martedì 11 settembre 2018


LA PADRONA
Fedor Dostoevskij

PARTE PRIMA
I
Ordynov si decise finalmente a cambiare appartamento. La sua padrona di casa, la vedova assai povera e anziana di un impiegato presso la quale egli affittava un alloggio, in seguito a circostanze impreviste era partita da Pietroburgo per non so quale remota località di provincia dove intendeva sistemarsi presso certi suoi parenti, senza aspettare il primo del mese, data alla quale scadeva il suo contratto d'affitto. Il giovane, in attesa della scadenza del termine, pensava con rimpianto al suo vecchio angolo e si rammaricava di doverlo abbandonare: egli era povero e gli affitti erano cari. All'indomani stesso della partenza della padrona egli prese il berretto e si mise a girare per i vicoli di Pietroburgo, adocchiando tutti i cartellini inchiodati ai portoni delle case, alla ricerca di quella più malridotta, più affollata e più   d'affitto,  nella quale fosse più facile trovare presso qualche inquilino povero l'angolo che faceva al caso suo.

Era già un pezzo che stava cercando con estrema diligenza, ma ben presto sensazioni nuove, quasi sconosciute, lo assalirono. Egli prese a guardarsi attorno dapprima distrattamente e negligentemente, poi con attenzione e infine con estrema curiosità. La folla e la vita della strada, il frastuono, il movimento, la novità degli oggetti, la novità della situazione, tutta questa vita minuta e tutte le banalità quotidiane, da lungo tempo venute a noia all'indaffarato e pratico pietroburghese, infruttuosamente ma attivamente alla ricerca durante tutta la sua vita dei mezzi per pacificarsi, calmarsi e tranquillizzarsi da qualche parte in un caldo nido, conquistato col lavoro, col sudore e con svariati altri mezzi  - tutta questa volgare e noiosa   prosa   suscitò, all'opposto, in lui una strana sensazione quietamente gioiosa e luminosa. Le sue guance pallide si coprirono di un leggero rossore, i suoi occhi cominciarono a brillare come per una nuova speranza,  ed egli prese a inspirare avidamente e profondamente l'aria fredda e pura e si sentì straordinariamente leggero.

Aveva sempre condotto una vita tranquilla, completamente solitaria. Circa tre anni prima, avendo conseguito il titolo accademico ed essendo divenuto relativamente libero, si era recato da un vecchietto, che fino ad allora conosceva solo per sentito dire, ed era rimasto a lungo in attesa finché il cameriere in livrea si era deciso ad annunciarlo per la seconda volta. Era poi entrato in una sala dal soffitto alto, oscura e vuota, che dava un senso estremo di noia, come se ne vedono ancora nelle vecchie case signorili risparmiate dal tempo, e in essa aveva visto un vecchietto coperto di decorazioni e ornato da canizie, amico e collega di suo padre,  nonché suo tutore. Il vecchietto gli aveva consegnato una manciata di denari. La somma era risultata insignificante: si trattava dei resti dell'eredità del bisnonno, venduta all'asta per debiti. Ordynov ne aveva preso possesso con indifferenza, si era congedato per sempre dal suo tutore ed era uscito nella strada. Era una serata autunnale, fredda e tetra; il giovane era pensieroso e una inconsapevole tristezza gli dava una fitta al cuore. Aveva il fuoco negli occhi; avvertiva i sintomi della febbre, brividi e un gran calore 19
alternatamente. Strada facendo aveva calcolato che con i mezzi di cui disponeva avrebbe potuto sopravvivere due o tre anni, persino quattro, facendo la fame. Era calato il crepuscolo e aveva cominciato a piovigginare. Aveva contrattato il prezzo del primo angolo che gli era capitato e un'ora dopo aveva traslocato. Lì era come se si fosse chiuso in un Convento separandosi dal resto del mondo. Dopo due anni, senza rendersene conto, si era completamente inselvatichito; per il momento non gli  veniva neppure in mente che esistesse un'altra vita  - rumorosa, chiassosa, eternamente agitata, eternamente in trasformazione, eternamente invitante e sempre, prima o poi, inevitabile. Egli, è vero, non poteva fare a meno di sentirne parlare, ma non la conosceva, né la cercava mai. Fin dall'infanzia era vissuto in maniera singolare; ora questa singolarità aveva preso una forma definita. Lo divorava la passione più profonda e insaziabile, quella che assorbe l'intera vita di un uomo e che alle creature come Ordynov non consente neppure un angolo nell'altra sfera, quella dell'attività pratica, ordinaria. Questa passione era la scienza. Per ora essa stava divorando la sua giovinezza, come un veleno lento e inebriante avvelenava il suo riposo notturno, lo privava di un cibo sano e dell'aria fresca, della quale non c'era mai traccia nel suo soffocante angolo, ma Ordynov, tutto preso dalla sua passione, non voleva accorgersene. Egli era giovane e per il momento non chiedeva di più. Questa passione lo aveva trasformato in un lattante per quanto riguarda la vita esteriore, ormai per sempre incapace di far sì che certe brave persone si scansassero, quando ciò si rendeva necessario, per ritagliargli almeno un angolino in mezzo a loro. La scienza di certa gente abile è un capitale nelle loro mani; la passione di Ordynov era invece un'arma rivolta contro lui stesso.

In lui c'era un'attrazione inconscia, piuttosto che un motivo logicamente definito di imparare e di sapere, come in qualsiasi altra, anche la più insignificante, delle attività di cui si era occupato fino ad allora. Fin dagli anni dell'infanzia aveva avuto fama di testa balzana e non assomigliava ai compagni. Non aveva mai conosciuto i genitori e, a causa del suo carattere strano e poco socievole, aveva dovuto soffrire per la crudeltà e la grossolanità dei compagni. A causa di ciò era diventato davvero poco socievole e tetro e a poco a poco si era accentuata la sua singolarità. Ma nei suoi studi solitari mai, neppure ora, c'era stato un ordine e un sistema definito; ora non v'era altro che il primo entusiasmo, il primo slancio, la prima febbre dell'artista. Egli si andava creando da sé un suo sistema, che via via prendeva forma in lui nel corso degli anni, e nella sua anima ormai stava sorgendo a poco a poco l'immagine ancora oscura, confusa, ma in un certo qual modo stupendamente rallegrante, di un'idea incarnata in una forma nuova, luminosa, e questa forma chiedeva di sgorgare dalla sua anima straziandola; egli avvertiva ancora timidamente l'originalità, la verità e l'autenticità di essa: la creazione stava già facendo appello alle sue forze; essa cresceva e si rafforzava. Ma il giorno in cui essa si sarebbe incarnata e avrebbe preso forma era ancora lontano, forse molto lontano, forse addirittura del tutto irraggiungibile!

Ora egli camminava per le strade come un estraneo, come un eremita venuto dal suo muto deserto nella città rumorosa, assordante. Tutto gli pareva nuovo e strano. Ma egli era così estraneo al mondo che gli ribolliva e gli rumoreggiava intorno che non gli passò neppure per il capo di meravigliarsi della strana sensazione che provava. Non sembrava neppure accorgersi della propria selvatichezza; al contrario nasceva in lui una specie di gioioso sentimento, una specie di ebbrezza, come quella che prova un affamato al quale dopo un lungo digiuno diano da mangiare e da bere; sebbene, naturalmente, fosse strano che una così insignificante novità nella sua situazione, come il cambio di appartamento, potesse suscitare turbamento ed emozione in un abitante  di Pietroburgo, si trattasse pure di Ordynov; ma è vero anche che fino ad allora non gli era accaduto quasi neppure una volta di uscire per sbrigare delle faccende.

Gli piaceva sempre di più vagare per le strade. Egli sgranava gli occhi su ogni cosa come flâneur.

Ma anche ora, fedele alla sua disposizione di sempre, nel brillante quadro che gli si apriva dinanzi egli leggeva come tra le righe di un libro. Ogni cosa lo colpiva; non si lasciava sfuggire una sola impressione e con sguardo raziocinante guardava in viso i passanti, scrutava la fisionomia di ogni persona che gli stava attorno, tendeva l'orecchio con amore ai discorsi della gente, come se 20
volesse verificare su ogni cosa le ipotesi nate nel silenzio delle sue notti solitarie. Sovente una qualche inezia lo colpiva facendo scaturire un'idea e, per la prima volta, cominciò a provare rimpianto d'essersi seppellito vivo a quel modo nella sua cella. Qui tutto andava più in fretta; il suo polso batteva pieno e rapido, il suo intelletto, oppresso dalla solitudine, sollecitato e innalzato soltanto da un'attività tesa ed esaltata, ora lavorava velocemente, tranquillamente e con audacia.
Inoltre provava quasi inconsciamente il desiderio di entrare in qualche maniera anche lui a far parte di quella vita a lui estranea, che fino ad allora aveva conosciuta, o, per dir meglio, aveva soltanto presentita con l'infallibile istinto dell'artista. Inavvertitamente il suo cuore prese a battere d'una nostalgia d'amore e di solidarietà. Egli fissava più attentamente le persone che gli passavano accanto; ma quelle persone erano estranee, indaffarate e pensierose... E poco a poco la spensieratezza di Ordynov cominciò inavvertitamente a dissolversi; la realtà già lo opprimeva, ispirandogli un involontario timoroso rispetto.

Cominciò ad esser stanco del flusso di nuove sensazioni,  fino ad allora a lui ignote, come un inalato che gioiosamente si alzi dal suo letto di dolore e cada spossato dalla luce, dallo scintillio, dal turbinio della vita, dal rumore e dalla varietà di colori della folla che gli guizza accanto, stordito e ottenebrato dal movimento. Provò un senso di tristezza e di malinconia. Incominciò a temere per tutta la sua esistenza, per la sua attività e persino per il suo futuro. Un pensiero nuovo uccideva la sua quiete. All'improvviso gli venne in mente che durante tutta la sua vita egli era stato solo, che nessuno lo aveva mai amato e che non era riuscito ad amare nessuno. Alcuni tra i passanti, con i quali casualmente aveva scambiato qualche parola all'inizio della sua passeggiata, lo avevano guardato con un'aria aspra e strana. Egli vedeva che lo prendevano per un pazzo o per un tipo strampalato e bizzarro, il che, del resto, era perfettamente vero. Si rammentò che tutti avevano sempre provato una sensazione penosa in sua presenza, che fin dall'infanzia tutti l'avevano sfuggito per il suo carattere pensieroso e caparbio, che la sua solidarietà si era manifestata in maniera penosa e depressa, passando inosservata agli occhi degli altri, che essa era presente in lui,  ma in essa non si era mai osservata traccia di eguaglianza morale, cosa che lo aveva fatto soffrire fin da quando era bambino, quando si era accorto di non assomigliare in nulla ai suoi coetanei. Ora se ne rammentò e si rese conto che da sempre e in ogni occasione tutti lo avevano sfuggito ed evitato.

Senza avvedersene si addentrò in uno dei sobborghi di Pietroburgo lontani dal centro. Dopo aver alla meglio pranzato in una trattoria fuori mano, egli uscì e riprese a vagare senza meta. Di nuovo attraversò numerose vie e piazze. Dietro di esse si stendevano lunghe file di staccionate gialle e grigie e, al posto delle ricche case, cominciò a incontrare vetuste casupole ed enormi edifici adibiti a fabbriche, orribili, anneriti, rossi, con alte ciminiere. Il luogo era deserto e vuoto; ogni cosa aveva un aspetto tetro e ostile: così per lo meno parve a Ordynov. Era ormai sera. Dopo aver percorso un lungo vicolo sbucò in una piazza dove sorgeva una chiesa parrocchiale.

Vi entrò distrattamente. La funzione era appena terminata; la chiesa era quasi completamente vuota e c'erano soltanto due vecchiette in ginocchio vicino all'ingresso. Il sacrestano, un vecchietto dai capelli bianchi, spegneva le candele. I raggi del sole che tramontava irrompevano dall'alto come un ampio torrente attraverso l'angusta lanterna della cupola, illuminando con un mare di luce scintillante uno degli altari; ma essi si facevano via via sempre più deboli, e quanto più nera diventava l'oscurità che si addensava sotto le volte del tempio, tanto più splendevano qua e là le icone dorate, illuminate dal tremolante chiarore delle lampade e delle candele. In un accesso di struggente nostalgia e oppresso da un sentimento indefinito Ordynov si addossò alla parete nell'angolo più buio della chiesa e per un attimo si abbandonò all'oblio. Si riscosse quando sotto le volte del tempio echeggiò il suono cadenzato e sordo dei passi di due parrocchiani che erano entrati. Egli sollevò gli occhi e una sorta di strana e inesprimibile curiosità si impadronì di lui  alla vista dei due nuovi venuti. Si trattava di un vecchio e di una giovane donna. Il vecchio era alto, ancora diritto ed energico, ma magro e pallidissimo. Dall'aspetto lo si poteva prendere per un mercante venuto da qualche luogo lontano. Indossava un lungo caffetano nero, evidentemente il suo abito delle feste, foderato di pelliccia, portato aperto. Sotto il caffetano si scorgeva un altro lungo abito di foggia russa, accuratamente abbottonato per tutta la sua lunghezza.

Intorno al collo scoperto portava  annodato negligentemente un fazzoletto d'un rosso vivace; in mano aveva un colbacco di pelliccia. Una barba lunga, sottile e brizzolata gli ricadeva sul petto e di sotto alle sopracciglia folte e aggrottate scintillava uno sguardo infuocato, febbrilmente acceso, altero e penetrante. La donna poteva avere vent'anni ed era meravigliosamente bella. Indossava una ricca casacca azzurra foderata di pelliccia e aveva in testa un fazzoletto di raso bianco annodato sotto il mento. Camminava con gli occhi abbassati e una sorta di pensosa dignità, che pervadeva tutta la sua figura, si rifletteva in modo netto e triste sul tenero disegno delle linee infantilmente dolci e miti del suo volto. C'era qualcosa di strano in questa coppia inattesa.

Il vecchio si arrestò in mezzo alla chiesa e si inchinò in tutte e quattro le direzioni, sebbene la chiesa fosse completamente vuota; lo stesso fece la sua compagna. Poi egli la prese per mano e la condusse ai piedi della grande icona della Vergine locale, in onore della quale era stata costruita la chiesa, che brillava accanto all'altare dello scintillio accecante delle fiammelle che si riflettevano sul rivestimento fiammeggiante d'oro e di pietre preziose. Il sacrestano, che era l'ultima persona rimasta nella chiesa, si inchinò rispettosamente davanti al vecchio e questi gli rispose con un cenno del capo. La donna si prosternò davanti all'icona. Il vecchio prese un lembo del drappo che pendeva dalla predella dell'icona e le coprì la testa. Sordi singhiozzi risuonarono nella chiesa.

Ordynov era colpito dalla solennità di tutta questa scena e ne attendeva con impazienza la conclusione. Dopo un paio di minuti la donna sollevò la testa e di nuovo la viva luce della lampada illuminò il suo volto incantevole. Ordynov trasalì e fece un passo in avanti. Ella aveva già porto la mano al vecchio ed entrambi si avviarono silenziosamente verso l'uscita della chiesa. Le lacrime sgorgavano dai suoi occhi azzurro-scuri, dalle lunghe ciglia abbassate, che risaltavano sul latteo candore del viso, e rigavano le sue gote pallide. Sulle sue labbra aleggiava un sorriso; ma sul suo viso erano visibili le tracce di chissà quale infantile timore e di un misterioso terrore. Ella si stringeva timidamente al vecchio e si vedeva bene come trepidasse tutta per la commozione.

Colpito, sferzato da una sensazione tenace di sconosciuta voluttà Ordynov si avviò rapidamente dietro a loro e sul sagrato della chiesa tagliò loro la strada. Il vecchio lo guardò con un'espressione ostile e severa; ella pure gli gettò uno sguardo, ma senza curiosità e distrattamente, come se un altro, remoto pensiero occupasse la sua mente. Ordynov continuò a seguirli senza nemmeno rendersi conto di quel che faceva. Era ormai sceso il crepuscolo ed egli camminava a una certa distanza. Il vecchio e la giovane donna imboccarono una strada principale, larga e sporca, affollata di popolazione operaia di vario genere, di depositi di farina e di locande, che conduceva direttamente alla porta della città, poi svoltarono in un vicolo lungo e stretto, con lunghe staccionate su entrambi i lati, che andava a terminare contro la parete enorme e annerita di una casa d'affitto a quattro piani, attraverso il doppio ingresso della quale si poteva uscir fuori su un'altra strada anch'essa principale e affollata.  Stavano già avvicinandosi alla casa, quando improvvisamente il vecchio si voltò e guardò con impazienza Ordynov. Il giovane si fermò come impietrito; a lui stesso apparve strana quella sua attrazione. Il vecchio si voltò una seconda volta, quasi volesse assicurarsi che la sua minaccia avesse fatto effetto, e poi entrambi, lui e la giovane donna, entrarono attraverso lo stretto portone nel cortile della casa. Ordynov ritornò indietro.

Era nello stato d'animo più spiacevole e si indispettiva con se stesso al pensiero di aver inutilmente perduto la giornata, di essersi inutilmente stancato e, per giunta, di aver concluso con una sciocchezza, attribuendo il significato di una vera e propria avventura a un avvenimento più che banale.

Per quanto quella mattina si fosse indispettito con se stesso per la propria selvatichezza, pure l'istinto gli suggeriva di rifuggire da tutto ciò che, nel mondo esterno, non nel suo mondo interiore, artistico, poteva distrarlo, colpirlo e scuoterlo. Ora pensò con tristezza e con una sorta di pentimento al suo angolo tranquillo; poi lo invasero l'angoscia e la preoccupazione per la sua situazione non risolta e per le seccature che lo attendevano, e, nello stesso tempo, lo infastidì il fatto che simili piccolezze potessero preoccuparlo. Infine, stanco e non più in grado di collegare tra di loro due idee, giunse ormai la sera tardi al suo appartamento e si accorse con meraviglia di esser passato oltre la casa in cui abitava. Stupefatto e scuotendo la testa al pensiero della sua distrazione egli la 22
attribuì alla stanchezza e, salite le scale, entrò finalmente nella sua camera in soffitta. Qui accese la candela e, un momento più tardi, l'immagine di quella donna piangente colpì vividamente la sua immaginazione. L'impressione fu così forte  e fiammeggiante, con tale amore il suo cuore rievocò i tratti miti e tranquilli di quel viso sconvolto da una misteriosa commozione e dal terrore, bagnato di lacrime di entusiasmo o di infantile pentimento, che i suoi occhi si annebbiarono e gli sembrò che il fuoco gli corresse per tutte le membra. Ma la visione non durò a lungo. L'entusiasmo lasciò il posto prima alla riflessione, poi all'irritazione, infine a una sorta di rabbia impotente; senza spogliarsi egli si avvolse in una coperta e si gettò sul suo duro giaciglio...

Ordynov si svegliò ormai abbastanza tardi la mattina dopo, in uno stato d'animo irritato, pavido e depresso, si preparò in fretta, cercando quasi con sforzo di pensare alle sue preoccupazioni impellenti, e si avviò nella direzione opposta a quella della sua passeggiata del giorno prima; Infine riuscì a trovare un alloggio da qualche parte, nella stanzetta di un povero tedesco soprannominato Špis, che viveva assieme alla sua figliuola Tinchen.  Spis, non appena ebbe ricevuto la caparra, staccò subito il cartellino inchiodato sul portone e, dopo aver chiamato gli altri pigionanti, lodò Ordynov per il suo amore per la scienza e promise che si sarebbe messo seriamente a studiare assieme a lui. Ordynov disse che avrebbe traslocato verso sera. Di lì si avviò verso casa, ma cambiò idea e svoltò nella direzione opposta; si sentiva di nuovo energico e sorrise dentro di sé della propria curiosità. La strada per l'impazienza gli parve estremamente lunga, ma infine arrivò alla chiesa dove era stato la  sera prima. Stavano celebrando la messa. Egli si scelse un posto dal quale poteva vedere praticamente tutti i fedeli; ma quelli che cercava non c'erano. Dopo aver atteso a lungo usci arrossendo. Reprimendo tenacemente dentro di sé non so quale involontario sentimento, egli tentava con ostinazione e con sforzo di mutare il corso dei propri pensieri. Riflettendo sulle sue faccende quotidiane, si sovvenne che era ora di pranzare e, accorgendosi di avere veramente fame, entrò in quella stessa trattoria dove aveva pranzato il giorno prima. Più tardi non ricordava nemmeno come ne fosse uscito. Errò a lungo e inconsapevolmente per le vie, passando per vicoli affollati e solitari, e, infine, capitò in un angolo remoto dove ormai non c'era più la città e si stendeva  un prato ingiallito; si riscosse colpito dalla sensazione nuova, a lui da tanto tempo sconosciuta, che provocava in lui il silenzio assoluto. Era una giornata secca e gelida, come non di rado accade a Pietroburgo in ottobre. Poco lontano sorgeva una casupola; accanto ad essa c'erano due cumuli di fieno; un piccolo cavallo dalle costole sporgenti era ritto senza finimenti, con la testa abbassata e il labbro pendente, accanto a un calesse a due ruote, come se stesse meditando. Un cane da cortile accanto a una ruota rotta rosicchiava ringhiando un osso, mentre un bambino di tre anni coperto soltanto di una camiciola, grattandosi la testa bianca e lanuginosa, guardava meravigliato il solitario intruso cittadino. Dietro la casupola si stendevano orti e campi. Lungo l'estremità del cielo azzurro nereggiava il bosco, mentre dal lato opposto avanzavano nel cielo nivee nubi arruffate, come cacciando davanti a sé uno stormo di uccelli di passo che, senza grida, in fila l'uno dietro l'altro, attraversavano il cielo. Tutto era silenzioso e, per così dire, solennemente malinconico, pieno di un'attesa palpitante e nascosta... Ordynov si sarebbe inoltrato sempre più nei campi, ma quel deserto lo opprimeva. Tornò sui suoi passi, verso la città dalla quale improvvisamente risuonò un fitto suono di campane che chiamavano i fedeli alla funzione serale. Egli affrettò i passi e poco dopo entrò nuovamente nel tempio che conosceva così bene dal giorno precedente.

La sua sconosciuta era già lì.

Era inginocchiata proprio vicino all'ingresso in mezzo alla folla dei fedeli in preghiera.
Ordynov si fece strada attraverso la folta folla di mendicanti, di vecchiette coperte di stracci, di malati e di storpi in attesa delle elemosine presso le porte del tempio, e si inginocchiò accanto alla sconosciuta. Il suo abito sfiorava la veste di lei ed egli udiva il respiro affannoso che usciva dalle sue labbra che mormoravano una fervida preghiera. I tratti del suo viso erano sempre animati da un sentimento di infinita devozione e di nuovo le lacrime scorrevano e si seccavano sulle sue guance ardenti, come a lavare qualche orrendo delitto. Nel luogo dove si trovavano regnava una perfetta oscurità e solo a tratti la fioca fiammella di una lampada votiva agitata dal vento che penetrava attraverso un'angusta finestrella aperta illuminava di un chiarore tremolante il volto di lei, ogni 23
lineamento del quale si scolpiva nella memoria del giovane offuscandogli la vista e lacerandogli il cuore con una pena sorda e intollerabile. Ma in quella sofferenza era racchiusa una sorta di frenetica ebbrezza. Alla fine egli non riuscì più a resistere; tutto il suo petto cominciò a un tratto a sussultare e a spasimare in uno slancio di ignota tenerezza ed egli, scoppiando in singhiozzi, si prosternò fino a toccare con la  fronte infuocata il freddo piancito di legno della chiesa. Non udiva e non sentiva nulla all'infuori della fitta che gli serrava il cuore palpitante di dolci spasimi.

Era stata la solitudine a sviluppare quell'esasperata impressionabilità, inerme e indifesa, del suo sentimento? O era stato nell'esasperante, soffocante, disperato silenzio delle lunghe notti insonni, che si era preparata tra gli slanci inconsapevoli e gli impazienti sussulti dell'animo, questa condizione esplosiva del cuore, pronta, infine,  a saltare in aria, oppure ad effondersi? Ad essa doveva accadere come quando, improvvisamente, in un giorno torrido e afoso tutto il cielo d'un tratto si oscura e un temporale inonda d'acqua e di fuoco la terra assetata appendendo perle di pioggia ai rami  smeraldini, gualcendo l'erba, i campi, abbattendo a terra le tenere corolle dei fiori, acciocché, poi, ai primi raggi del sole, tutto di nuovo riprenda vita e slancio sollevandosi incontro ad esso ed esalando solennemente al cielo il suo sontuoso, dolce incenso, gioendo e rallegrandosi della propria vita rinnovata... Ma Ordynov non sarebbe stato neppure in grado in quel momento di pensare a ciò che stava avvenendo in lui: a stento egli aveva coscienza di sé...

Egli quasi non si accorse che la funzione era  terminata e ritornò in sé solo mentre si faceva strada seguendo la sua sconosciuta attraverso la folla che faceva ressa alla porta. A tratti egli incontrava il suo sguardo stupito e luminoso. Arrestandosi ogni momento a causa della gente che stava uscendo, ella si voltò ripetutamente verso di lui; si vedeva come il suo stupore aumentasse sempre più e, d'un tratto, ella arrossì tutta come illuminata da una vampata. In quell'istante, all'improvviso, spuntò dalla folla il vecchio del giorno prima e la prese per mano. Ordynov incontrò di nuovo il suo sguardo irritato e beffardo e una strana rabbia improvvisamente invase il suo cuore.
Alla fine egli li perse di vista nell'oscurità; allora, con uno sforzo sovrumano, si gettò in avanti ed uscì dalla chiesa. Ma la fresca aria della sera non ebbe il potere di rinfrescarlo: il respiro gli rimaneva imprigionato e compresso nel petto e il cuore prese a battergli lentamente e violentemente, come se volesse balzargli fuori dal petto. Alla fine si rese conto di aver veramente perduto di vista i suoi sconosciuti; di essi ormai non c'era più traccia né nella via, né nel vicolo.
Nella testa di Ordynov, però, era già apparso un pensiero, aveva già preso forma uno di quei piani strani e risolutivi, che, benché pazzeschi, in compenso quasi sempre riescono e vanno a segno in simili casi; il giorno successivo, alle otto del mattino, egli raggiunse quella casa dalla parte del vicolo ed entrò nell'angusto, sudicio e fangoso cortile posteriore, una specie di immondezzaio. Il custode, che era intento a fare non so che cosa nel cortile, si fermò, appoggiò il mento sul manico della pala, squadrò Ordynov dalla testa ai piedi e gli chiese che cosa volesse.

Il custode era un giovanotto di circa venticinque anni con un volto straordinariamente vecchio e grinzoso, piccolo di statura, un tartaro.

«Cerco alloggio», rispose con impazienza Ordynov.

«Di che genere?», domandò il custode con un sogghigno. Guardava Ordynov come se fosse al corrente di tutta la sua faccenda.

«Una camera in subaffitto», rispose Ordynov.

«Nell'altro cortile non ce ne sono», rispose enigmaticamente il custode.

«E qui?».

«Qui neppure». E a questo punto il custode diede di nuovo di piglio alla pala.

«Forse qualcuno me l'affitterà», disse Ordynov porgendo al custode una  moneta da dieci copeche.

Il tartaro lanciò un'occhiata a Ordynov, prese la moneta, poi diede di nuovo di piglio alla pala e dopo un attimo di silenzio dichiarò che «no, niente alloggio». Ma il giovane non lo stava più ascoltando e si era incamminato sulle assi putride e traballanti gettate sopra la pozzanghera verso l'unico ingresso che dall'ala della casa dava su questo cortile, un ingresso nero, sudicio, fangoso che sembrava annegare nella pozzanghera. Al piano inferiore era installato un povero fabbricante di 24
bare. Dopo esser passato accanto alla sua pittoresca bottega, Ordynov salì al piano superiore per una scala a chiocciola mezza rotta e scivolosa, tastò nel buio una spessa e rozza porta ricoperta di stuoie lacere, trovò la maniglia e la socchiuse. Non si era sbagliato. Davanti a lui era ritto il vecchio che conosceva, il quale lo fissava intento e con estremo stupore.

«Che vuoi?», gli domandò parlando a scatti e quasi sussurrando.

«Ci sarebbe un alloggio? ... », domandò a sua volta Ordynov, quasi dimentico di tutto quello che voleva dire. Dietro le spalle del vecchio aveva scorto la sua sconosciuta.

Il vecchio senza rispondere cominciò a richiudere la porta spingendo fuori Ordynov.

«L'alloggio c'è», risuonò d'improvviso la carezzevole voce della giovane donna.

Il vecchio lasciò la porta.

«Mi occorre un angolo», disse Ordynov, entrando in fretta nella stanza e rivolgendosi alla bella giovane.

Ma subito si arrestò sbalordito, come inchiodato a terra, guardando i suoi futuri padroni di casa; sotto  i suoi occhi si stava svolgendo una straordinaria scena muta. Il vecchio era pallido come un morto, come se stesse per perdere i sensi. Egli fissava la donna con uno sguardo plumbeo, immobile, penetrante. Anche lei dapprima impallidì, ma poi tutto il sangue le affluì al viso e i suoi occhi scintillarono stranamente. Ella condusse Ordynov nello stambugio adiacente.

Tutto l'appartamento consisteva di un'unica stanza abbastanza ampia, suddivisa in tre parti per mezzo di due divisori; dall'andito si entrava direttamente in un angusto e buio corridoio, in faccia una porta dava oltre il divisorio in quella che, evidentemente, doveva essere la stanza da letto dei padroni. A destra, attraverso il corridoio, si accedeva a una stanza che veniva data in affitto.
Questa era stretta, schiacciata dal divisorio contro due basse finestre. Tutto lo spazio era occupato e ingombrato dagli oggetti indispensabili a ogni soggiorno; tutto era povero, angusto, ma, nella misura del possibile, pulito. Il mobilio era composto da un semplice tavolo bianco, da due semplici sedie e da una cassapanca lungo due delle pareti. Una grande icona antica con una corona dorata era appoggiata su una mensola in un angolo e davanti a essa ardeva una lampada. Nella camera che veniva affittata e, in parte, nel corridoio, si ergeva un'enorme, goffa stufa russa. Era chiaro che in un appartamento del genere era impossibile vivere in tre.

Si misero a prendere gli accordi, ma in maniera sconclusionata e comprendendosi a stento.
Ordynov a due passi di distanza sentiva come batteva il suo cuore; egli vedeva come lei tremasse tutta per l'agitazione e come di paura. Finalmente riuscirono in qualche modo a mettersi d'accordo.
Il giovane dichiarò che avrebbe subito traslocato e guardò il padrone di casa. Il vecchio era ritto sulla porta sempre pallido; ma un sorriso quieto, persino pensieroso, spuntava sulle sue labbra.
Incontrando lo sguardo di Ordynov egli aggrottò nuovamente le ciglia.

«Hai il passaporto?», domandò improvvisamente parlando a scatti e ad alta voce mentre gli apriva la porta che dava sull'andito.

«Sì!», rispose Ordynov, leggermente sconcertato.

«Chi sei, tu?».

«Vasìlij Ordynov, nobile, non sono in servizio, mi occupo di faccende mie», rispose facendo il verso al vecchio.

«E io pure», rispose il vecchio. «Io sono Il'jà Murin, borghese; ti basta? Vattene ... ».

Un'ora dopo Ordynov si trovava già nel suo nuovo alloggio, con grande sorpresa sua e del tedesco, il quale, assieme alla mite Tinchen, cominciava ormai a sospettare che l'inquilino che gli era capitato lo avesse ingannato. Ordynov stesso non riusciva a capire come tutto ciò fosse avvenuto, e neppure voleva capirlo...

II


Il suo cuore batteva così forte che gli si oscurava la vista e gli girava la testa.
Macchinalmente si mise a sistemare nel nuovo alloggio i suoi poveri averi, slegò il fagotto che conteneva svariate cose indispensabili, aprì il baule coi libri e cominciò a disporli sul tavolo; ma 25
presto gli caddero le braccia. Ogni momento gli balenava davanti agli occhi l'immagine della  donna, l'incontro con la quale aveva sconvolto e scosso tutta la sua esistenza, l'immagine che riempiva il suo cuore di una tale incontenibile, spasmodica estasi: tanta felicità aveva fatto irruzione di colpo nella sua squallida esistenza, che i suoi pensieri si confondevano e gli mancava il fiato per l'angoscia e il turbamento. Nella speranza di vederla, prese il suo passaporto e lo portò al padrone di casa, ma Murin socchiuse appena la porta, prese il documento, gli disse: «Bene, vivi in pace», e si rinchiuse nuovamente nella sua camera. Un sentimento sgradevole invase Ordynov. Non sapeva perché, ma la vista di quel vecchio gli era divenuta odiosa. Nel suo sguardo c'era qualcosa di sprezzante e di astioso. Ma quella sensazione spiacevole ben presto si dissolse. Era ormai il terzo giorno che Ordynov viveva in una sorta di turbine in confronto alla quiete della sua vita antecedente; ma non era in grado di riflettere e ne aveva anzi paura. Tutta la sua esistenza era uscita dai binari ed era stata messa sottosopra; avvertiva sordamente che tutta la sua vita era come spaccata in due; un'unica aspirazione, un'unica attesa lo dominavano e nessun altro pensiero lo turbava.

Perplesso tornò nella sua stanza. Lì, accanto alla stufa, sulla quale si cucinava, era affaccendata una vecchietta minuscola e tutta curva, così sudicia e coperta di stracci così ripugnanti che metteva pena a guardarla. Aveva un'aria assai rabbiosa e, a tratti, brontolava biascicando con le labbra sotto il naso. Era la domestica dei padroni. Ordynov tentò di attaccar discorso con lei, ma ella rimase muta, evidentemente perché maldisposta. Venne infine l'ora di pranzo; la vecchia tolse dalla stufa gli  sc i, dei   pirogì e della carne di manzo e portò tutto ai padroni. Le stesse cose servì a Ordynov. Terminato il pranzo, nell'appartamento scese un silenzio di morte.

Ordynov prese in mano un libro e lo sfogliò a lungo cercando di afferrare il significato di quello che aveva già riletto varie volte. Spazientito gettò il libro e provò di nuovo a mettersi a riordinare le sue cose; infine prese il berretto, indossò il mantello e uscì in strada. Camminando a caso, senza badare a dove andava, si sforzava continuamente, per quanto gli era possibile, di concentrarsi, di rimettere ordine tra i suoi pensieri frammentari e di riflettere un po' sulla sua situazione. Ma quello sforzo si tramutava per lui in una sofferenza, in una tortura. Alternatamente era preso da brividi di freddo e da vampate di calore e, a tratti, il cuore cominciava a battergli così forte che era costretto a fermarsi e ad appoggiarsi al muro. «No, meglio la morte», pensava, «meglio la morte», mormorava con labbra ardenti e tremanti, senza rendersi conto di quel che diceva.
Camminò assai a lungo; infine, accorgendosi di essersi inzuppato fino alle  ossa e avvedendosi per la prima volta che stava piovendo a dirotto, si diresse verso casa. Non lontano da casa scorse il custode. Gli parve che il tartaro lo fissasse per qualche istante intensamente e con curiosità e poi, accorgendosi di essere stato visto, riprendesse per la sua strada.

«Salve», disse Ordynov raggiungendolo. «Come ti chiami?». «Mi chiamo custode», rispose questi sogghignando.

«Fai il custode qui da molto tempo?».

«Sì, da molto tempo».

«Il mio padrone di casa è un borghese?». «Sarà un borghese, se ha detto così».

«Che cosa fa?».

«È malato; campa, prega Dio, ecco cosa fa». «Lei è sua moglie?».

«Quale moglie?».

«Quella che vive con lui».

«Sarà sua moglie, se ha detto così. Addio signore».

Il tartaro si toccò il colbacco ed entrò nel suo stambugio.

Ordynov salì nel suo alloggio. La vecchia biascicando e brontolando qualcosa tra di sé gli aprì la porta, la richiuse col chiavistello e poi si arrampicò di nuovo sulla stufa dove trascorreva quel che le restava della sua vita. Calava ormai il crepuscolo. Ordynov andò a cercare del fuoco e si avvide che la porta della stanza dei suoi padroni era chiusa con un lucchetto. Chiamò la vecchia la quale, appoggiandosi su un gomito, lo osservava dalla stufa con sguardo vigile, chiedendosi, pareva, cosa andasse mai cercando vicino alla porta dei padroni. Questa, in silenzio, gli gettò giù un 26
pacchetto di fiammiferi. Egli ritornò nella sua stanza e si mise di nuovo, per la centesima volta, a riordinare le sue cose e i suoi libri. Ma, a poco a poco, senza rendersi ben conto di quello che faceva, si lasciò andare su una delle panche e gli parve di addormentarsi. A tratti egli ritornava in sé e intuiva che in realtà il suo non era un vero sonno, ma una sorta di penoso, morboso torpore. Udì aprirsi e sbattere la porta e capì che i suoi padroni erano ritornati dalla funzione serale. Allora gli venne in mente che bisognava che si recasse da loro per qualche motivo. Si alzò, e gli parve di avviarsi da loro, ma inciampò e cadde sopra un mucchio di legna che la  vecchia aveva raccolto in mezzo alla camera. A questo punto perse del tutto conoscenza e, quando riaprì gli occhi dopo lungo tempo, si avvide con stupore di essere sdraiato sulla stessa panca nella stessa posizione In cui era prima, vestito, e che sopra di lui, con tenera premura, era chino un volto di donna, stupendamente bello e tutto bagnato, gli parve, di silenziose lacrime materne. Sentì che gli mettevano un cuscino sotto la testa, che gli mettevano addosso qualcosa di caldo e che una tenera mano si posava sulla sua fronte ardente. Avrebbe voluto esprimere la sua riconoscenza, avrebbe voluto prendere quella mano, accostarla alle labbra riarse, bagnarla di lacrime e baciarla, baciarla per un'intera eternità.
Avrebbe voluto dire tante cose, ma che cosa, egli stesso non lo sapeva; provò il desiderio di morire in quell'istante. Ma le sue mani erano come di piombo e non riusciva a muoverle; era tutto come intorpidito e avvertiva soltanto il sangue scorrere veloce attraverso tutte le sue vene come sollevandolo al di sopra del letto. Qualcuno gli diede da bere dell'acqua... Alla fine cadde in deliquio.

Si svegliò il mattino successivo verso le otto. Il sole gettava un fascio di raggi dorati attraverso le finestre verdi e ammuffite della sua camera; un ignoto sentimento di gioia pervadeva dolcemente tutte le membra del malato. Egli era tranquillo e quieto, infinitamente felice. Gli pareva che ci fosse qualcuno accanto al suo capezzale. Si risvegliò cercando con sollecitudine attorno a sé quell'essere invisibile;  avrebbe voluto abbracciare quella persona amica e dirle per la prima volta in vita sua: «Salve, buon giorno a te, cara».

«Come dormi a lungo!», disse una dolce voce femminile.

Ordynov aprì gli occhi e su di lui si chinò con un sorriso cordiale e luminoso come il sole il volto della sua bella padrona di casa.

«Quanto a lungo sei stato malato», diceva, «ora basta, alzati; perché rimani lì come in prigione? La libertà è più dolce del pane e più bella del sole! Alzati, colombo mio, alzati».

Ordynov afferrò e strinse forte la sua mano. Gli pareva di stare ancora sognando.

«Aspetta, ti ho preparato il tè; vuoi del tè? Prendilo, ti farà bene. Anch'io sono stata malata e lo so».

«Sì, dammi da bere», disse Ordynov con voce debole e si alzò in piedi. Era ancora molto stanco. I brividi gli correvano per la schiena e gli facevano male tutte le membra come se fossero state rotte. Ma nel suo cuore c'era una sensazione luminosa e gli pareva che i raggi del sole gli infondessero una gioia chiara e solenne. Sentiva che per lui era cominciata una vita nuova, forte, mai immaginata prima. Cominciò a girargli lievemente la testa.

«Ti chiami Vasìlij, non è vero?», gli chiese lei. «Se non ho sentito male, il padrone ti ha chiamato così ieri».

«Sì, Vasìlij. E tu come ti chiami?», chiese Ordynov, avvicinandosi a lei reggendosi in piedi a malapena. Egli barcollò. Lei lo afferrò per le mani scoppiando a ridere.

«Io mi chiamo Katerina», replicò, fissandolo con i suoi grandi e limpidi occhi azzurri. Si tenevano a vicenda per le mani.

«Mi vuoi dire qualcosa?», proferì lei finalmente.

«Non lo so», rispose Ordynov mentre la vista gli si annebbiava.

«Guarda in che stato sei. Basta, colombo mio, basta; non darti pena, non sforzarti; siediti qui a tavola, al sole; stattene lì tranquillo e non venirmi dietro», aggiunse lei vedendo che il giovane faceva un movimento quasi volesse trattenerla, «verrò io da te tra un istante; avrai tempo di guardarmi a sazietà». Un attimo dopo ella portò il tè, lo depose sulla tavola e si sedette dirimpetto a lui.

«Ecco, bevi», disse. «Ti fa male la testa?».

«No, adesso non mi fa male», rispose lui. «Non so, però, forse mi fa anche male... non voglio... basta, basta!... Non so che cos'ho», proseguì ansimando e riuscendo, infine, a prenderle la mano, «resta qui, non allontanarti da me; dammi, dammi ancora la tua mano... Mi si annebbia la vista; quando ti guardo è come se guardassi il sole», disse lui come se si strappasse dal cuore ogni parola, col fiato mozzato dall'emozione con la quale le pronunciava. I singhiozzi gli serravano la gola.

«Poverino! Si vede che non hai avuto accanto a te una persona buona. Sei solo e abbandonato; non hai parenti?».

«Non ho nessuno; sono solo... ma non fa niente, pazienza! Ora sto meglio... ora sto bene!», disse Ordynov come nel delirio. Gli sembrava che la stanza gli girasse attorno.

«Anch'io per molti anni non ho visto nessuno. Mi guardi in una maniera tale ... », proferì lei dopo un attimo di silenzio.

«Perché? Come?».

«Come se i miei occhi ti riscaldassero! Sai quando si ama qualcuno... Sin dalle tue prime parole ti ho accolto nel mio cuore. Se ti ammalerai ancora ti curerò. Ma tu cerca di non ammalarti, no. Quando ti rimetterai vivremo come fratello e sorella. Vuoi? È difficile, si sa, procurarsi una sorella, se Dio non te ne ha dato una per nascita».

«Chi sei? Di dove vieni?», domandò Ordynov con un fil di voce.

«Non sono di qui... che t'importa? Sai, raccontano che dodici fratelli vivevano in una buia foresta e che in quella foresta si smarrì un giorno una bella  fanciulla. Essa entrò nella loro casa e rassettò ogni loro cosa, prodigando a tutti il proprio amore. Tornarono a casa i fratelli e si accorsero che quel giorno era stata loro ospite una sorella. Si misero allora a chiamarla ed ella si mostrò loro.
Tutti la trattarono come una sorella, le diedero la libertà e la trattarono come una loro pari. La conosci la favola?».

«La conosco», mormorò Ordynov.

«La vita è bella; ti piace stare a questo mondo?».

«Sì, sì; vorrei vivere un secolo, vorrei vivere a lungo», rispose Ordynov.

«Non so», replicò pensierosamente Katerina, «Io desidererei anche morire. È una cosa buona amare la vita, amare le persone buone, sì... Guardati, sei diventato di nuovo bianco come la farina!».

«Sì, mi gira la testa ... ».

«Aspetta, ti  porterò qui le mie lenzuola e le mie coperte e un cuscino, un altro; ti preparerò il letto qui. Ti addormenterai, sognerai di me e il male se ne andrà. Anche la nostra vecchia è ammalata ... ».

Ella continuò a parlare mentre preparava il letto, ogni tanto voltandosi a guardare con un sorriso Ordynov al di sopra della spalla.

«Quanti libri hai!», esclamò spostando la cassa.

Ella gli si avvicinò, gli prese la mano destra, lo condusse al letto, lo fece coricare e lo ricoprì con la coperta.

«Dicono che i libri guastino l'uomo», aggiunse poi pensierosa scuotendo la testa. «Ti piace leggere quel che c'è scritto nei libri?».

«Sì», rispose Ordynov senza rendersi conto se stesse sognando oppure no e stringendo più forte la mano di Katerina per convincersi che non stava sognando.

«Il mio padrone ha molti libri, vedessi quali! Dice che sono libri divini. Mi legge sempre qualcosa. Poi te li mostrerò; mi spiegherai poi che cosa mi legge?».

«Te lo spiegherò», sussurrò Ordynov senza staccare lo sguardo da lei.

«Ti piace pregare?», gli domandò lei dopo un momento di silenzio. «Sai una cosa? Io ho sempre paura, ho sempre paura...».

Ella non terminò la frase, sembrava che stesse riflettendo su qualche cosa. Ordynov, finalmente, si portò la mano di lei alle labbra.

«Perché baci la mia mano?». (E le sue gote arrossirono leggermente). «Ecco, baciala», proseguì ridendo e porgendogli entrambe le mani; poi ne liberò una e la accostò alla sua fronte ardente cominciando poi a lisciargli e ad accarezzargli i capelli. Ella arrossiva sempre più; infine si sedette sul pavimento accanto al suo letto e appoggiò la sua guancia contro la guancia di lui; il suo respiro tiepido e umido gli sfiorava il viso... Improvvisamente Ordynov sentì che lacrime ardenti sgorgavano copiosamente dagli occhi di lei e cadevano come gocce di piombo fuso sulle sue guance. Egli si sentiva sempre più debole e non era già più in grado di sollevare la mano. In quell'istante si udì bussare alla porta e il rumore del chiavistello. Ordynov sentì anche il padrone  di casa entrare nella stanza al di là del divisorio. Egli sentì poi che Katerina si alzava, senza fretta e senza scomporsi, e prendeva i propri libri; la sentì poi fargli il segno della croce prima di andarsene e chiuse gli occhi. D'improvviso un ardente,  lungo bacio si posò sulle sue labbra riarse e fu come se gli avessero piantato un coltello nel cuore. Emise un debole grido e perse i sensi...

Ebbe poi inizio per lui una strana vita.

A tratti, in qualche attimo di confusa consapevolezza, balenava nella  sua mente l'idea di essere condannato a vivere in una sorta di lungo, interminabile sogno, pieno di strane e sterili inquietudini, di lotta e di sofferenze. Atterrito si sforzava di insorgere contro l'esiziale fatalismo che lo opprimeva, ma nel momento in  cui la lotta era più tesa e disperata una forza sconosciuta si abbatteva di nuovo su di lui ed egli sentiva, avvertiva chiaramente che perdeva di nuovo la conoscenza, che di nuovo un invalicabile, sterminato abisso di tenebre si spalancava davanti a lui ed egli vi sprofondava con un lamento di angoscia e di disperazione. A volte sopravvenivano fulminei istanti di intollerabile, annichilante felicità, quando la vitalità si intensifica fino allo spasimo in ogni componente dell'uomo, si fa chiaro il passato, risuona di una trionfale gaiezza il luminoso attimo presente e si sogna a occhi aperti l'ignoto avvenire; quando una speranza inesprimibile cade sull'anima come una rugiada vivificatrice; quando si prova il desiderio di gridare per la gioia; si sente che la carne non può resistere a un tale impeto di impressioni e che si spezza il filo dell'esistenza, e quando, nello stesso tempo, ci si rallegra con la propria vita per il suo rinnovamento e la sua resurrezione. A tratti invece ricadeva nel sopore e allora tutto quello che gli era accaduto negli ultimi giorni si ripeteva di nuovo e passava attraverso la sua mente come uno sciame di impressioni confuso e tumultuante; ma quella visione gli si presentava con un aspetto strano ed enigmatico. Certe volte il malato  si dimenticava di quello che gli era accaduto e si meravigliava di non trovarsi ancora nel vecchio appartamento, presso la sua vecchia padrona di casa. Egli si meravigliava che la vecchietta non si avvicinasse, come era sempre solita fare all'ora del crepuscolo, alla stufa che si spegneva che, a tratti, inondava d'intermittenti bagliori tutto l'angolo oscuro della stanza, e non si scaldasse, secondo la sua abitudine, le mani ossute e tremolanti alla fiamma morente, sempre chiacchierando e borbottando tra sé e sé e solo di rado gettando uno sguardo perplesso su di lui, su quel suo strambo pigionante che riteneva uscito di senno per esser rimasto troppo a lungo chino sul libri. Altre volte ricordava di aver cambiato alloggio, ma come ciò fosse avvenuto, che cosa gli fosse accaduto e perché avesse dovuto traslocare lo ignorava, sebbene tutto il suo spirito venisse meno per l'incessante, incontrollabile slancio verso qualcosa... Ma verso che cosa? Che cosa lo chiamava e lo tormentava e chi aveva gettato in lui quell'insostenibile fiamma che soffocava e divorava tutto il suo sangue? Neppure questo lo sapeva né lo ricordava.
Spesso egli cercava avidamente di afferrare con le mani qualche ombra, spesso gli pareva di udire un fruscio di passi vicini e lievi accanto al suo letto e un mormorio, dolce come una musica, di parole carezzevoli pronunciate da qualcuno; il respiro di qualcuno, umido e affannoso, sfiorava il suo volto e tutto il suo essere era scosso dall'amore; le lacrime ardenti di qualcuno bruciavano le sue gote fiammeggianti e, all'improvviso, un bacio lungo e tenero si imprimeva sulle sue labbra; allora la sua vita si struggeva in un tormento inestinguibile; pareva che tutto l'essere, che tutto l'universo, si arrestasse per interi secoli attorno a lui e che una lunga, millenaria notte si stendesse su tutto...

Talvolta era come se fossero ritornati per lui i teneri, placidi anni della prima infanzia, con la loro luminosa allegria, con la loro inestinguibile felicità, con il primo, voluttuoso stupore davanti alla vita, con gli sciami di spiritelli luminosi che volavano fuori da sotto ogni fiore che coglieva, che 29
giocavano con lui sul verde e folto prato davanti alla casetta circondata dalle acacie, che gli sorridevano dal lago di cristallo che si stendeva a perdita d'occhio, sulla riva del quale egli rimaneva seduto per ore intere ad ascoltare il rumore delle onde e il frullare delle ali attorno a lui, che amorosamente cullavano con sogni luminosi, iridescenti, la sua piccola culla, quando sua madre, chinandosi  su di essa, gli faceva il segno della croce, lo baciava e gli cantava piano-piano una ninna-nanna nelle lunghe, placide notti. Ma a questo punto, all'improvviso, appariva un essere che lo turbava incutendogli un terrore non infantile, infondendo nella sua  vita il primo, lento veleno del dolore e delle lacrime; egli avvertiva confusamente che l'ignoto vecchio reggeva nelle sue mani tutti i suoi anni a venire, e, tremante, non riusciva a distogliere gli occhi da lui. Il malvagio vecchio lo seguiva ovunque. Spuntava facendogli cenni ingannevoli da ogni cespuglio del bosco, lo derideva e lo beffeggiava, si incarnava in ogni pupazzo del bambino, facendogli smorfie e sghignazzando tra le sue mani come un malvagio, perfido gnomo; aizzava contro di lui ciascuno dei  suoi spietati compagni di scuola, oppure, sedendosi con i bimbi sulla panca della scuola, faceva capolino da sotto ogni lettera della sua grammatica facendogli sberleffi. Poi, quando dormiva, il vecchio malvagio si sedeva al suo capezzale... Egli aveva scacciato lo sciame degli spiritelli luminosi che facevano frullare le loro ali dorate e di zaffiro attorno alla sua culla, gli aveva portato via per sempre la sua povera madre, e, per notti intere, aveva cominciato a sussurrargli una lunga, straordinaria favola, incomprensibile per il suo cuore di fanciullo, ma che lo straziava e lo sconvolgeva incutendogli un terrore e una tensione non infantili. Ma il vecchio malvagio non badava ai suoi singhiozzi e alle sue preghiere e continuava a parlargli finché egli non cadeva nel torpore e non smarriva i sensi. Poi il bimbo si risvegliava improvvisamente uomo; anni interi erano passati sopra di lui inavvertitamente. D'un tratto egli prendeva coscienza della sua reale situazione, d'un tratto cominciava a capire di essere solo ed estraneo a tutto il mondo, solo in casa altrui, fra gente misteriosa e sospetta, fra nemici che di continuo si radunavano a confabulare negli angoli della sua buia stanza, facendo cenno alla vecchia che, accoccolata accanto al fuoco, si riscaldava le mani vecchie e decrepite indicandolo. Egli cadeva in uno stato di confusione e di allarme; avrebbe continuamente voluto scoprire chi fosse quella gente, per quale motivo essi fossero lì, perché lui stesso si trovasse in quella stanza, e indovinava di  essere capitato in qualche oscuro covo di malfattori, attratto da una forza potente e sconosciuta, senza aver capito prima chi e quali fossero gli inquilini e chi fossero esattamente i suoi padroni di casa. Cominciava a torturarlo il sospetto e, improvvisamente, nell'oscurità della notte, ricominciava la bisbigliante, interminabile favola, e la raccontava piano, con voce quasi impercettibile, fra di sé, una vecchia sconosciuta, dondolando malinconicamente la testa canuta davanti al fuoco morente. Ma  - e il  terrore lo afferrava di nuovo  -
la fiaba prendeva corpo davanti a lui in volti e forme. Vedeva come tutto, cominciando dai confusi sogni infantili, tutti i suoi pensieri e le sue aspirazioni, tutto ciò che aveva vissuto nel corso della sua vita, tutto ciò  che aveva letto nel libri, tutto ciò di cui da lungo tempo si era dimenticato, tutto si animava, si ricomponeva, si incarnava, sorgeva davanti a lui in forme e immagini colossali, muovendosi e sciamando attorno a lui; vedeva stendersi davanti a lui magici, lussureggianti giardini, sorgere e crollare sotto i suoi occhi intere città, interi cimiteri mandargli i loro morti che ritornavano a vivere, stirpi e popoli interi giungere, nascere e perire sotto i suoi occhi, vedeva infine, ora, ogni suo pensiero, ogni sua vaga fantasticheria prendere corpo intorno al suo letto di dolore quasi nell'istante stesso in cui veniva concepita; come, infine, egli non pensava con idee incorporee, ma con interi mondi, con interi creati; come veniva trasportato simile a un granello di polvere attraverso tutto quello sconfinato, strano, interminabile mondo e come tutta quella vita lo schiacciasse, lo opprimesse con la sua tumultuosa indipendenza, e lo perseguitasse con la sua eterna, infinita ironia; egli si sentiva morire, disintegrarsi in polvere e in cenere, senza resurrezione, nel secoli dei secoli; avrebbe voluto fuggire, ma non vi era angolo al mondo dove potesse rifugiarsi.
Infine, in un accesso di disperazione, egli raccolse tutte le sue forze, lanciò un grido e si risvegliò...

Era tutto inondato di freddo, gelido sudore. Attorno a lui regnava un silenzio di morte; era notte fonda. Ma gli sembrava ancora che da qualche parte continuasse la sua straordinaria favola, che la voce stridula di qualcuno realmente incominciasse un  lungo racconto su un argomento che gli 30
pareva familiare. Sentiva narrare di oscure foreste, di certi arditi briganti, di un certo giovane audace, forse addirittura di Sten'ka Razin in persona, degli allegri alatori ubriaconi, di una bella fanciulla e della madre Volga. Non era dunque una favola? Sentiva davvero tutto ciò nella realtà?
Per un'ora intera egli rimase disteso, con gli occhi aperti, senza muovere neppure un dito, immerso in un penoso torpore. Infine si alzò con cautela e con gioia avvertì in sé  il vigore che la grave malattia non aveva esaurito. Il delirio era passato, ricominciava la realtà. Si accorse di essere ancora vestito come durante il colloquio con Katerina e che, di conseguenza, non era passato molto tempo da quella mattina in cui ella  lo aveva lasciato. Il fuoco della decisione gli corse per le vene.
Macchinalmente cercò con le mani il grande chiodo piantato chissà a quale scopo in alto nel divisorio a ridosso del quale gli avevano preparato il letto, si afferrò ad esso e in qualche modo si sollevò fino alla fessura dalla quale filtrava nella sua stanza un quasi impercettibile raggio di luce.
Avvicinò l'occhio all'apertura e si mise a guardare trattenendo il fiato per l'agitazione.

Nell'angolo del bugigattolo dei padroni c'era un letto, davanti al letto un tavolo coperto da un tappeto e ingombro di libri antichi, di grande formato, con rilegature che assomigliavano a quelle dei libri di chiesa. In un altro angolo c'era una icona, anch'essa antica come quella che stava nella sua camera, davanti a cui ardeva una lampada. Sul letto giaceva il vecchio Murin, ammalato, spossato dalle sofferenze, pallido come un cencio, avviluppato in una coltre di pelliccia. Sulle sue ginocchia c'era un libro aperto. Sulla panca accanto al letto era coricata Katerina con un braccio sul petto del vecchio e la testa posata sulla sua spalla. Ella lo guardava con occhi intenti, colmi di infantile stupore, e sembrava che ascoltasse ciò che le raccontava Murin con intensa curiosità, trepidando per l'attesa. A tratti  la voce del narratore si innalzava, l'animazione si rifletteva sul suo volto pallido, egli aggrottava le ciglia, i suoi occhi scintillavano e Katerina pareva impallidire per la paura e la commozione. Allora qualcosa di simile a un sorriso appariva sul volto del vecchio e Katerina si metteva a ridere piano. A tratti nei suoi occhi spuntavano le lacrime e allora il vecchio le accarezzava dolcemente la testa come si fa con un bambino ed ella lo abbracciava più forte col suo braccio nudo, splendente come neve,  abbandonandosi ancora più amorosamente sul suo petto.  A tratti Ordynov pensava che tutto ciò fosse ancora un sogno, ne era anzi sicuro; ma il sangue gli salì alla testa e le vene delle tempie gli si gonfiarono pulsando dolorosamente. Lasciò andare il chiodo, si alzò dal letto e barcollando, brancolando come un sonnambulo, senza comprendere lui stesso l'impulso divampato come un incendio nel suo sangue, si accostò alla porta della stanza dei padroni e si gettò con forza contro di essa; il chiavistello arrugginito saltò via e di colpo con gran strepito e rumore egli si trovò nel bel mezzo della stanza da letto dei suoi padroni di casa. Egli vide Katerina trasalire e sussultare, e gli occhi del vecchio scintillare rabbiosamente sotto le sopracciglia aggrottate e l'ira improvvisamente sfigurargli il volto. Egli vide il vecchio cercare in fretta, a tentoni, senza distogliere gli occhi da lui, il fucile che era appeso alla parete e scintillare la bocca del fucile diretta con mano malferma, tremante per l'ira, diritto contro il suo petto... Echeggiò uno sparo, seguito da un urlo selvaggio, quasi disumano, e quando il fumo si diradò uno spettacolo orribile sconvolse Ordynov. Tremando tutto si chinò sul vecchio. Murin giaceva sul pavimento contorcendosi per gli spasimi, il suo volto era sfigurato dalla sofferenza e la schiuma spuntava sulle sue labbra contratte. Ordynov intuì che lo sventurato era in preda a un violentissimo attacco di mal caduco. Assieme a Katerina si precipitò a soccorrerlo...

III


Tutta la notte trascorse nell'agitazione. Il giorno successivo Ordynov uscì di casa la mattina presto, incurante della propria debolezza e della febbre che ancora non lo abbandonava. Nel cortile si imbatté di nuovo nel custode. Questa volta il tartaro sollevò il suo colbacco ancora da lontano e lo guardò con curiosità. Poi, come riscuotendosi, diede di nuovo di piglio alla scopa lanciando occhiate di traverso a Ordynov che si avvicinava lentamente.

«Be', non hai sentito niente questa notte?», domandò Ordynov.
«Ho sentito».

«Che uomo è quello? Chi è?».

«Tua affittato, tua sa; mia non c'entra».

«Ma vuoi parlare una buona volta!», urlò Ordynov fuori di sé, in preda a un accesso di morbosa irritazione.

«Ma mia cosa ha fatto? Tua colpa, tua spaventato inquilini. Sotto stava fabbricante di bare: è sordo, ma ha sentito tutto, e sua femmina anche lei sorda, ma ha sentito anche quella. E nell'altro cortile, anche se è lontano, anche sentito, ecco. Andrò dal sorvegliante».

«Ci andrò io», ribatté Ordynov e si avviò verso il portone.

«Fa' come vuoi; tua affittato... Signore, signore, fermati!».

Ordynov si voltò e il custode si toccò rispettosamente il colbacco.

«Be'?».

«Se ci vai, io andrò dal padrone».

«E allora?».

«Meglio cambia casa».

«Sei uno stupido», disse Ordynov e fece di nuovo per andarsene.

«Signore, signore, aspetta!», il tartaro si toccò di nuovo il colbacco e mostrò i denti.

«Ascolta signore: trattieni il cuore; perché perseguitare il povero? Perseguitare il povero è peccato. Dio non vuole, lo sai?».

«Stammi un po' a sentire, tu: ecco, prendi questo. Chi è, allora, quest'uomo?».

«Chi è?».

«Sì».

«Te lo dirò anche senza soldi».

Qui il custode riprese la scopa, diede due o tre spazzate e poi si arrestò guardando Ordynov attentamente e con sussiego.

«Tu sei un bravo signore. Ma se non vuoi vivere con uomo bravo, come vuoi; ecco come mia detto».

Qui il tartaro lo guardò con un'espressione ancora più significativa e, come stizzito, diede di nuovo di piglio alla scopa.

Finalmente, dando a divedere di aver terminato non so quale faccenda, con fare misterioso si accostò ad Ordynov e facendo un gesto assai espressivo disse:

«Lui, ecco che cosa!».

«Come? Cosa?».

«Cervello non c'è».

«Che cosa?».

«Volato via. Sì! Volato via!», ripeté il custode con aria ancor più  misteriosa. «Lui malata.
Aveva barca, grande; due, tre, andavano su Volga; anche fabbrica aveva, ma bruciata e lui senza zucca».

«È pazzo?».

«No!... No ... !», replicò scandendo le sillabe il tartaro. «Non è pazza. Lui uomo intelligente.
Lui tutto sa, libri molti leggeva, leggeva, leggeva, sempre leggeva e agli altri verità diceva. Così una veniva: due rubli, tre rubli, quaranta rubli, e se non vuoi, come vuoi; libro guarda, vede e tutta verità dice. Ma moneta sul tavolo, subito sul tavolo: senza moneta, niente!».

Qui il tartaro, che si addentrava nelle faccende economiche di Murin con eccessiva partecipazione, scoppiò persino a ridere per la gioia.

«Ma cosa faceva? Faceva incantesimi, prediceva il futuro?».

«Mm ... », mugolò il custode facendo rapidamente cenno di no con la testa. «Lui verità diceva. Lui Dio pregava, molto pregava. Ma qualche volta così, gli viene».

Qui il tartaro fece di nuovo il suo gesto espressivo.

In quell'istante qualcuno dall'altro cortile chiamò il custode e subito dopo comparve un ometto ricurvo, canuto, che aveva indosso un   tulùp.  Egli camminava ansimando, inciampando, con 32
gli occhi fissi a terra, mormorando qualcosa fra sé. Si poteva pensare che fosse un po' fuori di testa per la vecchiaia.

«Padroni, padroni!», sussurrò in fretta il custode, facendo un rapido cenno di saluto con la testa a Ordynov, e strappatosi di testa il colbacco, si lanciò di corsa verso il vecchietto il cui volto era stranamente familiare a Ordynov; quanto meno lo doveva aver incontrato assai di recente.
Avendo riflettuto che, d'altronde, in ciò non c'era nulla di straordinario, egli uscì dal cortile. Il custode gli parve un furfante e un imbroglione di prima qualità. «Quel fannullone, sembrava stesse contrattando con me!», pensò, «Dio sa che cosa c'è sotto!».

Egli pronunciò queste parole quando era ormai nella strada.

A poco a poco fu assorbito da altri pensieri. Provava una sensazione sgradevole: era una giornata fredda e grigia e nell'aria volavano fiocchi di neve. Il giovane sentiva di nuovo i brividi cominciare a corrergli per le ossa; sentì anche che il terreno cominciava a ondeggiargli sotto i piedi.
All'improvviso una voce familiare gli augurò buon giorno con un tono tenorile sgradevolmente dolciastro e tremulo.

«Jaroslàv Il'ìè!», esclamò Ordynov.

Davanti a lui c'era un uomo energico e rubicondo dell'età apparente di trent'anni, basso di statura, con piccoli occhi grigi e acquosi, con un sorrisetto sulle labbra, abbigliato... come è sempre abbigliato Jaroslàv Il'ìè, e gli tendeva la mano nella  maniera più affabile. Ordynov aveva fatto conoscenza con Jaroslàv Il'ìè esattamente un anno prima, del tutto casualmente, si può dire per la strada. Questo assai facile contatto era stato propiziato, oltre che dal caso, dalla inconsueta propensione di Jaroslàv Il'ìè a scovare ovunque persone buone, dabbene, colte, soprattutto, e degne, per lo meno per talento e per finezza di tratto, di appartenere alla migliore società. Sebbene Jaroslàv Il'ìè possedesse una voce di tenore straordinariamente dolce, tuttavia, perfino nella conversazione con i suoi amici più cari, nell'intonazione di essa trapelava qualcosa di straordinariamente luminoso, possente e imperioso, che non tollerava indugi, conseguenza, forse, dell'abitudine.

«Qual buon vento?», esclamò Jaroslàv Il'ìè con un tono che esprimeva la più sincera e più entusiastica gioia.

«Abito qui».

«Da molto?», continuò Jaroslàv Il'ìè, innalzando la voce su una nota sempre più alta. «E io non lo sapevo! Ma allora sono vostro vicino! Ora abito da queste parti. È ormai un mese che sono tornato dal governatorato di Rjazàn'. Vi ho acchiappato, mio vecchio e nobilissimo amico!». E
Jaroslàv Il'ìè scoppiò a ridere nella maniera più bonaria.

«Sergeev!», gridò con tono ispirato, «aspettami da Tarasov; bada che senza di me non tocchino i sacchi. E va' a chiamare il custode di Olsuf'ev; digli di presentarsi immediatamente in ufficio. Io arriverò tra un'ora...».

Dopo aver impartito in fretta a qualcuno questo ordine il premuroso Jaroslàv Il'ìè prese Ordynov sotto braccio e lo condusse nella trattoria più vicina.

«Non avrò pace finché non avremo scambiato due parole a tu per tu dopo tanto tempo che non ci vediamo. Cosa mi raccontate dei vostri studi?», aggiunse poi abbassando la voce con fare misterioso e quasi con venerazione. «Siete sempre sprofondato nelle scienze?».

«Sì, sempre allo stesso modo», rispose Ordynov, al quale era balenata un'idea luminosa.

«Nobile cosa, Vasìlij Michàjloviè, nobile cosa!». Qui Jaroslàv Il'ìè strinse con forza il braccio di Ordynov. «Voi sarete  l'ornamento della nostra società. Che Dio vi conceda di progredire felicemente nel vostro campo... Mio Dio! Come sono felice di avervi incontrato! Quante volte ho pensato a voi, quante volte mi sono chiesto: ma dov'è il nostro buon, magnanimo, acuto Vasìlij Michàjloviè?».

Si installarono in un salottino riservato. Jaroslàv Il'ìè ordinò degli antipasti, fece servire della vodka e si mise a guardare Ordynov con occhi pieni di tenerezza.

«Ho letto molto in vostra assenza», cominciò a dire con voce timida e lievemente insinuante.
«Ho letto tutto Puškin ... ».

Ordynov lo guardò distrattamente.

«È straordinaria la rappresentazione delle passioni umane. Ma prima di tutto permettetemi di esprimervi la mia riconoscenza. Voi avete fatto tanto per me con i vostri nobili suggerimenti di un giusto indirizzo di pensiero ...».

«Per carità!».

«No, permettetemi. Mi piace sempre rendere giustizia e sono fiero che per lo meno questo sentimento non si sia spento in me».

«Per carità, siete ingiusto con voi stesso. Quanto a me, davvero ... ».

«No, sono del tutto giusto», obiettò con straordinario calore Jaroslàv Il'ìè. «Cosa sono mai io in confronto con voi? Non è vero?».

«Oh, Dio mio!».

«Sissignore ... ».

Qui seguì un attimo di silenzio.

«Seguendo il vostro consiglio ho interrotto molte grossolane frequentazioni e ho in parte corretto la grossolanità delle mie abitudini», riprese Jaroslàv Il'ìè con voce un po' timida e insinuante. «Nelle ore che mi rimangono libere dal lavoro me ne sto per lo più in casa; la sera leggo qualche libro istruttivo e... io ho un solo desiderio, Vasilij Michàjloviè, quello di rendermi utile alla patria, sia pure nella misura delle mie forze...».

«Vi ho sempre stimato una persona nobilissima, Jaroslàv Il'ìè».

«Le vostre parole sono sempre un balsamo per me... nobile giovane ... ».

Jaroslàv Il'ìè strinse con calore la mano a Ordynov.

«Non bevete?», osservò, quando si fu un poco acquietata la sua agitazione.

«Non posso; sono malato».

«Siete malato? Sì, è vero! E da molto? In che modo vi siete compiaciuto di ammalarvi?
Volete che dica... Quale medico vi cura? Volete che dica subito di visitarvi al nostro medico di quartiere? M recherò subito da lui lo stesso. È un medico straordinario!».

Jaroslàv Il'ìè stava già per afferrare il cappello.

«Vi ringrazio di cuore, ma io non mi curo e non ho stima dei medici ... ».

«Ma che dite mai! Ma come si può! Ma questo è un medico straordinario», proseguì Jaroslàv Il'ìè con tono supplichevole, «poco tempo fa  - permettetemi di raccontarvi questo episodio, caro Vasìlij Michàjloviè  - poco tempo fa si presenta da lui un povero fabbro e dice: "Ecco, mi sono trapassata la mano con un mio attrezzo; guaritemi...". Semën Pafnùt'iè, vedendo che lo sventurato correva il pericolo di essere colpito dal fuoco di Sant'Antonio, prese la decisione di amputargli l'arto infetto. Egli eseguì l'operazione in mia presenza. Ma fece tutto in modo tale, in maniera così non...
voglio dire in maniera così squisita, che, lo confesso, non fosse per la compassione per l'umanità sofferente, sarebbe stato un piacere stare a guardare semplicemente così, per curiosità. Ma dove e come vi siete compiaciuto di ammalarvi?».

«Traslocando nel nuovo alloggio... mi sono appena alzato dal letto».

«Ma voi state ancora molto male. Non avreste dovuto  uscire. Dunque non state più dove abitavate prima? Ma che cosa vi ha spinto a cambiare casa?».

«La mia padrona di casa si è trasferita altrove».

«Domna Sàvi9na? Possibile?... Buona, veramente nobile vecchietta! Sapete? Provavo per lei una devozione quasi filiale. In quella vita ormai fuori moda riluceva qualcosa di elevato, di caratteristico dell'età dei nostri avi; guardandola, sembrava di avere davanti una incarnazione della nostra remota, maestosa antichità ... voglio dire, di quel... c'era qualcosa, sapete, di così poetico! ...
», concluse Jaroslàv Il'ìè sopraffatto dall'imbarazzo e arrossendo fino alle orecchie.

«Sì, era una brava donna».

«Ma, permettetemi di chiedervelo, dove vi siete compiaciuto di installarvi ora?».

«Non lontano da qui, nella casa di Ko9marov».

«Lo conosco. Un vecchio imponente! Oserei dire che sono quasi un suo sincero amico.
Nobile vecchiaia!».
A Jaroslàv Il'ìè quasi tremavano le labbra per la tenerezza. Chiese un altro bicchierino di vodka e una pipa.

«Affittate direttamente?».

«No, sto presso un inquilino».

«Chi è? Forse lo conosco».

«Sto da Murin, un borghese; un vecchio alto ... ».

«Murin, Murin; sì, perdonate, è nel cortile posteriore, sopra il fabbricante di bare?»,

«Sì, sì, nell'ultimo cortile».

«Mm.... e ci state tranquillo?».

«Sì, mi sono appena trasferito».

«Mm... volevo dire soltanto, mm... del resto... Ma voi non avete notato nulla di strano?».

«Veramente ... ».

«Cioè, sono convinto che da lui vi troverete bene, se vi accontenterete della stanza... non ho niente da dire, lo premetto; ma, conoscendo il vostro carattere... Che impressione vi ha fatto quel vecchio borghese?».

«A quel che sembra è molto malato».

«Sì, è molto sofferente... Ma voi non avete notato nulla di particolare? Avete parlato con lui?».

«Assai poco; è così poco socievole e bilioso ... ».

«Mm ... ». Jaroslàv Il'ìè rimase un po' soprappensiero.

«È un uomo disgraziato!», disse dopo un breve silenzio.

«Lui?».

«Sì, è un uomo disgraziato e, nello stesso tempo, incredibilmente strano e interessante. Del resto, se non vi dà fastidio... Scusatemi se ho portato il discorso su questo argomento, ma ero incuriosito ... ».

«E, a dire il vero, avete stuzzicato anche la mia curiosità... M piacerebbe molto sapere chi è.
Tanto più che abito in casa sua ... ».

«Vedete, dicono che quell'uomo prima fosse molto ricco. Commerciava, come probabilmente avete sentito dire. Per varie disgraziate circostanze è diventato povero; una tempesta gli ha distrutto diverse chiatte cariche di merce. La fabbrica, a dirigere la quale aveva messo un suo stretto e caro parente, ha fatto anch'essa una fine disgraziata: è bruciata e nell'incendio è perito anche quel suo parente. Una perdita terribile, convenitene! Allora Murin, si racconta, è caduto in un terribile sconforto; si cominciò a temere per la sua ragione e, in effetti, durante una lite con un altro mercante, anch'egli proprietario di chiatte che navigano sul Volga, d'improvviso egli si manifestò sotto un aspetto così strano e inaspettato che tutto quel che accadde fu attribuito a uno stato di grave alienazione, il che sono propenso a credere anch'io. Ho sentito raccontare particolareggiatamente di talune sue stranezze; infine, improvvisamente gli è successo un caso assai strano, fatale, per così dire, che non si può spiegare altrimenti che con l'intervento ostile del destino adirato».

«Quale?», domandò Ordynov.

«Si dice che in un accesso morboso di pazzia abbia attentato alla vita di un giovane mercante che prima amava straordinariamente. Ed era così sbalordito quando si riebbe dall'accesso che avrebbe voluto togliersi la vita: così, per lo meno, si racconta. Non so di preciso cosa accadesse dopo di ciò, ma risulta che è stato diversi anni sotto penitenza... Ma cosa avete, Vasìlij Michàjloviè, non vi annoia, per caso, il mio semplice racconto?».

«Oh, no, per l'amor di Dio... Voi dite che è stato sotto penitenza; ma egli non è solo».

«Non lo so. Si dice che fosse solo. Per lo meno nessun altro era implicato in questa faccenda. Ma, del resto, non ho sentito dire nulla di quello che è successo in seguito, so soltanto ...
».

«Che cosa?».


«So soltanto... cioè io, veramente, non avevo in mente di aggiungere nient'altro... voglio dire soltanto che, se voi troverete in lui qualcosa di inconsueto e che esce fuori dalla norma usuale, ciò non è altro che la conseguenza delle disgrazie che sono piombate su di lui una dopo l'altra ... ».

«Sì, egli è così devoto, un vero baciapile».

«Non credo, Vasilij Michàjloviè; egli ha sofferto tanto... credo che il suo cuore sia puro».

«Ma ora - non è vero? - non è più pazzo; è sano di mente».

«Oh, no, no; questo ve lo posso garantire, sono pronto a giurarlo; egli è nel pieno possesso delle sue facoltà mentali. Soltanto, come avete giustamente osservato di passaggio, è oltremodo strano e  devoto. È una persona perfino molto saggia. Parla con disinvoltura, audacemente e assai ingegnosamente. Sulla sua faccia si scorge ancora la traccia della sua burrascosa vita passata. Sì, è un uomo interessante e che ha letto moltissimo».

«Sembra che legga unicamente libri di religione».

«Sì, è un mistico».

«Che cosa?».

«È un mistico. Ma questo ve lo confido in segreto. E in segreto vi dirò anche che un tempo è stato sottoposto a stretta sorveglianza. Quell'uomo esercitava un'influenza spaventosa su chi si recava da lui».

«E quale?».

«Ma voi non ci crederete; vedete: allora egli non abitava ancora nel nostro quartiere; Aleksàndr Ignàt'iè, cittadino onorario, alto dignitario e persona che gode del rispetto di tutti, si recò da lui per curiosità assieme  a un certo tenente. Arrivano da lui, vengono ricevuti e quell'uomo strano comincia a scrutare le loro facce. È così di solito che faceva, quando acconsentiva a occuparsi di qualcuno; in caso contrario rimandava indietro la gente che si recava da lui e in maniera persino assai irriguardosa, si dice. Poi domanda loro: che cosa desiderate, signori? Così e così, risponde Aleksàndr Igriàt'iè: il dono che possedete ve lo può dire senza che ve lo diciamo noi.
Favorite con me, dice lui, nell'altra stanza; qui egli  indicò chi di loro due precisamente aveva bisogno di lui. Aleksàndr Ignàt'iè non mi ha raccontato che cosa succedesse dopo, ma egli uscì di lì pallido come un cencio. La stessa cosa è accaduta a una nobildonna dell'alta società: anche lei uscì di lì pallida come un cencio, in lacrime e stupefatta per le sue profezie e per la sua eloquenza».

«Strano. Ma adesso non si occupa più di queste cose?».

«Gli è stato severissimamente vietato. Si sono verificati dei casi straordinari. Una giovane cornetta, fiore e speranza di una famiglia altolocata, guardandolo si mise a ridere. "Di che cosa ridi?", gli chiese irritato il vecchio. "Tra tre giorni ecco come sarai!", e incrociò le braccia a indicare la posizione del cadavere».

«E allora?».

«Non oso crederlo, ma si dice che la profezia si avverasse. Egli possiede un dono particolare, Vasilij Michàjloviè... Voi avete avuto la bontà di sorridere alla mia narrazione fatta con semplicità. So che voi siete tanto più avanti di me quanto all'istruzione; ma io gli credo: non  è un ciarlatano. Pu9kin stesso parla di qualcosa di questo genere nelle sue opere».

«Mm. Non voglio contraddirvi. Mi pare che abbiate detto che non vive da solo».

«Non lo so... mi sembra che abiti con lui sua figlia».

«Sua figlia?».

«Sì, oppure, forse, sua moglie; so che una donna vive con lui. L'ho vista di sfuggita e non ci ho fatto caso».

«Mm. Strano ... ».

Il giovane si sprofondò nei suoi pensieri, Jaroslàv in tenera contemplazione. Era commosso sia perché aveva incontrato un vecchio amico, sia perché gli aveva raccontato in maniera soddisfacente una cosa molto interessante. Egli sedeva senza staccare lo sguardo da Vasìlij Michàjloviè e aspirava dalla pipa; ma all'improvviso balzò su e cominciò ad agitarsi.

«È passata un'ora intera e io mi sono dimenticato! Caro Vasìlij Michàjloviè, ringrazio un'altra volta il destino di aver fatto sì che ci incontrassimo, ma debbo andare. Mi permetterete di venirvi a far visita nella vostra studiosa dimora?».

«Fatemi questo favore, ne sarò assai contento. Verrò io stesso a trovarvi, non appena ne avrò il tempo».

«Debbo credere a questa piacevole notizia? Ne sarò obbligato, ne sarò immensamente obbligato! Voi non potete credere quale esultanza mi avete procurato!».

Uscirono dalla trattoria. Sergeev stava già volando loro incontro e riferiva in gran fretta a Jaroslàv Il'ìè che Vil'm Emel'jànoviè si degnava di arrivare. Ed effettivamente sulla prospettiva apparvero due focosi bai attaccati a un veloce calesse. Particolarmente notevole era lo straordinario cavallo di rinforzo. Jaroslàv Il'ìè strinse come in una morsa la mano del suo migliore amico, portò la mano al cappello, e si slanciò incontro al calesse che stava volando verso di loro. Lungo il cammino egli si voltò indietro un paio di volte facendo con la testa un cenno di saluto a Ordynov.

Ordynov sentiva una tale stanchezza, una tale spossatezza in tutte le membra, che riusciva a stento a trascinare le gambe. In qualche modo riuscì ad arrivare a casa. Sul portone si imbattè di nuovo nel custode che aveva diligentemente osservato tutto il suo commiato da Jaroslàv Il'ìè e che, ancora da lontano, gli aveva fatto un cenno di invito. Ma il giovane gli passò davanti senza fermarsi.
Sulla porta dell'appartamento si scontrò violentemente contro una piccola figura canuta, che usciva a testa bassa dalla casa di Murin.

«Signore, perdona i miei peccati!», sussurrò la piccola figura rimbalzando da un lato con l'elasticità di un turacciolo.

«Vi ho fatto male?».

«No, vi ringrazio umilissimamente per il riguardo... Oh, Signore, Signore!».

Il mite omino ansimando, sospirando e mormorando qualcosa di edificante fra sé e sé, scese cautamente per le scale. Era il proprietario della casa, del quale si era tanto spaventato il custode.
Soltanto ora Ordynov si rammentò che lo aveva visto per la prima volta proprio lì, in casa di Murin, il giorno che si era trasferito nell'appartamento.

Egli sentiva di essere irritato e scosso; sapeva che la sua fantasia e la sua sensibilità erano tese fino all'estremo limite e decise di non fidarsi di se stesso. A poco a poco cadde in una specie di torpore. Un sentimento penoso, opprimente gli serrò il petto. Il cuore gli doleva, come se fosse stato tutto piagato e tutta la sua anima era gonfia di sorde, inesauribili lacrime.

Si gettò di nuovo sul letto che lei gli aveva preparato e si mise di nuovo ad ascoltare. Sentiva due respiri: uno pesante, malato, discontinuo, un altro lieve, ma ineguale e anch'esso come agitato, come se di là battessero due cuori animati dallo stesso desiderio, dalla stessa passione. A tratti udiva il fruscio del suo vestito, il calpestio leggero dei suoi leggeri, morbidi passi e persino il rumore dei suoi piedi echeggiava nel suo cuore come un dolore sordo e tormentosamente voluttuoso. Infine gli parve di sentire i suoi singhiozzi, un tumultuoso sospirare e, finalmente, di nuovo la sua preghiera.
Sapeva che era inginocchiata davanti all'icona, e si torceva le mani in preda a una sorta di frenetica disperazione... Ma chi era dunque? Per chi pregava? Quale passione senza speranza turbava il suo cuore? Perché soffriva tanto ed era angosciata e si effondeva in lacrime così ardenti e disperate?...

Cominciò a passare in rassegna nella mente le sue parole.

Tutto quello che lei gli aveva detto risuonava ancora nelle sue orecchie come una musica e il suo cuore rispondeva con un tonfo sordo e pesante a ogni ricordo, a ogni parola di lei devotamente ripetuta... Per un attimo gli balenò nella mente il dubbio che fosse stato tutto un sogno. Ma nel medesimo istante tutto il suo essere spasimò in preda a una struggente angoscia quando la sensazione del suo ardente respiro, delle sue parole, del suo bacio si impresse nuovamente nella sua immaginazione. Egli chiuse gli occhi e si assopì. Da qualche parte un orologio batté le ore; si faceva tardi; calava il crepuscolo.

D'un tratto gli parve che lei di nuovo si chinasse su di lui, che lo guardasse negli occhi con i suoi occhi meravigliosamente chiari, umidi di scintillanti lacrime di placida, luminosa gioia, quieti e chiari come l'immensa volta turchina del cielo in un meriggio caldo. Di una così solenne calma 37
splendeva il suo volto, da una tale promessa di infinita beatitudine era riscaldato il suo sorriso, con tale affetto, con tale infantile trasporto gli si abbandonò sulla spalla, che un gemito proruppe dal suo petto sopraffatto dalla gioia. Ella voleva dirgli qualcosa; gli confidava teneramente qualcosa. Di nuovo una musica che trafiggeva il cuore si impresse nel suo orecchio. Egli aspirava avidamente l'aria riscaldata, elettrizzata dal respiro di lei. Sopraffatto dalla nostalgia egli stese le braccia, sospirò, aprì gli occhi... Ella era lì davanti a lui, china sopra il suo viso, tutta pallida come se avesse paura, tutta in lacrime, tutta tremante per l'emozione. Ella gli diceva qualcosa, lo supplicava, stringendo al petto e torcendo le braccia seminude. Egli la avvinse tra le proprie braccia e la strinse tutta palpitante sul suo