INSETTI SENZA FRONTIERE
Guido Ceronetti
SINOSSI ADELPHI
Solo il Filosofo Ignoto, in arte Guido Ceronetti, poteva fondare Insetti senza frontiere, un’«associazione senza fini di lucro» in difesa della «libertà di pungere» e per la tutela degli insetti, se necessario a scapito del sopravvalutato, e in ogni caso sovrabbondante, genere umano. In questo straordinario, singolarissimo libro, che ne costituisce il manifesto e il programma, Ceronetti riprende il suo instancabile pellegrinaggio verso i luoghi che esplora da sempre – il corpo, la morte, il crimine, ma anche le fotografie, i versi di poeti lontanissimi, i dipinti, e ancora i giornali, le città, le librerie – unendo alle aspre certezze dell’aforista («Alla luce del Tragico il mondo non è inesplicabile») i trucchi di un venditore di almanacchi, che intende girare «fiere, supermercati e suk» e proporre una nuova forma di intrattenimento, o di terapia, popolare: l’ascolto personalizzato di «ronzii d’alveare, cori delle cicale, cantare dei grilli».
INSETTI SENZA FRONTIERE
Insetti senza frontiere è un’associazione senza fini di lucro che si propone la salvaguardia e dov’è possibile la promozione di ogni specie di insetti in tutte le parti e i luoghi del mondo. Come il profumo del biancospino non è indifferente per le costellazioni, così non c’è un solo insetto la cui estinzione non sia per produrre un qualche imprevedibile avanzamento della intera specie umana (che anche a noi, sia pure a malincuore, piace di tutelare) verso la distruzione. Gli insetti hanno abitato la terra ben prima dell’uomo, di cui soltanto dopo miliardi d’anni alcune misteriose astronavi, inviate da un funesto Titano di cieli senza luce, deposero sul suolo vergine di quello che divenne in seguito l’inabissato, da molto tempo, continente atlantico, la prima coppia. Incontrando la mosca, la coppia prese a imitarla nella sua lieta facilità a riprodursi, e in meno di un secolo si formarono interi popoli di cui resta la malfamata memoria in tradizioni orali e scritture sacre. Considerando le mosche messaggeri divini, gli uomini, per offerta sacrificale a questi padroncini elettivi, inventarono la cucina, che le mosche prediligono sia appena servita fumante nei conviti che trasformata in rifiuti organici, non più amati dagli uomini fin dai tempi di Numa Pompilio re del Lazio e di Roma.
La minaccia di clonazione universale di esemplari di insetti geneticamente modificati, privati di pungiglione attivo, ci ha giustamente allarmati e indotti a predisporre adeguate misure di protezione del pungiglione naturale: abbiamo in riserve segrete diecimila miliardi di zanzare, vespe, api, calabroni di ogni tipo, che ingegnosi vettori possono scaraventare su tutti i nostri agglomerati urbani in quantità sufficiente per far capire anche ai più ottusi e ambiziosi sperimentatori che c’è una sanzione divina pronta a punire la loro Tracotanza (ὕβρις).
La libertà di pungere, è scritto nei nostri statuti, sia garantita a tutti gli insetti dotati di pungiglione difensivo-offensivo indispensabile alla loro sopravvivenza – a scapito, se necessario, di quella degli umani.
Insetti senza frontiere considera La metamorfosi del dottor Franz Kafka di Praga non un testo di abbassamento dell’uomo, ma di commovente esaltazione dell’insetto. E denuncia come ingiuriose e lesive per la dignità della condizione di insetto locuzioni correnti come «noioso peggio di un insetto», «ti schiaccerò come un insetto», «spiaccicato sull’asfalto che pareva un insetto», e simili, mentre ci domandiamo se dire di «valere meno di un insetto» o «quanto un insetto» significhi realmente valere pochissimo. In verità noi dubitiamo fortemente che gli Dei abbiano deposto nell’uomo, fin dal principio, la misura di tutte le cose.
Se tutti gli insetti sono degni di rispetto, i Ragni – tempio il loro filamento – sono sacri. È falsa la rima in lingua francese che colloca la vista di un ragno di sera tra i segni di speranza e fa di un ragno visto al mattino un presagio di giorno nefas. Noi gli opponiamo la rima seguente:
La scopa casalinga che schiaccia i ragni o ne costringe intere famiglie a chiedere asilo altrove attira sul luogo la sventura. Cancella una testimonianza esemplare dell’Arca noachide.
Collezionare insetti trafitti è un crimine.
La nostra Associazione ha proposto, al Congresso americano e ad altri parlamenti, che una volta al mese, per un giorno, preferibilmente festivo, siano visitabili da scarafaggi, cimici fetide, scarabei, formichine e formiconi tutti i frigoriferi, dai macelli di Chicago ai frigobar delle moderne celle dei Trappisti e degli alberghi a due stelle lungo il cammino di Santiago, dai motels appostati lungo le autostrade, alle case che non amano la violenza e benedice una perfetta serenità.
I santi cristiani che per qualche innocente punzecchiatura ritenevano inviati del Demonio gli insetti, erano santità false.
Insetti senza frontiere contrasta per quanto può l’eccesso di moltiplicazione delle folle umane e permette agli insetti di deporre uova fino a sessanta volte durante il loro arco fugace. Anche per loro vale il Niente di Troppo della saggezza antica.
La nostra Associazione propugna l’assegnazione annuale di un Premio Nobel per la pace dell’uomo con l’universo meraviglioso dell’Insetto. Siamo operanti presso le Nazioni Unite perché sia dichiarata inumana la concessione biblica di mangiare arrostite o in qualsiasi altro modo le cavallette e altri insetti cashèr come il soleam, il ḥargòl e il ḥagàb, così chiamati in Levitico, 11, 22.
Proporremo alle legislazioni illuminate di punire penalmente, a scopo esemplarmente rieducativo, i torturatori e mutilatori di insetti sia di minore che di maggiore età.
Non esistono insetti nocivi.
Oh carovane dei Dedanìm, se incontrate insetti assetati di una goccia di sangue dategli il vostro. (Adattamento da Isaia profeta, cap. 21).
Insetti senza frontiere non trascurerà ogni sforzo per educare le sventurate falene a non farsi attirare funestamente dalle lampadine elettriche durante i loro voli notturni al di qua dei vetri delle nostre case.
Schiacciare un insetto aggrava il debito karmico. Coccinelle, farfalle bianche e nere, lucciole notturne allontanano gli artigli invisibili delle Tenebre. I ronzii d’alveare, i cori delle cicale, il cantare dei grilli contribuiscono ad una elevata terapia musicale. Insetti senza frontiere ne diffonde registrazioni audiovisive al prezzo famigliare di un euro e cinquanta, nelle fiere, nei supermercati e nei suk.
Il Tao senza nome abita, sorride, medita in un piccolissimo guscio insieme a un insetto unico che ab aeterno pratica il Non-Agire.
Il Filosofo Ignoto
1
Costruire una pace pone una perplessità tragica: è come se un chirurgo avesse sotto i ferri, col dovere di salvargli la vita, un pericoloso assassino. Quando si sarà rimesso, riprenderà ad uccidere.
2
La guerra cura e talvolta guarisce tutte le più gravi malattie della pace: ma l’energia della cura è necessariamente eccessiva e un numero elevato di pazienti non sopravvive.
3
Definendo inutile strage la guerra di Quattordici, Benedetto XV ne fece senza volerlo l’unico possibile elogio. In tutto ciò che la rese utile e perfino necessaria la Grande Guerra toccò l’apice del disonore. Ma davanti all’immensa inutilità di tanto sacrificio una lampada è accesa – si resta muti, schiacciati.
4
Se la ricerca tecnologica puntasse a farci cambiare natura, invece di modellarla su un tipo di Mr Hyde dalla interminabile vecchiaia, varrebbe la pena di finanziarla. E potremmo trasformarci, volendolo, in scarabei, in formiche, in lucertole, in moscerini, in ragni, in libellule, in locuste, in scarafaggi, in meduse, tutti popoli della terra meno infelici di noi. Invece mirano a prolungare soltanto i nostri miseri, micidiali giorni di frangibili vertebre che cogitano!
5
Nessuno è perso, nell’infinito. Terribile è perdersi, sentire di essere persi, nel finito.
6
Il Gas è un codardo che conosce soltanto la fuga.
7
Tutto quanto c’è di non-avvenuto nella storia dell’Islam, ha un avvenire – purtroppo.
8
Ha un senso spirituale dubitare che l’Autoritratto della Biblioteca Reale di Torino sia lo stesso Leonardo. Più che essere, in una sanguigna sovrumana di mano angelica, il ritratto di un esemplare unico di uomo, quel disegno rivela il tormento sublime dell’Anima (dell’Essenza, della Vergine di Luce) nell’esilio del mondo.
9
Si va rapidamente completando la nostra, in generale, perdita di bellezza visibile. Ne sono un riflesso drammatico le inaudite, pazienti code per vedere un museo, una mostra di qualche eccelso. C’erano code, a Roma quest’anno, per un piccolo numero di incisioni di Rembrandt: il significato è di disperazione perché, nelle loro esistenze, bello è soltanto un luogo comune da applicare a vanvera: nel Bello che folgora vedono una salvezza. Così un bello teatrale autentico può suscitare una gratitudine collettiva di cani liberati da una prigionia perpetua: ma possiamo più immaginarla che sperimentarla – dappertutto il fine della scena, quasi vergognandosene, non è di creare bellezza. Il fatto di aver contribuito soltanto a tenere in piedi una venerabile istituzione fa uscire la gente del biglietto mogia e più grigia.
10
In un’infanzia moderna ogni bambino più che venire amputato delle ali angeliche si autoamputa, si castra da se stesso a poco a poco, al fine di adattarsi e di poter convivere con gli amputatissimi e castratissimi che intorno a sé vede strisciare e obbedire dappertutto; teme, non facendolo, di perdere il diritto al nutrimento. Baratta le sue ali per una pizza e una coca-cola. Orfano di volo, acquista il diritto di diventare, cresciuto, assassino autorizzato di Essere, di Mondo, di mondi...
11
Anche da una riproduzione qualsiasi, L’Angelus di Millet emana luce. Immagine miracolosa di vita sacralizzata: il raccogliersi religioso della coppia umana dopo la giornata di fatica sulla terra che dà patate. Sentiamo, guardandola, che questo ci manca, e che viviamo falsamente e ignobilmente, calpestando sempre più l’angelo dell’Angelus dentro di noi.
12
Fare a pezzi un giornale quotidiano è l’unico mezzo per liberarsi, d’un colpo, da ladri, assassini, truffatori, apostoli, catastrofi.
13
Il grande fotografo lavora con un occhio di riserva: quel che la macchina gli mostra o gli rivela gli impedirebbe, con occhi normali, di vedere. Nei maniaci di fotografare tutto in giro per il mondo e nelle famiglie non c’è nessun occhio che veda: il loro è scatto di ciechi. Erich Fromm considera il fotografare come un surrogato del vedere. Ma può essere anche questo: un modo di negare la vita, di distruggere il mondo. La Polaroid è un’arma da serial killer.
14
In Grecia la Dea delle puerpere era una vergine. Le aiutava nel partorire ma si guardava bene dal darne l’esempio. Chi avesse osato toccarle la veste o vederne il corpo nudo sarebbe morto all’istante. Tradizionalmente le levatrici restavano nubili o non avevano figli.
15
Aggrappiamoci al Fato, alla sua inesorabilità, al suo è scritto. (Purché non ci freghi anche lui, convertendosi, per spregio di chi lo nega, alla flessibilità).
16
Lo zucchero industriale, consumato in strabocchevoli quantità pro capite fin dalla prima infanzia, provocherà silenziosamente l’estinzione dei popoli arabi e nordafricani, come l’acqua bevuta dalle condutture di piombo provocò – più forte dei Barbari – l’estinzione dei Romani antichi. I traguardi della storia sono sparizioni, con un poco di yad-va-shem fluttuante nell’aria...
17
Il nocciolo di forza dell’islamismo non è nelle armi o nel petrolio o nel fanatismo religioso, ma nell’indifferenza per il vivere e il morire, nel non preoccuparsene, nel non avere l’ossessione del futuro individuale o nazionale. Di fronte a questo il cristiano d’oggi, d’Occidente, che vuole esclusivamente e implacabilmente vivere, come individuo e come civiltà, usare la sua cucina e il suo bagno fino ai cento e oltre ancora, partorire a sessanta, svecchiare le cellule, è in condizione di estrema debolezza. Nessuna moschea prega perché qualcuno viva
18
Era un meridionale piccolo e grasso. Bramava pubblicare i suoi versi, abbastanza ben confezionati, nella Capitale. Là trovò un tale che addirittura gli regalò una casa con qualche servo: un vero mecenate! Il bravo poeta si chiamava Orazio e il mecenate, Mecenate.
19
Una coscienza che riflette non può che astenersi dal propagare la specie. Chi ha vera conoscenza non può tollerare l’eccesso, lo straripare di dolore in un mondo dominato dalla dismisura umana, e frenare, limitare le nascite è innanzitutto un puro atto di compassione. I molti figli sono il frutto dell’ignoranza, dell’insensibilità morale e della bigotteria. L’incremento demografico provatevi a predicarlo nei reparti oncologici. Dare soldi perché si facciano figli è lo stesso che trafficare bambini.
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I sondaggi: buttarli via e turarsi le orecchie. Frode pura, cosciente e incosciente – mondiale. «Uno solo vale per me più di diecimila» (Eraclito). Il favore popolare come l’avversione mutano ogni momento e sono segreti, impenetrabili. Si fanno commenti e analisi, si prendono decisioni gravi, basando tutto su prove false, su calcoli ciechi. I sondaggi sono la versione aggiornata dell’oroscopo di Stato delle città antiche. Non valgono più di un consulto di fegati scoperchiati.
21
«Date a Cesare quel che è di Cesare». «Date a Dio quel che è di Dio»... Non ci resterebbe niente. Proviamo a non dare niente a nessuno dei due.
22
La Veronica nel Bosch di Gand: fa lo stesso lavoro di Antigone, salva l’Essenza mediante la Memoria impressa, porta via alle guardie, che stanno per sfigurare il volto del Santo, l’Immagine di lui nel proprio lino. La Veronica è l’Antigone cristica, la perfezione e il riapparire ciclico dell’Antigone tebana, sposa e sorella dell’uomo che verrà ucciso... Nel rappresentare l’Antigone sofoclea bisognerebbe darle il volto inuguagliabile di umanità di questa Veronica della Salita al calvario di Gand.
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Se c’è una parola che non comprendi, che ti sembra oscura, perché rimproverarlo a chi l’ha scritta o pronunciata, perché sforzarti inutilmente di capire e arrabbiarti se non penetri in quella parola? Semplicemente quel messaggio non era destinato a te, ma ad altri. Il messaggio, là dove deve arrivare, arriva.
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Non c’è potenza militare in grado di battere uno sterminato stuolo di spermatozoi all’attacco, in cui siano misteriosi germogli di destino. Di fronte al frenetico pullulare di figli delle famiglie palestinesi, Israele è una città senza mura. In cambio di un loro rigido controllo delle nascite gli Israeliani potrebbero, ai Palestinesi, concedere moltissimo: ma alla sera quest’erba sarebbe già recisa. E Malthus guarda commiserando, dalla galleria dei filantropi incompresi.
25
La società ugualitaria, livellata e livellatrice, è oggi l’unica possibile, ed è paragonabile a quella che nei cimiteri è la fossa comune. È la fossa comune dei vivi, dei semivivi che siamo.
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Nelle espressioni che implicano aprirsi (a tutte le culture, alle diversità, a tutti i poveri, a tutti quelli che chiedono di entrare, anche a tutte le sofferenze) c’è vocazione e quasi smania di prostituirsi, è buttarsi via su qualsiasi marciapiede. La cosa non manca di una sinistra profondità.
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«Soffrire è umano,» dice un verso di Seferis «ma non siamo uomini soltanto per soffrire» (è nella poesia Un vecchio sulla riva, del 1942). Si può essere folgorati dal pensiero che ci stiamo riducendo a questo, che generazione dopo generazione la sofferenza (come il non pensare che a ridurla o a scansarla, il non fare altro che lavorare per assistere, medicare, eliminare sofferenze, e nello stesso tempo per prolungarle) stia diventando l’unico, assurdo, implacabile, mortificante scopo dell’uomo. Avere per Dio unico il Soffrire comporta un rischio di ottundimento e di abbrutimento delle facoltà umane.
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Pensiero demografico. Le famiglie italiane stanno facendo troppi vecchi.
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Il sibilo dell’acqua che si avvia a bollire nella pentola in cucina somiglia a un lamento. Sta soffrendo, afferrata brutalmente dai tubi è messa sulla fiamma, con l’innocenza di una povera strega e la pazienza di un eretico dualista, tra le mani di un carnefice che il paragone farebbe ridere. Una sepoltura ignominiosa, stomaco o scarico, aspetta quell’acqua tomba di miliardi di batteri assassinati dal bollore. Tutt’attorno ristagna il lamento di centinaia di oggetti che sono altrettante ferite prodotte dalla nostra smania di dare incessantemente forma alla materia, e da quelle ferite sulle mensole o in movimento escono deboli, non percepibili segnali di sofferenza. Il Tempo stesso, incatenato a dei quadranti con cifre, fa udire un ritmico lamento di titano sparso in trilioni di pali.
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Per i nostalgici della Tenerezza la vita è (lo sarà sempre più) dura dappertutto e l’esistenza, fatalmente, solitaria. Niente nell’umano – neppure quanto gli venga incontro di più affettuoso – è in grado di riempire la loro insaziabile voragine, se non è sentimento che travalichi la misura umana.
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Contare su qualcuno, se si tratta di esseri umani vivi, è sempre un rischio di nuove ferite. Più fortunati, gli appartenenti ad associazioni criminali, a circoli segreti: in caso di bisogno l’aiuto non gli mancherà, in ogni luogo. Tutti gli altri faranno bene a dubitare di trovare in amanti, mogli, figli, fratelli, compagni, una certezza di sostegno nell’angoscia e nella necessità. Non parlo di denaro: trovi sempre chi te lo dà; è il cuore che è introvabile. Dà più ausilio un talismano, se la tasca non è bucata. C’è una dolcezza a pensarsi soli, lucida disperazione. Le carovane elargitrici d’acqua dei Dedanìm, un miraggio. Il soccorso per amore, una lotteria.
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Ma da quali indovini e oroscopi e sibille credete di esservi emancipati se, sulla terra, non c’è più oggi un pertugio di luogo dove non si ricorra ai responsi dell’oracolo elettronico, che elaborando dei dati inerti vi indica che cosa fare e non fare, che cosa farete, che cosa succederà tra un anno o dieci, quale futuro vi dovete aspettare, se vincerete o se perderete? Credete che l’Onnisciente elaboratore sia meno ambiguo della Pizia, e indenne dalle frodi, dalle bugie, dalle perfidie, dall’oscurità che contrassegnano tutto l’agire, i rapporti, il pensare, il contendere umano? In questa accecante fiducia siete più che mai superstiziosi, più che mai soggetti all’errore ed esposti al volere e al capriccio degli Dei...
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Un poco di prurito nei testicoli e tutta questa spaventosa macchina di mondo si mette in movimento.
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Mi stupisco, quando vedo gente giovane mangiare carne. Mi sembra talmente cosa d’altre epoche! La gioventù carnivora non è coi tempi, ha uno stomaco da secolo XIX, che carnivorizzò l’Europa... Cibarsi di pezzi di animali macellati è un’anomalia, fuori della dieta vegetariana non c’è giovinezza vera. La carne è per lo più un’angosciata abitudine dei vecchi. Richiedere piatti di carne, parlarne, ricordarli è cosa da vecchi, e da vecchi incapaci di svecchiarsi con una dieta decisamente alternativa. Vedere vecchi mangiare carne non mi stupisce: li peggiora, ma è diritto d’incurabili.
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Niceforo bizantino racconta della celebre filosofa neoplatonica di Alessandria, la bellissima Ipazia, che ad un uomo molto innamorato di lei si mostrò in una veste imbrattata di mestruo, disgustandolo. Per la sua riluttanza, dice, a perdere la verginità. Ma Niceforo sbaglia. Intrepida, Ipazia voleva mettere alla prova l’attaccamento di quel giovane, e con la forza del simbolo legarlo di più a sé, eccitarlo. Delusa dalla stoltezza di quella fuga, s’inabissò nella Sapienza, e quando nel 415 i sicari cristiani del vescovo Cirillo la rapirono, la spogliarono e a colpi di tegole l’uccisero, Ipazia fu sacrificata vergine, «giovinetta palma».
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Ho un ricordo dell’oratorio detto di Santa Caterina della Notte, a Siena. Là c’è una pietra liscia lunga poco più d’un metro e larga la metà, dentro un muro cavo o qualcosa di simile: Caterina, dopo aver dato le cure e i brodi che poteva ai lamentosi e ai moribondi ammucchiati nell’enorme stanzone del vicino ospedale di Santa Maria della Scala, si rannicchiava a dormire su quella pietra fino a giorno fatto, per evitare, tornando sola a Fontebranda, stupratori e assassini che potevano sorgere dal buio delle strade malsicure. Pietra notturna cateriniana... uno splendore di sole nel cielo dei tempi morti...
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Senza un’idea concreta, per nulla astratta, famigliare, dominante, della Tenebra, non c’è nessuna luce.
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Amare ancora l’amore ed essere dei cessi di vecchiezza non è né comico né atroce (si è fatta là sopra della stupidissima letteratura). Non c’è nessun male se la natura sogna mandorli fioriti a novembre, che sorprendono chi passa.
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Oggi si può forse meglio capire la funzione dell’arte, specialmente figurativa, ma anche della musica e della poesia: far ricordare dei mondi (più d’uno) terrestri o extraterrestri che furono e che perirono, che vissero e non rivivranno (o sono immaginabili viventi) ben prima di questo Anthropo d’oppressione; mondi preistorici al di là delle età geologiche classificate, visibili o non visibili, Atlantidi o Lemurie, correlati al presente umano soltanto da somiglianze e tracce. L’arte riporta a ondate delle evocabili ombre che solo apparentemente somigliano agli antenati storici cui diamo un nome. L’arte calma o dissipa il dolore perché è il regno misterioso di un passato metatemporale senza dolore, in salvo nella sua assunzione nell’Invisibile.
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È impossibile governare senza mentire. Il successore di uno che governa mentendo non può far altro che, dopo aver denunciato (mentendo) quelle menzogne, seguitare a sgranarle variandole (di pochissimo) nel tono e nella forma. Bisognerebbe essere governati da afoni. La verità è un miracolo individuale e per niente una necessità pubblica.
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Se la verità dev’essere detta fino in fondo (ma spesso è un bene che lo sia soltanto a metà o per niente) le famose «radici giudaico-cristiane» che la Chiesa lamenta monotonamente non siano state inserite nella costituzione europea sono pari pari anche le radici dei paesi arabi e di tutti i paesi islamizzati. La filologia non mente: le piante uscite da quelle radici sono di qua come di là, con la differenza che là sono taciute e non bisogna parlarne se no è blasfemia, e di qua si pretende che gli altoparlanti ufficiali, il cui valore è per il pensiero un perfetto zero, le proclamino. I divieti avviliscono, inutili le proclamazioni.
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«Guardo la mia luce che muore» dice un personaggio di Beckett. È l’unica risposta giusta e sensata che possiamo dare, in vecchiaia, agli insolenti che ci assillano con i loro petulanti, intollerabili: «che cosa stai facendo», «a cosa stai lavorando», «quali programmi hai», «che cosa farai l’anno prossimo». La luce che muore non fa confidenze e ha altro da pensare.
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Dove tutto è enigma (storia, natura, cosmo) la certezza dell’insolubilità pone un invisibile seme di speranza.
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Nei grandi uffici il ticchettio delle dattilografe era Primavera di Vivaldi e ronzio di alveare senza i pungiglioni. La dattilografa ha fatto lungamente sognare. Chi ha avuto una madre dattilografa è stato allattato bene, avvolto nella carta-carbone, la nuca toccata come una ipsilon, le chiappe vezzeggiate come un capufficio. Le dattilografe sorridevano a chi veniva a dettare L’uomo senza qualità o La montagna incantata. Nella pioggia i loro capelli erano umidi come nastri Pelikan. Silenziose nell’ufficio, affacciate ai balconi in vestaglia a fiori cantavano.
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Il tatuaggio era il segno dell’uomo in carcere, l’arte lugubre dei reclusi e dei condannati. Che sia diventato arte e fenomeno di massa senza distinzioni può indicare questo: che la carcerazione perpetua è ormai una condizione stabile, che non ci sono più differenze tra la prigione, la via di fuori, la casa. Gioventù tatuata è gioventù che si vuole ammanettata, che ha terrore essere libera.
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Il più funesto degli errori mentali è ostinarsi a non voler ritenere la vita come il male assoluto. Moltissime sventure, senza questa follia, ci sarebbero risparmiate. Ma ritenendola male assoluto, il male della vita si relativizzerebbe. Perché resti, come il Fato vuole, assoluto male, dobbiamo credere che la vita sia il più grande dei beni. Ma Chi ci copre gli occhi così?
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Il significato interiore di una lanterna portuale (Genova, da noi) è che la luce di un Maestro è là per indicarci l’abbraccio e la sicurezza di un approdo nella tenebra dell’esistenza. Cattivi o falsi maestri non fanno nessuna luce. Raramente un porto può essere trovato per caso.
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Come se non bastassero i nostri privati, personali, numerosissimi motivi di vergogna, ci vogliamo anche responsabili della storia, attori di storia, parte di qualche grandiosa infamia o imbecillità storica.
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Le parole degli ottimisti pugnalano nella schiena l’infinità del martirio degli esseri umani sulla terra.
50
Che l’Agosto sia un mese funesto è noto da tempo. La bomba sganciata su Hiroshima il 6 agosto non è un caso, e neppure le mobilitazioni della Grande Guerra il 1° agosto 1914. Un gigantesco lavoro esorcistico è stato compiuto fissando in agosto il mese delle città morte e delle vacanze di massa. Si cerca di scacciarne l’influsso maligno toccando punte elevate di stordimento e di divertimento, inseminando alla cieca le compagne, viaggiando dove Agosto non arriva o è inavvertito. Tuttavia Agosto è in agguato sulle strade e falcia vittime nelle andate e nei ritorni. Dove la campagna sopravvive, la litania serale dei grilli canta la tristezza della natura all’avvicinarsi dell’inverno. Sarebbe meglio, in agosto, evitare di nascere, ma talvolta capita ed è un’espiazione supplementare. Cesare Pavese compie il suicidio in agosto. Il primo delitto di Jack lo Squartatore è del 30 agosto. La banda di Manson si sveglia alle stragi in agosto come the time of Helter Skelter
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La terra emana talmente la menzogna e la vergogna umana che i pianeti del nostro sistema, a furia di assorbirne (come gli alberi delle città, mortalmente impregnati dai gas di scarico) ne sono come avviluppati da una cortina invisibile ai telescopi, ma di cui va tenuto conto in astrologia tradizionale: quell’eccesso di menzogna li ha intossicati, come possono, a loro volta, non mentire?
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L’importanza di non aver niente da dire: questo fa inviare una illimitata quantità di messaggi.
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Osservazione dispiacente (a me per primo), ma forse non errata. I tormenti morali e linguistici di Alessandro Manzoni sono la sua parte morta; la sua fede giansenistica, riflessa nell’Innominato, nessuno è più in grado di comprenderla (figuriamoci di accettarla). Del romanzo restano vivi i Paesaggi Urbani, i paesaggi lombardi, una peste ben dipinta come un quadro di David. L’epoca dei Tumori e dell’Aids non trova riscontri e guarda a quell’epidemia provinciale, fatta arte pura, con indifferenza. Come qualsiasi immortalità è mortale!
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In un foglio appeso all’edicola, un giornale locale comunicava: «HANNO UCCISO UNA DONNA MA IL CADAVERE NON SI TROVA. RICERCHE NELLA NOTTE». È poco, per ricostruire la storia: la telefonata alla polizia è dell’assassino, che però ha già fatto sparire il cadavere. Se avesse chiamato da un cellulare, sarebbe stato preso subito. Ma il comunicato in cubitali aveva la bellezza dell’indeterminato: «Ricerche nella notte». Con le torce elettriche, nella campagna, i cani... Oppure in appartamenti e luoghi di prostitute. La ricerca è senza esito, i poliziotti sono stanchi, prendono qualcosa a un bar che ha appena alzato la saracinesca, il ragazzo della cronaca telefona dalla Questura che il corpo dell’uccisa è introvabile. Forse, il fatto non è avvenuto.
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Ci deve pur essere una ragione se, con tanti beni a disposizione e tanto capitale di salute fisica in più, là dove l’ebetudine non ha cotto la mente e la coscienza è sveglia, ci sono infelicità e solitudini che si è sempre meno in grado di reggere, disperazioni che annientano e distruzioni cerebrali precoci, e il viaggio «al termine della notte» ha cessato di essere un limite. Ci si addentra sempre più nella notte, e la morte, invece di apparire come liberatrice, imprime su ogni istante di vita un terrore sempre uguale. Ci hanno amputati del dono strappato agli Dei da Prometeo – le cieche speranze? Ci hanno lasciato delle spiritualità da supermercato, ridicolizzando e insozzando (o rendendo inerti sotto anatomie accademiche) le più autentiche ed eretiche? È un caso che le guide più seguite siano degli spaventosi assassini? Perché tanta infelicità? Perché?
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Per emergere dalla fecalità e dalle pestilenze abbiamo in Occidente edificato le cattedrali gotiche e sciolto, là dentro, il drago angelico del gregoriano. Le acque dolci erano chiuse nei pozzi e nelle falde, cercavamo le celesti. E la morte veniva per diarrea, per bubas, per ferro. I denti tutti guasti o spariti. Come poterle decifrare oggi (rifarle, mai più) le danze pietrificate del gotico? Tutto il loro alfabeto si è inabissato nell’Igiene, nel mare delle protesi... Di che cosa parlano le guide turistiche? E i preti delle comitive... e le statue? A chi o a che cosa avrà sorriso l’angelo di Reims? Quali cieli volano incontro alla guglia unica di Strasburgo? Verso dove cavalca il Cavaliere di Bamberg?
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Imparare la bellezza del verbo subire e tenerselo come stella polare. Non servono ribellioni perché tutto è incessante subire e patire violenza. Comprendere l’inevitabilità del subire non è rassegnazione: è attivo conoscere. Di sopruso in sopruso, di violenza in violenza subite, si arriva alla fine della corsa, della strada maestra, della notte. Si può subire disprezzando, respingendo, uccidendo mentalmente chi ci obbliga a subire, naufraghi nella bellezza malinconica e pura dell’accettare.
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Per intrattenersi – sia pure in modo infruttuoso, ma almeno con minor pericolo – con una tigre che si è abituata all’odore del sangue umano versato e bevuto, bisogna prima cavarne i denti e farne sparire gli unghioni. Ci saranno formule magiche per rendere questo possibile?
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In amore, in quelli che il linguaggio imbecille si è fissato di chiamare tradimenti, non c’è, di tradimenti, neppure l’ombra: ci sono soltanto delle fedeltà alla vita.
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La casa borghese, fatta di più interni, o anche minima, in edifici fuori misura, iscritta nella sedentarietà, il luogo geloso delle nostre proprietà transitorie, come si afferma trionfalmente negli ultimi due secoli e mezzo, è una delle nostre più perverse e vane ossessioni. Branchi dispersi in smaniosa ricerca di consistenza individuale creata illusoriamente da pareti e da oggetti, ci ustioniamo in affocata ricerca di casa. E la casa è galera a vita, pensa dunque che vita! Condiziona il pensare. Offre all’angelo della morte indirizzi sicuri. Attira il crimine, la rissa, il lutto. Gente impazzisce per brama di bagni e cucine. La coppia giovane ci fa naufragio. La Fuga è dappertutto, ma la sua impossibilità culmina in tortura mentale. La casa ti abbranca e ti tiene. La odii, la faresti esplodere quando si svuota d’amore. Ma bisogna odiarle sempre, e mai cercarle, mai desiderarle, queste dannate case.
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Cancro: quanto spreco di denaro pubblico e privato, quanti sforzi e tormenti per decifrarlo e scoprirne le cure, quanta sofferenza in tutti i luoghi della terra, per una così spregevole e vigliacca faccia dell’Angelo Sterminatore!
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Più è forte la consapevolezza di aver sbagliato tutto nella propria vita, più l’anima ne riceve cura di consolazione. Fa bene anche pensare che la vita di tutti non è che una successione di errori e che la storia del mondo non è che apparenza e follia. Fa bene pensare che tutto poteva andare diversamente e che c’è un oscuro peccato d’origine, che la rivoluzione industriale è stata un crimine e che il dominio attuale della tecnica è la perdita di ogni autenticità e sostanza umana, una sottomissione a un potere mostruoso. Fa bene e illumina, fa vivere e morire un po’ meglio.
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Sentire che qualsiasi fottitura ci capiti viene dalle proprie mani o attribuirla a un mistero divino è pur sempre lavanda gastrica mentale, ci sgombra da una quantità di veleni. Pensa: io sono qui e non dovrei esserci, le pareti sovraccariche, tutto quel che appeso ai muri mi ricorda la mia vita passata non hanno senso, tutta quella gente che lavora, che si veste a quel modo, che insozza la terra, che va dietro a quelle imposture, obbedisce a dei segnali falsi, tra qualche chilometro il ponte che troverà sarà crollato... Ecco, c’è da riossigenarsi, è come se il Paraclito avesse bussato alla porta; Antigone consegna amorevolmente il padre Edipo alla luce-madre di Atene.
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Sulla spiaggia, cumuli di cicche ai margini mobili della risacca, e sui pacchetti villanamente buttati si alzava il dito efficacemente ammonitore dello Stato che li vende: IL FUMO UCCIDE.
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Arrangiarsi a Napoli. Molto numerosi a Napoli all’epoca di Augusto, gli ebrei, per far penetrare le loro scritture profetiche tra i partenopei, le spacciavano per oracoli della Sibilla di Cuma.
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Gli Dei hanno lasciato estinguersi come insignificanti i mostruosi rettili, uccelli, anfibi di cento milioni di anni fa (e proprio mi sembra non valesse la pena di tenere in vita tutta quella triviale Materia priva di Mente, che non avrebbe né patito né conosciuto il peccato), e hanno fatto arrivare fino ad ora, non si sa per quanto, un essere costituzionalmente criminale, dal corpo estremamente fragile, che dopo essersi fatto per abitarci meravigliose e strane città, si è consacrato alla distruzione sistematica di tutta la realtà raggiungibile dai suoi nascosti artigli: ma neppure in questo (Mente più forte della Materia) vedo un motivo. Forse, nella Lettera ai Romani di san Paolo c’è una spiegazione.
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Nulla, nessuna forza può rompere una fragilità infinita.
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Siamo tutti figli delle foreste, ex belve che poco basta a rifare tali e peggio, ex lupi mannari ridotti a corsette perdichili in giungle d’asfalti, ex semivolatili di ramo in ramo adesso rinchiusi in gabbioni condominiali dove non risuonano che idiozie... In calici di piante carnivore antropofaghe metalliche succhiamo il nulla, rematori di un’unica colossale galera, incatenati a morte, seguiamo rotte senza bussola, con timonieri pazzi, e un megafono imbecille ci ripete incessantemente che abbiamo un fine, che c’è un senso e una meta, che questo Narrenschiff di ululato chiamato storia, è razionale...
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La galera non è una casa. È la casa – ogni casa – che è una galera.
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Bisognerebbe equiparare la chiusura di una quantità di botteghe e il rapido scomparire di tanti piccoli commerci (che solo superficialmente si possono considerare puri fatti economici e sociali) alle estinzioni delle specie animali e delle foreste: sono perdite di vita, allargamento del deserto, isole di respirabile alle quali i miasmi, el aire corrupto, subentrano. I protettori di Gaia devono includere tra le specie in pericolo anche le botteghe superstiti.
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Beate epoche e società in cui la naturale condanna a vivere non è accompagnata dalla costrizione sociale, anche, a vivere. Adesso, qui, non so se in tutto l’emisfero, ci martellano in testa il dovere di vivere, e prediche e pungoli molesti, e ricatti morali incessanti non fanno che ripetere questo fino a un trabocco di nausea, per chi conosca e patisca la vita, e la troppo lunga vita. Con questo imbestialito e glaciale imporre il vivere ad ogni costo si contribuisce fortemente all’agitarsi senza fine di un simulacro, di una larva di vita, che mai potrà farsi, per nessuno, vita. Chissà se, vista da un altro luogo, si domandava Euripide, non la si chiami morte questa nostra vita?
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Il dominio del crimine dispensa i buoni dalle fatiche di governare.
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Una ricerca culturale fatta mediante Internet raggiunge lo scopo, ma è priva di valore morale perché la via più facile non consegue nessun perfezionamento morale: dunque tale ricerca non raggiunge lo scopo.
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Affacciato a una piccola finestra con gerani che dà direttamente sul Big Bang il filosofo di Friburgo in Brisgovia s’illumina di visione dell’unità (Einheit) trasferitasi e riguadagnata nella Lacerazione (Zerrissenheit). Da un’altra finestra il Sublime di Koenigsberg si ritrae spaventato avendo scorto sotto di sé l’abisso (Abgrund) dell’impotenza della Ragione speculativa. Qui, dal mio lucernario, si vedono passare le grandi ruote siderali della Notte stellata di Van Gogh, e d’incanto si stura il lavandino intasato dell’anima, l’anima liberata s’innamora della Sapienza e scopre che abita in un povero villaggio provenzale addormentato tra i cipressi, dove non veglia nessun filosofo.
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Se la loro voglia di farsi del male e di procurarne agli altri avesse tregua (pur non cessando i dubbi sul che fare e il rifiuto della famiglia e dell’esistenza così com’è oggi) folle di giovani, invece di intossicarsi orribilmente nei modi che sappiamo, cercassero estasi e oblio, con dosi quotidiane, anche forti, di ragione e di bellezza, le città di notte si riempirebbero di pensatori che bisbigliano, di solitari persi in un libro, di filosofi in agguato dietro un angolo... Qualcuno morrebbe, verso il mattino, per overdose di conoscenza.
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Possiamo vivere a lungo, ma di tutti gli amori che abbiamo avuto e vissuto nessuno riuscirà ad apparirci reale. Tanto accedere e abitare in corpi di materia svela alla fine la sua immaterialità di sogno, si perde il convincimento che quel che abbiamo perduto ci sia mai stato realmente dato.
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Il sondaggio e le statistiche hanno sostituito gli oroscopi, ma hanno valore e probabilità uguali.
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Morire abbracciato a una donna nel rogo di un mondo di cui mai arriveresti a sedare la scellerata follia incendiaria, è un pensiero (resti pure soltanto tale) di refrigerio. Forsennatamente irradiare così il più radicale fottersene, non si va molto distante dall’imperturbabilità degli Dei di Epicuro e dall’impavidum ferient ruinae di Orazio. E così, anche, dimenticare di essere stato inutile, di non aver portato in salvo né la donna, né l’albero, né i padri, solo ascoltato il gemito della rosa...
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Brucia, frate da Nola, brucia. Storicizzata bene, l’eresia totale di Giordano Bruno hanno finito per tollerarla, a patto che resti confinata nella storia delle dottrine. Un immanentismo che tutto anima e divinizza va tenuto a distanza, con segnalazione di pericolo. Bruno vedeva i corpi celesti come corpi viventi, grandissimi animali: viventi anche se vuoti d’uomini o di pidocchi. Così sostiene lungo i cinque dialoghi di De l’infinito, universo e mondi del 1584. In tal caso l’Urlo di Munch si estenderebbe anche a loro, e anche il perché d’angoscia del primo versetto del salmo 22. E tutte le nostre sonde di NASA sarebbero, nel corpo dei pianeti, piacevoli come le picche nel dorso del toro nell’arena.
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L’antisemitismo è un enigma. Sciaguratamente sopravvive a tutto: alla memoria dello sterminio come alla strenua demolizione operata dal papa Wojtyła in ambito cristiano. È un virus della mente mutante e sempre contagiante. Si annida nelle profondità psichiche come la pulce appestatrice del Rattus rattus pandemico. L’antisemitismo è un enigma: non serve, se non si è toccati, vergognarsene, e nessuna analisi ne tocca il fondo. Nessuno può predire la data della sparizione di questo morbo.
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Le fogne di Parigi, che Jean Valjean attraversa avendo sulle spalle il carico di un corpo umano ferito, inerte e muto (non è morto, Marius, ma è come se lo fosse) sono il mondo e una potente metafora della stessa vita. Però ben pochi comprendono che stiamo tutti cercando nel buio di fogne urbane di una enorme metropoli così com’erano prima del risanamento, all’inizio del secolo XIX – con sabbie mobili, trappole mortali, nessun lume, nessun segnale –, una direzione, una indicazione verso l’Aperto. E ancora, tra i brancolanti e l’Aperto si frappone un’inferriata che non può aprirsi senza una chiave. L’Aperto, potrebbe osservare Heidegger, è però già presente nel cuore stesso di tenebra della fogna.
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Se un filosofo, insieme alle altre sue opere, è anche autore di una grammatica, questa va messa tra le opere filosofiche o tra le grammatiche e i dizionari di altri autori? La questione si pone, credo, per il solo Spinoza, autore anche di un Compendio di una grammatica della lingua ebraica, in latino. Vado e verifico: ritrovo, tra altre grammatiche ebraiche, che gli anni mi hanno messo in fila perché imparassi qualcosa di quel che contengono, il Compendio di Spinoza, e dagli occhi la benda mi va via; quella collocazione era sbagliata, se una grammatica è di un filosofo che conosceva come sacra quella lingua, e il Talmud e lo Zohar, non può essere uguagliabile alle altre. Contiene qualcosa di più, una parte del suo messaggio... Stasera, a mezzanotte, le cambierò posto.
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Dove tutto è desacralizzato e orbato di Numen, proclamare in salmodie di falsari che la vita umana è sacra (quella soltanto: non della vacca, del topo, dell’ulivo) ed è sacra sacra sacra, mi sembra una regola per codice di assassini, non priva di un perfido senso dell’umorismo. La desacralizzazione di tutto il resto rende molto dubbia la sopravvivenza di una sacralità unica, per di più limitata alla pura esistenza (l’essenza non ha statuto) fisica, a delle entità procreate dalle statistiche, a ombre svanenti di una storia illimitatamente sanguinaria.
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La Bomba non è un mezzo, perché troppo grande in assoluto. Se venisse impiegata, il minimo dei suoi effetti sarebbe più grande di qualsiasi scopo (politico, militare) gli uomini volessero raggiungere. Effectus trascendit finem: non soltanto il suo effetto andrebbe molto al di là del suo presunto scopo, ma secondo ogni previsione metterebbe in forse qualsiasi ulteriore possibilità di proporsi degli scopi, quindi anche ogni ulteriore impegno di mezzi, annullando così il principio mezzo-fine in quanto tale. Sarebbe assurdo chiamare mezzo un simile oggetto. La potenza virtuale delle scorte odierne di bombe è già assoluta. Se a Hiroshima fu impiegata come mezzo, in seguito è diventata una fine-in-sé, contenente la fine di ogni altro fine.
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Le città si sono trasformate in maschere sotto le quali non c’è niente. Il niente è fatto di milioni di esistenze miserabili prigioniere del congegno urbano inflessibile, mezzoviventi in case riempite di idoli parlanti e ronzanti che richiedono e ottengono un’obbedienza cieca. Le parole che pronunciano abitualmente sono luoghi comuni di stoltezza e di ebetudine. La forza dell’immaginazione superstite è messa a ben dura prova dentro quel bagno di corrosioni. Tuttavia bisogna sforzarsi d’immaginare che in una di quelle case, estraneo alle regole condominiali e privo di codice fiscale, si nasconde e occulta le sue piaghe un Angelo ferito.
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Un mondo di ignoranti molto ben preparati.
87
Quanto più andrà diffondendosi, nell’abitudine del Già Visto, l’orrore degli omicidi sessuali, delle torture e degli stupri famigliari e di branco – tanto più rarefacendosi fino ai margini dell’impossibilità e dell’inaudito si farà sublime, toccherà zenith di assoluto l’amore tra autentici amanti di sesso opposto, che però dovranno sforzarsi di passare inosservati, di nascondere la loro passione e la loro armonia, perché non sarebbero tollerati da un mondo di boia posseduti e di vittime in attesa.
88
Non ci sono soltanto troppe macchine circolanti e volanti o eteromobili, nel mondo. Il fatto di esserci una così strabocchevole popolazione umana accresce di corpi umani resi macchine e di installazioni inquinanti le cifre di delirio della loro occupazione della terra. Complicate e sudice, bisognose di manutenzione continua a carico di colossali apparati sanitari, teleguidabili ormai, manipolabili per via informatica e pantelefonica, concepite come moltiplicazione di congegni, mentalmente in una parabola discendente che non si fermerà neppure a un livello canino, le nostre Macchine Umane di terra umida e flaccida finiranno per somigliare alle amebe... Dunque è invasione di macchine tutto quanto si muove sulla terra e in orbita, macchina e uomo-macchina, un traffico senza confini, senza interruzioni, in cui tutto, anche un tumore, è «incidente stradale».
89
Se Dio è tutto, non dà gioia essere parte di questo tutto.
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Marco Aurelio (libro II, 3 dei suoi Pensieri) invita ad evitare di morire mormorando (tra brontolii sommessi; il verbo è onomatopeico: ghonghízo, il verso dei piccioni) e con questo intende ammonire di non morire leggendo, perché tutta la lettura antica era fatta a voce bassa e mai in silenzio, perciò molto lentamente, essendo inconcepibile che la parola letta non fosse accompagnata dal suono, dal rilievo vocalico, dal ritmo. Questo tipo di lettura era molto più faticoso del nostro, perciò il Qohélet dice che il troppo leggere «estenua la carne»: tutto l’essere partecipava allo scritto nel suo manifestarsi leggendolo. Lo stile di un grande autore va tutto perso nella lettura rapida muta: Madame Bovary o Caterina da Siena, o Manzoni, letti mormorando, soltanto allora diventano quello che sono, manifestazioni del Verbo...
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Il culto, la religione, l’idolatria della vita-per-lavita in astratto può significare oblio e disprezzo completi, addirittura feroci, per le vite in concreto, la tua, la mia, le nostre una per una. In questo falso amor vitae il dolore fisico e psichico, la realtà della mente e del piano mentale non hanno luogo, sono là ma privi di passaporto, diventano «razza maledetta» esclusa da ogni riconoscimento, «intoccabili». La vita ad ogni costo non ascolta gli urli di là dal muro, non indaga quel che c’è dentro o intorno o sopra un letto, è una specie di complicità oscura con la faccia più improvvida della morte, ed è sempre così quando un principio astratto perverte o fa scempio dell’esperienza. Pietà in astratto assoluta si fa, qui nei rigagnoli del fermento, gridante empietà. Ascoltare le vite ad una ad una è vera pietà.
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Chissà se... se nelle categorie-cruna del Tragico, gnosi d’illuminazione, potremmo ragionevolmente includere, come in una drammatizzazione dell’Assurdo, anche il confronto in atto oggi tra agricoltura tecnologica quantitativa (chimica, OGM, nucleare) in cui si misurano una debolezza che vede e un potere cieco che si vuole assoluto (il rogo del mondo in prospettiva, la terra stremata dalla violenza umana), un perdente alle Termopili e un invasore vittorioso che non gusterà la vittoria? Che ci siano anche là, inestinti archetipi, una Antigone e un Creonte, un Lear-Cordelia e una Gonerilla-Regana, e nell’ombra una banda di Dei ambigui e infuriati? E segni da decifrare, oltre il comune comprendere, oltre la banalità delle incolpazioni?
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Tra storia e fiaba: il Re che scivola fuori dal retro del palazzo travestito da poveraccio, e va irriconoscibile per le botteghe e i mercati, informandosi dei prezzi e specialmente degli umori dei sudditi per raddrizzarsi le idee sul modo di governare – figura delle più simpatiche! Oggi presidenti, ministri, politici di ogni parte e rango sono così distanti dalla realtà effettuale delle cose e dalla gente che governano perché il potere, organizzato tecnologicamente, da ogni contatto diretto parola-orecchio li taglia fuori. Tutto gli arriva sradicato e senza vita attraverso strumenti. E chi di loro penserebbe ad andare in giro travestito e truccato per sapere del prezzo del pane, come vanno i trasporti urbani e dei pendolari, quanto delitto è in circolazione, e a che punto è la notte dell’infelicità comune? Quando parlano in pubblico devono strappare il consenso, i loro modi petroliniani-hitleriani di mimica e retorica sono mere discese ex alto di parola filtrata e di notizia interpretata. Ma la cosa più grave è l’ignoranza dell’infelicità –che facilmente potrebbe rivelarsi a un grigio monaco attento, a uno sconosciuto, a un Re barbone incontrato per via.
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Il tempo degli statisti veri, dei loro grandi errori e dei loro meriti, è passato. Gli eventi del mondo sorpassano qualsiasi virtù politica di dominarli, ma si accucciano docili ai piedi dei criminali. Chi può essere evocato con urgenza da una prigione a spiegarci i sogni mostruosi che stiamo vivendo, è uno chiamato Daniele, al quale tutto è prodigiosamente chiaro... Per la conoscenza delle cose, dell’a-che-punto è la notte della condizione umana, per decifrare questa enorme congerie di enigmi in cui brancichiamo, i nostri sondaggi, le nostre statistiche, le nostre sibille elettroniche, tutti i programmi per il futuro, tutti i progetti governativi, sono spazzatura.
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Lo scristianizzarsi (non forzato, per esaurimento) dell’Europa non è da deplorare se il vuoto, che inevitabilmente si crea, s’incontra con una parallela rispiritualizzazione che non escluda i misteri cristiani nella loro essenza, né il lascito monumentale dell’Europa che fu cristiana come via di luce e di pellegrinaggio. La perdita dell’unicismo religioso non è da rimpiangere, è la rivincita di tutte le eresie sconfitte e perseguitate, il ritorno a Roma moltiplicato dei culti orientali, antichi e nuovi, e il loro rieccoci rassicura, mentre l’islamizzazione come surrogato di assolutismo di una sola fede fa tremendamente paura.
96
Furono, e sono scomparsi, i treni dei feriti in guerra. I grandi velivoli che li hanno sostituiti non danno emozioni, non li vediamo, ma sappiamo che con loro viaggia a diecimila metri e più di quota il lamento, la sofferenza umana. I treni attraversavano città e campagne con la croce rossa dipinta e le tendine abbassate. «Mai finisce, quel treno, di percorrere la notte» scrisse un poeta-testimone, Miguel Hernández (El tren de los heridos). Ma questa è la metafora del XX secolo: uno sterminato treno di feriti che percorre senza fine il tempo, che sappiamo pieno di lamenti, carico d’indicibile sofferenza umana...
97
Esistono certamente, in qualche luogo, donne meravigliose capaci di dare all’uomo felicità inesprimibili senza mescolanze di amaro. Ma questo Gineceo è irraggiungibile: a volte sembra che soltanto una parete di carta ce ne separi, vediamo le ombre e udiamo voci, risa, lamenti, specialmente di notte: però di là non si riesce a passare, è come per la Porta della Legge in Kafka o l’uscita dalla stretta dell’angelo sterminatore nel film di Buñuel. Nei poemi turchi di Mehmet Gayuk (Adelphi, 1998) non si parla d’altro che di questo gineceo introvabile della femminilità prodigiosa e ogni volta, come in un gioco dell’Oca, si è costretti a tornare indietro o a brancicare in un vuoto aromatico costernatore. I Saggi dicono di aver rinunciato a cercarlo, ma non sono credibili e mai riuscirebbero a provare che il Gineceo non esiste o è fuori di questo mondo.
98
Il bodhisattva percepisce i suoni della Sofferenza del Mondo, sconfinata... Ma occorre essere bodhisattva? O Arthur Schopenhauer? Io sono uno qualsiasi nel grande mucchio, eppure li ho percepiti e mi hanno fatto da bussola. E Abramo Lincoln li ha uditi, dalle piantagioni di cotone, e Gandhi nelle due Indie. E tra i poeti moderni parecchi: Baudelaire, Rimbaud, Campana, Owen, Achmatova, Šalamov, Thomas, Cvetaeva... Tra i pittori Schiele, Munch, e Sironi dopo il suicidio di Rossana. I papi ne parlano, spargono unguenti di luoghi comuni, ma non hanno orecchie fatte per intenderli. Tra i filosofi, Michelstaedter, per averli uditi, a ventitré anni si è ucciso. Dostoevskij e Tolstoj: due intere lunghe vite all’ascolto di quei suoni, telegrafisti inchiodati di giorno e di notte all’apparecchio trascrivente.
99
Pancia che ha fame grida, strepita, si lamenta. Pancia che ha fame d’amore è muta.
100
Cassandra ad Argo e Gesù in Giudea parlano barbaro e la loro profezia viene male accolta, irrisa e fraintesa. Malinteso linguistico dall’esito tragico tra Gesù uomo della provincia e i distinti capi giudei di Gerusalemme. Se con Pilato avesse parlato greco, Pilato l’avrebbe lasciato andare. Ma Gesù non era un profeta poliglotta: era un galileo dall’accento barbaro, e Pilato avrà avuto un ostile interprete giudeo. Per i Giudei doppia eresia, doppio peccato mortale.
101
Se morire è brutto, disincarnarsi è bello.
102
Marce della pace, danze di meduse. Inebriati dal trovarsi insieme numerosi, i molluschi s’immaginano di essere vertebrati.
103
L’empietà verso la figura umana nel rappresentarla è un estremo di peccaminosità: promuove, attira, ufficializza ed estende il male, d’accordo con le forze maligne che ci pervertono. Perciò ogni mancanza di freni nell’espressione artistica contiene un pericolo, lo sfregio dura più a lungo nell’immagine che nella carne. Disintegrare una faccia sulla carta, la tela, la pellicola, la scena, è sempre una piccola e simbolicamente radicale Hiroshima.
104
Stendhal estendeva il suo simpatico orrore per i preti anche all’innocente Virgilio, colpevole di piacere troppo ai preti (Brulard, 41). In effetti i preti hanno usurpato Virgilio attaccandosi al pius Aeneas e distorcendo trivialmente il pallido messianismo della Quarta Ecloga. Come poeta ufficiale del regime augusteo Virgilio in un certo senso anticipa il rozzo e violento papismo dell’assoluto primato pietrino, ma per quanto veggente mai avrebbe potuto figurarsi una simile stravaganza per i tempi futuri.
105
La Filosofia ripara le case in rovina – dove non ci sono case in rovina.
Guarisce le ferite della vita – dove non c’è nessuna ferita.
Ridà agli angeli le ali tagliate – dove non ci sono angeli privi di ali.
Scaccia dal pensiero i mostri che lo infestano – dove i mostri non abitano.
Libera dalle manette mentali – dove non ci sono manette.
Permette di sedersi su grossi rami per metà segati – dove non è passata nessuna sega.
Rende immortali – finché la morte non c’è. Dunque: è onnipotente.
106
I vecchi amano quanto i giovani: poco. Ma, a differenza dei giovani, per questo contributo alla desertificazione del cuore, che ha riflessi sul cosmo, sono puniti.
107
Aggiornamenti moderni, postmoderni e bispostmoderni per lamentatori babilonesi e Giobbe: ma che cosa abbiamo fatto, in che cosa abbiamo peccato da bambini, noi uomini, per meritarci in vecchiaia il martirio urologico, l’ergastolo prostatico, la condanna a morte mediante vescica? Chi ha fatto precipitare le Acque Cosmiche in questo Triangolo delle Bermude di stagnazione e maledizione perfidamente collocato nell’inevitabile bassura dell’addome umano? E non sarà che abbiamo fatto fuori gli indiani delle praterie per invidia di gente che, pur vivendo sul cavallo, ignorava l’adenoma prostatico e la sua infame degenerazione maligna? E oggi, premuti nelle riserve federali, abbiamo la bestiale soddisfazione di vederli far la coda alle analisi e sottoporre l’ex libero sedere alle turpitudini delle ispezioni! Lo stesso succede nelle foreste amazzoniche: gli ultimi uomini liberi da patologie urinarie saranno sterminati dagli uropatici senza pietà, nessuno di loro resterà vivo...
108
Il secolo XX è quello che ha reso più partecipe ciascuno dell’esistenza e dei fatti di tutti. Chi, staccandosi dal bassopiano della storiografia dei puri eventi, si misuri con la realtà psichica senza confini dei fatti, compresa l’immensa quantità dell’inesplorabile in eterno, destinato a restare per sempre oscuro, avrà più diritto a pensare di esserci stato, di aver meno irrealmente vissuto quegli anni. In questo modo, nella realtà metastorica, arando il mentale di tutte quelle lacrymae rerum, si potrà di ogni cosa, di ogni luogo, sciagura, esistenza a lato, liberazione umana, dire «questo sono io». Chi potrebbe, fermandosi alla volgarità e agli inganni dell’apparenza, dire di essere stato presente quando entrò per la porta di Giaffa, con Lawrence e Massignon, a Gerusalemme, il generale Allenby? Ma io voglio poter dire che c’ero, davanti a quella porta, quel giorno del 1917! La macchina del Tempo metastorica mi riporta là in questo istante: ecco, sta avvenendo. La cavalcatura del Profeta dalla Mecca a al-Aqsa era questa stessa macchina, e così le vite del conte di Saint-Germain. Il secolo XX è un forte aiuto a capire chi siamo.
109
La cattedrale romanica di St-Trophime, ad Arles. Un mattino, forse di aprile, del 1977, attraversando il suo portale per la prima volta, mi accadde una cosa che mai più, dopo allora, si è ripetuta: la repentina sensazione di trovarmi nel cuore di luce dell’essere, di aver oltrepassato la soglia dell’intelligere per la pienezza di una superiore coscienza ontologica. Un istante di pura vertigine, già dopo pochi passi nella navata era svanito. Senza artificio psichedelico – una carezza soltanto, dall’alto all’infimo, inesplicabile...
110
La natura è un crimine. Le prove sovrabbondano. La sua recidività è illimitata. Un tribunale onesto non potrebbe che condannarla a morte.
111
Nostalgia delle cime di monti sconosciuti, adesso che è settembre, e che il prolungarsi di questo sbullonamento dell’Ora Legale fa le albe ormai buie, ma sulle cime o dai fondovalle aperti ancora si vede, per un certo tempo, spuntare il giorno... L’alba sulla Jungfrau o da Notre Dame de la Guérison, in faccia al Bianco... Siamo perduti, per quell’attimo di luce che svanisce, noi nei vagoni piombati delle città di pianura, noi che vediamo soltanto, famiglia che si alza per il lavoro e si fa scaldare dei liquidi malsani sul gas, la finestra illuminata di fronte dove c’è un’altra famiglia di idioti, di carcerati senza colpa anche loro, che sta facendo la stessa cosa, e già la ingozzano di notizie, vogliono farci credere che questa esistenza senza luce è di paradiso, mentre là e là stanno crepando a migliaia...
112
Che brucino o spariscano alberi preoccupa poca gente. Ma dove c’è un albero che brucia o viene abbattuto per qualche profitto, o uso non strettamente necessario, o anche per far posto semplicemente a insediamenti umani in eccesso, a industrie o autostrade, oscure radici buttano fuori e cresce e ramifica in fretta un albero di morte. Se anche non ci fossero altre cause basterebbe l’enorme perdita di alberi, la distruzione sistematica delle foreste, la proliferazione cancerosa degli spazi urbanizzati dove l’albero rantola semiasfissiato dai gas, a provocare l’irrefrenabile aumento della violenza sulla terra. L’albero che separa uomo da uomo separa anche i loro coltelli alzati, inceppa il tamburo delle loro pistole.
113
Ragazze e ragazzine, oggi sessualmente libere, non hanno in fondo altra libertà che di pigliarsi come amanti (detti impropriamente «fidanzati») esclusivamente dei coetanei. Se l’amante è un uomo con venticinque o trent’anni di più succede il finimondo, scattano manette, gehenne, riprovazioni. Eppure l’unico amore vero che possono avere a quindici o vent’anni è con l’uomo che, anagraficamente, potrebbe esserne padre. Nell’uomo avanti negli anni è il loro sogno d’inaccessibile paradiso perduto.
114
«La storia ci darà ragione!»... Bravi. Aspettate che vi dia ragione un farneticante pericoloso che non s’interessa minimamente di voi, occupato soltanto dal proprio farnetico.
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Uomini sempre meno virili, dicono le Statistiche, oracoli fregnoni, d’Occidente. Sarà pur vero, ma una virilità di massa consistente nel numero delle code dritte è una ben meschina cosa. Le donne avendone certamente, oggi, un’idea meno rozza che fino a metà XX, un Baudelaire, uno Stendhal potrebbero affrontarne qualcuna con meno angoscia, l’ossessione di Pavese non finirebbe in un imbuto tragico. Il mondo maschile e il femminile a poco a poco perderanno i loro ristretti confini.
Non è di uomini sempre in erezione che c’è bisogno, ma di uomini sensibili, coraggiosi e comprensivi. La virilità bestiale agli stupratori di metropolitane... Gli uomini mentalmente virili potrebbero essere più numerosi degli altri e con più capacità di amare, e tuttavia considerati impotenti dalle ottuse statistiche dell’andrologia.
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Stati-ultori e Stati simbolicamente ultori, garanti della vendetta pubblica, differiscono nel trattamento giudiziario dei crimini di sangue, ma tutti insieme formano un colossale coito sadomasochistico di violentatori indisturbabili della natura vivente, matricidi della Terra Madre, demetricidi, geocidi (variazioni neopagane di deicidio). Lo Stato preferisce annacquare le punizioni individuali pur di non essere distratto dal partecipare con gli altri Stati ai più scellerati e premiati crimini contro libertà umane, vita animale e vegetale, acque e terre, dai fondali marini ai Buchi Neri. Occupato a violentare il Tutto vivente, lo Stato è solo formalmente e superficialmente interessato a stornare il male e la violenza dei suoi cittadini.
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Come non ritenere l’enormità di violenza umana, dalla criminale pura alla nazionale e sociale, irreprimibile e inarrestabile, dal momento che tutta questa violenza tra uomo e uomo riflette un errore fondamentale del pensiero per cui diventa lecito sempre, accettabile, perfino meritevole e in ogni caso inevitabile forzare, violare, trasmutare la vita in generale per scopi pratici, violentare il mondo e tutto quel che degli spazi orbitali e galattici è tecnicamente raggiungibile e si presta ai nostri superbi stupri? L’impossibilità di reprimere la violenza nel suo terrificante manifestarsi giustifica la retribuzione sanguinosa, la giustizia capitale come triviale, appena ritualmente disinfettata, ulzione.
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Nelle poesie di guerra di Apollinaire si legge un’iscrizione funebre probabilmente da lui trovata in qualche vago cimiterino sul fronte delle Fiandre. Laconica e vertiginosa: Il sut aimer. Nel tradurla noi omettiamo l’articolo (Seppe amare) ma va precisato che si tratta di un uomo. Sarà stata la sua sposa a dettarla o uno stuolo di amanti, grate al di là della tomba? Chi ha potuto meritare una parola così straordinaria, una lode così perfetta non poteva essere un marito monogamo: l’omaggio è di più bocche e di più mani. E l’iscrizione non sopporta l’accompagnamento di un nome: di colpo, diventerebbe iperbolica e quasi ridicola. Il poeta non poteva certo aggiungerlo al bagliore appena suscitato, come uno di quei razzi bianchi che solcavano le notti di guerra.
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Il neonato tetta la tetta: è il suo tutto. Il vecchio tetta di tutto. La vecchiaia è abominevole, il peggio della vita: il vecchio no. Nel tettare di logorate dentiere l’Omega dà la mano all’Alfa. In principio c’è la Fame. Al termine, Fame si sposa con Fame. Il neonato non è grato a chi lo allatta. Il vecchio sì. In una società più umana si dovrebbero vedere sulle panchine pubbliche d’estate, nelle sale d’attesa, sui treni, nelle metropolitane, donne giovani, robuste e graziose allattare a seno asciutto scopertamente e senza vergogna dei vecchi ex uomini inebetiti dall’estasi. Quanti vecchi avrebbero più cura di sé e dell’igiene personale, quanti forse l’Alzheimer non toccherebbe, se nel bisogno e nella solitudine ricevessero sollecito e gratuito soccorso di seni ben fatti! (Proposta per un apposito Servizio di Volontariato nel quadro di un riformismo di saggezza).
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DOMANDA: Che cosa faresti, appena congedato dalla vita, se mai ti ritrovassi libero spirito dell’aria, ma ancora, per poco forse, con contenuti di testa pensante di vivente, e dove ti dirigeresti, sulla terra?
RISPOSTA: Mi farei portare dal vento fino al Prado, deserto per l’avanzata ora notturna. Accenderei, strofinandomi la volontà, le luci e andrei a depormi davanti alle Meninas di Velázquez... Resterei a contemplarle per un’ora o due, o l’intera notte... DOMANDA: E subito dopo, ancora?
RISPOSTA: Su su salirei con la facilità dell’aquila lungo la parete Nord dell’Eiger e guarderei il sole levarsi dalla vetta. Ecco: le Meninas e l’Eiger... DOMANDA: E poi?
RISPOSTA: Di notte, ancora, andrei al Louvre a persuadermi di quanto già so: che il Filosofo di Rembrandt, la sua luce interna, e io, siamo uno. Le nostre due aure brillerebbero della medesima Essenza.
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A dispetto dei pessimisti, ci sono delle prospettive economiche, ovviamente planetarie, che hanno carattere di certezza, in un immediato come in un più lontano domani. Ogni abitante della terra sta per diventare (anzi lo è già attualmente) milionario in disastri, e non solo: siamo tutti ormai fuori da ogni timore di carenze in perdite di vita reale, in perdite parallele di ragione illuminata La corsa ad arricchirsi senza limiti in Tenebra e in Ebetudine è aperta, facile, accessibile a tutti. L’uguaglianza di questo tipo non è Utopia.
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Quando sia davvero cominciata la storia simbolica dell’uomo sulla terra non ci è dato sapere: ce n’era il germe in ognuno dei popoli inabissati. Ma la foresta dei simboli è indecifrabile: che senso puoi dare a una posata d’argento che un robot recuperasse nella carcassa spezzata del Titanic a quattromila metri di profondità (eppure ne contiene uno strato muto, non meno delle pietre di Stonehenge)? Quel che sappiamo è che a partire dal momento in cui la storia umana comincia ad assorbire tutto il simbolismo del mondo animato e dell’inanimato, e a farsi viscere di Titanic, Stonehenge o Cesare trafitto, il rozzo, malformato, inospitale Pianeta Terra Sterminatore si avvia a diventare invisibile. (Chiarisco: invisibilità non è dissoluzione. È il mantello simbolico che fa sparire le cose).
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Su questa terra non c’era posto che per angeli e bestie. Purtroppo (e qui Pascal ci scarica addosso un’abbagliante energia luminosa) l’uomo non è né bestia né angelo. È un abitante usurpatore, lui e le sue divinità che gli somigliano. È un ospite temporaneo e tendenzialmente criminale. E c’è una legge segreta che ne prevede finalmente, dopo un incalcolabile cumulo di reati apparentemente impuniti, la definitiva espulsione extra flammantia moenia mundi.
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Un vecchio non disperato è un grande sapiente – o un grande stupido.
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Una prova che i film di Ingmar Bergman contengono verità è che nel suo cinema nessuno e niente esprimono mai il male e il bene, la follia e la ragione, la malattia e la salute, in modo emblematico e ben distinto. Tutti i personaggi agiscono come espressioni di Ambiguo, assillati sempre da un Problema etico-esistenziale che gli tiene luogo di religione. Tutti sono Ingmar dalle molte facce...
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Questa è la fotografia del presente. L’uomo si fa guidare da Internet e dall’automobile. La donna adora il cellulare e fuma. Entrambi si spintonano per il lavoro, i soldi, la banca, e quando procreano ne nascono scarabocchi. Chi ha voglia di scrivere per una umanità simile? Chi si arrischierebbe in tentativi di scamparli con un poco d’arte dall’ebetudine? Neppure di averne pietà si ha più voglia.
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Il carrello del Super e dell’Ipermercato è un allucinogeno. Le leggi antidroga e antidoping non fiutano il pericolo e la polizia non addestra i suoi cani ad annusarli quando la gente li sta spingendo carichi di aggressività virtuale verso l’inebetita indifferenza delle cassiere. Quel che le loro madri buttano con frenesia nei carrelli il sabato sera, sempre col timore di aver dimenticato qualcosa (un quinto o sesto cartoccio tetrapak di latte, un’altra bottiglia in plastica di lavacesso al cloro, maccheroni grossi come cubetti di porfido, insinuandosi nel pensiero, le obbligano a tornare indietro), stimola i figli a fare altrettanto, non riempiendo carrelli di alimenti, ma sospingendo il carrello cerebrale verso il nulla mediante spinelli, anfetamine, immondizia alcolica assunti tra musiche d’abbrutimento, tra l’una e le quattro del mattino dopo.
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Edgar Cayce, il veggente americano, individuava in Hitler e Stalin – ben più lucidamente di Jung nel 1939 – dei discendenti (intendeva certamente reincarnazioni, non può trattarsi di trasmissione genica) degli Atlantidi degenerati, che non potevano scomparire come dei dinosauri qualsiasi, senza lasciare nell’ordine cosmico, in cui tutto si lega, un’impronta di male futuro destinato a manifestarsi in un tempo scritto. Il secolo XX è stato fertile di Atlantidi degenerati: oltre ai due già detti, Lenin, Pol Pot, Mao, Manson, Francis Bacon, Eichmann, Beria, Mengele, Bin Laden e tutti gli istruttori di terroristi suicidi, Enrico Fermi e tutti i fisici che spinsero Truman a sperimentare la Bomba. Di molti altri ho forti sospetti: Anna Caterina Emmerich, camminando sulle loro sepolture, li riconoscerebbe. La loro marcia continua. Tutti sono stati e sono impegnati a distruggere l’Essenza umana – a sommergerla, come fu giustamente sommersa Atlantide.
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Un sorriso dei più incantevoli ed enigmatici è patrimonio esclusivo (antropologico, culturale-evolutivo) delle ragazze che portano occhiali da miope, chiari s’intende, con montatura impalpabile (le lenti nere fanno di ogni donna e di ogni uomo un mostro: non le scoraggio, perché proteggono la vista). Il tipo non è infrequente: di solito è magrolino, il capello è biondo o castano chiaro, l’andatura molto svelta, dietro le lenti la luce degli occhi è pallida, lo sguardo che la natura ha limitato è rivolto a lontananze ignote. Il loro sorriso quando accenna a manifestarsi è luminosissimo. Giurerei che preannuncia, per chi le ami o amerà, una superiore estensione della felicità possibile.
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Filosofo o politico, ecologo, etnologo, artista, medico, psicologo... Ma che cosa ancora sperate, buona banda pensante e attiva, di ricavare dalle vostre idee sull’uomo, l’umanità in generale, l’umanità contemporanea, le nazioni del mondo – addirittura sforzando mente e mano perché lavorino in vista della salvezza di questo Pianeta – quando vi buttano nel piatto incessantemente quanto di male viene fatto dovunque, lontano e vicino, ai bambini? Sfruttamento in massa per il profitto, schiavitù sessuale nella stessa famiglia, vendite, mutilazioni d’organi, l’obbrobrio della pedofilia in Internet, l’intossicazione ambientale che li vede in prima fila vittime, i reclutamenti forzati per farne assassini in uniforme, stragi terroristiche nelle scuole, bombardamenti... Tanto può bastare per indurci a condannare in cuor nostro allo spopolamento e alla morte un simile asilo di maniaci criminali, facendoli tutti precipitare nei grandi baratri che vide e previde Leonardo come unica riparazione possibile del male di essere – e sopra mangiare trincare godere (o a scelta digiunare, astenersi), estinguere in sé la figura oscena del mundus... Che altro ci resta da fare?
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Invece di perdere tempo leggendo lucidi articoli, ascoltando rassegne stampa, assistendo a dibattiti, ec. ec., per farmi un’idea figuratamente più veridica e precisa della degenerazione progressiva della democrazia italiana, piglio la poesia Une charogne di Baudelaire, fino al verso 36. Dove al verso 17 si manifesta la crudele potenza dell’immagine «Le mosche ronzavano su quel ventre putrido» non penso ai rifiuti di Napoli soltanto, perché lo stesso ventre putride è dappertutto.
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Mi sento simile a una mosca alla quale un sadico bambino (io lo sono stato) abbia strappato un’aluccia e una zampina: i miei movimenti somigliano agli sforzi di quella mosca che cercando di arrampicarsi sul vetro della finestra casca e ricomincia. Ora esco, scendo le scale, mi metto in strada, e la strada è in discesa, e ho il timore che un altro bambino sadico mi strappi ancora dell’altro.
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«Abbiamo tutti bastante forza per sopportare i mali d’altri»: una delle più squartanti, tra le massime del duca di La Rochefoucauld (Maximes, XXII, ed. 1665). Possiamo constatare ogni giorno, ogni momento, che la massima è vera: ma se non fosse così chi avrebbe la forza per portare soccorso? E nello stesso tempo la Valle delle Lacrime è anche piena di smentite alla massima, che risulta così acuminata e spuntata insieme, un paradosso psicologico. Molti medici hanno mente e vita funestate, disarticolate dall’ininterrotto contatto coi mali e la morte d’altri. Moltissime donne darebbero senza pensarci troppo la vita per dare sollievo (per non doverli sopportare) ai mali di padri, mariti, amanti, sorelle, o di loro assistiti per obbligo di lavoro. Perché la sofferenza d’altri contagia, in un modo o nell’altro, sempre. (Forse soltanto per i bambini la massima XXII resta del tutto incontestabile: la loro specifica insensibilità naturale li rende invulnerabili dal contagio).
Nel meraviglioso racconto di Kipling La Casa dei Desideri una donna attira a sé, per magica suggestione, il cancro che fa soffrire il suo amante, il quale, guarito, da lei che dello stesso male morirà fatto risorgere, non ne saprà mai niente.
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Quando il corpo invecchia, lo stato fisico visto allo specchio educa. Eccomi qua: le coglie prosciugate, la schiena ingobbita e curvata, figura di nave colpita sulla fiancata, le gambe screpolate, tutto questo aggregato tenagliato e deformato dalla vecchiaia avanzata, malconcio, un Bosch dei suoi disegni a penna, quasi irreale nella propria irremissibile mortalità vivente... Qui non ci sono specchi, è dunque un altro corpo mio, un doppio, a guardarmi intero e nudo (en un rincón de carne cabe un hombre), a tentare da quella lenta rovina un solitario volo d’aquila estremo, come di chi incarni la fame, la fame insaziabilmente assurda, asintomatica e realissima, di una Compassione infinita.
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Mir spaset krasota («la bellezza salverà il mondo») cfr. L’idiota, parte III, cap. v, Ippolit, ec.). In una versione letterale in cui sono invertiti i termini: «il mondo salverà la bellezza», il capovolgimento produce altro, ancor più straordinario pensiero, indicando un possibile senso missionario del mondo. La frase è ripetuta per tre volte da Ippolit rivolgendosi a Myškin. Dostoevskij non la butta a caso e non è mero ornamento. Nei Taccuini: Mir krasotoj spasetsja. Dva obrazca krasoty («Il mondo con la bellezza si salverà. Due modelli della bellezza»). Nella parte I, cap. VII, Adelaide, figlia della generalessa, davanti al ritratto di Nastas’ja Filippovna: «Che forza! Una bellezza così è una forza... con questa bellezza si potrebbe rivoltare il mondo». La stessa bellezza capace di tanto, onnipotente, alla fine è mostrata assassinata, come su una scena tragica. Quale sarà la Via della bellezza per salvare il mondo? E perché dovrebbe salvarlo, se non è che «ripetizione senza fine del Motivo Immutabile»? Se è figlia ed essenza dello stesso mondo? Perplessità e incantamento...
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Questi non sono che frammenti di briciole. Tanto per pensare di aver pensato e morire in pace. Di pensiero l’umanità ne ha prodotto in pochi secoli una enormità, si può attingervi per millenni. Purtroppo solo per un tempo limitato si potranno conservare le opere d’arte, nonostante i meravigliosi spazi museali che vanno formando zone salvagente nelle città. Ma se tutto il potere andrà ai bruti, ai criminali e ai tecnocrati?
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13-14 febbraio 1945: bombardamento alleato di Dresda. Eventi come questi non trovano posto in categorie pensabili (non diversamente da Hiroshima-Nagasaki, Shoah, Gulag, Torri Gemelle). Se li salti, bevuto un tè, ti rimetti a pensare professionalmente, ma la frattura resta. Possiamo contentarci della narrazione dei fatti e concludere che si tratta di prove provanti che l’uomo è ben lontano dall’essere un animale.
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Se ci fossero dei cadaveri di carne sparsi o ammucchiati qua e là nelle nostre case dove l’Accanimento igienico è perpetuo e la divinizzata Asepsi governa severamente le Stanze da Bagno, come sarebbe la vita, in quegli interni gonfi di decomposizioni? Inquilini riuscirebbero a sopportarla? Eppure le Audiovideoteche casalinghe, sempre più folte tra pavimenti e soffitti, accumulano a migliaia, come bare non inchiodate, voci di ombre e figure in movimento di disincarnati pronte a un comando a rinnovare senza limiti di ripetizioni la loro presenza carnale nel mondo, a invadere le stanze della loro avvenuta decomposizione, la loro fetidità del Non-essere, la loro immortalità in quanto morti. E una simile immortalità del puro simulacro è pur sempre un Qualcosa, porta con sé dagli altri Regni una carica attiva oscura, forzata dal nostro credere di comandarne senza timore l’innocuità presunta a tornare (sciagura) da refaìm (indeboliti) in un circoscritto spazio per viventi tassabili. Sono cadaveri clonati e messi in fila negli scaffali senza sepoltura. Perciò la storia dell’Audiovisivo, dal secondo XIX a oggi, a domani, è rivelazione ed enigma metafisico, viaggio di prodigio infelice su altalene d’abisso. Il consiglio mio è di tenere videocassette, DVD, Internet, ec. fuori dalle stanze abitate, allontanare tutti questi materiali parlanti da casa. Dubitate, io dico, dubitate fortemente della loro inettitudine a nuocervi.
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L’organo umano proprio del Crimine, una volta nati (el delito mayor), non sono, nel corpo, le mani, ma la bocca, che emette parole e preda il cibo dappertutto. L’arca delle labbra ha i suoi kerubìm, entrambi spiriti del Male. Se riesce truccandosi a non farsene riconoscere, la Verità può scivolare fuori e operare quello che può. Il fiato cattivo viene dagli spiriti maligni dell’interno. La Voce che consola e redime (attori, donne amanti, Callas) è dono mirato e diretto della Vergine di Luce.
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Fisso la mente invasa dal sonno e dalla malinconia notturna nel gioioso paesaggio marino di Paul Klee del tempo di guerra Avviso alle navi del 1917 (Warnung der Schiffe, è alla Staatsgalerie di Stoccarda, p. 40 della bellissima edizione Taschen), una sinfonia in blu, giallo e grigio con un poco di nero e un intrico di linee evocanti bizzarramente una realtà marinara intensamente assurda. Alcuni strani pesci emergono in figura di periscopio, fauna ferrata sottomarina di guerra... È pittura eminentemente sonora, posso ascoltare i segnali scambiati tra le materialmente inafferrabili navi naviganti sotto la superficie o a luci spente; l’effetto è stregante e liberatorio. Non basta perdermi in quel labirinto, apro ancora Bhagavad-Gita, X, 3 («Colui che mi conosce come il Non-nato, senza principio, e Signore supremo...») – il premio di una tale conoscenza è la liberazione – e il versetto agisce subito, per un momento mi sottrae alla bassura ilica, alla Materia che mi stritola come i serpenti del Laocoonte vaticano... Visione di un artista che interpretava il destino umano e parola d’Oriente di una rivelazione di tre o quattro secoli prima di Cristo congiuntamente a soccorrere con pari forza la monadina sperduta, insignificante, dirigendola all’Unità.
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Quando avrai nominato la vita, tutti gli altri possibili carnefici possono restare anonimi.
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Il secolo XX, con mani prestate dal XIX, non ha ucciso Dio ma – con ben più forte evidenza – ha perso l’uomo. Tra queste immense moltitudini depravate e in perpetua fuga su un’inesorabile pista circolare lo cercheresti invano.
143
La storia, nell’Occidente tramontato e nell’Oriente ridotto appendice d’Occidente, sterminatrice, è da un pezzo un disco di vinile a 33 giri (oggetto che vivamente rimpiango, che mi aiutava a pensare e mi dava gioia) con un solco guasto, che ripete senza fine, e non puoi fermarlo, le stesse, stesse note. Solo un Dio ferito ma non morto potrebbe spostare la puntina dal solco dov’è incagliata, ma guarda e sorride. Tutti noi che parliamo siamo quella nota che si ripete, che non può districarsi dal solco guasto.
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Un segno di vecchiaia è l’inettitudine a creare aforismi. A settanta e oltre la natura ti ha già dato per morto, ti dà alle pale e agli angeli della reincarnazione. L’aforisma è un’illuminazione spermatica metafisica, tra i quaranta e i cinquanta è la sua età ideale. Aforismi di un Flaiano ottuagenario sono impensabili. Si ha paura di isolare il proprio pensiero in una riga e mezza come di perdere l’equilibrio e di cadere in strada; venti righe già valgono come un braccio di accompagnatrice, ti senti protetto, c’è qualcuno. Sarò forse ricordato per qualche mio aforisma, tutti però di altre epoche della vita.
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Tolstoj odiava Beethoven per il suo potere di ridurlo in schiavitù. Tira aria di schiavitù universale: l’ascolto di musica è quasi ininterrotto. Oggi Beethoven lo puoi ascoltare anche nei cessi della stazione di Milano, e le note dell’Appassionata, da uno scorpione incollato all’orecchio, si confondono con la giungla sonora delle segnalazioni.
146
La nozione di castigo è stata ufficialmente, obbligatoriamente, cretinamente soppressa nell’azione penale. Così uno dei più perfetti titoli di romanzo al mondo, Delitto e castigo, che si fonda sull’immemoriale legame tra il crimine e la punizione-retribuzione, finirà per apparire assurdo, necessiterà di una spiegazione. Se ne può proporre un’attualizzazione che riempirebbe di contento i costituzionalisti: Delitto e Recupero.
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Ritrovo, rimeditabili, e riproduco qui per lettori che potrebbero non esserne stati fermati, alcuni pensieri capitali di Heidegger, da una conferenza del 1954 (ce l’ho nell’edizione Gallimard con prefazione di Jean Beaufret, del 1958: Essais et conférences). Il saggio è intitolato Superamento della metafisica. È passato più di mezzo secolo, quando ancora non si parlava di ecologia e tutto il mondo non esitava a vetrioleggiarsi pur di affermare la volontà di potenza e di dominio tecnico. Si stava ricostruendo la Germania, la religione del Lavoro, anche fuori dal campo marxista, non conosceva limiti di culto. Nell’Europa del XXI nessuno osa più dubitare dei suoi dogmi fregnoni. Si chiede agli esseri umani di nascere per diventare bestie da lavoro, per lo più sedentario, impugnando un mouse elettronico. Soltanto nei tempi del più nero schiavismo alle donne schiave si chiedeva di partorire per aumentare la famiglia, la mesnie, degli schiavi.
Ecco:
«L’uomo, come animal rationale, che oggi vuol dire il vivo che lavora, non può più che vagare per i deserti della terra devastata».
«Il declino si compie attraverso il crollo del mondo segnato dalla metafisica e la parallela devastazione della terra... Crollo e devastazione hanno il loro compimento in quanto l’uomo della metafisica, l’animal rationale viene messo in riga come bestia da fatica».
«La verità dell’essere, ancora celata, si nega agli uomini della metafisica. La bestia da fatica è abbandonata alla vertigine del suo fabbricare, perché si faccia a pezzi da sola e cada, autodistruggendosi, nella nientità del Niente». Immagino che Heidegger, a guerra finita, abbia potuto rivedere Metropolis di Lang, che era uscito muto nel 1927 (e credo in seguito cancellato da Goebbels) perché questo suo animal rationale metafisico ha i tratti allucinati degli operai di Metropolis (e anche di Tempi moderni di Chaplin). Resta ammirevole lo scatto visionario che di quella razionalità volontaristica anticipa il destino sterminatore di tutta la terra, dove l’Uomo Viaggiatore (oggi tutti) si sposta, ininterrottamente spiato, da un aeroporto all’altro, tra visibili e non-visibili catene di devastazioni che pare vogliano significare qualcosa.
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Simone Weil, citando l’Edda, nei Cahiers: «Il mondo è fatto da Dio con il cadavere del male». Ma questo ripugna alla verità, non riesco a rappresentarmelo simbolicamente, ne viene una mediocre illustrazione di grafico ateo. Invertendo la frase, invece, l’immagine si fa persuasiva e l’idea accettabile: «Il mondo è fatto dal Male con il cadavere di Dio». Per cadavere s’intende il grande Dormiente, Śiva apparentemente morto – das leblose Einsame.
149
Non sono un angelo ferito. L’Angelo ferito, che spesso mi compare davanti, non sono io. Sono soltanto un ferito qualunque della vita.
150
Ci hanno tolto Dio, il Diavolo, la Guerra, il Paesaggio, l’Amore-passione, la Poesia di rivelazione, l’Espiazione dei delitti, la Città come tendere di stratificazioni oscure a una luminosa trascendenza, le Isole sconosciute, l’Isola del Tesoro, i misteri del Corpo, dell’Anima, degli Etruschi, il parlare della Morte, il Cinema e la Fotografia in bianco e nero, i Ghiacci eterni, le Piogge primaverili, il morire nel proprio letto... Ci hanno lasciato la Famiglia dentro casa e il traffico motorizzato, i lavori sedentari, gli stadi sanguinosi, all’esterno. Se li saldi insieme, questi due mezzi inferni ne formano uno intero da cui non riesci ad uscire.
151
Sta diventando favola parlare da un apparecchio telefonico a filo, da una stanza o da una cabina, ad un altro apparecchio simile, quasi commuove.
152
Del fumo – il vizio tra gli uomini evoluti dell’Occidente sta scomparendo (dura ancora come tamas nelle classi più basse, detenuti, malavita, prostituti, politici). Nei nuovi mestieri tecnologici non ha più senso, e anche quello dello scrittore è «mestiere tecnologico». E hanno fatto breccia, negli uomini, i rischi di tumori, aver visto amici fumatori soffrirne a lungo e morirne. Le donne invece si accaniscono. La fumatrice, col verme di Nicot dentro, non è intimorita da niente. L’utopia dell’uguaglianza tra i sessi si allontana.
153
Il mio lunghissimo lavoro sul Libro dei Salmi non l’ho fatto per interpretare i Tehilìm, ma per glorificare la lingua italiana.
154
Il sacro non pensa. Ai filosofi non offre che una facciata che loro si affretteranno a demolire, ma là il sacro non c’era. Il filosofo disfa i templi, ne scalpella le statue, fa roghi di icone. Un filosofo delle legioni di Tito gettò la torcia nel tempio di Gerusalemme, il Sacro combusto gli drizzò contro nequiquam i suoi draghi sconfitti. Il filosofo, talvolta con grande acume, analizza il sacro, il quale né approva, né ammira, né smentisce: ignora chi parla a quel modo, in una lingua barbara e lontana. Trarre da una scrittura sacra filosofia è trasformare una colata incandescente in una azzurrina fiamma di gas da cucina – per riscaldare le nostre anime timide a bagnomaria.
155
Voi mangiate il vostro foie gras insieme ai chiodi di Gesù Cristo.
156
Il sacro pensa tuttora, ma con la profondità e l’ambiguità del pensare preistorico, pre-presocratico, pre-tristi tropici, pre-rigvedico, pre-cantico di Lamek, quando la ratio era nella camicia amniotica del magico, che cerchiamo di recuperare con gli sforzi dell’antropologia psicologica e dell’inseguire senza esito il femminile cerebrale materialmente e spiritualmente perduto. Palombari ne vanno in cerca per i fondali dove giacciono simbolicamente i rottami di Atlantide. Lo scettico sorride: «Se poi c’è luce...».
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Necrofilia e necrofagia, coprofilia e coprofagia sono coppie di Torri Gemelle. Dopo aver disceso tutti i possibili gradini, la sessualità, orba di luce erotica sapienziale, si dà a scoperchiare e a violare corpi in decomposizione o approda, di fagia in fagia, alla forma fagica più repulsiva, che fibbia la circolarità-gemellità vita-morte. La tenebra fa man bassa, dentro lo sventurato microcosmo umano, di tutto quello che può.
158
I rifiuti, problema metafisico. Nella civiltà che dalla fine del XVIII si è impegnata a fondo a liberare l’esterno urbano dai rifiuti, ecco non li si può più relegare nell’Erebo delle discariche, i rifiuti bruciano gli oceani, attirano il criminale ambientale, minacciano l’aria e la convivenza fitta, che stenta sempre più a disfarsene. Prima di diventare rifiuto, la materia rifiutata è accolta, perché è altro (carta vergine, alimento sano e fresco, tazza da tè, benda e cotone intatti, apparecchiatura funzionante, ec.): la sua metamorfosi rivela che era, come noi, pourriture en suspens, del nascosto di cui il brutale mostrarsi ripugna. Il rifiuto genera uno smisurato castello stregato che appartiene al regno delle tenebre dove, per quanto impastato di sottosuolo, l’uomo normale soccomberebbe, e gli strani esseri che abitano il castello vedono il mondo che per salvarsi produce incessantemente rifiuti, come montagne e montagne di rifiuti da eliminare a loro volta, accogliendoli. Questa annessione ha luogo, spazio per spazio, di giorno e di notte (di giorno si fa per dire, perché «viene il mattino ed è altra notte», impregnato di notte, ve-gam làilah). Quando tutto sarà rifiuti cesserà il gemito sulla terra.
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Nei suoi quattro libri su Alessandria, Durrell spreme l’essenza del mistero alchemico urbano, la città vive ben più dei personaggi annoiati in transito, la città è l’uomo vero, femmina e femina simplex. Alessandria è consumata dal tempo, fascino le restava: tempo e vecchiaia non coincidono nelle città... Vienna, Berlino, Parigi, Londra, Praga, Milano, alla fine del XIX erano molto più vecchie di oggi, più sofferenti e con ben più charme erotico. Vidi per la prima volta Firenze nel 1948, da prenderti per incantamento. Adesso è un’orribile megera turistica, con un poco di tramonti superstiti sui lungarni. Dopo che il David stellato nel 1967 l’ha riconquistata, Gerusalemme è entrata in una divorante vecchiaia: era giovane, nei suoi stracci, quando Allenby con Massignon e Lawrence entrò a cavallo per la porta di Giaffa nel 1917. L’accumulo di «grandi solitudini cloacali», tali da essere per la parola e la scienza psichica malamente afferrabili, sono sfiatamenti di contesti urbani di solitudine e di abbandono senile, tohu-vabohu di dolore...
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Se da Big Bang togli big e lo traduci, dire il Grande Bang lo fa cessare immediatamente di essere capito, dunque di essere mai avvenuto. È una pura presenza linguistica, un colpo di gong – BIG BANG!!!... – che svanisce.
161
Spia dell’autenticità della Compassione, la tenerezza ne restringe il campo. La compassione buddhista per tutti gli esseri viventi ne fa una pura dichiarazione di principio, è astratta come l’universale amore cristiano. La tenerezza non va oltre i pochi e qualche animale, si piglia cura di un solo angelo ferito. Non c’è né vera compassione né vera tenerezza senza alimentazione rigorosamente vegetariana: dunque tutti i preti fuori.
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Lievi mani su sterminate voragini ordiscono lunghi lunghi ponti. Hai paura ma dietro di te c’è la famosa tigre che ti obbliga a percorrere il ponte che ti è apparso per salvarti. Sul lato opposto ti aspetta un’altra tigre, più cattiva e antropofaga della prima. Cominci a sperare di non arrivarci, che la vita finisca a metà del ponte.
163
Il Medioevo si purgava (e si salvava anche, forse) mediante il pellegrinaggio. Anche il nomadismo hippy è stato uno sfogo di purgazione per lo più nella mitezza apparente di un’India riscoperta. Ma tutto questo gran viaggiare turistico, le grandi vacanze dal lavoro che si accaniscono a congiungere oceani e continenti, hanno un senso?
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Ha cessato di uccidere: la parola biblica è morta; coabita in case con altri fantasmi. Il Corano uccide ancora: vive. Quanti anni persi per sbrattarla da versioni di avvilimento, dalle croste del decadimento, quella parola! E subito lo squalo immane, cieco, del Divenire, angelo del Tragico, la ingoiava sotto i miei occhi. Exegi monumentum di sabbia che si credeva roccia, per cene e risvegli di solitudine.
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Governano, dirigono, fanno e disfano leggi, comandano vicini e lontani, senza mai togliersi dalla testa il cappuccio nero senza buchi per gli occhi, ignorando che così non possono vedere, oppure compiacendosene. Il popolo li accusa o approva immaginando che vedano dove vanno.
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Bagliori di fuoco della lingua che si ignifica attraverso di loro: meravigliosa definizione dei Nebiim (i profeti) che dà Daniel Sibony. L’ho sperimentato e posso comprendere la metafora. Quei bagliori li ho attraversati.
167
Diceva un astrofisico che dopo avere ininterrottamente esplorato e ascoltato, percorso, calcolato l’inanimato delle galassie mediante i più potenti radiotelescopi d’Europa e d’America, era certo di aver percepito il grande grido emesso dalla totalità dell’Universo, molto simile allo straziante lamento di un ferito moribondo che non riceve soccorso da nessuno – un incessante segnale di S.O.S. di viventi irraggiungibili, come se uno sterminato oceano di entità vocali (bocche temeva di dirlo) di mondo in mondo lo emettessero senza speranza.
168
L’uomo che invecchia solo deve togliere dalla sua camera il letto che sia stato della coppia che non c’è più, il letto dei suoi molti amori dove infinite carezze sono state date, scambiate e rese. Perché un letto troppo largo che ha cessato di essere condiviso è fatto di chiodi di fachiro, e non essendo un sādhu avrai soltanto il tormento dei chiodi, nessun pensiero elevato in grado di trascendere la carne orfana verrà a visitarti se ti coricherai tra lenzuola di ricordi. Dormi in un letto dove non potrai starci che tu solo, i lerci mostri dei padri del deserto non oseranno avvicinarsi.
169
Hanno preso la via più facile: deificare Cristo invece di comprenderlo.
170
Sublime ed enigmatica, in Shakespeare, grande Iniziato, la parola di Cesare, ombra, a Bruto, nell’annunciargli Filippi: «Se ci incontreremo di nuovo, certamente sorrideremo».
171
Un’altra parola di Veggente (travestita da battuta di umorismo malinconico) è nel capolavoro di Sam Beckett L’ultimo nastro di Krapp: «Con tutta questa oscurità attorno a me mi sento meno solo». Va interpretato come la percezione, da parte di Krapp, dell’affollamento, intorno a noi, delle presenze invisibili. I suoi nastri di registrazione fanno tornare alle origini misteriose dell’Audiovisivo, che aveva per fine la resurrezione vocale dei morti, fissando l’attimo dell’evocazione nell’aura del cilindro fatato.
172
Separata dalla croce ti perderà la rosa. Separata dalla rosa ti perderà la croce. La rosa e la croce unite ti salveranno, forse.
173
Me lo sono fatto dettare in russo, che non mi sfugga. Perché la frase di Dostoevskij nel travolgente ultimo capitolo dei Demoni, quello del viaggio a Spasovo – dove mai arriverà, perché Spasovo è un punto vago di spazio, come non lo è Ostapovo, con la sua stazione ferroviaria e il suo capostazione sempre in attesa di un passeggero che non proseguirà – di Stepan Trofimovič Verchovenskij. La frase russa è V bol’čsoj doroge zakljucčetsja ideja («La strada maestra contiene un’idea»). È là che il Destino nella maniera più imperiosa e imprevista si manifesta. D. commenta che, invece, in un normale biglietto da viaggio non è contenuta nessuna idea. Va pensata «strada maestra», anche se con biglietto, una rotta aerea che a quel tempo non era pensabile? Non credo: non c’è dentro un’idea, quell’idea. Quando la strada maestra si affaccia e chiama, con un suo caratteristico grido d’uccello molto simile a quelli di Max Ernst, è difficile resistere al richiamo. Allora bisogna prendere con sé un po’ di denaro e lasciarsi condurre dalla strada, come si stesse su un tapis roulant. Nel secolo in cui ombre di un sogno siamo, con un leggero bagaglio nello zaino, va tenuto presente il Manuale di Sparizione di Filippo D’Arino, che dà al partente qualche non superflua istruzione. «La strada maestra è lunga, lunghissima, e non se ne vede la fine; è come la vita umana, come i sogni umani» dice Dostoevskij: trovarci la morte, come avviene a Stepan Trofimovič, è un accidente – non la regola, e neppure il suo immaginabile, facile segreto; l’idea che contiene può ramificarsi in centinaia di migliaia di idee che hanno origine dal suo tronco primaio. Nella sua lunghezza, infinita come i sogni umani, c’è tutto il tempo, una volta incamminati senza un punto dove arrivare (all’inizio del viaggio il nome Spasovo è ancora nella bruma crepuscolare) per riflettere sulla vita vissuta e per avvicinarsi, dopo innumerevoli scandagli e battute di caccia a vuoto, a Dio. «Mi sembra» dice Stepan Trofimovič «che tutti vadano a Spasovo». Lui si fermerà poco prima di raggiungerlo, Spasovo, e ci sarà tuttavia arrivato – e il paragone che questo imperfetto arrivo suscita è Mosè che dai confini di Moab vede sotto di sé l’Erez della promessa e in quel momento, da Dan a Bersheba, la vede tutta (Deut., 34, 1-6). Essendo la strada dell’Esodo infinita, Mosè si ferma (perché la sua, dixit Kafka, non è che una vita umana) e il suo morire non è un esser morto (Deut, 34, 1-6), mentre laggiù, oltre il mare, alle porte di Atene, scoronato e trasfigurato, anche un cieco che fu re di Tebe, bastone bianco di sventura purificatrice che una meravigliosa figlia guida fino ai margini del borgo di Colono – dopo aver udito la bol’čsaja doroga chiamarlo col suo grido di uccello strano (Edipo a Col., 1586-1666) –, si ferma, senza fermarsi, e la sua assunzione da parte delle pianure invisibili (ἂσκoπoι πλάκες), in cui la strada maestra prosegue senza fine, ne svela la numinosità essenziale. Come per Mosè, non ne hanno interrotto il cammino né la terra né il mare.
Oh Stepan Trofimovič! La sua strada maestra, morte reale in una povera locanda di Russia irreale, rivela se stessa come Grande Pensiero («Come vorrei rivederli tutti! Non sanno... non sanno di contenere in sé, anche loro, questo Grande Pensiero, questo pensiero di eternità!»), una visione anche più potente dell’addormentarsi di Mosè coi padri e della sparizione di Edipo. Al termine di questo mio brancicare, credo di aver compreso che cosa significhi l’idea che la Strada Maestra di Fëdor Michajlovič contiene.
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Un fine autentico può fare a meno di speranze e anche di ogni probabilità di essere raggiunto.
175
Il Vuoto che parla: «Il futuro dei giovani». Specificato: «Il futuro dei nostri figli». Proiettano i loro generati in ciò che non esiste, ed è come li buttassero da un aereo senza paracadute.
176
La Terra non rimpiangerà l’uomo, né l’Uomo la terra. Una coppia troppo litigiosa, che con le sue urla disturbava gli astri vicini.
177
Senza un’idea, simile a un filosofico filo a piombo, della commistione tra umano e angelico, la genesi, l’apparizione, il mai scontato esito nelle anime di una grande (ma davvero grande) opera di poesia, sarà sempre l’inconcepibile. Se non cerchi l’angelo caduto (malato o ferito) non troverai il poeta – sarebbe come averne notizia in una lingua sconosciuta.
178
Eros come castigo. Sesso (nozione vaga e vacua), erotismo, passione, deviazione procreativa (come Allah, Eros non genera e non è generato) non sono tanto colpe, quanto in realtà espiazioni di colpe ignote. Si può ripeterla in tutti i letti e i momenti dell’amore sessuale la domanda dei salmisti di Babilonia e di Gerusalemme: «Dimmi, Signore: che cosa ho fatto di male per meritarmi questo?». L’accento del penitente ebraico su tale domandare invano è posto ossessivamente. L’illusione magicissima prodotta da Maya ci costringe, talvolta, a credere di essere stati, o di esserlo in quel momento, nella fugacità prodigiosa di un incontro riuscito, felici (ma Lucrezio avverte, dotto di filtri afro: surgit amari aliquid – allora, proprio – quod in ipsis floribus angat). Lucrezio, IV, da 1058 a 1287, descrive, senza considerarne l’impenetrabilità originaria, una parte (Haec Venus est nobis) dello sterminato castigo venereo: e Lucrezio ha vista lunghissima, però non può vedere tutto, occorrono altri testimoni, una moltitudine infinita di mortali, che la pena hanno patito senza poterla guardare in faccia, senza poterla comprendere dentro parole...
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Nei libri c’è mese e anno in cui avvenne il decisivo incontro di Calvino predicatore errante col riformatore Farel, che lo costrinse a fermarsi per convertire e purgare dal peccato la città di Ginevra: questo fu alla locanda della Tête Noire, nel luglio 1536. Per sapere anche il giorno ho interrogato il pendolino radiestesico, proponendogli una serie di date. Al sette ho avuto risposta affermativa. Dunque l’incontro del destino per Ginevra e Calvino avvenne il 7 luglio 1536. L’iscrizione famosa in gotico del castello d’Issogne ricorda che un anno prima, 1535, si cessò di dire la messa a Ginevra. In veridiche carte la data completa dovrebbe trovarsi, ma se per caso fosse diversa e mi venisse detta io mi atterrei a questa, ricevuta per via radionica, magico-occultistica, perché quella che era stata fissata, se non dalla predestinazione divina, dai Fati, è la vera.
180
L’imperfezione dell’umanità sia nel bene che nel male: una massima di Laclos nelle Liaisons. Ma variano le proporzioni: i punti di debolezza e di ritiro del male, che lo rendono imperfetto, sono molto scarsi (è miracolo che ci siano) mentre nel bene gli squarci prodotti dalla pervasione maligna sono da Titanic che ha urtato. Non regge la dottrina rinsecchita della teologia ufficiale cattolica del male come privatio boni, mentre regge, con qualche vacillare sulle gambe, l’idea del bene come provvisoria diminutio mali. È nel male che l’umanità ha sfiorato spesso ogni giorno l’assoluto della perfezione. A guardarne l’evoluzione storica, si direbbe che lo persegua. Per strappare un atomo di perfetto bene, quanto prezzo di fatica!
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In tedesco e in inglese Liebe e love vengono dal sanscrito lobha, che significa avidità. Il Glossario Sanscrito dell’Ashram Vidya alla voce LOBHA allinea Lobha-Love all’elenco dei Sei Nemici dell’uomo: desiderio, collera, avidità, illusione, orgoglio, invidia – «tutte le passioni che rivelano la natura inferiore dell’uomo». Commenta Osho: «l’amore che noi conosciamo, in realtà, non è altro che avidità mascherata, avidità occultata». Non fermiamoci lì: ciascuno sa che è, misteriosamente, anche altro.
182
Se le gesta isolate della benemerita scuola cinica fossero diventate la regola (la regola del Nessuna Regola, del nessun controllo e intoppo sociale), la convivenza civile come ancora la subiamo, sempre meno liberi nei movimenti, nel parlare, nell’urinare (perfino nelle sepolture, spazi dei colombari) sarebbe stata impossibile. Fumi di Caos ci avrebbero cullati, non avremmo imposto chiuse alle acque né alle città mura. Meno sangue versato, più straccioni; poca terra coltivata, poco lavoro alle ostetriche, nelle zone fredde nessun abitante, nudismo vuole caldo. Nelle Utopie si è tentato spesso di uscire dalle galere della civiltà, nessuna finita bene. Oggi l’unico orizzonte pensabile è la schiavitù illimitata.
183
La verità è che l’uomo è un falso Dio e il più falso degli idoli. Non dobbiamo esitare o essere tiepidi nel tirar giù e farne a pezzi le statue. Giù dai piedestalli, come i bronzi indecenti di Lenin, Mussolini, Stalin, Saddam Hussein! Fare questo Yoga liberatorio, ripetendo IO RINNEGO L’UOMO. Rinneghiamolo questo simulacro dell’essere uomo davvero, questo manufatto uterino che non sarà padrone di un Sé, che sarà fatto correre su rotaie e rotaie appena avrà messo fuori la micidiale testa! Rinnega, rinneghiamolo con serrate meditazioni questo scellerato che si è impadronito da stupratore sadico della terra per farne un inferno mai potuto immaginare da nessun veggente antico, da nessun pittore di Giudizi Finali cristiani. Sì, Hieronymus – lui vedeva, lui vide giusto, vide che cosa siamo e diventiamo. Anche qualche pittura indiana di Samsāra fa perfette radiografie. Via dall’uomo, via! Pietà, non esaltazione. Aristotelicamente, orrore e pietà, ma di questa poca. Dentro noi stessi lo dobbiamo esecrare, tanto da cessare di riprodurlo, di mostrarlo con stolido orgoglio al resto dei viventi terrorizzati...
184
Il pudore è certamente un freno che ci trattiene dal suicidio. L’uomo teme che non siano comprese le sue ragioni del gesto, di avere torto di fronte al Dio ignoto, la donna ha vergogna di esporre il proprio cadavere, nudità assoluta.
185
Per luogo comune si fa passare la verità per una nudista. Ma se mai la incontriamo si mostra accollata come una Mantellata o addirittura avvolta in un burqa.
186
Stendhal non riuscì mai a farsi amare dalle donne di cui s’innamorava, e ancor meno Leopardi, e neppure Baudelaire, e figuriamoci Cesare Pavese: ma non ne diamo la colpa alla testa di turco dell’impotenza sessuale. C’era un eccesso di YIN nelle loro nature, e una forte penuria di YANG aperto, di Yang del riso e del sorriso. E il riso amareggiato, il riso noetico, impregnati di Yin, ripugnano all’anima femminile.
187
Quel che c’è di più rassicurante in una casa moderna, non occupata da diseredati mentali: i Dizionari. I miei sono un po’ meno di duecento, tutti li ho usati e in uso, solo il loro peso mi impedisce da qualche tempo di maneggiarli. I dizionari proteggono la casa, sono Lari e santi senza lumini. (Definiti in Giappone antenati in forma di parole). Chi fa un buon dizionario è un sorriso di bodhisattva reincarnato: è chiamato professore, ma è molto, molto di più.
188
Il filosofare di un Filosofo Ignoto sarà, necessariamente, fuori rotte della filosofia a binari fissi. Si voleva inconnu Claude de Saint-Martin perché settatore anonimo, iniziato, e non appartenente ai Lumi, quantunque non indifferente al tempo messianico annunciato dall’Ottantanove. Tuttora la sua resta una filosofia poco nota; la mia posso vederla realisticamente come una filosofia ignota di filosofo ignoto, destinata a grattare poco le menti del formicaio. In sostanza, è un’etica da viaggio lungo la Strada Maestra, l’ultimo, un breviario di vecchio che cerca, che fa ancora il Penitente e il lanternoforo rosso in questa miniera di carbone sterminata, sottosuolo dell’intera superficie del pianeta. Di diverso, il moderno Filosofo Ignoto ha la proiezione grafica, l’accompagnamento figurativo del suo pensiero sgangherato. Chi avrà voglia di capire meglio quel che avrò detto dovrà passare per le mie cartelle di disegni, insieme libro di teatro e libro di filosofia esemplificata. Nell’immagine un pensiero colpisce come una folgore, la parola fulmina lentamente, scala le pianure, invece di arrivare in vetta a volo. L’aforisma è quanto c’è di più vicino all’immagine, ma il pensiero talvolta attraversa il deserto con le carovane dei Dedaniti.
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L’esplorazione infracosmica europea, o russa, o cinese, ha per oggetto lo Spazio: nella ricerca americana la preda ambita e vera, il bersaglio di profondità è il Tempo. Una operazione della NASA, che ha portato la capsula Huygens a lambire e fotografare l’orbita saturnia in una minuscola luna degli anelli, non manca di un rilievo simbolico valoroso: Saturno, in elleno-romània, corrisponde a Kronos, il Tempo... Tempo senza mistura spazio-temporale, gemelli eraclitei Thànatos-Athànatos indivisibili, Tempo non tripartito, unità delle unioni, luttuoso e generoso combaciamento di Mortale-Immortale – ecco l’occulto nocchiero della NASA... All’opposto della scettica Europa e dell’indifferenza asiatica, che navigando in quelle lontananze-luce vogliono semplicemente annettersi fette di conoscenze per scopi interessati e concorrenziali, la NASA esoterica si affida alla valenza simbolica di Saturno: scandaglia l’universo materiale per appropriarselo smateriato, invisibile. La fionda che bruca ogni segnale che ha raggiunto, i robottini che resistono muovendosi fantasticamente nel nulla dei climi impossibili dei deserti planetari, sono là per afferrare (delirando, forse) il Tempo che i miti e gli arcani irrisolti della storia hanno divinizzato. Il mortale che si vuole non-mortale, ad ogni costo non rassegnato all’omnis moriar, è la caratteristica del sogno americano nel Ventesimo e oltre. Il più potente magnete dell’America interiore più affannata è il sarete come gli Elohìm della Genesi.
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La ricerca astrofisica non ci parla che di pianeti morti, nane bianche divorate da Buchi Neri, stelle in agonia, zone estreme da cui la vita, se mai possibile sia stata, è da anni di Brahman sparita. Per la piccola luna Titano, figlio di Saturno, esplorata dal vettore Huygens, il discorso è un po’ cambiato: là siamo forse in presenza di qualcosa di simile all’origine pre-larvale delle forme viventi che ci hanno, per connubii irrilevabili, generati. La capsula ha visto lugubri fiumi mortiferi di metano liquido in superficie, un saturnico gas di palude stigia... Eppure da quella morte liquida in movimento ecco emergere in uno slancio d’idealità insopprimibile la pallida, indicibilmente dolce, infinitamente malinconica testa di clown sul suo stelo curvato, del Fiore di palude di Odilon Redon.
191
Sunt lacrymae rerum... Accordandosi col pianto ontologico della Natura, le nostre insignificanti vicende di mortali si fanno goccia d’ambra di pensiero.
192
Una rivelazione di ciò che siamo: Sera sulla via Karl Johann, di Munch. È una enorme tela, larga quasi un metro e mezzo, che contiene un’essenza.
193
Nel verso certamente io sono stato filosofo. Adesso medito sulle cose come sulla sua collezione di rettangolini di carta violati dal timbro o vergini un filatelico.
194
Come non ritenere l’enormità di violenza – dalla puramente criminale e individuale alla nazionale e sociale – irreprimibile e inarrestabile, dal momento che tutta questa violenza tra uomo e uomo riflette un errore codificato e radicato bene, per cui diventa lecito sempre, accettabile, perfino encomiabile, premiabile e in ogni caso ineluttabile (quando non è al grido di Deus vult) violentare, perseguitare, forzare a essere altro (l’isola del dottor Moreau) tutto il mondo vivente, tutto quel che negli spazi orbitali e galattici è tecnicamente raggiungibile per i nostri disinfettati stupri? L’impossibilità di reprimere la violenza e di prevenirla con leggi miti finisce per giustificare il sovrappiù di violenza e di male delle pene capitali, il triste rimedio definitivo dell’ulzione di Stato.
195
La città dei nostri tempi è piena di mutismi paralizzanti di Cordelie incapaci di manifestare il loro amore e di papà King Lear che, non meno silenziosamente, urlano, consci di queste luci accecanti della parola che avviluppa un’ombra pietrificata.
196
Sull’origine dell’universo la filosofia è ferma, come il viandante contemplativo di Friedrich, sul versetto di Ṛgveda, X, 129: «Non c’era né il Nonessere né l’Essere...». La scienza astrofisica conferma lo śloka 3, l’acqua come elemento primordiale, ma la filosofia non ha sciolto nessuno di quei dubbi metafisici. Al CERN di Ginevra hanno affidato a una corsa vertiginosa di particelle l’insolubile enigma dell’Origine, fiduciosi di trovare nell’oracolo meccanico una risposta certa. Dove tutti sono caduti, là invece ci sarebbe chi corre senza fermarsi. L’Origine dell’Origine come potrebbero trovarla?
197
La maleducazione nelle più comuni relazioni umane è più forte della violenza nell’opera di distruzione civile.
198
Otto Gross, psichiatra ostacolato da Jung che lo riteneva schizofrenico, illustra da illuminato la schizofrenia generale dell’umanità: «Nella profondità dell’essere umano c’è un conflitto che disintegra l’unità psichica. Questo conflitto esiste in ogni essere umano; è una lacerazione psichica che ha penetrato tutta l’umanità, e la consapevolezza che ne abbiamo ci induce a considerare la sofferenza (che provoca) come ineluttabile, ad accettare il conflitto interno come qualcosa di normale». L’intera storia può essere vista come storia di questa lacerazione, e tutto Dostoevskij, e Mozart, e il chiaroscuro, e tutto ciò che siamo e saremo; Navi dei Pazzi e Carri di Fieno (Hieronymus) ne sono le circoscriventi visioni. L’esempio più grandioso di schizofrenia è il Dio di Mosè e dei Profeti, del Vecchio e del Nuovo Testamento, e non c’è psichiatra in grado di prescrivergli una cura.
199
L’uomo fa orrore. La donna molto meno, ma soltanto finché non arriverà a somigliargli del tutto.
200
Il governo italiano (astuzia o filantropia?) ha imposto la scritta IL FUMO UCCIDE sui pacchetti di sigarette. E anche «Il fumo invecchia la pelle» per distoglierne le donne. Maschile, il fumo è da parecchi anni in calo, eccetto carceri e lavori manuali – il fumo femminile è sempre più Leviatano, incontenibilmente. Le donne hanno così un’occasione in più per trasgredire. Mettete una fascetta sui libri di filosofia: LA FILOSOFIA UCCIDE. Dopo qualche mese la statistica delle vendite stupirebbe.
201
In una massima etica del Dhammapada c’è questa immagine di vecchio: il suo intristire «come un airone in un lago senza pesci». Ma si applica meglio al bisogno di amore, fame che cresce via via a dismisura mentre il corpo decade (pur stando in piedi il corpo cadente cade) e i pesci di cui il povero airone è affamato sono tutti fuggiti. Villon dice je meurs de soif auprès de la fontaine, e la fontana sono le donne, che mai darebbero un bicchier d’acqua a chi muore di sete, perché a loro appare come un riuscito incrocio tra un pollo e un Apollo; eccolo che guarda una vetrina di libri, entra in un bar e beve qualcosa, non mostra affatto di essere morente di sete.
202
L’idea che si possano somministrare stragi, mediante imbottitura di materia esplodente manovrata dal portatore o nascosta in un cofano d’automobile, in luoghi di preghiera o più spesso in un suk, tra le merci sparse sulle stuoie, i limoni, i cocomeri, tra le donne chiuse e nere e i marmocchi che giocano, e questo con cadenza misteriosamente decisa da un comando occulto, fabbricando quando è il momento, di colpo, decine di corpi smembrati e spenti sull’asfalto – rifiuta di essere accolta in qualche forma di raziocinio. Viene dagli al di là di quella che chiamiamo ragione. Sono linguate di formichiere che all’improvviso aggredisce un formicaio e lo svuota, glacialmente, senza aver fame. Un formichiere antropofago appartiene all’inesplicabile.
203
Gli assassini-bambini sono in realtà abitati da anime più che adulte, maturamente degenerate, truccate da puerizie, e da queste occupati, costretti a compiere il male, a versare il sangue. Ma giudici, avvocati, psichiatri, psicologi, sociologi razionalisti, accetterebbero mai di formulare una simile supposizione? Parecchi anni fa cercai di incontrare una adolescente di Treviglio, che aveva incrudelito fino ad ucciderlo su un amichetto di otto anni, cercando anche di indurlo a giochi sessuali, era mi pare al Beccaria di Milano, ma il padre mi pregò di desistere, con accenti molto umani, così l’incontro non ebbe luogo. La giovanissima assassina di allora sarà oggi, se vivente, una donna di più di quaranta... Il demone maligno che la possedeva allora si sarà dileguato dopo il delitto, probabilmente subito, in cerca di altri terreni da seminare di tenebra.
204
Diceva un uomo alla sua amante, nel duro torvo della passione, masculus simplex: «Risucchiami dentro la tua pancia, che mi disfaccia...». Ignorava, nella sua folle bramosia di unione totale (penetrare et abire in corpus corpore toto, Lucr., IV, 1111) che a quel modo si stava rivolgendo alla propria tomba.
205
Se questo può dirsi un libro di filosofia... Sì, considerandola asistematicamente. Inoltre il suo autore si vuole filosofo ignoto, e quantunque il suo nome dica fin da ora poco c’è nei suoi slegati e slogati pensieri circolazione di sangue filosofico – dunque... Mi viene da parafrasare un verso celebre, un verso realmente de profundis, delle leopardiane Mummie di Ruysch: «Che fu quel punto acerbo / che di filosofia ebbe nome?». Eccola evocata, non un fantasma, ma un punto acerbo, come l’esistere, come tutto ciò che nel momento di essere già era il Fu – la vita... Pascal, apologeta della Rivelazione, la schernisce: «Infischiarsene della filosofia è il vero filosofare». Un pensiero così, vissuto alla lettera, dà fuoco alle cattedre, brucia i libri; ma io mi accosto con rispetto e timore... Un professore di genio, in un libretto che trovai in quel meraviglioso antro in piazza della Sorbona che è la libreria Vrin – Che cos’è la Filosofia? (1991) –, Alexis Philonenko, osserva: «La filosofia, la cosa più stupefacente che esista e che dai cieli soltanto può essere venuta, ci invita a distinguere, non soltanto uomo e animale, ma anche mondo e universo... Perfino il nostro morire è altro da quello dell’animale: una cosa è morire in un mondo, un’altra è morire in un universo. Morire al mondo è niente, è puro sparire. Morire in un universo è abbandonare un tutto dove attraverso la storia e il pensiero avremo, ciascuno di noi, lasciato la nostra traccia, il nostro ricordo. Uno dei principii primi della filosofia è che l’animale vive, ma che l’uomo esiste». Philonenko riemerge dalla mia memoria come un’alta atletica figura, in un appartamento del Seizième; gli sto facendo un’intervista per il mio giornale: insegna filosofia tedesca e ha appartenuto ai servizi psicologici durante la guerra d’Algeria. L’ho cercato e sono qui con lui perché attirato dai suoi saggi (li ho ancora) di filosofia della guerra. Mentre lui parla, sicuro di sé e un po’ sarcastico, Cristina prende appunti, che mi serviranno per l’intervista. Di guerre se ne intende davvero... Allora mi pare insegnasse a Ginevra, nel 1991 il frontespizio dice che insegna a Rouen. Amava Israele per le sue risposte militari e tra i filosofi Fichte, Kant, Schopenhauer. Tempo dopo, da Vrin sempre, sfogliai una sua, certo inaspettata, Filosofia della boxe, che mi pento di non aver comprato... Quell’uomo singolare, di certo stato ufficiale (forse nello Stato Maggiore di Massu), amava la forza, e il pensiero, anche, come forza, ma che cosa ne avrò riportato in quella perduta intervista? E dove sarà finito in casa mia quel suo appassionante Saggio sulla filosofia della guerra, che sui due Guerra e pace, quello di Proudhon e il tolstojano, gettava luce intensa? Mentre esito nel dirmi filosofo, Philonenko m’incoraggia a non staccarmi dalla tavola dove, a suo giudizio, si mangia il pane degli angeli. Per pensare bene la propria sventura di esistere, concludeva il bravo filosofo-boxeur, occorre un coraggio che esclude il pigliare la filosofia come un divertimento (la frase di Pascal non la condivideva). E non aveva detto Rimbaud nella Saison en enfer, che «il combattimento spirituale è altrettanto brutale di una battaglia d’uomini»? Quell’aggettivo – brutale – sarà molto piaciuto a Philonenko.
206
E non è per divertimento che lascio a questo punto uno spazio tutto bianco a chi troverà questo libro, come una misura di luminoso e palpabile silenzio, dove raccogliersi e meditare come in un tempio – Stonehenge o Chartres, Santiago, Kotel ha-mmaaravì o Portico non importa – su ciò che è e procedendo dall’Ignoto all’Ignoto al suo Deus ritorna. E al centro dello spazio metto un punto, da fissare per qualche minuto, un puntino fermo e fuggitivo, tarlatura dell’Indecifrato.
207
C’è una sapienza in più, nelle pitture dove l’artista abbia collocato, anche ai limiti del visibile, come un soffio ardente, un piccolo rapace notturno.
208
L’abisso (Abgrund) che non puoi sondare, lo Yin estremo, sulla faccia del mondo è soltanto la donna, dalla prima adolescenza alla cessazione, che però conserva per anni il rossore lunare. La vera passione virile non va che all’Abisso – la donna, la divinità femminile, il Dio vivente, la Ḥokhmàh...
209
Sotto inscalfibili cautele e unghie acuminate di pudori le donne hanno imparato a nascondere (talvolta a reprimere, a dimenticare) la loro basilare, mostruosa spietatezza.
210
Il pensiero precedente si spiega forse alla luce del celebre frammento di Eraclito: «La natura ama nascondersi». Il frammento è anche interpretabile così: «La natura si ama nascosta» (tanto più ama se stessa quanto più si nasconde).
211
Nessuna donna ama se stessa, se non superficialmente, perché ha il presentimento della realtà spaventosa che nasconde.
212
Perché così tanta, sempre, compassione (la si inculca mediaticamente, dunque arriva a persuadere fulmineamente tutti) per i bambini, famosi maleamati in un modello di civiltà che scaraventa alle pattumiere tutta la Debolezza che può, tutto l’Indifeso che chiede aiuto? «I morti sono un centinaio, tra cui dieci bambini». La distinzione, senza individuazione (questa sempre manca) è fatta esclusivamente per quegli anonimi piccoli dieci, ma sotto il lenzuolo ce ne sono altri novanta, la cui fine è ben più dolorosa di quella dei dieci bambini perché, adulti, a loro è stata recisa tutta una storia personale, mentre i lacrimati bambini sono un’erba falciata tenera, se hanno radici le avranno nella Trascendenza, da cui mai la compassione prenderà le mosse. «Tra le macerie, tre bambini». E chi era con loro, prima che la casa crollasse? Dunque dove rigorosamente nessun bambino fosse presente, sarà meno infame, meno luttuoso, o peggio indifferente ammucchiare la povera carne bruciacchiata dei non-bambini in una statistica, quando si denuncia una qualche macellazione strategica di umani? (L’androsfaghìon eschileo è uscito dalla reggia d’Argo, un tempo è arrivato ai confini del mondo). Tocca ai poeti, quelli che meritano l’aggettivo di grandi, ristabilire misura e verità: Dylan Thomas dedicò versi di forte compianto per un uomo di cent’anni, ucciso sul marciapiede da un bombardamento su Londra nel 1941. Questa è pietà vera; quella che non comprende il centenario insieme a chi è nato il giorno prima è uno spregevole sputo.
Ma qui il pensiero soggiacente è la nostra, tutta moderna, ossessione biologica per la specie. Il bambino ucciso o straziato dalle ferite ha più peso e avrebbe più diritto alla compassione in quanto a lui è stato affidato l’immaginario dovere di seminare nuova sventura umana nel criminale e stupido procedere dell’inumana Storia! È distinto dal numero, ma è più entità numerica, svuotata di vera consistenza d’essere, di ogni altro numero nel carnaio dei sacrificati. Tutto il nostro puntuale impietosimento va ad ovaie e a testicoli promettenti ma immaturi, non a un Giovannino o a una Angelica in quanto persone, nel continuo ronzare degli sterminii. I vecchi, esenti dall’obbligo di spingere il carrozzone della Specie, non sono invece degni di figurare, cartellini d’ombra, nelle immagini del mattatoio di Ares destinate a fare, con adeguato commento, orrore. Nel cono di luce violenta l’asilo infantile bombardato si beve l’intero compianto; l’ospizio con una trentina di Alzheimer, di crocifissi alle carrozzine con le loro infermiere, decine di corpi mostruosamente ustionati o sepolti sotto macerie, accende un tacito sollievo. Nell’invisibile non ci sono ovulazioni.
213
Oh epitaffio di Sicilo! Approdo luminoso, figlio di una Sofia che non mente! Eccolo, a voi che andate per i meandri della vita senza il soccorso delle antiche voci: FINCHÉ SEI VIVO RISPLENDI. NON TI AFFLIGGERE TROPPO. DURA POCO, LA VITA. IL TEMPO BRAMA FINIRE.
214
«PER INDISPOSIZIONE DEL MESSIA LA STELLA DELLA REDENZIONE SARÀ VISIBILE PROBABILMENTE IL PROSSIMO SABATO».
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«Ho potuto osservare, dal giorno della mia caduta» dice l’Angelo Ferito «che la casa dell’uomo giace, fluttua su uno sterminato oceano di tenebra, che metafisicamente sorpassa i confini del pianeta che ne contiene le storie. È una sensazione delle più sgradevoli, ma non sembra gli uomini ne abbiano consapevolezza. Chissà se mai qualcuno pensa che i sotterranei da loro stessi costruiti in numero infinito (metropolitane, fognature, depositi di macchine con ruote, cunicoli per fughe, rifugi antiatomici, gallerie sotto montagne) diventano immediatamente parte del mondo sotterraneo, del mondo degli Dei ctonii, e che di fatto allungano, allargandone il dominio, le mani della Tenebra verso le case soprastanti? E quale senso dare al verso di quel famoso poeta tedesco veggente: “Poeticamente (dichterisch) abita l’uomo”? Dopo due secoli lo stesso poeta manterrebbe ancora quel conturbante aggettivo?».
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Mangiare conversando, discutendo, narrando, rievocando: fatica da sconsigliare, purtroppo arcicomune: così sprechi parole e ti guasti in perpetuo la digestione. E (heu pudor!) quando le macinatrici hanno lasciato il posto a una malferma protesi, è davvero meglio mangiare soli. Mangiare ascoltando letture sarebbe ideale, purché non ti venga impartita patrologia latina; riposanti invece le cronache criminali. Mangiare soli in compagnia di voci della radio sarebbe oggigiorno la soluzione migliore, il rischio è che ti rovescino in tavola menzogna politica, nefandezze pubblicitarie, esortazioni papistiche, buoni propositi sportivi, statistiche di Borsa, gastronomia. La soluzione dei coraggiosi è di non ascoltare che la voce interiore. Questa però riduce di molto i superstiti piaceri del gusto. Filosofare anche a tavola mi pare troppo.
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Dall’ospedale Broca, dov’era ricoverato Cioran, all’ospedale Necker, dov’era in fine quasi di vita Ionesco, Simone la moglie di Cioran portò al drammaturgo questo incantevole messaggio di estremo conforto: «Digli» le aveva detto Cioran «che ci ha reso sopportabile la vita». (Non la rese a se stesso, Eugène, beveva, lo tormentava l’irraggiungibile Nobel, divenne bigotto, ma di alcune sue pièces si può ben dire che furono un dono). Dei tre grandi romeni di Parigi, nello scatto famoso di Saint-Germain-des-Près, il primo ad addormentarsi coi padri fu Mircea Eliade, nel 1986, a Chicago. A Ionesco toccò nel 1994, a Cioran l’anno dopo, in giugno. Dopo averne curato i diari per Gallimard, Simone sulla spiaggia amata di Dieppe si fece dall’onda gelida portare via, dai ricordi, da tutto. Sono felice di averli conosciuti entrambi, frequentandone la casa per una quindicina d’anni, dopo aver dedicato a lui un’intervista. Abitavano in una mansarda di tre camere soffocata dalle carte, dove Simone mi cucinava un pessimo, immangiabile, ma molto affettuoso cuscus, e dove la presenza quasi palpabile dell’Entità Pensiero spalancava la vista dei cieli. (Luoghi tremendi e dolci dell’insonnia eterna, senza rimedio: la poltrona di Céline a Meudon nella veranda che dava sulla Renault di Billancourt, il giaciglio in disordine di Cioran in Rue de l’Odéon). L’anno prossimo, 2009, sarà già il centenario della nascita di Ionesco, per il quale avrei ben voluto, Dio aiutando, creare una regìa rinnovatrice della Cantatrice calva, ma i teatri hanno respinto come di scarso interesse la mia primaverile proposta. Troppi ormai riconoscono in quei dialoghi di pura demenza il loro stesso gergo quotidiano.
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Meno famosi, ma non minori, altri romeni del XX: Culianu, Ghyka, Noica, due esoteristi e un filosofo amico e corrispondente di Cioran. Culianu morì in un modo dei più strani: mentre sta urinando, in un gabinetto di locale pubblico, qualcuno, da sopra, dall’esterno (ma come ci sarà arrivato?) gli spara in testa. Punito per aver capito qualcosa del mistero del mondo...
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Sia sul delitto di sangue che sulla pena c’è fortissimo il sigillo di Maya, che lascia tutto indeterminato. In un certo senso il giudizio, quando ha il segno della verità e della legittimità, è reso fallace dalla sua inafferrabilità e indefinibilità principiale, se l’origine delle origini è Brahman, mentre un giudizio falso, una montatura sinistra, un equivoco tragico, il sacrificio dell’innocente, rispecchiano, sia pure brumosamente (simbolicamente) gli inganni di Maya. Ma non può esistere civiltà umana che si voglia Stato se non compiendo ogni sforzo per non farsi ipnotizzare da una gibigianna per cui l’oggettività del crimine coinciderebbe con la sua inaccoglibilità metafisica. Penso a questo quando mi accade, seguendo le cronache, di condannare mentalmente un colpevole certo a morte – con l’approvazione silenziosa delle Erine.
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I confini dell’Universo si perdono in tentativi di calcolo senza fine. Havèl havalìm. I confini del Male non c’è calcolo o supertelescopio che possa rivelarli, si confondono con Ciò-che-è (se addirittura non sono l’Essere – forse che Samsāra è bello?). Faccia oscura di un Mister Hyde dell’infinito. Dimmi: quale ostacolo ha mai fermato un sicario, un inviato del Male? Il fortilizio più vigilato del mondo, nel 1940, lascia passare senza sospetti, bardato d’armi nascoste, un messaggero turpe di Arimane, Ramón Mercader, che neppure mezzora dopo con un attrezzo da alpinista spaccherà il cranio a Lev Davidovič Trotzkij. E c’era forse l’angelo di Abramo a fermare il braccio, a paralizzare la volontà di Ygal Allon, quando sparò a Rabin, nella città degli ebrei?
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L’unica vera beatitudine dell’infanzia (età votata al Minotauro, l’età più tradita) è l’incoscienza delle miserie del corpo. Poi, via via, tali miserie, naturali, astrologiche, attirate, inflitte dal destino, i corpi che per breve tempo le avranno ignorate o avvertite poco, dovranno subirle come pirati di Pompeo e seguaci di Spartaco chiavellati lungo le vie consolari.
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Come negare che il Denaro può tutto? Rende sopportabili perfino i nostri sempre meno, negli anni, governabili sfinteri, purché si paghi qualcuno per governarli. Dunque, sfinteri deboli, siate tempestivamente analo-accumulatori di scorte di denaro all’uopo.
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A prezzo di uno sterminio incessante di minimi, infimi, visibili e invisibili esseri viventi, un’abitazione può mantenersi pulita. Perché la sporcizia non è una cosa: vive, è strenuamente vivente, è materia senziente che vivendo nasce e muore: ed è aggressiva, dal suo silenzio ci ringhia e minaccia di continuo. Per non farne invadere le nostre tre camere con bagno condominiali, mansarde, uffici, seminterrati, occorrono sicari, gente pagata e indifferente, che sa come perseguitare la vita in ogni angolo della casa, a orario fisso: la donna delle pulizie.
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La spada di Macbeth è irresistibilmente un’attortigliata spada celtica, come celtiche sono tutte quelle teste parlanti. La favola primordiale è una visione celtica che un genio ha trasformato in una tragedia esemplare. L’origine del malocchio, che nelle isole britanniche, e anche in America, si è ossessivamente certi emani dalla pièce (Peter Brook neppure la nomina, dalle scene inglesi è bandita) potrebbe essere in uno sciamano narratore delle antiche foreste mitopoietiche in cui sopravvivessero influenze impurgate di spiritazioni infauste, oppure in una irradiazione, dal campo elettromagnetico che è la scena, della segnatura impressa nel personaggio M. (meglio essere cauti: scriverne il nome per esteso meno che si può) dalla stella maligna Algol, la testa terribile di Medusa (protagonista in ombra, che appare in più versioni, e guida implacabilmente gli atti) com’è descritta nel paragrafo sull’immagine-madre di M. in un meraviglioso – alla lettera: fonte di meraviglia – saggio di Jean Richer (Prestiges de la Lune et damnation par les étoiles, Les Belles Lettres, Paris, 1982). E con una stella simile non ci sono facili scongiuri che tengano: poteva sfidarla Shakespeare perché era lui, e Shakespeare era totemico, apotropaico, era Nehustàn, serpente di bronzo vivente innalzato a proteggere i suoi attori del Globe, anche dopo morto, ma per un tempo limitato. (Il pugnale che io vedo come lama celtica, della visione atto secondo, prima scena, è probabilmente metamorfosi della Medusa). Un’altra causa d’influsso malo è nel fatto, pensabilissimo, che gli spiriti del Male evocati da Lady Macbeth in atto primo, scena quinta, non restino imprigionati nel suo corpo reso neutro, per sempre sterile, monte Ghilbòa‘ elisabettoide, ma vaghino disseminati in cerca di luoghi dove buttarsi, in mancanza dei maiali dove li scagliò Cristo. BISOGNA USCIRE da questa trappola per tigri astrale e ctonia, per il bene e la vita del Teatro! Prima di mettere in scena la pièce scozzese (come la chiamano i teatranti) la compagnia tutta quanta, con l’aiuto di un occultista realmente affidabile, farà bene a sottoporsi ad un rito purificatorio sufficientemente prolungato e solenne. Oppure, una notte, a Stonehenge, una radunata di attori, registi, tecnici consci dei Mani del poeta, recita coralmente la celebre battuta dell’indemoniamento buttando poi su un falò acceso e alimentato bene copie del testo in più d’una edizione. Già è faticoso interpretare una tragedia così grandiosa e difficile, ma almeno non guadagnarci dei guai importuni! M. è del tragico sublime, del tragico assoluto, come l’Orestea, come l’Antigone: è indecente susciti panico e fughe la sua apparizione nelle locandine di lingua inglese.
225
Il latitante non è uno che applica per sé la grande massima di Epicuro «vivi nascosto»? E allora perché gli si dà la caccia per infliggergli una pena? Per farlo vivere più nascosto in una prigione di Stato? Il latitante più imprendibile e famoso è Dio, da migliaia di anni gli diamo la caccia e sappiamo che il suo vivere nascosto – da ben prima di Epicuro – è per sempre.
226
La cometa che guida i Magi caldei alla Casa del Pane (Bet-leḥem, Betlemme: dunque forno, un forno tiepido, non grotta di presepe) è anonima per gli evangelisti. L’ipotesi di un astrologo, Renzo Baldini, in uno studio sull’oroscopo di Gesù (in «Linguaggio astrale», 2, 2006, rivista non in commercio) è che si trattasse della cometa di Halley, in uno dei suoi periodici transiti intorno a Shàmash di vagabondo celeste – la stessa che corse a vedere, prodigioso vegliardo di novantuno anni, nel 1986, in un punto dell’Asia orientale, Ernst Jünger. Il nome, alla cometa dei Magi, le venne soltanto nel 1682, da Edmund Halley: chi sarà in questo mondo potrà salutarla, la vecchia polverulenta, nel 2062. In base a questa ipotesi l’astrologo fissa la nascita di Gesù quando la cometa passa al perielio nella notte tra 4 e 5 ottobre del 12 a. e.v., e di conseguenza al 22 dell’era nostra, trentatré anni dopo, in epoca di Pésaḥ, la morte. Tra le necropoli dei dintorni di Gerusalemme, un archeologo israeliano, nel 1980, ha individuato un sepolcro di famiglia dove tra gli altri nomi si decifra quello di un Yeoshua ben Yussef (Gesù figlio di Giuseppe), ma se anche fosse quello il luogo della sepoltura, e provato, chi potrebbe deviare verso quella località le vie della devozione al Santo Sepolcro, accendervi ceri, sentire un contatto col Divino, o anticipare la data del 25 dicembre, dal solido fondamento pre-cristiano e pagano, al 4 di ottobre, giorno in cui morì Teresa di Ávila ad Alba de Tormes, cento anni prima della scoperta di Halley? Una fittissima rete di enigmi religiosi insolubili ci grava addosso e se ne fossimo coscienti ci immobilizzerebbe come gladiatori vittime di un reziario romano.
227
Un pensiero di Hebbel squarciatenebre, nei suoi Diari, 29 luglio 1837: «La bestialità si è infilata dei guanti sulle zampe! Questo è il risultato di tutta la storia universale». (Dalla traduzione dell’eroe triestino Scipio Slataper, di soli frammenti, ma forse l’unica esistente in Italia, presso l’editore Carabba nel 1912). È possibile che la grave sconvenienza di porgere nel salutare una mano guantata si origini dal pudore di rivelare al tatto qualcosa degli artigli della storia universale.
228
La vecchiaia maschile, una comunità smisurata d’infelici in Occidente, è un dramma dell’amore che deve rimanere e volersi puramente immaginario per non precipitare in eventi di umiliazione, di squallore, disprezzo di sé, in superflue aggiunte di irosa insofferenza, di superflua sconsolatezza. Il mio Gineceo di Gayuk esiste, lo si ama, lo si vive solo nella certezza della sua irraggiungibilità. Raggiungerlo, è l’esperienza di una o più stanze vuote, di un giacimento di manichini. In tre soli versi in cui passa e si travasa nell’ascoltante un’emozione realmente senza limiti, Miguel Hernández (morto giovanissimo, voce castigliana inaudita) accenna a un accadimento taurino di stupore:
(El rayo que no cesa, 26)
Eccolo là, il toro che non molesta più nessuno, che non dà più cornate, che senza un atto di pietà andrà ai macelli in periferie ai confini dell’elettricità, il toro che la lidia non ha voluto, che non dà più niente (neppure per l’obbrobrio dell’inseminazione artificiale gli resterebbe una goccia nella sua condizione solitaria) – e che cosa succede al di sotto di quella «fronte tragica e tremenda»? Una colata di assurde lacrime, un oblio insensato del suo essere «toro e mascolino», una orgogliosa vergogna, un’onta fiera di essere stato e aver tanto patito per disperdersi nel Mai Più...
229
Sparite, le mosche. Nuvole di gas venefici sparsi per loro e per noi, le hanno sterminate. E poi i buoi, le vacche, le stalle, le loro alcove preferite, chi li ha più visti? Alle 13,20 del 31 agosto una mosca (l’ultima al mondo?) è nella mia cucina, mi molesta ma non cercherò certamente di ucciderla. Che viva, forse finirà al museo. Le mosche dei miei ricordi, campagne del Chierese, erano milioni, le trappole di vetro con l’aceto e le strisce pendenti dal lampadario erano sempre nereggianti del Dittero persecutore. Al cinema veniva mostrata in documentari prodigiosi una mosca ingrandita migliaia e migliaia di volte per metterci in guardia, per atterrirci, per non permetterle di piombare sul risotto allo zafferano direttamente dal più vicino letamaio. Un jaina si sarebbe fatto divorare, noi, implacabile Occidente, studiavamo armi chimiche per la perfezione del Moschicidio. Eppure l’abitare poeticamente (dichterisch) dell’uomo sulla terra comprendeva anche il poetico abitare di quei maleamati esseri volanti, infima immensità di vita che a suo modo si opponeva alle forze disgregatrici, alle mani guantate di bianco della Morte.
230
Facile è amare insetti che troviamo bellissimi, rari, figli del musicale ronzare lontano dei Tristi Tropici – difficile l’amore per mosche, scarafaggi, zanzare. Se li ami, se gli concedi un angolo della tua carne perché si sfamino, sei già rinato Buddha.
231
Franco Volpi sul «Corriere» propone per Filosofia in giapponese il termine TETSUGAKU. Tetsu = chiarezza mentale, vivacità intellettuale; Gaku = insegnamento, studio, Talmud-Torah. Se afferro bene: dottrina impartita in vista di uno stato di nitore mentale, di una superiore lucidità. Manca, essenziale, il rapporto con la Sapienza, la Sofia incarnata, l’occhio e il becco della Ḥokhmàh che fa udire il suo grido sulle piazze. Alla chiarezza mentale basta una tazza di tè Gyokuro o Bancha, ma la Sapienza, dice il ventottesimo di Giobbe, abita lontano.
232
Il monoteismo biblico e islamico, questa decapitazione integrale del Divino policefalo, questa insensata instaurazione (autocrocifissione?) del Divino nello squallore di un po’ di sabbia e pietra, domina ancora tutte le nazioni del mondo.
233
Il greco dei Tragici mi è più comprensibile e traducibile avendo a lungo lavorato nel semitico biblico dei Profeti e dei Salmi. È il profetismo messo in collegio nel detestato paese della Filosofia.
234
Leggo su «El País» di un ignorato ripugnante gesto del maresciallo Pétain: quando morì, esiliato in Francia e ricercato da Franco per mandarlo al muro, Manuel Azaña, presidente dell’unica e malvissuta repubblica spagnola, Pétain gli negò esequie da Capo di Stato e pretendeva che la bara fosse avvolta nella bandiera del bando nacional e non nella repubblicana (era il novembre 1940), offesa postuma evitata perché l’ambasciatore messicano, gesto nobile, l’avvolse in quella del suo paese. Vichy fu in tutto un regime schifoso, indifendibile, e ha avuto un Céline!
235
Antonio Machado aspetta da oltre trent’anni un fiore da me, che transitando da Collioure nel 1977 ebbi la colpa di non scendere dal treno. Perché è verissimo che certe tombe rischiarano l’anima e su quella di don Antonio Anna Caterina Emmerich avrebbe infallibilmente avvertito l’abitazione di un grande angelo ferito. Morì appena uscito dalla sua terra madre insieme alla madre carnale, Ana Ruiz che, dice Benjamin Prado nello stesso articolo del «País», mentre li risucchiava con la marea dei profughi la frontiera francese, andava ripetendo: «Ma a Siviglia, quando arriviamo?». Era il 28 gennaio 1939. Neppure un mese dopo don Antonio moriva all’albergo Quintana, e dopo di lui la madre, di ottantacinque anni, «bellezza tragica» dice di lei l’introduzione delle Poesie complete, Espasa-Calpe, Madrid, 1981. Inizialmente, traducevo Machado in versi italiani senza amarlo, stupidamente lo ritenevo un poeta lacrimoso e pascoleggiante: invece è una forza, una roccia, con capigliatura di nube fiammeggiante che ricade in musiche di asciutta passione astratta, una delle voci necessarie del Destino umano, un veridico oracolo castigliano. Il povero Filosofo Ignoto, suo inutile fratello, gli rende questa testimonianza come rinascente fiore.
236
La grande poesia è filosofia con l’aggiunta di un paesaggio dove qualcuno, in solitudine fraterna, grida. L’insieme è regolato da uno spartito musicale senza regole – per un unico strumento a corde (la voce). In questo come nei mondi lambiti dal calcolo astrofisico o raggiungibili da sonde di esplorazione del Vuoto, il poeta autentico nel significato più moderno è quel che la Morte (sua madre, sua compagna, sua Elettra, sua sorella-amante) dice in Döblin: Ich bin nur eine Stimme. Quando sbarcando all’Isola di Böcklin gli verrà chiesto il suo nome dirà: «Non sono stato che una Voce».
237
Il Teatro di strada (arts de la rue, on the road, ec.) andrà esteso alla filosofia. Una tenda, un lume, qualche nota nascosta di shamishen o altre corde, in luoghi senza traffico di rumori, o anche in brusìo di fiere, in corridoi di ospizi o di ospedali, e una piccola cerchia di Giardino o di Portico che ascolta qualcuno leggere Epitteto, Heidegger, Schopenhauer... Una donna uscita per fare la spesa, sostando là, dovrà dimenticarsi di rientrare per un’ora obbligata a casa, scordare un appuntamento di Eros triviale, un postino di consegnare la posta. Per ragazzini diretti inutilmente a scuola, la Tenda Filosofica dovrà essere come il piffero di Hamelin. Liberati da scuola e famiglia ritroveranno le ali angeliche che gli furono tagliate insieme al cordone materno.
238
Uno dei più brutti (cattivi) pensieri del mondo è nei frammenti di Pascal: «Infischiarsene della filosofia è vero filosofare». Il verbo è se moquer (modernamente vale s’en foutre). Brutto, spregioso e falso, pessimo insegnamento. Non te ne infischi, naufrago, sprofondato nel fango di una fogna, condannato a morte – di una pertica, di una corda, di una ciambella di gomma, di una mano amica! In tutto il pellegrinaggio lungo la strada maestra delle lacrime, in tutto l’arco della sospensione sul baratro dell’esistenza, E OLTRE, la Filosofia è là. E tu per filosofare davvero ti metti a schernirla, butti i suoi farmaci e i suoi libri dopo averci pisciato sopra? Anche da questo mio libello insignificante Lei ti parla, anche qui vocatus atque non vocatus deus la sua mano ti chiede silenzio di ascoltante – e ti potrebbe dar voglia di ridacchiare, di sfregiarla, così pallida e innocente, con un temperino? Così sfregi tua madre, tua sorella, la tua amante senza tempo, mentre puoi solo raccoglierti e ringraziare! Ma c’è un seme di delirio allucinato da cui quel brutto pensiero è mosso: per Pascal la religione è il sovrano appiglio. Che cosa avrebbe detto di questa riformulazione del suo calpestamento d’iconoclasta: «Infischiarsene (se moquer de) della religione è veramente essere religiosi»?
239
Nelle penose pene e mortale morte del corpo perché lavarsi? Perché, diceva incantevole sempre la mantellata terziaria senese: «da ogni parte del corpo gittiamo pucza». Quanto a lei, nata e cresciuta nella pucza dei conciai di Fontebranda, disperdeva la propria nelle macerazioni. Passano secoli di alti e bassi dell’umano puczare e arriviamo a circa la metà del XX e il lavaggio e rilavaggio del corpo si fa atletico, incessante, via via ossessivo (emblematica la Blanche Dubois di New Orleans, la folle del Tram di Tennessee Williams), doccia e vasca, vasca e doccia in cadenze giornaliere, pucza si ritira nell’ambito morale, e guarda, nella storia chi arriva? Némesis la Castigatrice, l’eccessivo consumo di acqua l’ha evocata, le guerre per l’acqua si profilano, piene di pucza, perché il Limite posto dagli Dei l’avremo abbondantemente, fra tanti rubinetti che scrosciano scrosciano, oltrepassato (ύβρις).
240
L’umanità (come insieme di nazioni con caratteristiche proprie e comuni in una realtà inospitale) pensandola profondamente cessa di esistere. Un mago di teatro con un gesto ipnotizzante te la fa scomparire in un fiat. Quando Truman prese la decisione di sperimentare la bomba sulla carne dell’uomo aveva di fronte un «problema strategico», l’illusionista gli aveva oscurato la visione dell’umanità. Questa è meglio rappresentata da fasci di linee e punti colorati di Kandinsky che da immagini di grandi folle in movimento. Che un Dio-Demiurgo ci veda come noi guardiamo un Kandinsky è un pensiero dreadful, che agghiaccia.
241
L’amore è un volo che sfugge ai radar della percezione.
242
Luigi XIV e il Clistere mattutino: il Sole in eclisse. Liberato dalla tenebra accumulata nel ventre, il principe tornava a risplendere.
243
Quando si ha un vero linguaggio, la lingua corrente è parlata come attraverso il rantolare e il singhiozzare spento di un’estasi medianica. Si fanno domande a chi non può rispondere, a chi è soltanto una Stimme.
244
Se il colon è intasato, l’uomo cessa di essere cogitans. I filosofi non considerano, per pruderie, questa, più ovvia che crudele, condizione.
245
Teosofia e Antroposofia sono pur sempre Filosofia. Metto con Schopenhauer, Husserl, Heidegger, Rosenzweig, anche Blavatsky, Steiner, Gurdjieff... a tutti va il nostro Save Our Souls di disperati.
246
L’Ecologia non è roba per governi, spenzola nel vuoto dalle ringhiere politiche. Il pensiero ecopolitico esiste in barlumi dispersi. L’economia figuriamoci... È problema squisitamente filosofico ma la filosofia non può caricarsi di questo Deposito, che ha gli occhi innumerevoli del destino umano e dell’angelo Maschìt. La palla finisce nelle buche della religione, che non può smuovere i governi ma potrebbe convertire, guidare, risvegliare, eccitare alla guerra eco-santa escatologica irresistibili moltitudini. Ma non avrebbe più per complice e fine Oppressione e Distruzione; la vocazione tacita della religione tradizionale è di non intralciare, e di favorire quando può, il lavoro del male. Perciò scacco matto, il re (la vita della terra) è ormai morto.
247
Almeno la corsa alle Colline Nere aveva in mira un metallo luccicante, visibile e pesabile; la febbre dell’oro aveva un senso sinistro, ma un senso... We are a violent Country in a violent World... La feroce America dell’epopea Western, ingoiata dal Tempo... A poco a poco l’allucinazione del denaro cartaceo e di banca si è impadronita dell’intero pianeta, con intelligenza di spiriti malvagi al servizio di un Gott Nichts inesorabile. Cinesi e Indiani pregano le divinità superstiti per il denaro. La Russia postsovietica è sanguinario denaro incarnato. Per tutta la notte, quando finalmente la banca riposa, il Bancomat ti riempie le tasche provvisoriamente vuote. Un malvivente di passaggio che ti vede raccogliere quasi con la lingua la moneta di carta che vomita una fessura, moltiplicato ano del Caprone sabbatico, è tentato di ucciderti mentre sei assorto in quell’arrobamiento di morte: se non passa all’atto è per il tuo fargli pena. Ti risparmia, angelico, come David risparmiò Saul accovacciato nella caverna di En-Ghedi.
248
La carità intellettuale: per Ernest Hello, consisterebbe in un poco di ammirazione. Per chi fa libri, una recensione su mezza pagina di giornale. Ma la pietra va al mucchio. Eccomi qua, sui gradini sudici di una chiesa (oh Dio, non una cattedrale famosa!) col mio ultimo, ultrasettantesimo libro. In sette-otto mesi, sarà molto mi abbiano gettato altrettanti centesimi. Certe volte, di carità intellettuale neppure l’ombra di un centesimo. Così s’impara che scrivere, combat spirituel, è un atto di ascetismo.
249
Il suono della propria voce che ne invoca un’altra muta o ammutolita è il tonfo, da una finestra che dà su un fiume, tra file di case che non mostrano presenze umane, di una testa buttata in acqua.
250
La bellezza non si ferma ai semafori. Legittimo multarla.
251
Mein Wort errette mich! (Ingeborg Bachmann, «Mia parola salvami!», Rede und Nachrede). Grido dell’individualismo narcisista estremo, grido di un senso dell’abbandonamento per cui neppure l’Elì Elì del salmo 22, già di confine, vale. In mancanza di ogni altra salvezza, la grande poetessa la invocava dalla propria parola, dalla sua confessata impotenza di agire. Quanti, e dei più grandi d’Occidente, hanno gettato lo stesso grido, immaginandosi salvatori di sé? Naufraghi che mimano il naufragare proprio rendendolo permanente, al di là delle loro stesse vite! È come se l’Urlo di Edvard Munch, invece di espandersi nel fiordo fino ai flammantia moenia mundi in un mulinello di onde sonore, fosse emesso da una bocca sgangherata tra le mura senza eco di una stanza resa sorda dai troppi libri – da una bocca rosa del nulla, aloe sradicato dal vento dei deserti futuri, che si dispera per non poter essere udita da tante carte scritte accumulate.
252
Poter rassicurare un Dio che ascolta: «Non sono venuto per ucciderti, ma per rianimarti!». Sacerdozio della parola.
253
Un’eco infinita può risvegliare nelle anime la Voce dell’attrice che ripete le ultime parole di Sonja in Zio Vania, che le accarezza tristemente i capelli: Riposeremo, riposeremo... In russo la loro dolcezza è struggimento allo stato puro: Djadja Vania, my otdochnem... my otdochnem... La didascalia di Cechov è delle più pregnanti, e fortunatamente meno difficile per la regìa della «corda che si spezza» che torna due volte nel Giardino dei ciliegi (la chitarra sommessa di Telegin, Mar’ja Vasil’evna che scrive sui margini di un foglio – sui margini, segnale di un esistere limbico! –, Marina, la balia che fa la calza... un gruppo statuario, con Sonja inginocchiata accanto a djadja Vania, degno di Camille Claudel). Ero chiamato dalle messinscene cechoviane, avrei trasmesso emozioni, ma il Tempo è fuggito, ho dovuto limitarmi ad immaginarle, come per Woyzeck, per Elettra, per Spettri, per L’Assommoir – mi è mancata la cosa decisiva, la Committenza...
254
È stata ritrovata, in una tomba egiziana della XX Dinastia, tra i fiori e i frutti che inghirlandavano una regina, un’ape rimasta là per qualche millennio a non più finire il suo lavoro di operaia. Intatta, salvo la rottura di un’ala. Non saprei trovare in questa notizia da vivre en curieux, un pensiero qualsiasi che risusciti quell’ape in un povero homo cogitans. Questo prova che Shakespeare, per bocca di Horatio, dando alle cose nascoste di cielo e terra il primato sulla Filosofia, aveva, come sempre, ragione. Quell’ape in un sotterraneo funebre di una regina può, forse, significare qualcosa.
255
Si va sgretolando il cristianesimo europeo più mussulmano: quello di Sefarad – la Spagna dei re cattolici. Il Camino de Santiago è oggi un’esperienza senza centralità né fine iniziatico, un’avventura atletica da tempo di vacanze, un percorso per atei. I Mori torneranno e rianimeranno una fede fanatica che si va raffreddando e imporranno la regola del libro unico – il Kitāb. Per ora, a distanza di settant’anni dalla fine della Repubblica (i credenti massacrati, gli atei accecati e bruciati), possiamo dire che la Repubblica, storicamente, nella contienda vinse.
256
L’avvenire sarebbe dei disperati, se tali per motivi rari e sublimi. E nessuno li consolerà. E la luce brilla nella tenebra – e la tenebra non la raggiunge.
257
Dice, in un paio di versi, Antonio Machado:
Tolgo rispettosamente a don Antonio questo dubbio: nelle cripte dell’anima non ci sono voci, ma echi soltanto, e il pianto è un eco che proviene fin là da una infinita lontananza, da un’origine che sempre resterà sconosciuta.
258
Vista dagli spazi extraorbitali l’umanità cessa di esistere. Da una modesta altitudine del pensiero l’umanità cessa ugualmente di esistere. E così da una vetta alpina o andina... Quando mai sarà esistita? Qualcuno potrebbe interrogarsi su di lei come da prima di Platone ci interroghiamo su Atlantide: c’era davvero? e dov’era? chi l’abitava? E ci affanniamo tanto, per una ipotesi di Fu che È, dopo aver ucciso Dio, a volere che almeno un coccige polveroso faccia da testimone a dei deserti senza tracce?
259
Non chiamatela Economia: è una enorme trappola. Il vero economologo lo sa. E sa che quella fibbia sospesa sarà fibbiata nel sangue.
260
Se sei amico della vita devi essere nemico della riproduzione umana. Se ami gli esseri umani, guardati dal riprodurne la specie. Chi alza davanti a sé la lanterna dell’Eremita e si fa guida nella tenebra, avrà dietro di sé uno stuolo di figli non carnali. L’urbanista sta nel cuore della megalopoli inorridendo all’idea di aumentare anche di un solo essere le folle per cui edifica quartieri e case. La tenebra è feconda. La luce è sterile.
261
Se avete parole d’amore disoccupate, il loro luogo non è nelle Raccolte Differenziate. Buttatele nel vento, nella notte: all’orecchio (ai visceri disperati) di qualcuno nella stretta di questo speciale tipo di fame, fino a completa consumazione.
262
La vergogna di avere fame d’amore va tenuta sotto chiave, coperta dalla massima di Epicuro: Nascosto vivi.
263
Quando si è conosciuto il vero linguaggio, trasmesso dalla scrittura, che a fatica torna a riaprirsi il varco verso l’essere compresa quale veicolo di divinità frantumate, la lingua parlata corrente diventa impronunciabile – pura barbarie. Sembra la si parli tra i singhiozzi e i rantoli di una transe medianica. Si sono visti gli Dei e ci ritroviamo seduti su un mucchio di spazzatura.
264
In un mondo di sconfinato spionaggio elettronico di tutto l’esistente il supremo elaboratore dei dati è il colon.
265
L’orrore specifico dell’Erodiade di Mallarmé (J’aime l’horreur d’être vierge) è proprio della Democrazia ideale, intatta vedova dei popoli.
266
Sulle labbra dei grandi morenti (ma talvolta dei comuni) le ultime parole pronunciate sono tracciati spirituali. Van Gogh disse a Theo: C’est inutile La misère durera toute la vie. In un’altra versione tramandata misère ha tristesse al suo posto. Era a letto, al caffè Ravoux, il giorno dopo lo sparo (27 luglio 1890) e i medici l’avevano appena visitato, non gli era apparso grave il suo caso. Theo glielo disse, come se questo potesse confortarlo e la risposta di Vincent fu: «È inutile... ec». Che cosa era inutile? Intendeva forse: è inutile che me la cavi, che ne venga fuori, la (mia) miseria (questa miseria, la sciagura che mi perseguita) ha da durare tutta la vita, non c’è nulla da fare, meglio se finisce adesso...? Non credo Vincent abbia detto, invece di miseria, il più tenue tristesse. Miseria, al plurale, è in tutta la sua pregnanza anche nella mia Canzone per Vincent Van Gogh (1965), dove si evoca la tomba dei due fratelli tutta ricoperta d’edera nel cimitero di Auvers-sur-Oise:
Le miserie: su tutte Vincent ha pianto, e queste tutte gli sarebbero a mucchi a mucchi sopravvissute. Ma nelle sue parole d’agonia serena, miseria non può che riferirsi a lui stesso e la sua messa avanti vale un gesto di scongiuro: «Basta, non fatemi vivere oltre, non sapreste mai consolarmi, trentasette anni così sono un’eternità». In due emistichi di Leopardi (Le Ricordanze, 83-84) inutile e miseria sono associate per significare l’insignificanza della intera vita: Non ha la vita un frutto, / inutile miseria. Nel fallimento esistenziale di Vincent va compreso anche il suo modo maldestro di prendersi di mira: invece del cuore il proiettile gli attraversò l’intestino – e viaggia ancora.
267
Non ci sono fiori nelle abitazioni degli assassini.
268
Arriva come un lampo di vertigini la verità che nelle cripte scritturali la torcia elettrica di Spinoza togliendo strati di polvere pietrificata esplora. L’imperativo mut (muori «sul monte sul quale salirai») detto dal Signore YHVH a Mosè che abbraccia con lo sguardo la Terra in cui non entrerà (il Luogo che appena intravediamo e ci fulmina) in Deut., 32, 50, è necessariamente un futuro in forma imperativa, perché come si potrebbe comandare a qualcuno una cosa che (in questo caso Dio a Mosè comanderebbe il suicidio) dipende da una causa esterna? La citazione è nel Compendium Grammatices Linguae hebraeae, lasciato inedito tra le carte di Baruch quando morì nel 1677, al capitolo XIX (Il verbo derivato passivo). Naturale, perfino spontaneo sarebbe tradurre: «Morrai, devi morire ora, il tuo destino si compie su questo monte, ec.») facendo dell’imperativo un rigoroso indicativo futuro – eppure anche i grandi traduttori moderni (Lutero, King James, Dhorme, Buber – e perfino la rivedutissima Nova Vulgata vaticana) traducono erroneamente, alla lettera, «muori sul monte» Deut., 32, 50! Ma il getto di luce di Spinoza va ben oltre un’osservazione grammaticale. Tra i suoi accessi mortali di tisico Baruch faceva ancora scaturire, lavorando da sublime filologo semitista sul testo amato, le sue pericolose verità di filosofo. Infatti Dio, essendo Necessità assoluta, non può prescrivere nulla a niente e a nessuno, il suo presente eterno è privo di passato e di futuro – a Mosè viene semplicemente annunciato che nel decreto divino atemporale è scritto che in quell’ora e in quel luogo Mosè debba morire, dopo che avrà visto dal monte l’Erez. Nella forma imperativa Dio si nasconde, perché il suo ordine è già eseguito ab illo tempore. Le conseguenze teologiche sono incalcolabili, perché se a Dio è impossibile qualsiasi comandamento, che lascerebbe la decisione a chi viene comandato, la trasgressione si perde, soltanto nella penuria della misura umana può conservare il suo nome.
269
Davanti alle vetrine della Libreria Vrin in piazza della Sorbona, mi dice il Filosofo Ignoto, guardando i titoli e lottando con la tentazione di entrare, mi sentivo realmente, intimamente filosofo – una sensazione di vivere nel prodigio, in una profusione di altitudini, come da viaggio notturno del Profeta ad al-Quds o da punto d’arrivo alla stazione ultima di un pellegrinaggio. Dunque i libri, quei libri dove s’intrecciano come in foreste di segni metafisici di Kandinsky i tracciati della mente che agitat molem, universo parallelo, non sono soltanto cose stampate con un titolo attraente, cucite insieme a volume: VIVONO, comunicano altri contenuti anche se non li sfogliamo, o versano quello corrispondente all’argomento, per una operazione di pura fantastica magia bianca, nel riguardante di là dai vetri, colpito da un’arcana fascinazione. Ed eccomi, in quei momenti, liberato dalla croce di sentirmi nulla in mezzo alla folla e ai rumori e ai gas tremendi, dalla vergogna di non essere nient’altro che un tubo di povera materia che cammina.
270
«Epicuro saluta Meneceo. Se sei giovane non tardare a filosofare; se sei vecchio non rinunciare alla filosofia». Questo è saper cominciare una lettera, questa è una lettera. Perché se si rifiutano i doni della filosofia, è in gioco la felicità stessa, l’unica possibilità di avere una sorte felice, di averla come proprio Demone (ἐυδαιμoνία). Chiaramente lo scopo del filosofare non è tanto la verità quanto la felicità. O almeno: cercando la verità trovi la felicità, l’unica sperimentabile, la calma interiore, il chiarore di regioni lontane. Ma sono felici i filosofi? Una vita di rinunce, di dono non compreso, di imbrattamenti in ciò che è nemico della filosofia, si può dirla felice? «Nessuno dei mortali dirò beato» dice il coro dell’Edipo Tyrannos. Forse è nel pensare questo, l’impossibilità tragica di essere, in quanto mortali, felici, che la eudemonia è sfiorata. La felicità, caro Epicuro, ci perseguita: per appropriarsela ci siamo consegnati ai demoni malvagi e questo mondo è perduto. La filosofia è utile soltanto a capirlo un poco, a dire come tu dicevi al discepolo che è tempo sempre di filosofare.
271
A una grande solitudine (monaxià) basta talmente poco perché si popoli di sorriso... Ma l’attesa si prolunga, vien buio, nessuna finestra s’illumina.
272
In ogni epoca di cui ci possiamo ricordare, e al mille per cento nei secoli XIX – XX – XXI (da qualche anno micidialmente iniziato e del cui corso scire nefas) da dove provengono i nostri più profondi, importanti, confortanti o inquietanti pensieri? Per lo più da: mattatoi senza numero e senza sabati di carne umana; sepolcri dimenticati volendolo o no aperti, sui quali i Risorti (luminosi, ambigui, cattivi) celebrano un viavai di continue Pasque paoline; roghi di libri che ardono e arderanno fino al termine delle notti.
273
Ho eletto la discarica, non i giardini di Academo.
274
Pittura come pensiero che non cessa di fluire –nei limiti della fragilità materiale: le Meninas, la Tempesta, Hieronymus, Redon, Van Gogh, i Paesaggi Urbani di Sironi, gli Angeli di Klee.
275
È vero. Non li ho mai visti. Non potrei averli visti. Eppure, in Fiandra, nel 1914 (portavo l’elmetto di Giorgio V) sono certo che mi apparvero gli angeli di Mons.
276
Filosofia è alchìmia. Arcifilosofo è Baudelaire quando nell’Epilogo dello Spleen (abbozzo pubblicato postumo) chiama la Città a testimone dell’essere stato il suo Perfetto Alchimista, di aver trasmutato tutto il suo fango in oro.
277
Inabissandoti nella luce, porta con te una pila tascabile.
278
Orazio getta lo scudo a Filippi, ma con in mano la lira greca, cortigiano timido, impugna la spada dei vincitori.
279
Kandinsky vedeva l’impronta fortissima, in un tram stipato, dell’individuazione. La sua osservazione, acutissima, dice che vediamo queste creature umane, successione di volti e di figure, come ciascuna separata dal proprio destino, allontanate l’una dall’altra dai limiti nettissimi dell’esistenza oggettiva. Artista e pensatore in quella massa di costrizione vede ogni soggetto come unità, non come sperduta particella di caos urbano: di più, ne contempla «l’estrema bellezza»... Giustamente la prefazione della traduzione francese di Lo Spirituale nell’Arte è intitolata Kandinsky filosofo. Separare quelle unità anonime che si pigiano malamente, discernerle come volti di bellezza è da artista; non liquidarle come plasma confuso vicino al nulla, scrutarle nella loro oggettività è da filosofo, da raccoglitore d’uomo, che sia su binari sferraglianti o sotto cielo stellato.
280
Quando si estingueranno i piccoli rapaci notturni, spariranno i filosofi.
281
Milano Centrale, ore 19
282
La guerra 14-18 è stata scavata più dell’archeologia biblica – manca però (novant’anni dopo l’armistizio) di una definizione che la collochi, evento altrettanto capitale della Rivoluzione Francese, oltre il cerchio di fiamme, in una realtà metastorica (nell’Invisibile delle Provenienze destinali, dove sono le chiavi dei grandi Perché), che certamente gli artisti e alcuni soferìm presentirono e poi intuirono e afferrarono. Forse che l’aggettivo Grande ne scosta un po’ il velo d’Iside? Nel ripensarla Ernst Jünger come Esperienza Interiore andò al cuore del suo significato? Io sono attratto a pensare la guerra di Quattordici, non vissuta da me secondo lo schema anagrafico, molto più di quella in cui c’ero, tra 1939 e 1945, perché Quel-che-io-cerco negli Eventi, brancicando, forse è nascosto là.
283
Il più straordinario degli innumerevoli enigmi umani è l’esistenza (certa, dimostrabile, indubitabile, e sempre nuova sotto il sole) – qua e là – dei buoni.
284
Non erano guerrieri. Erano dei maldestri e costretti combattenti. A milioni questo inaudito tipo umano sbuca, a un comando, da sottoterra, dove convive con le talpe, i topi, i vermi e la perfetta impurità cadaverica-escremenziale – e dove corre? Incontro alle mitragliatrici appostate che li fanno rotolare sopra la terra dove saranno tornati per qualche minuto, con l’inutile arma in pugno. Il fucile, nella Grande Guerra, fu impiegato infinitamente meno che nelle guerre passate la spada e la sciabola. Molto di più furono usate le armi bianche, riapparvero perfino orribilmente le mazze ferrate dei carnefici. Chi fuggiva dall’obbligo di mai uscire dalla carneficina era fermato come un assassino, coperto di vergogna e fucilato (qui furono impiegati brillantemente i fucili). Su quei campi spaventosi desertificati e bruciati tutto, niente escluso, è foresta di simboli, una sterminata foresta di simboli, che ancora attendono, quasi supplicano, di essere decifrati.
285
E questo mostro, che nell’anno più cruciale del secolo (1917), tutto corazzato di ferro, con un intero equipaggio di uomini ammaestrati nei visceri, a un movimento di leve sparisce dalla superficie dove il suo becco nero fendeva le onde, scende scende e dalle profondità oceaniche vomita ordigni esplosivi contro gli scafi delle navi – da dove è emerso, chi avrà plasmato la sua dreadful Simmetry? E anche di lui, battezzato, dal suo modo di esistere, sommergibile, l’U-Boot dell’ingegneria tedesca, si può dire che, al di là delle spiegazioni tecniche e strategiche, anela al riposo su un fondale metastorico, nella luce della speculazione astratta che sola può trasmutare in oro alchemico di miracolo la sua penosità di Golem arroventato e gelido, insieme a tutto quel groviglio di tenebra interrogante che fu Guerra detta la Grande, enorme cimitero di morti in emersione questuante per terre e mari... Dimmi, Zio Vania, una risposta – gliela daremo?
286
Il Tragico imperiale d’oggi, d’Occidente e d’Oriente, è l’impossibilità, per l’Imperatore, di praticare il Wu-Wei. Sarebbe ben presto deposto e decapitato.
287
La narcisofobia è la condizione dimenticata della filosofia.
288
Il Segno alfabetico rivela gli Dei ma non ne ricompone il Volto frantumato o ne lascia ritrarre l’intero in ritiro. Il panìm del Signore YHVH è nel Tetragramma – però Qualcuno dalle Quattro Lettere oppone una monocromia nera di Malevič ai vostri petulanti cellulari smaniosi di fotografare.
289
Né filosofi né profeti sono mai venuti dal mare.
290
La Lunga Marcia dello Stato Vaticano inventato da Mussolini nel 1929; ora sappiamo che fu l’inizio della rioccupazione di Roma da parte di un potere antirisorgimentale destinato a stringere l’altro tra le pareti di vetro in movimento del mimo di Marceau... Il Vaticano è la nostra Cina; l’Italia il suo Tibet – ma senza baluardo spirituale di Dalai Lama, invertebrata, arresa per obbligo e vocazione all’iniquità.
291
Schopenhauer amava un frammento di Euripide: «... tutta la terra è per l’uomo libero una patria». Euripide usa, per terra, il femminile χJών, che potrei tradurre la Ctonia. La Ctonia è, della terra, più il sotto che il sopra, ne è il Sotterra col suo coperchio, un coperchio non seminabile, dove si affollano incarnati e disincarnati, corpi d’ombra e ombre, una Lemùria. Se è questa la patria dell’uomo libero, concessa all’ἀνδρὶ γενναίω, il nostro guinzaglio è corto. Cielo e Pleroma l’uomo libero e nobile li può soltanto contemplare senza de profundis, e la perdita di patria, il suo smarrimento di patria non ha inizio né fine.
292
Il corpo che invecchia è il carnefice eretto ogni giorno a punitore spietato di tutta la propria passata innocenza.
293
Incubi del Non Ancora. L’inno nazionale che in piazza del Quirinale, davanti ai Dioscuri, accompagna le lapidazioni della sha’arìa.
294
Alcune delle più grandi invenzioni del XX – antipiretici, antibiotici, voltaren, cortisonici, psicofarmaci, ipotensivi, ansiolitici, e pannolini e pannoloni assorbenti – che cosa raccontano, se non l’infinita miseria del corpo umano, la sua ingiustificabile umiliazione di ogni momento, la sua dipendenza schiacciante dalle oscillazioni delle forze della morte, l’accecamento di una ragione che lo fa insuperbire quando gli capita di stare in piedi su una ruota mentre tira un vento da Highlands che fa volare tegole e rompere ormeggi – momenti in cui le forze nemiche si distraggono per bere una birra...
295
La Pastorella che andava incontro alla Vergine Maria oggi sarebbe avvistatrice di UFO e contattista di extraterrestri. E non sarebbe affatto, neppure ora, un’allucinata.
296
I soldi metteteveli nella cassaforte delle chiappe. Noi vegliamo in attesa della Vergine di Luce. Maràn-athà.
297
Quasi sempre, la comprensione degli altri (nonostante il vedantico «Questo sei TU») si ferma dopo breve tratto, a cose da poco, viste come insormontabili oggettive separazioni. Io non comprendo chi va in giro senza copricapo, o non indossa maglietta di lana da corpo; non comprendo neppure chi aborra l’aglio, o metta molto sale, o preferisca il caffè al tè, o beva dello Champagne. Non posso comprendere l’intera umanità carnivora, salvo nella civiltà della renna. Per le feste in cui si mangiano tacchini e agnelli arrivo a un rifiuto di ribrezzo... A volte, le cose più gravi permettono maggiori comprensioni; verso i crimini ci sono gradi, gradini, sfumature tra intolleranza e comprensione. Non mi è comprensibile nessun tipo di sadismo, nessuna violenza su donne e bambini, o vecchi. Qualche apertura l’avrei per l’assassinio politico (mai per l’ideologico!); in qualche caso sarei disposto ad appropriarmene (Domiziano, Marat, Madame Nhu e il suo sposo). L’ultima esecuzione capitale in Italia, nel 1947 (per la strage di Villarbasse), l’ho vissuta e l’approvo tuttora. Tutto quel che è disumano mi è impossibile comprenderlo: rassegnarcisi non è comprendere. Il suicidio si è obbligati a comprenderlo sempre. Non comprendo, tra le donne, le sconosciute che non rispondono al sorriso. Comprensioni e incomprensioni non sono sempre fisse: fino a venti e più anni fa non comprendevo nei suoi meccanismi di perdita e morte la vecchiaia: adesso ci sprofondo... «Quel TU sono io».
298
Alligatore mi sembra indicare, più che un animale, un mestiere. «Mio figlio fa l’alligatore a Bologna. Un altro fa il formichiere a Berlino. Si trovano bene».
299
Ilozoismo è bellissimo, è seducente, parola e dottrina – ma va accolto con un certo scetticismo. Una volta l’umanità ridotta al silenzio, quale fremito percorrerà le pareti di roccia? La costellazione del Granchio porterebbe il lutto? Poi guardi una tela di Van Gogh, e la tela stessa, infuriata da quel paesaggio incandescente, s’illumina di Vivente.
300
L’empietà verso i morti va crescendo. Le sepolture sempre più vergognosamente affrettate ne sono un segno. I riti si riducono e scompaiono. Ci avviciniamo all’ignominiosa massima di Eraclito: «Buttate via i cadaveri più dello sterco» (Diels-Kranz, 96). Non come, non alla pari di; ma più, peggio che (κoπρίων); cesso dei cessi, poveri refaìm, enigma fetido, terrificante, ma ancora degno di Sfinge. Nel magma dei frammenti, Diels-Kranz, 27 (Diano, 113) mi restituisce il filosofo.
301
Una dürftiger Zeit (Epoca di penuria) può essere fermento di molte idee.
302
Il poeta che scrisse, tra il carcere di Orihuela e quello madrileno del Conde de Toreno, durante il suo calvario estremo, nel 1939 appena iniziato, il sonetto dell’Ascensione della scopa, è il più grande di tutti. «Incoronate la scopa di lauro, mirto, rosa» esorta, letterale, il primo verso. In quei quattordici versi è contenuto, in un aperto e segreto linguaggio di rivelazione, il riscatto degli esseri umani – tale come lo si può trovare nel cap. 53 del Deuteroisaia: perché la scopa, proprio la scopa-oggetto, la scopa scopante dei pavimenti e delle strade, nella parola di Miguel si manifesta come incarnazione ed esposizione del Servo del Signore. Coronad a la escoba... discesa dall’Altitudine per liberare, eroe come l’Alcide delle stalle, tutto e tutti dalla polvere oscuratrice, dall’essere latrina e pattumiera. Scopa che bisogna immaginare al lavoro nei corridoi di luridi carceri per rifiuti umani di una guerra civile. A lui, povero Servo deuteroisaitico senza sacralizzazione postuma, possiamo con fervore rivolgerci: «Vieni a salvare queste nostre fradice stremate scope».
303
Molte cose sono cambiate e cambieranno nel nostro modo di non esistere.
304
Il nero numinoso è porta degli Dei chiari.
305
E poi, che cos’è un uomo – nel finito?
306
Quasi testamento. Gli stigmatizzati della vita dovranno aver cura della tomba da sempre vuota dell’Angelo Ferito. Ma sulle vette del pensiero assassinato, qualcuno, nitidamente in cresta apparso, «seguitemi» gli dirà?
307
Il Nero Numinoso (N.N.) come rappresentazione della Porta della Legge di Franz Kafka.
308
To the happy few. Vertigini di caos che si fanno Albero di Conoscenza. All’improvviso un pensiero come questo di Karl Reinhardt nel 1948: «È proprio della consapevolezza filologica, di aver parte in fenomeni che la trascendono» può compensare di qualsiasi mentale fatica.
309
Una ratio di significativa penuria annaspa senza esito e senza spiragli nel giudicare la realtà di superficie dei fenomeni di questo immane suicidio ambientale collettivo degli umani. Emettiamo ininterrottamente opinioni prive di ogni capacità autonoma di vederli come evento spirituale molteplice e uno – necessitato o dipendente da possibili entità maligne, arimanoidi, usurpatrici della Psiche umana.
310
(Riassumo, per ricordarmene, alcune mie meditazioni sul Tragico). La violenza della speranza dell’Elettra sofoclea oltrepassa i limiti della tradizionale vendetta di sangue (così come, comparativamente, in Amleto ne resterà al di sotto). In Elettra è una brutale passione in sé, in un moto orbitale reso udibile di giustificazioni decorative. Foglia di fico trasparente... Oreste, lo Sperato, l’Atteso, il Pellegrino del Sangue, è degradato a sicario, dalla sorella e dal ruolo. Viene per uccidere; poi l’ingaggiato e l’ingaggiatrice scompaiono; il tormento delle Erine in Sofocle è del tutto assente (e sarebbe oggi significativamente indifferente). Il sangue versato, della madre e dell’amante – Egisto è immolato come un bovino –, scorrente dai gradini, rimane solo, e la Terra (Adamà) grida finché la sua voce, da mettere tra le «addolorate» della Loraux, si spegne. Il linguaggio sublime del poeta tragico (come recuperarlo in una traduzione adattante?) ha da reggere tutto questo. (Domanda da seminario: ci riesce?)... Una messinscena geniale, un po’ dalla parte della madre, vittima di una figlia assetata di sangue, sarebbe igienica. Sottoposto ad analisi, il movente vero di Elettra apparirebbe la gelosia incestuosa per il padre morto, e la Gelosia, dice il Cantico, è dura, inesorabile come la Morte.
311
Neppure una politica di pura menzogna (totalitaria o di degenerazione repubblicana) è più tale. Brucia anche le menzogne l’incalzare della guerra escatologica. E dove i politici non mangiano MAI soli – come avrebbe voluto, lucido come la spada di un samurai, Saint-Just – c’è il germe di tutte le menzogne e di tutte le degenerazioni.
312
Alla luce del Tragico il mondo non è inesplicabile.
313
NASA non è che una sigla. Ma dietro a questo schermo qualcosa d’impensabile è al lavoro spenzolandosi trapezisticamente fuori dei limiti gravitazionali di questo piccolo angoscioso pianeta. E alla NASA (non è mia soltanto questa congettura) sanno qualcosa di più di quel che dicono sapere – un qualcosa che non ha che fare con la disinteressata esplorazione di vulcani morti e lune caduche del nostro sistema solare, a caccia di tracce d’umido e di batteri in letargo da miliardi d’anni. Questo qualcosa può essere la percezione di un pericolo d’invasione da mondi extrasolari, come intuito da Wells e reso in terrificante messaggio radiofonico da Orson Welles nel 1938. Psicologicamente tutti, in Occidente, siamo preparati a questo, come alla fortezza Bastiani si aspetta la nube di polvere che annuncia i Tartari. Ci sono forse già ora un FBI e una CIA esclusivamente dediti a fenomeni astrofisici.
314
Sofocle e le donne. Elettra non pensa. A Tebe Creonte pensa, Antigone no. Quel che fa vivere più a lungo Creonte è il pensare, Antigone si appende. Giocasta e Dianira non pensano. Tekmessa pensa, Aiace no. Clitennestra pensa, ma il non-pensare di Elettra sbrana la madre.
315
(Parafrasando Max Beckmann). Meglio leggere la Bibbia o Nietzsche nelle desolazioni di Marte che mangiare e trincare bene nelle retrovie del fronte di Ypres.
316
Con l’illuminazione a gas delle città la filosofia dei Lumi svanisce. Resta un grande vuoto, quello dei Lumi era l’ultimo Dio che avrebbe potuto essere l’unico. Il Sacro superstite sarà affidato ai poeti.
317
Un verso di Antigone, condannata viva al sepolcro, illumina il caso di Eluana Englaro e degli sventurati come lei condannati ad un coma vegetativo interminabile cui la legge impone di non aver mai più fine: ἒρχoμαι τάφoυ πoταινίoυ (Ant., 849): «mi avvio a una tomba mai vista» (insolita, inaudita – sarei tentato di tradurre mostruosa). La relazione impressionante col coma vegetativo (irreversibile) che non può essere interrotto, salvo a sfidare le leggi e la sentenza di Creonte, si accentua nei tre versi che seguono:
L’angelo del Tragico mi indica Eluana nel momento in cui è portata (mentre scrivo, pensando a lei e ad Antigone, il suo abitare da meteca in una mostruosa tomba clinica entra nel diciottesimo anno). Non è una Antigone, questa piccola vittima del potere medico-religioso, ma ne ha avuto e patisce tuttora la stessa condanna al bilico spaventoso. Il potere del Destino si esercita sui piccoli come sui grandi: «Terrificante è il potere del Destino» (Ant., 952). Magnifico commento in George Steiner, Le Antigoni (pp. 302 sgg., ed. it. Garzanti). Ma capire Antigone, senza finire obbligatoriamente nel contrasto trascendente delle due vie, dell’amore e dell’odio, ma comprendendole e andando oltre, resta bandiera, tuttora sperduta in lontananze del pensare, di filosofico enigma che filologia e teosofia congiunte possono provarsi a togliere dallo sconforto. Io piglio da tempo Antigone come sorella, e la interrogo, coabitando con lei ogni tanto. Prima di essere ingessata come anarchica e femminista, dice, io sono la guida di un padre cieco (Edipo a Col., 1) per il quale dò nomi ai luoghi fino al river of not return nelle cui onde entrerà lui solo. Può partire da questo, una messinscena incaricata di creare il personaggio per la prima volta?
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L’argomento radiante per un seminario sul Tragico potrebbe essere questo: CHI È ANTIGONE? pensando che ti viene incontro, su ruote traballanti, la stessa irrisolta Iside velata.
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Con l’arrivo della patata, dall’elevato contenuto di Materia, è cominciata la despiritualizzazione dell’Europa. Purtroppo ne siamo diventati schiavi: sono pochi a non amare la patata e a diffidarne. Io stesso ne diffido ma tutti i giorni mangerei patate. Anche l’invasione di erotismo bruto è lavoro ctonio nel secolo XIX dell’alimentazione a base di patate. È riuscita anche a farsi riscattare dai mangiapatate di Van Gogh e dall’Angelus incantevolmente patatolatra di Millet. L’intero mondo germanico e lo slavo sono in ginocchio per dipendenza alimentare dalla patata. È probabile che dietro tante mancate scalate a Dio di filosofi geniali ci siano diete dove prevalgono sia la carne che la patata. Doveva restare en la mata, da cui fu tolta...
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Dice il Filosofo Ignoto: non è da ciechi accecati non voler comprendere che l’enorme pressione e compressione che da tempo esercita crescente la giustamente chiamata Rete (Web – rete che avvolge nel bagno Agamennone nudo, perché l’eroe tornato stanco riceva il colpo di scure mortale dalla sposa che lo assassina) è opera delle forze occulte e indecifrate del Male, implacabilmente all’attacco della specie umana, unica portatrice del Logos che è Dio stesso? La Rete ci avviluppa come i serpenti di Laocoonte, suggerisce crimini, offusca le coscienze, fabbrica denaro infero, e non ci sarà pasqua sul suo passaggio ustionante di violenza e di morte. Chi ha orecchie che intendano, intenda. Sradicate quest’albero di morte dalle vostre abitazioni senza barriere. (Mai nessuno lo farebbe: questo ci dice la potenza del male).
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Una radio manda in onda ripetitivamente come sigla pubblicitaria un pezzo di oratoria di un uomo che fu storicamente un buono, venerato tuttora in tutto il mondo come un redentore, Martin Luther King, e nel brano è contenuta la sua frase più famosa – I have a dream – accolta da un immenso coro plaudente elettrizzato magnetizzato. E non ho nulla, per quanto ne so, da rimproverare a quell’uomo buono, e la banalità della frase gliela posso passare, tutto dipende dai momenti del profferire. Una cosa soltanto mi è intollerabile di quell’angelico rappresentativo: il suo essere un predicatore. Quel pezzo di predica mi riga l’anima. È tutto un volo dai toni altissimi, che certamente non ha per fine il mentire, eppure provoca nausea perché l’oratore vuole che tutti gli ascoltanti si tatuino sul cuore che «lui ha un sogno», un sogno che si estende all’America tutta e al mondo, al mondo dei neri, ed è destinato alla storia senza fine degli eventi messianici... Annuso in quella persuasione così bene fabbricata dalla voce predicante qualcosa di demoniaco, la presenza, negli altoparlanti estensori del volume, di uno spirito maligno all’opera, sogghignante. E la causa dell’apostolo è benemerita, l’avrei approvata anch’io in astratto – è la predicazione in sé che è maligna, antitetica alla liberazione dalle catene che diffonde... L’uomo che pensa non predica, non ha microfoni, non zarathustreggia, imbavaglia ogni tipo di sonorità che non sia un discorso piano, emenda il linguaggio, evita d’informare sui propri sogni di bene futuro – in verità tende a non fare. È già molto non risvegliare credenti, agitare con leggerezza le foglie di tè perché l’acqua bollente ne assuma appena il colore, il tè della verità predestinato a pochissimi.
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Libri. Quanti di noi sarebbero naufraghi senza speranza in una notte atlantica, senza le voci che si levano e ci chiamano dai libri.
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Per il buon uso dei momenti storici creduti irripetibili. Lawrence d’Arabia bisognava, un minuto prima che entrasse anche lui con Allenby a Gerusalemme, ucciderlo. I Turchi, grazie alla rivoluzione kemalista, diga antislamica legittimata di salvaguardia, sarebbero stati i guardiani ideali della Terrasanta dopo il collasso della Porta – purché avessero tollerato, non sovrano ma autonomo e alleato, lo stesso Erez d’Israele del 1948. Ma i figli d’Israele dell’«anno prossimo a due passi da Gerusalemme» sarebbero rimasti passivi e quieti? Quién sabe / lo que se traga la tierra!
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O benedetti Mani di Spinoza, Kant, Mendelssohn, Schopenhauer, Michelstaedter, Šestov, Rosenzweig, Dostoevskij, Rensi! Su quale terreno avete sparso i semi della vostra, e di tutti, filosofia! Questa è una umanità che si nutre male, che sta perdendo il lume dello scrivere manuale, che dorme e va di corpo per stimolazione chimica, che ha stravolto il senso delle coltivazioni (OGM), che si spruzza addosso fanatismi, che si riproduce come il coniglio delle Baleari, che aborre parlare della morte e rifiuta di pensarla, che ottusamente respinge le cieche speranze, che fa dell’orgasmo sessuale, sadisticamente, un fine in sé. Valeva la pena che soffriste tanto per dare a questi miserabili la luce da voi strappata alla Tenebra, il vostro pane angelico?
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È specialmente per la sua virtù di placamento metafisico che il Tragico va accolto come parola ultima. Ma lo è col necessario corredo, in questa ultimità, di un quasi, perché c’è un oltre voraginoso in cui l’Essere (vedi XI della Gita) seguita in modi terrificanti a manifestarsi, e il Tragico è refrattario all’illimitatezza. Tuttavia il Tragico è tale anche per i suoi orli sfrangiati, perché nei destini umani incarnati in persone e personae di dramma intravede anche, brumosa e senza strade la realtà tragicogenica priva di limiti. Tenuto nel suo luogo spaziotemporale come Cibele tiene i suoi leoni, Tragico si fa determinazione, misura di confine su cui concentrare i riflettori, geografia di linee che eruttate dal Caos primordiale si corrugano in geometrie che rassicurano. Il Dio che vi si manifesta non lo puoi pregare, ma non si nasconde.
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Sono io che fuggo dai nomi (idest: dal nominare) o sono i nomi che fuggono da me? Quando ne riagguanto uno che pareva perduto, si metterà a tremare come un passerino nella mano oppure è raggiante del suo temporaneo ritorno a casa, nell’impenetrabile santuario noetico? Ricordo bene il nome del tempio sul Gange dove nel XIX abitava e insegnava un famoso Yogin dell’India mistica – ma qual era il nome del santo monaco? Mi sforzo invano... Il nome si è dileguato, come la Kālī tintinnante che quel suo devoto vide fuggire di notte sulla faccia delle acque... Lo ritroverò, sì, ma soltanto con l’aiuto dei libri... RĀMAKRISHNA!! Ritrovato, ma lo riperderò, in mancanza di un motivo preciso per rinominarlo... Intanto vale la pena di trascrivere, per i lettori di questo mio breviario, un suo sublime pensiero di trascendenza: «Nessuno si cura più di una gabbia, dopo che l’uccello che l’abitava sia volato via. Non preoccupatevi dunque del corpo abbandonato dall’uccello della vita».
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La differenza tra lo storico moderno puro e il filosofo non incatenato dai fatti, quale potrei essere io. Lo storico non ha dubbi sul carattere leggendario dell’apparizione degli angeli di Mons (le ombre degli arcieri di Azincourt che coi loro infallibili archi proteggono sul fronte i britannici contro i tedeschi nel 1914); io considero reale e verosimilissima la partecipazione degli angeli ai combattimenti. Gli angeli di Mons sono spiriti di morti che tornano per soccorrere i loro compatrioti contro le mitragliatrici. Maya era presente in Fiandra come lo era stata ad Azincourt.
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La dottrina del coitus rinviato e inattuato, per ottenere chiarezza mentale, di Gurdjieff, è disumana violenza. Nessuno dei suoi discepoli sarà sfuggito a una feroce, per niente mentale, Nemesi prostatica.
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Il Prepuzio cosmico è venuto e ha steso sul mondo la sua infetta pellicola. Tutti nasciamo maschi incirconcisi di cuore. Non c’è circoncisione che la strappi via, non c’è laser che annienti questa fimosi. Tutta l’incapsulante Internet è prepuzio, imprepuziatore d’anime: blocca i canali della verità e li sostituisce con i propri. Sappiate a chi date in pasto i vostri figli.
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SER NISI UTIB («Ho dato gioia alla carne degli uomini») è scritto nelle tavolette del codice di Hammurabi, poco meno di quattromila anni fa. Per arrivare alla nota del 16 agosto 1950 del Diario di Cesare Pavese è un battito d’ali: «Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti». (Nel parlare comune si ometterebbero il secondo e il terzo ho, ma qui hanno senso e bisogna farli sentire). E dare poesia è lo stesso che dare gioia (in accadico: tubbu) alla carne (seru) degli uomini (nisi), i molti, i tutti di cui avremo, artisti moderni o re d’Orienti, compreso e rallegrato le pene. Secondo Édouard Dhorme, da cui ho tolto la citazione, seru equivale a libbu (cuore). Riconosco, con cuore rallegrato di (mediocre) ebraizzante, le parole bibliche: basàr, ’ishìm, lev (carne, uomini, cuore). Tutte sono arrivate fino all’ebraico vivente, e il cuore seguita ad aver bisogno, con tutto ciò che è carne, che qualcuno irrompa nella sua notte spargendo gioia.
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Senza musica non c’è infanzia felice. Ma troppa musica fabbrica angeli feriti: Wolfgang Amadeus, esecutori precoci, bambini obbligati agli ascolti, ai concerti, sottomessi a padri melomani e collezionisti...
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Diffidare di chi parla troppo bene del corpo: si tratta di adulatori che temono rappresaglie da un perfido padrone; e quando scrivono del loro idolo scrivono male.
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Più s’innalza e si magnifica l’Albero della Vita, più saranno i penduti.
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Più l’uomo è vicino all’animale, più fa figli. Una religione che invita a questo promuove barbarie, sfama la ugola della sciagura.
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La TV è voce cui è fatta aderire l’immagine, non immagine parlante. Il solo vero mezzo comunicante era e resta la Radio. L’EIAR stava potenziando le voci, quando subentrò la RAI e fu il trionfo della voce radiodiffusa, potentissima, finché non arrivò l’immagine televisiva, e le voci persero forza e bellezza, sovranità, potere... Stavano diventando troppo potenti (l’invasione marziana di Orson Welles nel 1938, i discorsi di guerra, lo spaventoso eccidio ruandese suscitato dalla radio delle Mille Colline nel 1994, il tragico delle bobine di Krapp). Il ruolo delle altitudini vocali torna al suo luogo d’origine elettivo: il Teatro.
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Diceva Cechov nei Quaderni (all’inizio, 1891) che Salomone commise un grande errore nel chiedere la Saggezza (Ḥokhmàh). Infatti il dono da chiedere era l’Illuminazione (hearàh). La Ḥokhmàh segue le vie della Luce. Ma come sarà venuto a Cechov, mentre viaggiava in Italia, il ricordo di Salomone?
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Mi si manifesta una delle verità possibili che contiene l’oracolo di Edom in Isaia, 21, 12, letto alla lettera: Viene il mattino e anche la notte... Le ore in vecchiaia scorrono via veloci, quanto più lenti i passi, in corrispondenza con Espero, che brilla fin dall’aurora (nel verso italiano: «Ed è subito sera»). Mentre termini di vestirti, ripulirti, nutrirti un poco che il sole è già alto, la sera arriva è notte, con le sue ore di pena interminabili, che ti fanno sospirare il giorno. Le porte della morte ardono spalancate. L’oracolo non ha mentito: se viene il giorno, anche la notte viene. Forse non ne siamo mai usciti.
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Dice Don Chisciotte a Sancio (Don Quijote, prima parte, XLIX): «Io so, e lo tengo per me, che sono stregato, e questo, per la tranquillità della mia coscienza, mi basta...» (Yo sé y tengo para mí que voy encantado, y esto me basta para la seguridad de mi conciencia...). Hidalgo o assassino (M di Fritz Lang, sua autodifesa davanti alla malavita) o filosofo ignoto, sapersi stregato è un meraviglioso sollievo dal peso intollerabile della responsabilità. Anch’io, come Don Chisciotte, lo tengo per me (rivelarlo qui non è la stessa cosa che nel conversare banale della giornata) e (da Montale) me ne vado zitto «tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto». Non è stregata la città? Non è figlia d’incantesimo la poesia (carmen, carmina)? Non è per presa d’incanto che si sfiora, senza precipitarci, una grave sciagura?
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Non sembra possa esserci altro, di essenziale, in vista per l’intero genere umano che una progressiva generale completa degenerazione mentale e morale. In un modo o nell’altro si è, si sarà travolti, e finché si potrà averci accesso l’arte e il pensiero messi insieme da pochi secoli di creazione e di lutti faranno da zattera della Medusa. Al colmo dell’abbrutimento potrebbe manifestarsi il Messia, ma troverebbe ancora qualcuno in grado di comprendere la sua, o una qualsiasi, salvezza? Il contagio umano sta forse trasformando la Terra, immane essere vivente che dormiva, in una invulnerabile terrificante belva onnivora che ci rosicchierà fino all’osso. Pace o guerra che importa? Qualunque cosa facciamo finisce nella bocca del minotauro, nel ventre della mostruosa balena. Possiamo disperatamente esercitarci ad esplorare e a scartare uno dopo l’altro dei Perché, dei «Chi ci fa questo?», dei «Era o non era scritto?». Dubito anche della profezia di Daniele: «Ma gli Intelligenti capiranno».
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L’omosessualità militare, come si è tramandata da coppie maschili leggendarie (Achille-Patroclo, Eurialo e Niso, David-Gionata) ai versi d’amore per tutti i commilitoni (Wilfred Owen), navi inglesi, trincee, giorni di guerra di Comisso, era innanzitutto solidarietà di fronte alla morte; un reciproco darsi soccorso, sfidare il pericolo, rafforzarsi contro il nemico. La moderna omosessualità non fugge soltanto dal principio femminile: ha terrore anche del maschile. Bussa alla porta dell’Utero espellitore e torna ad assumere nel suo interno la posizione fetale dell’ottavo mese. Ma anche là morde e perseguita la paura, perché nessuna tana è sicura e la terra-madre riespelle il figlio invecchiato, perché anche lei è mortale.
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Terrificante cometa – eppure... Eppure non appartiene al Tragico la bomba di Hiroshima. L’ora, lo sganciamento, il doppio invisibile di Fungo che si leva dai luoghi, fatto di dolore, tutto è già periferia del Tragico – la scena da marcare è alla Casa Bianca, il tavolo dove la mano del presidente Harry Truman depone la firma della decisione sull’ordine di sperimentare l’ordigno sconosciuto: è là, in quell’istante, che il Tragico del 6 agosto si annida tutto, come un serpente arrotolato. Un Coro inudibile lancia ululati in cadenza. Alle spalle del Presidente il Fato legge impassibile il documento appena segnato. Avrà l’incarico dell’esecuzione capitale della città.
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La timidezza causa ingenerosità. La vergogna dell’ingenerosità (che come il suo contrario può non avere limite) provoca aumento, una più dura stretta, di timidezza. Nelle donne crea stuoli di Cordelie che non riescono a rompere il guscio. In ogni timidezza incallita c’è una matrioška di timidezze. Esseri troppo timidi è meglio non metterli alla prova.
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Incontri con creature di altri, lontanissimi mondi, sono perfettamente pensabili, nel tempo prescritto. Tanto vale non chiudere la mente all’irruzione di altre concezioni della vita e della morte, del corpo, della materia, del vivere associato. Ma non ci sarà mai un’altra idea di bellezza. La bellezza è di questo uomo e di questa terra soltanto. Più ne distruggiamo, dai paesaggi all’arte, e nei volti, nelle voci, nei linguaggi, più brandelli se ne sparpaglieranno, morti, negli spazi che imbrattiamo di prodigi che ci inchiodano nel finito. La bellezza è il ponte unico che ci collega con l’infinito. È apparsa per frenare l’intollerabilità del male umano e del suo lamento nella porzione di Essere che ci limita e opprime. È apparsa per dire al capezzale del nulla Ordet, la Parola, la parola dell’Anàstasis che non possiamo udire.