sabato 29 dicembre 2018


SCENE DALLA VITA DI UN VILLAGGIO
Amos Oz
Titolo dell’opera originale SCENES FROM A VILLAGE LIFE © 2009 Amos Oz
Traduzione dall’ebraico di ELENA LOEWENTHAL
© Giangiacomo Feltrinelli
Indice
-Eredi
-Parenti

Eredi
1.
Non sembrava del tutto forestiero. Qualcosa nella sua persona l’aveva a un tempo respinto e attirato sin dal primo sguardo, sempre che fosse tale: ad Arieh Zelnik pareva proprio di ricordarlo, quel viso, e le braccia così lunghe che arrivavano fin quasi alle ginocchia. Una vaga reminiscenza, come di un’altra vita.
Il tizio parcheggiò davanti al cancello del giardino una macchina beige, piuttosto sporca, che aveva sul parabrezza posteriore così come sui finestrini laterali un mosaico di adesivi colorati, pieni di punti esclamativi, slogan, consigli, proclami. Chiuse l’auto e prima di lasciarla diede un energico scossone a ogni portiera per controllare che non fosse aperta. Poi assestò una leggera pacca, anzi due, sul cofano, quasi che la macchina fosse un vecchio ronzino legato a un palo, da rassicurare affettuosamente sul fatto che l’attesa non sarebbe stata lunga. Dopo di ciò, spinse il cancello e si diresse verso la terrazza, ombreggiata da un pergolato di vite. Aveva un’andatura baldanzosa eppure un poco sofferta, quasi stesse camminando a piedi nudi sulla sabbia calda.
Dalla sua postazione sulla sedia amaca in fondo al giardino, da dove vedeva senza essere visto, Arieh Zelnik teneva d’occhio lo sconosciuto da quando aveva parcheggiato l’auto. Ma più ci provava, meno riusciva a farsi venire in mente chi fosse quel forestiero dall’aria vagamente familiare. Dove l’aveva già visto? E quando? Durante uno dei suoi viaggi all’estero? A militare? In ufficio? All’università? O forse ancora ai tempi della scuola? Quell’uomo aveva un’aria furba e soddisfatta, come se gli fosse appena andata in porto una diabolica macchinazione. Dietro, o piuttosto da sotto quella faccia sconosciuta, ne trapelava un’altra - una faccia nota, sgradevole, inquietante: quella di qualcuno che ti aveva fatto del male, una volta? O al contrario, eri tu in torto con lui, e non te lo ricordavi più?
Come un sogno di cui nove decimi scompaiono e solo un lembo ancora balugina nella mente.
Arieh Zelnik era comunque deciso a non alzarsi in onore del visitatore, e rimanere invece ad accoglierlo lì dalla sedia amaca, sulla terrazza di fronte a casa.
Lo sconosciuto percorse di fretta il sentiero che conduceva dal cancello agli scalini della terrazza, con gli occhietti che correvano incessantemente a destra e a sinistra, come nel timore di esser scoperto troppo presto, o forse invece per paura che un cane mordace balzasse fuori dalla siepe di bouganvillea spinosa ai due lati del vialetto.
Aveva radi capelli biondastri, il collo rosso con la pelle rugosa e cascante che ricordava il gozzo di un tacchino, due occhi della consistenza dell’acqua torbida che roteavano come dita invadenti, e le braccia lunghe, scimmiesche: tutto in lui destava un’ansia astratta.
Dalla sua posizione appartata, lì sulla sedia amaca all’ombra della vite rampicante, Arieh Zelnik notò che l’uomo era sì corpacciuto, ma anche un poco flaccido - come se fosse appena guarito da una grave malattia, come se fino a poco tempo prima fosse stata una persona robusta e solo ultimamente avesse subito un crollo interno da farlo rattrappire dentro la propria pelle. Anche il giubbotto beige scuro con le tasche gonfie sembrava troppo largo, e gli cascava giù dalle spalle.
Era fine estate e il sentiero era perfettamente asciutto, tuttavia lo sconosciuto si fermò per strofinare bene le suole delle scarpe sul tappetino ai piedi delle scale. Terminata quell’operazione, alzò prima un piede e poi l’altro, ripetendo due volte il controllo delle suole. Quando fu ben sicuro della pulizia, salì i gradini, studiò la porta a rete in cima alla scala e solo dopo aver bussato timidamente più volte senza ottenere risposta, voltò lo sguardo e scoprì finalmente il padrone di casa accomodato nella sedia amaca circondata da grandi piante e vasi di felci in un angolo sotto il pergolato, nel cuore dell’ombra.
Lo sconosciuto sfoderò subito un sorriso largo, quasi fece la riverenza, e si schiarì la gola prima di esordire con un’esclamazione:
Che posto magnifico, qui da voi, signor Zelkin! Strabiliante! È proprio la Provenza d’Israele! Ma quale Provenza! Toscana! E che panorama! Il bosco! La vigna! Tel Ilan è davvero il borgo più incantevole di tutto questo levantino paese. Bellissimo! Ah, buongiorno, signor Zelkin. Mi scusi. Spero di non, per caso non disturbo, vero?
Arieh Zelnik ricambiò con un secco buongiorno, dichiarò che si chiamava Zelnik e non Zelkin, e precisò che con suo rammarico qui da noi non c’era l’abitudine di comprare dai piazzisti.
Giusto! Assolutamente giusto! tuonò il tizio asciugandosi con la manica il sudore della fronte, come si fa a sapere se si ha davanti un piazzista vero e non un truffatore bell’e buono? O, per carità di Dio, un vero e proprio criminale venuto a studiare il terreno per la sua banda di scassinatori? Però, signor Zelnik, io non sono mica un piazzista, no. Sono insistente!
Che?
Wolff Maftzir, “insistente”.1 Avvocato Maftzir dello studio Luts-Prujinin. Molto lieto, signor Zelnik. Sono venuto qui da lei, signore, per una questione, come spiegare, forse sarebbe meglio evitare di definirla, la questione, e piuttosto di andare dritti al dunque. Mi scusi, posso sedermi? Si tratterà di un chiarimento più o meno personale, non personale che riguarda me, per carità, perché non avrei mai e poi mai osato essere tanto invadente da disturbare in questo modo, senza preavviso. In effetti
1 Maftzir significa insistente, implorante [N.d.T.]
ci abbiamo provato, eccome se abbiamo provato, quante volte ci abbiamo provato, ma il suo numero di telefono è riservato e alle nostre lettere ha preferito non rispondere. Pertanto abbiamo deciso di tentare la sorte con questa improvvisata, e ci scusiamo sin d’ora per la seccatura. In effetti non è una cosa che facciamo abitualmente, figuriamoci, questa qui di fare irruzione nella privacy del prossimo, e per di più quando quel prossimo si sta godendo il posto più bello del paese. Comunque sia, cioè. Non è certamente solo una questione personale, la nostra. No, no. Assolutamente no. Cioè, è l’opposto in effetti, il motivo di questa mia sarebbe, come spiegarlo con un briciolo di tatto, potremmo dire così: il motivo di questa mia riguarda una questione personale sua, signore. Una questione personale sua e non solo nostra. Per meglio dire, la faccenda riguarda la sua famiglia. Diciamo pure famiglia in senso generico, ma anche specifico - un membro della sua famiglia, signor Zelkin, un certo parente. Non ha nulla in contrario se ci sediamo e ne parliamo per un momento, vero? Le prometto che farò del mio meglio affinché tutta la pratica non duri più di dieci minuti, va bene? Benché in fondo questo dipenda solo da lei, signor Zelkin.
Arieh Zelnik disse:
Zelnik.
E poi aggiunse:
Si sieda.
E subito dopo:
No, non qui. Qui.
Quel tizio grasso, o piuttosto ex grasso, aveva osato accomodarsi sulla sedia amaca gemella, proprio accanto al padrone di casa, ginocchio contro ginocchio, lui con il suo effluvio di densi odori che lo avvolgeva come una fedele scorta - lezzo di digestione, di calze, di talco e di ascelle. Su tutte quelle esalazioni era tesa una trama sottile che sapeva di aspro dopobarba. Ad Arieh Zelnik tornò improvvisamente alla memoria il padre, perché anche lui copriva sempre gli odori corporei con quell’aroma troppo forte.
Il visitatore scattò in piedi all’istante, barcollò leggermente con le braccia da scimmia appoggiate sulle ginocchia, chiese scusa e cambiò posto, posando il retro dei suoi pantaloni troppo larghi nel posto indicatogli, e cioè su una panca di legno dall’altra parte del tavolo da giardino. Era fatto di listelle di legno semipiallato, un po’ come le traversine sui binari del treno. Per Arieh era fondamentale che la madre malata non scorgesse dalla finestra il visitatore - nemmeno di spalle, nemmeno l’ombra sullo sfondo del pergolato. Per questa ragione, l’aveva messo seduto in un punto fuori dal campo visivo di lei.
Quanto a quella sua voce cantilenante e oleosa, ci avrebbe pensato la sordità a tenere sua madre al riparo.
2.
Tre anni prima Naama, la moglie di Arieh Zelnik, era andata a trovare Telma Grant, la sua migliore amica, a San Diego. E non era più tornata. Non gli aveva scritto esplicitamente che aveva deciso di mollarlo, l’aveva solo lasciato intendere, dapprima con molta delicatezza: per ora non torno. Dopo sei mesi aveva scritto: resto ancora qui con Telma. Più tardi aveva comunicato: non è il caso che continui ad aspettarmi. Lavoro nello studio di Telma con Telma alla rigenerazione della gioventù. E in un’altra lettera: io e Telma stiamo bene insieme, abbiamo un karma simile. E ancora: la nostra guida spirituale trova che sarebbe giusto per noi non rinunciare l’una all’altra. Tu te la caverai. Vero che non sei arrabbiato?
La loro figlia sposata, Hila, gli aveva scritto da Boston: papà, per il tuo bene, ti suggerisco di non insistere con mamma. Ti rifarai un’altra vita.
Visto che con Eldar, il figlio primogenito, aveva troncato da tempo i rapporti, e che a parte questi pochi parenti non aveva nessun altro, l’anno prima Zelnik aveva deciso di smantellare l’appartamento sul Carmelo e tornare a vivere con sua madre nella loro vecchia casa a Tel Ilan, tirando avanti con l’affitto di due alloggi a Haifa e dedicandosi al suo hobby.
Già, si era rifatto un’altra vita, proprio come gli aveva suggerito sua figlia.
In gioventù Arieh aveva prestato servizio in Marina. Sin dalla più tenera infanzia aveva sempre sprezzato il pericolo, che si trattasse del fuoco nemico o di un’arrampicata su roccia. Ma con gli anni gli era venuto il terrore del buio, in quella casa vuota. Per questo aveva deciso di tornare a vivere accanto alla madre, nella vecchia dimora di campagna in cui era nato e cresciuto, in fondo al paese di Tel Ilan. La madre, Rosalia, ormai sulla novantina, era sorda, gobba e non parlava quasi più. Lo lasciava libero di passare gran parte della giornata a occuparsi della casa, senza essergli di peso e senza quasi mai fare commenti o domande. Ogni tanto Arieh Zelnik prendeva in considerazione l’eventualità che sua madre si ammalasse o che invecchiasse al punto da non essere più autosufficiente e costringerlo a imboccarla, pulirla e cambiarla. O a doversi prendere in casa una badante: in quel caso, la quiete domestica sarebbe andata a scatafascio e la vita di lui sarebbe stata esposta a occhi estranei. A volte sperava, o quasi si augurava, che sua madre peggiorasse decisamente, quanto prima, di modo da avere una giustificazione tanto logica quanto sentimentale al suo ricovero in un istituto adatto, così da poter disporre di tutta la casa. E portarci liberamente una moglie nuova, e bella. O anche nessuna moglie, piuttosto una serie di ragazze giovani. E magari buttar giù qualche muro interno, rinnovare tutta la casa. Sì che sarebbe cominciata un’altra vita.
Nel frattempo i due, figlio e madre, continuavano a vivere in quella casa un poco buia e piuttosto vecchia, in pace e silenzio. Ogni mattina arrivava la donna di servizio, portava la spesa secondo la lista, sistemava, puliva, cucinava, e dopo aver servito il pranzo a madre e figlio se ne andava in silenzio. Per gran parte della
giornata la madre se ne stava in camera sua a leggere vecchi libri, mentre Arieh ascoltava la radio o fabbricava modellini di aerei in legno di balsa.
3.
L’ospite mostrò tutt’a un tratto un sorriso sagace, ruffiano, un sorriso che pareva un occhiolino, come per proporre al padrone di casa: che ne dici, facciamo un peccatuccio insieme? Tradiva tuttavia anche il timore che quella proposta potesse costargli cara. Poi chiese cordialmente:
Scusi, con il suo permesso potrei prenderne un po’, per favore?
Data la vaga parvenza di cenno di sì da parte del padrone di casa, il tizio si servì immediatamente dalla caraffa di vetro posata sul tavolo, riempiendosi di acqua ghiacciata con una fettina di limone e alcune foglie di menta l’unico bicchiere presente sul posto, nella fattispecie quello di Arieh Zelnik. Accostò le sue labbra carnose al bordo e ingurgitò il contenuto del bicchiere con cinque, sei rumorose sorsate; se ne versò un altro mezzo bicchiere, che svuotò con la medesima sguaiataggine, e subito dopo si giustificò:
Mi scusi! È solo che qui da lei, su questa magnifica terrazza, non ci si accorge mica di che caldo fa oggi. Ah, molto caldo. Molto! Comunque, malgrado questo caldo torrido, il posto è davvero magnifico! Tel Ilan è proprio il posto più bello di tutto il paese! Provenza! Ma quale Provenza! Toscana! Boschi! Vigneti! Case coloniche di cent’anni fa, tetti rossi e cipressi altissimi! E adesso che ne pensa lei, signore? Preferisce che parliamo ancora un po’ del paesaggio? O mi permette di arrivare alla nostra timida agenda, senza troppi giri di parole?
Arieh Zelnik disse:
Ascolto.
Famiglia Zelnik, discendenti di Leon Akabiah Zelnik. Se non erro, voi qui siete fra i pionieri del posto, vero? I primissimi fondatori, vero? No? Novant’anni fa? Quasi cento, addirittura?
Si chiamava Akiba Arieh, non Leon Akabiah.
Certo, s’infervorò l’ospite, famiglia Zelkin. Onoriamo la vostra epopea. Altro che onorare. Ci inchiniamo! Al principio, se non erro, arrivarono i fratelli maggiori, Boris e Simon Zelkin, approdati qui da un paesino della regione di Kharkow, per fondare una nuova comunità agricola nel cuore di questa selvaggia zona dei monti di Manasse. Non c’era nulla, qui. Se non steppa di rovi. Non c’erano nemmeno villaggi arabi, in questa vallata, ma solo sul versante opposto delle colline. In seguito arrivò anche il fratello più piccolo di Boris e Simon, Leon o, se proprio ci tiene, Akabiah Arieh. Più tardi, stando almeno a quanto dice la storia, Simon e Boris se ne tornarono uno dopo l’altro in Russia, dove il primo fece fuori il secondo a colpi d’ascia, così solo suo nonno - il nonno, vero? o era il padre del nonno? - insomma, solo Leon Akabiah resistette qui. Non Akabiah? Akiba? Mi scusi. Akiba. In breve, la faccenda è
questa: per caso salta fuori che noi, i Maftzir, anche noi siamo originari della zona di Kharkow! Proprio dai boschi di laggiù! Maftzir! Mai sentiti nominare? Abbiamo avuto un famoso cantore, Shaiah Leib Maftzir, e un certo Gregory Moyseyvitz Maftzir, grande generale dell’Armata Rossa. Un pezzo grosso, ma Stalin l’ha preso e fatto fuori. Nelle epurazioni degli anni trenta.
Ciò detto, il tizio si alzò in piedi e con le sue braccia da scimmia mimò il plotone di esecuzione e simulò il rumore di una raffica di spari, scoprendo i denti davanti, aguzzi ma non propriamente bianchi. Poi tornò sorridendo a sedersi sulla panca: pareva alquanto soddisfatto dal buon esito di quella condanna a morte. Arieh Zelnik ebbe l’impressione che quel tizio si aspettasse un applauso, o almeno un sorriso in cambio del suo, quasi sdolcinato.
E tuttavia il padrone di casa decise di non ricambiare con nessun sorriso. Anzi, scostò un poco il bicchiere usato e la caraffa di acqua fredda sul tavolo prima di dire: Sì?
L’avvocato Maftzir strinse la mano sinistra nella destra e la premette allegramente, come se non vedesse se stesso da un bel pezzo e quest’incontro inatteso lo rallegrasse oltremodo. Sotto la sua disinvolta profusione di parole, gorgogliava un fiume carsico di inesauribile soddisfazione, un fiotto di compiaciuta euforia:
Bene. Dunque è ora di scoprire le carte sul tavolo, come si dice. Se mi sono permesso di fare irruzione qui da lei quest’oggi, è in nome di questioni personali che riguardano fors’anche la sua cara mamma, possa campare cent’anni e passa. Cioè, l’anziana e onorevolissima signora, no? Ovviamente, ovviamente, solo se lei non ha nulla in contrario ad affrontare questo delicato argomento, no?
Arieh Zelnik disse:
Dica.
Il visitatore si alzò, si tolse il giubbotto beige, tonalità sabbia sporca, mostrando così grandi pezze di sudore sotto le ascelle, sulla camicia bianca; poi appese il giubbotto allo schienale, si riaccomodò e disse:
Scusi. Spero che non le dia fastidio. È che oggi fa un caldo. Permette che mi tolga la cravatta? E per un attimo sembrò un bambino spaventato, un bambino che sa di meritarsi una ramanzina e si vergogna a fare il piagnone. Ma quell’espressione sparì nel giro di un momento.
Visto che il padrone di casa taceva, l’uomo strattonò la cravatta per sfilarla, con un gesto che ad Arieh Zelnik rammentò suo figlio Eldar, e sentenziò lì per lì:
Fintanto che sua madre ci sta fra i piedi, non possiamo realizzare la proprietà.
Scusi?
Allora troviamole una buona sistemazione in un istituto di ottimo livello. Ce l’ho. Cioè, non proprio io, il fratello del mio socio. Ci vuole solo il consenso di lei. O forse potrebbe essere più facile per noi farci nominare suoi tutori legali? Così non ci vorrebbe il suo consenso, no?
Arieh Zelnik annuì più volte, grattandosi con le unghie della mano destra il dorso della sinistra. In effetti, proprio ultimamente gli era capitato di pensare all’eventualità di sua madre malata e a quel che sarebbe stato di lei, e di lui, qualora non fosse più stata autosufficiente di corpo e di testa, e al momento in cui lui avrebbe dovuto prendere una decisione... Talvolta era davvero preoccupato al pensiero di doversi
congedare da sua madre, sapeva che la cosa l’avrebbe intristito e mortificato molto, ma in altri momenti quasi si augurava che lei declinasse al più presto, e pensava alle prospettive che gli si sarebbero aperte, una volta messa fuori di casa. Un giorno aveva persino invitato qui Yossi Sasson, l’immobiliarista, per fare una stima della proprietà. Quelle inconfessabili speranze destavano in lui sensi di colpa e anche disgusto. Ma ora trovava davvero strano che quello sgradevole individuo gli stesse leggendo nel pensiero quelle brutte cose. Chiese allora al signor Maftzir di riprendere dal principio: chi esattamente rappresentava, lui? Per conto di chi era stato mandato qui?
Wolff Maftzir ridacchiò:
Maftzir. Mi chiami Maftzir e basta. O Wolff. Fra parenti il “signor” è superfluo, no?
4.
Arieh Zelnik si alzò in piedi. Era grande e grosso e molto più alto di Wolff Maftzir, con due spalle larghe e robuste - e tuttavia i due avevano in comune le braccia troppo lunghe, che arrivavano fin quasi alle ginocchia. Poi fece due passi, andando con tutta la sua mole a incombere sopra l’ospite. E disse:
Allora che vuole.
Pronunciò la frase senza il punto interrogativo in fondo, e intanto si slacciò un bottone della camicia, dalla quale spuntava ora il torace grigio, peloso.
Wolff Maftzir squittì con una vocetta mite:
Che fretta c’è, signore, la nostra operazione è meglio se procede prudentemente, con pazienza, sotto ogni profilo: non deve fare una grinza, non dev’esserci la minima pecca. Non possiamo permetterci di sbagliare nessun dettaglio.
Arieh Zelnik trovava flaccido, un po’ cascante quel tizio. Come se avesse una misura di pelle troppo grande per lui, con quel giubbotto che prima gli pendeva dalle spalle come il cappotto addosso allo spaventapasseri dell’orto. E quegli occhi acquosi, anche un po’ torbidi. Eppure dava mostra anche di una certa quale agitazione, come se temesse di essere colto alla sprovvista.
La nostra operazione?
Cioè, il problema della vecchia signora. Cioè, la signora sua madre, dato che la nostra proprietà è tuttora intestata a lei e tale resterà sino alla fine dei suoi giorni e chissà che cosa le è venuto in mente di scrivere nel suo testamento, prima che noi due si riesca a farci nominare suoi tutori.
Noi due?
Questa casa, la si potrebbe demolire e costruire un sanatorio. Un centro benessere. Potremmo metter su un posto che non temerebbe confronti in tutto il paese: aria buona, quiete bucolica, paesaggio campestre che non ha nulla da invidiare alla Provenza o alla Toscana, erbe officinali, massaggi, meditazione, spiritualità, la gente pagherà fior di quattrini per quel che il nostro posto potrà offrire loro.
Scusi, da quando in qua noi ci conosciamo?
Ma già ci conosciamo, no? Siamo amici. Non solo amici, mio caro: praticamente parenti. E persino soci.
Alzandosi, probabilmente Arieh Zelnik intendeva indurre l’ospite a ritenersi costretto a fare lo stesso, e andarsene donde era venuto. E invece quell’altro non si alzò affatto, rimase seduto dov’era, allungando persino la mano per servirsi un altro bicchiere di acqua ghiacciata con una fetta di limone e qualche foglia di menta - sempre lo stesso bicchiere che era stato di Arieh Zelnik fino al momento in cui quel tizio l’aveva espropriato a proprio uso e consumo. Come se non bastasse, si appoggiò indietro contro lo schienale. In quel momento, con la camicia chiazzata di sudore sotto le ascelle e senza più giubbotto né cravatta, Wolff Maftzir pareva un commerciante con tutto il tempo di questo mondo a disposizione, uno di quei sudaticci mercanti di bestiame che, armati di pazienza ma anche di astuzia, arrivavano in campagna a trattare con i contadini la compravendita di un bel bovino grasso da cui, sembravano convinti, entrambe le parti avrebbero avuto da guadagnarci. Ora tradiva una certa qual malizia, una sorta di inconfessabile spensieratezza, che non era del tutto estranea neanche al padrone di casa.
Io, mentì Arieh Zelnik, adesso debbo entrare in casa. Ho una cosa da sbrigare. Mi scusi.
Io, sorrise Wolff Maftzir, non ho alcuna fretta. Col suo permesso, resto qui ad aspettarla. O forse sarebbe meglio che venissi dentro con lei, a far la conoscenza della signora. Devo quanto prima conquistare la sua fiducia.
La signora, disse Arieh Zelnik, non riceve ospiti.
Io, insistette Wolff Maftzir alzandosi dalla panca, belle pronto a seguire il padrone di casa all’interno, non sono propriamente un ospite. In fondo, come dire, siamo parenti, in un certo senso, no? Soci, anche, no?
Arieh Zelnik si ricordò tutt’a un tratto del consiglio che gli aveva dato sua figlia Hila, quello cioè di lasciar perdere la mamma, di non forzare il suo ritorno da lui, e tentare invece di rifarsi una vita. A dire la verità, non si era mai messo gran che d’impegno per far tornare a casa Naama: dopo che era partita per andare dalla sua migliore amica Telma Grant a seguito di un tremendo litigio fra loro due, Arieh Zelnik aveva messo in valigia tutti i suoi vestiti e le sue cose e aveva spedito il bagaglio all’indirizzo di Telma a San Diego. E quando suo figlio Eldar aveva troncato i rapporti, lui aveva imballato e gli aveva spedito i suoi libri e persino i giocattoli di quand’era bambino. Aveva sgombrato il campo, insomma, come si fa con le postazioni nemiche alla fine della battaglia. Qualche mese più tardi anche lui aveva fatto i bagagli e abbandonato l’appartamento di Haifa, per venire ad abitare a casa di sua madre, qui a Tel Ilan. Ora non desiderava altro che una quiete assoluta: giorni sempre uguali a se stessi, ore e ore libere.
Ogni tanto andava a fare una lunga passeggiata intorno al paese e fuori, tra le colline che circondavano la piccola valle, per le piantagioni di alberi da frutto, nelle macchie di pini. Oppure passava una mezz’ora nel loro terreno, fra i resti della fattoria di suo padre, dismessa ormai da molti anni. Alcune baracche erano ancora più o meno in piedi, e c’erano anche pollai, tettoie di lamiera, un fienile, la stalla dei vitelli da latte ormai abbandonata. La scuderia era diventata un deposito in cui
stavano accatastati i mobili della casa che aveva smantellato a Haifa, sul monte Carmelo. Lì, in quella che era stata un tempo una scuderia, accumulavano polvere le poltrone e il divano, i tappeti, la credenza e il tavolo del salotto di Haifa, e una sottile trama di ragnatele si stava piano piano intessendo fra di loro. Anche il vecchio letto matrimoniale suo e di Naama era finito lì, in piedi su un fianco, in un angolo della scuderia. Il materasso invece stava sepolto sotto un mucchio di cuscini polverosi.
Arieh Zelnik disse:
Mi scusi. Ho da fare.
Wolff Maftzir disse:
Ma certo. Scusi lei. Non voglio disturbare, mio caro, assolutamente no. Anzi. Da questo momento sarò muto come un pesce. Non dirò più nulla.
Con ciò, si mise in piedi e seguì il padrone di casa all’interno - dove dimorava una fresca penombra e stagnava odore di sudore e vecchiaia.
Arieh Zelnik non demorse:
Per favore mi aspetti fuori.
Anche se avrebbe voluto dire, con una certa dose di sgarbataggine, che quella visita poteva considerarsi conclusa e che l’ospite era pregato di levarsi dai piedi.
5.
Solo che l’ospite manco se lo sognava, di levarsi dai piedi. Seguì anzi disinvoltamente Arieh Zelnik, e attraversando il corridoio aprì una porta dopo l’altra, studiando con tutta calma la cucina, la biblioteca, la stanza degli hobby di Arieh Zelnik dove, appesi al soffitto con dei fili robusti, i suoi modellini di aerei in legno di balsa dondolavano lentamente nell’aria, come in procinto di ingaggiare una feroce battaglia. Arieh Zelnik pensò che anche lui faceva così, da bambino: apriva tutte le porte chiuse e controllava sempre se dietro si nascondeva qualcosa.
Attraversato tutto il corridoio, giunsero in fondo alla casa; qui Arieh Zelnik si fermò per sbarrare con il proprio corpo l’ingresso nella sua stanza da letto, che un tempo era stata quella di suo padre. Ma Wolff Maftzir non aveva la benché minima intenzione di invadere la stanza da letto del padrone di casa, e invece bussò timidamente alla porta della vecchia sorda e visto che non giunse risposta, sfiorò con una carezza la maniglia della porta e la aprì dolcemente. Dentro c’era la signora Rosalia, a letto, coperta fino al mento da una coltre di lana, in mezzo al materasso matrimoniale, la testa avvolta in un fazzoletto, gli occhi chiusi e le mascelle ossute, prive di denti, che si muovevano in un’eterna masticazione.
Proprio come pensavamo, Wolff Maftzir ridacchiò. Buongiorno cara signora, ci siete mancata tantissimo e avevamo tanto desiderio di venire a trovarla, è contenta di vederci, vero?
Ciò detto, si chinò su di lei e la baciò due volte, due lunghi baci sulle guance, e poi un altro ancora sulla fronte, finché la vecchia aprì gli occhi annebbiati e allungò una
mano ossuta da sotto la coperta per carezzare Wolff Maftzir sul capo e mormorare qualcosa, e anche l’altra mano a un certo punto spuntò da sotto la coperta, così con tutte e due trasse a sé il capo di lui che, accondiscente, si chinò ancora su di lei. Poi si tolse le scarpe lasciandole ai piedi del letto e la baciò sulla bocca sdentata e si distese accanto a lei sul letto, tirando i lembi della coperta fin sopra di sé e da lì sotto disse ecco, così, e poi disse: buongiorno carissima signora.
Arieh Zelnik esitò, poi rivolse lo sguardo alla finestra aperta, da dove si vedevano i casotti abbandonati della fattoria e un cipresso polveroso su cui si arrampicava una bouganvillea arancione con i suoi denti di fiamma. Fece il giro del letto matrimoniale, abbassò la persiana, chiuse la finestra e anche le tende e mentre nella stanza calava il buio, si slacciò la camicia e la cintura dei pantaloni, si tolse le scarpe e si distese a letto accanto all’anziana madre. Eccoli tutti e tre: la signora padrona di casa, il figlio taciturno e lo sconosciuto che continuava ad accarezzarla e baciarla mormorando dolcemente che tutto sarebbe andato per il meglio, carissima signora, tutto sarebbe stato bello qui, tutto si sarebbe sistemato.
Parenti
1.
Il buio precoce nei pomeriggi di febbraio era già calato sul paese. Ghili Steiner era sola alla fermata dei pullman, sotto la pallida luce di un lampione. La sede del consiglio municipale era chiusa, con le persiane serrate, così come quelle delle case vicine, donde sbucavano i suoni della televisione. Un gatto randagio comparve davanti ai bidoni della spazzatura con il suo passo lento e felpato, la coda dritta, la pancia un po’ gonfia. Attraversò pigramente la strada e sparì fra i cipressi.
L’ultimo pullman da Tel Aviv arrivava a Tel Ilan alle sette di sera. Alle sette meno venti, la dottoressa Ghili Steiner, medico condotto presso l’ambulatorio del servizio sanitario, andò alla fermata davanti alla sede del consiglio municipale ad aspettare suo nipote Ghideon Ghet, militare di leva. Mentre seguiva il corso di addestramento carristi, Ghideon aveva avuto un problema ai reni ed era stato ricoverato in ospedale. Ora ch’era stato dimesso, sua madre l’aveva spedito a trascorrere qualche giorno di riposo a casa della sorella, medico condotto del paese.
La dottoressa Steiner era una signorina magra, raggrinzita e spigolosa con i capelli grigi cortissimi, un viso severo e degli occhiali con le lenti quadrate con la montatura a giorno. Era una donna energica e, benché ne dimostrasse di più, aveva circa quarantacinque anni. A Tel Ilan era considerata una diagnostica eccezionale che non sbagliava quasi mai nelle sue prognosi ma, così almeno si diceva qui, aveva un modo di fare burbero e scostante e non manifestava alcuna simpatia verso i malati e le loro sofferenze, limitandosi ad auscultarli con molta attenzione. Non aveva mai messo su famiglia ma i suoi coetanei del villaggio si ricordavano che da giovane aveva avuto una storia con uno sposato che poi era caduto durante la Guerra del Libano.
Ora si sedette sulla panchina della fermata ad aspettare suo nipote, abbassando di tanto in tanto lo sguardo sull’orologio da polso. Sotto la fioca luce del lampione, le lancette erano così vaghe che non c’era modo di capire per quanto tempo avrebbe ancora dovuto aspettare il pullman. Sperava che non fosse in ritardo, e che Ghideon fosse a bordo. Era talmente distratto, quel ragazzo: capace che si era confuso ed era
salito sul pullman sbagliato. E adesso che era reduce da quella grave malattia, sicuro che era ancor più sbadato del solito.
Nel frattempo, la dottoressa Steiner respirava a pieni polmoni l’aria buona di una fine giornata d’inverno, fredda e secca. Dei cani abbaiarono nei cortili, e sopra il tetto del municipio stava appesa una luna quasi piena, che spandeva il suo scheletrico chiarore sulla strada, sui cipressi e sulle siepi di cinta. Una sottile foschia avvolgeva le cime degli alberi, quasi spogli. Negli ultimi anni, Ghili si era iscritta a due dei corsi che si svolgevano alla Casa della Cultura di Tel Ilan sotto la direzione di Dalia Levin, ma senza trovarvi quel che cercava. Che cosa cercasse, non lo sapeva nemmeno lei. Forse la visita del nipote l’avrebbe aiutata a rintracciare un qualche senso. Per qualche giorno sarebbero stati soli loro due in casa, accanto alla stufa. Lei l’avrebbe curato come quando era bambino, forse avrebbero chiacchierato, forse sì, forse Ghili Steiner aveva davvero il potere di rimettere in forze quel ragazzo che aveva sempre amato come un figlio. In onor suo aveva riempito il frigorifero di leccornie, preparato il letto e steso per terra un tappeto di lana nella stanza che gli era sempre riservata, accanto alla propria. Sul comodino gli aveva sistemato alcuni giornali, qualche rivista e tre o quattro libri che a lei erano piaciuti e che sperava piacessero anche a Ghideon. Aveva anche preventivamente acceso il boiler, lasciato una tenue luce e la stufa accesa in salotto, una ciotola di frutta e un piatto con delle noccioline sul tavolo affinché, appena sceso dal pullman, Ghideon trovasse una calda atmosfera domestica.
Alle sette e dieci si udì il rombo del pullman che veniva su da via dei Fondatori. La dottoressa Steiner si alzò in piedi in tutta la sua esile e decisa corporatura, con le spalle magre coperte da un maglione scuro e intorno al collo una sciarpa di lana, scura anch’essa. Dalla porta posteriore scesero prima due donne non più giovani, che Ghili Steiner conosceva di vista. Si salutarono. Dalla porta anteriore uscì lentamente Arieh Zelnik, con addosso un soprabito stile militare un po’ grande di misura, in testa un berretto che gli teneva nascosta la fronte e incupiva lo sguardo. Augurò buona serata a Ghili Steiner e poi le chiese con un tono ironico se per caso fosse lì ad aspettare lui, nella fattispecie. Ghili rispose che stava aspettando il nipote soldato, ma Arieh Zelnik non aveva visto nessun soldato sul pullman. Ghili Steiner disse che intendeva sì un soldato, ma in abiti civili. Nel frattempo scesero altre tre o quattro persone, ma non Ghideon. Il pullman era ormai vuoto, allora Ghili chiese a Mirkin, l’autista, se non avesse notato, fra i passeggeri saliti a Tel Aviv, un ragazzo alto e magro, occhialuto, un soldato in licenza, un bel ragazzo, sì, ma dall’aria disorientata e non perfettamente in salute. Mirkin non ricordava nessun passeggero con quei connotati, però disse con tono scherzoso: non si preoccupi, dottoressa Steiner, se non è arrivato stasera, di sicuro sarà qui domattina, e se non domattina certo a mezzogiorno. Comunque alla fine arrivano tutti. Anche ad Abraham Levin, sceso per ultimo, Ghili Steiner chiese se per caso avesse visto un giovane passeggero che magari era sceso per sbaglio a un’altra fermata. Abraham rispose:
Forse che sì forse che no. Non ci ho fatto caso. Ero sovrappensiero.
E dopo un attimo di riflessione, aggiunse:
Ci sono molte fermate per strada, e tanta gente è scesa e salita.
L’autista Mirkin offrì alla dottoressa Steiner un passaggio. Ogni sera lui parcheggiava il pullman davanti a casa e l’indomani mattina alle sette ripartiva per
Tel Aviv. Ghili lo ringraziò ma disse che preferiva tornare a piedi, per godersi l’aria fresca dell’inverno. Tanto comunque non aveva nessuna fretta, visto che suo nipote non era arrivato.
Mirkin le augurò una buona serata, chiuse le portiere del pullman con uno sbuffo del compressore e si diresse verso casa. Ghili Steiner ebbe subito un ripensamento: con tutta probabilità Ghideon si era addormentato sul sedile in fondo e nessuno s’era accorto di lui. E adesso Mirkin avrebbe parcheggiato il pullman davanti a casa, avrebbe spento le luci e chiuso a chiave le portiere, lasciando il ragazzo imprigionato lì sino all’indomani mattina. Imboccò dunque via dei Fondatori e si diede di buon passo all’inseguimento del pullman, poi prese la scorciatoia del parco della Memoria, dove il buio della notte era avvolto dal pallido chiarore di una luna quasi piena.
2.
Dopo una ventina di passi, Ghili Steiner decise che avrebbe fatto meglio a tornare direttamente a casa e di lì telefonare a Mirkin chiedendogli di andare a controllare attentamente che non ci fosse nessun passeggero addormentato sul sedile in fondo al pullman. Conveniva anche chiamare sua sorella e chiederle se Ghideon era effettivamente partito per Tel Ilan o se per caso non avesse annullato il viaggio all’ultimo momento. Ma che senso aveva preoccupare sua sorella? C’era già lei, in ansia. Se in effetti il ragazzo era sceso dal pullman troppo presto, alla fermata sbagliata, ora stava di sicuro cercando di chiamarla da qualche posto vicino. C’era poi un’altra buona ragione per tornare direttamente a casa, invece di correre dietro al pullman di Mirkin: per telefono avrebbe suggerito a Ghideon di salire su un taxi collettivo, lì dov’era sceso per sbaglio. E se non aveva i soldi, certo, la corsa l’avrebbe pagata lei. Già si vedeva il ragazzo che, entro una mezz’oretta, arrivava con il taxi, sfoderando il suo solito sorriso timido e scusandosi a mezza voce per il pasticcio che aveva combinato, mentre lei pagava il conducente e poi prendeva suo nipote per mano come faceva sempre quando lui era bambino, e lo calmava con le buone, portandolo in casa per far la doccia e poi mangiare la cena che aveva preparato per loro due, pesce al forno con le patate. Poi Ghideon si sarebbe fatto la doccia mentre lei avrebbe dato una rapida occhiata alla sua cartella medica, che gli aveva chiesto di ritirare dall’ospedale per portarla con sé. Per tutto quel che riguardava la diagnostica medica, lei si fidava solo di se stessa, e nemmeno sempre. Non del tutto.
Benché avesse concluso che, sotto tutti i punti di vista, sarebbe stato decisamente meglio tornare subito a casa, la dottoressa Steiner aveva proseguito in direzione della Casa della Cultura, si era incamminata di buon passo su per via dei Fondatori e aveva preso la scorciatoia tagliando per il parco della Memoria. Aveva le lenti degli occhiali appannate perché l’aria invernale era umida e impregnata di vapore. Allora se li tolse, sfregò forte le lenti con il bordo della sciarpa e li inforcò di nuovo con un gesto
brusco. Per un attimo, così senza occhiali, il viso perse la sua severa imperturbabilità e divenne quello sensibile e offeso di una bambina sgridata ingiustamente. Ma al parco della Memoria non c’era anima viva e nessuno ebbe modo di vederla così, senza occhiali. Qui da noi tutti conoscevano la dottoressa Steiner solo attraverso il riflesso algido delle lenti quadrate con la montatura a giorno.
Il giardino deserto era immerso nella muta quiete del chiaro di luna. Dopo il prato e le folte siepi di bouganvillea, c’era il boschetto di pini, che ora era una densa chiazza di buio. Ghili Steiner respirò profondamente e accelerò il passo. La ghiaia del sentiero crepitava sotto le suole, come se queste stessero calpestando una bestiolina viva che reagiva lanciando dei piccoli strilli strozzati. Quando Ghideon era ancora piccolo, avrà avuto quattro o cinque anni, sua madre l’aveva portato a casa della sorella, che proprio in quel periodo aveva cominciato a lavorare in paese, a Tel Ilan, come medico di base fisso. Era un bambino un po’ torpido, trasognato, capace di passare lunghe ore a giocare da solo con tre o quattro oggetti qualunque - una tazza, un accendino, dei lacci da scarpe. Non di rado, in pantaloncini corti e maglietta tutta macchiata, si sedeva sui gradini di casa a fissare imbambolato il vuoto, muovendo solo le labbra, come per raccontare chissà quale storia. La zia Ghili non vedeva di buon occhio l’indole solitaria del bambino: aveva provato a procurargli dei compagni di gioco, invitando i bambini del vicinato. Ma quelli non l’avevano neanche preso in considerazione, e nel giro di un quarto d’ora Ghideon era di nuovo solo come prima. Lui non pareva minimamente interessato a fare amicizia con loro: eccolo di nuovo tutto solo sull’amaca del balcone, che fissava il vuoto mormorando qualcosa. O ordinava in fila delle puntine. Lei gli aveva comprato qualche giocattolo, che però il bambino aveva usato ben poco, tornando presto ai suoi consueti passatempi: due tazze, un accendino, un vaso, un fermacarte, dei cucchiaini che sistemava sulla stuoia secondo una logica chiara soltanto a lui, sparpagliava e riordinava di nuovo, muovendo incessantemente le labbra come per raccontare a se stesso delle storie che non aveva mai condiviso con la zia. La sera si addormentava abbracciato al suo piccolo canguro di lana sbiadita.
Qualche volta lei aveva tentato di violare la solitudine del bambino proponendogli di andare a fare una passeggiata per i campi intorno al paese o all’emporio di Victor Ezra a comprare qualche dolciume o, perché no, di arrampicarsi insieme su per la torre dell’acqua che si ergeva sopra tre piloni di cemento, ma il bambino aveva sempre reagito con un’alzata di spalle, quasi interdetto da quella ventata di attivismo che aveva colto tutt’a un tratto la zia.
Un giorno, Ghideon avrà avuto cinque o sei anni, la madre l’aveva lasciato di nuovo per un po’ a casa della zia, in campagna. Ghili Steiner si era presa dei giorni di ferie, in onor suo, ma il bambino non ne aveva voluto sapere di muoversi dalla stuoia, dove giocava con uno spazzolino da denti, una spazzola per capelli e qualche scatola di fiammiferi vuota. Poi Ghili era stata chiamata per una visita d’urgenza da un malato in fondo al paese. Non potendo assolutamente lasciare solo a casa il bambino, aveva insistito perché venisse con lei o l’aspettasse nell’ufficio dell’ambulatorio, sotto la sorveglianza della segretaria, Zila. Ma, testardo che era, il bambino era rimasto tacitamente sulle sue: voleva restare a casa. Non aveva paura di rimanere da solo. Il suo canguro avrebbe badato a lui. Aveva promesso di non aprire la porta a
nessuno. Ghili Steiner era tutt’a un tratto uscita dai gangheri, non tanto per la cocciutaggine del bambino che voleva a tutti i costi restare solo a continuare quei suoi giochi solitari sulla stuoia, quanto perché era sempre così strano e flemmatico, e per quel suo canguro e per la sua totale alienazione. Aveva alzato la voce e cominciato a urlare: tu vieni con me, immediatamente! Basta. Chiuso. Il bambino le aveva risposto pacatamente, pareva quasi stupito del suo scarso comprendonio: no, zia Ghili. Io sto qui. Allora lei aveva allungato una mano e gli aveva mollato uno schiaffo tremendo e poi, quasi incredula, aveva continuato a picchiarlo con tutte e due le mani sulla testa, sulle spalle, sulla schiena, in preda a una rabbia implacabile, come se stesse lottando per soggiogare un nemico giurato o per domare un puledro recalcitrante. Sotto quella gragnuola di colpi, Ghideon si era tutto raggomitolato, infossando la testa fra le spalle e aspettando in silenzio che l’attacco di rabbia si spegnesse. Poi l’aveva fissata con due occhi sbalorditi e le aveva domandato seccamente: perché mi odi? Allora lei l’aveva abbracciato in lacrime e baciato sul capo. Ovviamente si era arresa e gli aveva permesso di restare a casa solo con il suo canguro. Al ritorno, neanche un’ora più tardi, lei gli aveva pure chiesto scusa e il bambino aveva detto: non c’è problema, capita di arrabbiarsi. Però era diventato ancor più taciturno di prima, e non aveva quasi aperto bocca finché sua madre non era tornata a prenderlo, due giorni dopo. Nessuno dei due aveva riferito alla mamma di Ghideon di quel litigio. Prima di partire, il bimbo aveva raccolto dalla stuoia gli elastici, il fermalibri, la saliera e il blocchetto per le ricette mediche, rimettendo ogni cosa al suo posto. Il canguro lo aveva chiuso in un cassetto. Ghili si era chinata e gli aveva dato un bacio affettuoso sulle guance, che lui aveva ricambiato con uno di circostanza sulla spalla di lei, a denti stretti.
3.
Accelerò il passo, spinta dalla certezza sempre più adamantina che Ghideon fosse lì, addormentato sul sedile in fondo, imprigionato nel pullman buio, parcheggiato per la notte davanti a casa di Mirkin. Le venne anche in mente che probabilmente il freddo e l’improvviso silenzio avevano svegliato il ragazzo, il quale forse ora stava invano tentando di uscire dalla vettura chiusa, provando a spingere le portiere bloccate, battendo contro il vetro del finestrino dietro, perché sicuramente si era dimenticato il cellulare, esattamente come aveva fatto lei poco prima, uscendo di casa per andare alla fermata del pullman.
Cominciò a scendere una pioggerella fine, quasi impercettibile, mentre il vento era cessato. Attraversò il boschetto buio e giunse fino al fioco lampione subito fuori dal parco della Memoria, in direzione di via dell’Ulivo. Qui incappò in un bidone della spazzatura rovesciato sul marciapiede: Ghili Steiner lo aggirò e proseguì a passo di marcia su per via dell’Ulivo. Le case erano serrate, avvolte da un sottile vapore lattiginoso, e i giardini parevano caduti in un letargo di stagione, avvolti dalle siepi di
ligustro, lauro e tuia. Qua e là, nascosta da una ricca vegetazione rampicante, faceva capolino sulla strada una nuova villa di lusso, costruita sui resti di una vecchia cascina. Negli ultimi anni, ogni tanto arrivava qui qualche ricco di città che si comprava un vecchio rudere, lo demoliva e costruiva al suo posto un villone a più piani, pieno di cornicioni e balconcini. Poco ci manca, pensò Ghili Steiner, che questo paese diventi una specie di residenza di lusso per gente piena di soldi. La sua, di casa, l’avrebbe lasciata in eredità al nipote Ghideon: aveva già anche fatto testamento in merito. Ora s’immaginò chiaramente Ghideon immerso in un sonno inquieto, imbacuccato nel suo cappotto marrone, riverso sul sedile dietro del pullman chiuso e spento, davanti a casa di Mirkin.
Un venticello fresco le diede un brivido mentre passava all’angolo con lo spiazzo della sinagoga. Non pioveva più. Un sacchetto di plastica si librò vorticando sulla via deserta e le sfiorò la spalla come un pallido spettro. Ghili Steiner accelerò il passo e svoltò da via del Salice verso via del Cimitero, in fondo alla quale abitava Mirkin, il conducente del pullman, proprio di fronte a casa della professoressa Rahel Franco, che viveva con l’anziano padre Pesach Kedem. Una volta, avrà avuto dodici anni, Ghideon era comparso tutto solo a casa della zia a Tel Ilan, perché dopo aver bisticciato con sua madre aveva deciso di scappare di casa. Sua madre l’aveva chiuso in camera perché aveva preso un brutto voto, allora lui le aveva sfilato un po’ di denaro dal portafogli, si era calato dal balcone ed era partito per Tel Ilan, portando con sé una piccola borsa con biancheria, calze e due camicie di ricambio, intenzionato a chiedere asilo a Ghili. Lei l’aveva abbracciato, gli aveva preparato il pranzo, gli aveva dato il suo spelacchiato canguro di lana che da piccolo si teneva sempre stretto, e poi aveva chiamato sua sorella, anche se erano in pessimi rapporti. L’indomani la madre di Ghideon era venuta a prendere il bambino e alla sorella non aveva neanche rivolto la parola. Ghideon si era arreso, aveva salutato tristemente la zia ed era andato via in silenzio, la mano intrappolata in quella della furibonda madre. Un’altra volta, circa tre anni prima di quella sera, Ghideon, all’epoca diciassettenne, era venuto ospite da lei per preparare l’esame di biologia per la maturità, approfittando della quiete campestre. Lei avrebbe dovuto dargli una mano in quella materia, se non che, animati da una specie di complicità, invece di studiare i due si erano buttati in un interminabile torneo a dama. Avevano continuato per tutto il giorno a giocare a dama e dama al contrario - quasi sempre vinceva lei, non si faceva battere da Ghideon. Dopo ogni sconfitta, con la sua voce sonnolenta il ragazzo le chiedeva la rivincita: una partita soltanto. E invece erano andati avanti così per tutto il giorno, la sera avevano guardato fino a tardi i film che davano alla televisione, seduti uno accanto all’altra sul divano, con le gambe sotto un’unica coperta di lana. La mattina Ghili Steiner era andata al lavoro all’ambulatorio medico, lasciando sul tavolo della cucina delle fette di pane, verdure, formaggi e due uova sode. Al suo ritorno dallo studio, nel pomeriggio, lo aveva trovato addormentato vestito sul divano del salotto. Prima, però, lui aveva pulito e messo ordine in cucina, aveva scrupolosamente piegato le lenzuola del letto. Avevano ripreso a giocare a dama, una partita dopo l’altra, invece di studiare per l’esame. E senza quasi scambiarsi una parola. La sera avevano guardato la televisione fin quasi a mezzanotte - la stufa era accesa, tuttavia i due si erano tirati la coperta di lana blu fin sulle spalle - e questa
volta avevano riso tutti e due perché il film era una divertente commedia inglese. L’indomani il ragazzo era tornato a casa sua, due giorni dopo aveva superato l’esame di biologia con un punteggio decente, pur non avendo praticamente aperto libro. Ghili Steiner aveva chiamato sua sorella e le aveva mentito dicendo che Ghideon si, si era preparato con il suo aiuto, e che era diligente e molto scrupoloso. Ghideon aveva mandato per posta alla zia un libro di poesie di Yehuda Amichai, scrivendo di suo pugno sul frontespizio “grazie per l’aiuto a preparare l’esame di biologia”. Lei gli aveva risposto con una cartolina illustrata del paese di Tel Ilan, così come appariva da in cima alla torre dell’acqua, dicendo “grazie per il libro”, e anche “se per caso vuoi ritornare a studiare da me, magari per qualche altro esame, la tua stanza è sempre pronta qui che ti aspetta. Non esitare a venire”.
4.
L’autista Mirkin, un vedovo sulla sessantina dal ragguardevole deretano, si era già messo in tenuta da casa - pantaloni della tuta larghi e maglietta con la pubblicità di una ditta commerciale. Restò piuttosto sorpreso quando la dottoressa Steiner bussò alla sua porta, chiedendogli di uscire per controllare insieme a lei che non fosse rimasto nessun passeggero addormentato sul sedile in fondo al pullman.
Mirkin era un uomo corpulento, un chiacchierone di buon carattere. Aveva gli incisivi fuori misura e anche un po’ asimmetrici, e il suo largo sorriso sfoggiava sia i denti sia la lingua, che faceva capolino sopra il labbro inferiore. Aveva ottime ragioni per pensare che il nipote della dottoressa Steiner fosse sceso per sbaglio qualche fermata prima, e che adesso stesse cercando di arrivare a Tel Ilan facendo l’autostop; per questo secondo lui la dottoressa Steiner avrebbe fatto meglio a tornare a casa ad aspettarlo. Ciononostante, prese una torcia e andò a controllare insieme a lei che nessun passeggero fosse rimasto intrappolato nel pullman parcheggiato davanti a casa sua.
Di sicuro non c’è, dottoressa Steiner, ma se la cosa la mette tranquilla, andiamo a verificare. Ma certo.
Non ricorda di avere visto un ragazzo, alto, magro, occhialuto, un ragazzo un po’ imbambolato ma di buone maniere?
C’erano dei giovani, sì. Mi pare di averne visto uno simpatico, con un grosso zaino e una chitarra.
Nessuno di loro ha continuato sino a Tel Ilan? Sono tutti scesi strada facendo?
Mi dispiace, dottoressa. Non ricordo. Non ha per caso una medicina miracolosa per rinforzare la memoria? Ultimamente dimentico tutto. Chiavi, nomi, date, portafogli, patenti. Se vado avanti così finisce che non mi ricordo nemmeno più come mi chiamo.
Aprì il pullman premendo un pulsante nascosto sotto il predellino e salì a bordo con passo goffo. Passò in rassegna con la torcia una fila di posti dopo l’altra,
producendo una danza di ombre nervose. Ghili Steiner lo seguì a bordo, quasi appiccicata alla sua schiena larga che avanzava lungo il passaggio. Quando illuminò l’ultima fila di sedili, gli sfuggì un piccolo grido di sorpresa. Poi si chinò e tirò su un fagotto morbido dalla natura incerta. Una volta steso, si scoprì essere un giaccone che alla dottoressa Steiner pareva familiare.
È per caso il giaccone del suo ospite?
Non era sicura. Forse. Può darsi.
L’autista gettò per un attimo sul giaccone il fascio di luce della torcia, che poi diresse sul viso della dottoressa, sui suoi capelli grigi corti corti, gli occhiali quadrati e le labbra sottili, l’espressione severa. Infine le disse che magari il ragazzo era sì sul pullman, ma era sceso alla fermata sbagliata, dimenticando il giaccone a bordo.
Ghili toccò il capo d’abbigliamento con tutte e due le mani, annusò un momento e chiese a Mirkin di illuminarlo di nuovo.
Mi pare proprio sia suo. Credo, sì. Ma non sono sicura.
Lo prenda, disse gentilmente l’autista, lo prenda e lo tenga lei. Se per caso domani un altro passeggero viene a cercarlo, il suo indirizzo lo so. Mi permette di accompagnarla a casa, dottoressa Steiner? Sta di nuovo per piovere.
Ghili lo ringraziò ma disse che non era il caso, grazie, che sarebbe tornata a casa a piedi, che già l’aveva disturbato abbastanza. Scese dal pullman seguita dall’autista che illuminava il predellino perché non inciampasse. Una volta fuori, mentre indossava quel giaccone ebbe la certezza assoluta che appartenesse a Ghideon. Già, lo ricordava dall’inverno scorso. Un giaccone marrone corto, con il pelo. Stava bene con quello addosso, e per un attimo ebbe l’impressione che quel capo avesse trattenuto l’odore delicato di lui. Non quello di adesso, bensì di quando era piccolo e sapeva di sapone alle mandorle e di pappa. Quel giaccone le andava grande, ma di poco, e aveva una consistenza piacevolmente morbida.
Ringraziò Mirkin, che insistette ancora per accompagnarla in pullman sino a casa. Ma no, non era il caso, davvero no grazie, lei lo salutò e s’incamminò. Una luna quasi piena spuntò fra le nubi, illuminando con il suo pallido chiarore le cime dei cipressi nel cimitero lì vicino. Un silenzio largo e profondo era calato sul villaggio, interrotto solo dal muggito di una mucca in direzione della torre dell’acqua, cui risposero dei cani in lontananza, con un lungo e vago ululato che si perse in un guaito.
5.
E se non fosse stato affatto il giaccone di Ghideon? In fondo, era assai probabile che lui avesse deciso di non venire e si fosse scordato di dirglielo. O forse il suo stato di salute si era improvvisamente aggravato, ed era di nuovo stato ricoverato? Lei sapeva da sua sorella che a metà del corso allievi carristi Ghideon si era preso una brutta infezione renale ed era stato ricoverato al reparto di nefrologia, dove era rimasto dieci giorni. Aveva in mente di andarlo a trovare all’ospedale, ma sua sorella
gliel’aveva proibito. Fra lei e sua sorella c’era un livore di vecchia data. Non sapendo di preciso che cosa avesse Ghideon, lei si era preoccupata moltissimo e per telefono l’aveva pregato di portare con sé la sua cartella medica, perché lei potesse darle un’occhiata. In fatto di diagnostica, non si fidava di nessun dottore.
Poteva anche darsi che non fosse affatto malato né che fosse rimasto a casa. Presumibilmente, invece, era salito sul pullman sbagliato, si era addormentato e si era svegliato solo al capolinea, quando ormai era buio, in chissà quale posto sperduto, e ora stava cercando di capire come arrivare a Tel Ilan. Perciò lei doveva correre a casa. E se, com’era molto probabile, lui stava cercando di chiamarla per telefono da un paese della zona? E se invece nel frattempo era arrivato qui con i suoi mezzi e stava seduto ad aspettarla sui gradini di casa, al buio? Un inverno, Ghideon avrà avuto otto anni, sua madre l’aveva portato a trascorrere le vacanze di Chanukkah a casa della zia, in campagna. Malgrado il vecchio rancore fra le due sorelle, la madre di Ghideon l’aveva lasciato alla zia per quelle vacanze. La prima notte il bambino aveva avuto un incubo. Si era fatto strada a tentoni nel buio, aveva aperto la porta di camera della zia e si era infilato scalzo nel letto di Ghili, tutto tremante e con gli occhi sbarrati dalla paura: c’è un fantasma in camera, un fantasma che ride e tende dieci lunghe braccia con dei guanti neri! Lei gli aveva accarezzato il capo e l’aveva stretto al suo magro petto, cercando di calmarlo. Ma il bambino non si quietava affatto, anzi, continuava a lanciare delle urla che parevano singhiozzi. Ghili Steiner aveva pertanto deciso di sradicare quella paura trascinando con la forza in camera sua il bambino atterrito, paralizzato dal terrore. Quello scalciava e lottava, ma lei non s’era arresa: tenendolo per le spalle l’aveva tirato e spinto sin dentro la stanza, aveva acceso la luce e gli aveva dimostrato che quella sua paura veniva, in tutto e per tutto, da un attaccapanni a piede da cui pendevano alcune camicie e un maglione. Il bambino non le aveva creduto, cercava ancora di liberarsi dalla sua presa, poi l’aveva morsicata e lei gli aveva dato due schiaffi, uno per guancia, per fargli passare l’attacco isterico. Immediatamente dopo l’aveva abbracciato stretto, accostando il proprio viso al suo, e se l’era tenuto a dormire nel letto, lui e il suo vecchio canguro di lana sbiadita.
L’indomani lui si era svegliato corrucciato ma non aveva chiesto di tornare a casa. Ghili gli aveva detto che la mamma sarebbe venuto a prenderlo due giorni più tardi e che nelle notti che restavano era autorizzato a dormire nel letto con lei. Ghideon non aveva più menzionato l’incubo. Neanche una parola. La notte successiva aveva coraggiosamente deciso di dormire in camera sua, solo pregando la zia di lasciare aperta la porta e accesa la luce in corridoio. Alle due, però, era sgusciato tutto tremante sotto la coperta di lei, per riaddormentarsi fra le sue braccia. Lei era rimasta sveglia sino al mattino, inspirando profondamente il profumo dello shampoo con cui gli aveva lavato la testa prima di dormire: era consapevole che un muto e profondo legame si era creato per sempre fra loro due, e che a quel bambino lei voleva più bene che a qualunque altro essere umano al mondo, più di quanto avesse mai potuto immaginare di provare per chicchessia.
6.
Non si vedeva anima viva fuori, la sera, a parte i gatti randagi che facevano assembramento sui bidoni della spazzatura. Da ogni apparecchio televisivo nascosto dietro le persiane chiuse sbucava la voce preoccupata del giornalista, al notiziario. In lontananza un cane abbaiava testardamente, quasi che gli avessero ordinato di svegliare tutto il paese. Ghili Steiner, con addosso il giaccone che le aveva dato Mirkin, passò frettolosamente davanti allo spiazzo della sinagoga e lungo via dell’Ulivo, e s’inoltrò senza esitazione nella macchia del parco della Memoria per tagliare la strada - anche se lì era buio pesto. Dalla tenebra fitta delle fronde le strillò contro un uccello notturno, cui fecero subito eco i rospi dello stagno. Ora ne era sicura: Ghideon la stava aspettando seduto sui gradini di casa, davanti alla porta d’ingresso chiusa. Ma il suo giaccone l’aveva dimenticato sul pullman di Mirkin, e adesso ce l’aveva addosso lei. Come era potuto finire sul sedile in fondo al pullman, quest’ultimo, se Ghideon era lì che l’aspettava? Forse in fin dei conti questo qui era di qualcun altro. Il pensiero la indusse ad accelerare ulteriormente il passo. Ghideon era sicuramente lì, con il suo vero giaccone, e non si capacitava di che cosa fosse successo a lei. Uscendo dal boschetto, notò una figura con il bavero rialzato, seduta immobile su una panchina: ebbe un sussulto. Esitò un attimo, poi prese coraggio e decise di avvicinarsi per vedere da vicino. Era solo un ramo rotto cascato di sbieco sulla panchina.
Ghili arrivò a casa che erano quasi le nove. Accese la luce davanti all’ingresso, spense il boiler e corse a vedere se c’erano messaggi nella segreteria del telefono e anche sul cellulare, rimasto sul tavolo della cucina. Ma non c’era niente, anche se pareva che qualcuno avesse effettivamente chiamato una volta, attaccando senza dire nulla. Ghili compose il numero del cellulare di Ghideon. Rispose una voce metallica, che diceva che il cliente non era raggiungibile. Decise allora di mettere da parte i risentimenti e chiamare sua sorella a Tel Aviv per capire se Ghideon era effettivamente partito o se invece aveva deciso di non venire e non le aveva detto nulla. Il telefono a casa di sua sorella continuò a squillare ma nessuno rispose, a parte la segreteria che invitava a registrare un messaggio dopo il bip. Ci pensò su un momento e poi decise di non lasciare nessun messaggio perché in fondo non sapeva che cosa dire: se Ghideon stava girando in cerca della via per arrivare qui, vuoi facendo l’autostop vuoi con un taxi collettivo, non aveva alcun senso spaventare sua madre. Se invece lui aveva deciso di rimanere a casa, gliel’aveva certamente fatto sapere. Magari non aveva ritenuto fondamentale dirlo a lei già stasera, e domani mattina l’avrebbe chiamata in studio, no? O forse era peggiorato il suo stato di salute, ed era stato di nuovo ricoverato in ospedale? Gli era venuta la febbre? Era tornata l’infezione? In quel momento decise di ignorare i divieti di sua sorella: domani, dopo il lavoro, sarebbe andata a trovarlo all’ospedale. Sarebbe entrata nella stanza dei medici e avrebbe scambiato quattro parole con il primario. Avrebbe dato un’occhiata agli esiti degli esami per farsi un’idea.
Ghili si tolse il giaccone e lo esaminò attentamente sotto la luce della cucina. In effetti aveva un’aria del tutto estranea. Però non ne era proprio sicura. Il colore aveva un che di familiare, ma il colletto era un po’ diverso. Lo posò sul tavolo e si sedette su una delle due seggiole della cucina, per studiarlo ancora. La cena che aveva preparato per loro due, il pesce con le patate, la aspettava nel forno. Decise di aspettare Ghideon fino a tarda sera, e nel frattempo accese la stufetta con le serpentine che si arroventavano lentamente, producendo degli scoppiettii ovattati. Per circa un quarto d’ora rimase immobile ad aspettare. Poi si alzò e andò in camera di Ghideon. Il letto era fatto, con il familiare scendiletto e accanto giornali, riviste e qualche libro scelto apposta per lui con molto riguardo. Ghili accese la luce sul comodino, sistemò i cuscini. Per un attimo ebbe l’impressione che Ghideon fosse già lì, che avesse già dormito, si fosse alzato e avesse già rifatto il letto, e fosse ripartito lasciandola di nuovo sola. Come le capitava sempre, dopo che lui era venuto a trovarla.
Si piegò per rimboccare l’angolo della coperta sotto il materasso. Tornò in cucina, affettò il pane, tirò fuori dal frigo burro e formaggi, mise sul gas il bollitore. Quando l’acqua bollì, accese la radiolina che stava sul tavolo della cucina. Tre voci stavano discutendo, parlandosi rabbiosamente addosso, riguardo al protrarsi della crisi nell’agricoltura. Spense la radio e andò a guardare alla finestra. Il sentierino che portava alla casa era molto poco illuminato, sopra la via deserta aleggiava una luna quasi piena che faceva capolino fra le nuvole basse. Avrà un’amichetta, pensò tutt’a un tratto, ecco, e per questo si è dimenticato di venire e anche di avvertirla, finalmente si era fatto la ragazza e per questo gli era passata la voglia di venire qui a trovare lei. L’idea che Ghideon avesse una fidanzata la invase di un dolore quasi insopportabile. Come se tutto in lei si fosse svuotato, lasciando solo la scorza secca che ancora premeva e faceva male. Però in fondo lui non è che avesse proprio promesso di venire, aveva solo detto che avrebbe cercato di prendere il pullman della sera, ma che non era proprio il caso di andare ad aspettarlo alla fermata, perché se veramente avesse deciso di venire in serata, era capace, no, di scendere alla fermata e arrivare a casa di lei, comunque sarebbe venuto presto, magari la settimana prossima.
Ciononostante, Ghili Steiner non riuscì a liberarsi dal pensiero che Ghideon avesse sbagliato qualcosa, o il pullman o la fermata, e che adesso fosse bloccato in qualche posto sperduto, seduto tutto solo e tremante a qualche squallida fermata, rannicchiato sulla panchina di metallo, dietro la ringhiera di ferro fra una cassa chiusa e un chiosco sprangato. Senza sapere come raggiungere casa di lei. Quanto a lei, aveva il dovere di partire immediatamente, in quel preciso istante: lanciarsi nella notte alla ricerca del ragazzo, per ricondurlo a casa sano e salvo.
Verso le dieci Ghili si disse che Ghideon ormai non sarebbe più arrivato, per quella sera, e che pertanto non le restava altro da fare che scaldarsi il pasto e mangiare tutta sola il pesce e le patate, poi andare a letto e alzarsi l’indomani mattina prima delle sette per andare all’ambulatorio a star dietro a quei noiosi di pazienti. Si alzò e si piegò sul forno, tirò fuori il pesce e le patate, e buttò tutto nell’immondizia. Poi spense la stufetta, si sedette in cucina, si tolse gli occhiali quadrati con la montatura a giorno e pianse un poco. Qualche secondo appena. Nascose nel cassetto il logoro canguro di lana, andò a tirar fuori il bucato dall’asciugabiancheria e fin quasi a
mezzanotte continuò a stirare e piegare tutto, mettendo ogni cosa al suo posto. Infine si spogliò e andò a dormire. A Tel Ilan continuò a piovere a intermittenza per tutta la notte.