venerdì 10 gennaio 2020


SOLAR
Ian McEwan
Parte terza


  2009

  * * † * *
   
      Non sorprendeva nessuno scoprire che Michael Beard era stato figlio unico, e lui stesso non avrebbe avuto difficoltà ad ammettere che la fratellanza non era mai stata nelle sue corde. Sua madre Angela, una bellezza spigolosa, stravedeva per il figlio e aveva fatto del cibo lo strumento del proprio amore
      Lo allattava al biberon a richiesta, con passione. Qualcosa come quattro decenni prima di vincere il Nobel per la Fisica, Beard si era piazzato in vetta alle classifiche del Concorso di Cold Norton e Dintorni, nella categoria neonati da zero a sei mesi. Negli anni duri del dopoguerra, gli ideali di bellezza infantile imponevano fondamentalmente la pinguedine, multiple pappagorge churchilliane frutto del sogno di porre fine al razionamento, in attesa di un regno dell'abbondanza prossimo venturo..
  I bambini venivano esibiti e giudicati come zucche da competizione e, nel 1947, un Michael di quattro mesi, bolso e giocondo, aveva sbaragliato tutti i concorrenti prima di lui. Restava tuttavia insolito che a una fiera paesana una signora di buona famiglia, moglie di un mediatore di borsa, disertasse la bancarella delle torte e delle salse piccanti per iscrivere il bebé a una gara tanto pacchiana.
  Doveva essere stata sicura di vincere, esattamente come in seguito sostenne di aver sempre saputo che il figlio avrebbe vinto una borsa di studio a Oxford. Quando Michael passò ai cibi solidi, e da quel momento in poi per tutta la vita, la signora cucinò per lui con lo stesso impegno con cui lo aveva allattato, tanto da ritrovarsi, a metà degli anni Sessanta e a dispetto della malattia, a frequentare un corso di cucina cordon bleu, allo scopo di sperimentare nuove ricette in occasione delle sporadiche visite del figlio a casa. Suo marito Henry era il classico commensale da carne e doppio contorno, di quelli che detestano l'aglio e non sopportano l'odore dell'olio d'oliva.
  Nei primi anni di matrimonio, per ragioni che rimasero un mistero, Angela aveva smesso di amarlo. Viveva per il figlio e il marchio indelebile del suo retaggio fu la costruzione di un uomo grasso, alla continua spasmodica ricerca dell'attenzione di donne belle e brave in cucina. Henry Beard era un tipo asciutto, con baffi all'ingiú e capelli castani impomatati; i suoi completi scuri o di tweed marrone sembravano immancabilmente di una taglia di troppo, specie intorno al collo.
  Manteneva nell'agio la famigliola minuscola e, secondo lo stile dell'epoca, riversava sul figlio un sentimento austero e parco di contatto fisico. Pur evitando di abbracciare Michael e posandogli di rado una mano affettuosa sulla spalla, non mancò di fornirgli tutti i regali di prammatica: dal meccano al piccolo chimico, dalla radio da montare alle enciclopedie, dai modellini di aerei ai libri sulla storia militare, la geologia e le vite dei grandi del passato. La guerra era stata lunga per lui: come sottufficiale di fanteria aveva prestato servizio a Dunkerque, in Nordafrica e in Sicilia; poi, come tenente colonnello, aveva preso parte agli sbarchi del DDay, guadagnandosi anche una medaglia.
  Era arrivato a Belsen una settimana dopo la liberazione del campo di concentramento e, a guerra conclusa, era rimasto otto mesi di stanza a Berlino. Come tanti uomini della sua generazione, parlava poco delle proprie esperienze e sapeva apprezzare la banalità del tran tran postbellico, la placida routine, l'ordine, il benessere crescente e, soprattutto, l'assenza di pericolo, tutto ciò insomma che sarebbe apparso soffocante alla generazione venuta al mondo nei primi anni di pace. Nel 1952, quando aveva quarantanni e Michael ne aveva cinque, Henry Beard lasciò l'impiego presso una società di intermediazione finanziaria della City per tornare a dedicarsi al primo amore, vale a dire il diritto.
  Diventò socio di un vecchio studio notarile nella vicina Chelmsford e vi rimase per il resto della vita professionale. Per festeggiare l'importante cambiamento e la liberazione dal quotidiano pendolarismo da e verso Liverpool Street, si comprò una RollsRoyce Silver Cloud di seconda mano.
  La vettura di colore celeste gli durò trentatré anni, cioè fino alla morte. Dalla prospettiva vantaggiosa della raggiunta maturità e non senza un pizzico di rimorso postumo, suo figlio lo amò per quel gesto grandioso.

  Ma la vita di un notaio di provincia, assorbita da atti di trasferimenti di proprietà e autenticazioni, sedimentò su Henry Beard una tranquillità perfino maggiore. Nei fine settimana si dedicava perlopiù alle sue rose, alla macchina, o al golf con gli amici del Rotary. E accettò stolidamente un matrimonio senza amore come il prezzo da pagare in cambio dei privilegi ottenuti.

  Fu grosso modo allora che Angela Beard diede inizio a una serie di relazioni sentimentali destinate a coprire un lasso di oltre undici anni. Il giovane Michael non registrò alcuna palese ostilità o tensione silenziosa in famiglia; del resto non era né un osservatore né un soggetto particolarmente sensibile e spesso, dopo la scuola, si rintanava in camera sua a costruire, leggere e incollare, per poi passare alla pornografia e alla masturbazione a tempo pieno, e approdare infine alle ragazze.

  Né a diciassette anni si accorse di come sua madre, esausta, si fosse ritirata nel santuario del proprio matrimonio. Venne a sapere delle sue avventure solo più tardi, quando Angela poco più che cinquantenne, stava morendo di tumore al seno. Sembrava che volesse il perdono del figlio per avergli rovinato l'infanzia. A quel punto Michael si avviava a concludere il secondo anno a Oxford e aveva la testa piena di matematica e ragazze, alcol e fisica, tanto che in un primo momento non riuscì neppure ad afferrare fino in fondo quello che la madre gli raccontava. Stava seduta su svariati cuscini nella stanza singola al diciannovesimo piano di un ospedale a torre che affacciava sulle saline industrializzate tra Canvey Island e la sponda meridionale del Tamigi. Michael era grande abbastanza da sapere che l'avrebbe offesa dicendo di non essersi mai accorto di nulla.

  O che indirizzava le sue scuse alla persona sbagliata. O che non riusciva a immaginare nessun ultra trentenne alle prese con il sesso. Le tenne la mano e gliela strinse per comunicarle il proprio affetto, assicurandole che non c'era niente da perdonare. Fu solo dopo essere tornato a casa, aver scolato tre scotch insieme al padre ed essersi messo a letto senza spogliarsi nella sua vecchia camera che cominciò a riflettere su quanto aveva sentito e a rendersi conto della portata dell'impresa.

  Diciassette amanti in undici anni. Il tenente colonnello Beard si era smaltito la propria dose di emozioni e pericoli entro i trentatré anni. Ora anche Angela voleva la sua parte. Quegli amanti rappresentavano le sue campagne nel deserto contro Rommel, il suo DDay e la sua Berlino. Senza di loro, aveva detto a Michael dal letto d'ospedale, avrebbe finito con l'odiarsi e impazzire.

  Ma si odiava comunque per quel che credeva di aver fatto al suo bambino. Il giorno dopo Michael tornò all'ospedale e disse alla madre, la cui mano sudata si avvinghiava alla sua, di avere avuto l'infanzia più felice e protetta del mondo, di non essersi mai sentito trascurato, di non aver dubitato nemmeno per un istante del suo affetto, né di aver mai mangiato meglio che a casa, di essere orgoglioso di quello che chiamò il suo sano appetito per la vita e di augurarsi di averlo ereditato. Fu il suo primo discorso pubblico. Quelle mezze verità, per non dire quarti di verità, erano quanto di meglio gli fosse mai uscito di bocca. Sei settimane più tardi sua madre era morta.

  Naturalmente la sua vita amorosa divenne un capitolo chiuso tra padre e figlio, ma per anni Michael non poté attraversare in macchina Chelmsford o i paesi limitrofi senza domandarsi se tra i vecchi dal passo incerto a zonzo sui marciapiedi o tra quelli ingobbiti in attesa dell'autobus potesse trovarsi uno dei diciassette. Per gli standard del tempo, al suo arrivo a Oxford, Michael era un ragazzo precoce.

  Aveva già fatto l'amore con due ragazze, possedeva un'auto, una Morris Minor con parabrezza diviso che teneva in un box in Cowley Road, e riceveva dal padre un sussidio che superava di gran lunga quello medio degli studenti. Era brillante, socievole, dogmatico, indifferente se non addirittura un po' altezzoso con i ragazzi delle scuole prestigiose. Era uno di quei tipi irritanti e indispensabili, sempre in cima a qualsiasi coda, sempre coi biglietti per i più grandi eventi londinesi, di quelli che «nel giro di qualche giorno riescono a farsi presentare le persone strategicamente importanti e a scoprire ogni genere di scorciatoia utile, tanto topografica quanto sociale.

  Dimostrava molto di più dei suoi diciotto anni; era laborioso, organizzato, preciso e utilizzava, in effetti, un'agenda da tavolo. Gli altri lo cercavano perché sapeva aggiustare radio e giradischi e perché teneva un saldatore elettrico in camera. Per quei servizi, ovviamente, Michael non chiedeva mai soldi, ma aveva talento nel farsi restituire i favori. Poche settimane dopo essersi sistemato, si era già trovato la fidanzata, una liceale tutt'altro che casta di nome Susan Doty. Gli altri studenti di matematica e fisica erano tendenzialmente tipi timidi e introversi.

  Dopo le ore di lezione e di laboratorio, Michael se ne teneva alla larga, evitando altresì gli artistoidi che lo intimidivano con citazioni letterarie a lui incomprensibili. Preferiva gli studenti di ingegneria, che lo invitavano ai loro seminari, e quelli di geografia, biologia e antropologia, specie se avevano già fatto tirocinio in qualche località esotica. Beard aveva un mucchio di conoscenze, ma nessun amico intimo. Pur non essendo esattamente un beniamino, la gente lo conosceva, parlava di lui, aveva bisogno dei suoi servizi e lo disprezzava un po'. Verso la fine del secondo anno di corso, mentre cercava di abituarsi all'idea che sua madre presto sarebbe morta, a Beard capitò di sentire qualcuno in un pub definire «maiala» una certa Maisie Farmer, studentessa del Lady Margaret Hall. L'espressione fu pronunciata favorevolmente, come se designasse con discreta accuratezza clinica una categoria nota.

  In tale contesto quel suo cognome bucolico lo intrigò. Si immaginò una ragazzona di stazza generosa, lorda di letame, a cavalcioni di un trattore, e subito dopo smise di pensare a lei. Il semestre si concluse, Michael tornò a casa, sua madre mori e l'intera estate si consumò tra il dolore, la noia e frastornanti silenzi inarticolati a casa, con suo padre. Non avevano mai parlato dei loro sentimenti, perciò ora non conoscevano una lingua in cui esprimerli. Quando, dalla finestra di casa, vide il padre in fondo al giardino scrutare troppo attentamente le rose, Michael provò imbarazzo, per non dire orrore rendendosi conto, dal tremito delle spalle, che stava piangendo.

  Non gli venne neppure in mente di andare da lui. Sapere degli amanti della madre e non sapere se anche suo padre sapesse (ma immaginava di no) costituiva un ulteriore ostacolo insuperabile tra loro. In settembre ritornò a Oxford e affittò una stanza al terzo piano su Park Town, una modesta mezza luna di edifici vittoriani a schiera costruiti intorno a un giardino centrale. La passeggiata per raggiungere la facoltà di Fisica lo portava ogni giorno a costeggiare il cancello del college frequentato dalla «maiala», accanto al vicolo stretto che entrava negli University Parks.

  Una mattina, d'impulso, Michael entrò e con l'aiuto del portiere ebbe conferma della reale esistenza di una studentessa di nome Maisie Farmer. Poco tempo dopo, nell'arco della stessa settimana, appurò che la ragazza era al terzo anno di corso e che studiava letteratura, ma non si lasciò scoraggiare.

  Per un paio di giorni fantasticò su di lei; poi però il lavoro e altri pensieri ebbero la meglio e per la seconda volta se la scordò, fino a quando, verso fine ottobre, un amico non gli presentò proprio Maisie e un'altra studentessa, all'uscita del Museo di storia naturale. Maisie era diversa da come se l'aspettava e, in un primo tempo, rimase deluso. Era piccola, quasi minuta, decisamente graziosa, con occhi scuri, sopracciglia sottili e una voce flautata dall'accento inatteso, vagamente cockney, un fatto davvero strano per una studentessa universitaria in quegli anni.

  Quando, rispondendo alla sua domanda, Michael le disse che cosa studiava, sul viso di lei calò un assoluto disinteresse e di li a poco Maisie si incamminò con l'amica. Michael la incrociò, sola, due giorni dopo, la invitò a bere qualcosa e lei rifiutò immediatamente, senza lasciargli nemmeno il tempo di terminare la frase. A testimonianza della sua fiducia in se stesso, Beard fu sorpreso.

  Del resto lei che cosa aveva di fronte Un giovanotto tarchiato con l'aria seria da ragioniere, con tanto di cravatta (nel 1967!), capelli corti spartiti di lato e soprattutto, dettaglio imperdonabile, una penna infilata dentro il taschino della giacca. Come se non bastasse, studiava scienze, una nonmateria per imbecilli. Lo salutò con discreto bel garbo e prosegui per la sua strada ma Beard la segui e le chiese se fosse libera l'indomani, o il giorno dopo, o nel weekend. No, no, e no. A quel punto, Beard ebbe il colpo di genio: E se facessimo da qui a sempre e lei rise di cuore, sinceramente divertita dalla sua insistenza, e parve sul punto di cambiare parere.

  Poi però disse: Perché non facciamo mai, allora Che ne dici di mai e Beard ribatté:

  Ho già un impegno, mi spiace, e lei rise di nuovo e gli sferrò un piccolissimo pugno scherzoso sul bavero della giacca per poi allontanarsi, lasciandolo con l'impressione di avere ancora una chance, perché lei era spiritosa e lui avrebbe potuto prenderla per sfinimento. Lo fece. Svolse delle ricerche sul suo conto.

  Qualcuno gli disse che nutriva un particolare interesse per John Milton. Non gli ci volle molto a scoprire il secolo di appartenenza del soggetto in questione. Uno studente al terzo anno di Lettere che stava al suo college e che gli doveva un favore (Beard gli aveva procurato i biglietti per un concerto dei Cream) lo istruì per un'ora sui fondamenti di Milton: cosa leggere, cosa pensare. Beard lesse il Comus e restò sbalordito dalla sua stupidità. Scorse le pagine del Lycidas, di Sansone Agonista e del Penseroso e li trovò retorici e a tratti piuttosto moralisti.

  Se la cavò meglio con il Paradiso perduto e, come tanti prima di lui, preferì la compagnia di Satana a quella di Dio. Mandò a memoria alcuni brani che gli sembrarono intelligenti e particolarmente appassionati. Lesse una biografia e quattro saggi critici che gli erano stati suggeriti in quanto fondamentali.

  Le letture gli portarono via un'intera, lunga settimana. Rischiò di farsi cacciare fuori da una libreria antiquaria in Turi Street per aver disinvoltamente chiesto se fosse disponibile una prima edizione del Paradiso perduto. Rintracciò un insegnante gentile, esperto in acquisto di volumi antichi e gli confidò di voler fare bella figura con una ragazza, regalandole qualcosa di speciale. L'uomo gli consigliò una libreria in Covent Garden, dove Michael spese metà dei fondi di un semestre per un'edizione settecentesca dell'Areopagitica. Sfogliando rapidamente il volume sul treno che lo riportava a Oxford, una delle pagine si strappò in due. Beard la riparò con lo scotch.

  Dopodiché, in modo relativamente spontaneo, si imbatté nuovamente in Maisie, questa volta di fronte ai cancelli del college, dove l'aveva aspettata per due ore e mezza. Le chiese se potevano almeno attraversare gli University Parks insieme. Lei non disse di no. Indossava un vecchio pastrano militare sopra un cardigan giallo e una gonna a pieghe nera, e un paio di scarpe di vernice con strane fibbie d'argento.

  Era anche più bella di come la ricordasse. Mentre camminavano, Michael le chiese educatamente del suo lavoro e lei, come se si rivolgesse allo scemo del villaggio, gli spiegò che stava scrivendo un articolo su Milton, un celebre poeta inglese vissuto nel diciassettesimo secolo. Beard le chiese di precisare. Maisie lo accontentò. Lui azzardò un parere documentato. Meravigliata, Maisie si dilungò ulteriormente. Allo scopo di puntualizzare meglio alcune sue affermazioni, Beard recitò i versi «... dall'alba precipitò fino a metà del giorno» che lei, concitata, completò: «... e da metà del giorno, fino alla sera molle di rugiada». Badando a mantenere un tono di voce esitante, Michael parlò prima dell'infanzia di Milton, poi della guerra civile. C'erano cose che lei ignorava e che non vedeva l'ora di imparare.

  Della vita del poeta sapeva poco e, curiosamente, sembrava che non rientrasse nel suo programma di studi prendere in considerazione le circostanze storiche dei tempi. Poi Beard la riportò sul terreno a lei noto.

  Citarono altri versi prediletti. Le chiese quali critici avesse preso in esame. Ne aveva letto qualcuno anche lui, e passò garbatamente a dimostrarlo. Aveva dato un'occhiata a una bibliografia, e il suo discorso superò di gran lunga le effettive letture svolte. Maisie detestava il Comus anche più di lui, perciò Michael si lanciò in una moderata difesa del masque che le consentì poi di smontare.

  Poi parlò dell 'Areopagitica e della sua attinenza con la politica contemporanea. A quel punto Maisie si bloccò sul sentiero e comprensibilmente gli chiese come mai un uomo di scienze fosse tanto informato su Milton, e Michael temette di essere stato scoperto. Si finse leggermente offeso. Gli interessava il sapere in generale, disse, i confini tra una disciplina e l'altra erano meri espedienti di comodo, casualità storiche, o inerzie della tradizione. Per chiarire il pensiero, attinse a certi appunti carpiti ad amici antropologi e zoologi. Finalmente con una nota di tenerezza nella voce, Maisie cominciò a rivolgergli domande personali, pur non avendo voglia di sentir parlare di fisica.

  E lui, da dove veniva Essex, fece Beard. Ma no! Anche lei! Da Chingford ! Ecco finalmente il colpo di fortuna: Michael non se lo fece sfuggire. La invitò a cena. Lei accettò. In seguito Beard avrebbe considerato quel pomeriggio soleggiato e nebbioso di novembre, lungo le sponde del Cherwell e presso il Rainbow Bridge, come il punto di partenza del suo primo matrimonio. Tre giorni più tardi portò Maisie a cena al Randolph Hotel, dopo avere ormai dedicato un'altra intera giornata a Milton.

  Essendo già chiaro che il suo particolare oggetto di studio sarebbe stata la luce, fu ovvio che si sentisse attratto dalla poesia che recava quel titolo. Ne aveva imparato a memoria l'ultima decina di versi e, complice una seconda bottiglia di vino, ne illustrò a Maisie il pathos, quello di un cieco il quale, dalla nostalgia per ciò che ai suoi occhi sarà per sempre negato, passa all'elogio del potere salvifico dell'immaginazione. Sulla tovaglia inamidata, reggendo in mano il bicchiere del vino, Beard glieli recitò, concludendo con: «Per cui Luce Celeste tanto più risplendi dentro di me, e con i tuoi poteri irradia la mia mente, donale occhi, sottrai, e disperdi le nebbie che l'hanno invasa, cosi che possa vedere e raccontare queste cose invisibili allo sguardo umano».

  Sulle parole di quei versi, vedendo gli occhi di Maisie riempirsi di lacrime, infilò una mano sotto la sedia ed estrasse il suo dono, l'Areopagitica, rilegata in vitellina nel 1738. Maisie ne fu sbalordita. Una settimana dopo, sfidando l'illegalità, Michael si introdusse in camera sua e, sulle note di Sergeant Pepper provenienti dal giradischi Dansette che nel pomeriggio le aveva riparato tra i fumi del suo saldatore elettrico, diventò finalmente il suo amante. Il termine «maiala», con la sua velata allusione alla possibilità che Maisie fosse di proprietà comune, gli divenne odioso.

  Sebbene lei fosse, in effetti, più audace e sfrenata, più intraprendente e generosa di qualsiasi ragazza che avesse mai conosciuto. Faceva anche bene il pasticcio di carne e rognone. Michael decise che si era innamorato. Il corteggiamento di Maisie fu un'occupazione incessante e ben programmata che gli procurò grandi soddisfazioni e costituì un punto di svolta nel suo personale sviluppo, perché Beard sapeva che nessuno studente al terzo anno di Lettere, per quanto in gamba, sarebbe mai riuscito a confondersi tra i suoi colleghi laureandi di matematica e fisica, dopo una settimana di studio.

  Il traffico era a senso unico.

  Quella settimana passata su Milton gli fece sospettare la possibilità di un bluff colossale. Leggere era una. sfacchinata, ma non si era imbattuto in nulla che potesse anche solo lontanamente costituire una sfida alla sua intelligenza, nulla che avesse il livello di quotidiana difficoltà del suo corso di studi. Proprio la settimana dell'appuntamento al Randolph, aveva affrontato lo scalare di Ricci afferrandone finalmente l'utilizzo in ambito di relatività generale.

  Ormai era convinto di poter comprendere quelle straordinarie equazioni. La Teoria, cessando di essere un'astrazione, si era fatta sensuale: Beard riusciva a sentire come il tessuto inconsutile di spazio e tempo potesse essere alterato dalla materia, come influisse sul moto degli oggetti, come la gravità scaturisse dalla sua curvatura. Poteva stare mezz'ora a fissare una manciata di termini e indici del punto cruciale delle equazioni di campo e capire perché Einstein stesso avesse parlato di una «bellezza impareggiabile» e perché Max Born l'avesse definito «il punto più alto del pensiero umano sulla natura».

  Tale comprensione rappresentava l'equivalente mentale del sollevamento di pesi enormi: un'operazione impossibile al primo tentativo. Lui e i suoi colleghi si dedicavano a lezioni e attività di laboratorio otto ore al giorno, sforzandosi di misurarsi con alcuni dei concetti più difficili mai elaborati. Gli umanisti si buttavano giù dal letto verso mezzogiorno, per affrontare i loro unici due seminari settimanali. Beard aveva il sospetto che in quelle sedi non si discutesse nulla che chiunque dotato di mezzo cervello rischiasse di non capire. Personalmente, aveva letto quattro dei migliori saggi critici su John Milton. Quindi sapeva. Con tutto ciò, quegli scansafatiche continuavano a spacciarsi per esseri superiori, e lui si era lasciato intimidire.

  Mai più.

  Dal momento in cui era riuscito a conquistare Maisie, Beard era diventato un essere intellettualmente libero. Molti anni più tardi, raccontò la storia e le conclusioni che ne aveva tratto a un professore di letteratura di Hong Kong e questi gli disse: Si, Michael, peccato ti sia sfuggito il nocciolo della questione. Se avessi sedotto novanta ragazze con novanta poeti diversi, uno alla settimana per i tre anni di corso accademico, e alla fine avessi conservato memoria di tutto, di tutti i poeti, intendo, e avessi sintetizzato le tue letture in una sorta di visione estetica d'insieme, allora in effetti ti saresti guadagnato una laurea in letteratura. Ma non venirmi a dire che è facile. Eppure al tempo gli parve cosi e l'ultimo anno di università Beard fu assai più felice e, come lui, anche Maisie.

  Lo convinse a farsi crescere i capelli, a mettersi i jeans anziché i pantaloni di flanella, e a smettere di riparare ogni cosa. Non era fico. Loro due in compenso lo diventarono, pur essendo entrambi un po' bassi di statura. Beard lasciò Park Town per trovarsi un minuscolo appartamento a Jericho, dove si sistemarono insieme. Gli amici di lei, tutti studenti di storia e letteratura, divennero i suoi.

  Erano più spiritosi degli amici di un tempo, naturalmente più pigri, e disponevano di uno spiccato senso del piacere, quasi lo ritenessero un fatto dovuto. Beard coltivò idee nuove, sulla distribuzione della ricchezza, sul Vietnam, sugli avvenimenti di Parigi, sull'avvento della rivoluzione e sull'Lsd che definì essenziale, ma di cui personalmente si rifiutò di fare uso. Quando udiva se stesso intonare la solfa, Beard era tutt'altro che convinto e non si capacitava che nessuno gli desse dell'impostore. Provò a fumare dell'erba ma non gli piacque, per come agiva sulla memoria.

  Nonostante i consueti festini con musica assordante e vini atroci bevuti in fradici bicchierini di carta, lui e Maisie non trascurarono mai il lavoro. Poi, ecco l'estate, gli esami finali e a quel punto, con loro stolta sorpresa, fu tutto finito e ciascuno sparì. Si laurearono entrambi con il massimo dei voti. Michael ricevette l'offerta desiderata per un dottorato all'Università del Sussex. Si trasferirono insieme a Brighton dove, dal mese di settembre, trovarono una bella sistemazione: la vecchiacanonica di un paesino sperduto sui Downs del Sussex. L'affitto era superiore alle loro forze economiche, perciò, prima di rientrare a Oxford, acconsentirono a dividere la casa con una coppia di studenti di teologia, da poco genitori di due gemelli identici.

  Sul giornale di Chingford uscì un articolo sulla ragazza locale di umili origini che «ce l'aveva fatta a volare alto». E fu appunto dall'alto di quel volo, e per consolidare il loro milieu in fase di sgretolamento che decisero di sposarsi, non nel rispetto delle convenzioni ma per motivi diametralmente opposti, perché era una scelta eccentrica, esilarante, kitsch e di un anacronismo innocuo, un po' come le fastose divise militari esibite dai Beatles nelle foto pubblicitarie del loro strepitoso Lp.

  Per questa ragione, gli sposi non invitarono e nemmeno informarono le rispettive famiglie. Dopo la cerimonia che ebbe luogo presso l'anagrafe di Oxford, si ubriacarono sui prati di Port Meadow con una ristretta cerchia di amici che li avevano raggiunti per la giornata. Il tenente colonnello (in pensione) Henry Beard, decorato al valor militare, unico residente della vecchia casa di Cold Norton, non seppe nulla del matrimonio del figlio fin dopo il divorzio. Proprio a quel periodo pensava suo figlio adesso, quarantun anni dopo, mentre, stordito dagli effetti del jet lag, sedeva alle cinque del pomeriggio nel bar circolare dell'hotel Camino Real di E1 Paso, in Texas, aspettando di veder comparire Toby Hammer.

  La cameriera tornò ad avvicinarsi e Beard le ordinò un altro scotch e una seconda ciotola di noccioline salate.

  Sotto la vertiginosa cupola di vetri a piombo, voci americane e messicane, echeggiando, si mescolavano impedendogli di distinguere qualsiasi conversazione. Pensava a quel periodo, come capita di fare durante un lungo viaggio, quando la noia, lo spaesamento, la mancanza di sonno o della propria routine possono all'improvviso evocare momenti qualsiasi del passato e farli diventare presenti come un'ossessione. Ed ecco che quasi si ritrovava li, nella sala da pranzo del Randolph, in giacca, cravatta e camicia bianca che si era stirato personalmente con scarsi risultati.

  Dopo il primo bicchiere era perfino in grado di recuperare frammenti dell'«Inno alla luce» di Milton: «... una perenne oscurità mi circonda, esiliato dalla vita felice degli uomini», poi qualcosa in mezzo, e poi: «... e mi è negato un ingresso alla saggezza». Aveva usato dei versi per conquistare una ragazza, e lei non c'era più, morta già da due anni per un tumore al fegato, in effetti. I versi in compenso non se n'erano andati. Beard rifletteva sul fatto di non aver mai portato Maisie a conoscere suo padre, né invitato il vecchio nella bella canonica del Sussex, per lasciarlo invece solo con il suo dolore, mentre la nuova era albeggiava e una generazione presuntuosa, irriverente e viziata voltava le spalle a padri che avevano combattuto in guerra, disdegnandoli perché portavano i capelli corti, amavano l'ordine e non apprezzavano il rock and roll.

  Occorreva più di uno scotch per scatenare il senso di colpa in Michael Beard. Quello ormai era il terzo, forse anche il quarto. Aspettava da più di un'ora. Fuori in strada c'erano quarantatré gradi; li pareva di stare a meno dieci. Si scaldava un poco giusto con l'alcol. Negli ultimi anni aveva fatto il viaggio e frequentato quel bar diverse volte. Da Londra a Dallas, poi Dallas E1 Paso, dove, in aeroporto, affittava il solito Suv gigantesco, unico veicolo in grado di offrire un'accoglienza confortevole alla sua stazza.

  Dopodiché, si fermava in albergo a riprendere le forze o a incontrare i colleghi prima di affrontare le tre ore di macchina lungo il confine occidentale del Messico, diretto a Lordsburg, New Mexico. Oggi Hammer era in arrivo da San Francisco. Formidabili temporali estivi sulle Rocky Mountains stavano causando ritardi ai voli. Beard avrebbe potuto proseguire da solo, ma preferì aspettare.

  Contemplò anche l'ipotesi di pernottare e fare un salto dal dottor Eugene Parks in mattinata per ritirare i risultati delle sue analisi. Continuava a essere superstiziosamente convinto che un americano saggio come il vecchio dottor Parks gli avrebbe consegnato qualsiasi verdetto clinico con l'opportuno distacco imperturbabile dello straniero, senza le sfumature moralistiche, i velati rimproveri e la malcelata indignazione che Beard ormai si aspettava dai medici suoi connazionali.

  «Si rivesta pure, professor Beard. Temo che sia proprio arrivato il momento di intervenire sul suo stile di vita». Il suo stile di vita, avrebbe voluto ribattere lui mentre con aria mortificata si rimetteva le mutande, prevedeva di donare al mondo la fotosintesi artificiale su scala industriale. Se solo il mondo con i suoi mercati finanziari stagnanti non l'avesse ostacolato.

  Arrivò il drink, traboccante di cubetti di ghiaccio energia elettrica dilapidata in comodo formato trasparente , insieme a una ciotola da mezzo chilo di noci coperte di sale. Non era nello stile del dottor Parks rimproverare i suoi pazienti per il modo in cui sceglievano di vivere. Inoltre, dato il fervore con il quale credeva nel cambiamento climatico e avendo acquistato sull'isola di Terranova una tenuta che in capo a dieci anni avrebbe senza dubbio potuto piantare a vigna, Parks era anche un sostenitore del progetto di Beard. Quando le temperature estive texane avessero regolarmente raggiunto i cinquanta gradi, sarebbe stata ora di radunare armi e bagagli e traslocare al Nord.

  Già centinaia, se non migliaia di americani, disse a Beard, avevano cominciato a comprare terreni in Canada. Mentre trasferiva tutti i cubetti di ghiaccio tranne uno nel bicchiere di prima, Beard notò la macchia sul dorso della mano e prese a fissarla, augurandosi di vederla sparire. Tre anni addietro era comparso qualcosa e gli ci era voluto un bel pezzo per convincersi a farsi fare una diagnosi.

  Scopri che si trattava di un tumore della pelle benigno, facilmente eliminabile grazie a un intervento di criochirurgia con azoto liquido. Nove mesi or sono si era ripresentato in forma diversa e Beard sospettò che non sarebbe andata altrettanto liscia, questa volta. Quindi non fece nulla mentre la macchia cresceva e scuriva fino ad assumere l'aspetto di una chiazza livida dai bordi nerastri.

  Di solito, Beard se ne ricordava quando era giù di corda. Un tempo si sarebbe considerato al riparo da simili manifestazioni di irragionevolezza e vigliaccheria. Da qualche parte, in una cartella nell'ambulatorio del dottor Parks, si trovava la verità sotto forma di referto di un esame bioptico.

  Poteva ritirarlo l'indomani, oppure passare sulla via del ritorno. La cosa che Beard avrebbe preferito sarebbe stata andarci il giorno dopo per un controllo generale e poi non saperne più niente a meno che l'esito non fosse negativo.

  In America, accordi simili non erano impossibili. Aveva promesso che avrebbe chiamato Darlene a Lordsburg, ma ora non ne aveva voglia. Su un palco sopraelevato in un angolo del bar, due tizi si andavano sistemando con le sedie davanti a un microfono. Uno dei due cominciò ad accordare una chitarra elettrica il cui stridore nel bending microtonale evocò un ricordo. Già, i due studenti di teologia con cui lui e Maisie avevano abitato si chiamavano Gibson, Charlie e Amanda Gibson, erano credenti e intellettuali, in controtendenza rispetto ai tempi, e frequentavano un istituto di Lewes.

  Il loro dio, in misterioso segno d'amore, o per volontà di infliggere un castigo, aveva fatto loro dono di un paio di bebé in formato gigante che avrebbero potuto scippare in scioltezza a Beard il primo premio del '47. Due gemelli eternamente insonni che di rado interrompevano i loro identici ululati laceranti; che, se per caso mancavano l'attacco all'unisono, si davano a vicenda il la, e che collaboravano a saturare la signorile dimora di un miasma penetrante come un tegame di curry sul fuoco, un vindaloo di scampi, ma perfido come una palude salmastra, quasi che, per motivi religiosi, fossero condannati a una dieta stretta a base di guano e di cozze.

  Il giovane Beard, chino in camera da letto sui primi calcoli che dovevano condurlo al lavoro di una vita, alla sua grande occasione esistenziale, si imbottiva le orecchie di carta assorbente e teneva le finestre aperte anche in pieno inverno. Quando scendeva a prepararsi un caffè, gli capitava di sorprendere i coniugi in cucina in uno dei tanti momenti del loro inferno personale.

  Con gli occhi cerchiati e di umore irritabile per la mancanza di sonno, si spartivano con odio reciproco le varie atroci incombenze, che comprendevano anche meditazione e preghiera. L'ampio atrio e i locali comuni della canonica georgiana risultavano deturpati dalla congerie di aggeggi in metallo e plastica deputati a equipaggiare un'infanzia moderna. Nessun membro della famiglia Gibson, adulto o neonato che fosse, manifestava il minimo piacere per l'esistenza propria o degli altri. Perché avrebbe dovuto, del resto? Beard giurò in cuor suo che non sarebbe mai diventato padre.

  E Maisie Beh, lei cambiò idea riguardo a un dottorato su Aphra Behn, rifiutò un impiego presso la biblioteca universitaria e fece invece richiesta per un sussidio statale. In altri tempi sarebbe stata considerata una signora senza occupazione, ma nel ventesimo secolo la si poteva definire una donna «dinamica». Si aggiornò dedicandosi alla lettura di testi sociologici, frequentò un gruppo diretto da un collettivo di donne californiane, organizzò un suo personale «workshop», concetto ancora nuovo in quegli anni e, sebbene da un punto di vista convenzionale avesse smesso di volare alto, a crescere fu la sua coscienza interiore, tanto che di li a poco dovette fare i conti con il palese patriarcato vigente e inserire il ruolo del marito in un sistema reazionario che, dalle istituzioni che lo avvantaggiavano in quanto maschio, si estendeva fino a lambire le sfumature dei suoi discorsi di tutti i giorni, benché lui non riuscisse ad ammetterlo.

  Per usare l'espressione che Maisie utilizzò allora, fu come varcare la superficie di uno specchio. Ogni cosa appariva diversa, e per lei, e di conseguenza anche per lui, non fu più possibile sentirsi ingenuamente appagati. Su alcune istanze si approdò a una soluzione dopo intensi dibattiti. Beard era un razionalista troppo convinto per farsi venire in mente tante buone ragioni per non dare una mano in casa. Aveva idea che quel genere di attività lo annoiasse più di quanto annoiava lei, ma si guardò bene dal dirlo. E poi, lavare due piatti era il meno.

  C'erano piuttosto atteggiamenti assai radicati che doveva prendere in esame e modificare: c'era l'inconsapevole presupposizione della propria «centralità», l'alienazione dalla sua sfera sentimentale, l'incapacità di ascoltare, cioè di sentire davvero quello che lei gli diceva e di capire come quello stesso sistema che, nelle grandi come nelle piccole cose, da sempre lo aveva favorito, avesse da sempre sfavorito lei.

  Voleva un esempio A lui era concesso andarsene da solo al pub a godersi una birra, mentre lei non avrebbe potuto farlo senza attirare su di sé gli sguardi della gente che l'avrebbe fatta sentire una puttana. C'era in lui la certezza indiscussa del valore oggettivo del suo lavoro, e la fede nella razionalità stessa. Michael non afferrava l'idea che conoscere se stessi potesse costituire un impegno di capitale importanza.

  Esistevano altri percorsi di conoscenza del mondo, percorsi femminili, che lui liquidava con sufficienza. Benché fingesse il contrario, provava ribrezzo per il suo sangue mestruale, offendendo in tal modo l'essenza stessa del suo essere donna. Il loro fare l'amore, riproducendo spensieratamente posizioni di predominio e sottomissione, imitava di fatto uno stupro ed era viziato a priori.

  Passarono i mesi, sere su sere di discussioni durante le quali Beard perlopiù ascoltava e, nelle pause, pensava al lavoro. Al tempo considerava i fotoni da un punto di vista radicalmente diverso. Poi una notte, lui e Maisie furono come al solito svegliati dai gemelli e, mentre stavano sdraiati al buio uno accanto all'altra, Maisie gli comunicò che lo avrebbe lasciato. Ci aveva riflettuto bene, non era sua intenzione litigare. Sulle piovose colline del Galles centrale stava per nascere una comune, lei voleva farne parte e non credeva che sarebbe tornata.

  Sapeva, in modi che Michael non avrebbe mai potuto capire, che quello era il percorso giusto per lei. Aveva a che fare con la sua realizzazione, con il suo passato e con la sua identità di donna, che si sentiva chiamata ad analizzare. Era suo dovere farlo. A quel punto, Beard si senti sopraffatto da un'emozione violenta e ignota che gli serrò la gola spingendogli fuori dal petto un singulto incontrollabile. Il suono fu tale che l'intera famiglia Gibson al di là della parete dovette udirlo senz'altro. Lo si sarebbe facilmente potuto confondere con un grido.

  Quel che provò fu un misto di gioia e sollievo, seguiti da un senso di vasta inconsistenza fluttuante, come se fosse sul punto di sollevarsi dalle lenzuola per salire fino al soffitto. All'improvviso gli fu tutto chiaro: la prospettiva di essere libero, di lavorare quando gli pareva, di invitare a casa alcune delle donne intraviste al Falmer campus sui gradini della biblioteca, di fare ritorno al suo imperscrutato se stesso, dopo essersi incolpevolmente disfatto di Maisie. Tutto ciò fece si che una lacrima di gratitudine gli rigasse il volto. Beard provò anche un desiderio feroce e impaziente che lei non ci fosse più. Per un attimo pensò di offrirle subito un passaggio alla stazione, ma non c'erano treni da Lewes alle tre del mattino, senza contare che Maisie non aveva ancora fatto le valigie.

  Appena senti il suo singhiozzo, lei allungò un braccio a cercare la luce sul comodino e, china sulla sua faccia, si accorse che aveva gli occhi umidi di pianto. Con salda determinazione, gli mormorò: Non intendo lasciarmi ricattare, Michael. Non te lo permetto, ripeto, non ti permetterò di convincermi a rimanere manipolandomi emotivamente. Per fortuna il bar era molto spazioso. I due uomini strillavano all'unisono una canzone comica in spagnolo e ogni ingresso del coro veniva accolto da uno scroscio di risa.