giovedì 6 settembre 2018


IL CACCIATORE GRACCHUS
Franz Kafka

Due ragazzi sedevano sul muro della banchina e giocavano a dadi. Un uomo leggeva un giornale sui gradini di un monumento all'ombra dell'eroe che brandisce la sciabola. Una giovane donna alla fontana riempiva d'acqua il suo mastello. Un venditore di frutta stava vicino alla sua merce e guardava sul lago. Nella profondità di una taverna, attraverso gli spazi vuoti della porta e della finestra, si vedevano due uomini che bevevano vino. Davanti all'ingresso, l'oste sedeva ad un tavolo e si era assopito. Un battello scivolava silenziosamente, come se fosse trainato sull'acqua, nel piccolo porto. Un uomo con la casacca blu scese a terra e passò le funi negli anelli. Altri due uomini in giacca scura con bottoni d'argento trasportavano dietro al capitano del battello una barella, sulla quale, chiaramente, sotto un grande panno di seta a fiori, guarnito di frange, giaceva un uomo.
Sulla banchina nessuno s'interessò dei nuovi arrivati, neppure quando essi misero a terra la barella per aspettare il capitano del battello, che armeggiava ancora con le funi, nessuno si avvicinò, nessuno fece una domanda, nessuno li osservò attentamente.
Il capitano del battello fu trattenuto ancora un poco da una donna con i capelli sciolti, un bambino al petto, che in quel momento era apparsa sul ponte di coperta. Poi egli arrivò, indicò una casa giallognola di due piani, che si alzava dritta a sinistra vicino all'acqua, i portatori sollevarono il loro carico e lo trasportarono attraverso il portone basso ma costituito da sottili colonne. Un ragazzino aprì una finestra, potè appena vedere come il gruppo scompariva nella casa e in fretta richiuse la finestra. Anche il portone ben costruito, di legno di quercia nero, ora fu chiuso. Uno stormo di piccioni, che fino ad allora aveva volato intorno al campanile, si posò ora davanti alla casa. I piccioni si radunarono dinanzi al portone, come se nella casa si custodisse il loro cibo. Uno volò fino al primo piano e picchiò col becco sul vetro della finestra. Erano bestiole di colore chiaro, sane, vivaci. Con un grande lancio, la donna gettò loro dal battello dei chicchi di grano, essi li beccarono e volarono verso la donna.
Da una delle viuzze strette fortemente ripide che conducono al porto, giunse un uomo col cilindro fasciato a lutto. Si guardava intorno attentamente, interessandosi di tutto, la vista della sporcizia in un angolo gli fece storcere il viso. Sui gradini del monumento c'erano delle bucce, passandovi davanti le buttò giù col bastone. Poi bussò alla porta della casa, nello stesso tempo si tolse il cilindro con la mano destra inguantata di nero. Subito gli fu aperto, una cinquantina di fanciulli gli fecero ala nel lungo corridoio e si inchinarono. Il capitano del battello scese le scale, salutò il signore,guidò di sopra, al primo piano fece con lui il giro del cortile circondato da logge ben costruite, graziose e, mentre i fanciulli seguivano a rispettosa distanza, i due entrarono in una grande stanza fresca nella parte di dietro della casa, di fronte alla quale non si vedevano più case, ma solo la parete spoglia, grigionera, di una roccia. I portatori erano impegnati a sistemare e ad accendere alcune lunghe candele a capo della barella, ma non si fece luce, solo furono animate le ombre, prima quiete, che ora tremavano sulle pareti. Il panno era stato sollevato dalla barella. Vi giaceva un uomo, i capelli e la barba cresciuti disordinatamente, la pelle abbronzata, aveva all'inarca l'aspetto di un cacciatore. Giaceva immobile, apparentemente senza respiro, con gli occhi chiusi, tuttavia solo ciò che lo circondava indicava che forse era morto.
Il signore si avvicinò alla barella, poggiò una mano sulla fronte dell'uomo che giaceva, si inginocchiò e cominciò a pregare. Il capitano del battello fece cenno ai portatori di lasciare la stanza, questi uscirono, allontanarono i fanciulli che si erano radunati fuori e chiusero la porta. Ma sembrò che al signore non bastasse neppure quel silenzio, egli infatti guardò il capitano del battello, questi capì e passò nella stanza accanto da una porta laterale. Subito l'uomo sulla barella aprì gli occhi, volse lo sguardo al signore, sorridendo dolorosamente e disse: «Chi sei?» — Il signore si alzò senza grande stupore dalla sua posizione in ginocchio e rispose: «Il sindaco di Riva».
L'uomo sulla barella fece un cenno con il capo, indicò una sedia tendendo a fatica il braccio e, dopo che il sindaco ebbe accolto il suo invito, disse: «Lo sapevo già, signor sindaco, ma di primo acchito ho sempre dimenticato tutto, tutto mi si confonde ed è meglio che chieda, anche se so già tutto. Anche lei forse sa che io sono il cacciatore Gracchus».
«Certo», disse il sindaco. «Lei mi è stato annunciato questa notte. Dormivamo da tempo. Verso mezzanotte mia moglie mi ha chiamato: 'Salvatore', — è il mio nome — 'guarda il piccione alla finestra'. Era proprio un piccione, ma grosso come un gallo. Volò al mio orecchio e disse: 'Domani verrà il cacciatore Gracchus morto, accoglilo a nome della città'».
Il cacciatore assentì e si passò la punta della lingua sulle labbra: «Sì, i piccioni mi precedono in volo. Ma lei pensa, signor sindaco, che io debba rimanere a Riva?».
«Non posso ancora dirlo», rispose il sindaco. «Lei è morto?».
«Come vede, sì», disse il cacciatore. «Molti anni fa, non devono essere moltissimi anni, nella Foresta Nera — che è in Germania - precipitai da una rupe, mentre inseguivo un camoscio. Da allora sono morto».
«Però lei vive ancora», disse il sindaco.
«In un certo qual modo», disse il cacciatore, «in un certo qual modo vivo ancora. Il mio battello funebre ha sbagliato rotta, un falso movimento del timone, un attimo di disattenzione del capitano del battello, una deviazione attraverso la mia meravigliosa patria, non so che cosa è stato, so solo che sono rimasto sulla terra e che il mio battello da allora naviga in acque terrene. Così, io che volevo vivere solo sulle montagne della terra, dopo la mia morte viaggio attraverso tutte le sue regioni».
«E non ha nulla a che fare con l'aldilà?», chiese il sindaco, corrugando la fronte.
«Io sono sempre sulla grande scala che vi conduce», rispose il cacciatore. «Mi aggiro su questa larga scalinata, ora su, ora giù, ora a destra, ora a sinistra, sempre in movimento. Il cacciatore è diventato una farfalla. Non rida». «Io non rido», protestò il sindaco.
«Molto comprensivo», disse il cacciatore. «Sono sempre in movimento. Ma quando prendo il massimo slancio e già si illumina la porta lassù, mi sveglio nel mio vecchio battello, tristemente finito in chissà quali acque terrene. L'errore fondamentale della mia morte di allora sghignazza intorno alla mia cabina. Julia, la moglie del capitano del battello, bussa e mi porta alla barella la bevanda del mattino del paese lungo le cui coste stiamo navigando. Io giaccio su un tavolaccio, indosso - non è piacevole guardarmi - un sudario sudicio, i capelli e la barba, grigi e neri, inestricabilmente aggrovigliati, le gambe coperte con un grande foulard femminile di seta, a fiori, molto frangiato. A capo c'è una candela da chiesa che mi fa luce. Sulla parete che sta di fronte a me c'è un quadretto, un boscimano, evidentemente, che mi punta con un giavellotto e si nasconde il più possibile dietro uno scudo magnificamente dipinto. Sulle navi capita di vedere stupide illustrazioni, ma questa è una delle più stupide. Per il resto la mia gabbia di legno è del tutto vuota. Attraverso una finestrella della parete laterale entra l'aria calda della notte del sud e sento l'acqua che batte contro il vecchio battello.
Sono disteso qui fin da quando, cacciatore Gracchus ancora vivo, in patria inseguii un camoscio nella Foresta Nera e precipitai. Tutto avvenne per ordine. Io inseguivo, precipitai, mi dissanguai in una gola, morii e quel battello mi doveva trasportare nell'aldilà. Mi ricordo ancora come lietamente mi stesi sul tavolaccio per la prima volta. Le montagne non mi hanno mai sentito cantare come allora quelle quattro pareti ancora in penombra.
Ero vissuto volentieri e volentieri ero morto; prima di salire a bordo, felice gettai via quella robaccia, il fucile, la borsa, il coltello da caccia, che con orgoglio avevo sempre portato con me, e indossai il sudario come una fanciulla indossa l'abito nuziale. Stavo disteso e aspettavo. Poi avvenne la disgrazia».
«Un destino crudele», disse il sindaco, alzando la mano in un gesto di difesa. «E lei non ne ha nessuna colpa?».
«Nessuna», disse il cacciatore, «io ero cacciatore, è questa forse una colpa? Ero impegnato come cacciatore nella Foresta Nera, dove allora c'erano ancora lupi. Mi appostavo, sparavo, colpivo, scuoiavo, è questa una colpa? Il mio lavoro era apprezzato. Mi chiamavano 'Il grande cacciatore della Foresta Nera'. È questa una colpa?».
«Non sono chiamato a decidere», disse il sindaco, «ma anche a me non sembra che ci sia colpa alcuna. Ma chi ha la colpa?».
«Il capitano del battello», disse il cacciatore. «Nessuno leggerà ciò che qui scrivo, nessuno verrà ad aiutarmi; se venisse dato l'ordine di aiutarmi, tutte le porte rimarrebbero chiuse, chiuse tutte le finestre, tutti rimarrebbero a letto, le coperte tirate fin sopra la testa, tutta la terra un albergo di notte. Ciò si spiega bene, perché nessuno sa nulla di me, e se sapesse di me non saprebbe dove mi trovo, e se sapesse dove mi trovo, non saprebbe trattenermi colà, non saprebbe come aiutarmi. Il pensiero di volermi aiutare è una malattia e si deve curare a letto.
Lo so e non scrivo per chiedere aiuto, neppure quando in alcuni momenti - sconvolto come sono, per esempio ora - ci penso con molta forza. Ma per allontanare da me tali pensieri è sufficiente guardarmi intorno e ricordarmi dove sono e dove — posso ben affermarlo - abito da secoli».
«Straordinario», disse il sindaco, «straordinario. E ora pensa di restare con noi a Riva?»
«Io non penso», disse il cacciatore ridendo e, per rimediare all'ironia, poggiò una mano sul ginocchio del sindaco. «Io sono qui, non so altro, non posso fare altro. Il mio battello è senza timone, va con il vento che spira nelle regioni più basse della morte».