COMPROMESSO
Sergei Dovlatov
Recensione
Il gradimento di certi scrittori risulta non di rado inspiegabile. Forse in verità non si può spiegare qualcosa il cui apprezzamento deriva da un esercizio del tutto singolare e individuale quale è la lettura. Ecco, per me, Sergej Dovlatov è uno di quegli scrittori.
L’autore di Compromesso, fa dell’ironia la cifra basilare della sua scrittura. Un’ironia che fa ridere d’un riso spesso sarcastico perché non vuole meramente divertire, ma vuole soprattutto ridicolizzare certe situazioni. Un’ironia molto russa, d’altro canto, dunque “così naturale, così poco ricercata, con quel ricco substrato di amarezza” come scrive Salmon nella introduzione. Quello che scrive Dovlatov ricorda molto da vicino certi casi attuali, senza alcun dubbio: da sempre e ovunque i poteri dominanti basano la propria influenza pubblica anche sul controllo dell’informazione ovvero sulla comunicazione di notizie convenienti e la censura di quelle che la gente è meglio non conosca. Siamo ancora qui, a queste cose, peraltro ancora più paradossali di quanto lo fossero in passato, viste le infinite possibilità attuali, grazie alla rete, di informazione rapida e, con la giusta capacità discernitiva, affidabile.
Anche per questo Compromesso è un libro sublime da leggere, e Dovlatov un autore necessariamente da conoscere meglio (ergo, gratitudine e ammirazione per la Sellerio che lo può permettere!)
COMPROMESSO
«Dovlatov semplicemente ride. Senza secondi fini, senza sottofondo».
«In Dovlatov il lettore occidentale riconoscerà anche se stesso. In questa universalità dell’umorismo dovlatoviano risiede, forse, la qualità fondamentale della sua prosa». Vanno assunti pressoché testualmente, come guida alla lettura, questi giudizi di critici su uno scrittore russo contro ogni corrente, morto prematuramente nel ’90, da sempre dissidente ed emigrato in America con l’ultima ondata, molto amato dalla critica (si sono cercati, nel suo umorismo, raffronti con Čechov), meno dai suoi colleghi dell’emigrazione. Tanto che, se il lettore astraesse dal luogo e dal tempo del loro svolgimento (la repubblica estone dell’URSS, nell’era di Breznev), questi compromessi potrebbero benissimo raccontare come nasce universalmente una non-notizia, come è fatto veramente il mondo della non-comunicazione.
Sergej Dovlatov (1941-1990), nato da una famiglia di gente di spettacolo, dopo una giovinezza anarcoide e dissipata, si dedicò al giornalismo, lavorando, senza fortuna, per giornali di provincia, dai quali veniva regolarmente licenziato per indisciplina. Nel 1978 emigrò negli Stati Uniti, dove iniziò a pubblicare racconti e romanzi, prevalentemente a sfondo autobiografico, «commedie autobiografiche» pervase di un umorismo instancabile e vicino alla tradizione dell’umorismo russo.
Di Dovlatov, questa casa editrice ha pubblicato il romanzo Straniera, nel 1991.
In copertina:
Fiori, farfalle e uccellino di Fedor Tolstoj.
Galleria Tretiakov, Mosca.
L’estro del quotidiano
Di Laura Salmon
Per decenni hanno pregato Lenin. Ora sono pronti a distruggere i suoi monumenti da loro stessi edificati.
S. DOVLATOV, La marcia dei solitari
L’immancabile reazione ai suoi racconti, alle sue storie, era riconoscenza per l’assenza di pretenziosità, per la lucidità del suo atteggiamento, per la musica non stentorea del buon senso che risuona in ogni sua frase.
I. BRODSKIJ, Serëža Dovlatov
Nell’autunno del 1986, russista alle prime armi, andai a Parigi per incontrare lo scrittore Viktor Nekrasov.
Nekrasov era uno dei nomi più prestigiosi tra gli intellettuali russi della cosiddetta «terza ondata», ovvero di quel folto gruppo di artisti che avevano lasciato la Russia negli anni Settanta. Egli aveva appena pubblicato a Londra (quello stesso anno) un libretto tutto particolare, Una piccola storia triste: come si dice in russo una povest’, qualcosa che sta tra il racconto e il romanzo breve. La narrazione, per l’appunto così intrisa di tristezza, malinconia e amarezza, riguardava in parallelo le vicende di tre amici russi: un ballerino, un cineasta e un giornalista. Il primo aveva ottenuto asilo politico negli Stati Uniti durante una tournée, il secondo aveva fatto carriera nel cinema sovietico, il terzo aveva sposato una francese e viveva a Parigi. Dietro le vicende incrociate di questi tre personaggi - me lo rivelò lo stesso Nekrasov - si nascondevano personaggi in carne ed ossa, tra cui l’autore stesso. Il pathos esistenziale ed una straordinaria capacità di trasfondere il personale nel contesto più generale dell’esperienza umana rendevano Una piccola storia triste un’opera assai distante dalla abbondante produzione degli scrittori russi dell’emigrazione. Né in Solženicyn, né in Aksënov, né in Maksimov, né nelle precedenti opere dello stesso Nekrasov, poteva rinvenirsi questo insolito sentimento di accorata, ma quasi rassegnata malinconia. Nella prosa dei «dissidenti» russi, qualunque fosse il reale intento del narratore, conviveva pur sempre, accanto al dolore, la rabbia, il desiderio di denuncia e di riscatto dalle aberrazioni e dalle ingiustizie del potere sovietico.
Affascinata, dunque, da questa Storia, nuova e coinvolgente, speravo di poterne parlare con l’autore, di ottenere da lui informazioni e una sorta di «benedizione» prima di accingermi alla traduzione del libro e alla già nota per me, affannosa, ricerca di un coraggioso editore italiano.
Grazie all’intervento di un comune amico incontrai Nekrasov, già profondamente malato, in un locale di Montparnasse. L’unica condizione per restare accanto a lui era quella di bere, almeno birra, e di ordinare un bicchiere dietro l’altro, senza indugiare troppo a svuotarli. L’alcolismo, che l’anno seguente avrebbe portato alla morte lo scrittore, era per lui, come per numerosi artisti russi, qualcosa di simile ad una qualità ontologica, un elemento intrinseco e irrinunciabile, tanto fisico quanto spirituale.
In proposito ricorderò due battute di un dialogo del «Compromesso undicesimo» tra Dovlatov e Marina, la donna di Tallinn che lo aveva accolto per l’ennesima volta con i postumi di una sbornia:
- Fa rabbia vedere un uomo che si distrugge.
- Sai una cosa, nelle nostre condizioni, perdere è forse più dignitoso che vincere.
Se ricordo tutto questo è perché, tra le tante altre cose, devo all’incontro con Viktor Nekrasov, così commovente e prezioso per me, il successivo incontro con l’opera di Dovlatov, altro straordinario prosatore della «terza ondata», tanto ormai celebre nella patria d’origine (la Russia) e in quella acquisita (l’America), quanto ancora poco noto in Europa e in Italia in particolare.
Ad essere sentimentale, potrei pensare che non fosse stato un caso che io sentissi per la prima volta il nome di Dovlatov in una birreria, in compagnia di un geniale scrittore e instancabile bevitore.
Quando espressi a Nekrasov il desiderio di tradurre la sua Storia triste, lui ribattè: «Traduca, traduca pure, sono onorato. Ma prima
Dovlatov, traduca Dovlatov, è eccezionale!». Confessai, da buona frequentatrice di timorati salotti sovietici e di scantinati antisovietici, di non averlo mai sentito nominare: Dovlatov era troppo poco incattivito contro l’Unione Sovietica per piacere ai dissidenti, e d’altro canto le sue battute ironiche e spassionate lo rendevano insopportabile alla nomenclatura più aperta. Nekrasov non si scompose: «Beh, ora l’ha sentito nominare, non ci sono attenuanti».
Dopo pochi mesi ricevetti dagli Stati Uniti un pacco con una decina di volumetti in russo, tutti firmati Sergej Dovlatov. Uno più degli altri mi attrasse e lo lessi immediatamente: Inostranka (Straniera). Ne tradussi alcune pagine e le feci leggere a varie persone che, colpite da questo umorismo così insolito per un emigrante, mi indussero a insistere con gli editori. Quella volta ebbi fortuna, senza indugi Elvira Sellerio mi fece sapere che avrebbe pubblicato la traduzione.
Il pubblico italiano potè conoscere Dovlatov proprio alla vigilia della sua morte, avvenuta improvvisamente il 24 agosto 1990. Per l’emigrazione russa fu uno choc, per la letteratura e i suoi lettori una perdita che oggi, sempre più chiaramente, appare gravosa.
La morte di Sergej Dovlatov, oltre alle implicazioni emotive, significò per me, che avevo tradotto un suo libro e speravo di tradurne altri, lo sfumare della fondamentale opportunità di incontrarlo, di ottenere informazioni su di lui e sulla sua opera. Se anche, infatti, su di sé egli aveva scritto ogni riga dei suoi racconti e la sua opera era nata e costruita per essere «condivisa», compresa, essa resta sottilmente pervasa da una sorta di voluta ambiguità. L’opera di Dovlatov non è scritta per informare, per dare notizia o testimonianza, è scritta come le più alte opere letterarie in una fusione di ludico e filosofico, di naturale e artificiale. L’apparente «spontaneità» - chi può capirlo meglio di un traduttore? - è in realtà il risultato di un processo meditato, anzi meditatissimo, la sintesi di una ricerca stilistica che sembra perseguire l’ideale tolstojano dell’essenzialità. Chi traduce può e deve divenire parte di una creazione che è tanto più ricca di segreti, quanto più abilmente sa dissimularli.
I libri di Dovlatov, che - come meglio vedremo in seguito - tanto per la lingua, quanto per il contenuto, potranno divenire fonte generosa di materiali e dati per linguisti, sociologi e sovietologi (miracolosamente sopravvissuti, questi ultimi, all’Unione Sovietica), non sono neppure libri scritti per essere interpretati, «spiegati»; sono nati, nel senso più profondo dell’espressione, «per essere letti». Essere «il critico» di Dovlatov è possibile solo a patto di restare essenzialmente il lettore partecipe dei suoi libri.
Iosif Brodskij, che conosceva bene Dovlatov, fin dalle frequentazioni leningradesi dei primissimi anni Sessanta, sostiene che:
L’immagine umana che scaturisce dai suoi racconti non corrisponde all’immagine della letteratura russa tradizionale [...] I discorsi relativi alle sue radici letterarie, alle influenze, ecc. sono insensati, poiché uno scrittore è come un albero che si stacca dal terreno.1
È l’opinione di un grande poeta e di un fine conoscitore della letteratura. Tuttavia, restando in metafora, un albero che si stacchi dal terreno, in quel terreno è comunque nato, cresciuto e ha maturato il suo distacco. Infatti, leggendo e rileggendo Dovlatov, viene in mente Čechov. Lo si ricorda per quell’impronta umoristica così personale e inconfondibile, eppur così naturale, così poco ricercata, con quel ricco substrato di amarezza. Si tratta di un parallelo spontaneo, nulla di forzato. In Čechov è proverbiale la commistione di ironia e di serietà, di amore per il banale e per ciò che di straordinario la banalità nasconde. L’esito più inatteso si unisce alla capacità dell’autore di osservare e di riferire le cose, per quanto strane, così come sono avvenute «davvero» (o avrebbero potuto «davvero» avvenire).
Come Čechov, Dovlatov è uno scrittore ironico, umoristico, mai apertamente comico. Pirandello, nel suo celebre saggio sull’umorismo, spiegava che la comicità è ridere senza badare al sentimento di tristezza che l’oggetto o la situazione nascondono. Čechov è invece un umorista capace di far sorridere senza mai tradire il profondo senso di angustia, di angoscia, di malinconia o addirittura di impotenza che gli eventi portano con sé (il «riso tra le lacrime» è dunque un’espressione impropria); senza mai un giudizio definitivo, senza una «morale» in senso tradizionale, ma secondo un’etica nuova rispetto ai «grandi» dell’Ottocento russo, Dostoevskij e Tolstoj. L’etica della disponibilità dell’osservatore verso la materia osservata, la capacità di rispettare non solo e non tanto il personaggio, quanto la realtà che esso rappresenta pur in tutte e con tutte le sue infinite debolezze.
Dovlatov osserva la realtà sovietica dei suoi anni leningradesi, della sua esperienza di giornalista in Estonia (narrata in Compromesso), dei suoi anni di emigrante a New York, con la condiscendenza di chi ha condiviso, di chi non vuole scagliare pietre, né tanto meno rinnegare nulla. È un’autoaccusa che, nella sua incondizionata sincerità -sincerità che ha il sapore della confessione - senza volerlo, senza sforzo, porta a un’assoluzione. Dovlatov, come del resto all’epoca sua Čechov, non assolve la corruzione, l’ingiustizia, la violenza, assolve invece la fragilità, la contraddittorietà umana, la peculiarità dell’uomo di essere al contempo così uguale e così diverso dai propri simili. Questo viene in mente leggendo i libri di Dovlatov, dove si ritrova in ogni momento una profonda, inestinguibile condiscendenza verso i propri «eroi», così paradossalmente ordinari e straordinari, e verso i loro difetti che spesso, sotto gli occhi stupiti del lettore, si trasformano in qualità. In Straniera, concludendo il capitolo «A casa e fuori», Dovlatov autore-personaggio afferma infatti: «C’è qualcosa di superiore alla giustizia... la clemenza...».
Del resto, come osserva il noto russista Il’ja Serman a proposito dell’opera di Dovlatov, «l’assurdità del mondo da lui raffigurato non richiede alla fantasia dell’autore particolare sagacia».2 Eppure, non solo nella Russia sovietica, ma anche nel nuovo mondo americano, così contemporaneamente cinico e mugnifico - Dovlatov lo ripete di continuo - il bene e il male convivono bellamente, con l’aggiunta di un problema inusuale per la mentalità sovietica dell’emigrante: il libero arbitrio. E anche in questo, anzi in questo più che mai, è originale l’atteggiamento etico dello scrittore: l’America non è una «Russia al contrario » (cioè un bene assoluto contrapposto al male assoluto), l’America è solo una nuova esperienza individuale, la «continuazione» di una Russia indelebilmente interiorizzata. Così egli scrive, concludendo Mars odinokich (La marcia dei solitari):
Mi sono convinto che l’America non è una filiale del paradiso terrestre. E questa è stata la mia principale scoperta in Occidente.
Proprio questo atteggiamento, così lontano dalle condanne ieratiche della maggior parte dei fuoriusciti russi nei confronti del mondo sovietico nella sua totalità, ha reso inizialmente titubante il giudizio dei critici (non del pubblico) nei confronti dei primi racconti di Dovlatov. Non a caso il «boom» di Dovlatov è scoppiato in Russia alcuni anni dopo l’inizio della cosiddetta perestrojka, quando verso il passato tutti cominciavano a guardare con maggiore o minore malinconia. Prima, sotto il potere del PCUS, i suoi libri apparivano troppo poco spietati, e troppo poco allineati a quell’atteggiamento aprioristicamente e acriticamente denigratorio cbe connotava la dissidenza spicciola del popolo silenzioso e quella roboante degli illustri. Oggi che per i russi è così tormentoso imparare a vivere senza il «nemico» o senza l’ideale, Dovlatov, per mezzo della sua malinconia di emigrante, appare, da un lato, il tradizionale cantore dell’emblematica nostalgia russa, dall’altro, si rivela premonitore arguto di quel «vuoto» ontologico che ha pervaso il popolo russo, orfano della grandiosa missione.
Ma il parallelo, non poi troppo ardito, con Čechov, non si esaurisce in una coincidenza di malinconia, indulgenza e ironia. Sussiste ancor più se si osservano gli intrecci della narrazione dovlatoviana, e lo stile così peculiare che li caratterizza. Čechov, con il suo innovativo atteggiamento di modesto osservatore, di umorista di provincia, creò non solo nuove modalità di approccio all’arte letteraria, ma anche un vero e proprio canone stilistico. Molte pagine sono state dedicate dagli studiosi alla scrittura concisa, immediata, viva di Čechov (tanto viva e succinta da creare vari problemi ai traduttori, abituati ai grandi romanzieri russi): molte di queste pagine potrebbero ben adeguarsi - mutatis mutandis - a descrivere lo stile dovlatoviano. Il fatto stesso che Serman abbia intitolato il suo saggio al «teatro» di Dovlatov (che per il teatro non ha mai scritto nulla) aiuta ad intendere la particolarità tutta čechoviana dei suoi artifici.
Aleksej Zverev, in un saggio sull’opera di Dovlatov, quasi en passant, menziona Čechov:
Per me, ad ogni modo, sia Naši [I nostri], sia Kompromiss [Compromesso], sia Inostranka, di recente pubblicato qui da noi, sono vaudeville nel senso čechoviano del termine. Divertenti, anzi, molto divertenti, paragrafo dopo paragrafo. E poi un irreversibile «plof! » e tutto finisce lì, non in base all’azione...3
Se Čechov è famoso per i suoi finali, così ambivalenti e polivalenti da lasciare perplessi anche i lettori più perspicaci, così significativi da aver meritato di per sé l’attenzione del critico Arkadij Gornfel’d, autore di un saggio sull’argomento (Cechovskie finaly, I finali čechoviani, 1939), in Dovlatov particolare attenzione merita l'incipit dei suoi racconti. I suoi inizi sono così originali, smaliziati, aggressivi o almeno inattesi, da essere riconoscibili all’istante:
All’ufficio per l’espatrio quella stronza mi viene anche a dire: [...]:
così inizia Čemodan (La valigia), che è forse il libro più cruciale e centrale dell’opera di Dovlatov;
I nomi, i fatti e le date sono qui tutti autentici. Ho ideato solo i dettagli superflui. Perciò ogni riferimento degli eroi del libro a persone realmente esistite è assolutamente premeditato. E qualsiasi ingrediente artistico è da ritenersi imprevisto e casuale.
è quanto si legge nel frontespizio di Zona (Il lager);
A mezzogiorno arrivammo a Luga
è la frase che apre Zapovednik (Il parco di Puškin);
Al KPP erano in tre
quella che apre Predstavlenie (La rappresentazione).
Tutto come se il lettore fosse un interlocutore abituale, un buon conoscente con cui si mantiene un dialogo costante che viene ripreso solo dopo brevissime, casuali interruzioni.
Vi è un punto di Čemodan in cui Dovlatov espone con la sua inimitabile immediatezza questa «poetica» dell’incipit. È un dialogo con uno dei suoi personaggi «veri», la madre di un amico d’infanzia, Nina Čerkasova, cui piacerebbe scrivere delle memorie sul marito:
- Le scriva.
- Temo di non avere talento. Anche se a tutti i miei amici piacevano le mie lettere.
- Beh, allora scriva una lunga lettera.
- La cosa più difficile è cominciare. In effetti da dove è iniziato tutto? Forse dal giorno in cui ci siamo conosciuti? O molto prima?
- E lei scriva così.
- Così come?
- «La cosa più difficile è cominciare. In effetti da dove è iniziato tutto...».
Quando nel 1976 uscirono in Occidente i primi racconti di Dovlatov, J. Mal’cev nel suo L’altra letteratura (1957-1976). La letteratura del samisdat da Pasternak a Solženicyn riportava le prime impressioni:
Una via di mezzo tra la prosa «nera» e il genere poliziesco rappresentano i racconti di Sergej Dovlatov... Le scene, sempre drammatiche, sono di gusto esotico e i soggetti sono ricchi di dinamismo.4
Certo, non vi era molto a disposizione dello studioso ed era già un ottimo risultato essere menzionati da esordienti in una storia letteraria. Eppure di esotismo in Dovlatov non c’è e non c’era traccia: nulla poteva esserci, al contrario, di più intimo, noto e familiare per un lettore russo, di questi racconti di vita sovietica, in cui, pur con le variabili dell’ambientazione, ci si poteva facilmente «ritrovare». Dinamismo c’è, come ovunque vi sia azione, ma bilanciato dall’umorismo, dall’ironia. Fin dalle prime opere, la prosa di Dovlatov è un omaggio alla memoria, anche se i suoi ricordi hanno una sentimentalità tutta particolare, ambivalente, drammatico-grottesca (proprio il vaudeville!).
La caratteristica primaria della prosa dovlatoviana è dunque l’umorismo, l’ironia, tratto evidente messo in rilievo senza remore nelle poche pagine che i critici hanno successivamente dedicato allo scrittore. Paragonando Dovlatov ad altri contemporanei dell’emigrazione russa (Solženicyn, Maksimov, Koržavin), scrive Vjačeslav Kuricyn:
Dovlatov semplicemente ride. Che qualità meravigliosa è questo semplice ridere... Senza secondi fini, senza un doppio fondo, senza particolari elementi sottotestuali.5
Persino leggendo le pagine in cui Dovlatov ripercorre le tappe più tragiche del suo paese, A. Zverev ricorda:
In generale ridevamo. E in questo non vedo profanazione, in effetti Dovlatov proprio non riusciva a scrivere senza umorismo.6
E la profonda malinconia che, tuttavia, si unisce a un umorismo così genuino, non diviene, né vuol mai divenire compianto.
Dovlatov, in una lettera datata 4 febbraio 1982 all’editore che, forse, dopo ben sedici anni, avrebbe accettato di pubblicare le sue memorie sul lager (Zona), affrontava il problema della sua umoristica «piccolezza» - si potrebbe dire - dinnanzi alla tragica «grandezza» di Solženicyn e del suo Arcipelago Gulag:
Sono ormai tre anni che mi accingo a pubblicare il mio libretto sul lager [...] È risultato che trovare un editore è terribilmente difficile. Per esempio in due hanno già rifiutato. E non vorrei nasconderglielo. I motivi del rifiuto sono praticamente i soliti [...] Il tema del lager è stato esaurito. Queste infinite memorie carcerarie hanno stufato i lettori. Dopo Solženicyn l’argomento deve essere chiuso... Queste osservazioni sono a prova di critica. S’intende, io non sono Solženicyn. Ma forse ciò mi priva del diritto di esistere? E del resto i nostri libri sono assolutamente diversi. Solženicyn descrive i lager politici, io quelli penali. Solženicyn era un prigioniero, io un sorvegliante. Secondo Solženicyn il lager era l’inferno. Io penso invece che l’inferno siamo noi stessi...
Né, come ricorda Il’ja Serman, Dovlatov voleva seguire l’esempio di V. Salamov e descrivere una «galleria degli orrori»:
Non vuole e non può. Egli ha un altro atteggiamento verso la vita e verso le persone (e naturalmente altre esperienze biografiche).7
Lo conferma in Zona (lettera da Princeton del 17 maggio 1982) lo scrittore stesso, che aveva conosciuto Salamov, «una persona sorprendente»:
Il carcere sovietico è uno degli innumerevoli aspetti della tirannia. Una delle forme di violenza totale e omnicomprensiva.
Ma anche nella vita del lager esiste la bellezza. Anche se non si può far a meno delle tinte fosche.
E bellezza Dovlatov ritrovava soprattutto nella lingua del lager, così speciale e unica da non essere più strumento di espressione, ma un fine:
[...] Si ha la sensazione che i prigionieri economizzino il quotidiano materiale verbale. Mentre, per lo più, la lingua del carcere è un fenomeno creativo, esclusivamente estetico, un’arte fine a se stessa.8
Sergej Donatovič Dovlatov nacque il 3 settembre 1941 a Ufa, ai piedi degli Urali, dove la famiglia era evacuata durante la guerra. Crebbe a Leningrado sotto il regime staliniano. Da quanto racconta in Nasi, i suoi genitori ben sapevano che «Stalin era un assassino», e a sei anni lui stesso sapeva che il dittatore aveva ucciso il nonno. Al termine degli studi sapeva tutto, cioè «che nei giornali scrivevano menzogne. Che all’estero la gente semplice viveva con più mezzi e più allegria. Che essere comunista era ignominioso ma conveniente». I genitori ben presto si separarono e Serëža rimase con la madre in una Komunalka, uno di quegli appartamenti più o meno grandi, condivisi da più famiglie, con servizi in comune. La madre, armena di Tbilisi (Georgia), aveva lavorato in teatro come attrice, lasciando la professione quando era nato Sergej. Era dunque diventata correttore di bozze, in un’epoca in cui «per qualsiasi errore di stampa si poteva finire in galera» (bastava un «comandano» al posto di un «domandano»). Il figlio le creava ogni genere di problemi (allusiva in proposito la dedica di Compromesso), ben presto cominciò a bere. Gli amici che lo circondavano, racconta lo scrittore in Nasi, erano «barbuti, enigmatici e tetri. E inoltre non si lavavano le mani dopo essere andati in gabinetto... Bevevano vino forte e si consideravano a vicenda dei geni. Quasi tutti [...] erano dei geni. Alcuni, poi, erano geni in vari ambiti contemporaneamente... ». Sergej lasciò la casa della madre quando partì militare per fare il sorvegliante nei campi a regime duro, avventura che avrebbe successivamente descritto in Zona. Tornato a Leningrado, verso la metà degli anni Sessanta cominciò l’attività giornalistica e scrisse i primi racconti che, naturalmente, non vennero pubblicati. Nel frattempo si era sposato, era nata la primogenita, Katja, e si era separato.
Licenziato dalla stampa leningradese, Dovlatov lavorò per tre anni come giornalista a Tallinn (esperienza descritta nel presente Compromesso), e successivamente, per due stagioni, divenne «cicerone» nel parco-museo di Puškin (periodo descritto in Zapovednik). Quando nel 1976 vennero pubblicati in Occidente i primi tre racconti, ebbero inizio per lo scrittore i primi guai con la milicja. Perso il lavoro e senza la possibilità di trovarne un altro a Leningrado, cominciò a bere «seriamente». La moglie Elena e la figlia Katja nel frattempo erano emigrate a New York.
Il padre dello scrittore, Donat, ebreo russo, aveva trascorso la sua vita in teatro come regista, ma ben presto era stato cacciato: «E come avrebbero potuto non cacciarlo, proprio stando alle sue teorie» scrive Dovlatov. «Ebreo, un padre fucilato, un fratello minore all’estero...». Così il padre aveva cercato di scrivere per le scene, ma la sua vita era scorsa, sempre secondo quanto di lui racconta il figlio, parallelamente alla realtà senza mai intersecarla («Non ricordo che mio padre si fosse mai seriamente interessato alla vita. Lo interessava il teatro»; «In mio padre c’era una sorta di profonda e testarda incapacità di comprendere la vita reale...»). Eppure anche il padre, così ammaliato da Stalin, così «disposto a rassegnarsi alla tirannia, sempre che fosse una tirannia levantina, colorita e piuttosto selvaggia», si ritrovò alla fine nel New Jersey a giocare a «bingo», rinunciando definitivamente ai suoi agognati «applausi».
Sergej Dovlatov lasciò la Russia nel 1978 e si stabilì a New York dove fondò e diresse per due anni la rivista «Novyj amerikanec» (Il nuovo americano). Questa esperienza giornalistica nel nuovo mondo americano è descritta in quello che è forse il più difficile, ma anche il più «denso» contributo dello scrittore, Mars odinokich: qui viene meno quella patina narrativa in cui Dovlatov avvolge sempre le sue sintetiche «commedie biografiche»; assistiamo ad un succedersi di pensieri, considerazioni, ricordi drammatico-umoristici, il cui filo rosso solo apparentemente è il commento in ordine cronologico alle pubblicazioni del giornale e ai problemi ad esse connessi, mentre in realtà è una sorta di «libera associazione» sui temi che lo scrittore ha affrontato ripetutamente nella sua vita e nei suoi libri. Come scrive Serman,
questo è anche un libro sull’America, un libro che ancora mancava alla letteratura russa.9
In America Dovlatov riallacciò interamente i rapporti con la moglie e nel 1981 nacque il secondogenito, Nikolas (Nika), un «cittadino degli Stati Uniti», il cui cognome è americanizzato in «Douly» -come scrive Dovlatov, con un pizzico di amarezza e di orgoglio, chiudendo Nasi, il diario della sua famiglia. L’opera dove meglio è descritta l’America degli emigranti russi (ebrei sovietici) è comunque Straniera, il racconto forse più narrativo in senso tradizionale.
Nelle pagine di Dovlatov appaiono qua e là, come a intermittenza, le figure dei suoi familiari, descritti dall’autore con grande autoironia come vittime della sua insofferenza, dei suoi eccessi, paradossi e compromessi: a loro lo scrittore guarda sempre con profondo affetto, a volte quasi con devozione, come confessa, con un pizzico di artistismo (non dimentichiamo che è una confessione artefatta) nell’epilogo di Straniera, alla sua eroina Marusja:
Lascia che ti dica che la mia impotenza si chiama Elena, Nika, mamma. Insomma è chiaro. Sì, io sono impegnato. Ma la cosa più seria è che io amo i miei ceppi, i miei vincoli, le mie catene, il mio giogo, le mie briglie, le speronate. Con tutta l’anima...
Un particolare accenno merita poi la fedele «comparsa» di ogni racconto di Dovlatov, immancabile compagna di vita e di tormento: la vodka, quel magico elisir di sopravvivenza, il cui ruolo nelle vicende russe non può essere spiegato a parole, ma solo inteso (forse non compreso fino in fondo) vivendo immersi nel mondo russo. La vodka è una sorta di droga legittimata e venerata, dal cui consumo nessuno è immune e nei confronti della quale tutti provano sentimenti di affetto, amore, simpatia, ma soprattutto gratitudine: perché si può andare al lavoro in stato di ebrezza o si può addirittura non andarci; perché ci si isola da un presente insopportabile che è più soggettivo che oggettivo; perché ci si «scalda» un po’. Ma verso la vodka si prova soprattutto sudditanza: perché ci si indebita per comprarla; perché si abbandona una donna che la avversi, un amico che non la condivida. La vodka è un problema di tutti, quasi in ogni famiglia russa vi è qualcuno che vive per bere o - peggio - che beve per vivere. Ciò implica, tra l’altro, che per la vodka esistono in lingua russa, e nei suoi vari slang, decine di nomi, nomignoli, vezzeggiativi, allusivi, metafore, giochi di parole, barzellette, e che un traduttore nulla potrà fare, se non ricorrere continuamente all’unico termine russo, sempre quello, vodka, per l’appunto.
L’opera di Dovlatov comprende numerosi libri, tutti di piccole dimensioni, tutti autobiografici, tutti umoristici; ricordiamo qui - oltre ai già citati Zona (scritto nel 1966 pubblicato nel 1982), Zapovednik (1983), Naši (1983), Mars odinokìch (1983), Ćemodan (1986), Inostranka (1986), Predstavlenie (1987), e il presente Kompromiss (1981) - Nevidimaja kniga (Il libro invisibile; la prima opera, comparsa nel 1977 in Occidente, nel 1979 pubblicata in russo e in inglese), Solo na Undervude (Solo per Underwood, 1980), Remeslo (Mestiere, 1985),
Ne tol'ko Brodskij (Non solo Brodskij, 1988: una preziosa raccolta di anedotti di Dovlatov accompagnati dalle fotografie di Marina Volkova), Zapisnye Knizkì (Taccuini, 1990) e Filial (La filiale, 1990). Quasi tutte queste opere hanno avuto numerose edizioni e riedizioni. Nel 1993 è comparsa a San Pietroburgo la già citata raccolta di prosa in tre volumi.
La capacità dello scrittore di guardare con condiscendenza, spesso con indulgenza, agli altri (più che a se stesso) è pari alla capacità di non tacere nulla dei difetti, delle mancanze, degli errori dei suoi personaggi e di quell’«eroe» immancabile che è lui, il Dovlatov-personaggio. Questo «mettersi a nudo» dell’autore è il mezzo ultimo attraverso cui i suoi libri aiutano il lettore a tollerarsi meglio e a sopportare con più coraggio il paradosso di ogni personalità complessa e il grande Compromesso che è la vita.
Come già si è accennato, nelle pagine di Dovlatov la volontà di sorridere sul dramma della vita in generale, e di quella sovietica in particolare, si trasforma in sguardo malinconico su un passato irrecuperabile, per il quale parlare di rimpianto è troppo, ma parlare solo di malinconia è troppo poco. Qui è vivo più che mai il sentimento, intraducibile in parole straniere, della toska russa, di quella pacata eppur struggente nostalgia che - a quanto pare - solo per gli emigranti russi diviene un sentimento così lacerante e irrinunciabile. Solo chi sappia operare una radicale, schizofrenica mutazione di personalità, chi si autoimponga una sorta di amputazione della memoria può non soccombere di fronte alla toska. Forse non era tra gli scopi dell’autore risvegliare tale sentimento nostalgico: A. Zverev racconta come Dovlatov desiderasse che, nel leggere le sue pagine, il lettore si divertisse, e come egli credesse irreversibilmente nel ruolo catartico, salvifico dell’umorismo. Eppure Dovlatov era certamente consapevole dell’ambiguità di questo umorismo, anche se non si è praticamente pronunciato sull’argomento (tranne alcune sentenze assai perspicaci, quali, «L’umorismo è l’ornamento di un popolo [...] finché saremo in grado di scherzare, resteremo un grande popolo! » [Marš odinokich]). Egli aveva in fondo raccontato, sotto mille diversi punti di vista, il grande «salto nel buio» della fuga, quella secca virata esistenziale che aveva costretto un’intera generazione a pensare, a rifiutare, a sognare, a criticare l’emigrazione; a pagare, per ottenerla, in denaro o in mesi di carcere; a rescindere i più intimi rapporti familiari facendone resuscitare di assolutamente remoti (le famose prozie in nome delle quali ci si appellava ai Comitati per i diritti umani).
Il problema dell’emigrazione, del resto, è sempre stato strettamente connesso alla cosiddetta appartenenza «nazionale»: ogni cittadino sovietico (fino a pochi mesi or sono) aveva sul passaporto l’indicazione della propria identità «nazionale», la quale avrebbe ineluttabilmente influito sui percorsi sociali, politici e culturali, e sui destini della persona. Più volte, anche in Compromesso, Dovlatov accenna al problema ebraico (il problema per eccellenza delle nazionalità sovietiche) e al famoso «quinto punto» (che, secondo il codice non ufficiale del KGB, vietava agli ebrei di ottenere un visto per l’estero, di accedere a numerosissime professioni, facoltà universitarie, iniziative internazionali ecc.). Ma il modo con cui lo scrittore affronta la famosa questione ebraica, quel suo atteggiamento leggero, che pur non nasconde nulla, che medita più che denunciare, è di assoluta originalità; a lui spettano in effetti le affermazioni più coraggiose, profonde, sostanziali - pur nella loro pungente ironia - di quanto offra la prosa russa contemporanea. Credo che il motivo essenziale di questa sua lungimirante percezione del problema gli derivasse dal fatto di essere, come si dice (sic!) in russo, un «mezzosangue», e di esserlo dalla «parte sbagliata», sufficientemente ebreo per gli antisemiti, non abbastanza ebreo per i rabbini (per i quali l’appartenza all’ebraismo si trasmette matrilinearmente).
Dovlatov ha scritto senza pregiudizi non solo dell’antisemitismo, ma anche del suo eufemismo, l’antisionismo. Ne ha scritto scherzando, sì, ma solo in apparenza. Un esempio, in Mars odinokich nel paragrafo La «Knesset» ha preso una decisione importante, egli così descrive una carta del Medio Oriente:
Detti un’occhiata e rimasi inorridito. Un microscopico puntino azzurro. La parola «Israele» non ci stava neppure. La fine in territorio giordano, l'inizio in Egitto. E tutt’attorno inquietanti macchie rosa, gialle, verdi [...] Sembrerebbe tutto così semplice. Tuttavia l’umanità progressista, stupidamente unanime, condanna Israele. L’umanità progressista esige da Israele un nobile suicidio.
Dovlatov è stato «controcorrente» da sempre e fino all’ultimo: i suoi libri esprimono grandissima tolleranza, ma anche un’endemica insofferenza per la superficialità di tanti intellettuali, capaci, non meno della nomenclatura sovietica, di muoversi in branchi dietro a qualcuno o a qualcosa. E questa nota di accusa alla sinistra occidentale è senz’altro un elemento che accomuna Dovlatov ai suoi colleghi della «terza ondata». Tuttavia, il coraggio di parlare dell’Unione Sovietica, dell’antisemitismo, dell’America, persino del lager, in una lingua completamente diversa è stato il sintomo emergente di uno spirito temerario, quasi eversivo. Esemplare questa pagina, tratta sempre da Mars odinokich, con cui lo scrittore certamente sapeva di compromettersi dinnanzi agli occhi di molti lettori, di molti colleghi e di molti giudici:
Non discuto. Lo stato sovietico non è il posto migliore al mondo. E là sono successe molte cose spaventose. Tuttavia c’erano anche cose che noi non scorderemo mai.
Uccidetemi pure, squartatemi, ma i nostri fiammiferi sono migliori di quelli americani. È una sciocchezza, tanto per cominciare.
Continuiamo. La milizia a Leningrado agiva con efficienza. E non parlo dei dissidenti, delle azioni malvage del KGB. Parlo dei normali miliziani qualsiasi. E dei normali delinquenti qualsiasi...
Se si urlava su una strada di Mosca «Aiuto! », la folla accorreva. Qui, invece, proseguono indifferenti.
Là in autobus cedevano il posto ai vecchi. Qui non succede mai. Per nessuna ragione. E va detto che anche noi ci siamo abituati molto in fretta.
In generale, c’erano molte cose buone. Ci si aiutava l’un l’altro, come dire, più volentieri. E ci si metteva a fare a cazzotti senza paura delle conseguenze. E si spendevano gli ultimi dieci rubli senza tormentosi indugi.
Non spetta a me criticare l’America. Io sono diventato qualcuno solo grazie all’emigrazione. E amo sempre più questo paese. Cosa che non mi impedisce, penso io, di amare la patria che ho lasciato...
I fiammiferi sono una sciocchezza. Sono altre le cose che contano. Esiste il concetto di «opinione pubblica». A Mosca era una forza vera e propria. Una persona si vergognava a mentire. Si vergognava ad adulare il potere. Si vergognava ad essere calcolatrice, furba, cattiva.
A uno così sbattevano le porte in faccia e quello diventava un fantoccio, un emarginato. E ciò era più spaventoso della prigione.
Qui invece? Sfogliate giornali e riviste russi. Quanto odio e quanta cattiveria! Quanta invidia, arroganza, meschinità e finzione!... Noi taciamo. Ci siamo abituati.
È stupido dividere le persone in sovietiche e antisovietiche. È stupido e squallido.
Le persone si dividono in intelligenti e stupide. Buone e cattive. Dotate e inette.
Così era in Unione Sovietica, così sarà in America. Così è stato in passato, così, ne sono certo, sarà sempre.
Se Mars odinokich è il diario dell’attività giornalistica di Dovlatov in America, Compromesso è il suo antesignano «russo». È la raccolta assai curiosa di alcuni articoli scritti dall’autore nel corso di tre anni (dal 1973 al 1976) su quotidiani estoni; ma è anche e soprattutto una «metacronaca» (ovvero una cronaca della cronaca) che funge da retroscena, reale e vivo, alla falsità e all’ipocrisia degli articoli stessi. Si tratta dei commenti ad alcuni pezzi, attraverso cui il lettore scopre cosa «davvero» esistesse dietro la facciata reclamistica della stampa di partito; egli scopre inoltre, seppur nell’incalzare narrativo l’ordine cronologico si perda, numerosi risvolti della stravagante vita dell’autore, dei suoi movimenti, delle sue vicende private, e - soprattutto - del suo modo di osservare se stesso come dall’esterno, come se davvero egli fosse «scisso» dal Dovlatov-personaggio del libro. Dunque, il lettore non si trova davanti a un protagonista che «è» l’autore, ma a un anti-eroe che l’autore conosce assai bene, ma di cui racconta alcune cose piuttosto di altre, in un modo piuttosto che in un altro. Proprio queste scelte, coerentemente ripetute in ogni libro, rendono l’opera di Dovlatov assolutamente «narrativa» e non meramente «autobiografica». Si tenga presente, a conferma della letterarietà di questi racconti, che in Compromesso, come in altre opere di Dovlatov, numerosi anedotti relativi ai personaggi sono tratti da situazioni che, nella realtà, riguardavano circostanze e persone del tutto diverse: l’anedotto della Tecnologia del sesso, per fare solo un esempio, o quello della «nazionalità ebraico-russa» di Žbankov (nell’ultimo «Compromesso») fanno parte delle storie raccolte nei Taccuini di Dovlatov.10
Se, come Serman e Kuricyn affermano senza mezzi termini, l’opera di Dovlatov è una «lettura meravigliosa», da questo punto di vista Compromesso non è il libro più facile. Al contrario, è forse quello meno fabulistico, il più smaliziato e sincero, scritto in un periodo in cui lo scrittore aveva già affinato il suo stile e l’immediatezza della sua lingua, ma era ancora libero dalle esigenze del pubblico e dai giudizi espressi sul suo conto: è un’opera meno attenta a quello che si aspetta il lettore frettoloso, quella tra tutte dove più si percepisce l’ambiguità di cui già si è detto; un’ambiguità, è bene ripeterlo ancora, che è il pregio stesso del libro, ma che talvolta ha estremamente ostacolato il compito traduttivo. Compito ingrato, per quanto Iosif Brodskij affermi che Dovlatov sarebbe facilmente traducibile grazie alla sua non complessa sintassi: ma i traduttori, coloro che davvero cercano di ricreare un’opera, temono il lessico e i doppi sensi ben più di qualsiasi virtuosistica sintassi. Brodskij allude alle ottime traduzioni americane di Dovlatov, senza ipotizzare, forse, che possano esser state elaborate con grande fatica. Del resto, egli stesso, poco prima, aveva paragonato la scrittura dovlatoviana alla poesia:
[...] è chiaro che egli sulla carta perseguiva la laconicità, la lapidarietà propria del discorso poetico [...] Sereža era innanzitutto uno stilista eccezionale. I suoi racconti si reggono più che mai sul ritmo della frase [...] sono scritti come poesie: l’intreccio ha un ruolo secondario, è solo uno spunto per il discorso. È più un canto che una narrazione [...]11
Poeticità, ritmo, stile, musicalità: cosa c’è di più intraducibile?
Un esempio.
Nella parte iniziale di Compromesso, in quel tipico stile paradossale, colloquiale e gnomico, dove il gergo del quotidiano si alterna a sentenze di sapore speculativo (che spesso parafrasano famosi motti filosofici), ritroviamo la spiegazione del senso del libro. Una spiegazione sfuggente e un po’ criptica, per l’appunto ambigua, che, anche al di là di una prima lettura, difficilmente si lascia intendere appieno. Nelle brevi righe introduttive che precedono il «Compromesso primo», lo scrittore, in quel suo modo apparentemente immediato eppur così enigmatico, mette a nudo l’essenza dei suoi «compromessi»: dieci anni di bugie e menzogne (si riferisce dunque anche alla precedente attività leningradese), dietro cui, tuttavia, si è conservata la memoria di una realtà viva e vera. Di persone in carne ed ossa che hanno animato, illuminato e oscurato quegli anni di vita sdoppiata, in cui Dovlatov ha cercato disperatamente di rimanere se stesso. E ci è riuscito, pagando di persona con quegli eccessi che gli permettevano di rimanere pur sempre, in tutto, un po’ ribelle. O forse davvero egli pensava che «perdere fosse più dignitoso che vincere».
Per intendere il peso di quest’ambiguità, può essere sufficiente prestare attenzione ad una sola frase, cruciale e centrale, che molto probabilmente - se vivesse ancora Dovlatov e potesse confermarne l’interpretazione - costituirebbe di per sé la chiave di lettura del libro e forse dell’intera opera dello scrittore. Si tratta della frase, citando in originale, «Trudna doroga ot pravdy K istine», che dopo lunghi ripensamenti si è proposta in traduzione come «È arduo il percorso dalla Verità alla verità». Poiché, per tradurre, si è dovuto interpretare, sacrificando, seppur solo in parte, alcuni preziosi elementi di ambiguità, è utile metterne a conoscenza il lettore. La sentenza citata contiene due riferimenti che è impossibile conservare in una qualsiasi lingua che non sia il russo. Entrambi sono strettamente connessi alla cultura e alla storia del popolo russo. Il primo riferimento è alla contrapposizione di due termini, spesso indicati come sinonimici nei vocabolari russi, che designano «verità»: pravda e istina. In realtà - ma Dovlatov lo sapeva? - alcuni studi hanno recentemente ricostruito sulla base di documenti di vario genere, lo scarto semantico esistente tra i due termini. In particolare, lo slavista e semiotico B. A. Uspenskij ha illustrato come pravda stia ad indicare la Verità somma, assoluta, mentre istina costituirebbe la verità della realtà umana, così come gli umani possono percepirla e conoscerla.12 Data l’attendibilità di queste conclusioni, di esse ho tenuto conto nella traduzione, finendo però per cadere (opponendo «Verità» a «verità») in una sorta di «motto agostiniano» che sicuramente con la visione agostiniana ha ben poco a che fare. Vi è inoltre il secondo riferimento, il fatto, cioè, che «Pravda» sia il titolo del più diffuso e noto quotidiano russo, il famoso organo comunista, considerato durante il potere sovietico -non solo dai dissidenti - un concentrato di menzogne propagandistiche. Essendo Compromesso una cronaca dell’attività giornalistica, un’allusione alla non veritiera «Pravda», se anche involontaria da parte dell’autore, pare irrinunciabile per il lettore. Si aggiunga in ultimo che, nell’accezione quotidiana, dunque non erudita, i due termini indicanti verità (pravda e istina) in molti casi vengono recepiti dai coetanei di Dovlatov (cioè dai suoi lettori privilegiati) in modo antitetico a quello proposto da Uspenskij.
Se, per aiutarsi, ci si affida al contesto, si inciampa in un ulteriore enigma. Parafrasando Eraclito (non importa se consapevolmente) Dovlatov dice, subito dopo, che «non si può entrare due volte nello stesso fiume», che la vita rivisitata è già un qualcos’altro, che il divenire muta tutto (questa è già una delle interpretazioni possibili!). Eppure, sul fondo del fiume, si accumulano detriti che non scorrono via con la corrente, restano lì, visibili a chi voglia scrutare, a chi non abbia paura di vedere una realtà «ferma» e forse squallida (come le lattine usate) e a cercare nello squallore un senso, il senso di ciò che comunque è stato e dunque si è sedimentato indelebilmente nella memoria, unica custode degli affetti:
Quelli che ho conosciuto vivono in me.
scrive Dovlatov nell’epilogo di Straniera, e aggiunge:
Essi sono la mia nevrastenia, la mia rabbia, il mio amor proprio, la mia indolenza.
I personaggi di Dovlatov prendono vita grazie alla loro raffigurazione e non ha alcuna importanza verificare che corrispondano o meno a persone fisiche o ad «eroi» della fantasia. Chiunque percepisce in loro non solo l’alito della verosimiglianza, ma quello della vita. Fanno dunque parte della fiction dovlatoviana gli «annunci» provocatori (e visibilmente contraddittori), come il già menzionato incipit di Zona o quello spavaldamente piazzato oltre la metà del libro, nel bel mezzo di una pagina di Straniera:
L’autore [...] assicura i suoi lettori che i personaggi della presente novella sono tutte persone inventate, ad eccezione del pappagallo Lolo, che è un pappagallo inventato. Quindi qualsiasi riferimento a fatti o persone realmente esistiti è da ritenersi puramente casuale.
C’è un legame intrinseco tra la costruzione del personaggio, costruzione assolutamente letteraria, a suo modo canonica, lo stile e la lingua impiegata.
Dovlatov riteneva di avere in parte ereditato il suo stile dagli scrittori americani che aveva letto in gioventù, o meglio dalle traduzioni russe dei romanzi americani. E proprio queste traduzioni, eseguite spesso da eccellenti scrittori, impossibilitati dalla censura a pubblicare le proprie opere, avevano creato uno stile nuovo, un eccellente ibrido russo-occidentale. Serman cita l’intervista in cui Dovlatov racconta queste sue impressioni e le condivide. Tuttavia, leggendo Dovlatov, si recepiscono artifici stilistici del tutto «russi», ovvero in sintonia con quel canone russo che essi paradossalmente paiono infrangere. La brevità, la sintesi, l’efficacia, così come il culto della frase, rispetto a quello della complessità sintattica, erano e sono presenti nella prosa russa della cosiddetta «età d’argento» (oltre a Čechov, si pensi a Kuprin, a Babel’).
Come nota ancora una volta Serman, la «solidità compositiva» del doppio scambio, di persona (Dovlatov-Šablinskij) e di cadavere (Il’ves-Lembit), del «Compromesso undicesimo» consente a Dovlatov di organizzare un materiale tematico di per sé assurdo secondo un preciso schema letterario. Questa assurdità tematica, infatti, costituisce un terreno fertile per soluzioni inventive che defluiscono in direzione della lingua, del dialogo. Riprodurre le battute dell’assurda, inverosimile, paradossale realtà sovietica è possibile solo a chi abbia registrato con infinita precisione l’ambiguità e lo spessore della parola: quando, cioè, una frase qualunque acquista un secondo, eppur non meno importante significato, quando questa frase qualunque può essere letta «tra le righe», come la censura da tempo immemore ha insegnato al lettore russo e la vita ha imposto al cittadino sovietico. Ecco perché è terribilmente difficile e al tempo stesso inebriante tradurre la prosa di Dovlatov: perché neppure una parola, per quanto naturale possa e debba sembrare, è scritta spontaneamente o casualmente. Si ha la sensazione che, anche a dispetto di talune ricorrenti ripetizioni, nulla vada aggiunto e nulla vada tolto. Come ricordavo introducendo Sraniera,13 densi di significato sono persino gli interminabili puntini di sospensione che - li menziona persino la ragazzina Evi nel «Compromesso ottavo» - sono una sorta di «firma» d’autore: Dovlatov suggerisce in realtà come ogni frase, ogni allusione, meriterebbe di essere sviluppata, proseguita; così egli «si distrae» in continuazione dal suo tema e ad esso si richiama con un certo sforzo, proprio perché potente è la forza evocatrice della parola, del segno. Così, in Compromesso, un isolato punto interrogativo è la divertente traduzione semiotica di uno sguardo perplesso che avrebbe richiesto altrimenti un più ingombrante intervento in terza persona dell’autore (tipo: «lo guardai con aria interrogativa e non dissi nulla»).
Anche il ricorso frequente al gergo, al turpiloquio rispetta con precisione statistica l’uso della realtà, delle generazioni del dopo-Stalin soprattutto nelle cerchie ebraiche lenigradesi. Gli intellettuali coetanei di Dovlatov parlano ancora così: il potente meccanismo dell’autocensura, unito ai primi cedimenti della pruderie stalinista, ha aiutato davvero a propendere per la sintesi, per l’incisività, per i messaggi a doppio-triplo senso. Manca in bocca agli «eroi» di Dovlatov la sgangheratezza poco verosimile dei personaggi di Eduard Limonov che, più che narrare o meditare, sembra voler provocare e scandalizzare (e ci riesce): Limonov finisce infatti col seppellire tra sproloqui e improperi il pathos e il dramma che pur avrebbe voluto e avrebbe potuto rispecchiare nella sua opera.
Dei meriti di Dovlatov qualcosa è stato scritto anche dalla critica; eppure bisogna confermare l’impressione che aveva Serman nel 1985: la fama di Sergej Dovlatov, l’amore che i lettori provano per lui, il successo dei suoi libri non hanno trovato ancora un’adeguata risposta tra gli studiosi di letteratura. Ciò - si può ipotizzare - per due ordini di ragioni: da un lato la diffidenza dinnanzi a una prosa così «leggera», ad un atteggiamento così apparentemente poco drammatico, ad uno stile che - in quanto formalmente biografico - si è restii ad assimilare alla narrativa vera e propria; dall’altro, come già si è detto, il disagio di fronte ad uno scrittore che mette a nudo spietatamente tutti e tutto, i cui personaggi - come dice in Compromesso - non sono né buoni, né cattivi, né portatori di una qualsiasi unica verità.
Troppi anni di ideali, di «pravde», hanno precluso alla mente di molti studiosi russi la capacità di apprezzare l’incertezza, il libero arbitrio, l’indulgenza, l’esitazione. Le parole forti, unilaterali, «vere» erano confortanti, come i personaggi che le pronunciavano, fossero «sovietici» o «antisovietici»: e oggi con lo stesso tono e gli stessi accenti totalizzanti si scrive di altre verità.
Dovlatov non propone soluzioni, offre a tutti, senza esclusione, eccellenti spunti di riflessione. Proprio questa novità rende i suoi libri universali, non circoscritti alla contingente realtà della Russia brež-neviana. Lo aveva notato Serman e oggi non si può che confermarlo:
In Dovlatov, il lettore occidentale riconoscerà anche se stesso, quelle sue universali passioncelle, le debolezze, i compromessi, i cedimenti che tanto abbondano nel cammino di vita di ognuno di noi. In questa universalità dell’umorismo dovlatoviano risiede, forse, la qualità fondamentale della sua prosa.14
Del resto, come in ogni vero scrittore, cui la scrittura si sia imposta, più di quanto egli l’abbia scelta, Dovlatov afferma in un’intervista: «Io non so per chi scrivo». Poi, tuttavia si corregge, e con l’immancabile ironia e il suo profondo senso di umanità aggiunge:
Personalmente scrivo per i miei figli, affinché dopo la mia morte possano leggere tutto questo e comprendere che avevano proprio un bravo paparino, e così, finalmente, tardive lacrime di pentimento sgorgheranno dai loro spudorati occhi americani!15
LAURA SALMON
1 «O Serëže Dovlatove. “Mi urodliv, i ljudi grustny”» («Serëza Dovlatov. “Il mondo è mostruoso e gli uomini sono tristi”»), in Sergej Dovlatov, Sobranie prozy v trëch tomach (Raccolta della prosa in tre volumi), a cura di A. Ju. Ar’ev, Limbus-Press, Sankt Peterburg 1993, vol. III, p. 359.
2 Teatr Sergeja Dovlatova (Il teatro di Sergej Dovlatov), «Grani», 1985, n. 136, p.
3 Zapiski slučajnogo postojal'ca (Le memorie di un inquilino occasionale), «Literaturnoe obozrenie», 1991, n. 4, p. 68.
4 Ed. La casa di Matriona, Milano 1976, p. 94.
5 Vesti iz filiala, il durackaja recenzija na prozu Sergeja Dovlatova (Notizie dalla filiale, ovvero una stupida recensione della prosa di Sergej Dovlatov), «Literaturnoe obozrenie», n. 12, 1990, pp. 41-42.
6 Cit., p. 68.
7 Cit., p. 143.
8 «Zona», Sobranie prozy..., cit., vol. 1, p. 99.
9 Cit., p. 154.
10 Cfr. Sobranie prozy..., cit., vol. III, pp. 237-340.
11 Cit., p. 358.
12 «L’ambito semantico di “pravda” e “istina" in relazione alla specificità dello slavo ecclesiastico», Storia della lingua letteraria russa, a cura di N. Marcialis, Il Mulino, Bologna, 1993, pp. 227-229.
13 A cura di L. Salmon, Sellerio, Palermo, 1991.
14 Cit., p. 162.
15 Pisatel' v emigracii (Lo scrittore emigrante; intervista alla rivista «Slovo»), in S. Dovlatov, Sobranie proxy..., cit., vol. III, p. 346.
Nota
Nella traduzione italiana si è scelto di lasciare in originale russo i seguenti titoli dei giornali citati in Compromesso, qui riportati con la traduzione italiana a fianco, tra parentesi:
«Na straže Rodiny» («A guardia della patria»);
«Sovetskaja Estonija» («Estonia sovietica»);
«Molodëž’ Estonii» («Gioventù estone»);
«Vecernyj Tallinn» («Tallinn-sera»);
«Ekonomičeskaja gazeta» («Il giornale economico»).
Si sono lasciate inoltre in originale, senza traduzione, le rare espressioni in lingua estone del testo, altrettanto incomprensibili al lettore russo, capaci altresì di evocare con ironia la strana fonetica di una lingua del gruppo ugro-finnico. In tal modo Dovlatov intendeva rendere anche il proprio sguardo «straniato» sul mondo estone. Anche all’epoca in cui l’Estonia era una Repubblica Sovietica, date le radicali differenze etnico-linguistiche, tra russi ed estoni non vi è mai stata assimilazione.
COMPROMESSO
...E così rimasi senza lavoro. Magari - pensavo - potrei imparare a fare il sarto? Ho notato che i sarti sono sempre di buon umore...
Incontrai Loginov, uno della televisione.
- Ciao. Come va?
- Così, sai, cerco lavoro.
- Al giornale «Na straže Rodiny» cercano un collaboratore. Scriviti il nome: Kaširin.
- È mica uno pelato?
- Kaširin è un giornalista esperto. Una persona piuttosto morbida...
- Anche la merda è morbida - avevo osservato.
- Perché, lo conosci?
- No.
- E allora cosa parli... Scriviti il nome.
Lo scrissi.
- Se ti vestissi come si deve. Mia moglie dice che se tu ti vestissi come si deve...
A proposito, una volta sua moglie mi telefona... Alt! Qui si apre un capitolo troppo esteso e inquietante. Ci porterebbe troppo lontano...
- Quando guadagnerò, mi vestirò. Mi comprerò un cilindro...
Tirai fuori i miei articoli di giornale. Scelsi i migliori. Kaširin non mi piacque. Un viso scialbo, un umorismo da caserma. Dopo avermi dato un’occhiata disse:
- Lei, naturalmente, non è iscritto al partito?
Io annuii colpevolmente. Poi lui, con una sorta di ebete ingenuità, aggiunse:
- Una ventina di persone si sono fatte avanti per questo posto. Parlano con me... e poi chi li vede più. Lei mi lasci almeno il telefono.
Per caso mi era rimasto impresso il telefono della tintoria e glielo diedi.
A casa aprii quei fogli di giornale. Rilessi qualcosa.
C’era da riflettere...
Dei fogli ingialliti. Dieci anni di menzogne e falsità. Eppure, dietro tutto questo, c’erano delle persone, dei discorsi, dei sentimenti, la realtà... Non nei fogli, ma laggiù, all’orizzonte...
È arduo il percorso dalla Verità alla verità.
Non si può entrare due volte nell’acqua dello stesso fiume. Tuttavia, attraverso lo spessore dell’acqua, si può distinguere il fondo disseminato di lattine. E dietro una pomposa scenografia teatrale si possono vedere delle corde, un muro di mattoni, una bombola antincendio e degli operai sbronzi. Cose note a chiunque sia stato almeno una volta dietro le quinte...
Cominciamo dall’informazione giornalistica spicciola.
Compromesso primo
(«Sovetskaja Estonija», novembre 1973)
CONVEGNO SCIENTIFICO
Gli studiosi di otto stati sono giunti a Tallinn al settimo Convegno di studi su Scandinavia e Finlandia. Si tratta di specialisti dell'URSS, della Polonia, della Cecoslovacchia, della RDT, della Finlandia, della Svezia, della Danimarca e della Germania Federale. I lavori del Convegno prevedono sei sezioni. Piòùdi 130 studiosi, storici, archeologi, linguisti, esporranno le loro relazioni e comunicazioni. La Conferenza si protrarrà fino al 16 novembre.
Il convegno si teneva al Politecnico. Passai di là, parlai con qualcuno. Dopo cinque minuti la nota era pronta. La comunicai alla segreteria. Ma ecco arrivare il redattore capo Turonok, persona melliflua, stucchevole. Il classico mascalzone timido. Ma quella volta era proprio su di giri:
- Lei si è lasciato sfuggire un madornale errore ideologico.
- ?
- Lei elenca i paesi...
- Perché, non si può?
- Si può e si deve. Il problema è come lei li elenca. In quale ordine. Prima la Cecoslovacchia, la Danimarca, la Germania Federale, poi la Polonia, la RDT, L’URSS.
- Certo, sono in ordine alfabetico.
- Questo è un approccio aclassistico - cominciò lamentoso Turonok, - esiste un ordine insindacabile. I paesi democratici per primi! Poi i paesi neutrali. E, alla fine, quelli del blocco.
- Okay - feci io.
Riscrissi la nota e la comunicai alla segreteria. Il mattino dopo arrivò Turonok trafelato:
- Lei mi sta prendendo in giro! Ma lo fa apposta?!
- Che è successo?
- Lei ha invertito le repubbliche popolari. Lei ha messo la RDT dopo la Cecoslovacchia. Ancora l’alfabeto?! Si scordi questa parola opportunistica! Lei è funzionario di un giornale di partito. La Cecoslovacchia al primo posto!? Là c’è stata un’insurrezione.1
- E contro la Germania c’è stata una guerra.
- Non discuta! Ma perché si ostina?! Quella è un’altra Germania, un’altra! Non capisco chi si sia fidato di lei?! Miopia politica! Infantilismo morale! Sottoporrò la questione...
Per la nota mi pagarono due rubli. Me ne aspettavo tre.
Compromesso secondo
(«Sovetskaja Estonija», giugno 1974)
I RIVALI DEL VENTO. L’ippodromo di Tallinn compie cinquant’anni.
I fantini più noti, idoli delpubblico, sono innanzitutto degli esperti zootecnici che, con dedizione e pazienza, perfezionano la razza, sviluppano nei loro «pupilli» preziosi caratteri ereditari. Inoltre, essi sono atleti altamente qualificati che, una volta alla settimana, rendono conto dei loro successi dinnanzi all’esigente pubblico di Tallinn. In cinquant’anni, questi atleti si sono guadagnati numerosi premi e attestati, e nel 1969 il campione ippico Anton Dukal'skij ha vinto sullo stallone Tal’nik il Gran Premio Pansovietico. Tra le star dell'ippodromo di Tallinn si distinguono esperti campioni: L. Jurgens, E. Il’ves, Ch. Nymniste. Promette bene il giovane A. Ivanov.
Per celebrare il giubileo, il 1o agosto si terrà all’ippodromo una festa ippica.
L’ippodromo di Tallinn costituisce di per sé uno scenario piuttosto pietoso. Pavimento discretamente sporco, tribune sghimbesce. Il terreno è disseminato di biglietti usati. Una folla eccitata e chiassosa si muove circolarmente dal bar alla barriera della pista.
L’ippodromo è l’unico luogo dove si può comprare vino sfuso da due soldi.
Alla cassa sono disponibili biglietti di due tipi: l’«espresso» e la «doppietta». Se si prende un «espresso», si devono indovinare i vincitori nell’ordine in cui giungono al traguardo. Con la «doppietta» si devono indovinare i due migliori finalisti in ordine libero, ma in proporzione la vincita è inferiore. Anche i favoriti vengono pagati poco. Su di loro scommette tutto l’ippodromo, tutti i novellini. Si vince bene con i cavalli peggiori che per un puro caso si ritrovano in testa. Azzeccare un favorito non è difficile, è più difficile pronosticare l’imprevisto, lo scatto di vitalità di un qualche rognoso moribondo. I fantini più bravi, dietro lauto compenso, sostengono i favoriti. Anche restare indietro con abilità è un’arte. Anzi, è più difficile che vincere. In testa si ritrovano i cavalli medi. A volte le vincite arrivano a centocinquanta rubli. Tuttavia è difficile che i fantini più bravi vogliano avere a che fare con voi, hanno una loro solida clientela. È più facile mettersi d’accordo con un fantino di terza categoria cui è vietato giocare alle corse. Questi agisce per interposta persona. Prende il programma della prossima gara e ve lo illustra. Vi mostra i tre cavalli più forti di ogni corsa. E voi, in conformità alle indicazioni, comprate i biglietti e giocate anche i suoi soldi.
Decisi di scrivere la nota celebrativa sull’ippodromo. Discussi col direttore A. Mel’der che chiamò Tolja Ivanov.
- Ecco un giovane talento - disse.
Io e Ivanov andammo al bar. Io dissi:
- Ho dei soldi da spendere, un’ottantina di rubli. Cosa mi consiglia?
- In che senso?
- Intendo le corse.
Ivanov mi guardò con aria circospetta.
- Non aver paura - dissi - non sono un provocatore, anche se sono un giornalista.
- Figurati, non ho certo paura.
- E allora di che si tratta?
Alla fine «siglò» l’accordo:
- Per Dukel’ (cioè Dukal’skij) puntano dei lettoni di passaggio. Quello è uno che sa il fatto suo. Si prendono tutte quante le corse, coprono ogni variante. Ma puntano solo alla fine, quando si gioca forte. Le prime tre corse te le puoi aggiudicare.
Mi procurai il programma delle corse dell’indomani. Tolja tirò fuori una matita...
Al termine della terza corsa mi pagarono sessanta rubli. In seguito ci portavamo via sistematicamente da trenta a ottanta rubli. Peccato che le corse si facessero solo una volta alla settimana.
Quell’estate Tolja Ivanov si ruppe una gamba ed entrambe le clavicole. Ma i cavalli non c’entravano. Era caduto ubriaco da un taxi.
Con l’ippodromo era finita. Già da alcuni anni il «rivale del vento» fa il barman al night «Mjundi».
Compromesso terzo
(«Molodëz’ Estonii», agosto 1974)
Mi SENTO COME A CASA MIA. Gli ospiti di Tallinn
Alla Melesko ha un viso di rara bellezza. Naturalmente nella vita non è questa la cosa più importante. Eppure, eppure... Forse proprio questa è la ragione della immancabile disponibilità di chiunque nei confronti di questa ragazzina dal riso facile, appena un po ’ acerba...
Alla non appartiene al novero degli ospiti celebri. Non è qui per partecipare a qualche rinomato convegno scientifico e i record sportivi non sono la sua specialità...
E stata la curiosità ad attirare Alla nella nostra città... Già, la curiosità, un sentimento inquieto che costringe la gente a lasciare all'improvviso il proprio comfort metropolitano. Io lo chiamerei il sentimento del nomadismo, la tentazione dell’orizzonte, quella sorta di smania del viandante...
«Il movimento deriva dall’instabilità!» ha scritto il famoso teorico della musica Czerny...
Abbiamo deciso di fare ad Alla alcune domande:
- Cosa può dirci di Tallinn?
- E 'una città meravigliosa, confortevole e severa. Colpisce per l'armonico contrasto di antichità e modernità. Nel suo silenzio e nella sua tranquillità si percepisce un’altera grandiosità...
- Com'è capitata qui?
- Avevo sentito tanto parlare degli stilisti e dei paesaggisti di Tallinn. E poi amo il mare...
- Lei viaggia da sola?
- I miei compagni inseparabili sono la macchina fotografica ed un volumetto di Aleksandr Blok.
- È già stata da qualche parte?
- Al Vysgorod e al Kadriorg2 dove sono stata circondata da scoiattoli dolcissimi, per niente impauriti, potevo prenderli in mano.
- Quali sono i suoi piani futuri?
- Finirà l’estate. Cominceranno le lezioni al mio studio coreografico. Riprenderà un lavoro indefesso ed estenuante... Ma intanto, qui mi sento come a casa mia!
In questa storia non vi sono né buoni, né cattivi... Non vi sono né peccatori, né santi. Che poi non esistono neppure nella realtà. È già qualche anno che sto osservando...
Il redattore capo mi disse:
- Tutti i tuoi personaggi sono dei vigliacchi. E se il tuo eroe è un vigliacco, secondo la logica del racconto dovresti portarlo al fallimento morale. Oppure alla nemesi. I tuoi vigliacchi, invece, sono qualcosa di naturale, come la pioggia o la neve...
- Ma dove sono qui i vigliacchi? - chiesi io. - Per esempio, chi sarebbe un vigliacco?
Il redattore capo mi guardò come fossi uno in cattiva compagnia che cerca di difendere le sue amicizie...
È già da tempo che non divido più le persone in positive e negative. E tanto meno i personaggi letterari. E poi non sono affatto convinto che, nella realtà, al delitto segua inevitabilmente il pentimento e alle gesta eroiche la beatitudine. Noi siamo ciò che ci sentiamo di essere. I nostri requisiti, le qualità e i vizi, vengono alla luce al primo flebile soffio vitale... «Natura, sei la mia dea!» eccetera, eccetera... Lasciamo perdere...
In questo racconto non vi sono né buoni né cattivi, né potrebbe essere altrimenti. Uno dei protagonisti sono io. Poi compare Miša Šablinskij, con le sue caratteristiche espressioni, «appercezione spontanea», «dualismo immanente»... Infine è rappresentato Mitja Klenskij, anche lui lo si riconosce facilmente: la passione per i fermacravatta placcati oro ed i grossi bocchini in similambra gli hanno conferito una fama indiscussa.
Cosa avevamo in comune? Forse si trattava, non trovo un’espressione migliore, di una leggera insofferenza per il lato ufficiale del lavoro giornalistico. Una sorta di sano cinismo che aiuta ad evitare le parole altisonanti...
Nel nostro ufficio, su trentadue collaboratori in organico, ventotto si definivano «penna d’oro della Repubblica». Noi tre bastian contrari ci definivamo «penne d’argento». Dima Ser, che aveva scritto in un suo pezzo «Il rene artificiale è un fenomeno prosaico della prosaicità dei nostri tempi», era considerato «penna di legno».
Insomma, eravamo amici. Šablinskij lavorava alla cronaca industriale, sui suoi materiali non si polemizzava, si trattava per lo più di cifre destinate ad un lettore specifico. Klenskij lavorava alla cronaca sportiva, dava i resoconti quotidiani. Le sue comunicazioni, precise e sintetiche, erano prive di emotività. Io scrivevo articoli umoristici. Già in aprile il redattore capo mi aveva detto: « Scrivi articoli umoristici e noi ti daremo un appartamento».
È un lavoro difficile. Ogni fatto va verificato scrupolosamente. Chi è oggetto di critica per scagionarsi cerca di trovare una via d’uscita, si difende. La città è piccola e tutti ti osservano. Riassumendo, per due volte hanno provato a picchiarmi. La prima volta gli scaricatori dello scalo merci (e ci sono riusciti). La seconda, lo speculatore Cigir’, che mi ha colpito con il suo cappello «borsalino» e subito è stato messo a tappeto.
Ogni articolo suscitava innumerevoli reazioni. A volte dal tono minaccioso. La cosa mi faceva persino piacere. L’odio significa che un giornale riesce ancora a suscitare passioni.
Ognuno di noi si occupava del suo lavoro. Tutti e tre guadagnavamo discretamente. Šablinskij, quando andava in missione fuori città, portava pesce affumicato, uova d’anatra e persino maialini vivi. Klenskij scriveva monografie per un veterano dello sport da lui soprannominato «buana buono». In breve, lavoravamo coscienziosamente e onestamente...
E poi? Niente di particolare. Mitja Kenskij ricevette un’ospite da Dvinsk. Non so neppure che intenzioni avesse costei. Ci sono alcune giovani donne che non è che siano viziose, depravate, no, sono solo, per meglio esprimersi, spensierate. La loro vita è un’attività continua e, al di là di tanta frenesia, si fa fatica ad intuire un’anima. Con sforzi mostruosi, a prezzo di qualsivoglia sacrificio, queste signorine riescono ad esempio a procurarsi degli stivali di marca estera. È difficile riuscire a immaginare quanto tempo e quanti sforzi costi tutto ciò. E poi si passa allo sfoggio dei suddetti stivali: innumerevoli frequentazioni, balli o - semplicemente - il su e giù dal grande magazzino al municipio, lungo le vetrine sfavillanti. A volte questi stivali ve li ritrovate accanto al letto: le suole ortopediche, i gambali ripiegati di lato. E non si tratta di chissà che terribile depravazione. Semplicemente queste ragazze non sono sposate, hanno bevuto, gli autobus ormai non passano più, non riesci a trovare un taxi. E il padrone di casa non è niente male. In casa ci sono tre icone, un autografo di Magomaev,3 stampe, Cole Porter4... Di sera le fanciulle ballano e di giorno lavorano. Lavorano sodo. E poi vanno a trovare gente interessante, giornalisti per esempio...
Mitja si affacciò alla porta del nostro ufficio. Con lui c’era una ragazza.
- Aspettami qui - le disse, - il mio capo non è di buon umore. Serž, fa niente se si siede qui?
- Fa niente - dissi.
La ragazza si sedette accanto alla finestra e tirò fuori un portacipria. Mitja uscì. Io continuai a lavorare senza particolare entusiasmo. L’articolo che stavo scrivendo si intitolava «VMK senza ritocco». Cosa significasse VMK me lo sono completamente dimenticato...
- Come si chiama?
- Alla Meleško. È vero che tutti i giornalisti sognano di scrivere un romanzo?
- No - mentii io.
La ragazza si aggiustò il rossetto e cominciò a rigirarsi. Le chiesi:
- Dove studia?
Qui cominciò a mentire. Uno studio di drammaturgia, una pantomima, non so quale regista jugoslavo che le offriva una parte. Il regista si chiamava Joško Gati, ma una misteriosa «Intersin» non mandava il finanziamento in valuta...
Com’è nobilmente progredita la menzogna negli ultimi duecento anni! Un tempo mentivano raccontandoti che erano fidanzate, che lui era un miliardario proprietario di scuderie. Adesso ti raccontano del regista jugoslavo. Un tempo ci si vantava dei cavalli di razza, adesso... degli zoccoli polacchi di velluto a coste. Chlestakov5 era in buoni rapporti con Puškin, mentre il mio amico Genyč è tornato da Mosca depresso e silenzioso: aveva visto ai Magazzini centrali Olžas Sulejmenov.6 Persino l'intelligencija mente, dice di guadagnare piuttosto bene. Io per primo aggiungo sempre una ventina di rubli anche se in effetti non guadagno affatto male... Lasciamo perdere...
Si mise a mentire. In questi casi io taccio - faccia pure. Una bugia disinteressata non è una menzogna, è poesia. Non so perché, ma sono persino convinto che non si chiamasse affatto Alla...
Poi arrivò Klenskij.
- Tutto a posto - disse, - trecento righe, sono nella cartellina del segretario d’amministrazione. Possiamo anche rilassarci.
Trovai in un batter d’occhio una conclusione per il mio articolo. Scrissi qualcosa del genere: «Perché gli attivisti di fabbrica tacevano? Perché il tribunale del collettivo di lavoro non reagiva? In fondo si sa, da che mondo è mondo: cupidigia moltiplicato per impunità uguale reato!..».
- Bene, andiamo - disse Klenskij, - non ne posso più di aspettare!
Consegnai l’articolo e telefonai a Šablinskij. Reagì con sincerità al nostro invito:
- Rosa ha gli esami. Ho solo otto rubli. Domani ho il mercoledì creativo. Come si suol dire, proprio quel che ci voleva...
Ci ritrovammo tutti sul pianerottolo, accanto all’ascensore. Žbankov si avvicinò col flash, fotografò Alla senza dire una parola e si allontanò.
- Che piani abbiamo? - chiesi.
- Telefoniamo a Vera.
Vera Chlopina lavorava al reparto dattilografia, anche se avrebbe potuto diventare tranquillamente correttore di bozze o persino tipografo. Nervosa, abile e in gamba, si autodanneggiava con la sua isterica, impertinente franchezza. I dirigenti del giornale si ritrovavano volentieri a casa sua. Ambiente da single, due stanze, le sue amichette, la musica... Già dopo un paio di bicchierini la Chlopina diventava pericolosa. Se qualcosa non le piaceva, non stava tanto a misurare le parole. Ricordo una volta che gridò a Vejsblat, il vice-direttore del giornale giovanile:
- No, ma ragioni! Ma se è nero che sembra Armstrong! Non lo prenderebbero neppure in un’officina come meccanico!
E non risparmiava neppure le donne. Criticava tutto, la capacità di sublimare i loro peccatucci, il loro vestiario di marca estera, i loro mariti ricchi e insulsi.
Per noi tre Vera provava simpatia. E a ragione. Non eravamo dei carrieristi, non compravamo automobili, non ci davamo arie. Noi pure le volevamo bene. Anche se con lei si trattava esclusivamente di rapporti di amicizia. Pienotta, un filino goffa, Vera arrossiva perennemente ed era smisuratamente casta.
Non che alla Chlopina piacesse bere. Semplicemente le piaceva organizzare incontri tra amici, darsi da fare, correre a cercare del vino bianco, preparare qualcosa da mangiare. Ci diceva:
- Adesso chiamo la Ljuda, quella che fa la commessa al reparto mercerie. È qualcosa di eccezionale! Vitino di vespa, occhioni verdi grossi così!...
Alla Ljuda per telefono urlava:
- Molla tutto, ferma in strada una macchina, corri da noi! Ti aspetto! Cosa? Scrittori, giornalisti, un mare di vodka, la torta...
In conclusione arrivava la Ljuda, alta, snella, in effetti con due occhioni... e con il marito, un capitano della milizia.
Tutto ciò Vera lo faceva senza alcun secondo fine. Semplicemente si sentiva sola.
E così andammo da lei. Comprammo del gin e acqua tonica e tutto quel che occorreva. Devo confessare che queste festicciole ormai le conoscevo a memoria. Sapevo già prima come sarebbero andate le cose. Anche perché si svolgevano sempre nello stesso identico modo. Un ordine stabilito una volta per tutte. Una sorta di spettacolo in cui ogni numero è previsto dal programma. Šablinskij avrebbe raccontato di qualche fantasmagorica caccia da qualcuno della nomenclatura. Il tutto con beccaccini di dimensioni aquiline, una piccola izba nel mezzo del bosco, con sauna finlandese e cognac armeno... A questo punto io lo avrei interrotto con la mia battuta preferita:
- E tra gli alberi correvano gli istruttori del partito vestiti da orso...
- Tutta invidia - avrebbe commentato Šablinskij con bonario sorrisetto, - te l’avevo detto, vieni con noi...
Subito dopo Klenskij avrebbe raccontato qualcosa sull’ippodromo, sbandierando uno dopo l’altro straordinari nomi equini: Annibaie, Canzoncina allegra, Rock and Roll. «Dukel’ lo supera in curva, il favorito sbaglia quattro volte, io ho in tasca sei espressi e alla fine: totovincita!...».
Poi la padrona di casa si sarebbe ubriacata ed avrebbe confessato ciò che pensava di ognuno di noi. Ma noi, che eravamo abituati, non ci saremmo offesi. Klenskij si sarebbe sorbito qualcosa sulla sua cravatta di cattivo gusto. Io sulla mia devozione ai superiori. Šablinskij sul suo snobismo. E sarebbe venuto fuori che lei studiava meticolosamente e appassionatamente ogni nostro articolo. Poi sarebbero cominciati i soliti interminabili discorsi giornalistici su chi non ha talento, su chi ce l’ha; poi i dischi d’anteguerra, le lacrime e la vodka comprata per miracolo, e in conclusione il finale: «ma tu mi stimi?». A proposito non sarebbe male come rubrica per il reparto satira...
Grosso modo le cose andarono proprio così. Arrostimmo dei Wurstel allo spiedo. Vera si ubriacò, baciò il ritratto di Dobroljubov:7 - Che uomini c’erano un tempo!... - Šablinskij raccontò qualche volgarità su Dobroljubov che poi smentì. Alla tirò fuori una bugia persino commovente da quanto era inverosimile, ovvero che Audrey Hepburn le aveva mandato dello shampoo colorante...
Poi si ritirò con Mitja in cucina. Klenskij disponeva di un metodo straordinario per colpire le donne: conversava con loro a lungo e per di più non parlava di sé, ma di loro. Qualsiasi cosa dicesse, c’era sempre l’immancabile: «Lei tende a fidarsi della gente, ma non del tutto...»; il metodo funzionava infallibilmente tanto con le studentesse dell’Istituto tecnico, quanto con le ciniche giornaliste televisive.
Ben presto io e Šablinskij ci venimmo a noia. Lui se ne andò senza salutare. Vera dormiva. Io telefonai a Marina e pure me ne andai.
Ad Alla dissi solo una frase: «Ce la svignamo io e lei?». Questa frase la dico sempre (alle donne s’intende). Quasi sempre. Non si sa mai. Non è una frase ambigua e per di più non è offensiva.
- Non mi sembra carino - disse Alla, - sono ospite di Mitja.
Il mattino dopo in redazione c’era un sacco di lavoro. Preparavo una colonna sul «servizio d’ordine popolare» cercando di tenermi su con dell’acqua minerale. Šablinskij decifrava le sue registrazioni alla conferenza degli istruttori veterani del lavoro. Arrivò Klenskij, tetro, emaciato. Si espresse in modo sibillino e astratto: - È tutta una fiction, proprio come questa nostra esistenza Nell’intervallo di pranzo suonò il telefono:
- Sono Alla. Ha mica visto Mitija?
- Ah - dissi io, - salve. Come va?
- Ho l’emoglobina a 200.
- Non capisco.
- Ma che domande sono, «come va?»... Di schifo, e come altrimenti...
Andai a cercare Klenskij, ma mi dissero che era andato fuori città per lavoro: nel villaggio di Kungla una madre-eroina aveva partorito l’undicesimo figlio. Riferii il tutto ad Alla. Lei disse:
- Che carogna, non mi ha neppure avvertito...
Ci fu una pausa di silenzio. Non mi piacque. E io che diavolo c’entravo? Che poi dovevo anche consegnare l’articolo. Dei titoli a dir poco sgomentevoli: «La ballata dell’aritmometro scomparso»... E Mitja, ma che bravo! Era partito senza avvisare la signorina. Cominciai a sentirmi a disagio.
- Se vuole - dissi - possiamo far colazione insieme.
- Già, in effetti dovrei proprio mangiare qualcosa. Mi sento in un modo indefinibile...
Le diedi un appuntamento e poi cosparsi tutto il tavolo di fogli. Per dare l’impressione di grande alacrità...
Era una giornata di maggio piuttosto fredda e tetra. I tendoni dei caffè sbattevano sulle vetrine. Alla arrivò con un enorme sombrero di percalle. Si vedeva che si pavoneggiava. Io mi voltai angosciato. Ci mancava solo che le amiche di Marina mi vedessero con quel sombrero. Le falde sfioravano le grondaie. Al caffè compresi che si poteva piegare tranquillamente. Mangiammo delle polpette e bevemmo tè con pasticcini. Si comportava come se io dovessi sentirmi in debito con lei. Le chiesi:
- Lei probabilmente è in vacanza?
- Sì - rispose - «vacanze romane».
- È vero, una principessa tra i giornalisti. Come mai mammà ha dato il permesso?
- Perché non doveva?
- Una città sconosciuta, le tentazioni...
- Due mamme si incontrano: «Com’è che l’hai lasciata andare tua figlia?». «E perché preoccuparsi? È da quando aveva nove anni che è sorvegliata dalla polizia... ».
Per educazione mi misi a ridere. Chiamai il cameriere. Pagammo e uscimmo. Le dissi:
- Madame, riverisco, lieto di essermi beato lo sguardo.
- Ciao,8 Johnny! - disse Alla.
- Allora è meglio Giovanni, non Johnny.
- Goodbye, Giovanni!
E se ne andò col suo enorme cappello di percalle, il corpo sottile, un fungo umano. Tornai di corsa in redazione. Infatti il segretario mi aveva già cercato. Verso le sei il mio articolo era pronto.
La sera ero seduto a teatro. Davano «La campana», un rifacimento di Hemingway. Uno spettacolo orribile, un misto dei «Magnifici sette» e della «Giovane guardia».9 Nel secondo atto, ad esempio, Robert Jordan si faceva la barba col pugnale. A proposito, portava dei jeans polacchi. Identici a quelli che avevo io.
Alla fine dello spettacolo cominciò una terribile sparatoria, tanto che me ne andai via senza aspettare le ovazioni. Questa città è proprio benevola, tutti gli spettacoli si concludono tra gli applausi più sfrenati...
Al mattino presto arrivai in ufficio. Mi incaricarono di scrivere una recensione positiva. Mezzo morto per il tabacco e i caffè, cominciai a scrivere.
«Le opere di Hemingway non sono adatte alla scena. L’unico dramma di questo scrittore non dispone di biografia teatrale e resta un “racconto dialogico”. Si legge bene, sottolineava l’autore. Gli innumerevoli tentativi di Hollywood di trasferirlo sullo schermo...».
A questo punto telefonò Vera. Io dissi:
- Sono occupato, giuro! Che c’è?
- Vieni su per un attimo.
- Che succede?
- Ma vieni per un attimo!
- Accidenti...
Vera mi aspettava sul pianerottolo. Rossa, nervosa, triste.
- Capisci, le servono dei soldi.
Non compresi. O meglio, compresi ma dissi:
- Non comprendo.
- Alla ha bisogno di soldi. Non può pagarsi l’aereo.
- Vera, tu mi conosci, ma fino al quattordici non se ne parla. E quanto le serve?
- Almeno una trentina.
- Proprio non se ne parla. In aprile non ho onorari di alcun genere... Devo versare settantacinque rubli alla mutua... Non ho ancora finito di pagare il televisore... E poi sono del tutto... Un attimo, e Klenskij? In fondo è a carico suo...
- È partito per non so dove.
- Tornerà presto.
- Capisci, succederà un disastro. Le ha telefonato il fidanzato da Saratov...
- Da Dvinsk - dissi io.
- Da Saratov, ma che importanza ha... Ha detto che si impicca se lei non torna. È da febbraio che Alla è in giro.
- Beh, potrebbe anche venirsela a prendere.
- Lunedì ha un esame.
- Fantastico - dissi, - può impiccarsi, ma non può saltare un esame...
- Piangeva e non faceva finta...
- Ma io non ce li ho trenta rubli! E poi, santo cielo, è strana tutta questa storia... Ma la cosa fondamentale è che non li ho!
Il fatto interessante è che dicevo la verità.
- E se te li facessi prestare da qualcuno? - fece Vera.
- E perché, se mi consenti, dovrei farmeli prestare? È la ragazza di Klenskij. Che ci pensi lui.
- E se li chiedessi a Šablinskij...
Andammo da Šablinskij. Anche lui si indignò:
- Avevo otto rubli, li ho cavallerescamente tirati fuori. Io stesso devo spillarli a qualcuno. Aspettate che torni Mitja, che si consumi i suoi di soldi! Sai cosa dico sempre io: «il mondo si divide in consumisti e comunisti...».
- Va be’ - disse Vera - mi inventerò qualcosa.
E si avviò all’ascensore.
- Aspetta - dissi, - se non trovi niente, chiamami...
- Va bene.
- Ecco cosa si può fare, possiamo intervistarla.
- Per la rubrica «Gli ospiti di Tallinn». Una studentessa che studia l’architettura gotica. Non abbandona mai il volumetto di Blok. Dà da mangiare agli scoiattolini nel parco... Le daranno una ventina di rubli, e magari anche un bigliettone da venticinque...
- Serž, metticela tutta!
- Bene...
A questo punto mi chiamarono dal redattore capo. Genrich Francevič Turonok sedeva nel suo spazioso ufficio accanto alla finestra. Radio e televisione tacevano. Il complicato aggeggio telefonico coi tasti bianchi era muto.
- Si accomodi - disse il capo, - abbiamo un compito difficile. Nel nostro giornale non viene presentato a dovere il tema della morale. La scelta è la più ampia. Ex-mariti incattiviti dagli alimenti, protezionismo, rapacità statale... Conto su di lei. Vada al tribunale popolare, dai vigili urbani...
- Troverò qualcosa.
- Agisca - disse il redattore capo, - la questione morale è molto importante...
- Okay - risposi.
- E si ricordi: il concorso redazionale che abbiamo indetto continua ancora. Per i materiali migliori verranno conferiti premi in denaro. E il vincitore sarà mandato nella Repubblica Democratica Tedesca...
- Con le buone? - chiesi.
- Come sarebbe?
- Ma se neppure in Bulgaria mi hanno lasciato andare. Avevo consegnato i documenti in primavera.
- Deve bere meno - disse Turonok.
- Lasci stare - dissi, - anche qua non me la passo male...
Quel giorno vi furono ancora un sacco di cose da fare, conflitti, discussioni, problemi irrisolti. Partecipai a due riunioni. Risposi a quattro lettere. Parlai una ventina di volte per telefono. Buttai giù dei cocktail, abbracciai Marina...
Era tutto normale.
E il giorno precedente, dove s’era cacciato? E se era stato dimenticato, cosa mi aveva spinto sei anni dopo a scrivere: «In questa storia non vi sono né buoni, né cattivi... Non vi sono né peccatori, né santi...»?
E alla fine, chi diavolo siamo noi?
Compromesso quarto
(«Vecernyj Tallinn», ottobre 1974)
ABBECEDARIO ESTONE
Nel bosco in un fosco giorno incontrammo un animale.
Gli dicemmo: «Ciao, buon giorno!».
Rispose la bestia: «Tere!».
E subito un raggio di sole sbucò tra due nubi nere...
«Večernyj Tallinn» veniva pubblicato in russo. E così avevamo ideato una nuova rubrica, l'« Abbecedario estone», per i piccoli lettori russi. Io avevo preparato la prima puntata. Avevo scritto delle poesiole piuttosto graziose. Più о meno otto. Ero un vero giornalista universale e in cuor mio ne andavo fiero.
Telefonò un istruttore del Comitato centrale, Vanja Trul':
- Chi ha scritto questa favoletta sciovinista?
- Perché sciovinista?
- Ah, allora sei stato tu a scriverla?
- Proprio io. Cos’è che non va?
- Si parla di una bestia.
- E allora?
- E cosa ne viene fuori? Bisogna pensare che un estone sia una bestia? Io, istruttore del Comitato centrale del partito sarei una bestia?!
- Ma è una favola, una convenzione fittizia. C’è un’illustrazione. Dei bimbi che hanno incontrato un orso. L’orso ha un muso buono e carino. È positivo...
- E perché parla in estone? Che parli la lingua di qualche paese capitalista...
- Non capisco.
- E come si fa a spiegarlo a uno come te! Non sei maturo tu per un giornale di partito, non sei maturo...
Un’ora dopo passò da me il direttore:
- La giuria l’ha multata di due punti.
- Ma di quale giuria parla?
- Ha dimenticato che continua il concorso. Gli autori dei materiali migliori saranno premiati. Il migliore tra i migliori sarà degno di un viaggio in Occidente, nella Repubblica Democratica Tedesca.
- Logico. E il peggiore tra i peggiori sarà spedito a Oriente?
- Cosa vorrebbe dire con questo?
- Niente, scherzavo. Forse che la Repubblica Democratica Tedesca è Occidente?
- Perché, secondo lei cosa sarebbe?
- Il Giappone, quello sì che è Occidente!
- Cooosa? - urlò spaventato Turonok.
- In senso ideologico - aggiunsi.
Un’ombra d’infinita stanchezza oscurò il volto del direttore.
- Dovlatov - disse lui, - con lei parlare è impossibile! Si ricordi che la mia pazienza ha dei limiti...
Compromesso quinto
(«Sovetskaja Estonija», novembre 1975)
E NATO UN ESSERE UMANO
L'annuale festa della Liberazione viene celebrata dovunque in Estonia. Stabilimenti e fabbriche, kolchoz e depositi di macchine e trattori fanno rapporto allo stato sugli alti coefficienti di produzione raggiunti.
Ma in questi giorni è stato superato un altro traguardo. La popolazione della capitale estone ha raggiunto i 400.000 abitanti. All'ospedale N 4 di Tallinn, Maja e Grigorij Kuzinye hanno dato alla luce il tanto atteso primogenito. Era destino che egli fosse il quattrocentomillesimo abitante della città.
- Sara un atleta - sorride il primario Michkel’ Teppe.
Il felice genitore nasconde imbarazzato le sue rozze mani callose.
- Chiameremo nostro figlio Lembit10 - egli dice - così diventerà un eroe!...
Ai fortunati genitori si è rivolto il noto poeta cittadino Boris Štein:
In fabbrica, nei crateri montani,
sugli altri pianeti lontani,
son quattrocentomila gli eroi:
uno di loro, figlio tuo, è oggi tra noi...
Vien voglia di ricordare le parole di Goethe:
«Nasce un essere umano - nasce un mondo intero». *
Non so cosa farai da grande, Lembit! Il tornitore o il minatore, l’ufficiale o lo scienziato. Una cosa è chiara: è nato un Uomo! Un Uomo destinato alla felicità!...
Tallinn è una città piccola, intima. Per strada puoi incontrare un amico che ti dice: «Ciao, stavo proprio cercando te...». Come si trattasse di una mensa aziendale...
In poche parole mi aveva colpito sapere quanti abitanti avesse Tallinn.
Le cose andarono così. Turonok mi chiamò e mi disse:
- C’è un’idea costruttiva. Può venirne fuori un reportage ad effetto. I dettagli li discuteremo. Solo, niente volgarità...
- E a che servono le volgarità?... Sono inutili...
- A dir vero, lei ha già usato volgarità - si incupì Turonok - lei, Dovlatov, è una sequela di volgarità. Persino alle riunioni plenarie. Lei non è volgare solo quando è assente per tempi prolungati... Pensa che io sia così mediocre? Che legga solo quotidiani? Venga a trovarmi uno di questi giorni, vedrà che biblioteca ho a casa mia. Tra l’altro ho delle edizioni prerivoluzionarie...
- Perché mi ha chiamato? - chiesi.
Turonok tacque per un po’. Si tirò su di scatto, come a voler mutare la posa lirica in atteggiamento professionale. Prese a parlare determinato, scandendo bene le parole:
- Tra una settimana è l’anniversario della liberazione di Tallinn. Questa ricorrenza sarà commemorata dappertutto. In particolare sulle pagine dei giornali. Si prevedono diversi aspetti: economico, culturale, quotidiano... Tutti i reparti del giornale stanno preparando il materiale. Anche lei avrà un compito. Per essere più precisi. Stando ai dati dell’ufficio statistico, in città vi sono circa quattrocentomila abitanti. Questa cifra in parte è convenzionale. Piuttosto convenzionale è anche il perimetro cittadino. Vengo al dunque: noi ci siamo riuniti e abbiamo deciso. Il quattrocentomillesimo abitante di Tallinn dovrà nascere alla vigilia della festa di liberazione.
- C’è qualcosa che non mi è del tutto chiaro.
- Lei va all’ospedale. Aspetta. Appena nasce qualcuno, prende i dati, intervista i fortunati genitori, il medico che ha assistito al parto. Naturalmente fa delle foto. Il reportage sarà incluso nel numero commemorativo. Il suo onorario (so che la cosa non le è indifferente) sarà doppio.
- Era da qui che doveva iniziare.
- Il mercantilismo è uno dei suoi aspetti spiacevoli - disse Turonok.
- Debiti - dissi - alimenti...
- Beve troppo.
- Capita anche questo.
- In poche parole, il succo della faccenda è questo: è nato un uomo felice. Io addirittura direi, un uomo destinato alla felicità
scatarrato, scusa l’espressione, e gli era saltata via la protesi. Mobile, ovviamente, da ottocento bigliettoni e passa d’oro. Lui corre dai sommozzatori: «Ragazzi, aiutatemi! ». Quelli non se lo fanno ripetere due volte: «Dopo il lavoro te la cerchiamo». «Vi ricompenserò». «Ti costerà una bottiglia a cranio». «Ma s’intende...». Finito il lavoro, cominciano a darsi da fare. Ed ecco Fedja che arriva dal lavoro e vede tutto questo tramestio. «Cosa state facendo?» chiede. Sempre lì a scrivere, capisci. I ragazzi, però, sono a disagio. Balbettano qualche fregnaccia: «È affondato un carico prezioso». E Fedja che non aveva capito niente: «Tu come ti chiami! E tu?»... I ragazzi, com’è doveroso, rispondono. «Quali passatempi avete nel tempo libero?»...Musica, rispondono, pittura... «E come mai siete ancora al lavoro ad un’ora così tarda?»... Sta arrivando una tempesta, dicono quelli, abbiamo fretta... Così Fedja mi telefona in redazione. Io arrivo, faccio le fotografie, senza far troppe domande... La cosa fondamentale è che era un bacino interno, artificiale. Là mica ci scoppiano le tempeste...
- Se te ne andassi a casa - dissi io.
- Aspetta, il bello deve ancora venire. Mi hanno raccontato com’è finita la storia. Quella volta i sommozzatori avevano recuperato la protesi. Mironenko, al settimo cielo, li trascina all’osteria e ordina della vodka. Alzano il gomito. Poi comincia ad esibire a destra e a manca la sua protesi. «Grazie ragazzi» dice «mi avete salvato, l’avete trovata». «Sono degli eroi, dei lavoratori d’assalto, degli stacanovisti» dice ancora Mironenko. Ammirano la protesi ad un tavolo, poi ad un altro... Viene a dare un’occhiata il custode... il suonatore di trombone del complesso... Le cameriere scuotono la testa e Mironenko e i sommozzatori fanno fuori la sesta bottiglia. Ma ecco che si accorge che la protesi è sparita, qualcuno se l’è portata via. Grida: «Restituitemela, carogne!». E chi la trova più adesso... Ora neanche i sommozzatori potranno essergli di aiuto...
- Bene - dissi - devo andare...
Non avevo voglia di andare al reparto maternità. L’atmosfera ospedaliera mi deprime. Solo a vedere i ficus all’entrata...
Passai da Marina al lavoro. Mi sentii rispondere:
- Ah, sei tu, scusa ho molto lavoro.
- È successo qualcosa?
- E cosa vuoi che succeda? Lavoro...
- Che lavoro?
- La liberazione e il solito. Noi siamo gente ordinaria, non scriviamo romanzi...
- Perché ti arrabbi?
- E perché non dovrei? Tu sparisci sempre. Prima amore folle, poi per una settimana in giro chissà dove...
- Come sarebbe «chissà dove»? Ero in viaggio per lavoro sul lago Saaremaa. In albergo mi hanno punzecchiato le cimici...
- Non sono state le cimici - e Marina si immusonì sospettosa - ma le donne. Ripugnanti e lerce troie. E cosa mai ci troveranno in te? Sempre senza un soldo, sempre a smaltire la sbornia. .. Mi stupisce come finora non ti sia ancora beccato qualcosa...
- E cosa ti puoi beccare da una cimice?
- Ma almeno smettila di mentire! Chi è quella rossa, quella stangona civettuola? Ti ho visto stamattina dall’autobus...
- Non è una rossa stangona civettuola. È il poeta metafisico Vladimir Erl’. Porta una strana pettinatura...
A un tratto compresi che sarebbe scoppiata a piangere. Marina piangeva disperatamente, amaramente, emettendo gridolini lamentosi e senza contenersi. Come un’attrice dopo lo spettacolo...
- Ti prego, calmati. Va tutto bene. Tutti sanno che io ci tengo a te...
Marina tirò fuori un minuscolo fazzolettino rosa, lo passò sugli occhi. Pronunciò più tranquilla:
- Riesci ad essere serio?
- Naturalmente.
- Non ne sono sicura. Sei un completo irresponsabile... Come un’allodola... Non hai un indirizzo, non possiedi nulla, non hai uno scopo... Non hai legami profondi. Io sono solo un punto casuale dello spazio. E ormai mi avvicino ai quaranta, devo pensare a sistemare in qualche modo la mia vita.
- Anch’io vado per i quaranta. O meglio ne ho più di trenta. E non capisco cosa significhi «sistemare la propria vita»... Vuoi sposarti? Ma cosa cambia? Cosa ti dà uno stupido pezzo di carta? È come un marchio per un cavallo... Finché mi sta bene, resto qui. Se mi stufo, me ne vado. Sarà sempre così...
- Non intendo sposarmi. E poi, bel fidanzato che saresti! Semplicemente voglio avere un bambino. Altrimenti sarà troppo tardi...
- E fallo, solo ricordati che cosa lo aspetta.
- Tu vedi sempre tutto a tinte fosche. Milioni di persone vivono e lavorano onestamente. E poi come faccio a farlo da sola?
- Perché da sola? Posso... partecipare. Per quanto riguarda l’aspetto economico della questione, tu guadagni tre volte di più. Cioè, in pratica non dipendi da me...
- Parlavo d’altro... - Suonò il telefono. Marina alzò il ricevitore.
- Sì? Ma bene... Combinazione è proprio qui... - Io feci dei cenni con le mani. Marina comprese e annuì.
- Dicevo che è appena .stato qui... Adesso non saprei. Probabilmente è andato a bere da qualche parte.
Che stronza, pensai.
- Ti sta cercando Cechanovskij. Vuole restituirti dei soldi.
- Cosa gli prende?
- Ha ricevuto dei soldi per il libro.
- «La carovana si allontana nel cielo»?
- Cosa c’entra la «carovana»? Il libro si chiama «Alla prossima puntata».
- È la stessa cosa. Bene - dissi - devo andare.
- Dove? Se non è un segreto...
- Che tu ci creda o meno, al reparto maternità...
Osservai i tavoli coperti di giornali. Sentii il fumo di sigaretta e l’odore di colla. Provai un’angoscia e un’amarezza così acute che ormai neppure l’atmosfera dell’ospedale mi faceva più paura.
Passai oltre la porta e mi resi conto che Marina un secondo prima mi aveva urlato:
- E sparisci, patetico ubriacone!
Presi l’autobus per andare in via Karl Marx. In autobus imprevedibilmente mi appisolai e dopo un minuto mi svegliai con il mal di testa. Attraversando l’atrio dell’ospedale, di sfuggita balenò la mia immagine nello specchio e mi girai dall’altra parte...
Verso di me veniva una donna in camice bianco.
- I mariti non possono entrare.
- E i marziani possono? - chiesi.11
L’infermiera ammutolì perplessa. Le rifilai la mia tessera di redazione. Salii al primo piano. Sul pianerottolo fumavano delle donne in vestaglia.
- Dove posso trovare il primario?
- Di sopra, vicino all’ascensore.
Se sta vicino all’ascensore, è una persona che conta poco. Vicino all’ascensore c’è rumore, sbattono le porte...
Entro. Un estone sulla sessantina sta facendo ginnastica davanti al vasistas aperto.
Gli estoni li riconosco subito, senza possibilità di errore. Non vi è niente di eclatante, di vistoso nel loro aspetto. Immancabilmente la cravatta e i pantaloni con la piega. Deboli lineamenti mandibolari e occhi dall’espressione tranquilla. E poi dove lo trovi un russo che ti fa ginnastica tutto solo...
Gli allungo la tessera.
- Sono il dottor Michkel’ Teppe. Si accomodi. Cosa posso fare per lei?
Gli esposi il nocciolo della questione. Il dottore non si stupì. E in genere, qualsiasi diavoleria tiri fuori la stampa, è difficile stupire il lettore ordinario. Si sono abituati a tutto...
- Penso che non ci siano problemi - disse Teppe - la clinica è grandissima.
- Le comunicano ogni nascita?
- Posso dare disposizione.
Alzò il ricevitore. Disse qualcosa in estone, poi si rivolse a me:
- Le interessa come avviene il parto?
- Dio mi scampi e liberi! Mi basta scrivere i dati, dare un’occhiata al neonato e parlare col padre.
Il dottore fece un’altra telefonata. Ancora una volta disse qualcosa in estone.
- Qui c’è una che sta partorendo. Chiamerò tra qualche minuto. Speriamo che tutto vada bene. La madre è sana... Una biondina bella e in carne - si lasciò andare il dottore.
- E lei - chiesi - è sposato?
- Naturalmente.
- E figli ne ha?
- Un figlio.
- Non ha mai pensato a cosa lo aspetta?
- E cosa mai dovrei pensare? So benissimo quello che lo aspetta. Lo aspetta un campo a regime duro. Ho parlato con l’avvocato. L’hanno già fatto firmare...
Teppe parlava con calma e semplicità. Come se si trattasse di un fatto straordinariamente positivo.
Io abbassai la voce, chiesi in tono confidenziale e cospirativo:
- L’affare Soldatov?
- Cosa? - fece il dottore senza capire.
- Suo figlio, è un attivista del movimento d’indipendenza estone?
- Mio figlio - scandì bene Teppe - è uno speculatore e un beone. E posso essere relativamente tranquillo per lui solo quando lo tengono chiuso in prigione...
Tacemmo per un po’.
- Un tempo io facevo il sanitario militare sulle isole. Poi ho combattuto nei reggimenti estoni. Ho raggiunto una posizione di prestigio. Non so come sia potuto succedere. Io e sua madre siamo persone positive, nostro figlio è negativo...
- Non sarebbe male sentire anche cosa ne pensa lui.
- Sentire lui è impossibile. Io gli dico: «Jura, perché mi disprezzi? Tutto quello che ho, l’ho conquistato lavorando senza sosta. La mia vita non è stata facile. Adesso ho una posizione importante. Cosa credi, perché un semplice sanitario come me è diventato primario? ». E lui mi risponde: « Perché tutti i tuoi colleghi più bravi li hanno fucilati... ». Come fossi stato io a fucilarli...
Suonò il telefono.
- Sono io - disse Teppe - ottimo.
Poi passò all’estone. Parlavano di centimetri e chilogrammi.
- Ecco fatto - disse - ha partorito una della nove. Quattro chili e due per cinquatotto centimetri. Vuole dare un’occhiata?
- Non è indispensabile. I neonati sono tutti uguali...
- Il cognome della madre è Okas. Chil’ja Okas. Classe millenovecentoquarantasei. Lavora al controllo produzione del «Punane ret». Il padre è Magabča...
- Che sarebbe Magabča?
- È il cognome. È etiope. Studia all’istituto navale.
- Di colore?
- Io direi, color cioccolato.
- Ascolti - dissi - è curioso. Si profila l’internazionalismo. L’amicizia tra i popoli... Sono sposati?
- Naturalmente. Lui ogni giorno le scrive dei messaggi e si firma: «Il tuo bastoncino di soia».
- Potrei fare una telefonata?
- Per carità.
Chiamo la redazione. Viene al telefono Turonok.
- Pronto... Sono Turonok.
- Genrich Francevič, è appena nato un maschietto.
- Cosa è successo? Chi parla?
- Sono Dovlatov. Dall’ospedale. Lei mi ha incaricato...
- Ah, ricordo, sì, ricordo.
- Allora, è nato un maschietto. Grande e sano... Cinquantotto centimetri. Peso: quattro e due... Il padre è un etiope.
Subentrò una pausa pesante.
- Non ho capito - disse Turonok.
- Etiope - dissi - nato in Etiopia... Studia qui... Marxista - aggiunsi non so perché.
- Ma cos’è, ubriaco?! - chiese seccamente Turonok.
- E come potrei? Sono in servizio.
- In servizio... E da quando in qua lei non beve in servizio?! Chi è che in dicembre ha vomitato alla riunione di partito?
- Genrich Francevič, non posso stare troppo al telefono... È appena nato un bambino. Suo padre è un etiope che simpatizza per noi.
- Lei vuol dire che è di colore?
- Color cioccolato.
- Cioè negro?
- Ma naturale.
- Cosa ci vede qui di naturale!
- Secondo lei un etiope non è un essere umano?
- Dovlatov - con voce rotta dall’angoscia proferì Turonok - Dovlatov, io la licenzio... Per tentato discredito di tutto ciò che c’è di buono... Lasci in pace il suo etiope di merda! Ne aspetti uno normale, mi ha sentito? Un normale piccolo essere umano!...
- Va bene - dissi - volevo solo chiedere... - Si udì il segnale della linea interrotta. Teppe mi guardò con comprensione.
- Non va bene - dissi.
- Dei dubbi mi erano venuti subito, ma avevo taciuto.
- Va be’...
- Vuole un caffè?
Tirò fuori dall’armadietto un barattolo marrone. Di nuovo squillò il telefono. Teppe parlò a lungo in estone. Evidentemente erano questioni di lavoro che non mi riguardavano. Aspettai che finisse di parlare e su due piedi gli chiesi:
- Potrei dormire un po’ dietro il paravento?
- Ma certo - non si stupì Teppe. - Se vuole usare il mio impermeabile.
- Va bene anche così.
Mi tolsi le scarpe e mi sdraiai. Dovevo concentrarmi. Altrimenti i profili della realtà sarebbero irrimediabilmente sbiaditi. D’improvviso mi vidi da lontano, ebete e smarrito. Chi ero io? Cosa ci facevo là? Perché ero sdraiato dietro un paravento in attesa di chissà cosa? E com’era stupida tutta la mia vita!..
Quando mi svegliai, accanto a me c’era Teppe.
- Chiedo scusa se la disturbo... Ha appena partorito la sua conoscente.
«Marina! » pensai con un lieve terrore (tutti sanno che il terrore si prova solo in forme quasi impercettibili). Poi, scacciato il folle pensiero, chiesi:
- Come sarebbe una mia conoscente?
- Una giornalista del giornale giovanile, Rumjanceva.
- Ah, Lena, la moglie di Boris Štein. In effetti è da maggio che non si fa vedere...
- Cinque minuti fa ha partorito.
- È curioso. Il redattore capo sarà felice. Il padre del bambino è un noto poeta di Tallinn. La madre è una giornalista.
Sono tutti e due iscritti al partito. Štein scriverà una ballata per l’occasione...
- Sono felice per lei.
Telefonai a Štein.
- Ciao - dissi - posso farti le congratulazioni...
- È ancora presto. La risposta l’avrò solo mercoledì.
- Quale risposta?
- Se andrò in Svezia o non ci andrò. Dicono che non ho esperienza di viaggi nei paesi capitalisti. Ma dove me la faccio l’esperienza se non mi lasciano andare?... Tu sei stato nei paesi capitalisti?
- No. Non mi hanno lasciato andare neanche in quelli socialisti. Volevo andare in Bulgaria...
- Io invece sono stato persino in Jugoslavia, quasi un paese capitai...
- Telefono dalla clinica. Ti è nato un figlio.
- Cazzo! - esclamò Štein. - Cazzo!..
Teppe mi porse un foglietto con degli scarabocchi.
- Lungo - dissi - cinquantasei. Peso: tre e nove. Lena sta bene.
- Cazzo - Štein non si calmava - arrivo subito. Prendo un taxi.
Ora si doveva chiamare il fotografo.
- Telefoni, telefoni - disse Teppe.
Chiamai Žbankov. Rispose Lera.
- Michail Vladimirovič sta poco bene - disse lei.
- Cos’ha, ha bevuto? - chiesi.
- Come un porco. Sei tu che gli hai dato da bere?
- Nient’affatto. E tanto per dirne una, sono al lavoro.
- Allora scusami.
Telefonai a Malkiel’.
- Vieni, c'è da fotografare un bambino per il numero della liberazione. Štein ha avuto un figlio. L’onorario, tra l’altro, è doppio...
- Vuoi scrivere di questo bambino?
- Beh, perché?
- Ma perché Štein è ebreo. E per ogni ebreo bisogna prima discuterne coi superiori. Sei straordinariamente ingenuo, Serž.
- Ho scritto di Kaplan senza nessun permesso dei superiori.
- Beh, prova a parlare di Glikman. Kaplan è un membro del Comitato regionale. Di lui hanno scritto duecento volte. Non puoi mica paragonare Kaplan a Štein...
- Io non paragono. Štein in un certo senso è anche più simpatico.
- Tanto peggio per lui.
- Chiaro. Grazie per avermi avvisato.
Dico a Teppe:
- A quanto pare, neanche Štein va bene.
- Anch’io ne dubitavo.
- E allora chi è che mi ha svegliato?
- Io l’ho svegliata. Ma avevo dei dubbi.
- Che fare allora?
- Presto partorirà un’altra. Forse ha già partorito. Adesso telefono.
- Io intanto esco, vado a fare due passi.
Nel mesto giardinetto dell’ospedale se ne andavano a zonzo i gatti. I neri pioppi sfrondati emettevano acuti fruscii. Un giovane magro e curvo spingeva un carretto con un serbatoio. Il suo camice lindo e azzurro lo rendeva simile a una vecchietta.
Da dietro la curva sbucò Štein.
- Beh, congratulazioni.
- Grazie, vecchio mio, grazie. Ho appena mandato a Lena un pacco... Che stato d’animo inconsueto! Dovremmo bere per un’occasione del genere.
«Bere con te» pensai «è solo un gran tormento».
Non volevo dargli un dispiacere. Non gli dissi che il suo bambino era stato scartato. Ma Štein era già al corrente di tutto.
- Prepari del materiale per la liberazione?
- Sto tentando.
- Vuoi renderci famosi?
- Vedi - dissi - qui ci serve una famiglia operaia o contadina. Voi siete degli intellettuali...
- Peccato. Io in taxi avevo già scritto dei versi. Finiscono così:
In fabbrica, nei crateri montani,
sugli altri pianeti lontani,
siam quattrocentomila eroi:
oggi il mio primogenito è pure tra noi...
Dissi:
- Quale primogenito?! Ma se hai già una figlia grande.
- Dal primo matrimonio.
- Ah, allora va bene.
Štein pensò un po’ e d’un tratto disse:
- Allora, comunque, l’antisemitismo esiste?
- Sembrerebbe di sì.
- Come ha potuto arrivare qui da noi? Da noi, in un paese dove a quanto sembra...
Lo interruppi:
- In un paese dove il morto fondamentale non è ancora stato sepolto... Il cui stesso nome è menzogna...
- Secondo te, tutto è menzogna!
- La menzogna è nei miei articoli e nei tuoi schifosi versi! Dove l’hai visto tu un estone su un altro pianeta?
- Ma è una metafora.
- Una metafora... La menzogna ha decine di nomignoli del genere!
- Si potrebbe dedurne che tu sei l’unica persona onesta. E chi ha scritto un intero racconto sulla Ferrovia dal Bajkal all’Amur? Chi ha reso fama al signor Timofeev della Čeka?
- La smetterò. Vedrai che smetterò...
- E allora pensa da che pulpito.
- Non t’arrabbiare.
- Accidenti, mi hai rovinato l’umore... Stanimi bene.
Teppe mi aspettava sulla porta.
- Ha partorito la Kuzina della stanza sei. Ecco i dati. Lei è estone, guidatore di autocarro. Il marito è un portuale, tornitore al cantiere navale, russo, membro del partito. Il bambino è perfettamente nella norma.
- Grazie a dio, si direbbe che vada bene. Per ogni evenienza telefono.
Turonok disse:
- Magnifico. Si accordi perché chiamino il bambino Lembit.
- Genrich Francevič - lo supplicai - ma chi è che va a chiamare suo figlio Lembit! È completamente fuori moda. È folcloristico...
- Che lo chiamino così. Che differenza fa per loro?! Lembit suona bene, è un nome coraggioso e simbolico... Nel numero della liberazione farà la sua figura.
- Lei potrebbe chiamare suo figlio Bova? Oppure Mikula?
- Non faccia demagogia. Lei ha avuto un compito. Per mercoledì il materiale dev’essere pronto. Se rifiutano di chiamarlo Lembit, gli rifili dei soldi.
- Quanto?
- Un venticinque rubli. Il fotografo lo mando io. Come fa di cognome il neonato?
- Kuzin. Stanza sei.
- Lembit Kuzin. Suona benissimo. Al lavoro.
Chiesi a Teppe:
- Dove posso trovare il padre?
- Eccolo là. Sotto le finestre, seduto in quell’aiolaà.
Scesi giù.
- Ehi! - dissi - è lei Kuzin?
- Per essere Kuzin, sono Kuzin - rispose - ma non è servito a gran che.
Evidentemente il tipo era di umore filosofico.
- Mi permetta di congratularmi - dissi. - Il suo bambino è risultato il quattrocentomillesimo abitante della nostra città. Io sono un giornalista. Vorrei scrivere della vostra famiglia.
- E cosa c’è da scrivere?
- Beh, della vostra vita...
- Niente di speciale, ce la passiamo bene... Lavoriamo, come è previsto... Ampliamo i nostri orizzonti... Abbiamo un certo prestigio...
- Dovremmo andare da qualche parte a parlare.
- In che senso? A bere? - si rianimò Kuzin.
Era un uomo alto con un mento granitico e delle ciglia ingenue, infantili. Si alzò vivacemente dall’aiola e si stirò le ginocchia.
Ci dirigemmo al «Kosmos», sedemmo vicino alla finestra. La sala non era ancora piena.
- Ho in tutto otto rubli - disse Kuzin - più una bella bottiglia di veleno.
Tirò fuori dalla cartella una bottiglia di rum cubano. La nascose dietro la tenda della finestra.
- Prendiamo un trecento grammi tanto per non dare nell’occhio?12
- E della birra - dissi - se è fredda...
Ordinammo trecento grammi di vodka, due insalate e una polpetta a testa.
- Desiderano degli affettati affumicati? - chiese il cameriere.
- Stattene tranquillo! - reagì Kuzin.
La sala era quasi vuota. Sulla pedana erano disposti quattro suonatori. Pianoforte, chitarra, contrabbasso e batteria. I leggii di quercia erano decorati con piccole lire di latta.
Il chitarrista si pulì furtivamente le scarpe con il fazzoletto da naso. Dopodiché si avvicinò al microfono e annunciò:
- Su richiesta dei nostri amici, tornati dal villaggio turistico di Azalemma...
Seguì una pausa densa di significato.
- Eseguiremo la ballata poetica «La pioggerella sgocciola sul muso!...».
Si udì un baccano inaudito, acuito dall’amplificatore. I musicisti strillavano qualcosa in coro.
- Lo sai cos’è Azalemma? - chiese tutto allegro Kuzin. - È il più grande lager dell’Estonia: campo di lavoro e rieducazione, smistamento detentivo, camera d’isolamento... Bene forza! - e levò il bicchiere.
- Alla tua! A tuo figlio!
- Al nostro incontro! E che non sia l’ultimo...
Due coppie ballavano come fuori dal mondo tra i tavolini. I camerieri in divisa bianca e nera sembravano dei pinguini.
- Ancora una?
Bevemmo un altro bicchiere.
Kuzin ingoiò velocemente un boccone e disse:
- Come ci sono andate le cose è una vera e propria commedia. Io lavoravo al cantiere navale, vivevo da solo. Beh, ho conosciuto una tipa, pure lei sola. Che fosse un mostro non posso dirlo: era pensierosa. Cominciò a venire da me, tipo a lavare, stirare... Ci mettemmo insieme a Pasqua, anzi no, all’Intercessione... Altrimenti dopo il lavoro c’era il vuoto... Quanto può ubriacarsi una persona?... Abbiamo vissuto insieme circa un anno... Come abbia fatto a restare incinta proprio non lo so... Se ne stava a letto come un merluzzo e io le dicevo: «Non è che ti sei addormentata per un’oretta?». «No» faceva lei «ero sveglissima». «Non scoppi certo di ardore» dicevo io. E lei: «In cucina dev’essere rimasta accesa la luce...». «Come fai a dirlo?». «Guarda un po’ com’è su di giri il contatore... ». «Dovresti imparare da lui... » dicevo io. Così abbiamo vissuto circa un anno...
Kuzin tirò fuori dalla tenda la bottiglia di rum, versò deciso. Bevemmo di nuovo.
Il chitarrista si aggiustò la giacca ed esclamò:
- Su richiesta di Tolik B., che è
seduto accanto alla porta, eseguiremo...
Pausa. Poi, con impeto ancora maggiore:
- Eseguiremo la ballata poetica «Quale veleno mi hai dato da bere?...».
- Tu sei sposato? - chiese Kuzin a sua volta.
- Lo sono stato.
- E ora?
- Ora, direi di no.
- Hai figli?
- Sì.
- Tanti?
- Tanti... Una.
- Magari ne avrai altri!
- È difficile...
- Loro vanno compatiti. I figli non c’entrano... Io personalmente li chiamo «fiori della vita»... Ce ne facciamo un altro?
- Forza.
- Con la birra?
- Naturalmente...
Lo sapevo bene, ancora tre bicchieri e il lavoro era defunto. Da questo punto di vista bere al mattino è un bene. Bevi e sei libero tutto il giorno...
- Ascolta - gli dissi - chiama tuo figlio Lembit.
- E perché mai Lembit? - si stupì Kuzin. - Vogliamo chiamarlo Vladimir. Che diavoleria è Lembit?
- Lembit è un nome.
- Perché, Vladimir non lo è?
- Lembit è preso dal folclore.
- Cosa significa folclore?
- Arte popolare.
- Cosa c’entra qui l’arte popolare?! Il mio unico figlio voglio chiamarlo Volodja... Come chiamare un piscione, anche questo è un problema. A me mi hanno chiamato Griša e a cosa è servito? Cosa sono diventato? Un beone... Potevano chiamarmi subito così, Beone... Allora, andiamo?
Bevemmo, senza più mangiare.
- Se lo chiami Volodja - riprese accademico Kuzin - ti viene fuori un trincavodka bighellone. Molto, naturalmente, dipende dall’educazione...
- Ascolta - dissi - chiamalo provvisoriamente Lembit. Il nostro capo ha promesso della grana. E tra un mese gli cambi nome, quando andrete a denunciarlo all’anagrafe..
- Quanto? - si interessò Kuzin.
- Venticinque.
- Due da mezzo litro e qualcosina da sgranocchiare. Il tutto all’osteria...
- Come minimo. Stai qui, vado a telefonare...
Scesi giù alla cabina. Chiamai l’ufficio. Il capo era al suo posto.
- Genrich Francevič! Tutto okay! Il padre è russo, la madre estone. Lavorano entrambi al cantiere navale...
- Che voce strana ha, Dovlatov... - disse Turonok.
- È questo telefono... Genrich Francevič, mandi subito Chubert con i soldi.
- Quali soldi?
- L’effetto stimolante, perché chiamino il bambino Lembit... Il padre è d’accordo per venticinque rubli. Altrimenti, dice, lo chiama Adolf...
- Dovlatov, lei è ubriaco! - disse Turonok.
- Nient’affatto.
- Va be’, poi ne parliamo. Il materiale dev’essere pronto per mercoledì. Chubert uscirà tra cinque minuti. Lo aspetti alla piazza del Municipio. Le consegnerà una chiave...
- Una chiave?
- Sì, una chiavetta simbolica. La chiave della felicità. La consegni al padre... In un contesto adeguato... La chiave costa tre rubli e ottanta. Questa somma la scalerò dai venticinque rubli.
- Non è onesto - dissi io.
Il capo posò il ricevitore.
Salii. Kuzin sonnecchiava con la testa appoggiata alla tovaglia. Da sotto la sua guancia spuntava di sghembo il piatto con il pane.
Presi Kuzin per la spalla.
- Ehi! - gli dissi - sveglia! Ci aspetta Chubert...
- Cosa?! - si allarmò. - Chubert? Tu mi avevi detto Lembit!
- Lembit non c’entra. Lembit è tuo figlio. Provvisoriamente...
- Già, ho avuto un figlio.
- Si chiama Lembit.
- Prima Lembit, e dopo Volodja.
- Chubert, invece, è quello che ci porta i soldi.
- I soldi ci sono - disse Kuzin - otto rubli.
- Dobbiamo pagare, dov’è il cameriere?
- Ehi, signor affettati, dove sei? - strillò Kuzin.
Apparve il cameriere con le labbra mestamente rientranti.
- E stato rotto un piatto - annunciò.
- Aha! - annuì Kuzin - sono stato io col mio muso, bum, sul tavolo, e crak!
E confuso tirò fuori dalle tasche i cocci.
- E al gabinetto, l’ha fatta fuori - aggiunse il cameriere -bisogna fare un po’ più d’attenzione...
- Sparisci - all’improvviso si infuriò Kuzin - capito? Oppure ti lustro la pelata!
- Finché sono in servizio, non glielo consiglio. Può finire anche dentro.
Io rifilai al cameriere i soldi.
- Scusi - dissi - al mio amico è nato un figlio. Poveretto, è preoccupato.
- Avete bevuto, beh, comportatevi almeno con un po’ di educazione - e il cameriere lasciò correre. Pagammo e uscimmo sotto la pioggia. La macchina di Chubert era davanti al municipio. Ci fece segno coi fari e spalancò la portiera. Noi ci infilammo dentro.
- Ecco i soldi - disse Chubert - il capo è preoccupato che tu beva...
Io nell’oscurità afferrai le banconote e le monete...
Chubert mi allungò una pesante scatola.
- E questa cos’è?
- Un «souvenir di Pskov».
Aprii la scatola. Dentro c’era una chiave dorata delle dimensioni di una piccola balalajka.
- Ah! - dissi. - La chiave della felicità!
Spalancai la portiera e gettai la chiave nella spazzatura. Poi dissi a Chubert:
- Dai, beviamo.
- Io devo guidare.
- Lascia qui la macchina, andiamo a piedi.
- Devo ancora portare a casa il capo.
- Ci arriverà anche da solo, vecchio porco...
- Capisci, mi hanno promesso un appartamento. Se non fosse per quello...
- Vieni a vivere da me - disse Kuzin - la tipa la mando in campagna. Vicino a Pskov, a Usochi. Là la margarina non la vedono dall’estate scorsa...
- Devo andare, ragazzi - disse Chubert.
Noi uscimmo di nuovo sotto la pioggia. Le finestre del ristorante «Astorija» erano illuminate e allettanti. Un lampione sottraeva all’oscurità una variopinta pozzanghera all’entrata...
Vale la pena raccontare dettagliatamente cosa avvenne oltre? Come il mio casuale compagno saltò sul palcoscenico e si mise a strillare: «Hanno venduto la Russia!...». E poi colpì l’usciere con tale forza che il berretto della divisa gli finì nello sgabuzzino... E come io persi dapprima il mio blocco con gli appunti... e poi Kuzin...
Mi risvegliai da Marina, nel cuore della notte. Una pallida oscurità invadeva la stanza. La sveglia ticchettava con un rumore insopportabile. C’era puzza di ammoniaca e di vestiti bagnati.
Io mi toccai la tempia gonfia e ferita.
Marina mi sedeva accanto, triste e un po’ emaciata. Mi carezzava dolcemente i capelli. Mi accarezzava e ripeteva:
- Povero bambino mio, povero bambino...
Chissà con chi credeva di parlare...
Compromesso sesto
(«Vecernyj Tallinn». Programma radio settimanale, marzo 1976)
13.30. UN INCONTRO CON UNA PERSONA INTERESSANTE. Vladimir Merkin. Economia: il futuro
Il breve programma radio di L. Agapova e S. Dovlatov viene dedicato all'economista prof. Vladimir Grigor’evič Merkin. Voi ascolterete dalla sua viva voce interessantissime informazioni sul progresso economico in URSS e sull'attuale, irreversibile crisi economica dell'Occidente. Nell'intervallo trasmetteremo il giornale-radio ed un «Intervallo musicale».
Quattro anni dopo, sul volto della giornalista Agapova sarebbe comparsa una profonda cicatrice causata da un righello di metallo: con un grido mostruoso su di lei si sarebbe infatti gettato l’architetto autodidatta Degtjarenko, eroe del programma pubblicistico radiofonico «Chiarezza», né allora né mai mandato in onda. Sei settimane prima di questa orribile scena, alla giornalista avevano raccontato per la prima volta del progetto del «Mobile cooperato »13 e del suo geniale autore, un operaio non specializzato di una fabbrica di Tallinn. L’Agapova aveva scritto un breve pezzo per la rubrica «Un incontro con una persona interessante». La sezione tecnica aveva richiesto i grafici del progetto. L’esperto Cubarov aveva tenuto per un minuto tra le sue curatissime mani due calchi sporchi e tremolanti e si era espresso come segue:
- Originale! Molto originale!
La giornalista, sollevata, aveva risposto orgogliosa:
- Ha fatto solo la quarta elementare!
- E lei? - le aveva chiesto con aria schizzinosa l’esperto. -Lei sa cos’è questo?
- Il Mobile cooperato. Una casa mobile. L’abitazione del futuro...
- È un vagone - l’aveva interrotta Čubarov - un banale vagone. E il suo Le Corbusier va ricoverato d’urgenza...
La trasmissione era stata immediatamente soppressa. Degtjarenko, che ci aveva messo il cuore, aveva colpito Lida in testa con un righello metallico. La carriera dell’avventizia collaboratrice della Radio di Tallinn si sarebbe interrotta a lungo... Tutto ciò sarebbe accaduto quattro anni dopo. Per ora limitiamoci a seguirla verso la fermata del tram.
Prima c’era stata una mattinata grigia, ancora prima, la notte. Un piccione assonnato che vagava per il cornicione, graffiando la latta. Poi la sveglia; le fredde ciabatte; la ressa davanti al gabinetto:14 il tè; del formaggio umido e anchilosato; il brusio del rasoio: il marito che si affrettava al lavoro. La figlia: «Se non sbaglio, avevo chiesto che nessuno prendesse la mia vestaglia! »... E infine, il fresco delle strade indifferenti; il vento; le pozzanghere di zinco; i cani maltesi ai giardinetti; il frastuono del tram...
Proverò a descriverla. Anche se esteriormente la Agapova non è niente di che.
Soprascarpe di gomma estere. La pesante gonna marrone che non modella il passo. Il giubbotto sintetico con cerniera che emette fruscii. Il berretto con visiera azzurra, quello della divisa del politecnico di Tallinn. Un viso sicuro, perennemente freddo. Nessuna traccia di cosmetici. Un dente mancante al limitare del sorriso. Solo gli occhi esprimono sorpresa, le sopracciglia sono immobili, come il nastro di un traguardo.
Seguiamo la nostra eroina. La fermata del tram...
«...Guarda come si vestono bene le ragazzine. Il cappottino scadente, ma non sovietico. Al posto dei bottoni sa il diavolo quali coccole di conifera... Però stanno bene... E guarda quella, con la tuta da lavoro... e i fiordalisi sul sedere, un’andatura altera, come quella della Lollobrigida... E d’estate una volta l’ho vista scalza... Mica era ubriaca, era sobriamente scalza... In centro... Va in giro a farsi notare... A pensarci anch’io ho tutta roba importata, dalle democrazie popolari. Ma fa proprio effetto... E dove la prendono quelle lì la roba? Se la spassano con gli stranieri? Che vergogna!... Però fanno figura...».
Le porte del tram si aprono a fatica. Un breve, tormentoso assalto. Le sbarra il passo una larga schiena militare, la guancia sulla stoffa pelosa e soffocante. Si afferra alla sbarra del tram e la sua vita si riflette sul tubo metallico...
- Metta un copeco in meno...15
Lida cerca l’equilibrio piegata sopra la cassa dei biglietti.
- E vada avanti, sta lì come una marziana...
L’importante è evitare l’irritazione, prenderla con humour.
All’ora di punta è una cosa normale. L’importante è trovare una fonte di emozioni positive: qualcuno ha ceduto il posto a una vecchietta, uno studente sfoglia i suoi appunti, persino il militare ha un viso decoroso...
Poi di nuovo la strada, le macchine, la gente, la piacevole, inquietante indifferenza delle persone e delle macchine. Poi l’atrio, la larga scalinata di marmo, le passatoie consunte sulla piega di ogni gradino... La scritta sulla porta: «Sezione propaganda».
Lida bussò ed entrò. Tutti erano felicissimi di vederla. Kulešov pronunciò l’ennesima volgarata. Veročka Kotova sorrise senza alzare lo sguardo. Zenja Tjurin l’aiutò a togliersi il giubbotto. Moralevič chiese:
- Hai sentito di giovedì? persino Jura è contento di te.
- Davvero?!
Era lì che fumava anche Valentin Čmutov, un fallito cronico. Čmutov era attore. La natura gli aveva fatto un dono, una bella voce bassa dal timbro straordinario. Faceva lo speaker. Sei mesi prima gli era successa una storia tragica. Čmutov doveva aprire al mattino presto una trasmissione che andava in onda in diretta. Doveva pronunciare solo qualche parola: «Cari ascoltatori! Va in onda il programma settimanale “Salve, compagno!’’». E basta. Poi c’era la musica e la registrazione. E Čmutov si sarebbe preso i suoi undici rubli.
Čmutov era entrato in cabina. Si era seduto. Aveva avvicinato il microfono. Aveva ripetuto mentalmente il testo. Si era rimboccato i polsini in modo che i gemelli non sbattessero sul tavolo. Aveva atteso che si accendesse la lampadina «In onda». La sera precedente aveva bevuto ed era afflitto dalla malinconia. La lampadina non si accendeva.
- Cari ascoltatori! - aveva pronunciato Čmutov pensoso.
A fatica si snodava la lingua arsa dal liquore. La lampadina non si accendeva.
- Cari ascoltatori! - aveva ripetuto nuovamente Čmutov -che schifo... Cari ascoltatori... Accidenti, ieri ho proprio esagerato...
La lampadina non si accendeva. Come risultò in seguito, era fulminata... Capita una volta ogni cento anni...
- Va in onda il programma settimanale - aveva continuato a provare Čmutov - oh, cazzo, basta, giuro che smetterò di bere...
Dietro il vetro si era profilato il muso contratto del direttore. Čmutov si era sentito venir meno. Si era spalancata la porta. Lo speaker, nonostante la resistenza offerta, era stato cacciato sulle scale. I suoi giuramenti del dopo-sbornia avevano fatto il giro del mondo. L’attore era stato licenziato... Ma la storia non finisce qui.
Čmutov era partito per Pskov. Era stato assunto come speaker alla radio. Le trasmissioni radio locali si tenevano per circa un’ora e mezza al giorno. Il resto del tempo la frequenza era occupata da Mosca e Leningrado. Čmutov se la godeva. Era considerato un maestro della capitale.
Una volta, stava conducendo una trasmissione. Inaspettatamente la porta aveva cigolato. Era entrato un grosso cane marrone (di chi era? da dove veniva?). Čmutov, cauto, lo aveva accarezzato. Il cane aveva serrato le orecchie e chiuso le palpebre. Il naso, come un minuscolo guantone da boxe, gli luccicava.
- I lavoratori del villaggio riferiscono - aveva detto Čmutov.
A quel punto il cane d’un tratto s’era messo ad abbaiare. Forse per la felicità. Evidentemente non era troppo abituato alle coccole.
- I lavoratori del villaggio riferiscono... Bau! Bau! Bau!
Čmutov era stato licenziato di nuovo. Questa volta per sempre e da ogni luogo. Quando aveva raccontato del cane, non gli avevano creduto. Avevano stabilito che era stato lui ad abbaiare nei fumi della sbronza.
Čmutov era partito per Leningrado. Se ne stava alla radio per giornate intere. Aspettava il suo momento...
I falliti li evitano tutti, Lida gli sorrise.
Alla sezione propaganda l’Agapova lavorava da tempo. Tutti le volevano bene. Anche questa volta la responsabile, Nina Ignat’evna, le fece un cenno affettuoso:
- Lidočka, venga da me.
Nell’ufficio c’era silenzio, un tavolo lucido, innumerevoli penne a sfera. Negli scaffali, dietro i vetri, facevano bella mostra dei souvenir e i tomi di un’enciclopedia. Nel cassetto di Nina Ignat’evna, un rossetto, uno specchietto e del rimmel. In generale era piacevole, una giovane donna interessante in un ufficio così serioso.
- Lidočka, voglio proporle una nuova rubrica. «Un incontro con una persona interessante». E non è detto che debba necessariamente essere uno scienziato o un astronauta. La gamma qui è di ampiezza totale. Un hobby di rispetto, un passatempo originale, qualche pittorico tratto biografico. Supponiamo, un oscuro capufficio della nomenclatura segretamente... che ne so... qualsiasi cosa... ora non mi viene in mente... Supponiamo che segretamente lui...
- Sia un pedofilo - suggerì Lida.
- Io intendevo un’altra cosa. Supponiamo che segretamente lui...
- Studi il sanscrito...
- Qualcosa del genere. Solo un po’ più rilevante sul piano sociale. Supponiamo, un poliziotto che aiuta qualcuno a rintracciare un congiunto...
- C’è un film sull’argomento.
- Ora non posso proporle qualcosa di concreto. Bisogna pensarci. Ecco, per esempio. Alla fabbrica «Kalev» si sono svolte le riprese di «Una donna sola». Ricorda, con l’attrice Doronina. Dunque, un ragazzino che partecipava alle riprese, in seguito è diventato capo-reparto.
- Mi piace questo argomento - disse Lida - lo sento mio.
- Questo argomento è già stato sfruttato da Arvid Kijsk. Dicevo in linea di massima. Bisogna pensare a qualcosa di nuovo. Supponiamo, un vecchio generale si sottopone ad un’operazione e nel chirurgo riconosce il suo ex attendente...
- Il cognome?
- Di chi?
- Il cognome del generale! O dell’attendente!
- Era un’idea... La cosa fondamentale qui è l’effetto sorpresa, il mistero, il caso... Una vita poliedrica... Esteriormente una cosa, intimamente tutt’altra...
- Sono in molti in questa situazione - sospirò Lida.
- Per farla breve, al lavoro - disse Nina Ignat’evna, con un pizzico appena percettibile di irritazione.
Lidočka era uscita dall’ufficio.
Fin dall’infanzia era circondata da persone interessanti. Il padre conosceva Erenburg.16 Il suo insegnante di disegno delle medie aveva fama di essere un genio incompreso. Poi era stata corteggiata da un bandito che tra l’altro scriveva poesie. All’università i suoi professori stupivano per le loro stramberie: uno aveva sempre la cerniera dei calzoni aperta. Un tipo interessante era suo marito, un economista in carriera che faceva errori di ortografia. La figlia sembrava enigmatica, stava sempre zitta. Negli ultimi tempi a tal punto, che Lida si era convinta che fosse rimasta incinta... Avevano chiamato l’elettricista condominiale ed era venuto fuori che era dentro, poco meno che per omicidio. In poche parole, a ben guardare, tutte le persone sono interessanti...
Lidočka aveva studiato da medico-igienista. Si era messa a passare in rassegna tutti gli ex compagni di corso. Pavinskij, Rožin, Jankelevič, Feofanov... Miščenko, se ben ricordava, faceva dello sport. Levin si era dato alla ricerca... Levin, Bor’ka Levin, professore, uomo d’intelletto, quasi accademico. Si diceva fosse stato in Francia...
L’Agapova tirò fuori un blocchetto e scrisse su una pagina bianca: Levin.
Aveva passato poi in rassegna gli amici del marito. Anche loro, naturalmente, erano delle persone interessanti. Economisti. Kalinin, ad esempio, sosteneva che la disoccupazione era lo stimolo del progresso. Altrimenti tutti sanno che non verranno mai licenziati. E che, se anche fosse, poco male, uno attraversa la strada e lo assumono nello stabilimento accanto. Cioè si può essere assenteisti, profittatori... Kalinin difficilmente sarebbe andato bene. Troppo progressista... Merkin, poi, lasciamo stare. Se gli chiedono: cosa potrebbe far crescere di colpo la nostra economia? Risponde: la guerra. La guerra e la guerra soltanto. La guerra è disciplina, crescita di consapevolezza. La guerra annulla ogni mancanza... Penso proprio che neanche Merkin vada bene... Ah, ma qualche giorno fa è venuto un letterato con un’amica giornalista... O forse era un traduttore. Dice che aveva lavorato nell’esercito, nella scorta ai convogli... Ha raccontato delle storie mostruose... Non ha un cognome russo, Alichanov.17 Senza dubbio è una persona interessante...
Accanto a Levin nel blocchetto era comparso Alkhanov.
A trovarne un terzo! A quel punto a Lida era venuto in mente che dai vicini era stato ospite un parente di Porchov. Forse un amico. Milka Osinskaja ne parlava in cortile. Nel suo destino c’era qualcosa di misterioso. O era stato vittima delle purghe, o forse il contrario... Un dirigente di provincia, curioso. Una storia che in qualche modo si può rendere originale. «La provincia non è un concetto geografico, ma spirituale...».
Così accanto a Levin e Alkhanov era comparso un punto interrogativo. E tra parentesi il parente di Milka O.
Di riserva si poteva poi mettere un erudito dell’amministrazione condominiale. Un cultore di Simenon. Ma Lida aveva avuto qualche screzio con lui per via dei bidoni della spazzatura sempre strapieni... Bene... Bisognava mettersi al lavoro!
- Arrivederci, Veročka, ragazzi!
- Agapova, fatti vedere!...
Telefonò a Borja Levin in clinica. Lui ascoltò, si rallegrò, si accordarono sull’ora.
Telefonò anche all’ex-uomo della scorta, era in casa.
- Venga - gli disse - e, se possibile, compri tre bottiglie di birra. Le restituirò subito i soldi.
Lida era passata da un alimentari in via Kar’ja, aveva comprato la birra. Case dei quartieri nuovi di periferia: da un portone all’altro c’è un chilometro...
Alkhanov l’accolse sulla porta. Era un enorme giovanotto con la fronte bassa ed un mento insignificante. Negli occhi aveva uno strano bagliore falsamente napoletano. Aveva iniziato una sorta di sgrammaticata e assurda orazione che non era riuscito a finire:
- A cosa devo l’onore, Lidočka, quello del vento in poppa che... che... La birra l’ha trovata? Brava. Si accomodi. Qui c’è un disordine mostruoso.
La stanza suscitava orrore. Il divano era coperto di carte e di cenere. Il tavolo scompariva sotto una montagna di libri. Il telaio nero d’una macchina da scrivere d’anteguerra. Una specie di jatagan18 arrugginito alla parete. Piatti sporchi e residui scarlatti nelle coppe. Torbide lamine di aringa su un brandello di giornale...
- Venga di qua. Qui più o meno è pulito.
L’uomo della scorta aveva stappato la birra.
- Già, è pittoresco a casa sua - disse Lida. - Sa che io sono medico igienista.
- Per atteggiamento antisanitario sono stato processato dal collettivo di lavoro.
- E come è andata a finire?
- In nessun modo. Ho fatto finta di essere uno spirito irrequieto. Sono un poeta, ho detto, uno yogi, un buddista, vivo nella merda... Vuole della birra?
- Non bevo.
- Ecco i soldi. Un rublo e undici.
- Ma si figuri - disse Lida.
- No, scusi - si risentì Alichanov alzando la voce.
Lida infilò in tasca il mucchietto di monete. L’uomo della scorta svuotò agilmente una bottiglia di birra.
- Ora va meglio - egli proferì con sincerità. Quindi tentò di nuovo, questa volta come un turbine, di superare una frase imponente: - A cosa devo l’onore, si può dire, di questo inatteso piacere, il cui...
- Lei è un letterato? - chiese la Agapova.
- Ad essere precisi, un linguista. Studio il problema della fonetica della «se» russa...19
- Esiste un problema del genere?
- È una delle questioni più scottanti... Allora, che è successo? A cosa devo l’inatteso piacere della sua visita?...
L’uomo della scorta svuotò una seconda bottiglia.
- Stiamo preparando una trasmissione radio, «Un incontro con una persona interessante». È necessario un eroe con una biografia interessante. Lei è un letterato, o meglio un linguista. Ha lavorato come guardia, è un uomo dalla vita poliedrica... La sua vita è poliedrica?
- Negli ultimi tempi, sì - rispose con onestà l’uomo della scorta.
- Mi racconti più dettagliatamente delle sue ricerche glottologiche. Possibilmente in modo accessibile.
- La miglior cosa è che le dia un mio articolo. Adesso non
ricordo bene... dev’essere qui da qualche parte. Adesso lo trovo...
Alichanov si gettò sulle stratificazioni di fogli.
- La prossima volta - lo tranquillizzò Lida. - Ovviamente ci incontreremo ancora. Quella di oggi è solo una conversazione preliminare. Volevo chiederle, lei ha lavorato in una scorta, è una cosa pericolosa, rischiosa?
Alichanov svogliatamente si mise a pensare.
- Il rischio chiaramente c’era. Bevevamo molta vodka. Non disdegnavamo il dopobarba. Il cuore ne risente...
- Intendevo dire per i convogli di prigionieri. Si sa sono gente terribile, niente di sacro...
- Sono uomini come gli altri - disse Alichanov, stappando la terza bottiglia.
- Io ho letto molto. È un mondo tutto particolare... Ha le sue leggi... È necessario avere coraggio... Lei è un uomo coraggioso?
Alla fine Alichanov si confuse.
- Ljuba - disse.
- Lida.
- Lida! - quasi urlò Alichanov. - Adesso tiro fuori sei rubli. Ho dei vicini misericordiosi. Prendiamo mezzo litro e del bianco. Altrimenti non riesco a pensare.
- Io non bevo. Lei è un uomo coraggioso?
- Non lo so. Un tempo potevo bere due litri. Ora settecento grammi mi fanno già ubriacare... L’età...
- Lei non comprende. Io ho bisogno di una persona originale, di una personalità interessante. Lei è un letterato, un individuo di fine intelletto e in passato ha lavorato in una scorta; ogni giorno correva dei rischi. La finezza interiore molto spesso si accompagna a rozzezza comportamentale...
- Quando mai l’ho offesa?
- Non me. Lei faceva la guardia ai detenuti...
- Noi facevamo soprattutto la guardia a noi stessi.
- Come si è fatto questa cicatrice? Senza modestia, la prego...
- Non è una cicatrice - esclamò Alichanov - era un foruncolo e l’ho grattato... Mi perdoni...
- Comunque vorrei sapere cosa provava lei all’estremo nord... Per esprimersi con una metafora, cosa nascondeva la tundra?
- Cosa?
- Cosa nascondeva la tundra?
- Lida! - urlò selvaggiamente Alichanov. - Non ne posso più. Io non vado bene per la trasmissione! Ieri mi sono ubriacato! Sono pieno di debiti, devo pagare gli alimenti! Sono stato citato dalla «Nemeckaja volna»!20 A modo mio sono un dissidente! La licenzieranno... Mi lasci stare...
Lida avvitò il cappuccio della penna.
- Peccato - disse - il materiale è interessante. Stia bene. La chiamerò. Lei intanto cerchi il suo articolo...
L’uomo della scorta se ne stava lì in piedi, sfinito e pallido.
- Un minuto - egli disse - vengo anch’io. Ho dei vicini misericordiosi...
Sul pianerottolo si separarono. Lida scese giù, Alichanov salì di corsa al quarto piano...
Levin l’abbracciò e la guardò a lungo.
- Già - disse - gli anni passano, gli anni passano...
- Sono invecchiata?
- Cosa vuoi che ti dica... Sei in forma... definitiva.
- E tu hai messo su pancia. Vergogna. Galina è in casa?
- È a scuola, a una riunione. Nostro figlio, sta venendo su delinquente... Sto ingrassando, dicevi? Mia moglie mi consiglia: «Devi correre tutte le mattine». E io le rispondo: «Se mi metto a correre, non torno più...». Vuoi un caffè? Accomodati...
- Dopo di lei, dottore - Lida si ricordò la battuta finale di qualche vecchia barzelletta.
Passarono in salotto. Una lampada con il paralume bruciacchiato. Delle riviste straniere sul davanzale...
- È bello qui - disse Lida - negli appartamenti nuovi è un incubo. Tutto lucido, tutto di cristallo...
- Cristallo ne ho anch’io - disse Levin compiaciuto.
- E dove?
- Al monte dei pegni.
- Ti occupi ancora dei cancerogeni?
- Proprio così.
- Racconta.
- Un attimo. Metto su l’acqua per il caffè.
- Aspetto qui...
Lida tirò fuori il taccuino, la penna e un pacchetto di «BT».21
Levin tornò e i due accesero una sigaretta.
- Sei stato in Francia?
- Due settimane.
- E com’è?
- Normale.
- Più precisamente?
- Un popolo laborioso, una borghesia reazionaria, la crisi economica, l’impoverimento delle masse...
- Raccontami le cose sul serio. Come ci vedono i francesi?
- Sa il diavolo. Sono sempre tutti di buon umore.
- Com’è il tenore di vita? E le francesine ti sono piaciute?
- Il tenore di vita è normale. Mangiavo bene. Il meglio che passava il convento: vino, pollo, caffè con panna... Le ragazze sono straordinarie. O meglio: o sono dei mostri, o sono delle bellezze. Penso sia una questione di cosmetici. Il trucco accentua le qualità e acuisce i difetti... Si comportano liberamente, con disinvoltura. Hanno dei camici bianchi sintetici, delle scollature...
- Come sarebbe, dei camici bianchi? Lavoravi in ospedale?
- Non lavoravo. A Nizza ho preso la dissenteria. Sono andato in giro per un giorno e mi hanno messo a letto.
- Quindi, la Francia praticamente non l’hai vista?
- E perché? Possedevamo un televisore a colori.
- Che sfortuna.
- In compenso mi sono riposato.
- Hai portato qualcosa di interessante? Souvenir, vestiario?
- Senti - si ravvivò Levin - ho portato un oggetto unico. Solo non fare la bacchettona, in fondo sei un medico, no. Adesso lo prendo. Lo nascondo per Vovka.
- Cosa intendi?
- Lidka, ho portato un membro. Un membro di caucciù, un’opera di alto artigianato, giuro. Ma dov’è andato a cacciarsi? Si vede che Galja l’ha nascosto da qualche altra parte...
- E che te ne fai?
- Come, che me ne faccio! È un’opera d’arte, giuro. Anche a Galja piace un sacco.
- Com’è che non te l’hanno sequestrato alla dogana?
- Mica lo tenevo in mano, l’ho nascosto.
- E dove, mica è uno spillo...
- Ho chiesto il favore a una signora del nostro laboratorio.
Le donne vengono controllate meno scrupolosamente. E hanno più possibilità. Sono fisiologicamente più inaccessibili...
- Sei come un bambino. Sarà meglio che parliamo di lavoro.
- Aspetta che porto il caffè.
Sul tavolo apparvero caramelle, wafer e del limone.
- Vuoi del latte condensato?
- No, racconta.
- Cosa devo raccontare? Mi occupo di modelli di reazioni chimiche. Ho studiato l’azione cancerogena della polvere d’amianto...
- Dimmi una cosa, il cancro è curabile?
- Il cancro della pelle sì.
- E il cancro dello stomaco, ad esempio?
- Lidočka, in questa faccenda è il caos completo. Un milligrammo di cancerogeno ammazza un cavallo. Un qualsiasi adulto normale, su un polpastrello, di questi cancerogeni ce n’ha da avvelenare una mandria. Io invece fumo e sono vivo lo stesso... Anche il fumo a sua volta... Non stare a scrivere. Il cancro è un argomento scabroso. Ti censureranno la trasmissione.
- Non penso.
- Come? Credi che non abbia avuto a che fare con i giornalisti?! Chiedilo a un medico generico. Per loro è il massimo. Ogni mese firmano il programma socialista...22 Chiama il tuo ufficio, discutine.
L’Agapova telefonò a Nina Ignat’evna. Quella si spaventò.
- Lidočka, il cancro è troppo triste. Suscita emozioni negative. È come un romanzo che tutti sanno come va a finire. Noi abbiamo bisogno di qualcosa di rasserenante...
- Il cancro è il problema numero uno.
- Lidočka, non si impunti. Ci sono disposizioni ufficiose.
- Che dire - aveva sospirato Lida - mi scusi...
- Dov’è che vai? - si era stupito Levin - rimani ancora un po’.
- Ecco, io ero venuta per una questione di lavoro.
- Non ci vediamo da sette anni. Tra poco torna Galja, ci beviamo qualcosa.
- Perdonami, ma non vorrei vederla.
Levin taceva.
- Sei felice Borja?
Levin si tolse gli occhiali. Così sembrava un alunno ripetente.
- Ma che felicità! Vivo, lavoro. Galja, sono d’accordo, è una persona difficile. C’è qualcosa in lei di inanimato. Volodja è un cafone, un erudito e istruito cafone. In fin dei conti io sono un accademico, un professore. E quello ieri mi fa: «tu sei un frustrato...».
- Ma se sei uno scienziato, al servizio della gente. Puoi andarne fiero...
- Lascia perdere, Lida. Io sono al servizio di Galja e di quello stronzo.
- Semplicemente non sei in forma.
Lida era già sul pianerottolo.
- Dì, te lo ricordi quando siamo andati a Novgorod? - aveva chiesto Levin.
- Borja, non dire una parola di più. È stato meglio così. Bene, io vado.
E Lida aveva sceso le scale aprendo l’ombrello: uno scatto e sulla sua testa si era stesa una cupola variopinta, lievemente vibrante.
- E come avevamo rubato i meloni?! - gridò lui dalla tromba delle scale...
A quell’ora ormai si era fatto buio. Nelle pozzanghere nuotavano come acquerelli le luci al neon. I volti pallidi dei passanti parevano manichini. Da dietro una curva, traballante, era sbucato un tram pieno di luce. Lida si era lasciata scivolare su un sedile di legno. Aveva chiuso l’ombrello e sul vetro nero dinnanzi a lei si era riflesso il suo viso stanco. Aveva allungato a qualcuno i soldi e qualcuno le aveva rifilato un biglietto. Aveva dormito per tutto il tragitto e si era svegliata col mal di testa. Verso casa aveva camminato lentamente, senza scansare le pozzanghere. Aveva fatto bene a mettersi le galosce cecoslovacche di gomma...
Gli Osinskie stavano nel portone accanto. Arkadij faceva l’allenatore, uno che scherzava sempre. Sul petto, sotto il giubotto di camoscio, brillava un cronometro. Milka insegnava chimica da qualche parte.
Il figlio era una personalità misteriosa. Erano sei anni che evitava il servizio militare. Da sei anni simulava a turno nevrosi, ulcera gastrica e artrite cronica. Aveva surclassato il leggendario rivoluzionario Kamo.23 In tutti quegli anni in effetti era diventato nervoso, si era rovinato lo stomaco e gli era venuta l’artrite cronica. Quanto a conoscenze mediche, Igor’ ormai da tempo ne sapeva più di qualsiasi medico della mutua. Inoltre si intendeva di jazz e parlava correntemente l’inglese...
In generale era un tipo piuttosto interessante, solo che non lavorava...
Lida era salita al terzo piano. Di colpo le era venuto un desiderio incontenibile di andarsene a casa sua. Aveva scacciato il pensiero e aveva suonato il campanello. Si era udito il sordo abbaiare di Mylord.
- Entra - disse Mila Osinskaja, contenta di vederla - Igor’ è in giro. Arik è con la squadra a Macesta.24 Ti presento Vladimir Ivanovič.
Si era alzato andandole incontro un uomo corpulento sui sessant'anni. Le aveva stretto la mano ripetendo il proprio nome. Aveva versato con deferenza il cognac. Mila aveva acceso la televisione.
- Vuoi del boršč?
- No. Per quanto sembri stano, voglio bere.
- Ad ogni cosa bella - brindò amichevolmente Vladimir Ivanovič.
Era un uomo in piena salute, con le spalle larghe, con un bel golf sottile. Il viso di uno che beve con moderazione, ma regolarmente. Uno così nel cinema fa la parte del colonnello a riposo. Una fronte solida, ordinari occhi chiari, capsule d’oro.
Avevano brindato e bevuto.
- Bene, parlate pure - aveva detto la padrona di casa - io faccio un salto dai Vorob’ëv per una decina di minuti. Rita mi sta facendo un golfino...
Ed era uscita.
- Io veramente sarei qui per lavoro - aveva detto Lida.
- Per servirla.
- Stiamo preparando una trasmissione radio «Un incontro con una persona interessante». Ljudmila Sergeevna mi ha raccontato qualcosa di lei... Così ho pensato... Mi sembra che lei sia una persona interessante...
- Io sono la persona più ordinaria che ci sia - disse Vladimir Ivanovič - anche se, non lo nascondo, il lavoro mi piace e il collettivo mi stima...
- Dove lavora? - Lida tirò fuori il blocco.
- A Porchov25 c’è una filiale dell’«Alba rossa». Facciamo impianti telematici. È una grossa fabbrica, tra le più importanti. Secondo il bilancio del secondo trimestre abbiamo ottenuto un vero successo.
- Non si annoia?
- Come sarebbe?
- Non si annoia in provincia?
- La nostra città cresce, è in via di urbanizzazione. Abbiamo un nuova «Casa della Cultura», uno stadio, conglomerati residenziali... Ha preso nota?
Vladimir Ivanovič inclinò la bottiglia. Lida scosse la testa in segno di diniego. Lui bevve. Agguantò uno sgusciante fungo marinato.
Lida attese e poi riprese:
- Io penso che uno possa essere un provinciale in una capitale o un uomo di mondo nella tundra.
- Verissimo.
- Cioè, la provincia è un concetto interiore, non geografico.
- Proprio così. Tanto più che da noi ci sono buoni rifornimenti: carne, pesce, verdure...
- Da voi capitano artisti della capitale?
- Ma certo, persino Magomaev.
Vladimir Ivanovič si versò nuovamente da bere.
- Probabilmente lei leggerà molto... - aveva chiesto Lida.
- Come potrei non leggere. Mi piace Simonov, Anan’ev,26 le memorie di guerra e, ovviamente, i classici: Puškin, Lermontov, Tolstoj... Si sa che questi tre erano... Da giovane scrivevo poesie...
- Interessante.
- Oh, se mi ricordassi. Ecco, ad esempio...
Vladimir Ivanovič ricadde sullo schienale della poltrona:
Noi tutti eroi vogliam diventare
Solidali e compatti avanziamo
Il nome di Stalin ovunque a portare
Nella lotta felicità conquistiamo...
Lida aveva mascherato la delusione.
- È difficile essere dirigente di fabbrica?
- Francamente non è facile. C’è il fattore produttivo, c’è quello morale... il programma, la fluttuazione, l’ambiente, i parassiti... E soprattutto, poi, il popolo è diventato esigente. Conosce i suoi diritti. Dammi questo, dammi quello... Doveri -nessuno, diritti - tutti... Eh, il buon Stalin non c’è più... Ordine, c’era ordine... Arrivavi con un minuto di ritardo, sotto processo! Ora invece... Il popolo si è lasciato andare, ci marcia... Siamo circondati da satirici, capisci... Eh, non c’è più il nostro buon...
- Quindi lei è favorevole al culto della personalità? - chiese a bassa voce l’Agapova.
- Culto su culto giù... Il culto esiste ed esisterà sempre... La personalità è necessaria, capisce, la personalità!
Vladimir Ivanovič si infervorò, inebriato. Ormai gesticolava, si dimenava e agitava in aria la forchetta.
- La mia vita non è stata facile. Ne ho viste di tutti i colori. Sono caduto in basso, poi sono arrivato in alto... In effetti, detto tra noi, sono stato sposato...
- Perché, detto tra noi? - si stupì Lida.
- Era una nipote di Jakir27 - sussurrò Vladimir Ivanovič.
- Di quel Jakir?
- Beh, abbiamo avuto un figlio, un maschio...
- E dov’è ora?
- Non lo so. L’ho perso di vista. Nel trentanove...
Vladimir Ivanovič ora taceva, chiuso in se stesso.
Lida attese a lungo, poi inquieta, arrossendo, chiese:
- Cioè, come sarebbe che lo ha perso di vista? Come si può perdere di vista la propria moglie? Come si può perdere di vista un figlio?
- Erano tempi duri, Lidočka, tempi duri e pericolosi. Si smembravano famiglie, secolari capisaldi cadevano a pezzi...
- Cosa c’entrano qui i capisaldi secolari?! - Lida alzò improvvisamente la voce. - Non sono una bambina. So tutto. Jarik è stato arrestato e lei vigliaccamente ha mollato sua moglie e suo figlio. Lei... Lei... Lei non è una persona interessante!
- Io la pregherei - disse Vladimir Ivanovič - la pregherei... Non si aggredisce con parole del genere...
E subito in tono più conciliante:
- Sia meno arrogante, Lidočka, un po’ di umiltà...
Mylord sollevò la testa.
Lida ormai non ascoltava più. Era scattata in piedi, aveva afferrato al volo il giubbotto e aveva sbattuto la porta.
Sulla scala c’era silenzio, faceva freddo. Era passata di corsa l’ombra di un gatto invisibile. L’odor di pesce fritto suscitava angoscia.
Lida scese giù e attraversò il cortile. Il crepuscolo umido si andava a nascondere dietro i garage e accanto ai cassonetti della spazzatura. Le frasche del misero giardinetto incupivano e crepitavano. Sulla neve era riverso un cavallo di legno.
Lida diede un’occhiata alla cassetta delle lettere e tirò fuori l’«Ekonomičeskaja gazeta». Salì le scale e aprì la porta. Nella stanza di suo marito era acceso il televisore. Sull’attaccapanni rosseggiava il cappotto leggero di Tanja. Lida si tolse il giubbotto, gettò i guanti sulla mensola dello specchio.
Un giovanotto, con un impercettibile cenno di saluto, sgattaiolò in gabinetto. I suoi capelli piuttosto sporchi erano raccolti da un laccio da scarpe marrone. I calzoni felpati gli cadevano come uno strascico.
- Tat’jana, chi è quello? - avevo chiesto Lida.
- Diciamo Zenia. Stiamo studiando.
- Che cosa?
- Diciamo tedesco. Qualcosa in contrario?
- Controlla che si lavi le mani - aveva detto Lida.
- Come sei brava a banalizzare ogni cosa! - aveva mormorato la figlia con odio...
Lida mi telefonò all’una di notte. La sua voce era agitata e smorzata.
- Ti ho mica svegliato?
- No - dissi - molto peggio...
- Non sei solo?
- Sono solo. Con Marina...
- Riesci a parlare seriamente?
- Certo.
- Non hai mica sottomano una persona interessante?
- Ce l’ho qui per servirti.
- Smettila, è una faccenda molto seria. Giovedì devo consegnare una trasmissione.
- Un incontro con una persona interessante. Non avresti un candidato sostenibile?
- Lida - la implorai - conosci bene i miei amici. Sono tutti dei vermi! Telefona a Klenskij, ha un suocero che è invalido...
- Ho una proposta. Scriviamola insieme la trasmissione, ti guadagnerai una quindicina di rubli.
- Io non uso il registratore.
- Questo è compito mio. A me serve il tuo...
- Cinismo? - suggerii.
- Il tuo bagaglio di esperienza professionale - si espresse abilmente Lida.
- Va bene - dissi per liberarmi - domattina ti chiamo. Anzi, oggi...
- Solo chiamami, mi raccomando.
- Se te lo dico...
A quel punto Marina non resistette e mi morsicò un dito.
- A domani - dissi (o meglio urlai) e posai il ricevitore.
Lida schiuse la porta della camera del marito pervasa di luce azzurrognola. Vadim era sdraiato sul divano con le scarpe.
- Potrò cenare finalmente? - chiese.
La figlia si affacciò alla porta:
- Noi ce ne andiamo.
Sul viso imbronciato di Tanja era cristallizzata la maschera dell’eterno bastian contrario.
- Cerca di tornare presto...
- Posso avere il tè finalmente? - chiese Vadim.
- Tra parentesi, anch’io lavoro - rispose Lida.
E poi, evitando di alimentare una lite:
- Cosa pensi, Merkin è una persona interessante?
Compromesso settimo
(«Sovetskaja Estonija», aprile 1976)
UN VESTITO PER UN MARZIANO. Un uomo, una professione
Cosa ci aspettiamo da un buon sarto? Un vestito fatto da lui dev’essere alla moda. E cosa pensereste voi di un sarto il cui prodotto fosse ormai fuori moda... da duecento anni? Quest'uomo invece è assai stimato e merita i migliori elogi. Stiamo parlando del sarto-stilista del Teatro di Prosa Russo della Repubblica Sovietica Estone, Vol’demar Sil’d. Tra i suoi clienti abituali vi sono i grandi di Spagna ed i moschettieri, gli zar russi e i samurai giapponesi, e inoltre volpi, galli e persino marziani.
Un costume teatrale nasce dallo sforzo congiunto dello scenografo e del sarto. Deve corrispondere al carattere dell’epoca, esprimendo al contempo lo spirito dello spettacolo e le peculiarità del personaggio. Immaginatevi Onegin coi pantaloni deformati o Sobakevič con un elegante frac...28 Per creare il costume dello schiavo di Esopo, Vol’demar Sil’d fu costretto a studiare la pittura antica e la tragedia greca.
La finanziera, il caftano, la bekeša, il mentik,l’archaluk29 sono tutti caratteristici capi di vestiario con le loro specifiche peculiarità e accessorietà.
- Un giovane attore - racconta Sit’d - mi chiese: «Forse che il frac e lo smoking non sono la stessa cosa?». Per me c’è tanta differenza quanta tra un televisore e un registratore.
Frequentando gli spettacoli degli altri teatri, Vol’demar Chendrikovič con severità professionale esamina come sono vestiti i personaggi.
- E solo agli spettacoli del mio teatro preferito, il Vachtangov - dice V. Sil’d - mi dimentico di essere uno stilista e seguo lo svolgimento della commedia, sintomo che in quel teatro i costumisti lavorano in modo irreprensibile.
In modo irreprensibile lavora anche Vladimir Sil’d, sarto, artista e uomo di teatro.
In redazione il materiale venne apprezzato.
- Dovlatov sa scrivere con vivacità qualsiasi sciocchezza.
- Anche il titolo è efficace...
- E le parole poi, dove va a trovarle... accessorietà...
Il giorno dopo il direttore Turonok mi convoca.
- Si accomodi.
Mi accomodai.
- Il discorso è spiacevole.
«Come tutti i tuoi discorsi, idiota» pensai.
- Che razza di rubrica è la vostra?
- «Un uomo, una professione». Ci interessano persone con professioni poco note. E anche gli aspetti originali...
- Lo sa lei qual è la professione di questo suo Sil’d?
- Sì. Il sarto. Il costumista teatrale. L’aspetto originale...
- Questo ora. Ma prima?
- Prima, non saprei.
- Beh, allora sappia che in guerra faceva il boia. Era nell’esercito tedesco. Impiccava patrioti sovietici. Per la qual ragione ha scontato dodici anni.
- Oddio! - dissi io.
- Si rende conto di quel che ha fatto?! Lei ha esaltato un traditore della Patria! Ha compromesso irreversibilmente una rubrica interessante!
- Ma se me l’aveva raccomandato il direttore del teatro.
- Il direttore del teatro è un ex tenente delle SS. E come se non bastasse è un finocchio.
- Che significa un finocchio?
- Così si chiamavano un tempo gli omosessuali. Non le ha fatto delle avances?
- Me le ha fatte, credo. Eccome! Mi ha persino dato la mano, a me, a un giornalista. In effetti mi ero stupito...
A quel punto mi era venuta in mente una conversazione con un francese. Si parlava di omosessuali.
- Da noi li processano - mi ero pavoneggiato io.
- E per le emorroidi da voi non processano? - aveva borbottato il francese...
- Io non la voglio incolpare - disse Turonok - lei ha agito come si deve. Cioè ha ben valutato questa candidatura, tuttavia è necessaria maggiore attenzione. La scelta di un eroe è una cosa seria, terribilmente seria...
Di questo caso in redazione si parlò per due settimane. Ma poi salì alla ribalta il mio collega Buš. Aveva intervistato il capitano di un mercantile della Germania Federale. Era la vigilia dell’anniversario della Rivoluzione d’ottobre. Il capitano di Buš aveva elogiato il potere sovietico. Saltò fuori che era un fuggiasco estone. Se l’era svignata in Finlandia su una canoa nell’estate del sessantanove. Da lì era passato in Svezia. Eccetera. Buš si era inventato l’intervista dalla prima all’ultima parola. Il fatto fece scalpore e si dimenticarono di me...