lunedì 19 agosto 2024

LA LENTEZZA Milan Kundera


 LA LENTEZZA

Milan Kundera


Recensione

La lentezza è il primo romanzo che Milan Kundera scrive nella lingua francese. Una trama difficile da raccontare ma che contiene una serie infinita di stimoli che fanno del libro un singolare frammento di grande letteratura.

Intrecci di personaggi e situazioni in cui Kundera, scomodando la lentezza, la velocità, l’oblio e la memoria, scava nell'animo umano proponendoci il ritratto di ue'epoca persa, smarrita, senza alcun punto di riferimento. Attraverso l’interpretazione dell’effimero e dell’edonismo, lo scrittore, associa la lentezza con la memoria e la velocità con l’oblio.

Il tema è proprio la nostalgia della lentezza, che l’uomo oggi ha perso inghiottito da una velocità che tutto fagocita.

Kundera ce lo spiega: «Nella matematica esistenziale questa esperienza assume la forma di due equazioni elementari: il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio».

Preso dal demone della velocità, l'uomo dimentica facilmente se stesso, anche se il desiderio di dimenticare è un’ossessione alla quale allo stesso tempo è piacevole abbandonarsi.

LA LENTEZZA 

1

Ci è venuta voglia di passare la serata e la notte in un castello. In Francia molti sono stati trasformati in alberghi: un fazzoletto di verde sperduto in una distesa di squallore senza verde; un quadratino di viali, alberi, uccelli al centro di un’immensa rete di strade. Sono al volante e osservo nello specchietto retrovisore una macchina dietro di me. La freccia di sinistra lampeggia e tutta la macchina emette onde di impazienza. Il guidatore aspetta il momento giusto per superarmi: come un rapace che fa la posta a un passero.


Mia moglie Vera mi dice: «Sulle strade francesi ogni cinquanta minuti muore un uomo. Guardali, tutti questi pazzi che corrono accanto a noi. Sono gli stessi che sanno essere così straordinariamente prudenti quando sotto i loro occhi viene scippata una vecchietta. Com’è possibile che quando guidano non abbiano paura?»


Che cosa rispondere? Questo, forse: che l’uomo curvo sulla sua motocicletta è tutto concentrato sull’attimo presente del suo volo; egli si aggrappa a un frammento di tempo scisso dal passato come dal futuro; si è sottratto alla continuità del tempo; è fuori del tempo - in altre parole, è in uno stato di estasi: in tale stato non sa niente né della sua età, né di sua moglie, né dei suoi figli, né dei suoi guai, e di conseguenza non ha paura, poiché l’origine della paura è nel futuro, e chi si è affrancato dal futuro non ha più nulla da temere.


La velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo. A differenza del motociclista, l’uomo che corre a piedi è sempre presente al proprio corpo, costretto com’è a pensare continuamente alle vesciche, all’affanno; quando corre avverte il proprio peso e la propria età, ed è più che mai consapevole di se stesso e del tempo della sua vita. Ma quando l’uomo delega il potere di produrre velocità a una macchina, allora tutto cambia: il suo corpo è fuori gioco, e la velocità a cui si abbandona è incorporea, immateriale - velocità pura, velocità in sé e per sé, velocità-estasi.


Strano connubio: la fredda impersonalità della tecnica e il fuoco dell’estasi. Mi torna in mente l’americana che una trentina di anni fa, con piglio insieme severo ed entusiastico, da vera militante dell’erotismo, mi diede una lezione (gelidamente teorica) sulla liberazione sessuale; la parola che ricorreva più frequentemente nel suo discorso era orgasmo; tenni il conto: la pronunciò quarantatré volte. Il culto dell’orgasmo: l’utilitarismo puritano applicato alla vita sessuale; l’efficienza contrapposta all’ozio; la riduzione del coito a un ostacolo che va superato il più velocemente possibile per giungere a un’esplosione estatica, unico vero fine dell’amore e dell’universo.


Perché è scomparso il piacere della lentezza? Dove mai sono finiti i perdigiorno di un tempo? Dove sono quegli eroi sfaccendati delle canzoni popolari, quei vagabondi che vanno a zonzo da un mulino all’altro e dormono sotto le stelle? Sono scomparsi insieme ai sentieri fra i campi, ai prati e alle radure - insieme alla natura? Un proverbio ceco definisce il loro placido ozio con una metafora: essi contemplano le finestre del buon Dio. Chi contempla le finestre del buon Dio non si annoia; è felice. Nel nostro mondo l’ozio è diventato inattività, che è tutt’altra cosa: chi è inattivo è frustrato, si annoia, è costantemente alla ricerca del movimento che gli manca.


Guardo nello specchietto retrovisore: sempre la stessa macchina che non riesce a superarmi a causa del traffico in senso inverso.


Accanto al guidatore è seduta una donna; perché l’uomo non le racconta qualcosa di divertente? Macché: l’uomo maledice l’automobilista davanti a lui perché va troppo piano, e neppure la donna pensa a toccarlo con la mano - mentalmente sta guidando anche lei, e anche lei mi maledice.


E a me viene in mente un altro viaggio da Parigi verso un castello di campagna, il viaggio, avvenuto più di duecento anni fa, di Madame de T. e del giovane cavaliere che l’accompagnava. È la prima volta che sono così vicini l’uno all’altra, e l’ineffabile atmosfera dalla sensualità che li circonda nasce appunto dalla lentezza del ritmo: grazie ai sobbalzi della carrozza i loro corpi si toccano, dapprima inconsapevolmente, poi consapevolmente e ha inizio la vicenda.

2

Questa la trama del racconto di Vivant Denon: un gentiluomo di vent’anni si trova una sera a teatro. (Di lui non conosciamo né il nome né il titolo, ma mi piace immaginarlo cavaliere). Nel palco accanto al suo scorge una signora (il racconto ci dà soltanto la prima lettera del suo nome: Madame de T.); è una amica della contessa di cui il cavaliere è l’amante. Madame de T. gli chiede di accompagnarla dopo lo spettacolo. Stupefatto e confuso da un comportamento così risoluto, tanto più che conosce il favorito di Madame de T., un certo Marchese (del quale non ci verrà detto il nome: siamo entrati nel mondo del segreto, là dove non ci sono nomi), il cavaliere, senza rendersi conto di quel che gli accade, si ritrova seduto in carrozza al fianco della bella signora. Dopo un ameno e piacevole viaggio, la carrozza si ferma davanti alla scalinata di un castello di campagna, dove i due vengono accolti gelidamente dal marito di Madame de T. La cena a tre si svolge in un’atmosfera silenziosa e lugubre, poi il marito chiede il permesso di ritirarsi e li lascia soli.


E qui inizia la loro notte: una notte che ha la struttura di un trittico, di un percorso in tre tappe: prima passeggiano nel parco, poi fanno l’amore in un casinetto, e infine si amano in un boudoir segreto del castello.


All’alba si separano. Il cavaliere, incapace di ritrovare la propria camera nel dedalo dei corridoi, ritorna nel parco e qui, con sua grande meraviglia, incontra quello stesso Marchese che sa essere l’amante di Madame de T. Il Marchese, che è appena giunto al castello, lo saluta allegramente e gli svela il motivo del misterioso invito: Madame de T. aveva bisogno di qualcuno che le servisse da paravento e stornasse dal Marchese i sospetti del marito. Il Marchese si rallegra che l’inganno abbia funzionato e ride del cavaliere, costretto a interpretare il ridicolissimo ruolo di falso amante. Stremato dalla notte d’amore, il cavaliere riparte per Parigi con la carrozza che il Marchese riconoscente mette a sua disposizione.


Il racconto, che ha per titolo Senza domani, fu pubblicato per la prima volta nel 1777; il nome dell’autore (poiché siamo nel mondo del segreto) era sostituito da sette enigmatiche lettere maiuscole, M.D.G.O.D.R., in cui, volendo, si può leggere: «Monsieur Denon, Gentiluomo Ordinario Del Re». Venne poi ripubblicato, anonimo e in pochissimi esemplari, nel 1779, prima di riapparire, l’anno seguente, sotto il nome di un altro scrittore.


Due nuove edizioni videro la luce nel 1802 e nel 1812, sempre senza il vero nome dell’autore; finché, dopo un oblio di oltre cinquant’anni, il racconto riapparve nel 1866. Da quel momento in poi venne attribuito a Vivant Denon, e nel corso di questo secolo la sua fama non ha fatto che crescere. Oggi viene annoverato fra le opere letterarie più rappresentative dell’arte e dello spirito del Settecento.

3

Nel linguaggio corrente la nozione di edonismo indica una propensione amorale per un’esistenza dedita al piacere, se non addirittura al vizio. Il che è ovviamente inesatto: Epicuro, primo grande teorico del piacere, aveva della vita felice una concezione estremamente scettica: prova piacere, egli diceva, colui che non soffre. Alla base dell’edonismo vi è dunque la nozione di sofferenza: è felice chi riesce a evitare la sofferenze; poiché i piaceri sono più spesso causa di infelicità che di felicità, Epicuro raccomanda solo piaceri prudenti e modesti. La saggezza epicurea ha un sottofondo di malinconia: l’uomo, gettato nella miseria del mondo, si accorge che il solo valore inconfutabile e certo è il piacere, sia pur piccolo, che è in grado di procurarsi da sé: una sorsata di acqua fresca, uno sguardo rivolto al cielo (alle finestre del buon Dio), una carezza.


Modesti o no, i piaceri appartengono unicamente a chi li prova, e un filosofo potrebbe a giusto titolo rimproverare all’edonismo il suo intrinseco egoismo. Eppure, a mio avviso, il tallone d’Achille dell’edonismo non è l’egoismo, ma il suo carattere (magari mi sbagliassi!) disperatamente utopico: dubito infatti che l’ideale edonistico possa mai realizzarsi; e temo che la vita alla quale esso ci esorta sia incompatibile con la natura umana.


L’arte del Settecento ha sottratto i piaceri alle brume dei divieti morali, dando origine al cosiddetto atteggiamento libertino, quello che emana dai dipinti di Fragonard e di Watteau, dalle pagine di de Sade, di Crébillon figlio o di Duclos. È per questo che il mio giovane amico Vincent adora questo secolo e se potesse porterebbe all’occhiello come un distintivo il profilo del marchese de Sade. Io condivido la sua ammirazione, ma aggiungo (pur senza essere ascoltato) che la vera grandezza di quest’arte non consiste nella propaganda dell’edonismo, bensì nell’analisi di esso. Ecco perché Le relazioni pericolose di Choderlos de Lanclos è secondo me uno dei più grandi romanzi di tutti i tempi.


L’occupazione esclusiva dei personaggi è la conquista del piacere. Ma a poco a poco il lettore capisce che ad attrarli non è tanto il piacere quanto la conquista. Che a condurre le danze non è il desiderio di piacere ma il desiderio di vittoria. E quello che all’inizio sembra un gioco festosamente osceno si trasforma, in maniera impercettibile e fatale, in una lotta per la vita e per la morte. Ma che cosa hanno mai in comune la lotta e l’edonismo? Epicuro ha scritto: «Il saggio non cerca alcuna attività che sia connessa alla lotta».


La forma epistolare delle Relazioni pericolose non è un mero procedimento tecnico che possa essere sostituito con un altro. È anzi una forma in se stessa eloquente: ci dice che tutto quanto i personaggi hanno vissuto l’hanno vissuto solo per raccontarlo, trasmetterlo, comunicarlo, confessarlo, scriverlo. In un mondo come questo, dove tutto si racconta, l’arma di più facile uso, e insieme la più letale, è la divulgazione. Valmont, il protagonista del romanzo, scrive alla donna da lui sedotta una lettera di rottura che le darà un colpo mortale; ma questa lettera gli è stata dettata parola per parola dalla sua amica, la Marchesa di Merteuil. In seguito, per vendicarsi, la stessa Merteuil fa leggere una lettera confidenziale di Valmont a colui che ne è rivale; da ciò nascerà il duello nel quale Valmont soccomberà. Dopo la sua morte, la corrispondenza intima fra lui e Madame de Merteuil verrà divulgata e la marchesa, braccata e messa al bando, finirà la sua vita nel disprezzo generale.


In questo romanzo niente rimane un segreto esclusivo fra due esseri; tutti sembrano vivere all’interno di un’immensa conchiglia sonora in cui ogni parola, anche solo sussurrata, rimbomba, amplificata, in molteplici e interminabili echi. Quand’ero piccolo mi dicevano che appoggiando una conchiglia all’orecchio avrei sentito l’eterno mormorio del mare. Allo stesso modo, nel mondo di Laclos ogni parola rimane eternamente udibile. È questo dunque il Settecento? È questo il paradiso del piacere? O invece l’uomo, senza rendersene conto, vive da sempre in una conchiglia sonora? In ogni caso, una conchiglia sonora non è certo il mondo a cui pensa Epicuro quando ordina ai suoi discepoli: «Vivi nascosto!».

4

L’uomo della reception è gentile, più gentile di quanto non siano generalmente i portieri di albergo. Ricordandosi che siamo venuti qui due anni fa, ci avverte che da allora molte cose sono cambiate. Hanno aperto una sala destinata ad accogliere convegni di vario genere e hanno costruito una bella piscina. Curiosi di vederla, attraversiamo una hall ampia e luminosa, con grandi vetrate che danno sul parco. In fondo alla hall un’ampia scala conduce alla piscina, che é grande, rivestita di piastrelle e sormontata da un soffitto a giorno. Vera mi ricorda: «L’ultima volta qui c’era un piccolo roseto».

Prendiamo possesso della stanza, poi usciamo nel parco. Le verdi terrazze digradano verso la Senna. Siamo stupito da tanta bellezza e desiderosi di fare una lunga passeggiata. Ma pochi minuti dopo eccoci di fronte a una strada sulla quale passano le macchine; facciamo dietro front.

La cena è squisita, e tutti sono ben vestiti, come per rendere omaggio a quel passato il cui ricordo aleggia ancora nella sala. Al tavolo accanto al nostro, una coppia con due bambini. Uno di loro canta ad alta voce. Il cameriere si china sul tavolo porgendo un vassoio. La madre lo guarda fisso, come per incitarlo a tessere gli elogi del bambino, il quale, fiero di essere osservato, sale in piedi sulla sedia e strilla ancora di più. Sul volto del padre appare un sorriso compiaciuto.

Beviamo un ottimo bordeaux, mangiamo dell’anatra, finiamo con un dolce - la specialità della casa -, chiacchieriamo, appagati e sereni. Quando torniamo in camera accendo un attimo il televisore. Anche qui, dei bambini. Ma stavolta sono negri e stanno morendo. Il nostro soggiorno al castello ha infatti avuto luogo nel periodo in cui, per settimane, ci venivano mostrati quotidianamente i bambini di un paese africano - il nome l’abbiamo già dimenticato (sono passati almeno due o tre anni, come si fa a ricordarsi tutti quei nomi!) - devastato dalla guerra civile e dalla carestia. I bambini sono magri, sfiniti, non hanno neanche più la forza di fare un gesto per scacciare le mosche che passeggiano sui loro volti.

Vera mi domanda: «Ma in quel paese di vecchi non ne muoiono?».

Eh, no: il dato interessante in quella carestia, ciò che l’ha resa unica tra i milioni di carestie succedutesi sulla terra è il fatto che mieteva vittime unicamente fra i bambini. Sullo schermo non abbiamo visto soffrire un solo adulto, pur avendo guardato i notiziari tutti i giorni proprio allo scopo di avere una conferma di questa inaudita circostanza.

È quanto mai logico, dunque, che siano stati non gli adulti ma appunto i bambini a ribellarsi contro questa crudeltà dei vecchi e, con la spontaneità che li caratterizza, abbiano lanciato la notissima campagna denominata «I bambini europei inviano riso ai bambini somali». La Somalia! Ma certo! Questo slogan famoso mi ha fatto ritrovare il nome perduto! Ah, è un vero peccato che tutto questo sia già caduto nel dimenticatoio! I bambini hanno comprato pacchi di riso. I genitori, impressionati da questo sentimento di solidarietà planetaria che albergava nei loro figli, hanno offerto del denaro, e tutte le istituzioni sono venute in aiuto; il riso è stato raccolto nelle scuole, trasportato fino ai porti, imbarcato su navi dirette in Africa, e tutti hanno potuto seguire la gloriosa epopea del riso.

Subito dopo i bambini moribondi, invadono lo schermo certe fanciulline sui sei, otto anni, vestite come donne fatte e con i modi accattivanti delle vecchie vanesie - oh come sono carini, quanto sono buffi e commoventi i bambini quando scimmiottano gli adulti: ecco che queste donnine e questi ometti si baciano sulla bocca, poi compare un uomo con in braccio un neonato, e mentre lui ci spiega quel è il modo migliore per lavare la biancheria che il bimbo ha appena sporcato, una bella donna gli si avvicina, schiude le labbra e tira fuori una lingua terribilmente sensuale che incomincia a penetrare la bocca terribilmente pacioccona del portatore di neonato.

«Andiamo a letto» dice Vera, e spegne il televisore.

5

I bambini francesi che si prodigano per portare aiuto ai loro piccoli compagni africani mi fanno sempre tornare alla mente la faccia dell’intellettuale Berck. Erano quelli i suoi giorni di gloria. E come spesso succede, la sua gloria aveva avuto origine da un fallimento. Ricordate? Negli anni Ottanta di questo secolo il mondo fu colpito da un’epidemia: una malattia chiamata AIDS, che si trasmetteva con il contatto amoroso e, nei primi tempi, mieteva vittime soprattutto fra gli omosessuali.


Per opporsi ai fanatici che vedevano nell’epidemia un giusto castigo divino ed evitavano i malati come fossero appestati, gli spiriti tolleranti manifestavano solo la solidarietà e cercavano di dimostrare che frequentandoli non si correva alcun rischio. Così il deputato Duberques e l’intellettuale Berck organizzarono un pranzo in un noto ristorante parigino insieme a un gruppo di malati di AIDS; la cosa si svolse in un’atmosfera ideale e, deciso a non lasciarsi sfuggire l’occasione di dare il buon esempio, per il dolce il deputato Duberques aveva invitato le telecamere. non appena le vide comparire si alzò, si avvicinò a un malato, lo sollevò dalla sedia e lo baciò sulla bocca ancora piena di mousse al cioccolato.


Berck fu preso alla sprovvista. Capì immediatamente che, una volta fotografato e filmato, il bacio di Duberques sarebbe diventato immortale; si alzò a sua volta e rifletté intensamente sul da farsi: doveva anche lui baciare un malato di AIDS? Nella prima fase della sua riflessione decise di resistere a questo impulso, perché dentro di sé non era poi così certo che il contatto con la bocca del malato non fosse contagioso; nella fase successiva, valutando che la fotografia del bacio al malato valeva il rischio, stabilì di mettere da parte ogni cautela; ma nella terza fase venne fermato nella sua corsa verso la bocca sieropositiva da un considerazione: il fatto di baciare a sua volta un malato non l’avrebbe messo sullo stesso piano di Duberques, ma anzi abbassato al rango di un imitatore, di uno scopiazzatore, o addirittura di un servo, e quel gesto avventato avrebbe solo contribuito a dare maggior lustro alla gloria dell’altro.


Si limitò dunque a rimanere in piedi a sorridere con aria idiota. Ma quei pochi secondi di esitazione gli costarono cari, perché le telecamere erano lì, e al telegiornale la Francia intera poté leggere sulla sua faccia le tre frasi di quell’imbarazzo e ridere di lui.


I bambini che raccoglievano pacchi di riso da mandare in Somalia gli vennero dunque in aiuto al momento giusto. Non perse occasione per lanciare al pubblico televisivo la bella frase: «Solo i bambini vivono nella verità!», poi andò in Africa e si fece fotografare accanto a una negretta moribonda con il viso coperto di mosche. La foto fece il giro del mondo, diventando molto più famosa di quella in cui Duberques baciava un malato di AIDS, perché un bambino che muore vale più di un adulto che muore - un’ovvietà, questa, che all’epoca sfuggiva ancora a Dubuerques. Il quale, tuttavia, non si diede per vinto, e pochi giorni dopo apparve in televisione; essendo un cattolico praticante e ben conoscendo l’ateismo di Berck, ebbe l’idea di portarsi dietro una candela, arma davanti alla quale anche i più incalliti miscredenti non possono che chinare il capo, e mentre il giornalista lo intervistava la tirò fuori di tasca e l’accese; con il perfido scopo di gettare il discredito sulla dedizione di Berck alla causa di paesi lontani, parlò dei bambini poveri che ci sono da noi, nelle nostre campagne, nelle nostre periferie urbane, e invitò i suoi concittadini a partecipare, ciascuno con in mano una candela, a una grande marcia per le strade di Parigi, in segno di solidarietà con i piccoli sofferenti; dopodiché (dissimulando la propria ilarità) rivolse a Berck un invito esplicito a mettersi con lui alla testa del corteo. Berck non aveva scelta: o prendere parte alla marcia con una candela in mano come un chierichetto di Dubuerques, o sottrarsi ed esporsi così alla disapprovazione generale.


Era una trappola, ma lui riuscì a schivarla con un gesto audace quanto inatteso: decise di involarsi seduta stante per un paese asiatico in rivolta e di proclamarvi a gran voce la sua solidarietà con il popolo oppresso. Purtroppo però la geografia non era mai stata il suo forte, e il mondo si divideva per lui in due parti, la Francia e una non-Francia di cui non distingueva bene le oscure province: atterrò così in una altro paese, uggiosamente pacifico, il cui aeroporto si trovava in mezzo alle montagne ed era gelido e mal collegato; e fu costretto a rimanervi otto giorni in attesa di un aereo che lo riportasse a Parigi affamato e incimurrito.


«Berck è il re martire dei ballerini» commentò Pontevin.


Il concetto di «ballerino» è noto solo a una ristretta cerchia di amici di Pontevin. È la sua grande invenzione, ed è un peccato che non l’abbia mai sviluppata in un libro, né proposta come tema di un simposio internazionale. Ma Pontevin se ne infischia della pubblica fama. Ed è per questo che i suoi amici lo ascoltano con un’attenzione e un piacere ancora più grandi.

6

Al giorno d’oggi, secondo Pontevin, gli uomini politici sono tutti un po’ ballerini, e tutti i ballerini si occupano di politica, il che non deve però indurci a confondere gli uni con gli altri. Il ballerino si distingue dall’uomo politico comune per il fatto che non desidera il potere ma la gloria, e che non desidera imporre al mondo questa o quella organizzazione sociale (diciamo pure che non gliene importa un fico secco), bensì occupare la scena perché il suo io possa rifulgere.


Per occupare la scena bisogna cacciarne via gli altri. Il che implica una speciale tecnica di lotta. La lotta ingaggiata dal ballerino viene da Pontevin definita «judò morale». Il ballerino lancia la sua sfida all’universo mondo: (più coraggioso, più onesto, più sincero, più disposto al sacrificio, più veritiero) di lui? E ricorre a tutte le mosse che gli consentono di mettere l’altro in una situazione di inferiorità morale.


Allorché un ballerino avrà la possibilità di entrare nel gioco politico, rifiuterà ostentamente tutte le trattative segrete (che costituiscono da sempre il terreno di gioco della politica vera) denunciandole come ingannevoli, disoneste, ipocrite e turpi; avanzerà le sue proposte pubblicamente, dall’alto di un podio, cantando e ballando, e inviterà gli altri, chiamandoli in causa personalmente, a seguirlo nella sua azione; insisto: non in modo discreto (per dare all’altro il tempo di riflettere, di avanzare eventuali proposte alternative), ma pubblicamente, e se possibile cogliendo tutti di sorpresa:


«Siete pronti (come lo sono io) a devolvere il vostro stipendio di marzo a favore dei bambini somali?».


Colti alla sprovvista, gli altri avranno solo due possibilità: o rifiutare, dichiarando in tal modo la propria infamia di nemici dei bambini, o rispondere: «Sì» in un terribile imbarazzo, che la telecamera dovrà maliziosamente mostrare allo stesso modo in cui ha mostrato le esitazioni del povero Berck alla fine del pranzo con i malati di AIDS.


«Lei, dottor H., perché tace quando nel suo paese vengono calpestati i diritti umani?». Al dottor H. la domanda fu posta nel bel mezzo di un intervento chirurgico, in un momento, dunque, in cui non poteva certo rispondere; ma dopo che ebbe ricucito l’addome del paziente si vergognò a tal punto del proprio silenzio che snocciolò tutto quello che ci si aspettava da lui e anche di più; dopodiché il ballerino che lo aveva chiamato in causa (ricorrendo così a un’altra mossa, particolarmente temibile, di judò morale) buttò lì un: «Era ora. Meglio tardi...».


Ci sono situazioni (nei regimi totalitari, per esempio) in cui prendere pubblicamente posizione può essere pericoloso; ma per il ballerino lo è un po’ meno che per gli altri poiché, essendosi abbondantemente esibito sotto le luci dei riflettori in modo che tutti potessero vederlo, l’attenzione del pubblico lo protegge; i suoi ammiratori anonimi, invece, obbedendo al suo richiamo sconsiderato quanto splendido, firmano petizioni, partecipano a riunioni proibite e a manifestazioni di strada: per loro non si avrà alcun riguardo, e il ballerino non cederà mai alla tentazione sentimentale di imputare a se stesso le loro disgrazie, nella certezza che una nobile causa conta ben più della vita di un singolo individuo.


Vincent obietta a Pontevin: «Sappiamo bene che tu aborri Berck, e siamo tutti con te. Tuttavia, pur essendo un coglione, ha sostenuto delle cause che anche noi riteniamo giuste - o, se preferisci, è stata la sua vanità a sostenerle. E ti chiedo: se uno vuole intervenire in un conflitto pubblico, se vuole attirare l’attenzione su un’infamia o aiutare un perseguitato, come può, nell’epoca in cui viviamo, non essere o non sembrare un ballerino?».


Domanda alla quale il misterioso Pontevin risponde: «Sbagli a pensare che io volessi attaccare i ballerini. Io li difendo. Chi prova antipatia per i ballerini e intende denigrarli si troverà sempre di fronte un ostacolo insormontabile: la loro onestà. Esponendosi costantemente in pubblico, infatti, il ballerino si condanna a essere irreprensibile; non ha stretto come Faust un patto col Diavolo, lo ha stretto con l’Angelo; vuole fare della propria vita un’opera d’arte, e in questa impresa riceve aiuto dall’Angelo - non dimenticare infatti che la danza è un’arte! Ed è proprio in questa ossessione che risiede la vera essenza del ballerino: nel considerare la propria vita come la materia di un’opera d’arte. Lui non predica la morale: la danza! Vuole impressionare e abbagliare il mondo con la bellezza della propria vita! È innamorato della propria vita come uno scultore della statua che va modellando.

7

Mi chiedo perché Pontevin non renda pubbliche idee così interessanti. Eppure non ha granché da fare questo dottore in Storia medioevale che si annoia nel suo ufficio alla Biblioteca Nazionale. Non si cura di rendere note le sue teorie? Dirò di più: è una cosa che gli fa orrore. Colui che rende pubbliche le proprie idee rischia di convincere gli altri della verità di cui si fa portatore, di influenzarli, e di dover quindi calarsi nel ruolo di chi aspira a cambiare il mondo. Cambiare il mondo! Per Pontevin è un’intenzione mostruosa! E non perché gli piaccia il mondo così com’è, ma perché ritiene che ogni cambiamento conduca ineluttabilmente al peggio. E anche perché, da un punto di vista più egoistico, sa che qualunque idea resa pubblica si ritorcerà presto o tardi contro il suo autore e lo priverà del piacere di averla pensata. Il nostro Pontevin è infatti un grande discepolo di Epicuro: egli inventa ed elabora le sue idee per puro piacere. Non disprezza affatto l’umanità, che è per lui una fonte inesauribile di riflessione gioiosamente maliziose, ma non ha la benché minima voglia di entrare con essa in più stretto contatto. Ha attorno a sé un gruppo di amici che si ritrovano al Café Gascon, e questo ridotto campione di umanità gli basta e avanza.


Fra questi amici Vincent è il più candido e il più commovente. A lui va tutta la mia simpatia, e l’unica cosa che gli rimprovero (con una punta di gelosia, lo ammetto) è la sua giovanile e a mio parere eccessiva adorazione verso Pontevin. Ma perfino questa devozione ha un che di commovente. Quando sono insieme parlano di mille argomenti che affascinano Vincent - di filosofia, di politica, di libri -, e Vincent è felice di stare da solo con lui; il giovane discepolo trabocca di idee curiose e provocatorie, e Pontevin, affascinato a sua volta, lo corregge, lo stimola, lo incoraggia. Ma basta che arrivi una terza persona perché Vincent si senta di colpo infelice: subito Pontevin si trasforma, parla a voce più alta e dice cose divertenti, troppo divertenti per i gusti di Vincent.


Facciamo un esempio. Sono da soli al caffè, e Vincent gli chiede: «Cosa pensi veramente di quello che succede in Somalia?». E Pontevin, paziente, gli fa una conferenza sull’Africa. Vincent avanza delle obiezioni, discutono, e magari ci scherzano anche un po’ su, ma senza cercare di fare gli spiritosi, solo per concedersi un momento di riposo in una conversazione delle più serie.


Arriva Machu in compagnia di una bella sconosciuta. Vincent vorrebbe continuare la discussione: «Ma scusa, Pontevin, non credi di sbagliarti quando sostieni che...», ed elabora un’interessante argomentazione polemica contro le teorie dell’amico.


Pontevin fa una lunga pausa. È un maestro, lui, delle lunghe pause. Sa che solo i timidi ne hanno paura, e che quando non sanno cosa rispondere si lanciano in affermazioni maldestre coprendosi di ridicolo. Pontevin sa tacere così mirabilmente che persino la Via Lattea, impressionata dal suo silenzio, aspetta, impaziente, che egli risponda. Senza pronunciare una sola parola guarda Vincent, il quale, non si sa perché, abbassa pudicamente gli occhi, poi, sorridendo, guarda l’amica di Machu, e di nuovo si volta verso Vincent con uno sguardo colmo di finta sollecitudine: «Questo tuo modo di insistere, in presenza di una signora, su pensieri eccessivamente brillanti è il segno di un preoccupante riflusso della tua libido».


Sul volto di Machu appare il suo celebre sorriso da idiota, la bella signora rivolge a Vincent uno sguardo di divertita condiscendenza, e Vincent si fa paonazzo. Si sente ferito: un amico che un attimo fa gli dedicava tutta la sua attenzione adesso, improvvisamente, non esita a metterlo a disagio al solo scopo di far colpo su una donna.


Intanto arrivano altri amici, si siedono e chiacchierano; Machu racconta qualche aneddoto; Goujard con brevi e asciutte osservazioni esibisce la sua erudizione; ogni tanto una delle donne presenti scoppia in una risata. Pontevin non parla; è in attesa; poi, quando ritiene che il suo silenzio sia maturo al punto giusto, dice: «La mia amichetta continua a chiedermi di comportarmi con lei in modo brutale».


Dio, come lo dice bene! Anche gli occupanti dei tavolini vicini si sono zittiti e lo ascoltano, e l’aria comincia a vibrare di ilarità impaziente. Che cosa c’è di tanto comico nel fatto che la sua amichetta gli chieda di comportarsi in modo brutale? Tutto sta, probabilmente, nel sortilegio della voce, e Vincent non può impedirsi di avvertire una fitta di gelosia, perché paragonata a quella di Pontevin la sua voce è come un povero piffero che si sforzi di competere con un violoncello. Pontevin parla piano, senza mai forzare la voce, eppure questa riempie tutta la sala e rende impercettibili gli altri rumori del mondo.


«Comportarmi in modo brutale...» prosegue. «Ma non ne sono capace! Io non sono brutale! Sono troppo raffinato!».

L’aria continua a vibrare di ilarità e, per assaporare quella vibrazione, Pontevin fa una pausa. Poi dice: «Ogni tanto viene a casa mia una giovane dattilografa. Un giorno, mentre le stavo dettando qualcosa, all’improvviso, pieno di buona volontà, l’afferro per i capelli, sollevo dalla sedia e la trascino verso il letto. A mezza strada la lascio andare e scoppio a ridere: «Che sciocco! Non è lei che mi chiede di essere brutale! Mi scusi, signorina!».

Tutto il caffè ride, anche Vincent, che adesso ama di nuovo il suo maestro.8

Il giorno seguente, però, gli dice in tono di rimprovero: «Pontevin, tu non sei soltanto il grande teorico dei ballerini, sei tu stesso un grande ballerino».


Pontevin (un po’ imbarazzato): «Tu confondi i concetti».


Vincent: «Quando siamo insieme tu e io, e qualcun altro si unisce a noi, immediatamente il luogo in cui ci troviamo si divide in due parti: io e il nuovo venuto siamo in platea e tu balli sulla scena».


Pontevin: «Ti dico che confondi i concetti. La definizione di ballerino si applica esclusivamente agli esibizionisti della vita pubblica. E io la vita pubblica la aborro».


Vincent: «Ieri ti sei comportato davanti a quella donna come Berck davanti a una telecamera. Hai fatto in modo di attirare su di te tutta la sua attenzione. Volevi essere il migliore, il più spiritoso. E hai usato contro di me il più volgare judò degli esibizionisti».


Pontevin: «Il judò degli esibizionisti, forse. Ma non il judò morale! Ed è per questo che sbagli dandomi del ballerino. Il ballerino vuole essere più morale degli altri. Mentre io ho voluto sembrare peggiore di te».


Vincent: «Il ballerino vuole sembrare più morale perché il suo vasto pubblico è ingenuo e trova belli i gesti morali. Ma il nostro esiguo pubblico è perverso fino all’amoralità. Tu hai quindi usato contro di me il judò amorale, e questo non è affatto in contraddizione con la tua essenza di ballerino».


Pontevin (cambiando improvvisamente tono, con grande sincerità): «Se ti ho ferito, perdonami, Vincent».


Vincent (subito commosso dalle scuse di Pontevin): «Non ho niente da perdonarti. Lo so che stavi scherzando».


Non è un caso che si incontrino sempre al Café Gascon. Fra i loro santi protettori è d’Artagnan il più grande: il patrono dell’amicizia, unico valore che considero sacro.


Pontevin prosegue: «Nel senso più ampio della parola (e qui in effetti hai ragione tu) vi è certamente un ballerino in ciascuno di noi, e non ho difficoltà ad ammettere che di fronte a una donna sono dieci volte più ballerino degli altri. Che posso farci? È più forte di me».


Vincent ride amichevolmente, sempre più commosso, e Pontevin continua con aria contrita: «D’altra parte, se io sono, come tu stesso hai appena riconosciuto, il grande teorico dei ballerini, deve pur esserci fra me e loro una piccola rassomiglianza, altrimenti non potrei capirli. Sì, Vincent, questo non ho difficoltà ad ammetterlo».


A questo punto, Pontevin abbandona il ruolo dell’amico pentito per assumere nuovamente quello teorico: «Ma soltanto una piccolissima rassomiglianza, perché nel senso specifico che attribuisco a questo concetto io non ho niente a che vedere con il ballerino. Ritengo addirittura non solo possibile ma addirittura probabile che in presenza di una donna un vero ballerino - uno come Berck o Duberques - non abbia alcuna voglia di esibirsi e di sedurre. Non gli verrebbe nemmeno in mente di raccontare di aver preso per i capelli una dattilografa e di averla trascinata verso il letto perché l’aveva scambiata per un’altra. Perché il pubblico che lui vuole sedurre non sono tre o quattro donne concrete e visibili ma l’immensa folla di quelle invisibili! Ecco, vedi, questo è un altro capitolo della teoria del ballerino che va elaborato: l’invisibilità del suo pubblico. È tutta qui la spaventosa modernità del personaggio! È uno che non si esibisce per te o per me, ma per il mondo intero. E il mondo intero cos’è? Un infinito senza facce! Un’astrazione».


Nel bel mezzo di questa conversazione arriva Goujard in compagnia di Machu, che dalla porta si rivolge a Vincent: «Non mi hai detto di essere stato invitato al grande simposio degli entomologi? Ho una notizia per te! Ci sarà anche Berck».


Pontevin: «Ancora lui! Ma è dappertutto!».

Vincent: «Che diavolo ci viene a fare?».

Machu: «Visto che sei un entomologo, dovresti saperlo».

Goujard: «Da studente ha frequentato per un anno la Scuola di Studi Superiori di Entomologia. Nel corso del convegno gli verrà conferita la laurea honoris causa di Entomologia».

E Pontevin: «Bisogna andarci e piantare un gran casino!». Poi, voltandosi verso Vincent: «Ci farai entrare tutti quanti da clandestini!».

9

Vera si è addormentata; apro la finestra che dà sul parco e penso al percorso che hanno seguito Madame de T. e il suo giovane cavaliere dopo essere usciti dal castello quella notte - a quell’indimenticabile percorso in tre tappe.


Prima tappa: i due passeggiano, con le braccia allacciate, conversando; poi trovano una panchina in mezzo a un prato e si siedono, sempre allacciati e continuando a conversare. È una notte di luna, e il giardino digrada in terrazze verso la Senna, il cui mormorio si unisce allo stormire delle foglie. Cerchiamo di afferrare qualche frammento della conversazione. Il cavaliere chiede che gli venga accordato un bacio, e Madame de T. risponde: «Lo faccio volentieri: se rifiutassi, ne andreste troppo fiero. Il vostro amor proprio vi farebbe credere che ho paura di voi».


Ogni singola parola di Madame de T. è frutto di un’arte, l’arte della conversazione, ne elabora il senso; in questo caso, ad esempio, ella concede al cavaliere il bacio da lui sollecitato, ma solo dopo aver imposto a tale assenso la propria personale interpretazione: se si lascia baciare è unicamente per ricondurre l’orgoglio del cavaliere nei suoi giusti limiti.


Fatto sta che questo gioco dell’intelletto, capace di trasformare un bacio in un gesto di ripulsa, non inganna nessuno, neanche il cavaliere, che tuttavia deve prendere sul serio le parole di lei in quanto fanno parte di un procedimento mentale a cui bisogna rispondere con un altro procedimento mentale. La conversazione non è un modo di riempire il tempo, tutt’altro: è ciò che organizza il tempo, che lo governa e impone leggi che vanno rispettate.


La prima tappa della loro notte si conclude così: al bacio che Madame de T. aveva concesso al cavaliere perché non andasse troppo fiero di un rifiuto ne è seguito un altro, e poi un altro ancora: e i baci si affollano, smozzicavano la conversazione, ne prendevano il posto... Ma d’improvviso lei si alza e decide che è ora di rientrare.


Che arte delle messa un scena! Dopo il primo turbamento dei sensi, occorreva mostrare che il piacere amoroso era un frutto non ancora maturo; occorreva alzarne il prezzo, renderlo più desiderabile; occorreva creare una peripezia, una tensione, una suspense. Tornando verso il castello con il cavaliere, Madame de T. simula una discesa nel nulla, ben sapendo che all’ultimo momento avrà il potere di rovesciare la situazione e di prolungare l’incontro. Basterà una frase, una di quelle formule che l’arte secolare della conversazione possiede a dozzine. E tuttavia, per una sorta di inattesa cospirazione, per un’imprevedibile mancanza di ispirazione, non riesce a trovarne neanche una. È come un attore che abbia improvvisamente dimenticato la parte. Perché è proprio così, bisogna conoscere la parte; non è come oggi - oggi una ragazza può dire: tu ne hai voglia, io ne ho voglia, su, non perdiamo tempo! Per loro, questa franchezza si trova aldilà di una barriera che a dispetto di tutte le loro convinzioni libertine non possono superare. Se nessuno dei due riuscirà a escogitare qualcosa, se non troveranno un pretesto valido per prolungare la passeggiata, saranno costretti, dalla semplice logica del silenzio, a ritornare al castello e a separarsi. Più sono consapevoli, l’uno come l’altra, dell’urgenza di trovare un pretesto per fermarsi e di enunciarlo ad alta voce, più le loro bocche sono come cucite: tutte le frasi che potrebbero venir loro in soccorso si nascondono proprio ora che disperatamente le invocano. Ecco perché, avvicinandosi alla porta del castello, «mossi dal medesimo istinto, i nostri passi si rallentavano a vicenda».


Per fortuna, all’ultimo momento, come se il suggeritore si fosse finalmente svegliato, lei ricorda la parte; lo aggredisce: «Non sono contenta di voi...». Finalmente! Finalmente! Sono salvi! È in collera! Simulare un inconsistente corruccio è il pretesto che le permetterà di prolungare la passeggiata. Lei è stata sincera con lui: perché allora il cavaliere non le ha detto nemmeno una parola sulla sua beneamata Contessa? non c’è tempo da perdere, bisogna spiegarsi! Bisogna parlare! La conversazione riprende, e i due si allontanano di nuovo dal castello lungo un sentiero che questa volta li condurrà senza intralci verso l’amplesso.

10

E sempre conversando Madame de T. delimita il terreno, prepara la successiva fase degli avvenimenti, suggerisce al compagno che cosa pensare e come agire. Lo fa con finezza, con eleganza, e in modo indiretto, come se parlasse d’altro. Gli svela quanto calcolatrice ed egoista sia la Contessa affinché possa sentirsi sciolto dal suo impegno di fedeltà e ben disposto all’avventura notturna che lei gli prepara. Organizza non solo il futuro immediato ma anche il futuro più lontano, facendo capire al cavaliere che non intende affatto proporsi come la rivale della Contessa -dalla quale gli consiglierà per altro di non separarsi. Gli impartisce insomma un corso accelerato di educazione sentimentale, gli insegna la sua filosofia pratica dell’amore, il quale va affrancato dalla tirannia delle regole morali e protetto con la discrezione, che fra tutte è la virtù suprema. E riuscirà anche, con la massima naturalezza, a spiegargli come dovrà comportarsi l’indomani con suo marito.


Vi vedo stupefatti: dove, in questo spazio così ragionevolmente organizzato, delimitato, tracciato, calcolato, misurato, dov’è il posto per la spontaneità, per una pazzia, dov’è dunque il delirio, l’accecamento del desiderio, l’amour fou osannato dai surrealisti, dov’è l’oblio di sé? Dove sono tutte quelle virtù dell’insensatezza che hanno plasmato la nostra idea dell’amore? No, non hanno nulla da spartire con questa vicenda. Madame de T. è la sovrana della ragione. Non della inesorabile ragione della Marchesa di Merteuil, ma di una ragione tenera e sollecita, di una ragione a cui è affidato il compito supremo di proteggere l’amore.


La vedo ora condurre il cavaliere attraverso il chiarore lunare. E la vedo fermarsi e mostrargli i contorni di un tetto che affiora dalla penombra: ah, di quali voluttà è stato testimone quel casinetto, peccato, gli dice, che non abbia con sé la chiave. Si avvicinano e (che caso strano! che caso inopinato!) la porta del casinetto è aperta.


Ma perché gli ha raccontato di non avere con sé la chiave? Perché non gli ha detto subito che quella porta non viene più chiusa? Tutto è premeditato, costruito, artificiale, tutto fa parte di una messa in scena, niente è sincero, in altre parole: tutto è arte; in questo caso, arte di prolungare l’attesa, o meglio ancora arte di prolungare quanto più possibile lo stato di eccitazione.

11

Denon non fornisce alcuna descrizione fisica di Madame de T. Di una cosa però sono certo: non può essere magra; suppongo anzi che abbia «forme rotonde e flessuose» (è con queste parole che Laclos caratterizza il personaggio femminile più seducente delle Relazioni pericolose), e che sia proprio la rotondità del corpo a produrre la rotondità e la lentezza dei movimenti e dei gesti. Tutto in lei esprime un placido ozio. Ella possiede la sapienza della lentezza e conosce a meraviglia la tecnica del rallentando. Lo dimostra in modo particolare nel corso della seconda tappa della notte, quella che ha come sfondo il casinetto.


I due entrano, si baciano, si lasciano cadere su un divano, fanno l’amore. Ma «tutto era stato alquanto precipitoso. Sentimmo di aver sbagliato ... Troppo ardenti, si è meno delicati. Ci si precipita verso il piacere senza discernere le delizie che lo precedono».


Questa precipitazione che fa loro smarrire la dolce lentezza viene percepita da entrambi come uno sbaglio; tuttavia non credo che Madame de T. ne sia sorpresa, penso piuttosto che ritenesse questo sbaglio inevitabile, fatale, che se lo aspettasse, e che abbia premeditato l’intermezzo del casinetto a ragion veduta, come un ritardando destinato a frenare, ad arginare la prevedibile e prevista rapidità degli eventi affinché, una volta giunta alla terza tappa, la loro avventura potesse, in uno scenario nuovo, dispiegarsi in tutta la sua splendida lentezza.


Così ella interrompe l’amore nel casinetto, e ricomincia a passeggiare nel parco in compagnia del cavaliere; si siede sulla panchina in mezzo al prato, riprende la conversazione e lo conduce poi in un boudoir segreto, situato accanto al suo appartamento, che il marito aveva fatto trasformare, prima del matrimonio, in un tempio incantato dell’amore. Giunto sulla soglia, il cavaliere rimane stupefatto: gli specchi che ricoprono interamente le pareti moltiplicano la loro immagine in modo tale da dare l’illusione che un infinito numero di coppie si amino attorno a loro. Ma non è lì che fanno l’amore: quasi volesse impedire una troppo possente esplosione dei sensi e prolungare quanto più possibile il tempo dell’eccitazione, Madame de T. conduce il cavaliere in una stanza attigua, una sorta di grotta immersa nell’oscurità e in cui è ammucchiata una profusione di cuscini; è solo qui che fanno l’amore, a lungo lentamente, fino all’alba.


Rallentando la corsa della loro notte, dividendo in parti distinte e separate fra loro, Madame de T. è riuscita a trasformare il breve arco di tempo a loro concesso in una meravigliosa architettura, in una forma. Dar forma a una durata è l’esigenza della bellezza, ma è anche quella della memoria. Ciò che è informe è inafferrabile, non memorizzabile. Concepire l’incontro come una forma è stato per loro tanto più prezioso perché quella notte era destinata a rimanere senza domani e non avrebbe potuto ripetersi che nel ricordo.


C’è un legame segreto fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio. Prendiamo una situazione delle più banali: un uomo cammina per la strada. A un tratto cerca di ricordare qualcosa, che però gli sfugge. Allora, istintivamente, rallenta il passo. Chi invece vuole dimenticare un evento penoso appena vissuto accelera inconsapevolmente la sua andatura, come per allontanarsi da qualcosa che sente ancora troppo vicino a sé nel tempo.


Nella matematica esistenziale questa esperienza assume la forma di due equazioni elementari: il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio.

12

Denon vivente, è probabile che solo una ristretta cerchia di iniziati riconoscesse in lui l’autore di Senza domani; e anche dopo la sua morte dovettero passare molti anni perché il mistero fosse svelato in modo certo e (probabilmente) definito. Il destino di questo racconto assomiglia dunque curiosamente alla storia che esso narra: rimase accolto nella penombra del segreto, della discrezione, della finzione, dell’anonimato.


Incisore, disegnatore, diplomatico, viaggiatore, intenditore d’arte, affascinante animatore di salotti e al tempo stesso uomo dalla brillante carriera, Vivant Denon non ha mai reclamato la proprietà artistica del racconto. Non che rifiutasse la gloria: è che all’epoca essa aveva tutt’altro significato. Il pubblico che lo interessava, e che voleva sedurre, non era affatto, a mio avviso, la massa di sconosciuti ai quali anela di piacere l’odierno scrittore, bensì il piccolo gruppo di quelli che poteva conoscere e stimare personalmente. Il piacere procuratogli dal plauso dei suoi lettori non dev’essere stato molto diverso da quello che provava di fronte ai pochi ascoltatori raccolti attorno a lui in uno dei salotti nei quali brillava.


Ci sono due specie di gloria: quella che precede l’invenzione della fotografia e quella successiva ad essa. Nel Trecento, il re ceco Venceslao si divertiva a frequentare le taverne di Praga e a chiacchierare in incognito con la gente del popolo. Aveva il potere, la gloria e la libertà. Il principe Carlo d’Inghilterra non ha alcun potere, alcuna libertà, ma ha una gloria immensa: che si trovi nella foresta vergine o nella sua vasca da bagno nascosta in un bunker diciassette piani sotto il livello del suolo, egli non può in alcun modo sfuggire agli occhi che lo inseguono e lo riconoscono. Ora che la gloria ha divorato interamente la sua libertà, egli sa che solo persone totalmente incoscienti possono oggi acconsentire a trascinarsi dietro i rumorosi barattoli della celebrità.


Mi direte che se il carattere della gloria cambia, questo riguarda in ogni caso solo pochi privilegiati. Vi sbagliate. Perché la gloria non riguarda solo la gente famosa, riguarda tutti. Oggi la gente famosa occupa le pagine dei settimanali e gli schermi televisivi, invadendo l’immaginazione di tutti. E tutti contemplano, almeno in sogno, la possibilità di diventare oggetto di una simile gloria (non quella del re Venceslao che frequentava le bettole, ma quella del principe Carlo nascosto nella sua vasca da bagno diciassette piani sotto il livello del suolo). Questa possibilità segue come un’ombra ciascuno di noi e cambia il carattere della nostra vita; perché (ed è un’altra definizione elementare e universalmente nota della matematica esistenziale) ogni nuova possibilità che si offre all’esistenza, anche la meno probabile, trasforma l’esistenza intera.

13

Forse Pontevin sarebbe meno feroce nei riguardi dell’intellettuale Berck se fosse a conoscenza dei fastidi che recentemente questi ha dovuto subire da parte di una certa Immacolata, sua ex compagna di classe da lui (invano) concupita ai tempi del liceo.


Un giorno - erano passati almeno vent’anni da allora - Immacolata vide Berck alla televisione, filmato mentre scacciava le mosche dal viso di una bambina negra; quell’immagine ebbe su di lei l’effetto di una folgorazione. All’improvviso capì di averlo sempre amato. Il giorno stesso gli scrisse una lettera nella quale faceva appello a quel loro antico ed innocente amore. In realtà Berck ricordava benissimo quanto il suo amore, lungi dall’essere innocente, fosse stato lussurioso, e quanto si fosse sentito umiliato allorché lei lo aveva respinto senza tanti riguardi. Era stata questa d’altronde la ragione per cui, ispirandosi al nome, che a lui sembrava un po’ comico, della cameriera portoghese dei suoi genitori, le aveva affibbiato il nomignolo, canzonatorio e malinconico a un tempo, di Immacolata, la Non-insozzata. Cosicché alla sua lettera reagì male (strano a dirsi, dopo vent’anni non aveva ancora digerito del tutto lo smacco subito), e non rispose.


Lei fu disorientata dal quel silenzio, e gli scrisse di nuovo, ricordandogli l’incredibile quantità di lettere d’amore che lui le aveva indirizzato. In una di esse la chiamava «uccello notturno che turba i miei sogni». A Berck, che nel frattempo se l’era dimenticata, questa frase suonò intollerabilmente sciocca, e gli sembrò scortese che lei gliel’avesse rammentata. In seguito gli giunse voce che ogni qualvolta lui appariva in televisione quella donna che non era riuscito a macchiare ne approfittava per blaterare in qualche cena sull’amore innocente di quel famoso Berck che un tempo non riusciva a dormire perché lei turbava i suoi sogni. Si sentì nudo e indifeso. Per la prima volta in vita sua provò un intenso desiderio di anonimato.


Arrivò una terza lettera, in cui lei gli chiedeva un favore, non per sé ma per una sua vicina, una povera donna che era stata curata malissimo in un ospedale: aveva rischiato di morire a causa di un’anestesia sbagliata, e ora le veniva rifiutato qualsiasi risarcimento. Visto che Berck sapeva occuparsi così bene dei bambini africani, che dimostrasse di interessarsi anche alla piccola gente del suo paese, seppure questo non gli dava la possibilità di pavoneggiarsi alla televisione.


Dopodiché fu la vicina a scrivergli, facendo il nome di Immacolata: «... Si ricorderà di quella ragazza alla quale Lei scrisse che era la Sua vergine Immacolata e turbava le Sue notti...». Possibile?! Possibile?! Correndo da un capo all’altro del suo appartamento, Berck urlò e sbraitò. Poi stracciò la lettera, ci sputò sopra e le gettò nella spazzatura.


Un giorno venne a sapere dal direttore di una rete televisiva che c’era un regista intenzionata a girare un documentario su di lui. Allora gli tornò in mente l’osservazione ironica sul suo desiderio di pavoneggiarsi alla televisione, e ne fu irritato: perché la regista in questione era proprio l’uccello notturno, Immacolata in persona! Una situazione incresciosa: in teoria, Berck riteneva eccellente la proposta di girare un documentario su di lui perché da sempre desiderava trasformare la sua vita in un’opera d’arte; ma fino a quel momento non lo aveva mai sfiorato l’idea che tale opera potesse appartenere al genere comico! Di fronte alla subitanea rivelazione di quel pericolo, decise di tenere Immacolata il più lontano possibile dalla sua vita e pregò il direttore (che rimase stupefatto da tanta modestia) di rimandare quel progetto, ancora prematuro per uno come lui, così giovane e così poco importante.

14

Questa storia me ne ricorda un’altra, che ho avuto la ventura di conoscere grazie alla biblioteca che copre interamente le pareti dell’appartamento di Goujard. Una volta che in sua presenza mi lamentavo del mio spleen, mi mostrò uno sul quale aveva scritto di suo pugno: «Capolavori di humor involontario», e con un sorriso pieno di malizia ne estrasse il libro che una giornalista parigina aveva scritto nel 1972 sul suo amore per Kissinger (suppongo vi ricordiate ancora il nome del più celebre uomo politico di quegli anni, consigliere del presidente Nixon e artefice della pace fra Stati Uniti e Vietnam).


Ed ecco la storia. La giornalista va a Washington per intervistare Kissinger, prima per conto di una rivista, poi per la televisione. Si incontrano parecchie volte, ma senza mai oltrepassare i limiti di un rapporto strettamente professionale: una o due cene per preparare la trasmissione, qualche visita nel suo ufficio della Casa Bianca e a casa sua, in un primo momento da sola, in seguito insieme alla troupe, ecc. A poco a poco Kissinger comincia a trovarla insopportabile. E poiché ha capito perfettamente che cosa sta succedendo, per tenerla a distanza le lancia messaggi eloquenti riguardo all’attrazione che il potere esercita sulle donne e sul fatto che la sua funzione lo costringe a rinunciare a ogni specie di vita privata.


La giornalista riferisce con commovente sincerità di questi tentativi che Kissinger faceva per schermirsi, tentativi che per altro non scalfivano la sua incrollabile convinzione che il cielo li avesse destinati l’uno all’altra. Che lui si mostri cauto e diffidente non la stupisce: sa bene quali orribili donne abbia conosciuto prima di lei. E non ha dubbi: non appena si renderà conto di quanto lei lo ami, tutte le sue perplessità e le sue cautele verranno meno. Ah, è talmente certa della purezza del suo amore! È pronta a giurarlo: non si tratta assolutamente da parte sua di un’ossessione erotica. «Sessualmente non mi attraeva» scrive, e si affanna a ripetere (con una sorta di curioso sadismo materno) che lui si veste male, che non è bello e che in fatto di donne ha gusti deplorevoli. «Doveva essere un pessimo amante» sentenzia, pur continuando a proclamarsene innamorata. Lei ha due figli, lui pure; e allora programma, senza che lui ne sappia niente, una vacanza collettiva sulla Costa Azzurra, tutta contenta che i due piccoli Kissinger possano approfittarne per imparare il francese in modo piacevole.


Un giorno manda i suoi operatori a filmare l’appartamento di Kissinger e questi, ormai fuori di sé, li mette alla porta come una massa di importuni. Un’altra volta lui la convoca nel suo ufficio e le dice, con un tono incredibilmente severo e freddo, che non ha più intenzione di tollerare la maniera ambigua in cui lei si comporta nei suoi riguardi. Sulle prime la donna è al colmo della disperazione. Subito dopo, però, comincia a riflettere: è evidente che la si considera politicamente pericolosa e che Kissinger ha ricevuto dal controspionaggio l’ingiunzione di non vederla più; l’ufficio in cui si trovano è imbottito di microfoni, e lui lo sa: quelle frasi così inconcepibilmente crudeli non erano dunque rivolte a lei, ma agli invisibili poliziotti in ascolto. Lo guarda con un sorriso comprensivo e malinconico, e la scena le sembra irradiare una bellezza tragica (è l’aggettivo che usa in continuazione): nel momento stesso in cui lui è costretto a farle del male, i suoi occhi le parlano d’amore.


Goujard ride, ma io gli dico: la verità, del tutto ovvia, della situazione reale che traspare dietro le fantasie dell’innamorata è meno importante di quanto lui pensi, è soltanto una verità meschina, una verità terra terra, che impallidisce di fronte a un’altra, più alta e destinata a resistere al tempo: la verità del Libro. Perché fin dal primo incontro con il suo idolo il libro troneggiava invisibile là, sul tavolino che avevano davanti, ed era già allora lo scopo inconfessato e inconsapevole di tutta l’avventura. Il libro? E a che serviva? A delineare un ritratto di Kissinger? Macché: non aveva assolutamente nulla da dire su di lui! L’unica cosa che le stava a cuore era la sua verità su se stessa. Non desiderava Kissinger, e tanto meno il suo corpo («doveva essere un pessimo amante»), desiderava allargare il suo io, farlo uscire dal cerchio angusto della sua esistenza, farlo rifulgere, trasformarlo in luce. Kissinger era per lei un destriero mitologico, un cavallo alato che il suo io aveva decido di inforcare per il grande volo attraverso i cieli.


«Era una stupida» conclude seccamente Goukard facendosi beffe delle mie belle spiegazioni.


«Niente affatto,» gli dico «i testimoni confermano la sua intelligenza. Qui è in gioco qualcosa di diverso dalla stupidità. Il fatto è che lei aveva la certezza di essere un’eletta».