosco, lo derideva e lo beffeggiava, si incarnava in ogni pupazzo del bambino, facendogli smorfie e sghignazzando tra le sue mani come un malvagio, perfido gnomo; aizzava contro di lui ciascuno dei suoi spietati compagni di scuola, oppure, sedendosi con i bimbi sulla panca della scuola, faceva capolino da sotto ogni lettera della sua grammatica facendogli sberleffi. Poi, quando dormiva, il vecchio malvagio si sedeva al suo capezzale... Egli aveva scacciato lo sciame degli spiritelli luminosi che facevano frullare le loro ali dorate e di zaffiro attorno alla sua culla, gli aveva portato via per sempre la sua povera madre, e, per notti intere, aveva cominciato a sussurrargli una lunga, straordinaria favola, incomprensibile per il suo cuore di fanciullo, ma che lo straziava e lo sconvolgeva incutendogli un terrore e una tensione non infantili. Ma il vecchio malvagio non badava ai suoi singhiozzi e alle sue preghiere e continuava a parlargli finché egli non cadeva nel torpore e non smarriva i sensi. Poi il bimbo si risvegliava improvvisamente uomo; anni interi erano passati sopra di lui inavvertitamente. D'un tratto egli prendeva coscienza della sua reale situazione, d'un tratto cominciava a capire di essere solo ed estraneo a tutto il mondo, solo in casa altrui, fra gente misteriosa e sospetta, fra nemici che di continuo si radunavano a confabulare negli angoli della sua buia stanza, facendo cenno alla vecchia che, accoccolata accanto al fuoco, si riscaldava le mani vecchie e decrepite indicandolo. Egli cadeva in uno stato di confusione e di allarme; avrebbe continuamente voluto scoprire chi fosse quella gente, per quale motivo essi fossero lì, perché lui stesso si trovasse in quella stanza, e indovinava di essere capitato in qualche oscuro covo di malfattori, attratto da una forza potente e sconosciuta, senza aver capito prima chi e quali fossero gli inquilini e chi fossero esattamente i suoi padroni di casa. Cominciava a torturarlo il sospetto e, improvvisamente, nell'oscurità della notte, ricominciava la bisbigliante, interminabile favola, e la raccontava piano, con voce quasi impercettibile, fra di sé, una vecchia sconosciuta, dondolando malinconicamente la testa canuta davanti al fuoco morente. Ma - e il terrore lo afferrava di nuovo -
la fiaba prendeva corpo davanti a lui in volti e forme. Vedeva come tutto, cominciando dai confusi sogni infantili, tutti i suoi pensieri e le sue aspirazioni, tutto ciò che aveva vissuto nel corso della sua vita, tutto ciò che aveva letto nel libri, tutto ciò di cui da lungo tempo si era dimenticato, tutto si animava, si ricomponeva, si incarnava, sorgeva davanti a lui in forme e immagini colossali, muovendosi e sciamando attorno a lui; vedeva stendersi davanti a lui magici, lussureggianti giardini, sorgere e crollare sotto i suoi occhi intere città, interi cimiteri mandargli i loro morti che ritornavano a vivere, stirpi e popoli interi giungere, nascere e perire sotto i suoi occhi, vedeva infine, ora, ogni suo pensiero, ogni sua vaga fantasticheria prendere corpo intorno al suo letto di dolore quasi nell'istante stesso in cui veniva concepita; come, infine, egli non pensava con idee incorporee, ma con interi mondi, con interi creati; come veniva trasportato simile a un granello di polvere attraverso tutto quello sconfinato, strano, interminabile mondo e come tutta quella vita lo schiacciasse, lo opprimesse con la sua tumultuosa indipendenza, e lo perseguitasse con la sua eterna, infinita ironia; egli si sentiva morire, disintegrarsi in polvere e in cenere, senza resurrezione, nel secoli dei secoli; avrebbe voluto fuggire, ma non vi era angolo al mondo dove potesse rifugiarsi.
Infine, in un accesso di disperazione, egli raccolse tutte le sue forze, lanciò un grido e si risvegliò...
Era tutto inondato di freddo, gelido sudore. Attorno a lui regnava un silenzio di morte; era notte fonda. Ma gli sembrava ancora che da qualche parte continuasse la sua straordinaria favola, che la voce stridula di qualcuno realmente incominciasse un lungo racconto su un argomento che gli 30
pareva familiare. Sentiva narrare di oscure foreste, di certi arditi briganti, di un certo giovane audace, forse addirittura di Sten'ka Razin in persona, degli allegri alatori ubriaconi, di una bella fanciulla e della madre Volga. Non era dunque una favola? Sentiva davvero tutto ciò nella realtà?
Per un'ora intera egli rimase disteso, con gli occhi aperti, senza muovere neppure un dito, immerso in un penoso torpore. Infine si alzò con cautela e con gioia avvertì in sé il vigore che la grave malattia non aveva esaurito. Il delirio era passato, ricominciava la realtà. Si accorse di essere ancora vestito come durante il colloquio con Katerina e che, di conseguenza, non era passato molto tempo da quella mattina in cui ella lo aveva lasciato. Il fuoco della decisione gli corse per le vene.
Macchinalmente cercò con le mani il grande chiodo piantato chissà a quale scopo in alto nel divisorio a ridosso del quale gli avevano preparato il letto, si afferrò ad esso e in qualche modo si sollevò fino alla fessura dalla quale filtrava nella sua stanza un quasi impercettibile raggio di luce.
Avvicinò l'occhio all'apertura e si mise a guardare trattenendo il fiato per l'agitazione.
Nell'angolo del bugigattolo dei padroni c'era un letto, davanti al letto un tavolo coperto da un tappeto e ingombro di libri antichi, di grande formato, con rilegature che assomigliavano a quelle dei libri di chiesa. In un altro angolo c'era una icona, anch'essa antica come quella che stava nella sua camera, davanti a cui ardeva una lampada. Sul letto giaceva il vecchio Murin, ammalato, spossato dalle sofferenze, pallido come un cencio, avviluppato in una coltre di pelliccia. Sulle sue ginocchia c'era un libro aperto. Sulla panca accanto al letto era coricata Katerina con un braccio sul petto del vecchio e la testa posata sulla sua spalla. Ella lo guardava con occhi intenti, colmi di infantile stupore, e sembrava che ascoltasse ciò che le raccontava Murin con intensa curiosità, trepidando per l'attesa. A tratti la voce del narratore si innalzava, l'animazione si rifletteva sul suo volto pallido, egli aggrottava le ciglia, i suoi occhi scintillavano e Katerina pareva impallidire per la paura e la commozione. Allora qualcosa di simile a un sorriso appariva sul volto del vecchio e Katerina si metteva a ridere piano. A tratti nei suoi occhi spuntavano le lacrime e allora il vecchio le accarezzava dolcemente la testa come si fa con un bambino ed ella lo abbracciava più forte col suo braccio nudo, splendente come neve, abbandonandosi ancora più amorosamente sul suo petto. A tratti Ordynov pensava che tutto ciò fosse ancora un sogno, ne era anzi sicuro; ma il sangue gli salì alla testa e le vene delle tempie gli si gonfiarono pulsando dolorosamente. Lasciò andare il chiodo, si alzò dal letto e barcollando, brancolando come un sonnambulo, senza comprendere lui stesso l'impulso divampato come un incendio nel suo sangue, si accostò alla porta della stanza dei padroni e si gettò con forza contro di essa; il chiavistello arrugginito saltò via e di colpo con gran strepito e rumore egli si trovò nel bel mezzo della stanza da letto dei suoi padroni di casa. Egli vide Katerina trasalire e sussultare, e gli occhi del vecchio scintillare rabbiosamente sotto le sopracciglia aggrottate e l'ira improvvisamente sfigurargli il volto. Egli vide il vecchio cercare in fretta, a tentoni, senza distogliere gli occhi da lui, il fucile che era appeso alla parete e scintillare la bocca del fucile diretta con mano malferma, tremante per l'ira, diritto contro il suo petto... Echeggiò uno sparo, seguito da un urlo selvaggio, quasi disumano, e quando il fumo si diradò uno spettacolo orribile sconvolse Ordynov. Tremando tutto si chinò sul vecchio. Murin giaceva sul pavimento contorcendosi per gli spasimi, il suo volto era sfigurato dalla sofferenza e la schiuma spuntava sulle sue labbra contratte. Ordynov intuì che lo sventurato era in preda a un violentissimo attacco di mal caduco. Assieme a Katerina si precipitò a soccorrerlo...
III
Tutta la notte trascorse nell'agitazione. Il giorno successivo Ordynov uscì di casa la mattina presto, incurante della propria debolezza e della febbre che ancora non lo abbandonava. Nel cortile si imbatté di nuovo nel custode. Questa volta il tartaro sollevò il suo colbacco ancora da lontano e lo guardò con curiosità. Poi, come riscuotendosi, diede di nuovo di piglio alla scopa lanciando occhiate di traverso a Ordynov che si avvicinava lentamente.
«Be', non hai sentito niente questa notte?», domandò Ordynov.
«Ho sentito».
«Che uomo è quello? Chi è?».
«Tua affittato, tua sa; mia non c'entra».
«Ma vuoi parlare una buona volta!», urlò Ordynov fuori di sé, in preda a un accesso di morbosa irritazione.
«Ma mia cosa ha fatto? Tua colpa, tua spaventato inquilini. Sotto stava fabbricante di bare: è sordo, ma ha sentito tutto, e sua femmina anche lei sorda, ma ha sentito anche quella. E nell'altro cortile, anche se è lontano, anche sentito, ecco. Andrò dal sorvegliante».
«Ci andrò io», ribatté Ordynov e si avviò verso il portone.
«Fa' come vuoi; tua affittato... Signore, signore, fermati!».
Ordynov si voltò e il custode si toccò rispettosamente il colbacco.
«Be'?».
«Se ci vai, io andrò dal padrone».
«E allora?».
«Meglio cambia casa».
«Sei uno stupido», disse Ordynov e fece di nuovo per andarsene.
«Signore, signore, aspetta!», il tartaro si toccò di nuovo il colbacco e mostrò i denti.
«Ascolta signore: trattieni il cuore; perché perseguitare il povero? Perseguitare il povero è peccato. Dio non vuole, lo sai?».
«Stammi un po' a sentire, tu: ecco, prendi questo. Chi è, allora, quest'uomo?».
«Chi è?».
«Sì».
«Te lo dirò anche senza soldi».
Qui il custode riprese la scopa, diede due o tre spazzate e poi si arrestò guardando Ordynov attentamente e con sussiego.
«Tu sei un bravo signore. Ma se non vuoi vivere con uomo bravo, come vuoi; ecco come mia detto».
Qui il tartaro lo guardò con un'espressione ancora più significativa e, come stizzito, diede di nuovo di piglio alla scopa.
Finalmente, dando a divedere di aver terminato non so quale faccenda, con fare misterioso si accostò ad Ordynov e facendo un gesto assai espressivo disse:
«Lui, ecco che cosa!».
«Come? Cosa?».
«Cervello non c'è».
«Che cosa?».
«Volato via. Sì! Volato via!», ripeté il custode con aria ancor più misteriosa. «Lui malata.
Aveva barca, grande; due, tre, andavano su Volga; anche fabbrica aveva, ma bruciata e lui senza zucca».
«È pazzo?».
«No!... No ... !», replicò scandendo le sillabe il tartaro. «Non è pazza. Lui uomo intelligente.
Lui tutto sa, libri molti leggeva, leggeva, leggeva, sempre leggeva e agli altri verità diceva. Così una veniva: due rubli, tre rubli, quaranta rubli, e se non vuoi, come vuoi; libro guarda, vede e tutta verità dice. Ma moneta sul tavolo, subito sul tavolo: senza moneta, niente!».
Qui il tartaro, che si addentrava nelle faccende economiche di Murin con eccessiva partecipazione, scoppiò persino a ridere per la gioia.
«Ma cosa faceva? Faceva incantesimi, prediceva il futuro?».
«Mm ... », mugolò il custode facendo rapidamente cenno di no con la testa. «Lui verità diceva. Lui Dio pregava, molto pregava. Ma qualche volta così, gli viene».
Qui il tartaro fece di nuovo il suo gesto espressivo.
In quell'istante qualcuno dall'altro cortile chiamò il custode e subito dopo comparve un ometto ricurvo, canuto, che aveva indosso un tulùp. Egli camminava ansimando, inciampando, con 32
gli occhi fissi a terra, mormorando qualcosa fra sé. Si poteva pensare che fosse un po' fuori di testa per la vecchiaia.
«Padroni, padroni!», sussurrò in fretta il custode, facendo un rapido cenno di saluto con la testa a Ordynov, e strappatosi di testa il colbacco, si lanciò di corsa verso il vecchietto il cui volto era stranamente familiare a Ordynov; quanto meno lo doveva aver incontrato assai di recente.
Avendo riflettuto che, d'altronde, in ciò non c'era nulla di straordinario, egli uscì dal cortile. Il custode gli parve un furfante e un imbroglione di prima qualità. «Quel fannullone, sembrava stesse contrattando con me!», pensò, «Dio sa che cosa c'è sotto!».
Egli pronunciò queste parole quando era ormai nella strada.
A poco a poco fu assorbito da altri pensieri. Provava una sensazione sgradevole: era una giornata fredda e grigia e nell'aria volavano fiocchi di neve. Il giovane sentiva di nuovo i brividi cominciare a corrergli per le ossa; sentì anche che il terreno cominciava a ondeggiargli sotto i piedi.
All'improvviso una voce familiare gli augurò buon giorno con un tono tenorile sgradevolmente dolciastro e tremulo.
«Jaroslàv Il'ìè!», esclamò Ordynov.
Davanti a lui c'era un uomo energico e rubicondo dell'età apparente di trent'anni, basso di statura, con piccoli occhi grigi e acquosi, con un sorrisetto sulle labbra, abbigliato... come è sempre abbigliato Jaroslàv Il'ìè, e gli tendeva la mano nella maniera più affabile. Ordynov aveva fatto conoscenza con Jaroslàv Il'ìè esattamente un anno prima, del tutto casualmente, si può dire per la strada. Questo assai facile contatto era stato propiziato, oltre che dal caso, dalla inconsueta propensione di Jaroslàv Il'ìè a scovare ovunque persone buone, dabbene, colte, soprattutto, e degne, per lo meno per talento e per finezza di tratto, di appartenere alla migliore società. Sebbene Jaroslàv Il'ìè possedesse una voce di tenore straordinariamente dolce, tuttavia, perfino nella conversazione con i suoi amici più cari, nell'intonazione di essa trapelava qualcosa di straordinariamente luminoso, possente e imperioso, che non tollerava indugi, conseguenza, forse, dell'abitudine.
«Qual buon vento?», esclamò Jaroslàv Il'ìè con un tono che esprimeva la più sincera e più entusiastica gioia.
«Abito qui».
«Da molto?», continuò Jaroslàv Il'ìè, innalzando la voce su una nota sempre più alta. «E io non lo sapevo! Ma allora sono vostro vicino! Ora abito da queste parti. È ormai un mese che sono tornato dal governatorato di Rjazàn'. Vi ho acchiappato, mio vecchio e nobilissimo amico!». E
Jaroslàv Il'ìè scoppiò a ridere nella maniera più bonaria.
«Sergeev!», gridò con tono ispirato, «aspettami da Tarasov; bada che senza di me non tocchino i sacchi. E va' a chiamare il custode di Olsuf'ev; digli di presentarsi immediatamente in ufficio. Io arriverò tra un'ora...».
Dopo aver impartito in fretta a qualcuno questo ordine il premuroso Jaroslàv Il'ìè prese Ordynov sotto braccio e lo condusse nella trattoria più vicina.
«Non avrò pace finché non avremo scambiato due parole a tu per tu dopo tanto tempo che non ci vediamo. Cosa mi raccontate dei vostri studi?», aggiunse poi abbassando la voce con fare misterioso e quasi con venerazione. «Siete sempre sprofondato nelle scienze?».
«Sì, sempre allo stesso modo», rispose Ordynov, al quale era balenata un'idea luminosa.
«Nobile cosa, Vasìlij Michàjloviè, nobile cosa!». Qui Jaroslàv Il'ìè strinse con forza il braccio di Ordynov. «Voi sarete l'ornamento della nostra società. Che Dio vi conceda di progredire felicemente nel vostro campo... Mio Dio! Come sono felice di avervi incontrato! Quante volte ho pensato a voi, quante volte mi sono chiesto: ma dov'è il nostro buon, magnanimo, acuto Vasìlij Michàjloviè?».
Si installarono in un salottino riservato. Jaroslàv Il'ìè ordinò degli antipasti, fece servire della vodka e si mise a guardare Ordynov con occhi pieni di tenerezza.
«Ho letto molto in vostra assenza», cominciò a dire con voce timida e lievemente insinuante.
«Ho letto tutto Puškin ... ».
Ordynov lo guardò distrattamente.
«È straordinaria la rappresentazione delle passioni umane. Ma prima di tutto permettetemi di esprimervi la mia riconoscenza. Voi avete fatto tanto per me con i vostri nobili suggerimenti di un giusto indirizzo di pensiero ...».
«Per carità!».
«No, permettetemi. Mi piace sempre rendere giustizia e sono fiero che per lo meno questo sentimento non si sia spento in me».
«Per carità, siete ingiusto con voi stesso. Quanto a me, davvero ... ».
«No, sono del tutto giusto», obiettò con straordinario calore Jaroslàv Il'ìè. «Cosa sono mai io in confronto con voi? Non è vero?».
«Oh, Dio mio!».
«Sissignore ... ».
Qui seguì un attimo di silenzio.
«Seguendo il vostro consiglio ho interrotto molte grossolane frequentazioni e ho in parte corretto la grossolanità delle mie abitudini», riprese Jaroslàv Il'ìè con voce un po' timida e insinuante. «Nelle ore che mi rimangono libere dal lavoro me ne sto per lo più in casa; la sera leggo qualche libro istruttivo e... io ho un solo desiderio, Vasilij Michàjloviè, quello di rendermi utile alla patria, sia pure nella misura delle mie forze...».
«Vi ho sempre stimato una persona nobilissima, Jaroslàv Il'ìè».
«Le vostre parole sono sempre un balsamo per me... nobile giovane ... ».
Jaroslàv Il'ìè strinse con calore la mano a Ordynov.
«Non bevete?», osservò, quando si fu un poco acquietata la sua agitazione.
«Non posso; sono malato».
«Siete malato? Sì, è vero! E da molto? In che modo vi siete compiaciuto di ammalarvi?
Volete che dica... Quale medico vi cura? Volete che dica subito di visitarvi al nostro medico di quartiere? M recherò subito da lui lo stesso. È un medico straordinario!».
Jaroslàv Il'ìè stava già per afferrare il cappello.
«Vi ringrazio di cuore, ma io non mi curo e non ho stima dei medici ... ».
«Ma che dite mai! Ma come si può! Ma questo è un medico straordinario», proseguì Jaroslàv Il'ìè con tono supplichevole, «poco tempo fa - permettetemi di raccontarvi questo episodio, caro Vasìlij Michàjloviè - poco tempo fa si presenta da lui un povero fabbro e dice: "Ecco, mi sono trapassata la mano con un mio attrezzo; guaritemi...". Semën Pafnùt'iè, vedendo che lo sventurato correva il pericolo di essere colpito dal fuoco di Sant'Antonio, prese la decisione di amputargli l'arto infetto. Egli eseguì l'operazione in mia presenza. Ma fece tutto in modo tale, in maniera così non...
voglio dire in maniera così squisita, che, lo confesso, non fosse per la compassione per l'umanità sofferente, sarebbe stato un piacere stare a guardare semplicemente così, per curiosità. Ma dove e come vi siete compiaciuto di ammalarvi?».
«Traslocando nel nuovo alloggio... mi sono appena alzato dal letto».
«Ma voi state ancora molto male. Non avreste dovuto uscire. Dunque non state più dove abitavate prima? Ma che cosa vi ha spinto a cambiare casa?».
«La mia padrona di casa si è trasferita altrove».
«Domna Sàvi9na? Possibile?... Buona, veramente nobile vecchietta! Sapete? Provavo per lei una devozione quasi filiale. In quella vita ormai fuori moda riluceva qualcosa di elevato, di caratteristico dell'età dei nostri avi; guardandola, sembrava di avere davanti una incarnazione della nostra remota, maestosa antichità ... voglio dire, di quel... c'era qualcosa, sapete, di così poetico! ...
», concluse Jaroslàv Il'ìè sopraffatto dall'imbarazzo e arrossendo fino alle orecchie.
«Sì, era una brava donna».
«Ma, permettetemi di chiedervelo, dove vi siete compiaciuto di installarvi ora?».
«Non lontano da qui, nella casa di Ko9marov».
«Lo conosco. Un vecchio imponente! Oserei dire che sono quasi un suo sincero amico.
Nobile vecchiaia!».
A Jaroslàv Il'ìè quasi tremavano le labbra per la tenerezza. Chiese un altro bicchierino di vodka e una pipa.
«Affittate direttamente?».
«No, sto presso un inquilino».
«Chi è? Forse lo conosco».
«Sto da Murin, un borghese; un vecchio alto ... ».
«Murin, Murin; sì, perdonate, è nel cortile posteriore, sopra il fabbricante di bare?»,
«Sì, sì, nell'ultimo cortile».
«Mm.... e ci state tranquillo?».
«Sì, mi sono appena trasferito».
«Mm... volevo dire soltanto, mm... del resto... Ma voi non avete notato nulla di strano?».
«Veramente ... ».
«Cioè, sono convinto che da lui vi troverete bene, se vi accontenterete della stanza... non ho niente da dire, lo premetto; ma, conoscendo il vostro carattere... Che impressione vi ha fatto quel vecchio borghese?».
«A quel che sembra è molto malato».
«Sì, è molto sofferente... Ma voi non avete notato nulla di particolare? Avete parlato con lui?».
«Assai poco; è così poco socievole e bilioso ... ».
«Mm ... ». Jaroslàv Il'ìè rimase un po' soprappensiero.
«È un uomo disgraziato!», disse dopo un breve silenzio.
«Lui?».
«Sì, è un uomo disgraziato e, nello stesso tempo, incredibilmente strano e interessante. Del resto, se non vi dà fastidio... Scusatemi se ho portato il discorso su questo argomento, ma ero incuriosito ... ».
«E, a dire il vero, avete stuzzicato anche la mia curiosità... M piacerebbe molto sapere chi è.
Tanto più che abito in casa sua ... ».
«Vedete, dicono che quell'uomo prima fosse molto ricco. Commerciava, come probabilmente avete sentito dire. Per varie disgraziate circostanze è diventato povero; una tempesta gli ha distrutto diverse chiatte cariche di merce. La fabbrica, a dirigere la quale aveva messo un suo stretto e caro parente, ha fatto anch'essa una fine disgraziata: è bruciata e nell'incendio è perito anche quel suo parente. Una perdita terribile, convenitene! Allora Murin, si racconta, è caduto in un terribile sconforto; si cominciò a temere per la sua ragione e, in effetti, durante una lite con un altro mercante, anch'egli proprietario di chiatte che navigano sul Volga, d'improvviso egli si manifestò sotto un aspetto così strano e inaspettato che tutto quel che accadde fu attribuito a uno stato di grave alienazione, il che sono propenso a credere anch'io. Ho sentito raccontare particolareggiatamente di talune sue stranezze; infine, improvvisamente gli è successo un caso assai strano, fatale, per così dire, che non si può spiegare altrimenti che con l'intervento ostile del destino adirato».
«Quale?», domandò Ordynov.
«Si dice che in un accesso morboso di pazzia abbia attentato alla vita di un giovane mercante che prima amava straordinariamente. Ed era così sbalordito quando si riebbe dall'accesso che avrebbe voluto togliersi la vita: così, per lo meno, si racconta. Non so di preciso cosa accadesse dopo di ciò, ma risulta che è stato diversi anni sotto penitenza... Ma cosa avete, Vasìlij Michàjloviè, non vi annoia, per caso, il mio semplice racconto?».
«Oh, no, per l'amor di Dio... Voi dite che è stato sotto penitenza; ma egli non è solo».
«Non lo so. Si dice che fosse solo. Per lo meno nessun altro era implicato in questa faccenda. Ma, del resto, non ho sentito dire nulla di quello che è successo in seguito, so soltanto ...
».
«Che cosa?».
«So soltanto... cioè io, veramente, non avevo in mente di aggiungere nient'altro... voglio dire soltanto che, se voi troverete in lui qualcosa di inconsueto e che esce fuori dalla norma usuale, ciò non è altro che la conseguenza delle disgrazie che sono piombate su di lui una dopo l'altra ... ».
«Sì, egli è così devoto, un vero baciapile».
«Non credo, Vasilij Michàjloviè; egli ha sofferto tanto... credo che il suo cuore sia puro».
«Ma ora - non è vero? - non è più pazzo; è sano di mente».
«Oh, no, no; questo ve lo posso garantire, sono pronto a giurarlo; egli è nel pieno possesso delle sue facoltà mentali. Soltanto, come avete giustamente osservato di passaggio, è oltremodo strano e devoto. È una persona perfino molto saggia. Parla con disinvoltura, audacemente e assai ingegnosamente. Sulla sua faccia si scorge ancora la traccia della sua burrascosa vita passata. Sì, è un uomo interessante e che ha letto moltissimo».
«Sembra che legga unicamente libri di religione».
«Sì, è un mistico».
«Che cosa?».
«È un mistico. Ma questo ve lo confido in segreto. E in segreto vi dirò anche che un tempo è stato sottoposto a stretta sorveglianza. Quell'uomo esercitava un'influenza spaventosa su chi si recava da lui».
«E quale?».
«Ma voi non ci crederete; vedete: allora egli non abitava ancora nel nostro quartiere; Aleksàndr Ignàt'iè, cittadino onorario, alto dignitario e persona che gode del rispetto di tutti, si recò da lui per curiosità assieme a un certo tenente. Arrivano da lui, vengono ricevuti e quell'uomo strano comincia a scrutare le loro facce. È così di solito che faceva, quando acconsentiva a occuparsi di qualcuno; in caso contrario rimandava indietro la gente che si recava da lui e in maniera persino assai irriguardosa, si dice. Poi domanda loro: che cosa desiderate, signori? Così e così, risponde Aleksàndr Igriàt'iè: il dono che possedete ve lo può dire senza che ve lo diciamo noi.
Favorite con me, dice lui, nell'altra stanza; qui egli indicò chi di loro due precisamente aveva bisogno di lui. Aleksàndr Ignàt'iè non mi ha raccontato che cosa succedesse dopo, ma egli uscì di lì pallido come un cencio. La stessa cosa è accaduta a una nobildonna dell'alta società: anche lei uscì di lì pallida come un cencio, in lacrime e stupefatta per le sue profezie e per la sua eloquenza».
«Strano. Ma adesso non si occupa più di queste cose?».
«Gli è stato severissimamente vietato. Si sono verificati dei casi straordinari. Una giovane cornetta, fiore e speranza di una famiglia altolocata, guardandolo si mise a ridere. "Di che cosa ridi?", gli chiese irritato il vecchio. "Tra tre giorni ecco come sarai!", e incrociò le braccia a indicare la posizione del cadavere».
«E allora?».
«Non oso crederlo, ma si dice che la profezia si avverasse. Egli possiede un dono particolare, Vasilij Michàjloviè... Voi avete avuto la bontà di sorridere alla mia narrazione fatta con semplicità. So che voi siete tanto più avanti di me quanto all'istruzione; ma io gli credo: non è un ciarlatano. Pu9kin stesso parla di qualcosa di questo genere nelle sue opere».
«Mm. Non voglio contraddirvi. Mi pare che abbiate detto che non vive da solo».
«Non lo so... mi sembra che abiti con lui sua figlia».
«Sua figlia?».
«Sì, oppure, forse, sua moglie; so che una donna vive con lui. L'ho vista di sfuggita e non ci ho fatto caso».
«Mm. Strano ... ».
Il giovane si sprofondò nei suoi pensieri, Jaroslàv in tenera contemplazione. Era commosso sia perché aveva incontrato un vecchio amico, sia perché gli aveva raccontato in maniera soddisfacente una cosa molto interessante. Egli sedeva senza staccare lo sguardo da Vasìlij Michàjloviè e aspirava dalla pipa; ma all'improvviso balzò su e cominciò ad agitarsi.
«È passata un'ora intera e io mi sono dimenticato! Caro Vasìlij Michàjloviè, ringrazio un'altra volta il destino di aver fatto sì che ci incontrassimo, ma debbo andare. Mi permetterete di venirvi a far visita nella vostra studiosa dimora?».
«Fatemi questo favore, ne sarò assai contento. Verrò io stesso a trovarvi, non appena ne avrò il tempo».
«Debbo credere a questa piacevole notizia? Ne sarò obbligato, ne sarò immensamente obbligato! Voi non potete credere quale esultanza mi avete procurato!».
Uscirono dalla trattoria. Sergeev stava già volando loro incontro e riferiva in gran fretta a Jaroslàv Il'ìè che Vil'm Emel'jànoviè si degnava di arrivare. Ed effettivamente sulla prospettiva apparvero due focosi bai attaccati a un veloce calesse. Particolarmente notevole era lo straordinario cavallo di rinforzo. Jaroslàv Il'ìè strinse come in una morsa la mano del suo migliore amico, portò la mano al cappello, e si slanciò incontro al calesse che stava volando verso di loro. Lungo il cammino egli si voltò indietro un paio di volte facendo con la testa un cenno di saluto a Ordynov.
Ordynov sentiva una tale stanchezza, una tale spossatezza in tutte le membra, che riusciva a stento a trascinare le gambe. In qualche modo riuscì ad arrivare a casa. Sul portone si imbattè di nuovo nel custode che aveva diligentemente osservato tutto il suo commiato da Jaroslàv Il'ìè e che, ancora da lontano, gli aveva fatto un cenno di invito. Ma il giovane gli passò davanti senza fermarsi.
Sulla porta dell'appartamento si scontrò violentemente contro una piccola figura canuta, che usciva a testa bassa dalla casa di Murin.
«Signore, perdona i miei peccati!», sussurrò la piccola figura rimbalzando da un lato con l'elasticità di un turacciolo.
«Vi ho fatto male?».
«No, vi ringrazio umilissimamente per il riguardo... Oh, Signore, Signore!».
Il mite omino ansimando, sospirando e mormorando qualcosa di edificante fra sé e sé, scese cautamente per le scale. Era il proprietario della casa, del quale si era tanto spaventato il custode.
Soltanto ora Ordynov si rammentò che lo aveva visto per la prima volta proprio lì, in casa di Murin, il giorno che si era trasferito nell'appartamento.
Egli sentiva di essere irritato e scosso; sapeva che la sua fantasia e la sua sensibilità erano tese fino all'estremo limite e decise di non fidarsi di se stesso. A poco a poco cadde in una specie di torpore. Un sentimento penoso, opprimente gli serrò il petto. Il cuore gli doleva, come se fosse stato tutto piagato e tutta la sua anima era gonfia di sorde, inesauribili lacrime.
Si gettò di nuovo sul letto che lei gli aveva preparato e si mise di nuovo ad ascoltare. Sentiva due respiri: uno pesante, malato, discontinuo, un altro lieve, ma ineguale e anch'esso come agitato, come se di là battessero due cuori animati dallo stesso desiderio, dalla stessa passione. A tratti udiva il fruscio del suo vestito, il calpestio leggero dei suoi leggeri, morbidi passi e persino il rumore dei suoi piedi echeggiava nel suo cuore come un dolore sordo e tormentosamente voluttuoso. Infine gli parve di sentire i suoi singhiozzi, un tumultuoso sospirare e, finalmente, di nuovo la sua preghiera.
Sapeva che era inginocchiata davanti all'icona, e si torceva le mani in preda a una sorta di frenetica disperazione... Ma chi era dunque? Per chi pregava? Quale passione senza speranza turbava il suo cuore? Perché soffriva tanto ed era angosciata e si effondeva in lacrime così ardenti e disperate?...
Cominciò a passare in rassegna nella mente le sue parole.
Tutto quello che lei gli aveva detto risuonava ancora nelle sue orecchie come una musica e il suo cuore rispondeva con un tonfo sordo e pesante a ogni ricordo, a ogni parola di lei devotamente ripetuta... Per un attimo gli balenò nella mente il dubbio che fosse stato tutto un sogno. Ma nel medesimo istante tutto il suo essere spasimò in preda a una struggente angoscia quando la sensazione del suo ardente respiro, delle sue parole, del suo bacio si impresse nuovamente nella sua immaginazione. Egli chiuse gli occhi e si assopì. Da qualche parte un orologio batté le ore; si faceva tardi; calava il crepuscolo.
D'un tratto gli parve che lei di nuovo si chinasse su di lui, che lo guardasse negli occhi con i suoi occhi meravigliosamente chiari, umidi di scintillanti lacrime di placida, luminosa gioia, quieti e chiari come l'immensa volta turchina del cielo in un meriggio caldo. Di una così solenne calma 37
splendeva il suo volto, da una tale promessa di infinita beatitudine era riscaldato il suo sorriso, con tale affetto, con tale infantile trasporto gli si abbandonò sulla spalla, che un gemito proruppe dal suo petto sopraffatto dalla gioia. Ella voleva dirgli qualcosa; gli confidava teneramente qualcosa. Di nuovo una musica che trafiggeva il cuore si impresse nel suo orecchio. Egli aspirava avidamente l'aria riscaldata, elettrizzata dal respiro di lei. Sopraffatto dalla nostalgia egli stese le braccia, sospirò, aprì gli occhi... Ella era lì davanti a lui, china sopra il suo viso, tutta pallida come se avesse paura, tutta in lacrime, tutta tremante per l'emozione. Ella gli diceva qualcosa, lo supplicava, stringendo al petto e torcendo le braccia seminude. Egli la avvinse tra le proprie braccia e la strinse tutta palpitante sul suo petto.
PARTE II
I
«Che cos’hai? Che cosa ti succede?» le chiese Ordynov, ormai completamente sveglio, tenendola ancora stretta nel suo forte e caldo abbraccio. «Che cos’hai, Katerina? che cos’hai, amore mio?»
Katerina piangeva, con gli occhi bassi, il viso bruciante nascosto contro il suo petto. Ancora per molto tempo non riuscì a parlare, tutta tremante, come se avesse paura.
«Non so, non so,» rispose, infine, con una voce flebile, come se le mancasse il respiro «non mi ricordo nemmeno perché sono venuta qui da te...» Gli si strinse addosso ancora di più, e con un fervore ancora più intenso e in un impeto irresistibile e febbrile, gli baciò la spalla, le mani, il petto; poi, quasi sopraffatta dalla disperazione, si coprì il viso con le mani, cadde ai suoi piedi e abbandonò la testa sulle sue ginocchia. Ma quando Ordynov, preso da una angoscia inesprimibile, la sollevò, quasi con impazienza, e la fece sedere vicino a sé, lei arrossì di vergogna, i suoi occhi pieni di lacrime chiesero perdono e il debole sorriso che comparve sulle sue labbra riuscì appena a soffocare la violenza di una sensazione nuova. Ora sembrava ancora spaventata, diffidente, lo allontanava con la mano, a stento lo guardava, rispondeva alle sue domande affannose senza alzare la testa, timidamente, in un bisbiglio.
«Forse hai fatto un brutto sogno,» le andava dicendo Ordynov «forse hai avuto un incubo... vero? Forse è stato lui... Ha il delirio, è fuori di sé. Forse ha detto qualcosa che era meglio che non sentissi, è così? Che cosa hai sentito? Hai sentito qualcosa che non dovevi?»
«Non riuscivo a dormire» rispose Katerina, cercando di vincere la propria inquietudine. «Lui stava zitto, mi ha chiamata una volta sola. Mi sono avvicinata, gli ho parlato; ma ho avuto paura: non si svegliava, non mi sentiva. Ha una malattia molto grave, che Dio lo aiuti. Allora l’angoscia ha attanagliato il mio cuore, un’angoscia amara. Ho sempre pregato, ho pregato tanto e, a un tratto, ho provato qualcosa.»
«Basta, Katerina, vita mia, basta: ieri ti sei spaventata...»
«No, ieri non mi sono spaventata.»
«Ti capita, qualche volta, di sentirti così?»
«Sì, qualche volta.» Katerina riprese a tremare di paura e si rifugiò contro di lui come un bambino. «Vedi, ho fatto bene a venire da te, non potevo più stare sola» proseguì singhiozzando e stringendogli con gratitudine le mani. «Ma ora basta, basta piangere per il dolore degli altri. Metti da parte le tue lacrime per quando sarai sola, triste, senza nessuno accanto...! Ascolta, hai mai avuto una innamorata?»
«No... nessuna prima di te.»
«Prima di me...? Pensi che io sia la tua innamorata?»
Lo guardò negli occhi, stupita; parve quasi che volesse dirgli qualcosa, ma poi riabbassò gli occhi, in silenzio. A poco a poco arrossì di nuovo e i suoi occhi si fecero più vividi e splendenti attraverso le lacrime, già dimenticate, ma che ancora le tremolavano sulle ciglia. Parve di nuovo che volesse fargli una domanda, per due volte lo guardò in tralice, timida e maliziosa, poi, bruscamente, tornò ad abbassare la testa.
«No, non è possibile che sia io la tua prima innamorata,» disse «no no,» ripeté, pensierosa, ma riprendendo a poco a poco a sorridere «no,» esclamò infine, ridendo apertamente «non posso essere io, caro, la tua piccola innamorata.»
Lo guardò, ma sul suo volto comparve all’improvviso una malinconia così profonda, una tristezza così sconsolata alterò i suoi lineamenti, una disperazione così violenta traboccò dal suo cuore che un sentimento di oscura, straziante pietà per quel dolore che non conosceva strinse Ordynov alla gola, e lui la guardò con inenarrabile sofferenza.
«Ascoltami,» disse Katerina con una voce che penetrava il cuore, stringendogli le mani tra le sue e cercando di trattenere i singhiozzi «ascoltami bene, ascoltami, gioia mia! Tieni a freno il tuo cuore, non amarmi come già hai cominciato ad amarmi. Ti sentirai meglio, il tuo cuore sarà più leggero e allegro, sfuggirai a un nemico spietato e avrai acquistato una innamorata-sorella. Verrò a trovarti, se vorrai, ti vorrò bene e non sarà oggetto di vergogna per me l’esserti amica. Ti sono stata vicina per due giorni quando eri a letto, ammalato. Devi capire la tua sorellina! Altrimenti perché saremmo stati insieme come fratelli, altrimenti perché, piangendo, avrei pregato per te la Madonna? Non troverai mai un’altra come me! Anche se facessi il giro del mondo e cercassi in tutto l’universo, non troveresti un’altra innamorata così, se è un’innamorata che il tuo cuore domanda. Ti amerò con ardore, per sempre, come adesso; ti amerò perché la tua anima è pura, fulgida, trasparente; perché appena ti ho visto ho capito che eri l’ospite che aspettavo per la mia casa, l’ospite che bramavo, e che non era per caso che avevi bussato alla nostra porta; ti amerò perché quando mi guardi i tuoi occhi rivelano l’amore, parlano del tuo cuore, e io so subito tutto quello che c’è dentro di te e per il tuo amore darei la vita, la cara libertà, perché è bello essere schiava dell’uomo del quale hai scoperto il cuore... sì, la mia vita non mi appartiene più, appartiene a un altro, la mia libertà è in catene! Prendimi, allora, come una sorellina, sii mio fratello, fammi entrare nel tuo cuore quando di nuovo la tristezza e il male feroce mi aggrediranno; solo procura che io non provi vergogna a venire da te e a starti vicina, come sono adesso, per una lunga notte. Mi hai sentito? Mi hai aperto il tuo cuore? Hai capito davvero quello che ti ho detto...?»
Katerina avrebbe voluto aggiungere qualcosa ancora. Guardò Ordynov, gli posò una mano sulla spalla, poi, sfinita, si abbandonò sul suo petto. La voce le morì in un singulto tormentoso, appassionato, mentre sussultava e il viso le si accendeva come il cielo al tramonto.
«Vita mia!» mormorò Ordynov, cui mancava il respiro e si annebbiava la vista. «Gioia mia!» ripeteva, senza aver coscienza né delle parole che gli uscivano dalle labbra e che dimenticava subito dopo, né di se stesso, sconvolto dal timore di distruggere in un soffio quell’incanto, di distruggere quello che gli era accaduto e che gli pareva più simile a una visione che alla realtà, tanto era confuso tutto ciò che aveva davanti agli occhi. «Io non ti conosco, non ti capisco, non riesco nemmeno a ricordare quello che mi hai appena detto, la mia mente è offuscata, nel petto il cuore mi fa male, o mia dominatrice...!»
Ancora una volta gli si spezzò la voce per l’emozione. Lei si stringeva a lui sempre più forte, sempre più amorosamente, sempre più appassionatamente. Ordynov si alzò in piedi e, incapace di frenarsi, sconvolto dalla passione, si buttò in ginocchio. Faticosamente, affannosamente i singhiozzi sgorgarono dal suo petto, e la sua voce, che veniva direttamente dal cuore, vibrò come una corda tesa nella piena di una esaltazione e di una beatitudine fino a quel momento sconosciute.
«Chi sei, chi sei mia amata? Da dove vieni, colombella mia?» diceva Ordynov, soffocando i singhiozzi. «Da quale cielo sei volata nei miei cieli? Tutto mi sembra un sogno, non riesco a credere che tu esista davvero. Non rimproverarmi... lasciami parlare, lascia che ti dica tutto, che ti parli a lungo... Chi sei, gioia mia? Come hai scoperto il mio cuore? Da quanto tempo sei la mia sorellina...? Raccontami tutto, raccontami dove sei stata fino ad ora, dove vivevi e che cosa ti piaceva, là dove vivevi, che cosa ti rendeva allegra e che cosa triste. Faceva caldo, il cielo era azzurro...? Chi ti era caro e chi ti ha amato prima di me, a chi hai offerto per la prima volta la tua anima...? Hai avuto una madre che ti ha vezzeggiata quando eri bambina o hai affrontato la vita da sola, come me? Dimmi, eri come sei ora? Che cosa sognavi, che cosa speravi che ti portasse il futuro, che cosa si è realizzato e che cosa no? racconta... Per chi ha battuto per la prima volta il tuo cuore di fanciulla, e a chi l’hai dato in dono? E io che cosa devo darti in cambio del tuo cuore, in cambio di te stessa? Mia piccola innamorata, splendore, sorellina, come posso ripagare il dono del tuo cuore...?»
Di nuovo la voce gli si spezzò e Ordynov abbassò gli occhi, ma, quando li rialzò, si sentì agghiacciare da un orrore inesprimibile e gli si rizzarono i capelli sulla testa.
Katerina, pallida e immobile, guardava nel vuoto, aveva le labbra livide come quelle di una morta e gli occhi offuscati da un tormento muto e disperato. Poi si alzò, lentamente, fece qualche passo e con un lamento penoso si gettò ai piedi dell’icona... Parole spezzettate, contratte, le uscivano dalla gola. Svenne. Ordynov, spaventato, la rialzò e l’adagiò sul letto, poi restò a guardarla, senza riuscire a riprendersi. Dopo poco lei aprì gli occhi, si sollevò un pochino sul letto, si guardò intorno e gli prese una mano. Lo attirò vicino a sé, cercando di bisbigliargli qualcosa con le labbra esangui, ma seguitava a venirle meno la voce. Poi scoppiò in singhiozzi e le sue lacrime, fitte come grandine, ardevano sulla mano raggelata di Ordynov.
«Soffro, soffro molto, forse è arrivata la mia ultima ora!» disse infine, straziata da un dolore senza speranza.
Provò ad aggiungere qualche parola, ma le si era intorpidita la lingua e non riusciva a parlare. Disperata, guardava Ordynov, ma lui non capiva quello che lei voleva dirgli, infine si chinò sul letto, si sforzò di ascoltare e la sentì mormorare con chiarezza:
«Sono una donna perduta, mi hanno corrotta, mi hanno portata alla perdizione.»
Ordynov alzò la testa e la guardò stupito. Un pensiero ripugnante gli attraversò la mente. Katerina lo vide contrarsi in viso.
«Sì, mi hanno corrotta!» proseguì. «Un uomo cattivo mi ha corrotta, lui mi ha perduta...! Io gli ho venduto l’anima. Tu mi hai chiamato “cara”. Perché mi torturi? Un giorno sarà Dio a giudicarti.»
Katerina ricominciò a piangere; il cuore di Ordynov soffriva nella stretta di una oscura angoscia.
«Lui dice» bisbigliava Katerina «che dopo morto verrà a prendere la mia anima colpevole... Io gliel’ho venduta... Lui mi torturava, mi leggeva dei libri... Ecco, questo è il suo libro. Lui dice che ho commesso un peccato mortale... Guarda...»
Gli mostrava un libro, Ordynov non aveva visto dove l’avesse preso. Lo guardò, macchinalmente: era come gli antichi libri degli Scismatici5 che aveva già visto qualche volta. Ora, però, non si sentiva di guardarlo più attentamente, non sarebbe riuscito a concentrarsi su niente. Il libro gli sfuggì di mano. Allora, con gentilezza abbracciò Katerina e cercò di aiutarla a riprendersi.
«Ora basta,» le diceva «ti hanno spaventata, ma ci sono io qui con te; stai tranquilla, mia amata, mio amore, mia luce.»
«Tu non sai, non sai...» rispose Katerina, stringendogli le mani tra le sue. «Io mi sento sempre così, come ora... Ho sempre paura...! Non mi tormentare più.»
«Allora vado da lui» proseguì, quando il suo respiro si fu calmato. «Qualche volta mi esorcizza solo parlandomi, altre volte prende il libro, quello più grande, e me lo legge. Legge cose atroci, che fanno paura. Io non capisco tutte le parole, ma mi spavento, mi sembra che non sia lui a parlare, ma un uomo crudele, inflessibile, inesorabile e il cuore mi fa male, mi brucia... Soffro più allora di quando mi prende l’angoscia.»
«Non andare da lui! Perché ci vai?» le disse Ordynov, quasi senza rendersi conto delle proprie parole.
«E da te? Perché sono venuta da te? Se me lo chiedi, non so rispondere neanche a questo... Lui mi dice sempre: prega! Qualche volta, la notte, mi alzo e prego per ore e ore; spesso ho sonno, ma la paura mi sveglia; allora mi sembra che attorno a me stia per scatenarsi una tempesta o che stia per piombarmi addosso una sciagura, penso che i cattivi mi tortureranno e mi lacereranno a morte, e che non mi basterà pregare perché il cielo interceda per me e mi evitino una sofferenza terribile. Mi sento l’anima straziata, mi sembra che tutto il mio corpo si stia sciogliendo in lacrime... Allora ricomincio a pregare, e prego, prego, finché Lei non mi guardi dall’icona con più amore. Allora mi addormento di un sonno profondo come la morte; qualche volta mi addormento per terra, ancora in ginocchio davanti all’icona. Allora capita che lui si svegli e mi chiami, mi accarezzi, mi vezzeggi, mi consoli, allora mi sento meglio perché, anche se mi capitasse una disgrazia mentre sono con lui, non avrei paura. Lui ha il potere! La sua parola è grande!»
«Ma che cosa ti angustia tanto?...» chiese Ordynov, torcendosi, disperato, le mani.
Katerina diventò mostruosamente pallida e lo guardò come un condannato a morte che non spera più di essere graziato.
«Che cosa mi angustia?... Io sono una figlia che è stata maledetta, sono un’assassina; mia madre mi ha maledetta! Io ho ucciso mia madre...!»
Ordynov l’abbracciò senza parlare e lei si strinse contro di lui, che la sentì scuotersi tutta, come se la sua anima stesse per separarsi dal corpo.
«L’ho sepolta io, con le mie mani, nell’umida terra,» proseguì Katerina, travolta da quel ricordo, perduta nella visione del suo inseparabile passato «è da tanto tempo che ne volevo parlare, lui me lo impediva con la preghiera, con i rimproveri, con la collera, ma a volte era lui a risvegliare in me quell’angoscia, come se fosse il mio nemico, il predone. Allora io mi ricordo di tutto, di tutto, come stanotte... Ascoltami, ascoltami. È passato tanto tempo, non mi ricordo nemmeno quando è successo, ma vedo passare tutto davanti ai miei occhi come se fosse stato ieri, come un sogno che mi abbia succhiato il cuore la notte scorsa. L’angoscia rende il tempo lungo il doppio. Vieni qui, siediti vicino a me: ti parlerò del mio dolore, e tu libera me, maledetta, dalla maledizione di mia madre... Metto la mia vita nelle tue mani...»
Ordynov avrebbe voluto fermarla, ma lei, con le mani giunte, lo supplicò, per l’amore che le portava, di ascoltarla. Poi riprese a parlare, ancora più inquieta. Era una storia confusa, nella quale si ripercuoteva l’angoscia dell’anima, ma Ordynov capiva tutto, perché la vita di Katerina era diventata la sua vita, il dolore di Katerina, il suo dolore, e perché il nemico adesso era lì, davanti a lui, prendeva carne e sostanza dalle parole di Katerina e pareva che gli schiacciasse il cuore con una forza immensa e crudele, deridendo la sua rabbia. Ordynov si sentiva ribollire il sangue, se lo sentiva salire alla testa a confondergli i pensieri. Era sicuro che il vecchio malvagio del suo sogno ora fosse in carne e ossa davanti a lui.
«Era una notte come questa,» raccontò Katerina «più spaventosa di questa: il vento urlava nel bosco come non avevo mai sentito prima... forse perché già in quella notte è cominciata la mia rovina! Una quercia venne abbattuta dal vento proprio sotto la nostra finestra, un uomo vecchissimo, coi capelli bianchi, le vesti consunte, venne da noi e ci disse che quella quercia esisteva fin da quando lui era bambino e che se la ricordava già grande così, come adesso che il vento l’aveva schiantata... Quella notte, me lo ricordo come se fosse ora, la tempesta sul fiume distrusse i barconi di mio padre, e lui, anche se era indebolito dalla malattia, appena i pescatori vennero ad avvertirci alla fabbrica, partì per andare a vedere che cosa era successo. Io e la mamma restammo sole, io dormivo, ma lei era triste e piangeva... Sapevo perché. Era stata ammalata, era pallida, mi diceva continuamente di prepararle il sudario... A mezzanotte, improvvisamente sentimmo bussare alla porta sulla strada; io mi alzai di scatto e tutto il sangue mi affluì al cuore; la mamma gettò un grido... io non la guardai, avevo paura, presi la lanterna e andai io ad aprire... Era lui! Avevo sempre paura quando veniva, fin da quando ero bambina, fin da quando riesco a ricordare. Allora non aveva neanche un capello bianco, la sua barba era come la pece, i suoi occhi erano carboni ardenti, e nemmeno una volta, fino a quel momento, mi aveva guardato con affetto. Mi chiese se mia madre era in casa. Io richiusi la porta e risposi che mio padre non c’era. Lui disse che lo sapeva e a un tratto mi guardò, e come mi guardò...! Mai mi aveva guardata così... Io mi avviai per entrare in casa, ma lui non si muoveva. «Perché non vieni?» chiesi. Lui disse: «Sto pensando una cosa». Eravamo già nella stanza al piano di sopra. «Perché mi hai detto che tuo padre non era in casa? Io ti avevo chiesto se c’era tua madre.» Non risposi... Mia madre ebbe un soprassalto e si lanciò verso di lui... lui la guardò appena... io vedevo tutto. Lui era bagnato, tremava di freddo; aveva percorso venti verste inseguito dalla tempesta, ma di dove venisse e dove andasse, né io né la mamma l’abbiamo mai saputo; non lo vedevamo da nove settimane... lui gettò in un angolo il colbacco, si tolse i guanti senza una preghiera alle icone, senza una parola alle padrone di casa, si mise a sedere davanti al fuoco...»
Katerina si passò una mano sul viso, come se si sentisse soffocare, ma un momento dopo rialzò la testa e riprese a raccontare la sua storia:
«Si mise a parlare con mia madre in tartaro. Mia madre conosceva il tartaro, io no, neanche una parola. Di solito mi mandavano via, ma quella volta mia madre non ebbe il coraggio di dire una parola alla sua bambina. L’impuro comprò la mia anima e io, orgogliosa di me stessa, guardavo la mamma. Mi guardano, parlano di me; poi lei si mise a piangere; lui porta una mano al coltello, non era la prima volta, negli ultimi tempi, che parlando con mia madre, davanti a me, prendeva il coltello. Mi alzai, mi aggrappai alla sua cintura per strappargli quel coltello sporco. Lui strinse i denti, con un grido mi colpì al petto, ma non riuscì a scacciarmi. Pensavo: “Adesso morirò”, caddi a terra, ma non gridai, avevo la vista annebbiata, ma seguitai a guardare. Si toglie la cintura, si rimbocca la manica del braccio che mi ha colpito e mi dà il coltello: “Tieni, tagliami la mano, fai di essa quello che vuoi per l’offesa che ti ho recato e io, superbo, mi inchinerò fino a terra davanti a te”. Posai lontano il coltello, il cuore mi batteva in gola. Non lo guardai, ricordo; risi, con le labbra strette, guardo invece mia madre, fisso i suoi occhi tristi, minacciosamente, con quel sorriso sfrontato sulle labbra, mentre lei sta lì seduta, pallida come una morta...»
Ordynov ascoltava, proteso, quel racconto confuso, ma dopo quel primo slancio, a poco a poco Katerina si calmò e parlò con maggiore pacatezza; i ricordi avevano travolto la sua angoscia nel loro mare sconfinato.
«Lui raccolse il colbacco, senza inchinarsi a salutare. Presi la lanterna e lo accompagnai io alla porta, invece della mamma, che, sebbene fosse ammalata, sarebbe voluta andare al mio posto. Arrivammo al portone, io tacevo. Gli aprii il cancello e scacciai i cani. Ma ecco che lui si toglie il colbacco e s’inchina. Poi si sfila qualcosa dal petto, prende una scatoletta di marocchino rosso e apre il fermaglio: guardo, c’erano delle perle, un dono per me. “Fuori città ho un’innamorata, le avevo portate per lei, ma è a te che le voglio dare; prendile, bella fanciulla, orna la tua bellezza o, se vuoi, calpestale, ma prendile”. Le presi, ma non le calpestai, non volevo dargli tanta importanza, le presi e, come una vipera, tacqui. Poi rientrai in casa e le misi sul tavolo davanti a mia madre: era per questo che le avevo prese. Lei per un po’ rimase zitta, era molto pallida e sembrava che avesse paura di parlare con me. “Che significa questo, Katja?”, e io rispondo: “Il mercante le ha portate per te, mia cara, io non so niente”. La guardo: piangeva, le mancava il respiro. “Non a me, Katja, non a me, figliuola cattiva, le ha portate il mercante”. Pronunciò queste parole, me lo ricordo, così amaramente, così amaramente, che tutta la sua anima parve trasformarsi in pianto. Alzai gli occhi e avrei voluto gettarmi in ginocchio davanti a lei, ma, a un tratto, il maligno mi spinse a dirle: “Se non le ha portate per te le avrà portate senza dubbio per il papà; quando tornerà a casa gliele darò, gli dirò: sono venuti i mercanti e hanno lasciato questa mercanzia...”. Come pianse, allora, la mia povera mamma... “Gli dirò io che specie di mercanti sono venuti e quale mercanzia cercavano... Gli dirò io che figlia sei tu, senza rispetto! Tu non sei più mia figlia, sei un serpente! La mia bambina maledetta...!” Io stavo zitta, non c’erano lacrime nei miei occhi, ah tutto era morto dentro di me... Andai nella mia camera e, durante la notte, ascoltai la tempesta, sì, e nella tempesta ordinai i miei pensieri.
«Passarono cinque giorni, e la sera del quinto giorno arriva il papà, cupo, rabbioso, perché stava male e la strada gli aveva tolto le forze. Lo guardo: aveva un braccio fasciato; capii che il nemico gli aveva sbarrato la strada, lo aveva distrutto, gli aveva gettato addosso il malanno. Sapevo chi era quel nemico, sapevo tutto. A mia madre non disse nemmeno una parola, non chiese di me, chiamò gli uomini, ordinò di fermare la fabbrica e che la casa venisse preservata dal malocchio. In quell’istante il mio cuore sentì che nella nostra casa era entrato il male. Aspettiamo. Passò la notte, un’altra notte di tempesta, di tormenta, e l’apprensione mi attanagliò il cuore. Aprii la finestra: la faccia in fiamme, gli occhi pieni di lacrime, il cuore mi bruciava senza tregua; mi sembrava di stare in mezzo a un fuoco, avrei voluto correre il più lontano possibile, all’altro capo del mondo, là dove nascono i fulmini e la tempesta. Il mio petto di fanciulla sussultava... a un tratto, era già tardi... era come se mi fossi addormentata, o come se una nebbia mi fosse scesa sull’anima, sento bussare alla finestra: “Apri!”. Guardo: un uomo si era arrampicato su una corda fino al mio davanzale. Era venuto a trovarmi, gli aprii e lo feci entrare nella mia cameretta solitaria.
«Era lui! Si mise a sedere sulla panca senza togliersi il colbacco, ansimando, come se gli mancasse il respiro, come se qualcuno l’avesse inseguito. Io ero in piedi in un angolo, so bene che ero impallidita. “È in casa tuo padre?” “Sì, è in casa.” “E tua madre?” “È in casa anche lei.” “Allora sta’ zitta e ascolta. Senti?” “Sì.” “Dimmi che cosa senti.” “Un fischio sotto la finestra!” “Ora, bella fanciulla, vuoi tagliare la testa al tuo nemico, chiamare tuo padre ed essere la mia rovina? Non voglio sottrarmi alla tua volontà di fanciulla, ecco, ti do la corda, legami se il cuore ti impone di vendicare l’offesa.” Taccio. “Parla, mia gioia!” “Che cosa vuoi da me?” “Voglio allontanare il nemico, dire addio come si conviene alla mia vecchia innamorata e offrire la mia anima a una nuova, bella giovane fanciulla come sei tu...” Io risi, e non capisco perché le sue parole blasfeme mi penetrarono nell’anima. “Lasciami scendere la scala, bella fanciulla, lascia che metta il mio cuore alla prova e saluti i padroni di casa.” Io tremavo, battevo i denti, il mio cuore era come un ferro arroventato. Gli aprii la porta e, mentre entrava in casa, trovai la forza di dirgli: “Riprenditi le tue perle, non farmi più regali” e gli tirai addosso la scatoletta.»
Katerina s’interruppe per riprendere fiato: tremava, impallidiva, e un momento dopo il sangue le saliva alle tempie, e, adesso che aveva smesso di parlare, una fiamma le accendeva le guance, le lacrime le facevano brillare gli occhi e un respiro faticoso, irregolare, le faceva sussultare il petto. Ma, improvvisamente, impallidì di nuovo e, per l’inquietudine e l’angoscia, le venne meno la voce.
«Restai sola e mi sentii come se fossi in mezzo alla tempesta. A un tratto sento un grido, vedo della gente correre verso la fabbrica, qualcuno grida: “La fabbrica brucia!”. Mi nascosi, tutti corsero fuori e in casa non ci fummo più che io e la mamma. Sapevo che la vita la stava abbandonando, che la sua agonia durava ormai da tre giorni, lo sapevo, io, figlia maledetta...! Sento un grido sotto la finestra della mia camera, un grido flebile come quello di un bambino che si è spaventato nel sonno, poi silenzio. Spensi la candela. Mi si era raggelato il sangue, mi coprii il volto con le mani, non trovavo il coraggio di guardare. A un tratto sento un grido, vicinissimo, sento che tornano correndo dalla fabbrica. Guardo dalla finestra e vedo che trasportano il corpo di papà, che è morto. Dicono tra loro: “Ha inciampato ed è caduto dalla scala nella caldaia bollente. Forse è stato l’impuro a spingerlo”. Mi buttai sul letto. Aspetto, sono come morta, non so chi o che cosa aspetto; fu terribile quel momento. Non ricordo quanto aspettai, ma a un certo punto sentii oscillare il pavimento, mi sentii la testa pesante, gli occhi annebbiati dal fumo, e fui felice che la mia fine fosse così vicina. Mi sentii afferrare per le spalle. Guardo, per quel poco che riesco a vedere: è lui, tutto bruciacchiato, col caffetano che fumava, che non si poteva toccare tanto scottava.
«Sono venuto a portarti via, bella fanciulla, liberami dalla sventura come prima mi ci hai gettato; ho perso l’anima per causa tua. Non basteranno le mie preghiere a compensare questa notte infame! Pregheremo tutti e due insieme!” Rideva, lui, crudele! “Mostrami come posso andarmene senza che nessuno mi veda!” Lo portai con me, tenendolo per mano. Andammo lungo il corridoio (avevo le chiavi), aprii la porta del magazzino e gli mostrai una finestra che dava sul giardino. Lui mi sollevò, con le sue braccia forti e, tenendomi stretta a sé, saltò dalla finestra. Corremmo, tenendoci per mano, corremmo finché non ci trovammo in un bosco folto e scuro. Lui tese l’orecchio: “Ci inseguono, Katja! Ci inseguono, bella fanciulla, ma non è ancora arrivato per noi il momento di dire addio alla vita! Baciami, bella fanciulla, come una promessa d’amore e di eterna felicità!”. “Ma perché hai le mani sporche di sangue?” “Sporche di sangue? Ho sgozzato i vostri cani perché si erano messi ad abbaiare contro questo ospite arrivato di notte. Andiamo!” Ricominciammo a correre. Sul sentiero vediamo il cavallo del papà che aveva spezzato la cavezza per fuggire e non bruciare vivo nella stalla. “Saltagli in groppa con me, Katja! Ce l’ha mandato Dio, per aiutarci!” Taccio. “No? Ma io non sono un senzadio, non sono l’impuro, guarda, mi faccio il segno della croce, se vuoi” e si fece il segno della croce. Salii a cavallo, mi strinsi tutta a lui e sul suo petto mi sentii venir meno, come se su di me fosse calato all’improvviso il sonno. Quando riaprii gli occhi, vidi che eravamo sulla riva di un grande, grande fiume. Lui scese da cavallo, fece scendere anche me e andò a prendere la sua barca che aveva nascosto tra le canne. “Addio, mio caro cavallo, va’ a cercare il tuo nuovo padrone, visto che quelli vecchi ti abbandonano tutti.” Mi gettai verso il cavallo del papà e lo abbracciai per salutarlo. Salimmo in barca. Lui prese i remi e dopo poco già non si vedeva più né l’una né l’altra riva. Allora, lì dove non si vedevano più le rive, vedo che lui posa i remi e si guarda attorno, in mezzo all’acqua.
«“Io ti saluto, madre,” dice “fiume impetuoso che dai da bere al popolo di Dio e sei la mia nutrice. Rispondimi: hai custodito i miei beni durante la mia assenza? Sono intatte le mie mercanzie?” Io stavo zitta con gli occhi abbassati sul petto, il viso tutto rosso per la vergogna. E lui: “Ma puoi anche prenderti tutto, fiume impetuoso e ingordo, purché tu mi prometta di proteggere e blandire la mia perla rara! Di’ una sola, piccola parola, bella fanciulla, rifulgi come il sole in mezzo alla tempesta, respingi con il tuo splendore il buio della notte!”. Ma intanto sogghignava; il suo cuore bruciava per me, ma io mi vergognavo e non sopportavo quelle risa; volevo dirgli qualcosa, ma mi vergognavo, e tacqui. “E sia!” rispose lui al mio timido impaurito pensiero, come se ne provasse un dolore. “Con la forza non si ricava niente. Dio sia con te, sprezzante colomba mia, bella fanciulla! Forse il tuo odio per me è forte, o forse non sono gradito ai tuoi limpidi occhi.” Io lo ascoltavo e mi lasciai prendere dall’ira, ma l’ira nasceva dall’amore. Cercando di dominare gli impulsi del cuore, dissi: “Se tu mi sia gradito o no, non è concesso saperlo a me, lo saprà quell’altra, la pazza, la svergognata, che nella notte nera ha profanato la sua cameretta di fanciulla, ha venduto l’anima in cambio di un peccato mortale e non ha saputo domare il suo cuore indisciplinato; lo sapranno le mie lacrime brucianti, lo saprà chi, come un ladro, si gloria della sciagura altrui e deride il cuore di una fanciulla”. Nel dire queste parole non riuscii più a trattenermi e scoppiai in singhiozzi... Lui rimase in silenzio per un po’, ma mi guardava in un modo che mi faceva tremare come una foglia. “Ascoltami, bella fanciulla,” mi dice, e nei suoi occhi c’era un ardore miracoloso “non ti dico parole senza significato, ma ti dirò una grande verità. Finché tu mi vorrai regalare la felicità, io sarò il tuo signore, ma se un giorno non mi amerai più, non dirmelo, non sprecare una parola, non ti angustiare, aggrotta solo le tue ciglia di zibellino, muovi il tuo occhio scuro, fai un cenno col tuo dito mignolo e io ti restituirò il tuo amore insieme alla libertà, che vale come l’oro, ma quel giorno, mia bella, superba tiranna, sarà anche il mio ultimo giorno!” E tutta la mia carne rispose con un riso a queste parole...»
Un’agitazione profonda interruppe il racconto di Katerina; poi lei riprese fiato, sorrise a un nuovo pensiero che le era affiorato alla mente e stava per proseguire, ma il suo sguardo scintillante incontrò lo sguardo acceso, intenso di Ordynov. Lei ebbe un sussulto, avrebbe voluto parlare, ma il sangue le inondò il viso... se lo coprì con le mani e lo nascose nei cuscini, abbandonandosi, come se si fosse sentita venir meno. L’anima di Ordynov era sconvolta. Uno smarrimento cieco, angoscioso, insostenibile gli circolava per le vene, come un veleno che cresceva d’intensità a ogni parola del racconto di Katerina: un desiderio desolato, una passione divorante dominavano i suoi pensieri e intorbidivano le sue sensazioni. Ma, nello stesso tempo, una tristezza sconfinata gli stringeva il cuore. In qualche momento avrebbe voluto urlare a Katerina di tacere, gettarlesi ai piedi e supplicarla, tra i singhiozzi, che gli restituisse le sofferenze d’amore che aveva prima per lei, il suo desiderio puro e ignaro, e rimpianse quelle vecchie lacrime ormai asciugate. Il cuore gli doleva, gonfio di sangue, rifiutava il pianto all’anima ferita. Non capiva più quello che gli diceva Katerina, i sentimenti che la turbavano atterrivano il suo amore. In quel momento maledisse la passione che lo strangolava, lo annientava, e in quel momento gli metteva nelle vene non sangue, ma piombo fuso.
«Ah, ma non è in quello che ti ho raccontato adesso, la mia sciagura» disse Katerina, sollevando all’improvviso la testa. «Non è lì,» proseguì con una voce che un nuovo sentimento rendeva sonora come il bronzo, mentre la sua anima era straziata dalle lacrime che vi stavano nascoste «non è lì la mia sventura, il mio tormento, il pensiero che non mi abbandona mai! Che m’importa di mia madre, anche se mai ne avrò un’altra al mondo! Che m’importa di lei, anche se mi ha maledetta nell’ora della morte! Che m’importa della bella vita di un tempo, della mia stanzetta calda, della mia libertà di fanciulla! Che m’importa se mi sono venduta all’impuro e ho dato la mia anima a chi la corrompe, se, in cambio della felicità, ho commesso un peccato mortale! Ah, non è questa la mia vera sciagura, anche se mi porta dolore e rovina! Quello che mi disgusta, quello che mi dilania il cuore è che sono la sua schiava disonorata, e che la vergogna e il disonore mi sono cari, cari a me, spudorata, e che il mio cuore avido ama ricordare il proprio dolore come se fosse una gioia, una felicità; la mia sventura è che nel mio cuore non vi è né ribellione né ira per l’insulto patito...!»
Un pianto convulso la interruppe. Un respiro ardente le bruciava le labbra, il suo petto si sollevava e si abbassava spasmodicamente, e i suoi occhi brillavano, inspiegabilmente, di collera. Ma un incanto indorava il suo viso, un fiotto di sentimenti appassionati; vibrava in ogni lineamento di quel viso, in ogni suo muscolo, una inconsueta irresistibile bellezza, e di colpo dal petto di Ordynov si dispersero i pensieri cupi e la tristezza che lo dilaniava sia acquietò. Il cuore gli si spezzava nello sforzo di stringersi al cuore di lei, di perdersi in quel cuore con lei, per battere all’unisono al ritmo della stessa tempesta, della stessa impetuosa e sconosciuta passione, e magari morire insieme. Katerina incontrò lo sguardo turbato di Ordynov e gli rivolse un sorriso, e quel fiotto infuocato gli investì di nuovo il cuore e lo lasciò quasi privo di coscienza.
«Abbi pietà di me» le bisbigliò, cercando di vincere il tremito che aveva nella voce, chinandosi verso di lei, con una mano sulla sua spalla, e guardandola negli occhi così da vicino che i loro respiri si unirono in uno solo. «Mi hai ucciso. Io non conosco il tuo dolore, e la mia anima è sconvolta... Ma che m’importa sapere perché soffre il tuo cuore? Dimmi che cosa vuoi da me... io lo farò. Vieni via, andiamo via, non uccidermi, non distruggermi...!»
Katerina lo guardava, immobile; l’ardore delle guance le aveva asciugato le lacrime. Avrebbe voluto interromperlo, prenderlo per mano e parlargli, ma sembrava che non riuscisse a trovare le parole. A poco a poco le sue labbra si schiusero in un sorriso, sembrava che, attraverso quel sorriso, volesse farsi strada uno scoppio di risa.
«Eppure non ti ho raccontato tutto» disse infine, agitata. «Ma tu, fervido cuore, mi ascolterai, è vero, mi ascolterai? Ascolta la tua sorellina! Conosci ancora poco la sua atroce sventura! Volevo parlarti di quell’anno che ho vissuto sola con lui, ma non lo farò... Passato un anno, lui se ne andò lungo il fiume con i suoi compagni, e io rimasi in casa della sua madre adottiva ad aspettarlo all’approdo. Aspetto un mese, due mesi e, alle porte della città, incontro un giovane mercante; lo guardai e mi ricordai dei begli anni d’oro ormai passati. “Piccola innamorata, sorellina,” mi dice lui dopo che ci eravamo scambiati qualche parola “sono Aljoša, il tuo promesso. Fin da quando eravamo bambini, i nostri genitori avevano deciso che ci saremmo sposati, ma tu ti sei dimenticata di me; ricordatene ora, vengo anch’io dal tuo paese...” “E che cosa si dice di me al tuo paese?” “Si dice che hai perso il tuo onore, il tuo pudore verginale, che vivi con un uomo che è un brigante e un assassino” mi risponde ridendo Aljoša. “E tu che cosa hai detto di me?” “Avrei voluto dire molto, ma sono partito.” Il suo cuore era turbato mentre parlava. “Avrei voluto dire molto, ma ora che ti ho visto, la mia anima ha perso ogni vigore; tu mi hai ucciso. Compra anche la mia anima, prendila, deridi il mio cuore e il mio amore, bella fanciulla. Ora sono orfano, padrone di me stesso, e anche la mia anima appartiene solo a me, non l’ho venduta io, come ha fatto qualcuno che ha spento la sua memoria! E il mio cuore non hai bisogno di comprarlo, te lo regalo. È un buon affare, no?” Io risi; e non me li fece una volta o due questi discorsi, per un mese visse solo solo in campagna, non si curava della sua roba, aveva mandato via tutti intorno a lui. Ebbi compassione delle sue lacrime di orfano. Così, una mattina, gli dissi: “Aljoša, aspettami vicino al molo appena farà buio; andremo insieme al tuo paese! Non riesco più a sopportare questa vita infelice”. Scese la notte, io legai il mio fagotto. La mia anima soffriva e si rallegrava. Ma, all’improvviso, non si sa come, entra il mio padrone. “Ti saluto. Andiamo” mi dice. “Ci sarà una tempesta sul fiume e il tempo non aspetta.” Lo seguii; arrivammo sulla riva, ma i nostri uomini erano lontani; seduto su una barca, ai remi, vediamo un giovane che sembra stia aspettando qualcuno. “Oh, Aljoša, è Dio che ti ha mandato ad aiutarci. Perché sei qui? Hai indugiato al molo e ora stai raggiungendo le tue barche? Fai salire anche me e la mia padroncina, anima buona, e portaci fino ai miei uomini, ho rimandato indietro la mia barca e a nuoto non ce la faccio.” “Sali” rispose Aljoša, e nel sentire la sua voce la mia anima gemette. “Sali insieme alla padroncina: il vento soffia per tutti, e nel mio terem c’è posto anche per voi.” Salimmo sulla barca; la notte era scura, le stelle si erano nascoste, il vento ululava, le onde erano alte, noi ci allontanammo di una versta da riva. Stavamo zitti tutti e tre.
«“Ecco la tempesta” dice il mio padrone. “Questa tempesta ci porterà del male. Da quando sono nato non ho mai visto una tempesta sul fiume come quella che si abbatterà ora su di noi. La barca è troppo carica! Non può portarci tutti e tre.” “È vero,” dice Aljoša “non può portarci tutti e tre, dunque uno di noi è di troppo.” La sua voce vibra come una corda tesa. “Aljoša, ti conosco fin da quando eri piccolo, io e tuo padre ci dividevamo il pane e il sale come fratelli, dimmi dunque, Aljoša, saresti capace di arrivare fino alla riva senza barca, o moriresti subito?” “No, non ce la farei.” “Ma anche a te, brav’uomo, può capitare di dover fare una bevuta. Ci vai o no?” “No, sarebbe la fine della mia anima, il fiume in tempesta mi travolgerebbe!” “Adesso ascoltami tu, Katerinuška, mia perla rara! Ricordo un’altra notte come questa, solo che allora il fiume era tranquillo e in cielo brillavano le stelle e riluceva la luna... Ti chiedo solo, così, semplicemente: te la sei dimenticata?” “No, me la ricordo” rispondo io. “E se non l’hai dimenticata, allora non hai dimenticato né un vecchio patto né un uomo forte che insegnò a una bella fanciulla a farsi restituire la sua libertà da chi non le fosse più caro come un tempo.” “No, neanche di questo mi sono dimenticata” dico io, tra la morte e la vita. “Ah, non te ne sei dimenticata! Allora guarda: la barca è troppo carica. Non è forse arrivata per qualcuno... la sua ora? Parla, mia amata, mia colombella, pronuncia, nel tuo linguaggio di colomba, una dolce parola...”
«Io non la dissi, allora, quella parola!» mormorò Katerina, impallidendo, ma non riuscì a proseguire.
Dietro le loro spalle risuonò una voce rauca e cupa: «Katerina!».
Ordynov sussultò. Ritto sulla soglia c’era Murin. Era avvolto alla meglio nella coperta di pelliccia, pallido come la morte e fissava su di loro uno sguardo delirante. Katerina diventava sempre più pallida e lo guardava anche lei, immobile e come se fosse vittima di un incantesimo.
«Vieni da me, Katerina» mormorò il malato con una voce così bassa che si sentì appena, e uscì dalla stanza. Katerina, sempre immobile, guardava nel vuoto, davanti a sé, come se il vecchio fosse ancora lì. Ma improvvisamente le sue guance pallide avvamparono; lentamente, si alzò dal letto. Ordynov si ricordò del loro primo incontro.
«A domani, allora, lacrime mie» disse lei con un risolino strano. «Ricordati dove sono arrivata a raccontare: “Scegli o l’uno o l’altro: chi ti è caro e chi non ti è caro, bella fanciulla!”. Te ne ricorderai? Aspetterai una breve notte?» ripeté, posandogli le mani sulle spalle e guardandolo amorosamente.
«Katerina, non andare da lui, non ti devi distruggere. È pazzo!» bisbigliò Ordynov tremando di paura per lei.
Dall’altra parte del divisorio il vecchio chiamò:
«Katerina!».
«Che cosa credi che mi succeda? Che mi tagli la gola?» ribatté Katerina, ridendo. «Buonanotte, cuore mio diletto, colombo mio appassionato, fratellino» diceva, stringendosi teneramente al petto la testa di lui, mentre le lacrime avevano ripreso a scenderle sul viso come rugiada.
«Sono le mie ultime lacrime. Dormirai, mio amato, il dolore ti passerà e domani dal sonno ti desterai alla gioia...» E lo baciò con trasporto.
«Katerina! Katerina!» mormorò Ordynov, in ginocchio davanti a lei, cercando di trattenerla. «Katerina!»
Lei si voltò, nell’andarsene, sorrise, gli fece un cenno con la testa e uscì. Ordynov la sentì entrare nella stanza vicina; trattenendo il respiro restò in ascolto, ma non sentì il minimo rumore. Il vecchio taceva, o forse aveva di nuovo perso i sensi... Ordynov avrebbe voluto andare da lei, ma le gambe gli si piegarono... Esausto, si lasciò cadere sul letto.
II
Quando riaprì gli occhi, per molto tempo non riuscì a capire che ora fosse, era l’alba o il tramonto? La stanza era buia. Non avrebbe saputo dire quanto aveva dormito, ma capiva che il suo sonno era stato la conseguenza di uno stato morboso. Si passò una mano sul viso, come per svegliarsi meglio e scacciare le immagini notturne. Ma, non appena posò i piedi a terra, si sentì come se il suo corpo fosse in pezzi, e le braccia e le gambe, per la stanchezza, si rifiutarono di obbedirgli. La testa gli doleva, gli girava, e tutto il suo corpo era percorso da un leggero tremito e da vampate di calore. Ripresa la coscienza di sé, ritrovò anche la memoria e nel ricordare la notte precedente il suo cuore palpitò e batté così forte, e tanto vivide furono le sue sensazioni, che pareva non fossero passate ore, ma attimi, da quando Katerina se n’era andata. Sentì che i suoi occhi non erano ancora asciutti, o erano lacrime nuove che sgorgavano come una sorgente dalla sua anima appassionata? E, per quanto fosse incredibile, arrivava a godere della propria tortura, anche se con tutto se stesso si rendeva conto che non avrebbe potuto reggere ancora a quella violenza. Ci fu un momento in cui gli parve di sentire vicina la morte, l’avrebbe accolta come una visitatrice luminosa: tanta era l’esasperazione dei suoi sentimenti, tanto l’impeto con il quale, appena sveglio, era tornata a bruciare la sua passione, tanta era l’esaltazione che investiva la sua anima, che la vita, nel subire quell’accelerazione furiosa, sembrava sul punto di spezzarsi, di infrangersi, di sgretolarsi in un attimo e dileguarsi per sempre. Quasi in quello stesso istante, come una risposta alla sua angoscia, al turbamento che aveva nel cuore, udì, simile all’armonia interiore che l’anima conosce nelle ore in cui gode del proprio esistere, nelle ore in cui la sua felicità è senza turbamento, la voce nota, corposa e argentina di Katerina. Vicino a lui, quasi al suo capezzale, risuonò una canzone, flebile e triste... La voce ora si levava più forte, ora calava e si spegneva in una contrazione dolorosa, quasi a racchiudere e a cullare dentro di sé il dolore di un desiderio insaziabile, represso, nascosto nel cuore angosciato; ora di nuovo s’innalzava come il gorgheggio di un usignolo, e vibrante, ardente di una passione ormai liberata, si dilatava in un oceano di gioia manifesta, di suoni vigorosi e sconfinati come il primo attimo di beatitudine dell’amore. Ordynov distingueva anche le parole: semplici, nate dal cuore, accostate una all’altra tanto tempo prima da un sentimento lineare, sereno, puro e chiaro a se stesso. Ma lui non le ascoltava, ascoltava soltanto i suoni. Al di là delle parole innocenti della canzone, rilucevano nella sua mente altre parole che erano l’eco tumultuosa dello slancio di cui traboccava il suo cuore, che esprimevano le tortuosità più profonde, ignote a lui stesso, della sua passione e ne facevano avvertire a tutta la sua coscienza la risonanza profonda. Ora gli pareva di sentire l’ultimo anelito di un cuore che moriva di passione, ora la gioia dello spirito che con la sola volontà spezza le catene e si getta, libero e luminoso, nell’immenso mare di un amore senza inibizioni; ora gli pareva di sentire la prima promessa di una innamorata con la sua profumata timidezza e il suo primo rossore, accompagnato da suppliche, lacrime, segreti e timorosi bisbigli; ora il desiderio di una baccante, orgogliosa e felice della propria forza, senza veli, senza mistero, con il riso smagliante, che guarda intorno a sé con lo sguardo ebbro...
Ordynov non riuscì ad aspettare la fine della canzone e si alzò dal letto. Il canto s’interruppe immediatamente.
«Il buon mattino e il buon giorno sono già passati, mio amato,» risuonò la voce di Katerina «ti do la buona sera! Alzati, vieni qui da noi, svegliati alla luce della gioia; io e il padrone ti aspettiamo, siamo gente buona, rispettosa della tua volontà; cancella l’odio con l’amore, se ancora ti fa male il cuore per essere stato offeso. Pronuncia ora una parola d’amore...!»
Ordynov, al primo richiamo di Katerina, era uscito dalla sua stanza e, quasi senza accorgersene, era entrato in quella dei padroni. Gli venne aperta la porta e, splendente come il sole, gli si irradiò davanti agli occhi il sorriso della sua meravigliosa padrona di casa. In quel momento lui non vedeva e non sentiva nessuno all’infuori di lei. In un attimo tutta la sua vita, tutta la felicità del suo cuore si fusero nella figura luminosa della sua Katerina.
«Un’aurora e un crepuscolo sono passati» disse Katerina tendendogli le mani «da quando ci siamo salutati; il crepuscolo si sta già spegnendo, guarda dalla finestra. Come l’aurora e il crepuscolo dell’anima di una bella fanciulla,» proseguì, ridendo «una è quella che la fa arrossire la prima volta, quando nel petto trasale il suo cuore solitario; l’altro è quello che la fa divampare come un fuoco e le opprime il petto, quando della timidezza di un tempo ormai non si ricorda più e il viso le si inonda di sangue scarlatto... Entra, entra nella nostra casa, buon giovane. Perché ti fermi sulla soglia? Onore a te, e amore: il padrone ti saluta!»
Con una risata squillante come una musica prese per mano Ordynov e lo fece entrare. La timidezza aveva pervaso il cuore di Ordynov. Tutto l’incendio che lo divorava sembrava si fosse spento in un attimo e per un attimo; abbassò gli occhi, confuso, e non ebbe il coraggio di guardarla. Sentiva che era così bella che temeva di non sopportare il suo sguardo accecante. Non l’aveva mai vista così, la sua Katerina. Per la prima volta il riso e l’allegria si diffondevano intensamente sul suo viso e asciugavano le sue lacrime amare sulle ciglia nere. Le mani gli tremavano strette in quelle di lei. Se avesse alzato gli occhi avrebbe visto che Katerina, con un sorriso trionfante, teneva fisso lo sguardo luminoso sul suo viso alterato dall’imbarazzo e dalla passione.
«Alzati, vecchio!» disse lei, come riprendendosi. «Accogli l’ospite con una parola gentile. L’ospite è come un fratello carnale! Alzati, scorbutico vecchio altezzoso, alzati, inchinati, prendigli le mani bianche, invitalo alla tua tavola!»
Ordynov alzò gli occhi e fu come se solo in quel momento si rendesse conto di dove si trovava. Soltanto ora pensava a Murin. Gli occhi del vecchio, come velati dall’ombra che precede la morte, lo fissavano immobili; Ordynov, angosciato, si ricordò dello sguardo che aveva visto, l’ultima volta, lampeggiare sotto quelle sopracciglia nere, corrugate, contratte, come in quel momento, per il dolore e la collera. Si sentì di nuovo girare la testa. Si guardò attorno e solo allora si rese conto chiaramente e distintamente di ogni cosa. Murin era ancora disteso sul letto, ma quasi completamente vestito, come se quel giorno si fosse già alzato e fosse già uscito. Aveva un fazzoletto rosso intorno al collo, come al solito, e le scarpe ai piedi. Il male gli era passato, ma il suo viso era ancora orribilmente pallido, giallastro. Katerina stava in piedi vicino al letto, si teneva appoggiata al tavolo con una mano e guardava attentamente tutti e due. Un sorriso gentile non le si cancellava mai dal viso. Sembrava che tutto si svolgesse secondo un suo cenno.
«Ah, sei tu» disse Murin, mettendosi a sedere sul letto. «Sei il mio inquilino. Sono colpevole davanti a te, signore, ho commesso un errore, ti ho ingiuriato senza avvedermene, ho scherzato, prima, con quel fucile. Chi poteva sapere che anche contro di te si sarebbe rivolto l’oscuro malanno? Mi succede» aggiunse con la voce rauca, sofferente, aggrottando la fronte e distogliendo istintivamente lo sguardo. «La disgrazia non bussa alla porta, si avvicina senza farsi sentire, come un ladro! Poco fa anche a lei stavo quasi per ficcare il coltello nel petto...» disse, e accennò con la testa a Katerina. «Sono ammalato, ho degli attacchi... Ma non ne parliamo. Siediti, sarai nostro ospite.»
Ordynov non staccava gli occhi da lui.
«Siediti, siediti,» gridò il vecchio, impaziente «siediti se le fa piacere! Se siete diventati come fratelli usciti dallo stesso grembo! Se vi amate come amanti!» Ordynov si sedette.
«La vedi la sorellina?» proseguì il vecchio e, ridendo, mostrò due file di denti bianchi e tutti sani. «Scambiatevi qualche carezza, miei cari! È bella la tua sorellina, signore? Rispondimi! Guarda come sono accaldate le sue guance. Guarda, suvvia, onora la tua bella davanti a tutto il mondo. Fa’ vedere come arde per lei il tuo povero cuore!»
Con la fronte corrugata, Ordynov fissava incollerito il vecchio, che, guardandolo, ebbe un sussulto. Il cuore di Ordynov ribolliva di una rabbia cieca. Sentiva, attraverso un istinto animale, di trovarsi di fronte a un nemico mortale. Non riusciva a capire quello che gli stava succedendo, la ragione si rifiutava di rispondergli.
«Non lo guardare» disse una voce dietro di lui. Ordynov si voltò.
«Non lo guardare, non lo guardare! Se il diavolo ti provoca, abbi compassione della tua amata» disse Katerina ridendo e, standogli alle spalle, gli coprì gli occhi con le mani, poi, di scatto, tolse le mani e si coprì a sua volta gli occhi. Ma il rossore sembrava passarle attraverso le dita. Si tolse le mani dal viso e, ardendo come il fuoco, sembrò voler affrontare con lo sguardo lucente e ardito le loro risa e la loro curiosità. Ma tutti e due la guardarono senza parlare, Ordynov con amore e sgomento, come se fosse la prima volta che una bellezza tanto terribile lo colpiva al cuore; il vecchio con attenzione e freddezza. Il suo viso pallidissimo non lasciava trapelare alcun sentimento, solo aveva le labbra livide e appena appena tremanti.
Katerina smise di ridere, si avvicinò al tavolo e cominciò a riordinare tutto quello che vi stava sopra, i libri, le carte, il calamaio, e a metterlo sul ripiano della finestra. Aveva il respiro agitato e, ogni tanto, inghiottiva l’aria avidamente, come se avesse l’affanno. Il suo petto gonfio si abbassava e si sollevava pesantemente come l’onda che sale sulla riva e si ritrae. Abbassò gli occhi e le sue ciglia, nere come la pece, splendettero come aghi appuntiti sulle sue guance lucide.
«Mio zar! Mia fanciulla!» disse il vecchio.
«Mia dominatrice» mormorò Ordynov, tremando. Si riebbe, sentendo che il vecchio lo guardava: in un lampo in quello sguardo balenarono avidità, perfidia, e un gelido disprezzo. Ordynov fece per alzarsi, ma sembrava che una forza invisibile gli tenesse incatenate le gambe. Ricadde sulla sedia. Ogni tanto si stringeva forte una mano come se non fosse più sicuro di niente. Gli pareva che un incubo lo soffocasse e che i suoi occhi fossero appesantiti da un sonno malato, eppure non avrebbe voluto svegliarsi...
Katerina tolse il vecchio tappeto dal tavolo, aprì un baule, prese una tovaglia tutta ricamata di sete colorate e oro e la mise sul tavolo; poi tolse dall’armadio un antico scrigno d’argento, che era stato dei suoi bisnonni, lo posò in mezzo al tavolo e ne estrasse tre coppe d’argento: per il padrone di casa, per l’ospite e per sé; poi fissò il vecchio e l’ospite, come riflettesse.
«Chi tra di noi è caro o non è caro all’altro?» disse. «Chiunque non sia caro all’altro è caro a me e berrà con me la sua coppa. Io ho caro ciascuno di voi due, ciascuno mi è gradito: dunque, tutti insieme beviamo all’amore e al buon accordo!»
«Beviamo e anneghiamo nel vino i cattivi pensieri» disse il vecchio con voce alterata. «Versa il vino, Katerina.»
«E tu, vuoi che ti versi il vino?» chiese Katerina a Ordynov.
Ordynov le porse la sua coppa, senza rispondere.
«Aspetta! Che il desiderio e i pensieri di ciascuno si avverino secondo la sua volontà!» esclamò il vecchio, alzando la coppa.
Tutti e tre avvicinarono le coppe e bevvero.
«E ora beviamo noi due insieme, vecchio» disse Katerina. «Beviamo, se nel tuo cuore c’è amore per me. Beviamo all’antica felicità, inchiniamoci agli anni passati, con il cuore per la felicità, inchiniamoci con amore. Ordinami di versare il vino, se il tuo cuore arde per me.»
«Il tuo vinello è forte, colombella mia, e tu vi immergi solo un poco le labbra» disse il vecchio ridendo, e porse ancora la coppa a Katerina.
«Allora ne berrò tutto un sorso, ma tu bevi fino in fondo alla coppa! Che cos’è la vita, vecchio, se si porta sempre con sé un grave pensiero? I pensieri gravi fanno soltanto male al cuore! Il pensiero nasce dal dolore e attira il dolore, mentre quando si è felici non si hanno pensieri. Bevi, vecchio! Annega il tuo pensiero!»
«Devi avere raccolto molto dolore nel tuo animo, se te ne difendi in questo modo! Si vede che hai deciso di cancellarlo tutto in una volta, bianca colombella mia. Bevo insieme a te, Katja. E tu, signore, se mi permetti di chiedertelo, hai un dolore?»
«Il dolore che ho lo tengo per me» mormorò Ordynov senza smettere di guardare Katerina.
«Hai sentito, vecchio? Anch’io, per molto tempo non sapevo, non ricordavo niente di me, ma è venuto il tempo di sapere e di ricordare, allora ho vissuto di nuovo con la mia anima insaziabile tutto ciò che è stato.»
«È una brutta cosa vivere solo del passato» disse il vecchio, assorto. «Il passato è come il vino già bevuto! Che felicità c’è nel passato? Quando il caffetano si è consumato, si butta via...»
«E ce ne vuole uno nuovo» esclamò Katerina scoppiando in una risata forzata, mentre due lacrime, trasparenti come due diamanti, scintillavano sulle sue ciglia. «Non si può vivere un secolo in un minuto, e il cuore di una fanciulla batte veloce e non si riesce a tenere il passo con lui. Hai capito, vecchio? Guarda, disperdo la mia lacrima nella tua coppa.»
«È in cambio di una grande felicità che hai comprato il tuo dolore?» chiese Ordynov, con la voce tremante per l’angoscia.
«Si vede, signore, che di dolore tu ne hai molto da vendere,» disse il vecchio «visto che ti intrometti senza che nessuno abbia chiesto il tuo parere.» E scoppiò in una risata muta e rancorosa, guardando Ordynov dritto negli occhi.
«Ho avuto tanto quanto ho venduto» rispose Katerina, quasi risentita. «A chi pare tanto e a chi poco. C’è chi vuol dare tutto e non prende niente, un altro, invece, non promette niente, eppure il cuore, docile, lo segue. Ma tu non giudicare» aggiunse, guardando Ordynov con tristezza. «Un uomo è fatto in un modo e uno in un altro, e non si può sapere perché l’anima va verso l’uno o verso l’altro. Riempi la tua coppa, vecchio! Bevi alla felicità della tua figlia amata, della tua schiava silenziosa e docile, com’era prima, quando ti ha conosciuto. Leva in alto la tua coppa!»
«E sia, allora! Riempi anche la tua!» disse il vecchio prendendo il vino.
«Aspetta, vecchio, non bere subito, aspetta che ti dica una parola...!»
Katerina, con i gomiti appoggiati sul tavolo, fissò il suo sguardo accalorato e intenso in quello del vecchio. Brillava, negli occhi di Katerina, una strana determinatezza, e una strana calma. Ma i suoi gesti erano concitati, imprevedibili, rapidi. Sembrava bruciare tutta. La sua bellezza aumentava insieme all’emozione e all’animazione. Dalle sue labbra, dischiuse in un sorriso che mostrava i suoi denti regolari come perle, usciva un respiro affannoso che le dilatava leggermente le narici. Il suo petto sobbalzava, la treccia che portava attorcigliata tre volte sulla nuca le era scivolata sull’orecchio sinistro e le copriva in parte la guancia arrossata. Qualche goccia di sudore le bagnava le tempie.
«Leggimi la mano, vecchio! Leggimela, mio amato, leggimela prima che il vino ti confonda la mente; ecco, ti mostro il mio palmo bianco. Non per nulla da noi ti chiamavano il mago. Tu hai studiato tanti libri, conosci le formule magiche. Guarda la mia mano, vecchio, leggimi il mio triste destino; solo sta’ attento a non mentire! Dimmi quello che sai: sarà felice la tua figliuola, oppure tu non le farai grazia e attirerai sul suo cammino solo la sciagura? Dimmi, sarà tiepido l’angolo dove vivrò o, come l’uccello migratore, cercherò, orfana, il mio posto tra i buoni? Dimmi: chi mi è nemico? Chi ha in serbo solo amore per me? Chi trama contro di me? Dimmi: il mio cuore giovane e desideroso dovrà vivere il suo tempo in solitudine e, prima che il suo tempo finisca, spegnersi, oppure troverà il suo gemello e batteranno concordemente insieme, felicemente... fino a un nuovo dolore! E, vecchio, indovina anche in quale cielo azzurro, di là da quali mari e boschi vive il mio chiaro falco, dimmi se con il suo occhio acuto spia il mio arrivo, se mi aspetta o no con amore, se s’innamora di me perdutamente, se cesserà presto di amarmi, se m’ingannerà, sì o no; e poi, dimmi tutto in una sola volta, vecchio, dimmi se ci resta ancora molto tempo da passare insieme in questo angolo miserabile, a leggere i libri neri; dimmi quando, vecchio, dovrò inchinarmi profondamente davanti a te, salutarti affettuosamente e ringraziarti per il pane e il sale, perché mi hai dato da mangiare, da bere e mi hai raccontato le favole... e sta’ attento a dire tutta la verità, non mentire; è il momento per te di mostrare quello che sai fare.»
Era andata animandosi sempre più, fino all’ultima parola, quando, improvvisamente, le mancò la voce, come se una folata di vento avesse portato via il suo cuore. I suoi occhi brillarono e il labbro superiore le tremò appena. Un riso compiaciuto e cattivo strisciava e si nascondeva nelle sue parole, ma sembrava che in quel riso ci fosse un’eco di pianto. Stava protesa attraverso il tavolo, e guardava con un’attenzione spasmodica gli occhi del vecchio che si stavano offuscando. Quando smise di parlare, Ordynov sentì che le batteva forte il cuore, la guardò e gridò in una esclamazione il suo rapimento. Fece per alzarsi dalla panca, ma un immediato, rapido sguardo del vecchio lo inchiodò dov’era. Quello sguardo esprimeva disprezzo, scherno, irritazione e, nello stesso tempo, quella curiosità scaltra e maligna che ogni volta faceva trasalire Ordynov e lo colmava di sdegno, di risentimento e di collera impotente.
Il vecchio guardò la sua Katerina pensosamente e quasi malinconicamente incuriosito. Il suo cuore era esacerbato, quelle parole lei le aveva dette. Mantenne però il suo viso impassibile e, quando lei ebbe smesso di parlare, le sorrise.
«Quante cose vuoi sapere tutte insieme, uccellino mio che hai messo le piume, che hai appena imparato a battere le ali! Riempimi una coppa di vino fino all’orlo; beviamo all’armonia tra noi e alla buona volontà; altrimenti con un nero occhio impuro, rovinerò il mio auspicio. Il diavolo è potente e si fa presto a precipitare nel peccato!»
Alzò la coppa e bevve. Mentre beveva diventava sempre più pallido. I suoi occhi erano come carboni ardenti. Quella lucentezza febbrile sul volto improvvisamente livido indicava che stava per essere colto da un altro attacco del suo male. Il vino era forte e, anche se Ordynov ne aveva bevuto solo una coppa, già gli si annebbiava la vista. Il sangue, riscaldato dalla febbre, gli colmava, inarrestabile, il cuore, gli confondeva la mente. La sua agitazione seguitava a crescere. Si versò dell’altro vino, e lo bevve senza sapere neppure lui quello che faceva, con che cosa placare quell’inquietudine che aumentava, e il sangue cominciò a scorrergli più velocemente nelle vene. Era quasi in preda a un delirio, e faticosamente, solo tendendo l’attenzione al massimo, riusciva a seguire quanto stava succedendo tra i suoi strani padroni di casa.
Il vecchio batté rumorosamente sul tavolo la coppa d’argento.
«Versami dell’altro vino, Katerina!» gridò. «Versami il vino, cattiva figliuola, fino a farmi cadere per terra. Ammazza il vecchio e falla finita con lui! Ecco, così, versane ancora, riempi la coppa, bella! Beviamo insieme! Perché hai bevuto così poco? Credi che non me ne sia accorto...?»
Katerina rispose, ma Ordynov non riuscì a sentire le sue parole: il vecchio non la lasciò finire e le prese una mano, come se non riuscisse più a trattenere la piena che gli premeva nel petto. Il volto pallido, gli occhi ora velati ora scintillanti come un fuoco ardente, le labbra livide e tremanti, le disse con una voce alterata, rotta da una strana eccitazione:
«Dammi la tua manina, bella! Ti dirò quale sarà il tuo avvenire, ti dirò tutto, non ti mentirò. Sono un mago, non ti sei sbagliata. Il tuo piccolo cuore d’oro ti ha detto la verità: sono io il suo unico mago, lui è semplice e innocente e non lo ingannerò. Ma c’è una cosa che tu non hai capito: non sono io, il mago, a poterti insegnare quel che è ragionevole e giusto! La ragione e la volontà non sono la stessa cosa per la fanciulla che, anche quando sente dov’è la verità, è come se non l’avesse mai conosciuta. La sua mente è come una serpe scaltra, anche se il suo cuore è colmo di lacrime. Saprà trovare da sola la strada, striscerà, sguscerà in mezzo alle sciagure, serbando intatti i suoi astuti propositi! Riuscirà in parte a vincere con la mente, e quando non arriverà con la mente al suo scopo, confonderà la mente altrui con la propria bellezza, la sconvolgerà con lo sguardo del suo occhio scuro: la bellezza infrange qualsiasi forza, e anche un cuore d’acciaio può spaccarsi in due! Vuoi che ti dica se ci sarà tristezza e dolore nella tua vita? La tristezza umana è dura da sopportare! Ma il cuore debole ignora la sventura. È il cuore forte che conosce la sventura, la quale si espande in silenzio con una lacrima di sangue, ma non si manifesta apertamente per non essere insultata: la tua sofferenza invece, fanciulla, è come un’impronta lasciata sulla sabbia, la pioggia la laverà, il sole l’asciugherà, il vento selvaggio la cancellerà e la disperderà. Ma voglio farti un’altra previsione: tu sarai schiava di colui che ti amerà; da sola metterai in catene la tua libertà e gliela darai come un pegno e non ti verrà restituita; non saprai smettere di amare al tempo giusto; tu getterai il seme, e colui che sarà la tua rovina raccoglierà una spiga intera. Bambina mia dolce, testolina d’oro, hai disperso la tua lacrimuccia, la tua perla nella mia coppa, ma non hai saputo vincerti e ne hai versate subito altre cento, hai mancato alla parola e ti sei vantata del tuo dolore! Ma per lei, per quella lacrimuccia, non ti crucciare. Ti verrà restituita a usura, la tua lacrimuccia di perla, in una lunga dolorosa notte, quando un tormento macerante, un oscuro pensiero ti logorerà a poco a poco: allora sul tuo cuore ardente, sempre per quella lacrimuccia, ti gocciolerà una lacrima diversa, la lacrima di un altro, una lacrima di sangue, e non tiepida, ma calda come il piombo fuso; brucerà il tuo bianco petto e fino al mattino, un mattino triste e grigio come quello dei giorni di pioggia, ti agiterai nel tuo letto, versando goccia a goccia sangue rosso vivo, ma la tua ferita fresca non si chiuderà fino all’altro mattino. Versami ancora vino, Katerina, colombella mia, versami ancora vino per il buon consiglio; in seguito non ci saranno parole da sprecare...»
La voce gli si indebolì, tremò: sembrava che dal petto stesse per sgorgargli il pianto... Si versò il vino e ne bevve febbrilmente un’altra coppa, poi di nuovo la batté sul tavolo e nel suo sguardo si accese ancora quella fiamma.
«Ah, vivi come capita!» esclamò. «Gettati il passato dietro le spalle! Katerina, versami il vino, riempimi la coppa, perché mi stacchi dal collo la testa ribelle e mi stordisca a morte l’anima. Distruggimi per una notte e che non ci sia più un mattino, fa’ che il ricordo mi lasci per sempre. Quello che è stato bevuto è stato vissuto! La merce ha perso valore, è stata per troppo tempo presso il mercante, che ora la cede senza niente in cambio! Ma quel mercante non l’avrebbe mai venduta a un prezzo inferiore al suo: si sarebbe versato il sangue del nemico e anche il sangue innocente, e chi la comprava ci avrebbe perso anche la propria anima dannata! Versa, versa il vino, Katerina...»
Ma la mano che reggeva la coppa restava inerte; il vecchio respirava a fatica e la testa, a tradimento, gli si piegò in avanti. Per l’ultima volta fissò su Ordynov il suo sguardo annebbiato, poi anche lo sguardo si spense e le palpebre, pesanti come piombo, si chiusero. Un pallore di morte gli si diffuse in viso... Le labbra si mossero, si contrassero nello sforzo di parlare e, a un tratto, una grossa, calda lacrima si staccò dalle ciglia e scese lungo la guancia pallida... Ordynov non riuscì a resistere. Si alzò, si avvicinò a Katerina e le prese una mano, ma lei non lo guardò, come se non lo avesse visto, o riconosciuto... Era come se anche lei avesse perso i sensi, come se fosse dominata da un solo pensiero, da una sola idea. Si aggrappò al vecchio che dormiva, lo strinse con il suo braccio bianco, fissandolo con uno sguardo intenso e febbrile, come se non potesse staccarsi da lui. Sembrava che non capisse che Ordynov l’aveva presa per mano. Poi voltò la testa verso di lui e lo guardò con un lungo, penetrante sguardo, poi, come se finalmente avesse capito chi era, gli rivolse un sorriso stentato, stupito, triste, che le costava fatica e dolore.
«Va’ via, va’ via,» bisbigliò «sei ubriaco, sei cattivo! Non ti voglio come ospite...!» Poi si voltò di nuovo verso il vecchio, fissandolo.
Sembrava che vegliasse sul suo respiro e cullasse il suo sonno, timorosa anche di respirare e di non riuscire a placare il tumulto del suo cuore. C’era nel suo cuore un’adorazione così impetuosa che l’anima di Ordynov si lasciò prendere da una disperazione, una furia, una rabbia incontenibile.
«Katerina, Katerina!» gridò, torcendole la mano.
Per un attimo il viso di lei si coprì di dolore, poi rialzò la testa e lo guardò con una ironia, una sfrontatezza e un disprezzo tali, che Ordynov vacillò, come se non riuscisse più a stare in piedi. Poi lei gli indicò il vecchio addormentato e, come se tutto lo scherno che lui aveva mostrato nei confronti di Ordynov fosse passato nei propri occhi, gli rivolse di nuovo uno sguardo tagliente e raggelante.
«Chi è? Ti taglierà la gola?» urlò Ordynov, ancora in preda al furore.
Era come se il suo demone gli avesse bisbigliato all’orecchio che aveva capito l’essenza di lei... Quel pensiero ossessivo gli fece esplodere il cuore in una risata.
«Ti comprerò dal tuo mercante, mia bella, se è la mia anima che vuoi! Così mal ridotto non può tagliare la gola a nessuno...!»
Sul viso di Katerina c’era un riso statico, che toglieva i sensi e le forze a Ordynov. Quello scherno inesauribile gli torturava il cuore. Senza rendersi conto di quel che faceva, si appoggiò con la mano alla parete e staccò dal chiodo l’antico, prezioso pugnale del vecchio. Il viso di Katerina parve esprimere lo stupore, ma nello stesso tempo l’ira e il disprezzo comparvero nei suoi occhi con più forza di prima. Ordynov soffriva orribilmente a guardarla... Gli sembrava che qualcuno gli guidasse la mano per fargli commettere una pazzia; tolse il pugnale dal fodero... Katerina, immobile, come se non respirasse più, aspettava...
Ordynov guardò il vecchio...
In quel momento gli parve che un occhio del vecchio si aprisse lentamente e lo osservasse ridendo. I loro sguardi si incontrarono. Ordynov lo fissò... A un tratto gli parve che tutto il volto del vecchio si mettesse a ridere e che quella risata diabolica, assassina, agghiacciante, si ripercuotesse per la stanza. Un pensiero immondo, torbido gli strisciò come un serpente attraverso la testa e lo fece sussultare. Il pugnale gli cadde di mano e finì a terra con un’acuta eco metallica. Katerina lanciò un grido, come se si risvegliasse dall’oblio, da un incubo, da una visione incombente... Il vecchio, pallido, si alzò a fatica dal letto e col piede spinse rabbiosamente il pugnale in un angolo. Katerina era in piedi, immobile, con gli occhi socchiusi; una profonda sofferenza contraeva in uno spasimo i suoi lineamenti; infine si coprì il viso con le mani e con un urlo straziante, tramortita, cadde ai piedi del vecchio...
«Aljoša! Aljoša!» fu il grido che proruppe dal suo cuore oppresso.
Il vecchio la strinse tra le sue braccia vigorose, quasi la soffocò contro di sé. Ma quando lei gli posò la testa sul cuore, da tutti i tratti del suo volto venne una risata così violenta e impudica che Ordynov ne provò un terrore in tutte le fibre del proprio essere. Inganno, premeditazione, gelida e gelosa tirannia, violenza contro un povero cuore distrutto: questo lesse in quella risata oltraggiosa e ormai manifesta...
«Pazza» bisbigliò tremando e, col cuore in tumulto, corse fuori.
III
Quando, pallido, sconvolto dalle emozioni della sera prima, Ordynov, verso le otto del mattino, entrò in casa di Jaroslav Il’ič, dal quale era andato senza saper bene perché, prima inciampò per lo stupore, e poi restò inchiodato sulla soglia, perché nella stanza aveva visto Murin. Il vecchio era anche più pallido di lui e malfermo sulle gambe a causa della sua malattia, ma non aveva voluto sedersi, nonostante le premure di Jaroslav Il’ič felicissimo di quella visita. Jaroslav Il’ič emise a sua volta un grido di stupore vedendo Ordynov, ma la sua gioia scomparve quasi subito e un imbarazzo improvviso, repentino, lo colse così, a mezza strada tra il tavolo e la sedia più vicina. Era chiaro che non sapeva che dire o che fare, ed era chiaro anche che si rendeva conto di quanto fosse scortese, in un momento tanto delicato, seguitare a tenersi in bocca la sua pipetta turca, trascurando l’ospite, eppure (tanto era l’imbarazzo) continuava ad aspirare il fumo da quella pipetta con tutto l’impegno possibile e, anzi, quasi con passione. Ordynov, finalmente, entrò nella stanza. Diede una rapida occhiata a Murin. Un lampo del maligno sorriso del giorno prima, che ancora provocava lo sgomento e la collera di Ordynov, passò sul volto del vecchio. Poi ogni espressione avversa sparì e lasciò il posto a una impenetrabilità totale. Il vecchio s’inchinò fino a terra al proprio inquilino. Questo modo di comportarsi risvegliò la coscienza di Ordynov. Guardò fisso Jaroslav Il’ič per cercare di capire come interpretare quello che aveva davanti a sé. Jaroslav Il’ič si emozionò e si confuse.
«Accomodatevi, accomodatevi,» disse infine «accomodatevi, eccellentissimo Vasilij Michailovič, onorate con la vostra presenza... apponete il vostro sigillo... su questi modestissimi oggetti...» disse, indicando un angolo della stanza, arrossendo come una rosa scarlatta, perdendo il filo del discorso, innervosendosi perché la sua nobilissima frase si era ingarbugliata e aveva fallito l’effetto sperato, e trascinò rumorosamente una sedia in mezzo alla stanza.
«Non v’incomodo, Jaroslav Il’ič? Due minuti soltanto...»
«Per l’amor di Dio, Vasilij Michajlovič! Come potreste disturbarmi? Permettetemi di offrirvi un po’ di tè... Servitore...! Sono sicuro» aggiunse rivolto al vecchio «che anche voi non rifiuterete un’altra tazzettina!»
Murin fece un cenno con la testa per far capire che non avrebbe rifiutato.
Al servitore che nel frattempo era entrato, Jaroslav Il’ič ordinò, col tono più autoritario che si possa immaginare, altri tre bicchieri di tè, poi si mise a sedere vicino a Ordynov. Per un po’ non smise di voltare la testa, come un gattino di gesso, a destra e a sinistra, da Murin a Ordynov e da Ordynov a Murin. Era in una condizione sgradevole. Si capiva che avrebbe voluto toccare un argomento che, secondo lui, era piuttosto spinoso, almeno per una delle due parti, ma, nonostante ci si provasse, non riusciva nemmeno a cominciare... Anche Ordynov pareva disorientato. A un tratto si misero a parlare tutti e due contemporaneamente... Murin, che li stava osservando silenzioso e incuriosito, lentamente sorrise mostrando tutti i denti, fino all’ultimo...
«Sono qui per avvertirvi» disse Ordynov «che, a seguito di una spiacevole circostanza, sono costretto a lasciare il mio alloggio e...» «Guardate un po’ che caso strano!» lo interruppe Jaroslav Il’ič. «Confesso che ero rimasto sbalordito quando questo venerando vecchio stamattina mi ha comunicato la vostra decisione. Ma...»
«Ve l’ha comunicata lui?» chiese Ordynov, meravigliato, guardando Murin.
Murin si accarezzò la barba e nascose un sorriso nella manica.
«Sì sì,» confermò Jaroslav Il’ič «anche se non è escluso che possa sbagliarmi. Ma vi assicuro, vi garantisco sul mio onore che nelle parole di questo venerabile vecchio non c’era niente di irriguardoso nei vostri confronti...!»
Jaroslav arrossì, era molto agitato e si controllava a stento. Murin, come se avesse deciso di essersi ormai divertito abbastanza allo spettacolo dell’imbarazzo del padrone di casa e dell’ospite, fece un passo avanti.
«Io, dunque, è a questo proposito, Vostra Eccellenza» esordì, dopo essersi rispettivamente inchinato davanti a Ordynov «che mi sono permesso di recare disturbo a Sua Eccellenza riguardo a voi... Io e la mia padrona, inutile dirlo, signore, saremmo felici, e mai avremmo detto una parola... ma com’è la mia vita voi lo sapete, lo vedete, signore! Nostro Signore ci mantiene in vita e noi benediciamo la sua santa volontà, ma quanto al resto, voi lo vedete, signore, che posso fare se non lamentarmi?» Murin si lisciò la barba con la manica.
Ordynov si sentiva mancare.
«Sì sì, ve ne avevo parlato: è malato, malato, malheur... volevo dirlo in francese, ma, scusatemi, non parlo bene il francese, cioè...»
«Sì...»
«Sì, vale a dire...»
Ordynov e Jaroslav si fecero a vicenda un mezzo inchino, spostandosi un po’ di lato ciascuno sulla propria sedia, e tutti e due nascosero il disagio con una risatina di scusa. L’efficiente Jaroslav Il’ič si riprese subito.
«Io ho parlato a lungo con questa brava persona» disse «e mi ha spiegato che la malattia di quella donna...»
A questo punto lo scrupolosissimo Jaroslav Il’ič, per nascondere l’imbarazzo che era di nuovo ricomparso sul suo viso, rivolse a Murin uno sguardo interrogativo.
«Sì, la nostra padrona...»
Il delicato Jaroslav Il’ič non insistette.
«Della padrona,» proseguì rivolto a Ordynov «cioè della vostra ex padrona, io... eh, vedete, è una donna ammalata. Lui dice che vi disturba... mentre studiate, e anche lui... ma voi mi avete nascosta una cosa molto grave, Vasilij Michailovič.»
«Quale?»
«L’episodio del fucile» disse, anzi bisbigliò Jaroslav Il’ič, con il tono più indulgente che si potesse immaginare, e nella sua voce leggera e acuta non si sarebbe potuta trovare che una milionesima parte di riprovazione. «Ma» si affrettò ad aggiungere «io so tutto, me l’ha raccontato lui, e voi avete compiuto un nobile gesto perdonandogli l’errore commesso, pur senza intenzione, nei vostri confronti. Vi giuro che i suoi occhi erano bagnati di lacrime.»
Jaroslav Il’ič arrossì di nuovo; gli brillarono gli occhi e con slancio si voltò verso Murin.
«Io, anzi noi, Vostra Eccellenza, anzi io, per esempio, e la mia padrona, preghiamo davvero Dio per voi» disse Murin guardando intensamente Ordynov, mentre Jaroslav Il’ič tentava di dominare la sua solita eccitazione. «Lei, voi lo sapete, signore, è una donnetta sciocca, malata, e anch’io non sto neanche in piedi...»
«Ma io non ho niente da opporre,» rispose, irritato, Ordynov «ora smettiamola, per favore, me ne posso andare anche subito...»
«No... anzi, signore, noi vi siamo riconoscenti per la grazia che ci concedete.» Murin s’inchinò profondamente. «Ma non era questo che intendevo. La verità è che lei, signore, è quasi una mia parente, una parente lontana, come, tanto per fare un esempio, una che si direbbe della settima acqua, abbiate comprensione per il nostro modo di parlare, padrone, siamo gente ignorante e fin da bambina è sempre stata così. Ha una testolina bacata, bizzosa, è cresciuta nei boschi, come una contadina, sempre in mezzo agli aratori e agli operai; una notte la casa le è bruciata, e anche sua madre le è bruciata; e suo padre ha reso l’anima a Dio... Chissà lei che cosa vi ha raccontato... Io non mi voglio immischiare, ma l’ha visitata il consiglio chi-chi-chirurgico di Mosca... insomma, signore, è impazzita, ecco che cos’è la verità. Ormai ha soltanto me e vive con me. Viviamo, preghiamo Dio, fidiamo nella sua potenza; io non le dico mai di no...»
Il viso di Ordynov aveva cambiato espressione. Jaroslav Il’ič guardava ora lui ora Murin.
«Ma non di questo volevo parlare, signore... no!» disse Murin, scuotendo la testa con aria grave. «Lei, tanto per fare un esempio, è un ciclone, un vortice, una testa così appassionata, così impetuosa che è sempre in cerca di un amico, chiedo scusa, c’è sempre una fiamma nel suo cuore, perde la testa. Io la tengo calma con le favole, o meglio, cerco di tenerla calma... Mi sono accorto, signore, tanto per fare un esempio, perdonate le mie parole, signore,» Murin si lisciò, come prima, la barba con la manica «mi sono accorto che è entrata in confidenza anche con voi; cioè, Vostra Magnificenza, tanto per fare un esempio, ha voluto lusingarla riguardo all’amore...»
Jaroslav Il’ič arrossì profondamente e lanciò un’occhiata severa a Murin. Ordynov era così agitato che non riusciva a stare fermo sulla sedia.
«No... anzi, io, signore, non di questo volevo parlare... io, signore, mi esprimo così come posso, sono un contadino, sono ai vostri ordini... noi, certamente, siamo ignoranti, siamo i vostri servi» proseguì Murin inchinandosi profondamente, ma pregheremo Dio, io e mia moglie, per la vostra misericordia...! Di che cosa abbiamo bisogno? Se abbiamo abbastanza da mangiare e stiamo bene di salute, non ci lagniamo. Che altro devo fare, signore, mettermi al collo un nodo scorsoio, forse? Voi lo sapete, signore, come vanno i fatti della vita, abbiate pietà di noi, altrimenti che succederà se dovremo fare i conti anche con un amante...? Scusate, signore, la parola volgare... io sono un contadino, voi siete un nobile... Voi, signore, Vostra Magnificenza, siete giovane, fiero, ardente, e lei, signore, lo avete già capito, è una bambina, una creaturina senza cervello: non è difficile con lei peccare! Lei è una donna forte, colorita, piacente, io sono vecchio e sempre malato. Forse il diavolo ha ingannato Vostra Grazia! Io la tengo quieta con le favole, credetemi! Ma noi, io e mia moglie, quanto lo pregheremmo Dio per la vostra misericordia... Tanto e poi tanto lo pregheremmo. E poi lei che cosa conta per voi, Vostra Magnificenza? È bella, ma è una contadina, come me! Non è da voi, tanto per fare un esempio, signore mio e padre mio, che siete un nobile, correre dietro alle contadine. Ma quanto lo pregheremo Dio, io e lei, per la vostra misericordia, tanto e poi tanto lo pregheremo!»
Murin s’inchinò molto profondamente e non si raddrizzò per un pezzo, seguitando a lisciarsi la barba con la manica. Jaroslav Il’ič non sapeva che fare.
«Effettivamente, signore, questo brav’uomo» osservò infine, imbarazzato «mi ha detto che ci sono stati degli screzi tra voi; non oso crederlo, Vasilij Michajlovič... Ho saputo che siete ancora malato...» s’interruppe subito e, con gli occhi lucidi di lacrime per l’agitazione, guardò, imbarazzato, Ordynov.
«Allora... quanto vi devo?» chiese frettolosamente Ordynov a Murin.
«Ma che dite, mio signore? Non se ne parla nemmeno. Non siamo dei venditori di Cristo! Perché, signore, ci offendete? Dovreste provarne vergogna, signore: in che cosa io e la mia sposa abbiamo mancato verso di voi?»
«Eppure è strano, amico! Il signore ha preso da voi un alloggio in affitto: non capite che il vostro rifiuto lo offende?» intervenne Jaroslav Il’ič, ritenendo di dover far notare a Murin che il suo atteggiamento era inconsueto e indelicato.
«Ma, per carità, padre mio! Che cosa mi dite mai, signore, padrone mio! Per carità! In che cosa vi abbiamo mancato di riguardo? Ci siamo impegnati in tutti i modi, ci siamo spezzati in due, per carità! Non se ne parli più, luce, padrone, che Cristo vi conservi nella sua grazia! Chi siamo noi, allora? Degli infedeli? Avesse abitato da noi, avesse mangiato le nostre buone cose di contadini, alla sua salute; avesse anche dormito da noi, non gli avremmo detto niente, nemmeno una parola gli avremmo detto: ma il maligno si è intromesso... io sono ammalato, la mia padrona anche lei è ammalata, che fare? Non c’è nessuno che vi possa servire, altrimenti saremmo stati contenti di farvi rimanere, contenti con tutto il cuore! Ma io e la mia padrona pregheremo Dio per la vostra salvezza, tanto e poi tanto lo pregheremo!»
Murin si piegò fino alla cintura in un inchino. Una lacrima spuntò negli occhi rapiti di Jaroslav Il’ič, che si rivolse, entusiasta, a Ordynov.
«Che gesto nobile! Quanta santa ospitalità è custodita nel cuore del popolo russo!»
Ordynov gli lanciò un’occhiata furente. Jaroslav Il’ič quasi si spaventò.
«Certo, signore, è l’ospitalità che noi rispettiamo, la rispettiamo signore!» disse Murin coprendosi tutta la barba con la manica. «Ecco che ora sto pensando che avreste potuto essere nostro ospite, in nome di Dio, avreste potuto esserlo» si avvicinò a Ordynov «e io sarei stato contento: per un giorno o due sarei stato zitto. Ma il peccato ci si è messo di mezzo, la mia padrona è malata. Se non ci fosse la padrona! Se fossi stato solo avrei onorato Vostra Grazia, come l’avrei servita! Tanto e poi tanto l’avrei servita. Chi altro dovremmo servire, se non voi? Vi avrei fatto guarire, conosco un sistema... Davvero, signore, potevate essere nostro ospite, che bella parola...!»
«Davvero esiste un sistema per...?» chiese Jaroslav Il’ič, ma lasciò la frase a metà.
Ordynov aveva sbagliato, poco prima, a offendere Jaroslav Il’ič con quello sguardo incollerito. Jaroslav Il’ič era, indubbiamente, una persona dotata di nobile e retto sentire, ma ora aveva capito tutto e la sua posizione non era semplice. Aveva voglia di mettersi a ridere. Se fosse stato solo con Ordynov (due amici!) non si sarebbe fatto scrupolo di esternare tutto il suo buonumore. Nel più nobile dei modi, naturalmente: avrebbe stretto calorosamente la mano a Ordynov, gli avrebbe garantito sinceramente, onestamente, che la stima che provava nei suoi confronti era raddoppiata, che, in ogni caso, lo giustificava, e che, soprattutto, non gli pareva il caso di dare importanza a certe ragazzate. Invece ora, per colpa dei suoi soliti scrupoli, era più che mai imbarazzato e non sapeva dove nascondersi...
«Sì, conosco un sistema, un infuso» riprese Murin con il volto contratto per l’inopportuna domanda di Jaroslav Il’ič. «Ecco che cosa direi io, signore, nella mia ignoranza contadina:» si avvicinò un po’ di più a Ordynov «voi, signore, avete letto troppi libri e siete diventato troppo intelligente; come diciamo noi in russo, tra contadini: “L’intelligenza ha superato il senno”...»
«Basta!» lo interruppe severamente Jaroslav Il’ič.
«Me ne vado» disse Ordynov. «Vi ringrazio, Jaroslav Il’ič; verrò a trovarvi, verrò certamente» aggiunse, perché Jaroslav Il’ič raddoppiava le sue gentilezze vedendo che non riusciva a trattenerlo. «Addio, addio.»
«Addio, Eccellenza, addio, signore; non ci dimenticate, venite a visitare noi peccatori.»
Ordynov non lo ascoltava più e uscì di corsa, fuori di sé.
Non riusciva più a resistere, si sentiva già morto, la sua coscienza si irrigidiva. Sentiva nel profondo che la malattia lo opprimeva, ma una gelida desolazione si era fatta strada nella sua anima e un dolore cupo gli devastava, gli inaridiva il petto. Avrebbe voluto morire in quel momento. Le gambe non lo reggevano, si rannicchiò contro una staccionata senza badare ai passanti, alla folla che gli si radunava intorno, alle domande, alle esortazioni dei curiosi. Ma a un tratto, fra tutte quelle voci, risuonò la voce di Murin. Ordynov alzò la testa. Il vecchio gli stava davanti, con una espressione solenne sul pallore del viso. Era una persona molto diversa da quella che con tanta rozzezza si era preso gioco di lui a casa di Jaroslav Il’ič. Ordynov si alzò. Murin lo prese per un braccio e lo allontanò dalla folla.
«Devi ancora prendere la tua roba» disse, guardandolo furtivamente. «Non ti rattristare. Tu sei giovane, perché ti rattristi?»
Ordynov non rispondeva.
«Ti sei offeso, signore? Si vede che ti ha preso proprio sul serio... ma non devi offenderti: ciascuno difende la propria ricchezza.»
«Io non vi conosco» rispose Ordynov «e non voglio nemmeno conoscere i vostri misteri. Ma lei! lei...!» esclamò, e le lacrime gli sgorgarono dagli occhi in due torrenti. Il vento gliele strappava una dopo l’altra dalle guance... Ordynov se le asciugava con la mano. I gesti, lo sguardo, i movimenti inconsapevoli delle labbra, tutto in lui sembrava preannunciare la pazzia.
«Te l’ho spiegato,» disse Murin con le sopracciglia corrugate «lei è pazza. Perché e come sia impazzita... che t’importa. A me è cara anche così. L’ho amata più della vita e non la cederò a nessuno. Capisci, adesso?»
Una fiamma si accese per un attimo negli occhi di Ordynov.
«Ma allora perché io... perché è come se non vivessi più? Perché è il mio cuore che duole? Perché ho conosciuto Katerina?»
«Perché?» Murin rise e restò soprappensiero. «Questo non lo so. La natura della donna non è il fondo del mare, la si può scrutare, ma è scaltra, caparbia, viva. Quello che vuole, vuole. Si vede, signore, che le era veramente venuta voglia di lasciarmi per venire via con voi» proseguì, pensieroso. «Le ripugnava questo vecchio, aveva vissuto con lui tutto quello che era possibile. Appena vi siete guardati, si è innamorata. Ma non importa, voi o un altro... Io non le dico mai di no: se vuole latte d’uccello io glielo porto, e se quell’uccello non esiste, glielo faccio io con le mie mani. È vanesia! Rincorre la libertà, ma non sa neppure lei quello che lusinga il suo cuore. E così il risultato è che la via vecchia è migliore della nuova. Eh, signore! Tu sei molto giovane! Il tuo cuore arde come quello di una fanciulla che è stata abbandonata e si asciuga le lacrime con la manica del vestito! Devi sapere, signore, che l’uomo debole non può stare in piedi da solo! Dagli pure tutto, lui tornerà a restituirtelo; dagli metà del regno della terra, che cosa credi che farà? Si farà tanto piccolo da starti in una scarpa. Dagli la libertà, la legherà e te la porterà indietro. Al cuore stupido neppure la libertà giova. Non si può vivere con una natura di questo genere. Ma io ti racconto tutte queste cose tanto per parlare: sei proprio un giovanetto. Che cosa rappresenti per me? Prima c’eri e poi non ci sei stato più, ma tu o un altro è lo stesso. Io lo sapevo come sarebbe andata a finire. Ma non si può contrastarla! Non si può dire niente che si opponga ai suoi desideri, se si vuole stare tranquilli. Si parla così, solo per il gusto di parlare,» seguitò a filosofeggiare Murin «ma che cosa può succedere? Può succedere che in un impeto d’ira uno afferri un coltello, oppure ti salti addosso disarmato, come un bestione che vuole spezzare la gola coi denti al suo nemico. Oppure può succedere che il coltello te lo mettano in mano, che il tuo nemico si scopra il petto davanti a te, e che tu, invece, ti tiri indietro!»
Entrarono nel cortile. Il tartaro vide Murin ancora da lontano, si levò il colbacco per salutarlo e diede a Ordynov un’occhiata maliziosa.
«Dov’è tua madre, a casa?» gli gridò Murin.
«Sì, è a casa.»
«Dille che lo aiuti a portar via la sua roba. Va’ anche tu, muoviti.»
Salirono le scale. La vecchia serva di Murin, che era, infatti, la madre del custode, stava riunendo la roba dell’ex inquilino e, brontolando, ne stava facendo un grosso fagotto.
«Aspetta, c’è un’altra cosa che è tua ed è rimasta di là...»
Murin entrò nella sua camera e quando tornò diede a Ordynov un cuscino ricamato di seta e lana, quello che Katerina gli aveva messo sotto la testa quando era ammalato.
«È lei che te lo vuol dare» disse Murin. «Adesso vattene tranquillo, da bravo, e sta’ bene attento a non cambiare idea,» aggiunse a bassa voce, paterno «altrimenti potrebbe finir male.»
Si capiva che non voleva trattare male il suo inquilino, ma, nel dargli un’ultima occhiata, non riuscì a frenare un flusso di rabbia che gli alterò il volto. Chiuse la porta alle spalle di Ordynov con una espressione di ripugnanza.
Due ore dopo, Ordynov si sistemò in casa del tedesco Spis. Tinchen lo accolse con una esclamazione di stupore. Gli chiese se fosse ammalato e subito si dispone a occuparsi di lui. Il vecchio tedesco gli mostrò, soddisfatto, il biglietto che stava per tornare ad attaccare al portone, perché proprio quel giorno era finito il danaro che lui aveva lasciato come anticipo sull’affitto e, lodando la propria lungimiranza, la meticolosità e l’onestà dei tedeschi, calcolò i giorni d’affitto che erano già passati. Ma Ordynov si sentiva male, dovette andare subito a letto e non si alzò che tre mesi dopo.
A poco a poco ritrovò le forze e cominciò a uscire. La vita, a casa del tedesco, si svolgeva con monotona tranquillità, la graziosa Tinchen si mostrava, nei limiti della decenza, completamente a sua disposizione, ma sembrava che il fiore della vita fosse ormai appassito per Ordynov. Era diventato scontroso, irritabile, morbosamente sensibile e, senza rendersene conto, stava sprofondando in una rabbiosa, sorda malinconia. Gli capitava, per settimane e settimane, di non aprire nemmeno un libro. Il suo futuro non aveva sbocchi, il danaro stava per finire, ma questo pensiero lo lasciava inerte, il futuro non lo interessava. Qualche volta la sua vecchia passione per le scienze, il ricordo di ipotesi che lui stesso aveva formulato, gli tornava alla mente, ma riusciva solo a deprimere ulteriormente le sue energie. Il pensiero non si concretava nell’azione. La sua intelligenza creativa era paralizzata e le sue vecchie intuizioni si presentavano ingigantite alla sua immaginazione per deridere l’inerzia della mente che un tempo le aveva generate. In quei momenti di ipocondria paragonava se stesso all’ambizioso apprendista stregone che, dopo essersi impadronito della formula magica del maestro, aveva ordinato alla scopa di portare dell’acqua ed era affogato perché aveva dimenticato di dirle: «smetti!».6 Forse un giorno sarebbe riuscito a completare una autentica scoperta. Forse sarebbe potuto diventare un artista della scienza. Una volta ci aveva creduto davvero. La fiducia è già una garanzia per l’avvenire. Ma ormai lui stesso rideva delle sue antiche certezze e non procedeva più nel lavoro.
Sei mesi prima aveva maturato il progetto di un’opera e ne aveva scritto una prima traccia, sulla quale (come avviene quando si è giovani), nei momenti in cui non era impegnato nello studio, aveva edificato molte, già ben delineate speranze. Si trattava di una storia della chiesa nella quale aveva espresso alcuni suoi profondi convincimenti. Rilesse lo schema, lo riscrisse, ci pensò, lesse, approfondì le proprie nozioni, ma, alla fine, rinunciò al suo progetto senza costruire niente sulle macerie del materiale che aveva raccolto. La sua anima cominciò a mostrare una inclinazione al misticismo, al mistero, alla teoria della predestinazione. Nella consapevolezza delle proprie sofferenze, Ordynov chiedeva aiuto a Dio. La serva russa del tedesco, una vecchia molto religiosa, raccontava compiaciuta che l’inquilino era particolarmente devoto, tanto da restare per ore prostrato, quasi inerte, sul pavimento della chiesa.
Ordynov non parlava a nessuno di quello che gli era successo. Ma qualche volta, verso sera, il suono delle campane gli ricordava il momento in cui il suo petto aveva cominciato a dolere per un sentimento che fino allora non aveva mai provato, quando si era inginocchiato vicino a lei nella casa di Dio e non aveva più sentito nient’altro intorno a sé che il battito del suo cuore spaventato, quando aveva pianto di entusiasmo e di felicità sulla nuova, splendente, leggiadra speranza che era apparsa improvvisamente nella sua vita schiva, allora nella sua anima ferita a morte si scatenava una tempesta e i tormenti dell’amore gli bruciavano il petto come una viva fiamma. Il cuore gli faceva male e, insieme a quel dolore, gli pareva che crescesse anche il suo amore. Spesso, completamente distaccato da sé e dalla vita quotidiana, restava seduto per ore allo stesso posto e, scuotendo la testa, piangeva mormorando: «Katerina! Colombella mia, unica al mondo! Sola sorellina mia...!».
Un pensiero orribile cominciò a tormentarlo assumendo ogni giorno di più i caratteri della realtà. Gli pareva, e finì per crederlo, che la mente di Katerina fosse normale, ma che Murin non avesse torto quando parlava della debolezza del suo cuore. Pensò che ci fosse un mistero che la legava al vecchio, ma che lei non avesse avuto una reale consapevolezza del delitto e fosse rimasta avvinta al suo potere, ma pura. Chi erano? Non lo sapeva, ma si era creato l’immagine di una tirannia feroce, totale, su una povera creatura debole e sola e, il suo cuore si ribellava, palpitava di sdegno. Gli pareva che a quell’anima spaventata che si era appena aperta alla vita, fosse stata esposta malvagiamente la sua stessa rovina, e che a quel debole cuore fosse stata perfidamente presentata una deformazione della verità, mantenendolo, di proposito, nell’ignoranza, assecondandone gli impulsi indisciplinati fino a tarpargli le ali e a togliergli la capacità sia di ribellarsi sia di spiccare il volo verso la vera vita.
Ordynov diventò sempre più solitario e schivo, e veramente, i due tedeschi non fecero niente per impedirglielo. Vagava per le vie senza meta, soprattutto verso sera, in strade poco frequentate. In una triste, piovosa, malsana serata di primavera, incontrò, in una di quelle stradine, Jaroslav Il’ič.
Era dimagrito, i suoi occhi vivaci erano diventati opachi, aveva una strana aria distaccata e delusa. Bagnato, infangato, stava correndo a sbrigare un lavoro urgente, ma, per un fenomeno curioso e quasi irreale, una goccia di pioggia si era appesa al suo naso, di solito più che dignitoso, ma ora viola per il freddo, e non si staccava più. Si era fatto crescere le fedine. Queste fedine vagamente altere e il fatto che Jaroslav Il’ič gli avesse dato un’occhiata, dalla quale sembrava trasparire l’intenzione di evitare un incontro con il suo vecchio conoscente, meravigliarono Ordynov e, strano, in qualche modo turbarono e mortificarono il suo cuore, che pure, fino allora, non aveva mai cercato la comprensione di nessuno. Pensò che preferiva l’uomo di prima, semplice, benevolo, credulone e, diciamolo finalmente, un po’ stupido, ma senza pretese. È sempre sgradevole quando uno stupido, che prima amavamo forse proprio per la sua stupidità, diventa improvvisamente intelligente. Ma la scarsa socievolezza di Jaroslav Il’ič scomparve subito. Nonostante la sua nuova aria sprezzante, non aveva perso il suo carattere che, come si sa, ciascuno porta con sé fin nella tomba e, come in passato, si fece strada subito nell’anima di Ordynov. Prima disse che aveva avuto molto da fare, poi osservò che era da molto che non si vedevano, ma all’improvviso il discorso prese un accento inconsueto. Jaroslav Il’ič cominciò a parlare dell’ipocrisia della gente in assoluto, della caducità dei beni terreni, della vanità delle vanità, e non perse l’occasione di esprimere con disinvoltura un giudizio su Puškin, e poi, addirittura con cinismo, su alcuni buoni conoscenti, per concludere con un accenno alla ipocrisia di quelli che comunemente vengono chiamati amici, mentre si sa che al mondo l’amicizia non è mai esistita. Insomma Jaroslav Il’ič si era fatto intelligente. Ordynov non lo contraddisse, ma s’intristì, come se avesse seppellito il suo migliore amico.
«Ah, me n’ero quasi dimenticato» esclamò all’improvviso Jaroslav Il’ič. «C’è una novità! Ve la racconto in segreto. Ricordate la casa dove avete abitato?»
Ordynov trasalì e diventò pallido.
«Bene: poco tempo fa, in quella casa è stata scoperta una banda di ladri, proprio così, signor mio, era un covo di contrabbandieri e malviventi di tutte le specie! Alcuni sono stati catturati, gli altri lo saranno, sono state date precise disposizioni. E il padrone di casa... ve lo ricordate? Devoto, nobile, severo...?»
«E allora...?»
«Ditemi voi, in base a questo, come dobbiamo giudicare il prossimo! Era lui il capo della banda! Lui! Non è pazzesco?»
Jaroslav parlava col cuore, e sinceramente condannava tutta l’umanità per colpa di uno solo: era questo il suo carattere.
«E loro? E Murin?» chiese Ordynov in un sussurro.
«Ah, Murin! Murin! No, quello è un venerabile e nobile vecchio. Ma, forse, voi ora gettate una nuova luce...»
«Come? Faceva parte anche lui della banda?»
Il cuore di Ordynov pareva volesse saltagli in gola per l’ansietà.
«Ma... dopo tutto, come si può dire...» mormorò Jaroslav Il’ič fissando su Ordynov uno sguardo greve e grigio, dal quale si poteva arguire che stava riflettendo. «No, Murin non poteva essere uno della banda. Esattamente tre settimane prima era partito con la moglie per tornare al suo paese... Me l’ha detto il custode... Quel tartaro piccolino... Ve lo ricordate?»
5 I raskol’niki o vecchi credenti, che continuarono a seguire l’antico rito anche dopo lo scisma nato in seguito alle riforme liturgiche introdotte dal patriarca Nikon (1605-1681).
6 L’apprendista stregone della ballata di Goethe.