IL SINDACATO TRA CRISI E RINNOVAMENTO
Paolo Bolzani
21 giugno 1982
Estratto da CLASSE.
Rivista di analisi e critica della società. Edizione Dedalo
(21 giugno 1982) Vi possono essere diversi punti da cui partire per affrontare la natura e l'ampiezza dei problemi che si trova ad affrontare il sindacato in questi ultimi anni. Da una parte vi è chi è ansioso nel trovare í segni di un rapido tramonto di questo movimento sindacale, per quello che ha saputo costruire negli anni sessanta e settanta come esperienza profonda e significativa per la storia del movimernto operaio non solo italiano. Dall'altra si trova chi invece desidera cogliere nelle recenti difficoltà ed incertezze del movimento sindacale una riconferma del «tradimento» sempre latente degli ideali «puri» della trasformazione rivoluzionaria. In realtà non solo è difficile ridurre a queste forzature di interpretazione politica la storia recente, ma anche, in entrambi le tendenze, si disconoscono le capacità di rinnovamento che emergono proprio dalla riflessione e travaglio nella crisi che attraversa non solo il sindacato ma in generale le organizzazioni del movimento operaio.
Per questo occorre partire dall'interno di questa esperienza politica, per comprendere i significati, le difficoltà e i limiti che emergono di fronte a fattori di profonda trasformazione dell'economia e della società. La «qualità strategica» della proposta sindacale dimostra, cioè, di subire colpi da una crisi che ha modificato non solo l'assetto economico del paese, ma anche la composizione sociale, in termini di collocazioni, bisogni, atteggiamenti di ampi settori del lavoro.
Occorre però valutare la valenza politica di molte «autocritiche», a partire da quella che dichiara la fine della «centralità operaia» e la necessità di modificare il tipo di conflittualità, fino ad arrivare ad affermare che la conflittualità è il nemico da battere perché contro la democrazia economica e politica.
Così pure occorre vedere cosa significano alcune posizioni che vedono il padronato schierato su obiettivi di restaurazione «stile anni cinquanta», da cui fanno discendere una scelta politica difensiva degli spazi di democrazia, rimandando a «tempi migliori» la ripresa della iniziativa per «spostare in avanti» la condizione dei lavoratori. L'esperienza sindacale degli anni settanta ha dimostrato che questo movimento per quanto avanzato sul piano dei contenuti e della forza che ha saputo esprimere, rispetto ad altre esperienze europee e dellOccidente, non riesce comunque e sempre ad avanzare sul terreno di nuovi spazi di potere nella fabbrica e nella società. Date le caratteristiche delle difficoltà, che certamente vengono aggravate dai limiti della capacità politica del sindacato ad affrontare le situazioní nuove della crisi, si cercherà di vedere che non è possibile affrontare il rinnovamento attraverso il puro recupero della democrazia sindacale e il ritorno agli stessi obiettivi di lotta. E in atto uno scollamento innanzitutto verso le condizioni oggettive create dalla crisi che hanno modificato struttura sociale e condizioni economiche creando schieramenti sociali secondo dinamiche non riconducibili alle semplificazioni della tradizione del «marxismo» , così come è stato vissuto da gran parte delle avanguardie delle lotte degli anni settanta.
Così pure il dibattito sulla «istituzionalizzazione» del sindacato se diventa richiamo al «contrattualismo» come ritorno al «mestiere del sindacato», richiede un chiarimento sul significato dei processi di ristrutturazione che hanno riorganizzato a tal punto l'impresa, da creare problemi dal punto di vista della individuazione della «controparte», e della costruzione di schieramenti sociali che sostengono il conflitto nei termini in cui si era abituato il mnovimento uscito dalle lotte dei primi anni settanta. Occorre vedere se è sufficiente la critica, dichiarandosi fuori e denunciando la sensibilità dei gruppi dirigenti rispetto alla esigenza di far divenire i lavoratori protagonisti della scelta del sindacato.
Porsi questa domanda diventa necessario perché il riconoscere che esistono ancora margini reali ed una spinta oggettiva per una strategia della sinistra e dei sindacati non significa dare per scontati gli sbocchí, perché non basta nemmeno l'esistenza di organizzazioni e di avanguardie coscienti, capacı di anticipare l'elaborazione di obiettivi, di prefigurare gli sbocchi e le tappe intermedie, Occorre (..). ritornare al «punto di partenza», ai contenuti specifici del conflitto...4
Il parallelo con gli anni 1954/56 può essere utile per richiamare un periodo in cui mentre era in atto una profonda trasformazione degli assetti economici e sociali, le organizzazioni del movimento operaio erano rimaste legate ad una diagnosi di «stagnazione» e di immobilismo delle classi dirigenti, pagando prezzi elevati in termini di capacità di costruire una linea politica adeguata che incidesse su quelle trasformazionie e difendesse le condizioni dei lavoratori.
Da questo punto di vista il rischio sembra essere proprio di cogliere in ritardo e solo parzialmente la modificazione del conflitto, a partire dalle contraddizioni per molti aspetti nuove e in continua trasformazione. Esiste infatti una tendenza alla semplificazione della diagnosi della crisi e della ristrutturazione, riducendola ai processi che interessano le grandi imprese e il cosiddetto «triangolo industriale». Ciò deriva da alcune distorsioni di analisi che cercheremo di vedere, nello sviluppo di queste riflessioni. La prima riguarda la questione delle aree «ex-trainanti» del Piemonte, Liguria, Lombardia. Quando si richiama che nel 1981 il cinquanta per cento della cassa integrazione del settore metalmeccanico viene erogato in Piemonte (I40 mila ore nel 1981), non si sottolinea a sufficienza che ciò è correlato ai risultati della vertenza FIAT della fine '8o; l'azienda riesce ad affermare la propria posizione di aumentare la produttività a parità di produzione mettendo fuori quasi settantamila lavoratori (43 mila «dimissioni» e 24 mila cassa integrati). Non è però pienamente accettabile una diagnosi che generalizza: «L'Italia, in questa fase, si presenta dunque sulla scena internazionale come un paese esposto ad un degrado complessivo del ruolo dell'attività industriale».
La diagnosi del «degrado generale» porta il sindacato, fra l'altro, a dare sempre più peso alla contro-parte Governo, invece che a quella delle classi dirigenti delle imprese: questo ci sembra uno dei fattori importanti dell'arretramento nelle realtà di lavoro. II metodo delle «trattatíve triangolari» (Governo-imprese-sindacato) dimostra i propri limiti in almeno due direzioni: (a) l'instabilità politica si ribalta suí rísultati, coinvolgendo il sindacato nelle inadempienze vistose della «controparte» politica (vedi caso della FIAT, dove il «piano auto» doveva sostenere il settore e l'occupazione, la cui operatività continua ad essere rimandata); (b) si tende a rinunciare, da una.parte, a costruire piattaforme che risultino da analisi concrete circa le capacità dei lavoratori della specifica azienda o settore di affrontare e vincere il confronto; si manifestano, dall'altra, limiti culturali del sindacato quando si tratta di individuare contenuti concreti che si oppongano alle politiche aziendali di tipo recessivo che mettono in discussione parti importanti di base produttiva e di occupazione.
Il superamento della linea difensiva si collega a due problemi che rimangono ancora irrisolti nell'esperienza sindacale: (a concretezza di intervento sulla politica industriale delle imprese dove si sta giocando la credibilità del movimento sindacale, non solo nei settori specifici di classe operaia, ma per l'intero movimento; (b) riunificazione della forza lavoro, agganciando strati di lavoratorí che sono sostanzialmente esterni al movimento sindacale cosi come sí è configurato negli anni settanta, ma che sono determinanti per un rafforzamento del blocco sociale che difenda i redditi e il lavoro.
Si cercherà nella sostanza di vedere come si manifesti una esigenza di rinnovamento profondo di politica rivendicativa, proprio a partire dalla impresa in questa fase di accentuata e accelerata trasformazione. La ristrutturazione avviene infatti attraverso una «rivoluzione», anche tecnologica oltre che organizzativa, non sempre evidente, ma per questo non meno radicale. Le innovazioni riguardano, comne vedremo sia i processi di lavoro, la composizione sociale, i prodotti, la gestíone dell'impresa. Si sta assistendo a fenomeni di accentramento (nel controllo strategico ), e, al tempo stesso, di decentramento delle struttrure produttive, con maggiori spazi di autonomia nella gestione dei processi produttivi.
E una rivoluzione forse più profonda di quella introdotta dal taylorismo e dal fordismo. Il controllo della nuova organizzazione del lavoro non può basarsi sulla rigidità ma sulla contrattazione di nuove flessibilità organizzative. Questa nuova contrattualità è a sua volta l'unica che può rispondere ai mutamenti culturali delle nuove masse giovanili e femminili entrate nel mondo del lavoro o che tentano di entrarci. l0
Ed è proprio da questa «rivoluzione» che occorre ripartire per comprendere la realtà e cogliere quei fattori di distacco che maggiormente pesano nell'attuale fase dellesperienza sindacale.
Alcuni aspetti di trasformazione del conflitto
La crisi economica e sociale mette in discussione quella capacità di egemonia che il settore torte della classe operaia aveva espresso nella fase di sviluppo delle lotte, e che ha reso realizzabile un importante avanzamento democratico in tutti i settori della società.
Questo risulta con particolare evidenza dalle difficoltà del movimento síndacale a partire proprio da quelle grandi fabbriche.che hanno segnato l'avvio della «onda alta» del conflitto. Ciò avviene all'interno di un cambiamento del quadro internazionale che, espansivo nel dopoguerra fino agli anni sessanta, sviluppa contraddizioni tali da mettere in discussione quel modo di espansione (prodotti e modi di produrre) e il tipo di distribuzione a livello mondiale (squilibri fra mondo sviluppato e non). Meccanismi fondamentali di quello sviluppo - ora altrettanti «fattori di crisi» – sono stati: la crescita di grandi imprese centrate su produzioní prevalenti di «beni di consumo di massa», orientamento delle tecnologie delle strutture produttive al raggiungimento delle «economie di scala» con relativa indifferenza alla intensità di consumo energetico, organizzazione del lavoro basata sulla frantumazione del processo lavorativo, con relativo sviluppo dell'operaio massa. II consolidarsi di un settore forte della classe operaia legato ai settori forti e trainanti di quello sviluppo è stata la base oggettiva su cui si è innestata una crescita di capacità di intervento nella fabbrica prima e poi nell'intero corpo šociale, con uno spostamento rilevante dei rapportí di forza nella società. Il livello di soggettività di questo settore della classe operaia è stato talmente grande da determinare «di per sé» un fronte di alleanze con vasti settori esterni alla «grande fabbrica» da dove si era allargato.
La capacità di far politica del sindacato degli anni settanta deriva proprio da questo: l'essere stato, cioè, l'organizzazione del lavoratore «non qualificato» risultato di una scelta di organizzazione del lavoro e di struttura dimpresa che esaltava la centralità di questo lavoro, e della cui debolezza politica l'impresa faceva la propria forza di espansione e di dominio. La scelta di rappresentanza politica è stata quindi nella direzione di quei settori della classe operaia che più avevano subito la riorganizzazione del dopoguerra. La questione, quindi, non ci sembra tanto quella di sottolineare gli «errori» di quella scelta, come da più parti (anche nella sinistra e nel sindacato) si tende a fare: la crescita politica di questi strati ha portato ad un profondo rinnovamento del sindacato, e ai riflessi profondi nella struttura democratica della società. Il problema si pone invece come capacità dello schieramento sociale che si è costituito intorno a questo sindacato, a reggere la nuova fase di confronto determinata dai processi della crisi. Le difficoltà del movimento sindacale nelle grandi fabbriche hanno un punto di unificazione rilevante: il livello di risposta ai problemi posti dalla crisi internazionale e interna - sulla base di valori, metodi ed obiettivi sedimentati negli ultimi dieci anni non è adeguato al tipo di conflitto attuale, e puo determinarsi una pericolosa divaricazione del blocco sociale che aveva, intorno alla classe operaia, sostenuto e diffuso ad altri settori l'avanzamento democratico di questi anni. Questo non significa dichiarare la fine della «centralità operativa>, ma sottolineare quello che è patrimonio esteso del movimento operaio: la necessità di affermare l'egemonia non più basata sulla conservazione dei valori, se e vi è divaricazione dalla realtà in trasformazione.
Il sindacato era capace di aggregare la domanda di base e di fornire identità collettiva, perché aveva scelto di rappresentare la più dinamica fra le forze di trasformazione, appunto quello che di li a poco sarebbe stato chiamato "massa" e che per convenzione veniva considerato un operaio metalmeccanico.
L'«operaio massa» si presenta come nucleo «forte» della classe operaia che, partendo dai propri particolari interessi, lotta per ottenere uno spostamento dei rapporti di torza a proprio favore aggrega aree sociali diverse sui suoi stessi obiettivi. Questa rivencazione degli interessi»> e della rivendicazione tende però a nascondere la realtà concreta della composizione di classe e la sua trasformazione.
I processi di ristrutturazione comportano una frammentazione della classe operaia, la sua dispersione nel territorio, la continua messa in discussione della stabilità occupazionale, con relativo problema della mobilità e degli strati «non garantiti». Si pone quindi il problema della ricomposizione, non solo nella fabbrica, tenuto conto delle diverse collocazioni nel processo produttivo e dei relativi meccanismi di trasformazione tecnica e di controllo sociale, ma nel territorio fra zone geografiche, fra settori produttivi, fra grandi e piccole imprese, ecc. Da questo deriva un aspetto importante di crisi del movimento sindacale e della sua organizzazione.
I consigli di fabbrica sono in crisi non in quanto controllano soltanto la sfera della produzione, ma perché in maniera sempre più diffusa non la controllano piu. (corsivo nel testo)12
Porre il problema dei nuovi livelli di controllo richiede una dilatazione del concetto di fabbrica per acquisire la complessità del suo funzionamento e i riflessi sulla composizione di classe. La divaricazione degli interessi interni alla fabbrica e fra interno ed esterno, la difficoltà di incidere sui processi di trasformazione diventa il primo terreno di crisi prima ancora della fuga dalla fabbrica verso la «istituzionalizzazione» del sindacato.
Diventa fondamentale la ricomposizione politica, prima che rivendícatíva, intorno ad obiettivi che non possono essere semplice «somma di domande» separate e disperse che nascono dalla disgregazione del mercato del lavoro e dalla crescente complessità della fabbrica e della impresa. Crescono i problemi di dislocazioni sociali di vasti settori di lavoratori in posizioni fra loro contraddittorie, che determinano nuovi conflitti: fra occupati e disoccupati, fra occupazione protetta e precaria, fra aree geografiche con intensità differenziata di sviluppo e possibilità diverse di difesa dai meccanismi della crisi, ecc.
Non ci sembra condivisibile l'affermazione di chi sostiene che l'aver difeso l'interesse dell'operaio-massa sia andato contro linteresse di altri settori della forza lavoro; piuttosto si è manifestata una capacità di individuare e difendere interessi diversi non antagonisti. 4.mentre vigilava contro la reazione di interessi contrapposti, il sindacato veniva sorpreso da quella degli interessi collaterali, di chi stava un po' sopra e.un po' sotto lo strato portante»
Non si è, cioè, assunta la complessità dell'impresa, rimanendo ancorati alla semplificazione «fabbrichistica» della realtà produttiva, che annulla l'articolazione della composizione sociale che diversifica gli interessi. Si assiste ad una sorta di «trade-unionismo di operaí dequalificati» , che individua come antagonistici gli interessi «diversi» dei lavoratori collocati in modo articolato nella organizzazione dell'impresa.
Questo significa partire dalla considerazione di due ordini di trasformazioni: (a) dell'impresa come organizzazione produttiva che affronta il cambiamento nei rapporti sociali ed economici modificando il proprio modo di funzionamento e di struttura, (b) del territorio come «geografia» dello sviluppo indotto dai fattori precedenti e dalle dinamiche della divisione del lavoro interna ed internazionale.
Instabilità economica e trasformazione d'impresa
Finita la fase espansiva dell'economia, la crisi delle imprese ha fatto emergere con maggior forza, cosi come negli anni trenta, la necessità di riorganizzare dalle fondamenta il modo di funzionare della impresa. Le tecniche gestionali, i metodi direzionali, tutto ciò che va sotto il nome di «meccanismi operativi», vengono rivisti, messi sotto accusa in relazione al salto che viene ricercato sia in termini di efficienza che di efficacia di azione dell'azienda.
Fattori essenziali di questi cambiamenti sono le trasformazioni generali dell'ambiente. costi crescenti e, nel lungo periodo, scarsità di energia e materie prime; cambiamenti nella divisione internazionale del lavoro e crescente competitività tra le diverse aree economiche sviluppate e con paesi emergenti da un punto di vista industriale;
- modificazione di valori individuali e sociali che mettono in discussione il tipo di «progresso» basato sull'aumento dei beni di «consumo individuale» di massa;
- nuove possibilità tecnologiche e produttive indotte dall'avanzamento tecnico scientifico.
Tutti questi fattori rappresentano i problemi con cui si confrontano le risorse produttive ancorate ad un modo di sviluppo che ha dimostrato contraddizioni non facilmente superabili percorrendo vecchie strade. La rapidità di mutamento, la numerosità e complessità delle variabili che incidono sul mutamento, stanno rendendo obsoleti ed incapaci ad affrontare la realtà principi e sistemi organizzativi basati sull'accentramento decisionale e sulla scarsa flessibilità operativa. Si sta assistendo ad esempio ad un processo contrario a quello avvenuto all'inizio del secolo con la nascita della grande impresa fondata su: (a) internalizzazione di attività tradizionalmente svolte all'esterno, come la commercializzazione, la ricerca e progettazione, ecc.; (b) aumento delle dimensioni di scala, per poter introdurre razionalizzazioni, standardizzazione produttiva, meccanizzazione con tecnologie pesanti non convenienti su produzioni di piccola scala.
Le trasformazionie l'instabilità economica e sociale si riproducono come fattori di crisi dell'impresa; e da questa crisi dialetticamente derivano fattori di instabilità economica e sociale, fra i quali il maggiore è l'incapacità del sistema a fornire livelli sufficienti di occupazione.
Si assiste quindi a una situazione di difficile «governabilità» delle imprese, che si combina a quella generale. Le grandi imprese negli ultimi dieci anni hanno visto restringersi gli spazi di sopravvivenza e sviluppo in molti settori produttivi. Ai rapidi cambiamenti degli sbocchi di mercato, alle oscillazioni congiunturali, al declino produttivo nei beni tradizionali trainanti nella fase precedente, la capacità della grande impresa di rispondere è derivata dal cambiamento nel modo di operare, nella flessibilizzazione dei fattori.
«In questo decennio si è avviato e sviluppato un processo di ristrutturazione della grande impresa, che ha teso a sostituire all'antico valore centrale della stabilità nel funzionamento quello di una nuova capacità di adattamento»16
Questo problema non riguarda solo la grande impresa, perché anche la piccola dimensione se, da una parte, permette una maggior flessibilità operativa e di adattamento, dall'altra, mostra carenze di organizzazione e di strumenti tecnico-produttivi-commerciali che permettano di affrontare l'accelerato progresso tecnologico, la dimensione internazionale dei mercati, ai livelli di efficienza raggiunti dagli altri sistemí industriali.
In questa situazione il concetto stesso di struttura organizzativa.e i relativi flussi operativi sono in via di ridefinizione. Diventa sempre più critico il processo di programmazione che non può essere risultato di anticipazioni in termini causali o deduttivi del futuro sulla base del passato (come sarebbe possibile in una situazione stabile o a lento cambiamento). La reazione del sistema organizzativo ai cambiamenti dell'ambiente, deve essere pianificata quanto più l'organizzazione è complessa, e diverse sono le variabili su cui agire (tecnologie e strutture produttive, sviluppo dell'attività commerciale, predisposizione di mezzi finanziari per affrontare situazioni nuove e per sfruttare le opportunità, ecc.). Predisporre le condizioni future per sopravvivere e sviluppare, che è l'essenza della pianificazione strategica, richiede una gestione dell'organizzazione in funzione non solo dell'esistente ma anche sulle dinamiche prospettiche su cui si fonda la strategia. La capacità di direzione dell'impresa è quindi anche questa capacità di far fronte al cambiamento: la produzione, la finanza, gli acquisti, la gestione del personale, la ricerca e sviluppo la struttura e politica commerciale, sono tutti settori dell'organízzazione che stanno avendo profondi cambiamenti di politiche, modi di operare, uomini che gestiscono.
Dieci anni fa il clima sociale e culturale in tutto l'Occidente (..) era dominato ]dalla contestazione della grande impresa e la sua crisi si delincava come percepibile realtà.
Insieme sembravano sommarsi una crisi di legittimità e una crisi di operatività. Dieci anni dopo assistiamo allo sviluppo di una cultura «liberalista» che ottiene il progressivo svincolo da «lacci e lacciuoli», da parte di una grande impresa (sempre multinazionale e multidivisionale) che si dimostra protagonista di grandi scontri che sono in corso intorno al controllo della innovazione e del mercato e intorno alla nuova divisione internazionale del lavoro. La grande impresa 17 che riemerge è diversa, è, in parte, «riformata» Questa dinamica dell'organizzazione non si sta traducendo in nuove teorie o dottrine, come avvenuto per la fase precedente (fordismo, taylorismo, ecc.), in quanto non è individuabile una «ricetta» organizzativa, e, se anche fosse individuabile, difficilmente può essere consíderata in modo statico; si afferma piuttosto un «metodo» di intervento sulla variabile organizzativa che ha come riferimento le dinamiche di cambiamento e la strategia d'impresa per affrontarle.
I profondi mutamenti nei processi industriali hanno creato una realtà in movimento difficilmente comprensibile con una visione che parta semplicemente dalla cultura operaia del «gruppo omogeneo». La risposta a due sollecitazioni, da una parte la contestazione operaia e dall'altra la difficoltà dell'economia in generale (ridotti tassi di crescita, modifiche delle domande sociali, ecc.), avviene interintervo non solo sulla microrganizzazione (mansioni, classificazioni, qualifiche ecc.) ma anche e soprattutto sulla riprogettazione della macro-organizzazione: Da questo punto di vista esiste un terreno di analisi del cambiamento del conflitto proprio a partire da come si muovono le imprese e quali risposte sono possibili non operando su terreni diversi ma sullo stesso piano. Alcuni riferimenti a problemi concreti di cambiamento organizzativo sembrano particolarmente importanti.
Molte tendenze sembrano confermare l'orientamento della messa in discussione della organizzazione cosiddetta «funzionale» tradízionale. Secondo tale organizzazione, un settore è specializzato nella produzione, un altro nella amministrazione, un terzo nelle vendite, ecc. In aggiunta a questi settori (di «linea»), vi sono uffici di servizio e di controllo ecc. (di «staff» ), come la programmazione della produzione, il controllo della qualità, studi organizzativi, ecc. Con lo sviluppo della grande impresa le unità di «staff» si allargano e acquisiscono un ruolo sempre maggiore secondo una logica di controllo centralizzato del potere decisionale. Due ordini di cambiamento rispetto a questo modello si stanno manifestando: in primo luogo a livello di alta direzione, con la creazione di «centri dí profitto», «divisionalizzazioni», organizzazione per settori produttivi; in secondo luogo l'intervento opera a livello dei reparti di produzione.
Si formano «aziende nell'azienda» complete ed integrate, costituite da reparti-prodotto autosufficienti da un punto di vista organizzativo e tecnico per le attività operative e di programmazione. Diminuisce il peso delle unità di servizio e controllo centrali che si occupavano anche delle attività di routine: programmazione della produzione, studio dei tempi, controllo delle qualità, ecc.
Questi settori di «staff» hanno avuto il massimo sviluppo in questo dopoguerra e hanno rappresentato una delle ragioni dellespansione impiegatizia e tecnica. A questa espansione si è accompagnato anche una riduzione di ruolo nelle linee operative, attraverso una espropriazione di responsabilità e autonomia. Nei reparti, di produzione o commerciali, sempre meno si tendeva ad avere spazio decisionale sul come operare (metodi, tempi, obiettivi) in quanto erano gli uffici studi e programmazione a dettare le condizioni di lavoro.
Negli ultimi anni le condizioni in cui si sono trovate ad operare le aziende hanno reso drammatiche una serie di variabili sottovalutate nella precedente fase espansiva: risparmio risorse, variabilità del mercato e quindi necessità di flessibilità e rapidità di cambiamento, accresciuta competività in un mercato che non si espande ai ritmi del passato, modi di consumo e di utilizzazione dei beni e servizi in rapida trasformazione, ecc. La risposta organizzativa tende cioè a creare nelle grandi e medie aziende dei livelli di responsabilità più gestibili e controllabili in funzione dei risultati in una situazione dove la rapidità ed efficacia di risposta tende a valere di più della dimensione.
Si ha innanzitutto una rottura della classica divisione della azienda
in funzioni specialistiche: vengono smantellati e ripartiti nei reparti
operativi i grandi staff, solitamente centralizzati e alle dipendenze
dei massimi livelli in funzioni di controllo e di preparazione delle
decisioni che venivano poi calate nelle «line». Si tende cioè a trasferire
nei reparti di produzione le attività di programmazione della produ-
zione, lo studio dei tempi e metodi, il controllo di qualítà, ecc. I
reparto tende così ad avere il proprio gruppo di tecnici e quindi
aumenta la capacità professionale del reparto oltre che I'autonomia.
Ouesto tipo di ristrutturazione rappresenta peraltro unimportante
opportunità per modificare la qualità del lavoro per ampie aree di
lavoro esecutivo, se questa diffusione delle specializzazioni verso ilI
basso si accompagna con una revisione dei criteri di divisione del
lavoro esecutivo.
L'organizzazione del lavoro basata sulla specializzazione per fun-
zioni, ha dimostrato di creare problemi connessi con le difficoltà
del flusso informativo e con la scarsa flessibilità del sistema produt-
tivo. La specializzazione funzionale (che come abbiamo detto ha
generato gli «staff» separati ed esterni ai reparti operativi) ha portato
alla espropriazione delle competenze ai livelli operativi della fabbri-
cazione, vendita, ecc. L'instabilità del mercato, le accresciute dimen-
sioni aziendali e le interdipendenze dei processi produttivi e la loro
crescente complessità hanno determinato la incertezza dei compiti,
proprio in un tipo di organizzazione che funziona sulla separazione
e quindi sulla certezza delle diverse mansioni.
Incertezza dei compiti significa che diventa necessario prendere
più decisioni ai livelli inferiori in quanto più importante è la impre-
vedibilità dei compiti, e con questa aumenta la difficoltà di decidere
all'esterno delle sub-unità organizzative.
Nel caso dei reparti di produzione questo significa che cresce
la necessità di restituire le competenze ai vari reparti che si occupano
delle diverse fasi di produzione.
Questa riorganizzazione comporta non solo cambiamenti nel senso
di riprogettare le mansioni, ma una revisione della divisione verticale
del lavoro (ruolo dei capi) e dei diversi settori collegati e quindi
della classica divisione fra linee operative e «staff» che gestiscono
la tecnologia di programmazione, tempi metodi, qualità, ecc. Si at-
fermano quindi delle necessità di polivalenza degli operatori sia a
livelli esecutivi che tecnici: questo combina l'allargamento della man-
sione (riduzione della parcellizzazione) con un arricchimento che può
essere nella direzione di combinare la operatività con gradi di responsabilità ed autonomia di intervento sul processo produttivo per ottenere i risultati.
Ad esempio nel caso di una industria di processo come la chimica considerare i reparti di produzione come unità organizzative con
una certa autonomia e quindi responsabili di una sezione di impianto
e del relativo processo, significa modificare l'uso della risorsa lavoro.
Diventa in questo caso difficilmente gestibile una rigida separazione
di compiti a livello orizzontale e verticale, soprattutto se si basa su
una spinta parcellizzazione del lavoro e sulla deresponsabilizzazione
del singolo operatore. Questi fattori di rigidità nell'impiego del fattore
lavoro non permettono di realizzare quel tipo di ristrutturazione.
Nel caso della chimica allora l'operatore dell'impianto può svolgere
contemporaneamente attività di conduzione del processo, controllo
sul mezzo produttivo, intervento di manutenzione ordinaria. In alcune
situazioni si può arrivare anche a una responsabilità del gruppo di
lavoro sulla qualità.
Cambia in questi gruppi di lavoro il ruolo del cap0: questo in
quanto la responsabilità trasferita al gruppo di lavoro includendo
funzioni di controllo e autoregolamentazione ha necessità di gestione
tecnica in funzione dei risultati produttivi, rispetto ai quali il quadro
intermedio gioca un ruolo di risorsa tecnica da utilizzare. Si ritorna,
per certi aspetti alle strutture professionali delle lavorazioni nella
manifattura dove il mestiere era importante (ad esempio sulle mac-
chine operatrici come torni, frese, ecc.) e dove il capo aveva un
ruolo di supervisione professionale assieme al ruolo gerarchico puro.
La richiesta operaia di minor ripetitivitàe nocività del lavoro
può quindi saldarsi direttamente con la trasformazione del lavoro
del capo. Per questo motivo l'intervento sindacale ha un effetto sul
lavoro esecutivo ma anche direttivo intermedio. Il fatto che dal punto
di vista del movimento operaio questo aspetto sia stato in gran
parte trascurato (il capo = potere del padrone) è uno dei fattori
di divaricazione con questa area di forza lavoro, che produce non
pochi danni politici. Allora bisogna vedere se forzare nella direzione
del lavoro di gruppo, invece del lavoro di linea, non significhi anche
portare il capo di squadra o di reparto più a funzioni di coordinamento
operativo all'interno e di collegamento con le altre squadreo reparti
a monte e a valle della lavorazione. Approfondire lelaborazione in
questa direzione significa superare la visione del capo intermedio
come semplice delegato della autorità padronale, e cercare nella sua
collocazíone contraddittoria quei tattori oggettivi e soggettivi di rap-
porto con la classe operaia.
Non è quindi accettabile quel tipo di diagnosi che fa risalire
alla «turbolenza dei sistemi esterni» la tendenza presunta ad un
accentramento decisionale. E vero invece il contrario, nel senso che la crescita di complessità e la minor prevedibilità del futuro.
se, da una parte, ha reso difficoltoso il processo di pianificazione,
dall'altra, proprio per la necessità di ottimizzare il contingente, rende
necessario la responsabilizzazione allargata, in quanto le scelte accen-
trate sono ad elevatissimo rischio e a forte ritardo di risposta al
cambiamento.
Cosi pure non è accettabile la considerazione che vede una minor
autonomia dei diversi sottocicli produttivi che fanno parte di un
processo produttivo (ad esempio gli stabilimenti specializzatí
orizzontalmente o verticalmente di una azienda) perché le ottímizza-
zioni avverrebbero necessariamente ad un livello superiore della sín-
gola unità produttiva. Questo è sicuramente vero per quanto riguarda
le decisioni strategiche sui destini di una certa produzione (se pro-
durre o meno, se produrre in quella fabbrica o comprare il prodotto,
oppure se chiudere quella fabbrica e costruirne una nelle Filippine,
ecc.) ma non è sempre vero in termini di autononia gestionale ed
operativa (come produrre, come intervenire sulla tecnologia, gestione
della qualità dei prodotti, manutenzione degli impianti, ecc.) perché
la tendenza che si manifesta è esattamente contraria a quella richia-
mata di centralizzazione dei servizi 9, per il manifestarsi di tendenze
a decentrare le responsabilità sulla produttività.
Cosi pure il vedere lo sviluppo dei sistemi automatici di elabo-
razione dei dati in funzione dell'obiettivo di controllo centralizzato,
perché eliminerebbero i «margini di incertezza» delle situazioni ope-
rative, sembra semplificare eccessivamente la complessità delle deci-
sioni nelle diverse parti del processo produttivo, che sarebbero «ri-
dotte a semplicità» per la disponibilità di dati di dettaglio in tempo
reale.
Basta considerare da questo punto di vista la riorganizzazione
dei sistemi informativi nelle grandi aziende nella direzione del su-
peramento del «grande centro» di elaborazione, per adottare macchine,
metodi, processi, che permettano un accesso diretto degli utenti al
sistema informativo (ad esempio con l'uso dei terminali) in funzione
delle loro esigenze operative.
Affermare che queste tendenze esistono non significa fare un
discorso di tipo tecnocratico e aziendalistico, se si va a riconsiderare
in che modo le «turbolenze» dell'ambiente e le possibilità offerte
da certe tendenze tecnologiche ed organizzative si combinano ed
entrano in contraddizione con il sistema di potere (quindi la divisione
sociale del lavoro) che fa scelte tecnologiche, organizzative, produttive,
commerciali in direzione di conservazione degli assetti di potere (ga-
rantito da un certo modo di produzione) anche se questo signitica
«avvítarsi» sulla crisi anziché uscirne.
Il sistema «tecnico» e il sistema di «potere» sono protondamente
intrecciati nel determinare gli orientamenti della organizzazione pro-
duttiva. Questo non significa che non siano in: atto dei processi di
96
aggiustamento che mettono in discussione il L modo di produrre do.
minante negli ultimi trent'anni: occorre quindi vederli anche perché
è a partire da una loro comprensione che possiamo vedere i ruolí
dei diversi settori di forza lavoro, e in particolare in che modo
quelli tecnici possono avere un ruolo progressivo in rapporto con
E per questo che il terreno di confronto fondamentale è e rimane
è
il movimento operaio.
la questione della riforma della organizzazione del lavoro, a partire
dalla parcellizzazione e deresponsabilizzazione del lavoro esecutivo.
Occorre trarre le conseguenze in termini di nuovi obiettivi di tra
sformmazione della ODL che sono resi possibili dalle nuove riorga-
nizzazioni come quelle che intervengono in direzione di:
- flessibilizzazioni del processo produttivo (riduzione di dímensioní
di singole unità organizzative, moltiplicazione di centri produttiví,
tecnologie che rendono convenienti scale ridotte di produzione, ecc.);
- nuove concezioni tecnico impiantistiche che rendono possibiliin
terventi che riguardano la divisione del lavoro fino ad arrivare
sistemi produttivi radicalmente diversi in termini tecnico impiantistici
(come ad esempio sono gli interventi di automatizzazione del processo
produttivo).
Lotte operaie, costo del lavoro, situazione e dinamiche dei mercati
sviluppi tecnologici, nocività ambientale, modifiche di cultura e neij
bisogni della società, squilibri internazionali: questi fattori hanno
messo in discussione il modo di organizzare la produzione. GIi in-
terventi micro-organizzativi come la rotazione, oppure T'allargamento
modificarne le caratteristiche
delle mansioni (sommando più fasi senza
di contenuto), ecc. per tar accettare lo stesso tipo di lavoro e la
stessa deresponsabilizzazione, e quindi ottenendo gli stessi meccanismi
di rifiuto, non sono state delle risposte sufficienti. Sembra invece
manifestarsi più pesantemente una tendenza agli interventi macro-or-
ganizzativi che implicano la riprogettazione degli impianti e delle
linee di lavorazione, con investimenti destinati ad introdurre nuove
tecnologie, automazione di fasi di produzione, ecc. Anche per la
pressione operaia le aziende di processo, come la chimica e la side-
rurgia, stanno introducendo nuove forme di lavoro di gruppo, una
crescente integrazione dei servizi (i cosiddetti «staff»), con un doppio
intervento: a) sulla divisione orizzontale del lavoro, che significa una
revisione dei confini fra lavoro operaio e tecnico; b) sulla divisione
verticale del lavoro, con modifiche: del ruolo del capo in senso più
tecnico-professionale e meno direttamente gerarchico, e di maggior
responsabilizzazione del lavoratore a livello esecutivo.
Nelle produzioni manifatturiere di produzioni di serie (auto, elettrodomestici, ecc.) si modificano le tecnologie di produzione attra-
verso anche una modularizzazione di fasi produttive e introduzione
di automazione nelle lavorazioni pesanti e nocive per i lavoratori,
L'intervento attivo della classe operaia sulla modificazione delle tec-
nologie e modi di organizzare la produzione è ancora insufficiente
proprio perché richiede un rapporto politico con gli strati tecnici
disponibili su questo terreno di confronto.
La tecnologia come fattore di sviluppo
La tecnologia è sempre più uno dei fattori critici per il mante-
nimento e lo sviluppo dei livelli produttivi e la difesa della occu-
pazione. Se è vero che la tecnologia significa salti di produttività, è
anche vero che, a meno di assumere posizioni luddistiche, con lo
sviluppo tecnologico Sono acquisibili spazi produttivi nuovi e possi-
bilità di crescita anche occupazionale.
Questo è avvenuto negli anni cinquanta e sessanta quando i
salto tecnologico si è accompagnato ad investimenti espansivi che
hanno permesso un aumento della produttività e della occupazione.
II limite di allora della azione sindacale è stato il ridotto intervento
sui processi di riorganizzazione e quindi la sostanziale libertà delle
imprese nel determinare le condizioni di lavoro e i livelli di intensità
della prestazione lavorativa.
L'attuale situazione è fortemente determinata da un nuovo pro-
cesso di innovazione tecnologica che discrimina la capacità delle di-
verse imprese di collocarsi con spazi maggiori o minori negli assetti
produttivi del paese e nella divisione internazionale del lavoro. La
tecnologia opera una modificazione della composizione tecnica e or-
ganica del capitale in senso crescente, con effetti sulle dinamiche di
accumulazione e sul lavoro (quantità e qualità del lavoro). Il mu-
tamento tecnologico nelle fasi di crisi evidenzia in modo particolar-
mente esplicito il proprio ruolo nevralgico di modificazione delle
e
strutture economiche e sociali. L'aver affermato il «non determinismo
tecnologico» e quindi la dipendenza dello sviluppo tecnologico dai
vincoli e dalle scelte di controllo sociale, non significa per il movi-
mento sindacale aver trovato il modo di incidere nel governo di
a
questi processi.
Il governo del processo tecnologico non rappresenta una questione
residuale; né si puờ relegare alla connessione fra tecnologia e condizioni dí lavoro (professionalità, ecc.).
L'aumento della comnposizione tecnica del capitale nelle fasi espansive del dopoguerra poiché si realizza con un correlato aumento
degli investimenti, ha un ruolo non depressivo della occupazione
complessiva: si registrano spostamenti di occupazione dal settore agricolo a quello industriale e, all'interno di questo, verso i comparti più dinamici (auto ed elettromeccanico, ecc.).
Ouesto è avvenuto con una parallela espansione dei servizi dello «stato sociale»,e quindi anche con un ulteriore assorbimento occupazionale anche nel settore pubblico. Il «modello» , del dopoguerra
fino agli anni settanta, pur basato su un accentuato sviluppo tecnologico, è quindi ad alto assorbimento occupazionale sia per la dinamica espansiva di alcuni settori industriali sia per la massima affermazione
dello «stato assistenziale» in tutti i paesi capitalistici. Per i settori
industriali fattori di sviluppo sono stati sicuramente gli spostamenti di beni di consumo dalle «classi superiori» alle classi medie più recentemente alla classe operaia (auto, elettrodomestici, ecc.). A questo hanno contributo anche l'espansione di settori «moderni» del terziario legati ai beni «posizionali», come i viaggi e le vacanze, che hanno registrato uno spostamento ai livelli delle aree sociali a minore reddito.
Fin dagli ultimi anni sessanta tende a declinare il ritmo di espansione dell'occupazione nell'industria moderna rispetto al periodo precedente. L'industria tradizionale (tessili, alimentari, bevande e tabac-
chi, ecc.) non contribuisce agli aumenti occupazionali nei paesi sviluppati (Nord America ed Europa) con uno spostamento relativo verso paesi a minore industrializzazione. A questo rallentamento nello
sviluppo si accompagna un processo di innovazione tecnica nei processi produttivi, dando un contributo alla crescita della disoccupazione
che interessa non solo lItalia, ma anche i paesi forti dello sviluppo
economico del dopoguerra. Le politiche monetarie deflazionistiche
in tutto lOccidente tendono ad aggravare ulteriormente la situazione
occupazionale. E in questo quadro di basso livello di crescita che
la tecnologia diventa fattore dirompente da un punto di vista sociale,
ma al tempo stesso è da questo aspetto della trasformazione che
OCCorre partire per proporre nuove Vie di uscita dalla crisi, a partire
da politiche che impongano le compatibilità sociali allo sviluppo
tecnologico. In altre parole si può dire che dato l'impatto crescente
della tecnologia in molti settori industriali e la sempre maggior im-
portanza della Ricerca e Sviluppo, nella attività di una impresa, il
processo innovativo (progettazione di prodotti, modificazione degli
impianti e dei processi produttivi) diventa fatore chiave per lo svi-
po della base produttiva e della occupazione. Gran parte del
progresso tecnologico italiano negli anni cinquanta e sessanta è stato
realtà frutto della accumulazione, che incorpora beni capitali nel
sistema produttivo e nel processo di apprendimento della forza lavoro.
Molti di questi beni capitali sono stati importati altri sono stati
prodotti all'interno sulla base della tecnologia estera, su brevetti e