sabato 31 agosto 2024

RICORDI DEL FUTURO Siri Husvedt



RICORDI DEL FUTURO
Siri Husvedt
Recensione 
La scrittura per l'autrice è il modo più naturale per ricordare, per rendere di nuovo presente quello che è stata. Forse per capire in che modo la persona di un tempo sia parente di quella di oggi. O quanto ci si è allontanati da sé e si è diventati altro senza potersi riconoscere più nella propria storia. Quanto “una storia è diventata un’altra storia”.
 La donna scrive al presente ma riflette sul proprio passato, su quei fili tirati di cui oggi può intravedere il bandolo.  
Lo sguardo di S. H., è aderente a quello dell’autrice che sembra celarsi in prima persona dietro a esso, si mostra in tutto il suo arco di cambiamento e in qualche modo lascia sotteso il tentativo di capire se ci si può riconoscere in quello che si è stati.

RICORDI DEL FUTURO
Capitolo primo
Molti anni fa lasciai i vasti, pianeggianti campi del Minnesota rurale per l’isola di Manhattan allo scopo di trovare l’eroe del mio primo romanzo. Quando arrivai, nell’agosto 1978, non era tanto un personaggio quanto una possibilità ritmica, una creatura embrionale frutto della mia immaginazione, che mi arrivava come una sequenza di accenti metrici piú veloci o piú lenti a seconda dell’andatura con cui percorrevo le strade della città. Speravo, credo, di scoprire me stessa in lui, e di dimostrare che entrambi eravamo degni delle vicende che avremmo incontrato lungo il nostro cammino. A New York non cercavo la felicità o gli agi. Cercavo l’avventura, e sapevo che l’avventuriero prima di tornare a casa deve patire infinite tribolazioni per terra e per mare o alla fine gli dèi lo fanno secco. A quel tempo non sapevo ciò che so adesso: mentre scrivevo, venivo scritta. Avevo iniziato il mio libro ben prima di lasciare le pianure del Minnesota. Mentalmente avevo già composto diverse stesure di un romanzo giallo, ma questo non significava che ne conoscessi il finale. Il mio eroe in fieri e io puntavamo verso un luogo che era poco piú di una luccicante finzione letteraria: il futuro.

Mi ero data esattamente dodici mesi per scrivere il romanzo. Se al termine dell’estate successiva il mio eroe fosse nato morto o fosse morto in culla o si fosse rivelato una tale nullità che la sua vita non avrebbe meritato commenti, in altre parole, se alla fin fine fosse venuto fuori che non era affatto un eroe, mi sarei lasciata alle spalle lui e il suo romanzo per dedicarmi anima e corpo allo studio degli antenati del mio defunto (o abortito) protagonista, abitanti dei volumi che riempiono le città fantasma che chiamiamo biblioteche. Avevo vinto una borsa di studio per un dottorato in Letterature comparate presso la Columbia University, e quando avevo chiesto di rimandare la mia immatricolazione all’anno successivo, le invisibili autorità accademiche mi avevano inviato una prolissa lettera acconsentendo alla mia richiesta.

Per un buio soggiorno con angolo cottura, una camera da letto ancora piú buia, un minuscolo bagno con le piastrelle bianche e nere e un armadio a muro col soffitto di cartongesso incurvato, al 309 della Centonovesima Strada Ovest, sborsavo duecentodieci dollari al mese. Era un lugubre appartamento in un palazzo scrostato, fatiscente, malconcio, e se fossi stata solo un pochino diversa, un filo piú navigata o un tantino meno immersa nei libri, quella tinta verde acido e l’affaccio sui due sporchi muri di mattoni nella puzzolente calura estiva avrebbero fatto appassire subito me e le mie ambizioni, ma quel minimo necessario, per quanto infinitesimale, all’epoca non c’era. Il brutto era bello. Decorai le mie stanze con frasi e paragrafi di buon auspicio che prendevo a piacimento dai molti tomi che mi gremivano la testa.

La fantasia gli si empí di tutto quello che leggeva nei libri, sia d’incantamenti che di contese, battaglie, sfide, ferite, dichiarazioni, amori, tempeste ed altre impossibili assurdità; e gli si ficcò in testa a tal punto che tutta quella macchina d’immaginarie invenzioni che leggeva fossero verità, che per lui non c’era al mondo altra storia piú certa.

Nel ricordo i primi momenti che trascorsi nel mio primo appartamento sono rischiarati da una radiosità che non ha niente a che fare con la luce del sole. Sono illuminati da un’idea. Dopo aver versato il deposito cauzionale, pagato il primo mese di affitto e chiuso la porta sul tozzo, sorridente custode, Mr Rosales, con la maglietta zuppa di sudore sotto le ascelle mi misi a saltare qua e là sul pavimento di legno, improvvisando una specie di danza e levando le braccia in trionfo.

Avevo ventitre anni e una laurea in Filosofia e Inglese conseguita presso il St Magnus College (una piccola istituzione accademica dedicata alle materie umanistiche e fondata nel Minnesota da immigrati norvegesi); cinquecento dollari in banca, un gruzzoletto che avevo accumulato dopo la laurea lavorando per un anno come barista nella mia città, a Webster, e avendo quindi vitto e alloggio gratis a casa dei miei; una macchina per scrivere Smith Corona, una cassetta degli attrezzi, alcuni utensili da cucina regalati da mia madre, e sei scatole di libri. Con qualche tavola di legno e un foglio di compensato mi costruii una scrivania. Comprai due piatti, due tazze, due bicchieri, due forchette, due coltelli, e due cucchiaini in vista del futuro amante (o serie di amanti) con il quale, dopo una notte di scopate furibonde, progettavo di fare colazione con toast e uova che sarebbero state consumate sul pavimento, visto che non avevo né tavolo né sedie.

Ricordo la porta che si chiude su Mr Rosales, e ricordo il mio giubilo. Ricordo le due stanze di quel vecchio appartamento, e mentalmente posso camminare dall’una all’altra. Vedo ancora quegli ambienti, ma a essere sincera non riesco a descrivere la configurazione esatta delle crepe sul soffitto della camera da letto, le linee grumose e le leggere fioriture di cui pure ricordo bene l’esistenza poiché le studiai; non sono nemmeno del tutto sicura delle dimensioni del frigorifero, per esempio, anche se ritengo che dovesse essere piccolino. Sono quasi certa che fosse bianco e forse stondato agli angoli, non quadrato. Piú mi concentro nel ricordare, piú dettagli è possibile che io sia in grado di fornire, ma potrebbero benissimo essere inventati di sana pianta. Ragion per cui non mi dilungherò sull’aspetto, per esempio, delle patate che stavano sul piatto davanti a me trentotto anni fa. Non ti dirò se erano pallide e bollite o saltate o al gratin o fritte, perché non me lo ricordo. Se sei uno di quei lettori che contano sulle autobiografie piene di ricordi particolareggiati fino all’inverosimile, ti dirò questo: degli autori che pretendono di ricordare perfettamente le loro frittelle di patate a distanza di decenni non c’è da fidarsi.

E cosí arrivo nella città che sogno da quando ho otto anni, ma che non conosco per niente.

E cosí arrivo nella città che ho visto nei film e di cui ho letto nei libri, una città che è New York ma anche altri posti, Parigi e Londra e San Pietroburgo, la città delle avventure e delle disavventure del mio eroe, una città reale che è anche una città immaginaria.

Ricordo la luce deprimente che entrava dalle tapparelle rotte la notte del 25 agosto, la prima che trascorsi nell’appartamento 2B. Mi dissi che mi occorrevano delle nuove persiane o in camera da letto non ci sarebbe mai stato il buio. L’aria calda era immobile. Bagnai le lenzuola di sudore e feci sogni aspri e vividi, ma il mattino successivo, quando mi preparai una tazza di caffè e me la portai a letto, sul materasso di schiuma, non ricordavo piú cosa avessi sognato. Durante la mia prima settimana a New York la mattina scrivevo e il pomeriggio viaggiavo in metropolitana. Non mi prefiggevo mai una meta precisa ma sapevo che quando il treno rimbombava correndo nelle viscere della città, il cuore mi batteva piú veloce, e la libertà appena scoperta mi sembrava quasi incredibile. Il biglietto allora costava cinquanta centesimi, e finché non imboccavo un’uscita e non salivo le scale, potevo continuare a viaggiare, passando di treno in treno senza dover tirare fuori altri soldi. Sferragliavo sull’IRT dalla zona settentrionale della città a quella meridionale e viceversa; sfrecciavo sulla linea A; passavo dal West Side all’East Side con lo Shuttle e studiavo il curioso percorso della linea L, e quando la linea F emergeva alla luce del sole fra la Smith e la Nona Strada e tutto a un tratto mi si parava davanti agli occhi la fumante Brooklyn, col suo guazzabuglio di cubi di cemento aggettanti e capannoni e manifesti pubblicitari, mi accorgevo che guardavo dal finestrino e sorridevo. E mentre viaggiavo seduta o in piedi in quei vagoni, spintonata e sballottata a ogni fermata e a ogni partenza, rendevo omaggio agli onnipresenti graffiti, non in nome della loro bellezza ma del loro spirito ribelle, uno spirito che speravo di assimilare ed emulare nei miei progetti artistici personali. Gioivo dell’urlo dei treni e della voce maschile i cui annunci uscivano dagli altoparlanti come un gracchiare inintelligibile ma potente. Esultavo per la calca, quando venivo spinta fuori dalle porte del vagone dal moto collettivo di un’onda umana, e ripetevo i versi di Whitman «io stesso disintegrato, ognuno disintegrato e tuttavia parte dello schema». Volevo essere parte dello schema. Volevo essere tutti. Ascoltavo ogni lingua parlata, alcune le riconoscevo – spagnolo, mandarino, tedesco, russo, polacco, francese, portoghese – altre le sentivo per la prima volta. Tripudiavo per la varietà di colore della pelle della gente attorno a me, perché a Webster, Minnesota, mi ero talmente saturata del pallore luterano e delle sue tonalità infiammate, dal rosaceo, al rubizzo, al marrone bruciato degli agricoltori, da essere a posto per il resto della vita.

Studiavo i barboni e i mendicanti e le straccione e i diversi stadi della discesa nella degradazione della strada. A New York, diversi anni prima del mio arrivo, chi deteneva il potere aveva deciso di aprire le porte dei reparti psichiatrici, consegnando i pazienti a una dubbia libertà. I matti stazionavano sulle banchine dei treni, a titillarsi le piaghe. Alcuni gridavano dei versi. Altri cantavano o piagnucolavano o predicavano la venuta di Gesú o l’ira di Geova, e altri ancora stavano seduti in silenzio negli angoli bui, ridotti a gusci di disperazione. Sentivo il tanfo dei loro corpi non lavati, una puzza che mi era del tutto sconosciuta, e trattenevo il fiato.

La conoscenza vera delle strade di Manhattan avrebbe dovuto aspettare. Il modo in cui ogni quartiere si collegava al quartiere successivo potevo rintracciarlo sulla mappa che portavo con me, ma la cosa non aveva ancora una logica carnale. Quando mi lanciavo su per i gradini, nel sole e nella ressa, e le mie scarpe toccavano l’asfalto bollente e il bitume che si squagliava, e mi arrivava, tra le voci e il rumore del traffico e il boato generale, la cacofonia della musica che usciva dagli stereo portatili issati in spalla o dondolanti lungo la coscia a mo’ di valigia, mi veniva la pelle d’oca, sentivo la testa leggera, e mi preparavo all’imminenza di un’aggressione sessuale. Ricordo la mia prima passeggiata per l’acre e aggressiva Canal Street, le anatre bronzee appese per le zampe di là dalle vetrine unte, le vasche con dentro pesci vivi e luccicanti, le ceste e le scatole di cartone piene di granaglie e di verdure e di frutta di cui solo in seguito avrei imparato il nome: carambola, mangostano, albero del pane, e longan.

C’erano i miseri piaceri delle passeggiate per Times Square: i cartelli che attiravano i clienti con X e XX e XXX e burlesque, scritto anche burlesk e bur_esk (per via della caduta della «l»), e peep show, e il Paradise Playhouse, e il Filthy’s, e il Circus Circus dove per un solo quarto di dollaro si potevano ammirare le ragazze in carne e ossa sul palcoscenico e per «10 dollari nudo integrale», e silhouette di donne nude con i seni pronunciati e le gambe lunghe disposte sopra l’ingresso dei locali, e vedute di pizzerie e sale giochi e piccole, tristi lavanderie con cataste di pacchi di carta marrone legati con lo spago e la sporcizia che guizzava e mulinava quando soffiava il vento e i furbacchioni col tavolino sul marciapiede che facevano il gioco delle tre carte per raggirare gli allocchi e gli uomini con le maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti nell’aria rovente che si fermavano davanti all’ingresso dei locali, catturati per un attimo dalla promessa di carni tremule e di un rapido sollievo, prima di entrare per togliersi una soddisfazione, o girare a destra o a sinistra e proseguire per la loro strada.

Arrivavo fino al Greenwich Village per la sua mitologia bohémienne, in cerca di qualche brillante compagnia dadaista. Cercavo Djuna Barnes e Marcel Duchamp, Berenice Abbott, Edna St. Vincent Millay, e Claude Mckay ed Emmanuel Radnitzky alias Man Ray. Cercavo William Carlos Williams e Jane Heap, Francis Picabia e Arthur Cravan, e il sorprendente personaggio che avevo scoperto durante la mia ricerca sul dadaismo, una donna che avevo inseguito fin negli archivi dell’Università del Maryland, dove per tre giorni avevo laboriosamente copiato a mano delle poesie quasi tutte inedite: la baronessa Elsa von Freytag-Loringhoven, nata Elsa Hildegard Plötz, un’artista proto-punk, ribelle e provocatoria, che si metteva in mostra adornandosi con gabbiette per uccelli sulla testa e faretti sui fianchi, e che scriveva poesie che salivano come ululati o rutti dalle profondità del diaframma.

– Queste carte nessuno le chiede mai, – mi aveva detto l’archivista prima di andare a prendermi le scatole. Allora io sono Nessuno, avevo pensato. Le carte della baronessa erano arrivate nel Maryland nel 1970 perché Djuna Barnes, autrice dell’inebriante La foresta della notte, aveva salvato lettere, manoscritti e disegni dell’amica defunta, conservandoli nel proprio appartamento newyorkese. Cosí, quando l’università aveva acquisito le carte di Djuna Barnes, era arrivata a ruota anche la baronessa. Ora dopo ora, ero rimasta seduta davanti ai fogli ingialliti di Elsa, sia a righe che senza, studiando le numerose versioni di ogni poesia fino a ridurmi in confusione e col bruciore agli occhi. A fine giornata, seduta sul letto nella mia camera all’Holiday Inn, rileggevo i miei appunti e mi facevo cullare dagli strappi e dagli scatti percussivi della baronessa. Elsa era viva nelle pagine che avevo portato con me a New York, ma di lei nel quartiere non c’era traccia. Nemmeno il sospetto di un fantasma. Della baronessa non era rimasto piú niente nelle tortuose, strette strade secondarie del Village.

Christopher Street allora era piena di vita, un teatro all’aperto che mi piaceva percorrere in incognito e sbirciavo nelle vetrine abbigliamento e accessori erotici di un genere di cui conoscevo vagamente l’esistenza ma che non avevo mai visto coi miei occhi, e mi chiedevo cosa avrebbe pensato di tutto questo il pastore Weeks, un mio vecchio amico, e cosa avrebbe detto se fossimo andati a passeggio insieme davanti a quelle vetrine, e mi rispondevo con le parole che immaginavo avrebbe potuto scegliere lui: – Siamo tutti fratelli e sorelle nel Signore –. Ammiravo le coppie orgogliose che sembravano formate da gemelli, lui e lei entrambi magri e slanciati, con gli stessi blue jeans e la stessa maglietta attillata e la postura perfetta e un leggero ondeggiamento dei fianchi e forse un cane al guinzaglio fra i due che passeggiano per ostentare la loro perfetta bellezza; e mi piacevano le ragazze alte con le piume e i tacchi a spillo; e cercavo di non guardare gli uomini che fra me e me chiamavo «minaccia di cuoio»: i grossi ragazzi muscolosi coi pantaloni e i giubbotti di pelle nera costellati di borchie e spuntoni argento, e in viso un’espressione cosí intensa che ero costretta ad abbassare lo sguardo sul marciapiede.

Bazzicavo le librerie: Coliseum Books e Gotham Book Mart e Books and Company e Strand. All’Eighth Street Bookshop comprai Certi alberi di John Ashbery e lo lessi in metropolitana e poi a casa, ad alta voce, piú e piú volte di seguito. Scoprii la National Bookstore in Astor Place, gremita di allettanti tomi eruditi avvolti nella plastica per impedire l’accesso alle dita invadenti di persone come me, sorvegliate da un despota con i capelli bianchi che teneva il tempo tamburellando con la penna e si metteva ad abbaiare se indugiavi troppo a lungo su un volume, e io che non potevo spendere in genere me ne andavo a mani vuote, nel mio quartiere però c’era il vecchio Salter il quale, nonostante neanche lui fosse particolarmente amichevole, mi lasciava stare seduta sul pavimento della sua libreria, proprio davanti alla Columbia; mi appoggiavo a uno scaffale e leggevo fino a essere certa di volere davvero questo o quel libro, per lo piú opere di poeti nuovi per me, ma prima ancora che l’anno finisse arrivai ad acquistare l’intera New York School e oltre, in aggiunta ad altri libri di Ashbery, e a quelli di Kenneth Koch e Ron Padgett e James Schuyler e Barbara Guest e Frank O’Hara, quest’ultimo ucciso da una dune buggy a Fire Island dodici anni prima che arrivassi io. E non ho dimenticato le parole di Barbara Guest, quelle che mi indussero a comprare il suo libro: «Capire la distanza fra i personaggi». Bene, sono ancora qui che cerco di capirla.

Quando volevo che la città si fermasse, salivo la gradinata fra i leoni di pietra, varcavo le porte della Biblioteca pubblica di New York e mi dirigevo velocemente nella sfarzosa sala di lettura, degna di un re, e mi accomodavo a uno dei lunghi tavoli di legno sotto il vasto soffitto a volta con un lampadario che mi pendeva alto sulla testa, e chiedevo un libro e mentre dalle grandi finestre cadeva su di me la silenziosa luce solare leggevo per ore e ore e mi sentivo diventare un essere di pure potenzialità, il corpo trasformato in uno spazio magico capace di espansione infinita, e mentre stavo lí a leggere nel fruscio soffocato delle pagine che venivano girate, fra i colpi di tosse e le tirate su col naso e il rumore dei passi che riecheggiavano nell’immensa sala e l’occasionale e maleducato bisbiglio, mi rifugiavo nell’andamento di quel pensiero che di volta in volta prendevo a prestito per un tempo circoscritto, e mi immergevo in frasi che non avrei mai saputo scrivere o concepire e, anche quando il testo era astruso o contorto o al di là della mia portata, e quest’ultimo caso non era infrequente, perseveravo e prendevo appunti e capivo che la mia missione era questione di anni, non di mesi. Se avessi potuto imbevermi della saggezza e dell’arte dei secoli andati, sarei cresciuta a poco a poco, libro dopo libro, fino a diventare il gigante che sognavo di essere. Benché la lettura richiedesse concentrazione, le sue pretese erano diverse da quelle della strada, e in biblioteca mi rilassavo. Il mio respiro diventava regolare. Le spalle perdevano la gobba, e spesso lasciavo che i miei pensieri seguissero delle fantasticherie innescate da una singola frase: «L’illogicità di una cosa non è una ragione contro la sua esistenza, bensí una condizione di essa». In biblioteca avevo le ali.

Prima di andarmene mi fermavo sempre davanti alla Sala di Lettura slava, aprivo la porta, e davo una sbirciata agli uomini anziani che assomigliavano a incisioni d’avorio di loro stessi, la pelle aveva il colore dei gusci d’uova screziati di grigio, e le lunghe barbe mostravano una sfumatura piú chiara del medesimo colore. Erano vestiti di nero e lí per lí sembravano immobili, chini sui vecchi libri. Solo i lunghi indici si muovevano con decisione quando giravano le pagine, un gesto fluido che mi rivelava come le statue in realtà fossero vive. Quei vecchi ora devono essere morti tutti da un pezzo, la Sala di Lettura slava nemmeno esiste piú, ma io non me ne andavo mai dalla biblioteca senza dare un’occhiata là dentro, respirando l’odore secco cosí particolare che esalava dagli attempati studiosi e dai loro preziosi volumi, un aroma in cui mi sembrava di sentire una lieve zaffata di fumo d’incenso e la filosofia mistica di Vladimir Solov´ëv prima della Rivoluzione. Non osai mai varcare la soglia di quella sala.

La biblioteca è un palazzo americano, costruito con i quattrini di Lenox e Astor per mostrare agli altezzosi ricconi europei che qui non eravamo da meno. Ma posso dire questo: all’ingresso nessuno mi guardò mai dall’alto in basso o mi sottopose a un test d’intelligenza o controllò il mio conto in banca. A Webster, Minnesota, non c’erano dei veri ricchi. Da noi venivano considerati benestanti alcuni allevatori di tacchini e i proprietari di certi negozi, e i medici, i dentisti, gli avvocati, e i professori che, per quanto di mezzi modesti, ottenevano un notevole avanzamento sociale grazie agli anni dedicati agli studi, e spesso erano mal sopportati dai contadini poveri e dai meccanici e da una miriade di altri, dentro e fuori Webster, che non avevano titoli da accompagnare al cognome. Ma a New York sembrava che i ricchi ci fossero apposta per farti restare basito: erano dei ricchi come non ne avevo mai visti. Passeggiavano per la Quinta Strada e Park Avenue, da soli o in coppie, e ridevano e chiacchieravano di là dalle vetrine dei ristoranti seduti ai tavoli corredati di bottiglie di vino e tovaglioli bianchi di tela ben stirati e candele. Scendevano dai taxi con scarpe le cui suole sembravano non aver toccato mai il marciapiede, o si accomodavano con grazia sul sedile posteriore delle limousine con autista. Luccicavano nello sfoggio di orologi e orecchini e sciarpe in negozi in cui ero troppo timida per entrare. Non potevo non pensare alle belle camicie di tutti i colori di Jay Gatsby e alla stupida, vuota Daisy, e alla triste luce verde. E pensavo anche a Balzac, impossibile non farlo, e alla sudicia, scintillante commedia umana, e a Proust che pranzava al Ritz con gli amici ai quali rubava i tratti distintivi con terrificante precisione, e all’«alta società» di Odette, che non era affatto «alta», anzi era grossolana, e mi sforzavo di sentirmi oltre tutto questo, mi sforzavo di essere il mio personale personaggio, una nobile giovane persona, benché povera, con gusti letterari e filosofici elevati e raffinati, ma nei ricchi che vedevo c’era anche il potere, una forza bruta che mi spaventava e che invidiavo perché mi rendeva ai miei stessi occhi piú piccola e piú patetica.

Abito ancora a New York ma la città in cui vissi allora non è la città in cui vivo adesso. I ricchi continuano a essere in ascesa ma il loro fulgore si è allargato a tutta l’area di Manhattan. I cartelli sbiaditi, i tendoni sbrindellati, i manifesti screpolati, e i mattoni lerci che davano alle strade del mio vecchio quartiere, l’Upper West Side, un’aria soprattutto disordinata e malinconica sono spariti. Adesso quando mi trovo nei posti che bazzicavo una volta, i miei occhi vedono gli irrigiditi contorni delle migliorie borghesi. Insegne leggibili e colori limpidi e nitidi hanno sostituito l’antico torbidume visivo. E le strade hanno perso la loro pericolosità, quella minaccia onnipresente benché invisibile che la violenza potesse esplodere da un momento all’altro per cui una postura sulla difensiva e un modo di camminare deciso non erano facoltativi ma necessari. In altre parti della città nel 1978 si poteva adottare il passo tranquillo del flâneur, ma non nel mio quartiere. Tempo una settimana, i miei sensi avevano acquistato un’acutezza mai posseduta prima. Ero sempre sul chi vive, sempre attenta all’improvviso scricchiolio o al gemito o allo schiocco, al gesto repentino, alla camminata malferma, o all’espressione diffidente di uno sconosciuto che si avvicinava, all’indefinibile tanfo di chissacché di sgradevole che aleggiava nell’aria e mi induceva ad accelerare il passo o a infilarmi in una bodega ispanica o in un alimentari coreano.

Tenni un diario quell’anno. Dentro ci trovai il mio eroe, l’omuncolo dei miei pensieri vagabondi, e abbozzai qualche brano del suo romanzo sul medesimo taccuino. Inoltre scarabocchiai e disegnai e registrai alcuni dei miei andirivieni, alcune delle conversazioni avute con gli altri e delle riflessioni che facevo fra me e me. Era un piccolo quaderno bianco e nero marca Mead, conteneva il resoconto del mio io di un tempo, ed era scomparso non molto tempo dopo che ne avevo riempito le pagine. Poi, tre mesi fa, l’ho ritrovato, era riposto ordinatamente in una scatola con oggetti vari che mia madre aveva conservato. Dovevo aver iniziato un nuovo diario dopo aver dimenticato il vecchio dai miei, ai quali avevo fatto visita nell’estate del 1979. E quando, sotto una scatola di fotografie sfuse ho notato il taccuino leggermente sgualcito in un angolo e il suo assurdo titolo, La mia nuova vita, scritto a mano sulla copertina, l’ho accolto come se fosse un caro parente ormai dato per morto: dapprima ho sussultato, riconoscendolo, poi l’ho abbracciato. E sono dovute passare alcune ore perché l’immagine di me che stringo al petto l’amato quaderno Mead si tingesse del ridicolo che indubbiamente merita. Eppure questo libricino di duecento pagine si è rivelato di valore inestimabile per la semplice ragione che, in un modo o nell’altro, mi ha riportato alla memoria, con una voce che è la mia e al tempo stesso in realtà non lo è piú, cose che avevo dimenticato o che ricordavo male. È buffo. Ero convinta di avere iniziato ogni nota del mio diario con le parole «Cara Pagina», una specie di invocazione che all’epoca trovavo arguta, invece in diverse occasioni nel diario avevo attribuito al mio interlocutore immaginario questo o quel nome, e altre volte l’avevo lasciato nell’anonimato.

Mia sorella e io stavamo passando in rassegna le cose di nostra madre, perché stava lasciando l’appartamento di cinque stanze all’interno di un complesso residenziale per anziani in cui aveva vissuto in piena autosufficienza per dieci anni dopo la morte di nostro padre. Adesso doveva trasferirsi in un monolocale presso la medesima struttura ma nell’ala riservata al soggiorno assistito, il che implicava un trasloco non a chilometri di distanza ma a poche centinaia di metri, e tuttavia si rendeva necessario un drastico ridimensionamento degli oggetti personali di nostra madre. Benché l’evento in sé non sia stato di quelli allegri, il cambiamento si è rivelato meno doloroso di quanto avrebbe potuto essere poiché fra i nove anni e mezzo di «vita indipendente» e la nuova collocazione in cui avrebbe avuto bisogno di «assistenza», la nostra novantaduenne genitrice era stata la fragile, coricata degente della terza ala del medesimo complesso residenziale nota come «Unità di cura». Dieci mesi prima il medico che la seguiva l’aveva dichiarata praticamente morta, senza usare, com’è ovvio, queste parole. Il dottor Gabriel aveva detto che dovevamo prepararci al suo decesso, ma senza usare questo sostantivo. Poi, l’anno scorso, all’inizio di ottobre, il dottor Gabriel ci chiese esplicitamente di prendere in considerazione l’eventualità di festeggiare un «Natale anticipato», un Natale alla fine di ottobre o all’inizio di novembre, alludendo al fatto che era poco probabile che nostra madre potesse essere fra noi ancora a dicembre, per cui se intendevamo lasciarle suggere il piccolo piacere della sua festa preferita avremmo fatto bene ad affrettarci.

Anche se sia mia sorella che io restammo in silenzio, trovammo entrambe assurda la proposta di manipolare il calendario per adattarlo al probabile decesso di nostra madre. I mesi si susseguono secondo un certo ordine, e se fosse morta in ottobre o in novembre, non avremmo fatto finta che Halloween o il Giorno del Ringraziamento fossero Natale. E, nonostante avesse cominciato a fare confusione col tempo in generale, dimenticando per esempio la serie delle sue emergenze sanitarie – il piede rotto, il braccio rotto, l’insufficienza cardiaca congestizia, la pseudogotta che aveva gonfiato le sue gambe sottili trasformandole in due grossi ciocchi rossi, e da ultimo un’infezione che le era entrata nel sangue e le aveva provocato delle allucinazioni, per cui vedeva amici morti, cori di bambini, ed elfi col cappello a cilindro che la salutavano di là dai vetri della finestra – nostra madre avrebbe disapprovato fermamente qualsiasi alterazione all’ordine del calendario. Si era sempre considerata una persona «fatalista». Ecco la peculiare definizione che mia madre diede di questa parola: tutti soffriamo, tutti moriamo.

– Mai, per nessun motivo al mondo, – mi intimò quando avevo undici anni, – devi usare l’espressione «venire a mancare» al posto di «morire». Le persone muoiono. Non è che si volatilizzano.

Resta che nostra madre non solo vide Halloween ma anche il Giorno del Ringraziamento e il Natale e la Pasqua, e quando ormai l’estate volgeva al termine, e le foglie degli alberi attorno all’Unità di cura hanno cominciato ad arrugginirsi, è diventato chiaro che non stava piú morendo, e siccome aveva rinculato dalla soglia finale e nell’Unità di cura avevano bisogno del suo letto per una persona che davvero era «in fin di vita» (un’altra espressione che non viene mai pronunciata ad alta voce), i sanitari l’hanno dimessa sconsigliando però un ritorno nel vecchio appartamento indipendente e consigliando la nuova residenza assistita, e questo di conseguenza ha accelerato il trasloco, il ritrovamento del mio taccuino, la scrittura di questo libro.

Adesso mia madre è ben sistemata nel suo nuovo monolocale, e non mi stupirei se campasse altri dieci anni, però non ricorda piú niente. Non ricorda quello che le ho appena detto al telefono. Non ricorda chi sia la persona appena entrata in camera a portarle una pillola o un bicchiere d’acqua o un dolcino alle uvette. Non ricorda se ha preso la pillola contro l’artrite e se ha ricevuto o no delle visite, e mi parla piuttosto delle orchidee che ha sul davanzale. Descrive i loro colori e quanti fiori siano rimasti su ogni stelo e come la luce li investa, «oggi è nuvoloso, per cui la luce è uniforme». Si esprime in maniera articolata, e ricorda buona parte della propria vita, specie quella piú lontana, e negli ultimi tempi le piace ripetere le vecchie storie. Ieri mi ha raccontato un aneddoto che è fra i miei preferiti e che quando ero bambina le facevo raccontare di continuo. La storia della volta in cui lei e suo fratello avevano visto la faccia di Eva Harstad alla finestra del secondo piano della casa in fondo a Maple Street, a Blooming Field dove mia madre è cresciuta. – Oscar e io stavamo tornando a casa, al tramonto. Nel cielo c’erano delle striature rosa e la luce era strana. Tutti e due la vedemmo alla finestra. Era impossibile, capisci, perché si era impiccata l’anno prima, povera Eva. Non la conoscevamo bene. Ma c’era un bebè in arrivo, capisci? Nessuno scoprí mai chi fosse il padre. In città la morte di Eva rattristò tutti quelli che non erano meschini, bigotti o ipocriti, ma adesso lei era là, con i lunghi capelli biondi che le incorniciavano la faccia. So che te l’ho già detto un sacco di volte, ma le sue labbra avevano qualcosa che non andava. Le muoveva come una pazza, un po’ come fanno certi cantanti per scaldarsi la bocca prima di cantare, ma dalla sua non veniva fuori niente. Non ci mettemmo a correre, ma ci si ghiacciò il sangue, se capisci cosa intendo. Ci allontanammo a passi veloci. A Oscar non è mai piaciuto sentire ricordare questa storia. Mi sa che si spaventò piú di me. Voglio chiederglielo. Sí, voglio proprio chiederglielo. Ma Oscar dov’è? – Lo zio Oscar è morto nel 2009. Mia madre certi giorni ne è cosciente, altri no.

Il passato è fragile, fragile come le ossa che diventano deboli con l’età, fragile come i fantasmi visti alle finestre o i sogni che si disfano appena ci svegliamo e si lasciano dietro solo una sensazione di disagio o di angoscia o, piú raramente, una specie di inesplicabile appagamento.

2 settembre 1978

Mia cara Pagina,

ho aspettato questo adesso, l’adesso che scomparirà se non lo agguanto, se non lo scuoto, se non ne prosciugo l’esplosiva presenza.

Nel giro di pochissimi giorni il mio eroico ragazzo è diventato qualcosa piú di un desiderio! Ha una forma – è alto e magro – e una collocazione definita, ai margini di ciò che interessa la maggior parte delle persone. Ragion per cui siamo simili, lui e io. Ian Feathers. Le sue iniziali: I.F., come if. Un personaggio al «se», un personaggio al congiuntivo, un personaggio di ali e voli, di piume e penne e macchine per scrivere. Il mio cavaliere del Midwest, frastornato dai racconti del mistero e dalle seduzioni della logica.

E c’è una cosa strana: la mia vicina di casa tutte le sere si mette a mugolare delle nenie. Forse è una seguace degli Hare Krishna o segue il culto di quel maragià, quel bambino grasso con l’aria sciocca di cui si vede in giro la foto. Lei ripete sontrist, sontrist, sontrist, all’infinito. Ieri, mentre mugolava sontrist a un tratto si è interrotta e ha detto quasi urlando: – Loro volevano un’altra persona –. C’era una tale infelicità nella sua voce che per un attimo mi è venuto un nodo alla gola. Non ho potuto fare a meno di chiedermi chi siano questi «loro», e la frase non mi ha piú abbandonato. Era come se possedesse un significato speciale e terribile. Ho avuto anche l’impressione che a notte fonda la mia vicina emettesse delle grida e dei rantoli, ma non ero sufficientemente sveglia da monitorare questi nuovi rumori.

CAPITOLO I IAN È NATO FRA LE COPERTINE

Ian Feathers da ragazzino ha letto cosí tanti romanzi gialli che sua madre temeva che sforzando la vista a quel modo sarebbe diventato cieco e che i suoi arti mai toccati dal sole sarebbero avvizziti a causa dell’inattività. Mr e Mrs Feathers, come prima di loro i greci, credevano nella «moderazione in tutte le cose». La versione americana di questo antico adagio era il possesso di un «carattere equilibrato». I Feathers amavano il loro figliolo che era alto, magro, sveglio, miope e affetto da iperlessia, ma si impegnavano strenuamente a levigarlo e arrotondarlo… per il suo bene. Sapevano, come sapeva tutta la gente del Midwest timorata di Dio, che il figliolo ideale, quello dal carattere equilibrato, non eccedeva mai in niente. Andava bene a scuola ma non cosí bene da poterlo accusare di anomala genialità. Ogni tanto sgarrava e si metteva nei guai (per dimostrare che aveva fegato), ma i pasticci in cui si cacciava non erano mai catastrofici e in genere consistevano in scazzottate con qualche coetaneo dal carattere meno perfettamente equilibrato del suo. La bussola morale del ragazzo ideale indicava sempre il nord, ma ogni tanto tentennava, perché a nessuno piacciono i bacchettoni. Il ragazzo ideale era modesto, ovviamente, e gentile con i molti che pure gli erano inferiori, ed era alto di statura, ma non troppo. In quella parte delle pianure in cui viveva Ian e in generale in America, verso la metà del ventesimo secolo, si dava per scontato che il ragazzo equilibrato ideale fosse caucasico (benché d’estate si abbronzasse niente male), e cristiano non fanatico, inoltre, almeno per come veniva presentato nella letteratura popolare, doveva avere i capelli biondo rossicci, e dieci decimi di acutezza visiva. Se al ragazzo ideale si fosse dovuta assegnare una temperatura, sarebbe stata tiepida. In realtà c’era solo un settore aperto all’estremismo in tale modello di mediocrità, un settore che gli stessi greci avrebbero approvato: lo sport.

Benché Ian aspirasse a un piacevole equilibrio o almeno, ogni tanto, all’apparenza di un siffatto equilibrio per accontentare i genitori, la sua passione per le vicende misteriose, i crimini irrisolti, i furti, le ruberie, e gli omicidi, soprattutto per gli omicidi, rientrava nella categoria niente affatto americana dell’eccesso. La vita «reale» di Ian si svolgeva dentro i libri, non fuori. Tuttavia non era ben chiaro il confine fra ciò che si trovava fra le copertine e ciò che c’era fuori. Gli omicidi erano rari nella città dei Feathers, Verbum, Minnesota, ma Ian si preparò meticolosamente in vista dei casi futuri. Studiava i pelucchi e le formazioni grinzose sulle maniche delle giacche e le gambe dei pantaloni e osservava i peli di cane e di gatto che pendono dai proprietari di animali domestici. Scrutava le suole delle scarpe (ai piedi o no di potenziali sospetti) esaminando il terriccio e i detriti e la gomma da masticare, e registrandone colore, consistenza, umidità. Annotava i diversi gradi di sudorazione e i suoi effetti sulla zona ascellare delle camicie. Passava ore a memorizzare le tracce lasciate dagli pneumatici delle biciclette, dei carri attrezzi, delle station-wagon e dei pick-up. Prese a desumere induttivamente i tratti di una personalità dai mozziconi di sigaretta, quelli spezzati in due, per esempio, rispetto a quelli lasciati interi nel posacenere ad ardere fino a ridursi in niente. Il ragazzo viveva in un mondo di indizi.

Nel corso degli anni accettò compíto i regali di compleanno e di Natale con i quali i genitori intendevano dare un diverso indirizzo al suo estremismo: il pallone da basket (su cui avevano riposto molte speranze vista la statura torreggiante del pargolo), la palla e la mazza da baseball; a seguire una racchetta da tennis, un paio di sci, un costume da bagno e gli occhialini; infine, tentando ancora una volta di spingerlo nella direzione di quel Qualcun Altro che speravano Ian potesse diventare, gli regalarono una rete da badminton e dei volani: lui però non solo continuò a rifiutarsi di praticare gli sport, nemmeno lo interessavano. Se fosse stato una figura geometrica anziché un ragazzo, Ian sarebbe stato un grosso cubottaedro con molteplici punte sporgenti, punte che aveva aguzzato sin da quando aveva scoperto quale fosse la sua vocazione nella vita, grazie all’inimitabile genio dell’analisi e della logica, il meraviglioso S.H.: Sherlock Holmes.

Per molti anni ho ricordato le mie prime settimane a New York come il Periodo senza Persone Reali. Sapevo di aver parlato con Mr Rosales in carne e ossa, naturalmente, lo salutavo sempre, ma ogni volta che scambiavamo due parole i suoi occhi guizzavano in tutte le direzioni per poi appuntarsi sul pavimento. Credo avesse paura che potessi chiedergli delle riparazioni. Leggevo poesie e romanzi e libri di filosofia, tutti testi che contenevano delle persone in una forma o in un’altra, e il mio eroe lentamente cominciò a trovare se stesso, cosí come la sua importantissima, amica fidata, il suo Sancho, il suo Watson: Isadora Simon, I.S., le iniziali dell’essere, al presente: is, «è». Giravo per Manhattan, ma non avevo né amici né conoscenti. Quando in seguito mi capitò di raccontare la storia della mia iniziazione urbana, dicevo sempre: «Devo essere stata una delle poche persone che si sono trasferite a New York senza conoscere anima viva». È vero. Niente amici, niente amici di amici, niente parenti nemmeno alla lontana, e di conseguenza nessun numero di telefono da chiamare. Poi un tocco patetico: «Per le prime tre settimane non parlai con nessuno». Be’, ho scoperto che non era assolutamente vero, anche se la mia non era una menzogna intenzionale.

3 settembre 1978

Oggi pomeriggio sono tornata alla Pasticceria Ungherese, il mio nuovo rifugio preferito. Letto per un paio d’ore sorseggiando diverse tazze di caffè. Fumato troppe sigarette. Libro: Il riso. Saggio sul significato del comico di Bergson. Preso appunti, e poi chiacchierato con una ragazza che si chiama Wanda: occhi grandi, bocca piccola, capelli biondo scuro, studia Storia russa alla Columbia. Abbiamo discusso del Simbolismo. Io ho parlato un sacco, ho gesticolato, ho sparato pensieri repressi. Le giornate di solitudine mi hanno fatto diventare ciarliera. Dal Simbolismo siamo arrivate a decidere di cenare insieme all’Ideal (un locale di cucina cinese-cubana all’angolo fra la Centosettesima e Broadway). L’ho interrogata sulle Anime morte di Gogol´ e la paratassi, le ho detto che mi dispiaceva di non aver studiato il russo, poi le ho chiesto di lei e, dopo qualche preliminare, mi ha raccontato che sua madre l’anno prima aveva avuto un ictus. Il lato sinistro della faccia era rimasto paralizzato, cosí come il braccio, e camminava trascinando la gamba sinistra. «Devi solo tagliarmi in due e parlare con la parte buona di me», aveva detto la madre alla figlia, ma parlava biascicando le parole. Un secondo ictus l’aveva uccisa. Asciutta, inespressiva e rigida, Wanda ha raccontato la vicenda con una voce che non trasmetteva nemmeno l’ombra di un sentimento, ma mi sono accorta che parlava rivolta alla parete alle mie spalle, non a me, e credo che questo fosse un modo di evitare la compassione che doveva trasparire dal mio volto. È stato imbarazzante, e penso che si sia pentita di avermi fatto queste confidenze. Quando ha finito la storia, è arrossita. Doveva andarsene subito. D’impulso avrei voluto salutarla baciandola su entrambe le guance, ma vedendo come stringeva le labbra, mi sono trattenuta e non ho fatto nemmeno il cenno di avvicinare la mia faccia alla sua. Ci siamo strette la mano e ci siamo scambiate il numero di telefono.

Non mi ricordo minimamente di Wanda.

Mi ricordo di Ian Feathers, e continuo ancora oggi a volergli bene in quanto invenzione che speravo si sarebbe librata lontano da me e nel mondo, mentre Wanda non è nemmeno una vaga immagine mentale e, credimi, ho provato in tutti i modi a evocare i suoi grandi occhi, la bocca piccola, i capelli biondo scuro, ma questa studentessa di storia russa è al di là della mia capacità di ricordo. Quante altre persone, quanti altri avvenimenti, quante conversazioni e storie di genitori deceduti ho dimenticato? Quante Wanda ci sono nella mia vita? Centinaia, suppongo. La memoria non è solo inattendibile, è porosa. Stando a quello che ricordo io, quelle parole su Wanda potrebbe averle scritte un’altra persona oppure il mio io di allora potrebbe avere inventato tutta la storia di sana pianta. Quest’ultima eventualità è assai remota. Ricordo il mio giovane io abbastanza bene da sapere che, nonostante un senso dell’ironia ancora in via di maturazione, in materia di madri morte non potevo che essere veritiera.

Aleggio sopra l’io che incontrò Wanda e poi ne scrisse. In qualche modo sono vicina al soffitto crepato del logoro appartamento semivuoto, lo spiritello di ciò che sarà guarda sotto di sé con un misto di meraviglia e di pena la giovane persona ingobbita sul taccuino. I brani del diario mi ricordano che allora fumavo; aggiungo una sigaretta alla mia scena mentale e osservo il fumo salire dalla paglia che la giovane tiene fra due dita. È una giovane donna seduta che fuma e scrive pagine su pagine di prosa, alcune buone, altre cattive, ma presto si accorgerà di essersi persa nel labirinto che ha creato lei stessa, pur con l’aiuto di Feathers, anche lui incerto circa la direzione da prendere.

La storia va avanti.

Secondo il mio diario, il 5 settembre, due giorni dopo avere conosciuto Wanda, capii che la mia vicina di casa non era devota ad alcun culto orientale. Non dormivo bene. Anche se il momento peggiore del caldo sembrava passato, le stanze in casa erano ancora afose, e la notte i rumori della città mi tenevano sveglia, era un baccano a cui mi ci sarebbe voluto un po’ per abituarmi dato che ero cresciuta in mezzo a suoni completamente diversi. Nelle notti d’estate, giú dai miei, bastava un’unica lamentosa zanzara che mi svolazzasse sopra l’orecchio a rendermi insonne, tuttavia mi piaceva ascoltare i cori dei grilli al crepuscolo e le cavallette che cantavano fino a notte fonda. Dormivo cullata dalle loro canzoni e con i venti piú o meno intensi che facevano scricchiolare i rami degli alberi e sibilare le erbe alte nei prati attorno casa. In giugno, quando scoppiavano i temporali, sentivo i tuoni rimbombare ora piú vicino, ora piú lontano, e il cuore mi batteva a mille per l’eccitazione mentre il cielo rovesciava sul tetto cascate di pioggia; d’inverno, quando arrivava una bufera di neve, ne ascoltavo il roco ruggito, quel pianto intermittente seguito da un silenzio quasi totale: una paralisi di sole e neve. Sento la nostalgia nella mia descrizione, ma a ventitre anni non avevo nostalgie. E sposai il frastuono urbano. La mia vicina smetteva di salmodiare verso le dieci, ma le porte dell’ascensore continuavano ad aprirsi e a chiudersi a tutte le ore e dalla Broadway arrivava l’urlo delle sirene. Ascoltavo le voci che salivano dal cavedio dalle finestre lasciate socchiuse. I televisori dei miei vicini diffondevano parole e pianti e canzoncine pubblicitarie. Dalla strada arrivavano le urla degli ubriachi, poi il tranquillo e gutturale brontolio del camion della spazzatura mi svegliava verso le cinque della mattina. Sentivo il motore che andava al minimo, poi il rumore dei bidoni di metallo che sbatacchiavano sul marciapiede. Una volta all’alba sentii una donna gridare e, ancora mezzo addormentata, mi sedetti sul letto tendendo le orecchie. Soltanto al mattino mi venne fatto di domandarmi se a gridare non fosse stata la donna che abitava nella porta accanto alla mia. Nel taccuino descrissi il grido come «un presagio di terrore e di gioia». Sotto questa stupidaggine romantica, annotai un verso in francese dai Fiori del male di Baudelaire: «Si le viol, le poison, le poignard, l’incendie…»

La sera verso cui mi sono andata dirigendo sedevo alla mia scrivania, fissavo la pagina davanti a me, e riflettevo sul quattordicenne Ian e sul mistero che intende risolvere: i frequenti avvistamenti del viso di Frieda Frail alla finestra della casa dove l’anno prima è morta per un attacco epilettico. Appunto sul quaderno, rivolto a me stessa: «L’adorazione per Sherlock porta Ian di filato nel mondo della logica proposizionale e dell’inferenza valida o invalida. Il nostro non cosí ideale ragazzo vive per separare il vero dal falso e si immerge nelle p nelle q e nelle r oltre ai segni per no [¬], e [˄], o [˅], se allora [→], e se e solo se [↔]. Procede passo passo, il suo ragionamento è perfetto, ma il nostro eroe sarà sviato dalle sue deduzioni. Isadora Simon, il Watson di Ian Feathers, seguirà un percorso piú proficuo».

Mentre pensavo a Ian e a Isadora e alla logica simbolica che avevo studiato all’università, sentii la mia vicina ricominciare con la sua solita nenia: sontrist, sontrist, sontrist. Il tono ricordava il lamento funebre, e mi resi conto che quelle ripetizioni dolenti avevano cominciato a entrarmi dentro. Rallentavano i miei pensieri e li orientavano verso una china mesta e confusa, era come se qualcuno mi passasse metodicamente della carta vetrata sul petto. Mi avvicinai alla parete, ci appoggiai l’orecchio, dispiaciuta di non avere il vecchio stetoscopio che mio padre mi aveva regalato quando avevo dieci anni e che conservavo nel cassetto in alto del mio comò, giú a casa, e restai in ascolto, il corpo teso e all’erta per l’incantesimo.

– Sontrist, sontrist, io sono triste, io sono triste, io sono triste, io sono triste –. E proseguí con un’unica variazione. – Lucy è triste, lei è triste, io sono triste, io sono triste, io sono triste –. Era peggio di un mantra. Vivevo accanto a una donna cosí triste da proclamare ogni notte la propria malinconia ad alta voce. Mi sembrava quasi di vederla in camera sua mentre si dondolava avanti e indietro. Sul taccuino scrissi: «Devo trovare il modo di escludere le sue cantilene. Voglio comprarmi una radiolina da quattro soldi, l’accenderò la sera. Se quella continua con le sue lagne, uscirò matta. Mi sono messa delle palline di carta igienica nelle orecchie e ho toccato la schiuma».

«Toccare la schiuma» era un’espressione in codice per indicare l’autozum-zum.

Mi masturbavo un sacco a quei tempi, ma allora ero pudica e restia ad affidare le mie fantasie onanistiche alla pagina. Quella pudicizia non c’è piú. Mi sdraiavo sul materasso di schiuma, che era posato su un letto costruito da me con le cassette delle arance che trovavo buttate per strada e un pezzo di compensato tagliato su misura, e immaginavo un amante e la mia mano diventava quella di lui, o di lei, a seconda delle mie preferenze del momento, e mi contorcevo e mi dimenavo e ansimavo fra le lenzuola che mia madre aveva comprato per me da Sears, mentre uno sconosciuto con una ciocca di capelli neri che gli cadeva sulla fronte e i fianchi strettissimi e un sedere deliziosamente tondeggiante entrava nel vagone letto di un treno che andava da Berlino a Parigi e si spogliava restando in piedi sul pavimento sotto di me, poi s’insinuava nella cuccetta superiore, quella dove ero io, e mi spingeva le spalle contro quel duro giaciglio, e mentre lui mi scrutava, io notavo un luccichio sul suo labbro superiore perché faceva caldo in treno, e all’improvviso lui mi faceva girare e mi scopava da dietro, e la cosa mi piaceva, oppure, sempre nello stesso scompartimento, ecco una giovane bionda identica a Marilyn Monroe che mi saliva sopra a cavalcioni e si sbottonava piano piano la camicetta mentre il treno su cui viaggiavamo oscillava sulle rotaie e fischiava, e allora io spingevo indietro la donna e le tiravo giú le mutandine e ammiravo la bellezza del suo splendido culo e, in una posizione o nell’altra, le toccavo la clitoride finché lei veniva e io venivo – venivamo tutti – a volte venivamo lui, lei e io insieme, come in coro, se capitava che avessi voglia di un terzetto. Facevo tutte le parti. Ero l’uomo ed ero la donna. Ero la donna con l’uomo e a volte ero l’uomo con la donna e poi di nuovo la donna con la donna. Non incontro alcuna difficoltà nel ricordare oggi le fantasie masturbatorie di allora perché sono bizzarramente immutabili. Il resto di me è maturato e cambiato. Ora sono una tipa vecchia e saggia, lievitata dai dolori e dalla conoscenza che arriva con gli anni, ma la ginnastica erotica che si svolgeva nella mia testa allora e quella che va in scena adesso sono incredibilmente simili. La fantasia sessuale è una macchina, non un organismo. Continuo ad avere un debole per il sesso in treno. Deve essere per via del ritmo.

«Scrivere un libro è un po’ come per la gente canticchiare una canzone: basta essere intonati, Signora, non importa poi se prendete la nota un tono piú sotto o piú sopra». Avevo appiccicato con lo scotch questa citazione, dalla Vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo del reverendo Laurence Sterne, sul muro davanti alla mia scrivania: era una fonte di ispirazione e un acuto memento del fatto che non esista un unico genere di romanzo. Come era solita dire la mia prozia Irma, «ce n’è per tutti i gusti».

Quando, nel piccolo atrio del mio palazzo, guardai la cassetta della posta dell’appartamento 2C trovai scritto solo: L. Brite. Era un nome grazioso che poteva appartenere a una donna graziosa, benché triste. Il cognome Brite, che aveva lo stesso suono di bright, produceva inevitabili associazioni: una luce brillante come quella del sole, ma anche i sorrisi che «piú brillanti non si può» delle pubblicità dei dentifrici, l’esatto contrario di ciò che la mia vicina comunicava di là dalla parete. Esisteva anche la brillantezza metaforica, ovvero lo sfolgorio intellettuale di certe persone o di chi è colto all’improvviso da una grande idea, un evento simboleggiato nell’immagine della lampadina accesa sopra la testa di qualcuno, una lampadina da cui partivano dei trattini che l’osservatore doveva intendere come raggi. Il nome Brite mi ispirò, e feci un piccolo disegno di una Lucy immaginaria raggiante nell’oscurità del suo dolore. Avevo dimenticato anche questo disegno, finché non mi ci sono imbattuta sfogliando il mio vecchio quaderno Mead.



Di giorno la mia vicina non salmodiava le sue tristi nenie. Batteva e pestava, impegnata in quello che immaginai fosse un qualche lavoretto di falegnameria e, mentre lavorava, fischiava. Lucy Brite fischiava bene, un talento che mi faceva pensare a mio padre, quando cantava era stonato come una campana, ma quando fischiava non sbagliava una nota, e da bambina questo fatto mi aveva sempre stupito. Com’era possibile che in chiesa mio padre mugolasse gli inni con una voce cosí monocorde da farmi sudare sette camicie per non scoppiare a ridere, ma sapesse fischiare come un messaggero del paradiso? Se mio padre fischiava era segno che era di buon umore, e che comunque, per il momento, la vita gli sembrava bella, il che la rendeva bella anche per noi, le sue figlie, le due bambine che ascoltavano la versione senza parole di Camptown races o I’ve been working on the railroad o There is power in a Union dal sedile posteriore dell’auto, e questo spiega perché io associ l’atto di fischiare all’immagine di mio padre visto da dietro: il bordo di capelli scuri sotto il cucuzzolo calvo e le orecchie «ben aderenti alla testa», l’unica configurazione possibile per le orecchie, secondo nostra madre.

Ci piaceva quando lui fischiava e guidava la prima auto di famiglia di cui ho memoria, Goffa, una Chevrolet marrone e bianca del 1959 con un’ammaccatura nel parafango che non fu mai riparata perché «non interferisce in alcun modo col motore che gira benissimo». Mio padre considerava quel pezzo di carrozzeria leggermente ammaccato da un punto di vista esclusivamente pratico, una visione che mia madre non condivideva allora e neanche oggi. Lei lanciava un’occhiata sgomenta al fianco di Goffa prima di salire in macchina, ma taceva l’affronto ai propri valori estetici per il rispetto dovuto al capofamiglia, che aveva la priorità sul mondo di fuori, un fuori che cominciava dal garage (il che era un po’ assurdo, poiché tecnicamente costituiva un ambiente chiuso), l’auto che vi veniva parcheggiata e i numerosi attrezzi appesi alle pareti, e si espandeva all’esterno, verso la strada e la cassetta della posta e la città e oltre. L’unica eccezione alla legge del fuori erano le aiuole di calendule, zinnie e rose che abbracciavano un fianco della nostra casa e che appartenevano esclusivamente a nostra madre.

Da bambina pensavo che tutto il mondo fosse organizzato in questo modo, con le madri per lo piú dentro e i padri per lo piú fuori, ma ero sempre incerta circa il mio posto in tale schema o il posto di mia sorella Kari, nata due anni dopo di me, perché Kari era una bambina che sapeva fare la ruota, saltava le staccionate, si arrampicava sugli alberi, amava i cavalli e, quando era necessario, sapeva difendere l’onore della famiglia. Vedo ancora la faccia di Daryl Stankey mentre si solleva sui gomiti e alza lo sguardo su di noi dalla ghiaia di Old Dutch Road dove il pugno di Kari l’ha fatto atterrare. Vedo le sue guance sporche dove le lacrime stanno lasciando delle righe chiare e il moccio verde che gli cola dalla narice sinistra. Mi sentivo cosí orgogliosa. Benché il merito fosse tutto di mia sorella, l’immagine dello sconfitto, frignante Daryl per me è a tutt’oggi una fonte di ispirazione. Mi ispira quanto le digressioni di Shandy, quanto Marilyn Monroe, quanto la prosa caustica di Anne Conway, una filosofa del diciassettesimo secolo che leggo da un po’ di tempo in qua. Il pugno di Kari era piombato sul mento di Daryl perché lui aveva chiamato «macellaio» nostro padre, che era medico.

Nel mio ricordo quei giorni di fischiettate paterne sono caldi, non freddi, e i vetri dei finestrini dell’auto sono abbassati completamente e il vento sbatte sulle nostre facce, mia e di Kari, e io mi azzardo a metter fuori giusto la punta del naso, stando ben attenta a «non sporgere la testa», so che rischierei la decapitazione. Immaginavo di continuo che un camion arrivasse nella direzione opposta e mi decapitasse sfrecciando oltre i limiti di velocità. Vedevo la mia testa volare sull’asfalto dopo il distacco dal collo ridotto a un sanguinolento moncone in cima al corpo patetico di una bambina rovesciata sul sedile posteriore da cui non si sarebbe piú alzata, e provavo una pena angosciosa all’idea di Kari e di mio padre e di mia madre che restavano lí con me morta, divisa in due macabre sezioni, e sentivo degli spasmi allo stomaco e un senso di svenimento e una nausea cosí intensa che per riprendermi dovevo reggermi al sedile davanti, chiudere gli occhi e respirare a fondo. La delizia di sentire il vento in faccia a una velocità di quasi cento chilometri l’ora faceva a gara con la mia immaginazione, che mi precedeva correndo verso possibili orrori. Sapevo controllare con fermezza l’impulso alla gratificazione immediata, dunque non allungai mai la testa fuori dal finestrino dell’auto. Sulle mie fantasie, al contrario, avevo poca o nessuna autorità.

Sarebbe falso affermare che pensavo a mio padre mentre ero seduta alla mia scrivania sulla Centonovesima Strada Ovest, fumando sigarette e cercando di scrivere la mia storia donchisciottesca. Non ricordo di avere mai dedicato molti pensieri a mio padre allora e, nel diario, parlo pochissimo di entrambi i miei genitori. Il collegamento fischiettante fra il primo uomo della mia vita e la mia vicina invisibile mi è venuto adesso. Mio padre è morto da dodici anni ma, nel 1978, era ancora un uomo vigoroso, ancora praticava la medicina, ancora era disgustato dai repubblicani. Se mio padre fischiettava, la cosa era gradita a tutti perché lui andava soggetto a quello che sua zia Irma chiamava «l’umore nero», in cui lui sembrava non esistere piú. Erano delle crisi ricorrenti durante le quali non vedeva e non sentiva nessuno di noi. Mi sembrava turbato da tormenti non detti, i quali avrebbero potuto farlo esplodere all’improvviso ed eruttare lava, ma non successe mai.

Cosa pensasse esattamente della figlia che se ne era andata di casa per seguire una missione letteraria resta un suo segreto ed è sepolto con lui, insieme a innumerevoli altri segreti, nel cimitero della chiesa di St Paul, a Webster, ma sospetto che disapprovasse quel mio anno dedicato alla scrittura, anche se non pronunciò mai una parola al riguardo. Figlio di un medico di campagna che era andato di casa in casa con la macchina d’estate e d’inverno, quando le strade erano bloccate dalla neve, col cavallo e la slitta, mio padre era rimasto tenacemente attaccato alla verità rurale, intesa come il contrario della verità cittadina, a un’idea di buon vicinato senza staccionate, a una frugalità stile Grande Depressione, diffidando della ricchezza, confidando nei contadini e negli operai (e nell’occasionale medico) uniti per costruire un mondo migliore, piú socialista che capitalista, sostenendo sempre il lavoro collettivo di ogni genere, compresa la diserbatura di famiglia dell’orto di casa, e l’imperitura idea di una vita vissuta utilmente. Per mio padre l’arte per l’arte era un’assurdità.

Lucy Brite amava fischiettare le ballate irlandesi, che in genere sono tristi di loro; alcune le conoscevo. Una era The wind that shakes the barley. Erano melodie piene di sdolcinate sbavature melodiche e, benché mancassero le parole, mi facevano pensare a giovanotti aitanti e a fanciulle annegate e ad appuntamenti mancati e a strade tortuose in quella che era la piú verde delle terre verdi, strade che non venivano mai imboccate o, se venivano imboccate, portavano al vicolo cieco di una nobile ribellione e della tragedia, perché quando muoiono i giovani, per l’amore perduto o nei tumulti politici, è terribile, e tali temi non espressi in parole ma fortemente malinconici accrescevano il dolore che avvertivo appena sotto la gabbia toracica e che mi accompagnava ovunque andassi, benché non seppi mai cosa lo causasse. Era il memento fisico della mia vulnerabilità e del mio senso di colpa perpetuo, suppongo, il simbolo piantato nelle carni delle innumerevoli, innominate ferite che in passato mi erano state inferte, e che avevo inferto agli altri, ferite che sicuramente sarebbero tornate a farsi sentire in futuro. Circola una falsa idea in Occidente, quella secondo cui l’essere umano è isolato e da solo decide la sua rotta e da solo la segue. In realtà noi siamo sempre in un luogo, e quel luogo è sempre in noi stessi. Ascoltare Lucy ripetere in continuazione «sono triste» era piuttosto brutto, ma ascoltare della musica, anche solo nella forma dei suoni sottili e limpidi emessi da qualcuno che fischia, arrivava molto piú in fondo. La musica ti trapassa la pelle e i muscoli e alla fine ti si deposita nelle ossa. Può influenzare l’umore portandolo dall’ottimismo alla depressione, e spingere un pensiero dalla contemplazione eterea al dimenio dei fianchi e alla libidine sudata. In questo la musica è come il tempo atmosferico: la luce del sole rinfranca l’anima, e i giorni di pioggia la assediano con schiere di pensieri sconfortanti. Quando si tratta di musica, gli esseri umani sono inermi e vengono cullati e rollati e sollevati e schiacciati e rivoltati in un caos vorticoso. Tutto dipende dalla melodia.

In realtà, se Lucy Brite fosse stata un’altra persona e avesse amato fischiettare delle canzoni meno sepolcrali, forse non sarei stata sopraffatta dai sentimenti che sfociarono nella storia di Feathers e nei vividi sogni che cominciarono a scompigliare la sua logica. Ancora non sapevo in quale punto del romanzo sarebbe finito il sogno, ma lo composi comunque pensando a Ian, e lo inserii nel taccuino.

Ian Feathers sogna di aprire una porta e di ritrovarsi di notte nella camera da letto di Frieda Frail. Come faccia lui a sapere che questa stanza appartiene alla donna morta è un segreto onirico. In ogni caso Ian lo sa, ed esamina la scena col freddo distacco dell’investigatore provetto in cerca di indizi. Il letto a una piazza, il comodino, la lampada, e sul pavimento il tappeto di stracci sono intrisi di qualcosa che lo disturba. «Sono troppo perfetti», pensa. Hanno l’irreale levigatezza della foto di una stanza in una pubblicità. Ian va verso la finestra e guarda fuori il prato e il marciapiede e nota una chiave posata sul davanzale. Mentre la osserva, la chiave sussulta leggermente, come se fosse viva. Lui con uno scatto la copre con la mano, sente un tremore sotto il palmo, ma stringe la chiave nel pugno. Quando si gira, vede una porta che prima non c’era, la apre con la chiave vivente, e trova una ragazza con un cartello di cartone sulla schiena, sul cartello c’è scritto I.F.F. Il cartello lo imbarazza e di colpo capisce di avere commesso un crimine e viene sopraffatto da un forte senso di colpa. «Ma qual è il crimine? Cosa ho fatto?» pensa Ian. La ragazza sale una scala saltando quattro gradini alla volta, e a ognuno di quei salti volanti il vestito le si solleva fino alla testa, e lui ne intravede il corpo nudo. Ha un’erezione. Il sogno diventa un sogno erotico che raggiunge il culmine, e Ian Feathers si sveglia.

Lucy non fischiettava ballate «povere» e «abbandonate» tutti i giorni. Grazie a Dio. La sera del 6 settembre i suoi «sono triste» vennero interrotti da un’esplosione improvvisa che appuntai sul mio quaderno mentre ero in ascolto addossata alla parete. A quanto pareva Lucy stava apostrofando qualcuno con ringhio forte e rabbioso, e mi domandai se non fosse al telefono, ma quando ebbe concluso la sua breve tirata, non la sentii abbassare il ricevitore.

– Pensavi di avere il diritto, il diritto, il diritto di ferirmi. Pensavi che ero la tua cagna e che potevi prendermi a calci. Lo pensavo anche io. Non dicevo una parola. Ritorna di notte. Tu torni. Succede un’altra volta. Soffoco! E Lindy è morta. La finestra. Vedo la caduta –. Non ho bisogno del taccuino per ricordare ciò che udii o ciò che provai a quel punto. Il corpo mi si irrigidí contro la parete. Poi Lucy con voce sonora, enfatica, disse: – Mi stai ascoltando? – Mi staccai dalla parete con un balzo. Sí, la stavo ascoltando e, in quanto sua ascoltatrice, quella frase mi colpí, attraversandomi come un elettroshock.
Capitolo secondo
La giovane donna che passava i suoi pomeriggi nella Pasticceria Ungherese all’inizio del settembre 1978 non frequentava quel posto solo per sfuggire ai confini del suo esiguo appartamento fiocamente illuminato o alle cantilene della vicina né per progettare il suo romanzo né per cercare di intendere le misteriose frasi di Edmund Husserl, di cui andava leggendo e rileggendo Ricerche logiche. Lei andava nella Pasticceria Ungherese e si sedeva a un tavolo di cui apprezzava la collocazione, perché le dava una chiara visuale della porta e di tutti quelli che entravano o uscivano dal locale. Da quella posizione fortunata poteva agevolmente alzare per un attimo gli occhi dal caffè o dal libro e osservare tutti gli sconosciuti interessanti. Ammazzava il tempo, oziava e scialava in croissant e cappuccini perché viveva in uno stato di perenne attesa. Lei, come il suo eroe, Ian Feathers, viveva buona parte del suo tempo al congiuntivo, proiettandosi in situazioni fondate sul «facciamo come se» e nelle innumerevoli, gloriose possibilità che l’attendevano: un’amicizia affascinante sarebbe stato il minimo; una torrida passione, il massimo.

Sotto questo profilo non ci assomigliamo, il mio vecchio io e io. Era impossibile per me a ventitre anni sapere che l’orribile espressione «la vita è breve» ha un suo senso, che a sessantuno anni so di avere davanti meno tempo di quanto ne abbia alle spalle, e che, mentre il mio io di un tempo non era particolarmente curioso di sé, io lo sono diventata del mio antico io in quanto incarnazione di speranze ed errori che ebbero o sembrano avere avuto un effetto determinante su ciò che sono adesso. E mentre lei era impegnata a procedere di gran carriera lungo un’immaginaria linea temporale, quella che sulla pagina va da sinistra verso destra e registra l’evoluzione degli organismi nel corso dei millenni o la successione degli imperatori romani o i principali avvenimenti della vita di Napoleone (come se il tempo fosse analogo allo spazio e non qualcosa di totalmente ineffabile, un moto invisibile cosí enigmatico che rifletterci sopra con attenzione significa perderlo del tutto), a me interessa capire quale parentela ci sia tra lei e me, e questo significa voltarsi e seguire la linea temporale in direzione opposta, perché non riesco a immaginare il tempo senza metafore spaziali – senza indietro e avanti, senza strade dietro di me e davanti a me, come in un percorso a piedi – ma in fin dei conti il mio spazio ha solo le tre sporche dimensioni euclidee. Il tempo, ci dicono i fisici, è la quarta. Nel nostro semplice vecchio mondo umano, la giovane donna che alza gli occhi quando sente aprirsi la porta della Pasticceria Ungherese nel settembre 1978 diventa l’attempata donna che è seduta qui, adesso, nel settembre 2016, nel suo studio, in una casa di Brooklyn, e digita sulla tastiera la frase che ora tu stai leggendo nel tuo personale presente, un presente che non sono in grado di individuare. Ma laggiú, nello spaziotempo di Minkowski, l’«Io» di ragazza e l’«Io» ben piú maturo di adesso coesistono, e in quella stupefacente realtà quadrimensionale lei e io potremmo anche incontrarci e stringerci la mano e scambiare quattro chiacchiere, perché il tempo, in un universo-blocco, non scorre, non sgocciola, non trapela, e non fa alcuna differenza se viaggi nel passato o nel futuro. Mio marito, Walter, mi dice che la matematica è in grado di calcolare tutto perfettamente. E quando prova a spiegarmelo, come ha fatto numerose volte, sbotto: «Vuoi dirmi che il progredire del tempo è solo un’allucinazione cellulare? Cos’è il ricordo se il mio io precedente è ancora là fuori da qualche parte, immutato?» E a quel punto a lui piace tirare fuori la storia di Einstein che Ruldolf Carnap racconta nella sua autobiografia: «Einstein era seriamente preoccupato dalla questione dell’Adesso. Spiegava che sentire l’Adesso significa qualcosa di particolare per gli esseri umani, qualcosa di essenzialmente differente dal passato e dal futuro, ma che questa importante differenza non esiste né può esistere nella fisica». Walter conclude sempre il racconto di questo celebre aneddoto osservando che Carnap non aveva molta comprensione per l’ansia di Einstein perché era un uomo tutto d’un pezzo, un positivista logico del Circolo di Vienna, e l’apprensione di Einstein per la sensibilità umana lo lasciava interdetto. E io sempre gli ribatto: «Ma quell’adesso cosí significativo è niente. È elusivo quanto l’era e il sarà, e c’è molto da guadagnare pensando al di là della dimensione matematica»; e Walter è d’accordo, perché lui non è un uomo tutto d’un pezzo, e il problema del tempo è ancora irrisolto, e questa è solo una delle ragioni per cui dopo tanti anni continuo a essere cosí legata a mio marito.

Ma il blocco immobile di Walter e dei suoi amici fisici è un po’ come una biblioteca, o sbaglio? Il Mondo 3 di Karl Popper è là fuori per tutti noi. In quel mondo è possibile saltare a piacimento dal dopo al prima. Se voglio, posso tirare giú dallo scaffale l’Apologia di Platone o posso prendere le poesie della baronessa Elsa von Freytag-Loringhoven, ora stampate in una bella edizione, e, se ideassi un metodo eccentrico per organizzare la mia biblioteca, i due potrebbero persino essere vicini. Socrate spiegò le sue ragioni nel 399 a.C. e poi si uccise, come tutti sanno, ma ancor oggi solo pochissimi sanno che la baronessa parlava spesso di suicidio nei suoi scritti e che veniva da una famiglia dove si contavano diversi casi di suicidio e che, stanca e povera, non si può escludere che abbia posto termine volontariamente ai suoi giorni con la stufa a gas che aveva appena acquistato per il suo freddo appartamento parigino nel 1927. Ragion per cui nella mia biblioteca il Socrate di Platone può baciare la baronessa avendo ancora la cicuta sulle labbra perché il tempo non è un problema in una biblioteca, anche se quell’uomo saggio e brutto preferiva i fanciulli, e senza dubbio avrebbe considerato un mostro la baronessa. La coesistenza temporale vale anche per qualsiasi libro in sé. Possiamo saltare da pagina 137 a pagina 7 anche venti volte, ma la storia o l’argomento sono fissi, definiti dalla prima all’ultima parola. E in questo libro in particolare, il libro che stai leggendo adesso, la persona giovane e quella anziana vivono fianco a fianco nelle precarie verità della memoria.

Einstein era seriamente preoccupato dalla questione dell’Adesso.

Einstein era seriamente preoccupato dalla questione dell’Adesso.

Qui sono libera di fare un balzo di decenni nel piccolo spazio bianco fra un paragrafo e l’altro o di attardarmi per pagine e pagine su un singolo momento luminoso nella mia vita o giocare con i tempi verbali che indicano ora il passato, ora il futuro. Sono libera di seguire il mio io precedente pur con qualche intervallo dal punto di osservazione del mio io successivo perché la persona anziana ha una prospettiva che la persona giovane non può avere. Incontro me stessa sulla pagina, dunque, sulle pagine che lei scrisse tanti anni fa e su quelle che sto scrivendo adesso. Una giovane donna è seduta nella Pasticceria Ungherese, fra Amsterdam Avenue e la Centoundicesima Strada Ovest, e alza gli occhi dal suo libro quando sente che la porta si apre e gli occhi le cadono su un’affascinante creatura sconosciuta che varca la soglia del locale. Suppongo che, maschio o femmina che fosse, se si fosse presa la briga di scrutare anche solo per un istante il viso di quella giovane donna, nella sua espressione avrebbe visto la speranza.

10 settembre 1978

Cara Pagina,

Pasticceria Ungherese, oggi, ore 16.15: un giovane uomo sorridente, con la barba corta e curata, entra e ordina un caffè. Si siede nel tavolo accanto al mio, mi rivolge un cenno espressivo col capo e mi sorride. Sento che mi manca il respiro, il piacevole coagularsi di una possibilità. Aitante, moro, magro, il naso dritto leggermente lentigginoso con le narici delicate che si dilatano rivelando l’interno rosa pallido. Leggera sovrapposizione fra due incisivi: un difetto attraente. Comincia lui. Si presenta. – Aaron, Aaron Blinderman –. Tocca a me. – Che nome insolito, – dice lui. – Di dov’è? – È un nome norvegese, – dico. – Oh, norvegese, – fa lui. Mio succinto resoconto della storia di immigrazione di entrambi i rami della mia famiglia, laggiú nelle praterie del Minnesota. Aaron sembra contento delle mie radici nordiche e si butta a raccontarmi la sua tesi in antropologia. Una buona partenza. Mi interessa tutto. Aaron sta studiando gli hua della Nuova Guinea. Non so niente degli hua e glielo dico. La mia ignoranza gli fa piacere, anche se non saprei dire perché. Fa su e giú con la testa. Sorride. Vedo che il torace gli si espande. Aaron si dilunga un po’ nella presentazione dello scenario malinesiano: le abitazioni, l’alimentazione, gli utensili… Sono annoiata. Non sono del tutto a digiuno di antropologia. Ho letto Lévi-Strauss. Poi Aaron si mette a parlare di una cosa chiamata Nu, una forza dinamica e mobile che è nelle persone, una specie di principio vitale. Quest’idea mi rianima. Gli faccio delle domande. Lui usa l’indice per rispondere e spiegare il suo punto di vista, scuotendolo verso di me. Il dito non sta mai fermo. E non mi piace. Aaron mi dice che nella cultura hua, le donne sono impure, e io faccio: – Oh –. Ormai la sua è diventata una lezione, e noto che non riesce a guardarmi in faccia, nonostante l’indice sempre insistente. Le donne hua sono ladre di seme. Fiaccano la forza degli uomini. A ogni goccia che ricevono del prezioso fluido seminale le donne diventano piú forti, piú energiche, piú pericolose. Gli uomini hua combattono con forza l’impulso sessuale perché sanno che l’appagamento prosciugherà la loro vita. Devono conservare gelosamente quel loro fluido vischioso se vogliono restare vivi. Aaron s’è fissato che i miei seni debbano conoscere questo importantissimo collegamento morte-sesso. Faccio per dire qualcosa, ma lui continua a parlare. Penso che gli piacerebbe sprofondare fra le mie tette a costo di soffocare e morire, la qual cosa probabilmente non rientra fra le usanze degli hua. Ti prego, alza gli occhi e guardami in faccia, Aaron. Lui forse nemmeno lo sa che parla rivolto alle mie poppe. Mi sforzo di essere paziente, ma dopo qualche altra assurdità degli hua sento un’oppressione al petto, un disagio cosí asfissiante che devo tagliare la corda. Gli dico che ho un appuntamento e che devo scappare. – È stato molto carino parlare con te, molto interessante, buona fortuna, – bla, bla, bla. Faccio per alzarmi, e Aaron allunga un braccio di là dal tavolo e mi afferra il polso. Sibila: – Sei bella, lo sai? Davvero bella.

Ricordo che le guance mi sono diventate di fuoco, e ho balbettato, ma adesso, anche se sono passate solo poche ore, non sono sicura di sapere cosa gli ho risposto. Lui ha allentato la stretta sul mio braccio, ha alzato gli occhi e mi ha guardato con un’espressione implorante, e mi sono sentita male; il solito strattone sotto le costole. L’ho ringraziato di nuovo per la conversazione. Ho sorriso. Uscendo l’ho salutato sventolando la mano. Ho letto la delusione sul suo viso ed è stata una pugnalata. Ero stata gentile, ma mi sentivo come se fossi stata cattiva. Ero ferita, provavo colpa, vergogna, umiliazione e non erano sentimenti distinti l’uno dall’altro, come avrebbe dovuto essere, bensí erano fusi in una massa informe e amorfa nella parte alta delle viscere. Sono rimasta lí, in mezzo alla strada bollente, e mi sono domandata se, a dargli un’oretta di tempo, Aaron non avrebbe potuto migliorare. Forse avrei fatto meglio a sopportare ancora un po’ quei discorsi sugli hua per il piacere della sua compagnia. Muoio dalla voglia di avere una conversazione vera. Ecco la verità: se Aaron avesse tenuto la bocca chiusa e gli occhi puntati dritto davanti a sé avrei anche potuto finirci a letto per quei denti adorabili.

Ma quella brutta sensazione mi si è bloccata dentro e ho deciso di smaltirla facendo due passi. Ho preso la Broadway e mi sono diretta verso la zona meridionale della città, avevo una gran fame, non di cibo, ma di qualche altra cosa, di qualcuno di intimo, di qualcuno che non sia uno sconosciuto, qualcuno a cui volere bene. Aaron e gli hua mi hanno fatto sentire molto sola, e cosí ho recitato la poesia della cattiva baronessa che ho scoperto nell’archivio:

E il Signore parlò dolcemente al mio cuore…

Sí dolcemente egli parlò al mio cuore…

– Sei libero di scoreggiare! – disse il Signore

Sí dolcemente egli parlò al mio cuore.

E ho sorriso e camminavo dicendo a me stessa: La narrazione della passeggiata. (Mi sembrava un titolo per qualcosa). Parole e frasi emergevano e si ritraevano, e dopo un paio di isolati ero già lí che raccontavo a Kari tutto di Aaron Blinderman e per lei lo rendevo piú spiritoso di quanto non fosse, e poi mi sono arrivati dei pensieri su mia madre, no, non pensieri. Ho sentito la mano di mia madre sulla spalla e una piccola pacca comprensiva. Sono spuntate le parole «Mamma, ho paura», ma me le sono scrollate di dosso. Gli altri pedoni però hanno cominciato a ondeggiare nel liquido, cosí ho deciso di tornare a casa. Ma sapevo che se oggi avessi letto ancora, mi sarebbe scoppiata la testa. Al diavolo Husserl! Cosí ho capito che non dovevo tornare a casa a leggere e neanche dovevo sedermi in un altro caffè a leggere e, mentre camminavo a passi veloci e tenevo il tempo col tonfo duro e omogeneo dei miei piedi sul cemento, mi sono resa conto che i miei pensieri giravano attorno a Lucy Brite e da Lucy Brite sono passati alla caduta di Lindy e alla sua morte, al frammento di storia che avevo sentito di là dalla parete. Ho provato a sostituire Lucy e Lindy con Ian e Isadora, ma non ha funzionato e ho visto invece una finestra e un uomo che spingeva fuori una bambina, e ho visto la bambina cadere e atterrare nello spazio vuoto fra due edifici – una terra di nessuno riarsa e trascurata dove poche erbacce stentate si tendevano flebilmente verso la debole luce del sole – e piú camminavo, piú vedevo, e il tempo andava all’indietro cosí la storia iniziava da un punto precedente.

Per qualche ragione la stanza dove ha luogo il terribile fatto è nuda. Non ci sono mobili. Un uomo alto, con capelli scuri e radi e il viso arrossato e rabbioso, spinge una bambina in salopette contro la parete. Lei grida e arriva di corsa un’altra ragazzina, un po’ piú grande – ha lunghe trecce – che stringe le braccia attorno alla vita dell’uomo e cerca di allontanarlo dalla bambina e c’è una lotta. La ragazzina con le trecce morde il braccio dell’uomo lasciandogli sulla pelle il segno nitido dei denti, e poi da ogni segno comincia a uscirgli il sangue che gli scorre lungo il braccio fino alla mano tracciando delle righe di un rosso brillante. Le ragazzine strillano. L’uomo cerca di bloccare quella piú piccola che però gli sfugge e corre verso la finestra, lui la raggiunge e la spinge fuori, nel vuoto. Il corpo della bambina due piani sotto a loro. Ha un braccio girato nel verso sbagliato e le gambe magre nella salopette a strisce sono spalancate. Questa immagine mi ha fatto sussultare mentre camminavo ma non mi sono fermata, e mentre continuavo ad andare ho capito di aver ambientato l’omicidio nel soggiorno del mio appartamento, dove non ci sono mobili, e di aver visto giacere il corpo della bambina nel piccolo, brutto fazzoletto di terra fra il mio palazzo e quello accanto. Ho cercato di scacciare questa fantasia.

Se non avessi trovato il cinema Thalia, tutto sarebbe stato diverso, ma quando sono arrivata sulla Novantacinquesima Strada ho visto l’ingresso del cinema e il nome di un vecchio film, Fra le tue braccia, regia di Ernst Lubitsch, e sono entrata e ho comprato un biglietto, e il film mi ha tirato su il morale, distraendomi da me stessa e allontanandomi dalla tristezza e dai sentimenti contraddittori e angosciosi e da Aaron Blinderman e da Lucy Brite e dalla morte di Lindy, che a quanto pare è diventata la sorella di Lucy. Mi sono seduta vicino a una donna di una certa età che aveva in grembo un’enorme borsa della spesa di plastica. Quando siamo uscite dal cinema ho notato che i rigidi ricci rossi della donna avevano le radici bianche, e che era vestita tutta di viola. Persino il cinturino dell’orologio era viola. Un vero personaggio, avrebbe detto la zia Irma. Eppure mentre eravamo sedute là, nella sala, a guardare le persone enormi sullo schermo, lei e io avevamo riso in sincrono ed eravamo restate col fiato sospeso nei medesimi punti, e ho sentito che la signora in viola e io siamo state amiche nella semioscurità del cinema. All’uscita le ho sorriso ma lei mi ha risposto con un’occhiata severa, ostile. Per un istante ho provato dolore, ma la fitta ha avuto la stessa risonanza della nota prodotta da una corda di chitarra dopo essere stata pizzicata. Allontanandomi dal cinema, ho trotterellato verso casa rinvigorita dalla battaglia combattuta fra me e me, mi sono fatta i fegatini di pollo con le cipolle per le proteine, 39 centesimi al chilo, e ho bevuto due bicchieri di latte. Adesso ti sto raccontando la mia strana giornata con l’ovatta nelle orecchie, ma ciò nonostante sento tu sai chi, di là dal muro, e di nuovo sono attratta e turbata al tempo stesso, e spero tanto che non reciti le nenie troppo forte e non si metta a gridare nel cuore della notte.

Sogni d’oro, mia cara Pagina Libellus,

S.

Ricordo solo vagamente Aaron Blinderman. Certamente non sarei stata in grado di descriverlo a memoria, e non avrei potuto riportare la storia dell’indice che andava su e giú o la lezione sulla misoginia degli hua. Per simili particolari mi affido al taccuino. Ciò che non ho dimenticato di quella giornata è l’angoscia e lo smarrimento che provai dopo aver lasciato lo studente di antropologia, la tormentata passeggiata lungo la Broadway, e il film che vidi al cinema Thalia grazie al quale il mio umore migliorò. Ricordo nitidamente anche la donna in viola, pur non sapendo spiegare perché mi abbia lasciato un’impressione cosí durevole. La poco appetitosa cena a base di fegatini di pollo e un quartino di latte che a quanto pare spazzolai allegramente è sparita cosí come era sparita Wanda. Ma posso dire questo: anche se ho un ricordo assolutamente impreciso del giovane Aaron Blinderman, egli fu uno dei tanti, e questi tanti nella mia mente si sono fusi diventando uno solo, un tipo d’uomo incontrato a piú riprese, un uomo, a volte piú giovane a volte meno, i cui occhi deragliavano dalla mia faccia alle parti sottostanti, un uomo che parlava senza posa e non faceva mai domande, un uomo disponibile, sorridente, sapiente, il quale – per ragioni che mi sfuggivano – sembrava convinto della mia totale ignoranza su qualsiasi questione grande o piccola, un uomo che, a fine serata, quando avevo azzardato una cena per la mia insopprimibile speranza di compagnia e forse amore, diventava tutto mani e saliva e bisogni impellenti e di tanto in tanto doveva essere respinto con la forza. Lui, quella riduzione di molti uomini in un unico soggetto, si mostrava immancabilmente tradito e sconcertato o tradito e offeso mentre stava lí, in mezzo alla strada o fuori della porta di casa mia, o seduto accanto a me sul sedile posteriore di un taxi o nell’angolo del locale notturno dove aveva appena provato a spingermi mentre le luci stroboscopiche ci lampeggiavano addosso.

Sicuramente, se quell’uomo plurale si ricorda un po’ di me, ricorda, come ricordo io, non me ma il tipo a cui appartengo, la bionda alta il cui viso gli sfugge. E quando anche avesse memoria di tale persona, è poco probabile che ricordi cosa lo avesse attratto di me, oltre al tipo cui appartenevo. Anche io sono diventata un’assenza o una sfocatura nella mente dell’uomo multiplo: una delle tante giovani donne attraenti che gli chiusero la porta in faccia.

La memoria a volte è un coltello.

Nella camera degli ospiti dell’appartamento di mia madre nel complesso residenziale per anziani, dopo una giornata di sacchi dell’immondizia e scatoloni e scricchiolii di scotch da imballaggio e risatine con Kari per via di certi nostri antichi disegni che abbiamo esaminato cercando le caratteristiche che ne permettano l’attribuzione – «Questo è tuo, sono sicura che è tuo. Io non ho mai fatto il muso dei cani in quel modo» –, mentre sfogliavo le pagine del mio vecchio taccuino ci sono stati dei momenti in cui ho dovuto mettere il quaderno a faccia in giú sul comodino e fissare il comò, con l’impiallacciatura fatta per sembrare di quercia ma che di quercia non è, e le mele di cera nella ciotola che c’è posata sopra, cercando di ritrovare l’autocontrollo. Quando sono arrivata alle parole «Aaron allunga un braccio di là dal tavolo e mi afferra il polso» ho cominciato a tremare. E non dico in senso figurato. Leggevo e mi ballavano le mani. Cosa aveva indotto quello stronzo a pensare di avere il diritto di agguantarmi per un polso? E io, ovvero lei (mi viene piú facile dire lei), lei perché si era fatta tutti quegli scrupoli all’idea di ferire i delicati (sai quanto!) sentimenti di qualcuno i cui modi prepotenti e le cui strumentali descrizioni delle usanze di una tribú della Nuova Guinea avrebbero potuto già essere considerati come atti ostili? Anziché liberarsi con uno strattone dalla presa di quel pomposo sempliciotto e inveire contro di lui, lei si congeda ed esce dal locale e, una volta in strada, non riesce a capire come mai si senta ferita.

Una gomitata…

Un calcio…

Una botta…

Uno spintone…

La baronessa scrisse questi versi in una poesia intitolata Una dozzina di cocktail, per favore. E mentre stavo lí sdraiata nella camera degli ospiti presso il centro residenziale per anziani, con una gomitata, un calcio, una botta e uno spintone ho messo Aaron Blinderman con le spalle al muro in fondo alla Pasticceria Ungherese, e gli ho agitato il dito sotto il naso e gli ho fatto la linguaccia e per soprammercato gli ho tirato anche un peto, ringhiando contro la sua faccia stupefatta che, senza mia espressa autorizzazione, doveva tenere le sue manacce lontano da me, e questa fantasia di ribellione mi ha risollevata. Siamo tutti creature piene di desideri, desideri che sono rivolti anche all’indietro, non solo in avanti; grazie al moto retrogrado ricostruiamo la bizzarra, friabile architettura della nostra memoria creando strutture piú vivibili. So che nella realtà non ho mai spinto il giovane Aaron Blinderman contro un muro, ma so anche di conservare innumerevoli ricordi sbagliati, ricordi ammantati di desideri. Kari ricorda le cose diversamente da come le ricordo io o ricorda cose che io ho dimenticato o ha dimenticato cose che io ricordo. Mia sorella è sicura di avere salvato Dinky, la nostra tartaruga, dalle fauci di Laurence, il cane da pastore degli Harrington, ma io sono piú che certa di avere aperto la bocca al cane e ricordo la sua bava sulle mani mentre gli toglievo Dinky dalle fauci. Entrambe desideriamo, è ovvio, essere state l’agente di quell’impresa audace, l’eroina era solo una di noi due, ma è vero anche che negli annali della nostra infanzia l’eroina in genere era Kari, non io.

Lucy non la smetteva di parlare. Comprai una radio per ascoltare la musica, ma appena lei attaccava con i suoi «sono triste» la spegnevo e aguzzavo le orecchie per sentire lei. In una lettera ai miei genitori avevo accennato con tenera nostalgia allo stetoscopio, e mia madre me lo spedí in un pacco successivo insieme a un biglietto:

Tesoro mio,

son contenta di sentire che te la cavi a meraviglia. Tuo padre ha sorriso quando ha letto dello stetoscopio. Nell’orto ci sono ancora pomodori e zucche, e sto raccogliendo i lamponi tardivi. Ieri ho preso il caffè con Rosemary Petersen, che ti manda i suoi piú affettuosi saluti. Ellen è entrata nella facoltà di Giurisprudenza. Ieri mentre facevo due passi ho sentito un cambiamento nell’aria, il morso dell’autunno. Ormai le stagioni si susseguono cosí velocemente! In un batter d’occhio arriverà l’inverno. Ho portato a casa un mazzo di erbe selvatiche e le ho sistemate in uno dei vasi di ceramica di Lila Hernke. Sono molto graziose.

Mi raccomando, sii prudente.

Ti voglio bene. Mamma

Lo stetoscopio amplificava ogni suono. Era come se fossi una cieca dentro l’appartamento di Lucy Brite. Sentivo la mia vicina respirare e sospirare e camminare per la stanza. Ascoltavo il suo fischiettare, le sue brevi giaculatorie, i suoi monologhi, e ogni tanto anche la sua televisione, le volte in cui la guardava, per lo piú repliche del Tenente Kojak. Mi mettevo per terra con un cuscino per appoggiare la testa, una coperta sotto per attutire la durezza delle tavole di legno del pavimento, e lo stetoscopio nelle orecchie. Avevo con me sia il mio taccuino sia Le avventure di Peregrine Pickle di Tobias Smollett, il romanzo che stavo leggendo la sera perché mi divertiva e m’ispirava, ma appena Lucy cominciava a parlare buttavo via Pickle e appoggiavo la testina dello stetoscopio alla parete con un entusiasmo che m’imbarazzava. Se qualcuno avesse visto ciò che facevo, avrei provato piú che imbarazzo, vergogna, ma quello spiare sonoro – un ossimoro che tuttavia si addice al mio comportamento – e segreto mi dava un piacere voluttuoso che non avevo mai conosciuto prima e che non ho mai dimenticato. Nel corso degli anni ho cercato di considerare criticamente le mie motivazioni e di analizzare la sensazione quasi erotica che mi faceva stare lí a origliare (origliare, eavesdropping… una parola che viene dal norreno, ups per eaves, «gronde», e dropi per drop, «goccia». L’acqua che gocciola dalle grondaie di una casa nel corso del tempo si trasforma nelle parole raccolte da qualcuno che ascolta in segreto). La mia vicina versava le gocce di una storia piú ampia, una storia paurosa che desideravo conoscere, ma piú ancora di questo, capisco col senno di poi che il mio origliare possedesse una carica di aggressività di cui all’epoca non avevo alcuna coscienza. Varcavo una soglia ed entravo in casa di Lucy Brite solo con l’udito, e questa spudorata invasione mi eccitava.

In genere Lucy si rivolgeva espressamente a un «tu». Questo tu aveva un nome, Ted. Era lui quello che aveva pensato di avere il diritto di maltrattarla – «la tua cagna da prendere a calci» – e a volte Lucy con mugugni o rantoli gli raccontava piccoli frammenti del suo passato o delle storie che immaginavo riguardassero la sua infanzia. Ma altre volte, pareva, il «tu» era lei stessa. Lucy cambiava voce. Il tono si abbassava e la sua voce diventava profonda oppure saliva, e la voce le diventava stridula; era come se desse corpo a un colloquio fra due persone. Registrai le diverse voci di Lucy meglio che potei, avrei tanto voluto conoscere la stenografia, i misteriosi trattini e scarabocchi che avevo visto usare a Mrs Stydniki nello studio di mio padre. Per poter scrivere piú velocemente, escogitai un mio personale sistema di abbreviazioni. Saltavo gli articoli e le preposizioni e li aggiungevo dopo. Avevo una calligrafia sciatta. Quando la voce diventava cosí profonda che non riuscivo a udirla, ricorrevo ai puntini di sospensione. Parecchi anni dopo la scomparsa del taccuino, cominciai a desiderare fortemente di poter rileggere quegli appunti. Benché ne ricordassi il succo, non avevo piú memoria del loro contenuto preciso.

11 settembre 1978

Per Pagina Libellus: Un monologo di Lucy Brite:

Il matrimonio… il matrimonio, oh mio Dio. [Ride]. Lui era dentro di me allora. Tu non volevi quella cosa. Tu hai detto «cosa». Cosa, cosa, cosa, be’, era una COSA. Un errore! Uno sbaglio! Il cattivo seme! Un Grosso Affarista. Agenzia Immobiliare Paradise. La cosa andava tenuta nascosta. Le apparenze contano. Altroché se contano. Continuavi a fermare la macchina perché dovevi telefonare, perché dovevi fare benzina. E per due volte hai fatto un’inversione a U. La grande visita ai tuoi genitori. Tuo padre era un coglione, Ted. Lo sai questo? E la tua mamma, la povera Barb, in quell’orribile vestito azzurro con il mazzolino di fiori appuntato sul bavero e quelle gambe secche e la faccina rugosa, sparuta, tristissima in quella casa piena di centrini. Era una donna che non sorrideva mai. Sono triste. Sono triste. Adesso sono triste. La mia povera mamma era già morta, cosí almeno non ha visto tutta la storia. Nemmeno un briciolo di ottimismo. Ecco cosa avrebbe detto la mia povera mamma. Guarda al lato positivo della vita, Barb. Papà… con le sue gambe… con la sua giacca e i suoi pantaloni scadenti sembrava uno di quelli rimasti scemi per lo shock sotto i bombardamenti. Anche Barb Brite mi faceva schifo. Questo non lo sapevi, Ted, vero? Ero gentilissima con lei. Ci mancherebbe altro. Io ero dolce con tutti, Dio santo. Portami da bere, Barb [voce profonda]. Cristo. E lei corre al bar come un cane che corre dietro a un legnetto. Eri niente, il suo niente, puttana. Luce [voce profonda], ma cos’è questo disordine? Cosa combini tutto il santo giorno? Luce qui e Luce lí. Hai tirato fuori quel maledetto aspirapolvere, cazzo? Abbiamo una domestica! Ma cosa fai? Spargi sporcizia in giro dopo che la donna se ne va? Hai detto che ti ho intrappolato. Ci sono state delle notti in cui mi hai amato, però. Oh, se mi amavi, non ti bastava mai, ricordi? Mi svegliavo e ti trovavo lí, sopra di me, a mordicchiarmi le tette. Il medico ha detto di sdraiarsi a letto cosí non arriva. Ma tuo figlio è arrivato. Un bambino brutto… In incubatrice [voce stridula]. Perché non ti ho odiato allora? No, ti amavo. Ti amavo. Sii sincero. Sii sincero. Io ero quella intrappolata. Tu la vedevi al contrario. Il circolo. Il golf. Le scarpe. Le scarpe da golf. Dove sono le mie scarpe da golf? Porte che sbattono. Crisi. E lui sempre a piangere. Sai cosa penso, Ted? Penso che lo hai deformato prima ancora che nascesse. Hai fatto rinsecchire il carattere del piccolo Ted peggio di una prugna secca. Sempre a gridare, sempre a strillare. Davi la colpa a me. La cattiva madre. Mettitelo bene in testa. Io faccio del mio meglio. Io faccio del mio meglio. [Piange]. Lui odiava Lindy. [Fischietta Giro girotondo]. Tu le facevi paura. Nessuno lo sapeva a parte noi. Noi eravamo quelli informati. Tu eri cosí tranquillo, cosí ordinato, e le risate le tenevi da parte per i ragazzi, quelle risate malate. Il grand’uomo. Il Lupo Cattivo. [Fischia di nuovo: Giro girotondo | casca la terra, tutti giú per terra]. Non ti piaceva il volontariato che facevo. Non ti piaceva nemmeno il mio club del libro. Tu non leggi libri, Luce. Tu fai finta di leggerli. Questo mi dicevi. Eri meschino, Ted. Perché eri cosí meschino? [Voce lamentosa]. Poi vi dispiacerà a tutti. Tesoro, tesoro, tesoro. [Silenzio per un lungo minuto]. Dopo che la mia piccola è caduta – la nostra bella bambina morta, morta nel cortile – non sei venuto a trovarmi in ospedale. Sí, una volta. Controllati, Lucy [voce profonda]. Mi sa che stavi già con lei. Lei! Te la scopavi nel nostro stesso letto. Venticinque anni, e ho ceduto su tutto perché ero stanca, Ted. Lindy era morta, e non me ne fregava piú di niente. E tu te ne sei approfittato. Dovevo prendere le pasticche. Niente pasticche. Niente Lucy. Io avevo i medici. Tu avevi gli avvocati. E te ne stai dall’altro capo della città con quella mignotta e quei maledetti ragazzini. [Di nuovo fischia Giro girotondo].

12 settembre 1978

Per Libellus: Un altro monologo di Lucy Brite:

Sono triste. Sono triste [ripetuto un centinaio di volte]. Con te non ci parlo piú. Zitta! Ho fame. [Rumore di passi, fruscii, rumori non identificabili, sospiri, fischia una ballata]. Mamma era nervosa. Non fare quel rumore, Lucy. Mi trapana la testa. Be’, stava male, santo cielo. Tu hai un futuro. Tu sei cosí carina, Lucy. [Ride]. Hai una figura cosí graziosa. Tu hai un futuro. Chi era quel ragazzo? Lucy, posso toccarti i capelli? Voglio toccarti i capelli. Non era bello a quei tempi? I tempi in cui andavamo a ballare. Pensaci. Pensa ai film. Lana Turner col turbante bianco. Tu ne avevi uno e lo portavi mettendoti un rossetto rosso acceso. Un ragazzino. Ero solo un ragazzino. Era fantastico, pupa, fantastico. [Silenzio].

Non andar lí. Non andarci [voce bassa e dura].

Perché non riesci a stare fuori dalla cucina? [Una pausa]. Lei gridava, ecco perché. Mentre cadeva. [Pausa]. La faccia di lui. No. Scioccato. [Pausa]. Avrebbe potuto afferrarla. Dillo. Non posso dirlo. Via di corsa. L’ascensore. Devo dirlo. Devo dirlo. Guarda. Non guardare. È stato un incidente. No, Lucy, tu pensi di saperlo. Ma cosa sai? [Con voce grave e strascicata]. Dottor Stone, io non lo so [voce stridula falsamente infantile]. Se parli di questo, Lucy… [ancora con voce grave]. [Ride]. Ne sto parlando adesso, vecchio brontolone! [Dodici secondi di silenzio]. Lei ha paura del suo stesso figlio. Ecco. Ecco, l’ho detto. Ecco, ecco, adesso. Non piangere. Non sto piangendo. Non so niente. [Accesso di tosse, borbottio, rumore di passi, il click della tv. Suono di sirene in tv].

P.S. Uno scarafaggio grosso quanto Gregor Samsa ha appena attraversato il pavimento.

13 settembre 1978

Cara Pagina,

cerco di pensare di piú a Isadora, e di meno a Lucy Brite. Cosa è successo a Lindy? L’altra sera ho avuto paura che lo scarafaggio potesse ritornare. Che stupida. Stavo sdraiata a letto senza dormire con l’angoscia degli scarafaggi, dei soldi (non mi basteranno mai), di Lindy, e del rapporto della polizia. Quanti anni aveva Lindy quando è morta? «Lei ha paura del suo stesso figlio». Lucy ha paura del proprio figlio o si tratta del figlio di qualcun’altra? Trovo rifugio nella città di Verbum.

CAPITOLO II

Ian conobbe Isadora a una lezione di biologia sopra un porcellino che dovevano dissezionare insieme. Furono i nervi d’acciaio di Isadora a colpirlo, lo sguardo fermo di lei e la precisione con cui aprí, bisturi alla mano, la carcassa della cavia sul tavolo. Ian ammirò il modo in cui lei aveva disposto gli strumenti in mezzo a loro – puliti e disposti nell’ordine prescritto – e gli piacque come lei socchiuse le palpebre quando con delicatezza incise pelle e muscoli per mettere a nudo gli organi sottostanti. Benché avesse fatto del suo meglio per nascondere a Isadora ciò che sentiva, Ian preferiva di gran lunga il lindore della matematica e dell’astronomia alla sozza poltiglia della biologia. La prima volta che vide l’intestino di un animale gli venne un conato di vomito, e durante tutto il semestre ebbe in diverse occasioni degli attacchi di nausea. Gradí molto di piú le chiacchiere scambiate con l’amica quando la cavia ormai ridotta ai minimi termini era fuori del loro campo visivo. Isadora non aveva simili scrupoli. Era una appassionata investigatrice e studiosa dei sistemi anatomici che elencava in ordine alfabetico: cardiovascolare, digerente, endocrino, linfatico, muscolare, nervoso, respiratorio, riproduttivo, sanguigno, scheletrico, tegumentario e urinario. Ian si convinse che quando la competenza di Isadora in tutte le branche maggiori e minori del corpo umano si fosse combinata con le raffinate abilità logiche di lui, insieme avrebbero potuto risolvere anche l’omicidio piú enigmatico. Un simile caso finora non si era ancora verificato, naturalmente, ma Isadora indagava sull’epilessia di Frieda Frail, e Ian sperava che avrebbe gettato una luce scientifica sul problema delle continue apparizioni della morta. Forse erano causate da un virus circolante nella cittadina di Verbum, il quale provocava delle allucinazioni che avevano come soggetto persone defunte?

Il crescente attaccamento di Ian a Isadora venne accentuato dall’ammirazione che gli suscitava l’intera famiglia di lei. Le stranezze di casa Simon, cosí diverse da quelle di casa sua, lo deliziavano. I coniugi Simon erano entrambi professori d’inglese, il marito insegnava Chaucer; la moglie, Milton, e fra il piano di sotto e quello di sopra venivano scambiate non poche citazioni sia dai Racconti di Canterbury in medio inglese, che alle orecchie di Ian assomigliavano tanto a ringhi e morsi («Quando pioggia d’aprile ha penetrata | l’acidità di marzo e impregnata | ogni radice») che dal Paradiso Perduto, un’opera che faceva lavorare piú le labbra e i denti che la gola («con ali possenti spalancate | come colomba covasti quell’abisso immane»). La prole dei due studiosi contava quattro figliole, allevate in un’atmosfera d’incessanti declamazioni chauceriane e miltoniane senza che nessuna di loro ne ricavasse all’apparenza danno alcuno. Il professor Simon era un genitore particolarmente affettuoso che d’abitudine gridava dal proprio studio: – Dove, oh, dove sono le mie piccole Dore? – Lui allungava il «picc» di «piccole» per due o tre secondi e poi lo faceva seguire da un «ole» pronunciato con tono piú basso, dopo il quale sollevava la voce in un gran finale «dooor» per calare di nuovo in un lungo e finale «eee» quando chiamava la progenie.

L’abbreviazione usata dal padre era resa possibile dal fatto che Isadora risultava la maggiore di quattro Dore: Isadora, 14 anni; Theodora, 12; Andora, 11; e Dora Semplice, che di anni ne aveva 9. Le ragazze avevano organizzato la propria sorellanza dividendosi le discipline: Isabiologia, Theofisica, Anstoria e Doraletteratura. E nonostante la piccola Dora fosse rimasta bloccata sulle Avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie per un bel pezzo, le speranze della famiglia erano rivolte alla tesi che avrebbe scritto su Finnegans Wake. La professoressa S. aveva ostracizzato per sei anni le figlie senza che questo attenuasse l’amore esagerato che provava per il poeta cieco, Ian però si accorse che, a differenza della propria madre, la matriarca dei Simon mostrava una certa disinvoltura nei confronti delle faccende domestiche, un tratto reso evidente dalla sua abitudine di spingere con i piedi sotto i divani e le sedie i vari giocattoli e d’infilare nell’armadio dei cappotti gli asciugamani umidi che in qualche modo erano arrivati nel soggiorno. Inoltre la professoressa S. tendeva a comandare a bacchetta il professor S., l’esperto di Chaucer, in modi che Ian trovava sorprendenti. «Percy, – diceva Mrs S., – i piatti!» Oppure, «Percy, il pavimento!» Anche se queste brusche direttive avevano chiaramente l’intento di indurre il professor S. a intervenire in passaggi problematici della vita domestica, il loro effetto era tutto fuorché un successo. Per esempio, se la moglie diceva: «Percy, i cuscini!», il marito si pietrificava al suono della sua voce, poi annuiva con aria saggia, come se stesse ascoltando il pronunciamento di un oracolo, infine si precipitava in una direzione o in un’altra, per ricomparire un attimo dopo con un libro in mano o un pappagallino sulla spalla.

I Simon avevano un gigantesco bobtail, Monk, che produceva enormi quantità di saliva e si muoveva pesantemente per la casa scuotendo la grossa testa lanosa, ma Mr Simon allevava anche conigli, uccelli e ratti bianchi, che teneva in grandi gabbie nel soggiorno, spesso lasciate aperte, a bella posta o per caso, il che obbligava la gente a muoversi sempre con grande circospezione quando attraversava quella stanza. Inoltre le Dore sostenevano che il padre nel seminterrato ospitava anche un alligatore, Geoffrey, un rettile in cui Ian non sapeva se credere o no, benché avesse notato come le Dore evitassero scrupolosamente la porta che portava nella umida, oscura regione sotterranea dove presumibilmente viveva Geoffrey.

L’amante dei pellegrini di Canterbury durante la guerra aveva guidato un carro armato in Europa, e Isadora confidò a Ian che la durezza di quell’esperienza gli aveva scombussolato il cervello, e questo scombussolamento lo induceva ogni tanto a «svolazzare fuori di sé». La politica in famiglia era quella di ignorare le occasionali escursioni che Mr Simon faceva oltre i confini del proprio corpo. Solo «quando andava troppo lontano», quando si avviava giú per l’isolato con un’espressione confusa sul viso o quando si nascondeva sotto un letto, una Dora o l’altra andava a recuperarlo e lo riportava nel suo studio, dove generalmente si rimetteva subito tranquillo a lavorare a un progetto che le giovani Simon chiamavano il suo opus. – Papà conosce Chaucer a menadito, sai? – disse Isadora a Ian. – Mettilo in classe davanti agli studenti e te lo sciorina lí tutto come niente fosse.

Mr S., incanutito prematuramente, aveva una chioma sprimacciata, arruffata e irta, stile che Ian ammirava e cominciò a imitare, con scorno da parte della madre. – Vuoi assomigliare al degente di un ospedale psichiatrico? – gli chiese lei. Lui arrossí, ma la domanda retorica della genitrice lo indusse a riflettere sulle proprie ragioni. Forse, a dispetto dell’amore per la logica, con una parte di sé desiderava davvero avere l’aspetto di un poeta fuori di testa o anche di un matto innocuo. Holmes non si era forse iniettato la cocaina e non aveva suonato il violino, fra un caso e l’altro? Il rigore in un campo non chiamava forse al lassismo in un altro?

E poi un pomeriggio Ian si ritrovò nella sedia a dondolo che Theodora aveva decorato con la tavola periodica. Esaminò il paese delle meraviglie che era il soggiorno dei Simon e inspirò l’acre odore di uccelli e bestie di cui era intrisa l’aria, e proprio mentre lo sguardo gli cadeva sui graziosi seni della Dora maggiore, che era la sua amica speciale, quei seni che sembravano diventare di giorno in giorno piú grandi, Roger, il cacatua dei Simon, starnazzò le tre immortali parole che il pennuto amava ripetere, le quali secondo quanto era stato detto a Ian comparivano in un qualche punto dei Racconti: «saporita un’oca!» In quel preciso momento Dora Semplice entrò di corsa nella stanza, col fiatone e rossa in faccia, e annunciò a tutti di avere visto con i suoi stessi occhi il fantasma alla finestra, no, non era una bugia, dovevano crederle. O Frieda Frail era ancora viva o esistevano i fantasmi!

Ricordo i Simon e il piacere che mi dava stare in loro compagnia, ma la storia che si svolgeva di là dalla parete mi si era insinuata dentro diventando una specie di racconto scollegato ma parallelo alla storia del romanzo ancora senza titolo che stavo scrivendo. La versione del Girotondo fischiettata da Lucy mi aveva turbato in modo particolare. Quella stupida canzoncina mi riportava alla memoria il disorientamento provato nei miei primi giorni nel campo giochi della scuola elementare di Webster, ma ne rinnovava solo l’impressione: una specie di smarrimento opaco e doloroso che mi restituiva un vago ricordo di ghiaia, di asfalto, di raggi di sole che trapassano le nuvole, di voci cantilenanti, e della massa indefinita che Kari e io chiamavamo «gli altri bambini». Nel 1978 la mia infanzia era piú vicina di quanto sia adesso, ma ci pensavo di meno. Ora mi torna spesso in mente in quelli che mia madre chiamava «ritagli», non vere e proprie storie ma frammenti sensuali: io che alzo il filo spinato cosí che Kari possa passare sotto la recinzione, il modo in cui mi appare il cielo quando lei fa la stessa cosa per me; io accoccolata a pungolare con un legnetto dello sterco di mucca cosí secco che a metà estate sarebbe diventato polvere e che poi i venti, col tempo, avrebbero dissolto; lo scroscio del torrente in piena a primavera, e le mie mani, rosse per il freddo, che afferrano la corteccia grigia e lasca del tronco di un albero caduto che usiamo come ponte per raggiungere l’altra riva; la condotta idrica che corre accanto a Old Dutch Road, le sue pareti curve, metalliche e costolute, che riusciamo in parte a scalare, un piede traballante su un ribattino, e poi su un altro; l’eco che produciamo dentro la conduttura quando ci chiamiamo a vicenda coi nostri nomi o con quelli che ci siamo date per finta, e la magia dei nostri giochi che finivano fra i rovi e l’erba e i ciottoli nell’acqua che scorreva. Ricordo che in sogno avevo il potere della telecinesi ed ero capace di alzare con la sola forza del pensiero una forchetta dalla tavola e di farla volare fuori della finestra, e ricordo la gioia che mi dava tale potere; ricordo anche gli sbigottimenti della veglia, quando andavo a sedermi sul trono dietro casa. Le radici della quercia sporgevano dalla ripida scarpata alle spalle della nostra casa, e si attorcigliavano creando un seggio regale, dove una sovrana poteva assidersi e contemplare il suo regno e perdersi in fantasticherie lasciando che i suoi pensieri veleggiassero verso l’inesprimibile e il sacro, e a quel punto io non ero piú «io» ma un essere disseminato nel fruscio delle fronde che si muovevano in alto e nell’umido odore del letto del torrente e nei rami fradici che si andavano disfacendo e nei punti in cui la luce del sole saltava fra le foglie di equiseto. Quell’essere trascendente aveva la testa leggera come un palloncino pieno d’elio e saliva su, su, su, fra nuvole costellate di scintille. Ma gli strani viaggi che facevo fuori di me erano un segreto. Li conservavo in una tasca speciale sotto le costole, una tasca che solo Dio e gli angeli potevano vedere.

Ma avevo anche delle paure. Forse fra i miei voli e i miei terrori c’era un collegamento. Sapevo che in fondo alla scala c’era acquattato qualcosa, ne ero certa perché lo sentivo, sentivo una presenza spietata, malevola, che mi voleva morta. E cosí, quando ero in cima, mi sgridavo con voce di madre, contavo fino a dieci o fino a venti, a seconda del mio grado di coraggio e, ferma nel mio giuramento, trattenevo il respiro, e mi buttavo a precipizio giú per la scala superando con un unico salto gli ultimi tre gradini, come se questo potesse impedirgli di aggredirmi… perché sí, era un lui, ora me lo ricordo. Era un lui.

Il 14 settembre scrissi: «Quell’orribile cantilena mi è entrata nella testa e mi dà sui nervi e mi fa uscire pazza, è un po’ come se volessi ricordarmi qualcosa, ma non ci riuscissi. Oggi gli ultimi versi, “terra, terra, tutti giú per terra”, mi hanno fatto pensare a cadaveri di bambini che giacciono fra lo scivolo e le altalene. Che immagine grottesca. Accendo la radio per allontanarla, ma non mi abbandona. Oggi ho toccato la schiuma due volte». Forse la bambina e la giovane donna non erano poi cosí distanti.

Non avevo mai visto coi miei occhi Lucy Brite, e questo sicuramente la rendeva molto piú misteriosa di quanto sarebbe stato se mi fossi imbattuta subito in lei su Riverside Drive o se l’avessi conosciuta in biblioteca. Quella donna era letteralmente tutta parole. Per giunta, benché avessi degli amici altrove, ancora non ne avevo a New York, ragion per cui le uniche cose che avessero il potere di distrarmi dalla signora della porta accanto, cioè i miei libri e il mio romanzo, erano anch’esse senza corpo. Volevo vedere la donna che inveiva contro Ted e piangeva per Lindy, cosí tenni gli occhi ben aperti, e finalmente, il pomeriggio del 16 settembre, la vidi.

Cara Pagina,

ho sentito un rumore di passi nel corridoio del mio piano, cosí sono uscita di casa e mi sono imbattuta in Mr Rosales: era davanti all’appartamento di Lucy Brite e teneva in equilibrio tre pacchi con un braccio mentre con la mano libera bussava alla porta. Gli ho detto che stavo scendendo a controllare la posta, e invece ho indugiato alle sue spalle. In realtà, ero felice di vederlo, e lui mi ha salutato educatamente e mi sembrava d’umore migliore del solito dato che mi ha guardato dritto in faccia con un’espressione interrogativa che ho scelto di interpretare come cordialità. Era la prima volta che lo vedevo con la cravatta, un accessorio di un viola allarmante, punteggiato di minuscoli cuccioli marrone, con le pallide lingue rosa penzolanti dalle bocche. Deve avere avvertito la mia occhiata perché puntando il dito verso la cravatta ha detto: – Regalo di mia figlia, Bianca. Per la Festa del Papà.

Ho bofonchiato qualche parola destinata a comunicare il concetto che portando quella cravatta al collo dava un grande esempio di generosità paterna. Ho lanciato un’occhiata alla porta dell’appartamento 2C e, quasi bisbigliando, ho detto al custode del nostro palazzo: – Quella donna parla un sacco, e fischia anche un sacco. Lei ne è informato, vero?

Mr Rosales ha fatto un gran sorriso, ha annuito, e mi ha risposto con un’affermazione che non c’entrava niente: – È una brava signora. Una brava signora –. Ha bussato di nuovo, e Lucy Brite ha aperto la porta. Mi sono sforzata in tutti i modi di comportarmi come se la sua presenza non mi agitasse, mi sono imposta coscientemente di trasformarmi per qualche minuto in Ian Feathers per esaminare la mia vicina col suo sguardo spassionato e indagatore. È sui quarantacinque, direi. È quella che la gente chiama «una bellezza stagionata». Rughe sottili attorno agli occhi e alla bocca, rossetto, mento che comincia a cedere, capelli castani raccolti in una corta coda di cavallo, fisico formoso, giacca allacciata fino al collo e svasata sui fianchi, pantaloni stretti e ballerine consumate. – Luis! – ha esclamato Lucy Brite, come se Mr Rosales le avesse portato delle rose. – La mia posta! – Gli ha tolto i pacchetti dalle braccia e ha sorriso come se il custode e io fossimo un centinaio di fan adoranti.

Solo dopo mi sono resa conto che quasi mi aspettavo che da quel corpo ben curato spuntasse una voce sconosciuta, invece era la stessa voce dei monologhi, cioè quella che usa quando non imita quella degli altri. Mi ha colpito il fatto che la mia vicina non sembri affatto una pazza mentre una parte di me aveva immaginato il contrario: mi aspettavo la paziente di un manicomio, una sciamannata con lo sguardo folle, o quanto meno una donna distrutta, con l’infelicità stampata su ogni tratto del viso, ma lei non ha affatto l’aria della persona tormentata dalla morte di una figlia o torturata dal tradimento del marito. Benché la visione sia durata solo pochi istanti, alle sue spalle ho intravisto una stanza fittamente arredata: tappeti e lampade e una libreria, un bel tavolo con due sedie, almeno un quadro, una stanza che doveva essere quasi uno specchio della mia, ma appariva come una giungla domestica rispetto al mio deserto. È stato a quel punto che lei si è girata verso di me, e Luis Rosales, il cui nome di battesimo avevo appena scoperto, ha detto: – Miisis Brite, la sua vicina –. Non ha provato a dire il mio nome. Forse non se lo ricordava. Lucy Brite mi ha rivolto un’occhiata veloce, dura, e un sorriso che non includeva i denti. – Piacere, – ha detto freddamente, e si è dileguata dietro la porta.

Ero sconcertata. Rientrata nel mio appartamento, mi è tornata in mente una frase di Simone Weil: «La nostra vita reale è per piú di tre quarti composta di immaginazione e di finzione». La Weil era un genio, una saggia, una santa digiunatrice, e una raccontatrice della verità. È stata una delusione scoprire di non vivere accanto a Miss Havisham? È questo che volevo? Per chissà quale stupido motivo mi è tornata di nuovo in testa Girotondo e ho provato l’impulso di tapparmi le orecchie con le mani. Ho fatto un respiro e ho deciso di valutare in maniera razionale quel breve incontro. Ho chiamato di nuovo Ian in mio soccorso. Avevo registrato le parole di Lucy, no? Sulla soglia di casa può anche passare per «normale», qualsiasi cosa significhi questa parola. Mr Rosales può anche considerarla una «brava signora», tuttavia quella donna trascorre una parte rilevante delle sue serate a ripetere con voce cantilenante «sono triste» e a parlottare fra sé e sé usando almeno altre due voci e alludendo a un incidente, forse un suicidio, forse… un omicidio. Ecco, l’ho detto. E a quel punto ho visto un cadaverino schiantato in terra, nello spazio fra il mio palazzo e quello accanto, cosí sono andata alla finestra e ho guardato giú. Volevo accertarmi che nessuno fosse volato di sotto? Sono io quella fuori di testa? Mi sono allontanata dalla finestra, sono andata nel mio cucinotto da poco abbellito da alcune esche per scarafaggi, e mentre stavo lí a contemplare le blatte ho sentito ridere Lucy Brite. Era una di quelle sue risate boccheggianti, uno staccato che comunque possedeva un certo volume. E per qualche ragione, una ragione assolutamente irragionevole, la sua risata mi ha fatto sentire di colpo impaurita e reietta.
Capitolo terzo
17 settembre

Cara, preziosa, diletta P,

sono andata al reading. Ora sono appena rincasata. Le due e mezza di notte. Alleluia! Un’amica! Un’artista! Una poetessa! Abbiamo parlato per tutta la sera e quando ci siamo separate mi ha abbracciato. Domani ti racconto meglio. S.

Quando vergai questa eccitata nota sul mio taccuino vivevo a Manhattan esattamente da ventidue giorni. Quello che i numeri non riescono a esprimere è la sensazione del tempo trascorso, un tempo che nella memoria ha acquistato l’estensione di un’era o di un’epoca, un periodo segnato dall’ardente desiderio che qualcuno aprisse una porta, entrasse nella stanza, e ponesse fine all’Età del Nessuno di Reale. Ma è solo col senno di poi che sono in grado di dare un senso alle mie «tre settimane e un giorno» perché allora, mentre le vivevo, non ammisi mai che fino a quel momento le mie avventure in città erano state per lo piú di natura immaginaria. I miei personaggi, IF e IS, erano ormai avviati nella loro trama gialla. Sulle pagine del mio quaderno Mead avevo segnato i titoli di tutti i libri che avevo letto; e avevo origliato i soliloqui di Lucy Brite. Scrivere e leggere avrei potuto farlo in qualsiasi altro posto. Lucy era un vero essere vivente nell’appartamento 2C, ma i suoi monologhi sconclusionati avevano generato delle immagini di violenza e un subbuglio che non trovavano corrispondenza in alcuna realtà nota oltre i confini del mio cranio.

Il 16 settembre, fra il momento in cui sentii Lucy ridere e quello in cui uscii di casa, andai diverse volte alla finestra del soggiorno per accertarmi che fra le erbacce non ci fosse un morto. E se davvero avessi individuato un cadavere non dubito che sarei svenuta lí, su due piedi; non mi aspettavo affatto di poterne vedere uno. Ciò nonostante continuai ad affacciarmi alla finestra per verificare ciò che immaginavo già: niente morti per terra. L’impulso, una specie di tic, forse era sbocciato a causa del mio isolamento, tuttavia affondava le sue radici in una tacita, innominabile paura. La giovane donna che si era stabilita nell’appartamento sulla Centonovesima Strada Ovest per intraprendere la sua nuova vita avrebbe considerato una sconfitta la consapevole ammissione che le cose proprio non stessero andando secondo il programma.

La sera del 16 settembre Whitney Tilt, la poetessa artista o l’artista poetessa, entrò nell’Ear Inn di Spring Street, in centro, indossando un paio di scarpe verdi col tacco alto, calze nere, un vestito attillato blu cobalto, e un basco giallo; era venuta per sentire John Ashbery leggere le sue poesie insieme a un altro poeta, Michael Lally, la cui opera era ancora sconosciuta al pubblico ma non dubitavamo che l’avremmo apprezzata visto che gli era stato dato un posto accanto al maestro vivente. Whitney Tilt si sedette vicino a me e fin dal primo momento in cui la vidi pensai che era meravigliosa, ovvero, come raccontai l’indomani a Pagina, sull’onda dell’entusiasmo: «È molto bella, molto sofisticata, sembra una creatura mossa da un vento fatato». Anche se in seguito ci scherzammo su, dicendo che se non i venti quanto meno l’allineamento dei pianeti doveva esserci stato propizio, né lei né io credevamo nel destino. Esiste il caso ed esistono sequenze accidentali di avvenimenti sulla base delle quali si possono calcolare delle probabilità, e nel nostro caso si restringevano ulteriormente per via della poesia. In una città di sette milioni di abitanti, la poesia era ancora una passione per pochi eletti.

Nell’appartamento 2B ogni pomeriggio leggevo poesie ad alta voce. La mia voce diventò la voce dei miei demoni domestici, e simili incantesimi mi consolavano. Leggevo Ashbery insieme ai miei vecchi amori, Thomas Wyatt e Shakespeare. Leggevo Donne, Clare, Dickinson, Moore, Stevens, Riding e Plath. Leggevo le poesie in prosa di Gertrude Stein. Con voce stentorea leggevo Goethe, Hölderlin, Trakl, Celan e Bachmann nel tedesco imparato al liceo e continuato all’università; Baudelaire, Rimbaud, Verlaine e Mallarmé nel francese che avevo studiato solo per tre anni all’università. Recitavo i versi tradotti di Anna Achmatova e Marina Cvetaeva e in inglese mi apparivano grandiose, e tornai anche ai borboglii della baronessa, perché la consideravo la mia missione di salvataggio archivistico, la sua opera allora era quasi annichilita e volevo salvarla dall’oblio con la mia voce. «Dillo con… | I fulmini! | Oh tuono! | Serpeggianti correnti d’aria… Hhhhphsssssss! Penetra la parola stessa».

A volte leggendo ondeggiavo giambicamente da un lato all’altro. A volte dondolavo il busto oppure mi muovevo a scatti secondo gli accidentati modelli ritmici degli autori moderni. Mi sedevo e leggevo poesie, mi alzavo in piedi e leggevo poesie, camminavo avanti e indietro e leggevo poesie. Volevo che i metri dei grandi s’impossessassero di me, che impregnassero i miei passi e dirigessero la musica cinetica dei miei pensieri. Volevo che Ian e Isadora camminassero su gambe poetiche, e che camminando oscillassero braccia poetiche. Volevo una prosa melodiosa, non le frasi morte di tutti i cattivi romanzi che ricordo comprai in quel mio primo anno a New York, perché avevano degli adesivi dorati appiccicati sulla copertina e nomi illustri che sulla quarta elogiavano i risultati «affascinanti» e «lirici», libri che mettevo via dopo dieci o venti pagine scoprendo che queste opere tanto strombazzate ciondolavano qua e là su due gambe di legno, ed ero costretta a dedurne che o c’era chi si stava ripagando qualche favore o che anche gente dal nome illustre poteva essere ignorante.

Quella sera ricordo che mi misi in ghingheri per John Ashbery. Volevo sembrare una che viveva da sempre a New York, ma il mio senso dell’eleganza non era quello di Whitney Tilt. Io ero stata educata al dogma del Minnesota secondo cui nessuna ragazza doveva mai spiccare o mettersi in mostra o essere esageratamente orgogliosa delle proprie doti, men che meno del proprio viso o del proprio aspetto fisico. Sbandierare le «risorse che Dio ci ha dato», come le chiamava la zia Irma, nella migliore delle ipotesi era sconveniente, nella peggiore era un comportamento degno di una sgualdrina, ragion per cui è probabile che per la mia serata all’Ear Inn avessi scelto una semplice camicetta e un paio di jeans, del tutto consapevole che cosí le mie risorse non risultavano minimamente occultate. Avevo un guardaroba esiguo, ma so che la mia idea in genere era quella di apparire seria e al tempo stesso attraente. Volevo sedurre con l’intelligenza. Adesso la cosa mi fa ridere. Gli uomini possono sedurre con l’intelligenza. Alle donne tali finezze non sono concesse, ma ero un’ingenua e immaginavo che la gente mi avrebbe ascoltato oltre che guardato, e nelle mie frasi avrebbe colto il ritmo di una mente forte accanitamente al lavoro. Mi ci vollero anni per capire che la mia supposizione nella maggior parte dei casi è campata in aria, che l’attesa è la parte migliore della percezione, e che il viso di una giovane donna è come una barriera posta davanti alla sua serietà, soprattutto se il viso in questione è accompagnato da modi non aggressivi.

Sono stata giovane molto tempo prima che la frenesia per l’autodocumentazione si affermasse in ogni paese del mondo, e della mia giovinezza esistono solo poche foto. A parte lo specchio, la fotografia è l’unico modo che abbiamo per vederci da fuori, e lo specchio non può mostrarmi com’ero allora, tuttavia ricordo che in quei primi anni a New York ogni tanto mi capitava, vedendo la mia immagine, di stupirmi di me stessa. Quando lasciavo gli amici al tavolo del ristorante per andare alla toilette, e mi lavavo le mani, nello specchio mi accoglieva il mio riflesso, e ricordo che pensavo: «Non sapevo che tu fossi cosí carina». Spesso c’è una discrepanza fra il dentro e il fuori. Perdiamo completamente il contatto con la nostra faccia nel flusso della vita, e la faccia che avevamo in precedenza è ancora piú elusiva. Se non mi avessero detto quale ero io, sarei capace di riconoscermi nella bambina ritratta in una vecchia foto?

Ci tiene compagnia una voce interiore, che ha cominciato a farsi sentire molto tempo fa, durante la prima infanzia, e che tace solo in stato d’incoscienza, nel sonno privo di sogni, e nella morte. Finché siamo vivi e vigili è il megafono del nostro io, e fra tutti i parlanti è quello, o quella, che conosciamo meglio, spesso s’illude, è vero, ma analizza incessantemente gli avvenimenti a mano a mano che accadono. Adesso è straziante ricordare la giovane donna da poco uscita dall’adolescenza, che si sorprendeva della propria faccia perché i lineamenti, per quanto potessero apparire graziosi, avevano un che di straniero, forse di scipito. Il narratore interiore che portavo sempre con me era stato già plasmato da centinaia di libri, dalle loro storie e dai loro personaggi, dai loro ragionamenti e concetti e categorie, dalle voci autorevoli che si esprimevano su questo e su quello e da voci meno autorevoli che interrompevano il flusso della coscienza per inserire una parolina qui e una lí, e, alla luce dell’incontrovertibile verità secondo cui le parole degli altri non le appartengono nel senso piú autentico della parola, mi chiedo sempre chi sia in realtà quella che parla qua.

A ogni modo il volto e la voce possono produrre una cacofonia, anziché un’armonia, e a volte il mondo congiura per distruggere il parlante interno imponendo uno scontro fra le due parti. Adesso, quando la mia immagine mi coglie di sorpresa, a stupirmi è una faccia che sembra precedermi di molte lunghezze: davvero sono diventata cosí vecchia? A quei tempi però, quando lasciavo il mio appartamento per andare a fare due passi e riflettevo su qualche questione ascoltando non una ma ben due voci interiori impegnate in un vivace dibattito, del tutto dimentica dello specchio e del suo contenuto, spesso mi strappava da quella amnesia lo sguardo fisso e onnipresente che non apparteneva ad alcun uomo in particolare ma a moltissimi uomini insieme e che mi accompagnava per la strada, e ricordo che l’osservazione cui era sottoposto il mio corpo in movimento aveva l’effetto di irrigidirmi gli arti, trasformando una semplice passeggiata in una esibizione non voluta, e mi fingevo sorda quando, da un fianco o dall’altro, mi arrivavano le raffiche dei commenti osceni. Immaginavo il loro obiettivo fosse quello di farmi arrossire. Ma io non arrossivo. Ricordo anche che a volte capitava che qualche sconosciuto incrociato sul marciapiede m’intimasse di sorridere. «Perché quella faccia scura, bambina? Sorridi!» E io, ubbidiente, facevo un sorriso e proseguivo.

Una sera comunque fui presa di contropiede. Percorrevo la Broadway diretta a casa e un uomo mi venne incontro alzando educatamente l’indice per fermarmi, aveva una domanda negli occhi. Pensai che volesse chiedermi la strada o l’ora. Invece, appena mi fermai davanti a lui, spinse la sua faccia a pochi centimetri dalla mia e, mostrando i denti, mi ringhiò con voce carica di una rabbia incomprensibile: – Puttana schifosa, brutta troia lercia e impestata! – Non ricordo che aspetto avesse quell’uomo, mi sembra solo che fosse bianco e di mezza età, ma non ci giurerei. Ricordo l’isolato, quello fra la Centoquattordici e la Centoquindici sul lato ovest della strada. Ricordo con precisione il momento e il cielo che si andava scurendo, e l’andirivieni ininterrotto dei pedoni alla nostra destra e alla nostra sinistra, quasi tutta gente che tornava a casa, e sento ancora lo shock. Gettai indietro la testa, mi allontanai con un balzo dalla traiettoria dello sconosciuto e mi affrettai a grandi passi giú per l’isolato, col cuore che batteva a mille. Non mi misi a correre. So che mi domandai perché avesse scelto me. C’era qualcosa nel mio aspetto che quel tipo aveva notato e odiato? Forse gli ero parsa un bersaglio facile o forse sceglieva a caso le vittime su cui rovesciare le sue mostruosità? Sul diario non parlai di questo episodio.

Per quello che riguarda il mio aspetto la sera del 16 settembre 1978 sono sicura solo di due cose. Quando lasciai il mio appartamento per andare all’Ear Inn avevo le labbra rosso sangue – la bocca temerariamente imbellettata era un piccolo segno di ribellione personale, contro la regola che imponeva di non spiccare mai in nessun luogo e per nessuna ragione, che avevo adottato già molto prima di approdare a Manhattan – e un paio di stivali neri da cowboy di pelle di serpente che avevo comprato con l’aiuto di Kari e che, una volta calzati, mi facevano sentire dura e mascolina, e ricordo che quando l’elegante Whitney Tilt scivolò nella sedia accanto alla mia fui contenta di indossare almeno quegli stivali costosi.

Conservo un ricordo nitido del momento in cui varcai la porta del locale quella sera. I torbidi odori del bar: alcol, fumo di sigarette vecchio e nuovo, detergente Pine-Sol. Mi sembra di sentire ancora il tanfo. Alla mia sinistra luci annebbiate e io che studio le sedie disposte un po’ a casaccio in previsione del reading. Sono timida ma mi siedo quasi in prima fila perché sono anche avida. Arriva Whitney, e la osservo da capo a piedi e mi dico che è veramente adorabile. Lei si siede. Ci sorridiamo a vicenda. Lei distende le gambe. Sembrano lunghe quasi quanto le mie: Whitney è alta. Si guarda le scarpe verdi e ruota i tacchi e batte le punte l’una contro l’altra diverse volte. Una cosa da nulla, eppure ricordo ancora perfettamente il piccolo schiocco delle punte delle scarpe che si toccano, cosí come la pelle liscia del collo di lei e i ricci scuri che spuntano fluttuando dal basco giallo e il profumo che non potrei definire altro che umbratile.

Il protagonista della serata comincia a parlare e spiega che la poesia che sta per leggere, Litania, è scritta su due colonne. L’opera insomma è come divisa in due e lui, dice, non ha ancora deciso come leggerla, ma comincia. La voce di Ashbery è piuttosto nasale, e dopo i primi due o tre versi qualcuno dietro di me grida: – Volume! – ma, sorprendentemente, il poeta risponde che non può parlare piú forte e continua con lo stesso tono di prima, e sono costretta ad ammettere di essere delusa dal timbro piatto con cui legge una poesia di cui capisco la qualità, l’eccellenza, e sono costretta anche a riconoscere che quando leggo da sola ad alta voce le parole di questo autore lo faccio meglio di lui. Cerco di adattarmi al suo timbro gracile e lusinghevole, chiudo gli occhi, mi concentro sulle parole, e ascolto le poesie in una condizione di risoluto compromesso. Ma c’è anche questo: anche senza guardarla sento che la giovane donna accanto a me sta ascoltando con attenzione. Avverto la sua presenza lucida e tesa, è come un campo di forze umano.

Non ricordo chi di noi due parlò per prima, e la nota di dieci pagine che scrissi sul diario il giorno dopo non fornisce questo dettaglio. So che dopo diversi minuti di educata conversazione, Whitney disse: – Perché non tagliamo la corda? – E io accettai la proposta e cercai di nascondere l’esplosione emotiva che provai mentre camminavamo verso sud fino al Magoos dove ci sedemmo a un tavolino davanti al bancone. Era ancora presto e non c’era troppa gente, ma fu lí che iniziò la nostra amicizia. Un’amicizia che ancora dura benché adesso Whitney viva a Berlino e a volte passino addirittura mesi senza sentirci. Le nostre figlie sono amiche. Ne abbiamo avuta una ciascuna. La mia si chiama Freya. La sua Ella, come Ella Baker, non come Ella Fitzgerald. I molti anni trascorsi da quando diventammo amiche hanno chiarito e al tempo stesso offuscato cosa fummo all’epoca l’una per l’altra. Dopo il ritrovamento del taccuino, ho mandato una mail a Whitney riferendole quello che avevo scritto su di lei il giorno dopo il nostro primo incontro: «Whitney Tilt. Laureata al Radcliffe. Allieva del programma di scrittura di un master in Belle Arti della Columbia University. È cresciuta a Philadelphia. Occhi nocciola truccati con il kajal. Ha sostenuto il mio sguardo piú a lungo di quanto non si faccia di solito fra semiestranei. Mi è toccato spesso di guardare da un’altra parte. Le sopracciglia sono ben modellate, sembrano dipinte con due pennellate perfette da un esperto calligrafo, il naso è un po’ piatto, la bocca carnosa si storce spesso in una smorfia d’ironico disprezzo, e quando ride, con la testa indietro e gli occhi al cielo, è meravigliosa. Mentre parla gesticola con le sue lunghe dita, come per liquidare torme di idioti a cui intende negare la sua regale presenza, e dopo che si è accesa una sigaretta consulta l’orologio con un semplice scatto all’insú del polso. Sotto tutti i punti di vista è una creatura in staccato. Le sillabe meticolosamente articolate si accumulano formando delle frasi garbatamente forbite chiuse da un punto fermo. Potevo quasi vederle aleggiare davanti a me mentre parlava. Mi sono sentita goffa e grezza. È lei la città. È lei New York. L’ho trovata!»

Whitney mi ha risposto: «Ecco cosa scrissi io di te sul mio diario, non il giorno dopo, ma una settimana dopo: “Oggi ho preso un caffè con Minnesota. All’inizio, la prima volta che l’ho vista, ho pensato che fosse una di quelle bionde fredde e scialbe che battono la città in cerca di cultura. Percezione sbagliata. Oggi si è messa a parlare di Simone Weil trascinando le vocali con quel suo buffo accento del Midwest e si è esaltata per una cosa scritta da quella mistica a proposito della grazia al punto che la voce le è diventata roca per l’emozione. Quando si è calmata, si è scusata per essersi emozionata, e poi si è scusata di essersi scusata perché “che cavolo” cosa c’è di sbagliato a emozionarsi per ciò che leggiamo? La tua vecchia, e dico proprio VECCHIA, amica, Whit».

Mi vedo come un essere assurdo.

Il padre di Whitney era avvocato e poi diventò giudice. Il giudice James Tilt è morto l’anno scorso a novanta anni. Secondo la figlia, è rimasto straordinariamente lucido fino alla fine. Aveva la voce profonda e sonora di un attore, salde idee progressiste e, come mio padre, quando parlava esigeva la totale attenzione dell’ascoltatore. Con l’unica eccezione di una zia che era diventata una professionista del gioco d’azzardo, Whitney considerava i Tilt una schiatta noiosa. «Ecco cosa desiderava piú di tutto mia madre: zero eccitazione e zero eccentricità». Sua madre, Clara, è ancora viva, ma debole, lamentosa, e attentissima al senso di colpa della figlia, un tasto sul quale, per dirla con le parole di Whitney, «batte come su quelli di un pianoforte». Clara era cresciuta viziata, ricca e confusa perché la madre, Mini, aveva avuto una vita molto avventurosa. Mini era nata all’inizio del Novecento a Buffalo, New York, in una famiglia di formidabile ricchezza. Si era sposata a diciotto anni e poi aveva divorziato ed era fuggita in Italia, dove era stata contagiata dall’estremismo politico e da un tipo particolare di antimodernismo che auspicava un ritorno all’intensità e alla purezza di un mondo spogliato delle nevrasteniche stratificazioni della «civiltà». A Roma Mini aveva conosciuto il suo secondo marito, anche lui americano; i due erano tornati a New York e si erano stabiliti in Park Avenue, dove Mini aveva tenuto un salotto frequentato da personaggi anticonformisti, intellettuali e artisti di ogni genere. Mini si era concessa degli amanti, aveva avuto un debole per le vestaglie fluenti e i copricapo floreali e, stufa del marito, aveva divorziato di nuovo; nel giro di pochi mesi comunque si era avventatamente rimaritata con un pittore francese di poco conto, Jean-Claude Lefèbvre. Mini lo aveva trascinato con sé a Taos, Nuovo Messico, una meta alla moda per tipi mondani e giramondo e un paesaggio promettente per un uomo di pennello. Lí Mini aveva conosciuto Charles, un indiano pueblo anche lui sposato. Mini e Charles si erano innamorati perdutamente l’uno dell’altro, il che aveva fatto scoppiare uno scandalo nella tribú ma aveva avuto un effetto rinvigorente su Jean-Claude, che aveva minacciato Charles con una pistola: questo gesto aveva impressionato Mini al punto da farla tornare fra le esili braccia del terzo marito con il quale era ritornata a New York. Non molto tempo dopo la disfatta di Taos, durante l’euforico, ancorché breve, periodo coniugale, fu concepita Clara, l’unica figlia di Mini e Jean-Claude.

Non venni a sapere subito tutte queste faccende, la prima sera emerse di sfuggita solo qualche frammento. Jean-Claude era morto prima che nascesse Whitney. Lei ricorda perfettamente sua nonna, Mini, piccola, elegante, profumata, che d’estate amava girare a piedi nudi. «Oh, l’erba fra le dita dei piedi, – diceva con voce squillante alla nipotina. – Adoro la sensazione dell’erba fra le dita dei piedi». Mini era morta quando Whitney aveva otto anni. – Una cosa la so, – mi disse una volta la mia amica, anni dopo. – La vita di Mini era fatta di soldi. Senza i soldi, la sua storia non sarebbe stata possibile.

Tutti abbiamo le nostre storie di fantasmi. La mia comprende vigorosi agricoltori norvegesi arrivati per dissodare la terra delle praterie insieme alle mogli robuste, capaci di maneggiare un’ascia, e ai figli biondi, con le guance rosse, l’animo pieno di coraggio, eccetera, eccetera, ed è quasi tutto vero, se non che nell’estate del 1872 là, sotto il vasto e turbolento cielo del Minnesota, una mia bisnonna per parte di padre diede fuori di matto. Helga si era convinta che il marito stesse cercando di avvelenarla e, nonostante fosse lei in famiglia a cucinare tutto quello che mangiavano, l’allucinazione non recedeva. Helga rimestava e annusava e serviva le diverse pietanze ma credeva che Ulf disponesse di mezzi segreti, forse soprannaturali, per farla fuori. Nel tentativo di scongiurare l’inevitabile, Helga smise del tutto di mangiare, prese la bronchite, e nel giro di pochi giorni «se ne andò all’altro mondo».

Sto citando la vecchia Mrs Heglund, la quale usò con me quelle parole un pomeriggio in cui sedevo accanto a lei, con una tazza di tè in grembo, all’incontro sulle Arti nordiche organizzato da mia madre. Avevo quattordici anni. Mrs Heglund ne aveva novantasei ma era «lucida come uno specchio» e aveva sentito raccontare questa storia dalla propria madre. Gli Heglund erano stati vicini di casa di Helga e Ulf. La coppia abitava sulla stessa strada a meno di due chilometri da loro. – Mia madre mi raccontò che Helga era una donna delicata, con la testa piccola e la figura snella, che leggeva i giornali dalla prima all’ultima pagina e ritagliava gli articoli che le piacevano e s’intendeva di politica, oltre a ricamare con i punti piú minuscoli e perfetti che si fossero mai visti. Lei e mia madre erano amiche, capisci? – La mia tazza di tè tintinnò solo una volta mentre ascoltavo Mrs Heglund raccontare cose che non avevo mai sentito prima, e anziché dire «Oh, mio Dio, che storia terribile», annuii mestamente e rimasi in silenzio.

Raccontai a Whitney la storia di questa mia ava psicotica solo dopo molto tempo. Piuttosto, mentre il locale si andava riempiendo di gente che chiacchierava, persone di età diverse, vestite in modo informale oppure volutamente mirato ad attirare l’attenzione, un atteggiamento, questo, che trovavo interessante (per esempio c’era una donna che portava un cappellino con la veletta), cercai di divertire la mia nuova amica con gli aneddoti sui nostri vicini di casa, i due professori Harrington, che vivevano appena un po’ piú in su di noi, su Old Dutch Road, col loro cane Laurence, come Laurence Sterne, il cacatua George, come George Eliot, e la figlia Edith, come Edith Wharton. Raccontai a Whitney che quando aveva undici anni la mia amica Edith era arrivata a scuola con la testa vistosamente bendata e aveva riferito con orgoglio di essere caduta da una finestra di casa nel tentativo di recuperare dal ramo di un albero un uccellino ferito. Il fatto le aveva portato molta solidarietà da parte di compagni e insegnanti finché tre giorni dopo, di pomeriggio, dimenticando la prudenza, Edith si era arrampicata su un attrezzo ginnico, giú al campo giochi, e quando si era messa penzoloni con la testa in giú, la benda le era scivolata via e del taglio profondo e sanguinolento sulla fronte, che ci aveva descritto in maniera voluttuosamente particolareggiata, non c’era traccia.

Al di sopra del baccano del bar sentii la risata di Whitney e, dimentica di me, sentii che l’ilarità aperta della sua espressione contagiava la mia, dandomi tutto il lustro di cui avevo bisogno.

La mia nuova amica scriveva poesie, ma creava anche oggetti-poesia utilizzando i rifiuti che trovava per strada, nei parchi, nei vicoli, e nei bidoni della spazzatura. Era il ritrovamento, diceva Whitney, a fare la poesia. Per esempio una volta da un bidone della spazzatura a SoHo aveva recuperato una bambola acciaccata, la faccia e le braccia coperte di svolazzi disegnati col pennarello. Sulla pancia della bambola Whitney aveva scritto: «Io dico un rudere della città | Resuscitato da un caso inclinato | Da’ un orecchio alla bocca | Da’ un cervello all’occhio | E ascolta attentamente… il grido».

Scoprimmo di amare entrambe La camera di Giovanni di James Baldwin e La foresta della notte di Djuna Barnes, e di sapere entrambe che «Jimmy» viveva in Francia, a Saint-Paul-de-Vence, in una grande, antica casa provenzale, ma da adolescente era andato regolarmente a trovare il suo mentore, il pittore Beauford Delaney, al 181 di Greene Street, giusto pochi isolati piú a nord di dove eravamo sedute noi al Magoos in quel momento, e che «Djuna», cara amica della baronessa, era ancora viva, e stava rintanata a Patchin Place, nel Village, una strada senza uscita, chiusa da un cancello, non lontano dalla Decima Strada, a nord del vecchio studio di Delaney, un piccolo cul-de-sac dove avevano abitato anche Theodore Dreiser ed e. e. cummings e John Reed, benché questi c’interessassero di meno. Whitney e io non abbiamo mai smesso di giocare a questo gioco col tempo e lo spazio e i corpi spettrali fatti di parole e di fotografie. Ora Baldwin e Barnes e Delaney e la baronessa sono morti, ma abbiamo ricostruito i loro itinerari a New York, Parigi e Berlino, trasformando queste città nelle biblioteche immaginarie di cosí eloquenti defunti.

Era quasi mezzanotte quando raccontai a Whitney di Lucy Brite. Non menzionai lo stetoscopio, un elemento della vicenda che consideravo davvero perverso, e quando in seguito rivelai tutto alla mia nuova amica scoprii che lei trovava esilarante l’uso che avevo fatto di quello strumento medico. Io parlavo e Whitney era protesa verso di me, i gomiti sul tavolino, le nocche premute con decisione sugli zigomi, in viso un’espressione intensa. Mi ascoltava nello stesso modo in cui aveva ascoltato Ashbery. Quando ebbi concluso il mio racconto, allargò le braccia, alzò gli occhi al soffitto, e intonò: – Sontrist –. Stavolta toccò a me rispondere con una risata, e mentre ridevo il sollievo mi fece sentire leggera. Whitney aveva infranto, almeno per un momento, l’incantesimo di Lucy Brite, trasformandola semplicemente in una vicina di casa eccentrica, anche se fischiava, gemeva e farfugliava di là dalla parete.

Ma insistette sull’argomento. Secondo lei Lucy Brite aveva un grande potenziale narrativo. Mi ero «imbattuta per caso» in un «romanzo giallo già bell’e pronto» con un marito violento, un fratello elusivo, e il cadavere di una figlia. Non dissi a Whitney che il suo distacco mi sembrava moralmente allarmante. Senza scendere nei particolari, le avevo già confidato che stavo scrivendo un romanzo sulle avventure di due investigatori, cosí in fondo lei stava solo riallacciandosi a una questione che avevo tirato in ballo io. Avevo anche parlato di Cervantes e appena il nome del grande scrittore era fluttuato nell’aria fra di noi mi ero vergognata di colpo. «Avrò fatto la figura della pretenziosa!»: ecco la frase che annotai il giorno dopo sul mio quaderno Mead. Whitney tuttavia non sembrò infastidita dalla mia presunzione. – Ho un’idea! – Si era messa d’impegno ad analizzare il materiale per il mio romanzo successivo. – E se fosse lei l’assassina? – disse con tono brillante. – Non sarebbe un bel colpo di scena? Tipo, lei è lí che sproloquia sulla malvagità del marito o del figlio e poi si scopre che è lei quella che ha buttato la bambina dalla finestra, cosa ne dici?

Mi guardai in grembo. Tutto a un tratto mi vennero le lacrime agli occhi, lacrime che non avevano alcun senso, ma la leggerezza che avevo provato qualche minuto prima era già sparita. Se il mio vecchio taccuino testimonia qualcosa, è quanto fossi instabile emotivamente da giovane. Nelle pagine del quaderno passo di continuo da un estremo all’altro. Ora sono su. Ora sono giú. Sembro una palla che rimbalza fra un’emozione e l’altra. Risi quando Whitney salmodiò «Sontrist», ma l’idea di Lucy che buttava la figlia dalla finestra mi parve orribile. La mia nuova amica si allungò verso di me dall’altro lato del tavolino, mi prese una mano e me la strinse forte. Questo gesto di comprensione fu la goccia che fece traboccare il vaso. Un rantolo convulso mi salí in gola, udii il brutto rumore di un conato, e cominciai a piangere. – Dài, Minnesota, – disse Whitney, – usciamo a fare due passi –. Andò a pagare le nostre birre, tornò al tavolino, mi prese per un braccio e mi tirò dentro la notte. Fuori, in strada, mi misi a singhiozzare senza ritegno. Tiravo su col naso e boccheggiavo e starnazzavo e tremavo e mi sbrodolavo le mani di saliva e di muco, ma alla fine riuscii a dire con parole smozzicate che mi dispiaceva, e che non capivo cosa mi fosse successo, e poi lo dissi di nuovo: – Mi dispiace –. E Whitney mi disse di stare zitta e di piangere quanto volevo, se volevo, e io trovai le sue parole cosí indicibilmente gentili che singhiozzai ancora piú forte. Ma tempo qualche minuto e quel mio primo accesso newyorkese di pianto dirotto passò, però avevo ricevuto un soprannome che mi sarebbe rimasto appiccicato: Minnesota.

Whitney abitava in una mansarda a SoHo, e c’incamminammo verso casa sua nell’aria ancora calda, lungo strade vuote e poco illuminate. Mi allungò un kleenex e uno specchietto che tirò fuori dalla borsetta, e io mi asciugai il viso rosso e bagnato. Il giorno dopo annotai i sorprendenti avvenimenti della serata quando nella mia mente tutti i dettagli erano ancora freschi, ma sto riscrivendo Whitney e me dallo strano luogo che chiamiamo «adesso», dal quale ho la possibilità di esaminare le due giovani donne che camminano per West Broadway sotto una luce di cui non disponevo allora. Mi ripresi in fretta dall’attacco di disperazione, ma non ho mai smesso di chiedermi cosa si fosse smosso dentro di me quella notte. Può darsi che c’entrasse il verbo usato da Whitney, buttare, un’azione che spesso ha per oggetto l’immondizia. La bambina buttata dalla finestra era diventata un’immagine cosí forte che mi era venuto il tic di controllare che non ci fossero cadaveri sotto la mia finestra. Una gomitata. Un calcio. Una botta. Uno spintone. Impulsi violenti.

Mentre sono qui, seduta alla mia scrivania, a Brooklyn, nella quiete relativa della mia zona, si sente passare un aereo, e di colpo diventa percepibile per l’orecchio anche il ticchettio dell’orologio rosso che ho sul tavolo. I miei libri sono una macchia di colore ai margini del mio campo visivo. Alcuni precoci uccelli novembrini cinguettano emettendo delle note stridule, e il rumore del traffico in lontananza imita quello del vento. Walter dorme ancora. Cerco di non pensare alla brutalità dell’elezione presidenziale. Sento la ruggente malinconia della folla bianca che sputa e inveisce contro la donna. L’abominio. Buttala fuori. Spingi forte. E Lindy precipita al suolo nello strano spazio interno dove ricordo ciò che non ho mai visto. Piú e piú volte il corpo della figlia cade pesantemente dalla finestra di un appartamento. Ciò che manca in questa storia è chi la buttò, chi le diede una gomitata, un calcio, una botta, uno spintone: chi la assassinò.

Dal mio quaderno Mead:

Ci siamo rimesse a parlare di poeti e pittori e di quello che abbiamo letto e di quello che vogliamo leggere. Whitney ha citato a memoria May Miller, una poetessa di cui non ho letto niente, ma ho memorizzato questi versi: «La logica è un fiore innestato | In un’aiuola immutevole». Non sarebbe male se Isadora citasse la Miller rispondendo a Ian. Domani vado da Salter e mi compro i suoi libri, se non tutti almeno uno. Ah, i soldi. Ricorda che devi essere prudente con i soldi.

Quella notte, prima che ci salutassimo, Whitney mi disse che si era resa conto di essersi mostrata cinica con la storia di Lucy Brite. Si era eccitata vedendo una trama possibile e aveva detto la prima cosa che le era venuta in mente. Le dissi che escludevo fosse stata la faccenda di Lucy Brite a scombussolarmi e che non avevo idea del perché avessi reagito con tanta emotività, e questo era vero, ma a quel punto Whitney disse qualcosa che non ho mai dimenticato. Non ho bisogno del taccuino per ricordare le sue parole esatte. Whitney disse: – In me c’è qualcosa di freddo e bestiale.

Quasi alla fine della lunga nota datata 17 settembre 1978, scrissi: «Non me lo so spiegare, cara Pagina, ma le parole di Whitney mi hanno dato un senso di felicità. Non ho mai conosciuto nessuno come lei. In qualche modo ha fatto apparire quasi paradisiaca la condizione di chi è “freddo e bestiale”, e voglio essere anche io cosí. Voglio gironzolare per New York a braccetto con Whitney, voglio essere fredda e bestiale insieme a lei».
Capitolo quarto
Ogni storia porta dentro di sé una miriade di altre storie. Facciamo conto che il Nostro Eroe Standard, ovvero NES, il quale si sta recando a Londra in carrozza, si sia fermato in una locanda per la notte. (Il lettore può attingere tutti i dettagli relativi alla locanda dalle innumerevoli locande ampiamente descritte nei romanzi del passato). Qui NES si imbatte in un misterioso gentiluomo claudicante. (Al tempo in cui ero una giovane lettrice, avevo un debole per le andature claudicanti, le bende sull’occhio, e le cicatrici). A questo punto, poiché la trama si sta ancora dispiegando, il lettore ignora se il Misterioso Gentiluomo Claudicante, ovvero MGC, sia una falsa pista o piuttosto una figura cruciale nella storia del nostro eroe. È proprio tale ignoranza a rendere significativi i movimenti circospetti di MGC su e giú per la scala, una chiave stretta in mano. Ma che succede se il racconto lascia il Nostro Eroe Standard a russare nel suo letto nella locanda per mettersi in viaggio alla volta di Bath insieme al Misterioso Gentiluomo Claudicante? Adesso è MGC l’eroe del romanzo.

È possibile che la maggioranza dei lettori non gradisca il cambio di eroe a metà strada. In un certo senso un salto di tale genere produrrebbe una frustrazione inutile soprattutto nei lettori irritabili che amano romanzi ed eroi standard. Questo modo di vedere presuppone che l’autore di un romanzo «scelga» la trama.

L’autore è un fenomeno, uno Sherlock Holmes (SH) fra le quinte, e non è cosí ingenuo da scappare a Bath col Misterioso Gentiluomo Claudicante. Eppure, verosimilmente, la vita ci svia sempre da una storia per gettarci in un’altra, o sbaglio?

Il Misterioso Gentiluomo Claudicante.

Il Misterioso Gentiluomo Claudicante.

Una lunga esperienza mi ha insegnato che la prospettiva SH è sbagliata. Non so di preciso chi sia a scrivere, ma spesso ho la sensazione che il flusso delle parole non provenga da me.

A volte per disperazione colleghiamo un racconto a un altro perché ciò appaga la nostra smania di significato. E se stiamo percorrendo le strane regioni della memoria, come facciamo sempre, diventa prevedibile saltare da un eroe all’altro o da un momento della vita a un altro. Per esempio, che succede se il Nostro Eroe Standard Abbandonato non sparisce completamente ma rispunta in un’altra storia? Che succede se nel cuore della notte qualcuno gl’infila una busta sotto la porta della sua camera nella locanda e lui si sveglia, e dentro la busta trova una chiave, con la quale apre una porta ed entra in un romanzo ambientato a New York, nell’anno 1978-79? Adesso però non è piú l’eroe ma solo un personaggio secondario.

Nella storia della mia vita, questo successe a Malcolm Silver, che per breve tempo ebbe la parte dell’eroe e poi si ridusse a personaggio secondario, entrò in una trama completamente diversa, e sparí dalla circolazione. Notai la testa di Malcolm prima ancora della sua figura all’inizio di ottobre, durante una riunione per la rivista «Semiotext(e)» che si tenne a casa, credo, di un professore della Columbia University. Andai con Whitney e il suo amico Gus Scavelli, che era diventato anche amico mio. Gus sperava di affermarsi come critico cinematografico, perspicace analista delle forme del «linguaggio visivo complesso», ma nel frattempo guadagnava una miseria scrivendo le recensioni dei film su varie pubblicazioni newyorkesi. Andare al cinema con Gus era un’avventura, perché aveva la tendenza a bisbigliare commenti – «Guarda che inquadratura», «ecco, un campo lungo», «grandiosa dissolvenza», «lo vedi? guarda la faccia di lei, c’è della vaselina sull’obiettivo» –, ma devo tornare alla testa di Malcolm o Gus aprirà l’ennesima nuova porta che al momento tengo chiusa.

Mi sentivo un pesce fuor d’acqua. Avevo visto alla Salter’s Bookstore il numero che «Semiotext(e)», con la sua elegante copertina e una serie di foto sgranate e inquietanti, aveva dedicato alla Schizocultura. Da quanto avevo capito, la Schizocultura celebrava una forma di schizofrenia che non c’entrava niente con la malattia di cui soffriva la mia prozia Alma, del tipo che ti fa raggomitolare in un angolo della stanza e ti fa piangere terrorizzata perché i folletti ti vogliono morta. No, quella della Schizocultura era una follia infinitamente piú astratta e filosofica di quella di Alma, che sbarrava gli occhi e si muoveva a scatti. L’appartamento del professore non mostrava alcun segno di disordine mentale o di psicosi. La sua era semplicemente la casa ben arredata e tappezzata di libri di un accademico di classe medio-alta. Mentre assimilavo tutto ciò, cercando di capire cosa significasse, vidi un giovane uomo che mi guardava. I suoi occhi erano appuntati sui miei e il suo sguardo – penetrante, critico, sdegnoso – mi accese subito un fuoco tra le gambe.

La testa imponente poggiava su un corpo snello e muscoloso, una leggera discrepanza di proporzioni. I capelli erano scuri, corti e ricci, gli zigomi marcati, la pelle liscia e chiara, e l’espressione priva di umorismo. Gli occhi erano immensi e quando si girò dall’altra parte per chiacchierare con una donna dai capelli rossi che gli stava accanto, lo esaminai e conclusi che batteva le palpebre meno spesso della maggior parte della gente. Mi sentivo come se un busto marmoreo esposto al Metropolitan Museum si fosse girato un attimo a guardarmi per poi riprendere la sua solita posizione. Gli andai vicino, mi fermai all’altezza del suo fianco e mi presentai. Lui fece un cenno col capo verso la rossa che aveva al collo una sciarpa di seta e pronunciò il suo nome, che dimenticai all’istante o forse addirittura non registrai. Nel ricordo lei è solo colore di capelli e sciarpa. Lui mi strinse la mano con un gesto formale, tuttavia il contatto mi tolse il fiato. Studiava filosofia alla New School. E da dove veniva? – Ho studiato con Foucault, – disse, – a Parigi –. A quel tempo ancora non avevo letto Foucault, e non sapevo niente di lui a parte il nome: imprimatur di riflessioni elevate. Nel taccuino dove annotai questi dettagli, scrissi in una lingua che chiamavo «romanzese»: «Poi Malcolm Silver guardò l’orologio, espresse la sua sorpresa emettendo un leggero fischio che per un attimo gli contrasse le rosse labbra, si girò bruscamente dall’altra parte, alzò la mano abbozzando un mezzo saluto, e sparí».

Dopo quella riunione, ogni volta che si apriva una porta speravo di vedere entrare Malcolm Silver. Inventai una nostra chiacchierata su argomenti filosofici. Lessi il libro di Foucault sulla follia, e mi sembrò romantico ed eccessivo nella sua retorica, anche se sapevo che forse mi sbagliavo. E mi masturbai vigorosamente al ricordo di quella splendida testa e di quel corpo seducente.

Che appartenesse al genere standard o claudicante, l’eroe a quel tempo mi ossessionava, a differenza di ora. La libidine era una caratteristica dominante della mia fissazione sulla figura dell’eroe. La castità non voluta aveva trasformato i miei appetiti in sofferenza, un desiderio doloroso che trascinavo con me ovunque andassi, sempre sperando di trovare sollievo. I pretendenti non erano un problema. Ne avevo di giovanotti che mi giravano attorno, e dispiegavano grandi sorrisi lanciandomi occhiate significative. Nessuno di loro però era sufficientemente eroico da poter curare la mia malattia. Se avessi seguito l’istinto, avrei dato la caccia al giovane filosofo per strada, gli sarei saltata addosso da dietro, lo avrei placcato facendolo cadere in terra, ma ero troppo beneducata per correre dietro a un uomo. Inoltre ricordavo, e ricordo ancora, l’unica volta in cui avevo abbrancato un ragazzo, ai tempi dell’università. Eravamo seduti su un letto di foglie autunnali secche e a un tratto gli ero saltata addosso e l’avevo baciato. La luna era alta in cielo dietro il Magnus Student Center, e l’aria era fredda. Però, una volta baciato, l’oggetto del mio desiderio era inacidito. – Questa era una cosa che spettava a me fare, – disse.

La libidine non è mai una sensazione pura; viene spinta e plasmata in questa o quella forma dalle forze trasformatrici della narrativa, che soffiano sopra di noi proprio come i venti che soffiano sulla prateria piegano e incurvano a loro piacimento gli alberi. Non riesco a ricordare il nome di quel ragazzo, ma solo che era alto e aveva i capelli biondo rossicci ed era pieno di qualità, vale a dire che era un tipo convenzionale, ma cosí convenzionale che arrivò a negarsi a una ragazza che puntava da settimane solo perché lei aveva violato il privilegio maschile della prima mossa, e cosí facendo aveva ferito il suo orgoglio, facendo annichilire, di conseguenza, l’erezione che avevo notato in lui fino a pochi secondi prima. L’eccitazione segue una logica curiosa e tutta sua, che non ho mai compreso appieno, ma leggendo attentamente il taccuino capisco che il Misterioso Gentiluomo Claudicante con un freddo sorriso e un crudele segreto, quello che prese il sopravvento sulla storia cui accennavo prima e proseguí per Bath, mi dominava in modi che non ero disposta ad ammettere e che non capivo. Il MGC può essere collegato sia all’arrogante persona di Malcolm Silver, fuggito poco dopo che l’avevo conosciuto, un fatto che ai miei occhi non ridusse ma aumentò la sua desiderabilità, sia a quell’altro arnese inutile: Ted, il marito di Lucy Brite. «Ci sono state delle notti in cui mi hai amato, però. Oh, se mi amavi, non ti bastava mai, ricordi?»

20 settembre 1978

Ieri notte Lucy mi ha svegliato di nuovo. Ha gridato: – No! No! – E poi dopo alcuni versi acuti e incomprensibili ha detto, con una voce alta e profonda che forse era un’imitazione di quella di Ted: – Ho sognato che ti ammazzavo –. Mi ci è voluto un po’ per riaddormentarmi.

Studiando il taccuino capisco che la seconda fase della «mia nuova vita» spinse Lucy Brite ai margini della mia coscienza perché si aprirono le porte e varcai la soglia di stanze private che fino ad allora, a New York, mi erano state precluse. Vedo il mio io di allora entrare in appartamenti, grandi e piccoli, eleganti e squallidi, di solito in compagnia di Whitney, dato che arrivavo come «l’amica». Non capivo che l’amica educata che sorride alle feste e parla con questo e con quello non è la stessa persona che arriva a casa e registra sul quaderno Mead quello che ha visto e sentito e annusato e toccato. A scrivere è qualcun altro. È solo sulla pagina, solo per Pagina, che ciò che è freddo e bestiale comincia a potersi manifestare. Il freddo e bestiale arriva come in forma di piccoli singulti della scrittura. È sulla pagina che comincio a vendicarmi silenziosamente del copione, quello che mi è stato dettato all’orecchio per anni e anni da una voce quasi inudibile che esigeva la mia ubbidienza.

25 settembre 1978

Cara Pagina,

Scena: Affollata festa per il lancio di un libro in un buio appartamento sulla Centesima Strada Ovest.

Un uomo si avvicina. Bella faccia. Denti un po’ ingialliti. Espressione radiosa. Si siede, si protende, siamo quasi naso a naso. Philip Hightower. Mi ritrovo schiacciata fra Hightower e uno smilzo poeta con le scarpe nere a punta che discutono con un tono di voce basso e reboante della Scuola di Lingue. Hightower è straconvinto. Gesti ripetuti verso l’alto, usa piú volte la parola RIVOLUZIONARIO. No, non ho mai sentito parlare di Werner Erhard. No, questo nome non mi fa trillare nemmeno lontanamente il proverbiale campanello nella testa. Espressione scioccata di Hightower! Fiato che sa di mentina. Sillaba: – E-S-T –. Cita Nietzsche senza motivo apparente. Mi racconta che chi partecipa al seminario (A PAGAMENTO) vive come recluso per due fine settimana. In soli quattro giorni, Hightower è diventato SE STESSO! Non risponde quando commento che in genere uno non deve pagare per ottenere questo tipo di trasformazione. Gesticola di nuovo. Ulteriori spiegazioni. Scopro un punto cruciale, durante il seminario NESSUNO HA IL PERMESSO DI ANDARE IN BAGNO. La superiore saggezza insita in tale regola mi lascia piuttosto fredda. Ritraggo la testa dal naso di Hightower. – Devi andarci! Dammi retta, ci devi andare! – Il palmo di Hightower mi atterra pesantemente sul ginocchio. Gli scosto la mano. Il mento di Hightower si muove avanti e indietro in senso orizzontale a dimostrare la sua delusione per la mia mancanza di buon senso. Dopo sessanta ore di costose umiliazioni, la mano di Hightower non mi farà piú diventare piccola per la paura. Vorrò «determinare la mia vita, anziché viverla e basta». Sventolo una mano per salutare Gus, mi alzo e «determino» il mio immediato congedo.

S.H.

30 settembre 1978

Joseph Brodsky in classe ha contestato una delle poesie di Whitney. Lei si è difesa. Whitney dice che gli altri studenti del corso sono dei vigliacchi pappemolli. Lui li prende in giro e li deride tutto il tempo, ma dopo che Whitney lo ha affrontato a muso duro, lui ha sorriso. Adesso Whitney è la sua cocca, lei dice che in inglese le poesie di Brodsky «fanno pena».

1° ottobre 1978

Stasera. Settantesima Strada Est. Un esercito di inservienti deve lucidare tutti i giorni le decorazioni in ottone dell’atrio. Il portiere è gallonato. Viaggio stipata in ascensore fino all’attico, dà sull’East Side ed è pieno di gente piú grande di me, tutte persone che si conoscono fra loro e parlano rumorosamente, scherzosamente, confidenzialmente. Ci sono dei tristi bastoncini di sedano col burro di arachidi. Pretzel. Hot dog in miniatura. Whitney l’ha definito «cibo per WASP». Loro, i WASP, cioè quelli che vengono da antiche e ricche famiglie protestanti e hanno cognomi grandiosi, li prediligono. I WASP preferiscono i cocktail al cibo. Whitney mi ha indicato in un angolo un tipo basso che rideva in modo esageratamente animato. Norman Mailer. Parlava di «mogli» con un uomo alto. – È dura per le mogli, però –. Quali mogli? Non è lui quello che ha accoltellato una delle sue «mogli»?

3 ottobre 1978

Ero sdraiata con Whitney sul suo letto nella mansarda sulla West Broadway e lei mi ha raccontato che da piccola, quando era veramente arrabbiata, entrava in bagno, chiudeva a chiave la porta, mordeva un asciugamano e batteva i pugni sul pavimento.

5 ottobre 1978

Alvin e Rosie, che vivono sulla Seconda Strada, hanno la vasca da bagno in cucina. Alvin ha un’aria patita: una maglietta lacera, le costole sporgenti, cuoio e borchie. Chiacchiere su qualcosa che ha a che fare con la televisione. Incomprensibili. Rosie, biondo platino, è muta come un pesce, seduta su un divano sfondato. Le si chiudevano gli occhi. Quando stavamo per andarcene ha mostrato il palmo della mano e ha detto: – Lude? – Questi sono tutti scemi.

Whitney ha tradotto: non parlavano di televisione ma dei Television, un gruppo punk. Lude sta per Quaalude, un miorilassante che ti fa sentire le braccia e le gambe spugnose. Questi sono tutti scemi.

Tua S.H.

La sera c’era un gioco da giocare, e noi lo giocavamo. Il gioco si chiamava Le Belle Ragazze. È un vecchio gioco e le sue regole sono state scritte, riscritte e ri-riscritte piú e piú volte nel corso dei secoli.

Ricordo Whitney che gridava a squarciagola, avanzando baldanzosa per la mansarda in reggiseno e mutandine roteando un vestito di lustrini sopra la testa: – Minnesota, questa è la serata Mata Hari! – Ci veniva la frenesia e ci vestivamo eleganti, di solito con i vestiti di Whitney perché il suo guardaroba era molto piú fornito del mio, e ci truccavamo e ci sistemavamo i capelli come se dovessimo uscire sul palcoscenico a recitare la parte della civetta o della femme fatale o della cattiva ragazza in libera uscita. Piú selvaggia era la tenuta, piú divertenti sembravamo l’una all’altra, e poi nel cuore della notte avanzavamo a grandi falcate, sculettando, davanti alla folla in attesa, e stavamo a guardare l’uomo che chiamavamo «il Selezionatore», il gigante che stava all’ingresso dello Studio 54, alzare il cordone di velluto per farci passare, dopo di che ballavamo fino alle quattro, due instancabili donne-ragazze, e ci contorcevamo e ci dimenavamo e sventolavamo le braccia e ridevamo nella baraonda della discoteca in mezzo ad altre persone in maschera: i travestiti che svettavano coi loro abiti trasparenti, le modelle alticce, i ricconi con i vestiti italiani, i vip seduti in zone speciali riservate solo a loro.

Non mi sarei mai avventurata fuori casa se non fossi stata in compagnia di Whitney, né avrei mai saputo l’esistenza di un posto di quel genere, ma una volta là, mi abbandonai al fascino del locale. La musica ballava me, non il contrario. Cedetti alla sua allegra seduzione, al ritmo e al sudore e all’eccitazione. E Whitney era sempre nel mio campo visivo, quando la cercavo con gli occhi, la testa gettata indietro, le labbra leggermente aperte e gli occhi chiusi, col glitter o le piume o ciglia finte o tutte e tre. Whitney era con me in quei ritmi travolgenti che sono sesso senza sesso, i greci la chiamavano ekstasis, essere fuori, spostati, non piú a casa, sollevata e spinta fuori nella molteplicità e nell’illimitatezza. È in questo modo che penetriamo la mente della moltitudine, diventiamo l’alveare, non l’ape. Ricordo la sensazione di essere come accecata dal movimento del corpo, e ricordo la gioia carica di energia dello sfogo nel ballo. Whitney e io eravamo incontenibili in pista, e una volta che cadevamo in preda alla trance dionisiaca potevamo andare avanti per l’eternità, almeno finché una delle due non doveva fare pipí, e in genere a quel punto si rompeva l’incantesimo.

La toilette delle signore era l’Inferno dello Studio 54, e la maggior parte delle sue frequentatrici vi arrivavano portate dal fiume Lete. Ricordo teste appena uscite dal parrucchiere piegate sulle piste di cocaina preparate sul lavandino, e dita decise e unghie brillanti che aggiustavano le calze a rete, e ricordo colli allungati sopra le spalle nude per controllare nello specchio che non si vedesse l’increspatura delle mutandine, e ricordo l’incessante raddrizzamento di gonne che si svolgeva in quella calca femminile, la vitale rassettatura di vestiti stretti al punto che se non stavi attenta ti salivano su fino al sedere. Naturalmente quelle feroci tirate verso il basso contavano solo se il look che cercavi non prevedeva il culo nudo. E di culi nudi mi capitò di vederne parecchi. Nella toilette risuonavano singhiozzi, risate, gemiti e imprecazioni. La toilette puzzava di profumo pungente e vomito e urina. Per i sobri, una visita alla toilette era un modo per sentirsi ancora piú sobri, e io non bevevo mai. Era troppo costoso. I soldi me li tenevo per la nicotina.

Ci scatenavamo al CBGB e al Max’s Kansas City e al Mudd Club su White Street, dove i ragazzi erano smilzi ma le ragazze formose, e mi abituai alle convenzioni, allo chic del cuoio sadomaso, agli orecchini di lametta che certamente avevano qualche rivestimento protettivo, per cui dopo un po’ smisi di preoccuparmi per la vulnerabilità dei colli fra gli spintoni della calca. Del resto non vidi mai sanguinare nessuna.

Le differenze fra i locali, quelli della zona meridionale della città e quelli della zona settentrionale, la sociologia della musica e dei tipi umani, che alcuni osservavano e analizzavano con grande attenzione, a me sembravano sempre opinabili. Quando non ballavo, vedevo soprattutto pathos, ed era uguale dappertutto. Gli esseri umani desiderano disperatamente essere guardati e vedersi riflessi negli occhi altrui, amano sentire il familiare conforto del «noi», le carezze seducenti della tribú, e allora, al tempo in cui New York era fatiscente e Ronald Reagan e la piaga dell’Aids non avevano ancora cominciato a flagellare la città, segmenti della popolazione ricca e di quella povera cercavano una via facile per l’oblio nell’ebbrezza collettiva e in una scopata veloce.

Whitney era un po’ delusa che mi fossi adattata cosí in fretta alle nostre incursioni a notte fonda nella decadenza urbana.

Ma la mia amica cominciò a capire che la vita nelle comunità rurali e nelle piccole città non è, né mai è stata, un film di Hollywood diretto da Frank Capra. Le raccontai qualche storia:

Una volta, da bambina, accompagnai mio padre che era stato chiamato per una visita a domicilio. Era un fatto raro, ma le circostanze lo richiedevano, e dovetti andare. Ricordo me che guardo strisce di carta moschicida gremite di cadaveri che pendono dal soffitto di una minuscola cucina cadente che puzzava di cavolo e ricordo la donna con un viso rabbioso e smunto che indossava un largo vestito di cotone e mi stava seduta davanti e mi guardava con aria torva mentre mio padre, nella stanza accanto, visitava il marito. – Te la fai sotto solo per quattro mosche, ragazzina? – Scossi la testa. – Non ce li avete questi fastidi in città, vero? – Non risposi anche se noi non vivevamo esattamente in città. Poi la donna si alzò in piedi, cominciò a radunare rumorosamente le stoviglie e borbottò: – Ti credi di valere molto piú di noi, eh?

Ricordo una sera io e Kari davanti a una roulotte senza ruote, nel parcheggio delle case mobili davanti al Dairy Queen, una roulotte in cui era entrato nostro padre. Dopo pochi minuti una donna si mise a urlare. Quando smise, mio padre uscí dalla roulotte, e capimmo che il bambino era morto perché gli occhi di papà dicevano: «Il paziente è morto».

Un’altra volta seguii mio padre che si era precipitato dentro una casa e vidi che si inginocchiava accanto a una donna con la faccia blu che era sdraiata sulla folta moquette che copriva il pavimento del soggiorno. Mio padre la osservò attentamente, poi la prese per le braccia, la fece mettere seduta, le affondò in gola due dita allungate al massimo e tese, e le tirò fuori dalla bocca un lungo pezzo di manzo che sventolò verso la figlia della donna, in piedi accanto a lui. La donna con la faccia blu tossí, rantolò, diventò bianca e poi rosa con una tale velocità che credetti di avere assistito a una resurrezione. La figlia cominciò a farfugliare con voce stridula ed eccitata: – Pensavo che fosse morta! Pensavo che fosse morta! – Mio padre deve essersi trattenuto a visitare la donna, deve avere parlato con la figlia, ma non ricordo nulla di tutto ciò. Ricordo però che fischiettava mentre Goffa sbandava e vibrava su per la strada bianca che portava alla Statale 19, e mentre ci allontanavamo dalla bassa casa verde del ranch, ricordo che mi strizzò l’occhio e disse che delle mani capaci sono lo strumento migliore per un medico. Accolsi la strizzata d’occhio come una dichiarazione d’amore.

Intrattenni Whitney con la storia della donna-Lazzaro soffocata da una fetta di arrosto prima di raccontarle l’altra vicenda, perché riportarla in vita era stato meravigliosamente semplice. Mio padre aveva interpretato il ruolo del medico-mago. L’altra faccenda l’avevo sempre tenuta segreta, nemmeno Kari la conosceva, perché mi faceva stare male. E mi fa stare male ancora adesso. Penso che la raccontai a Whitney perché sapevo che lei non ne sarebbe stata ferita. Avevo dieci anni, dunque doveva essere la primavera del 1965. Malcolm X era stato assassinato, e siccome ricordo gli alberi in fiore, ne deduco che la violenza della Domenica di Sangue sul Ponte Pettus, a Selma, dovesse essersi già compiuta. In quell’occasione mia madre aveva pianto, e ricordo che ripeteva «c’erano anche dei bambini, dei bambini!», ragion per cui doveva essere aprile, ed ero appena uscita dalla mia lezione di danza all’Arts Guild. Mio padre era venuto a prendermi ma era insieme a un uomo che gesticolava come un pazzo.

– Non avere paura, – mi disse mio padre, – ma in macchina andremo veloci come il vento.

Non ricordo niente del viaggio. Ma vedo la casa nella periferia orientale della nostra città. Nel ricordo, è dipinta di giallo. Mio padre mi ordinò di restare in auto.

Studiai le macchie che avevo lasciato con le dita dei piedi nelle scarpe da ballerina nere e studiai di là dal parabrezza il verde pallido dei rami. Ricordo che sotto gli alberi la luce e l’ombra tremolavano e, dopo aver aspettato mio padre cosí a lungo che mi era impossibile aspettarlo anche solo un altro minuto, mi ritrovai a camminare verso la casa attraversando il praticello fangoso che aveva davanti, pienamente consapevole del fatto che ogni passo che facevo era proibito. Non ricordo di aver mai disubbidito a mio padre prima di allora. Sembra impossibile eppure è vero che non riesco a ricordare alcuna occasione in cui, prima di quel momento, avessi fatto coscientemente qualcosa che lo contrariasse. Non ricordo me che apro la porta o che varco la soglia e nemmeno quali fossero di preciso le parole con cui avevo in mente di giustificarmi con mio padre.

Conservo nella memoria alcune immagini che sono durate nel tempo, ma non posso giurare sulla loro autenticità. Con gli anni è come se si fossero irrigidite e sembrano una serie di immagini fisse. C’è mio padre piegato su Mrs Malacek. Lei la riconobbi subito perché faceva parte del gruppo di cucito di mia madre e suo figlio, Brian Malacek, era in classe mia: uno dei ragazzini stupidi che ignoravo. Mrs Malacek, che sembrava piú giovane delle altre madri e portava le gonne sopra il ginocchio, invece, mi rivolgeva sempre un sorriso. Adesso stava con la schiena appoggiata al bracciolo di un divano, le gambe nude e aperte. Aveva un asciugamano sulla faccia e la camicetta le pendeva addosso slacciata. Vidi i suoi seni, bianchi e pieni sopra il reggiseno, e i rotoli di pancia, e il sangue sparso sulle cosce, e sotto di lei, sul cuscino del divano un’enorme macchia scura, c’era cosí tanto sangue che mi mancò il respiro, o almeno credo. Sapevo che non avrei dovuto guardarla, dato che era svestita. Stavo facendo qualcosa di abietto. E mi avrebbero vista. A quel punto sentii la voce di mio padre. Parlò a Mrs Malacek con un tono cosí tenero e musicale che sembrava una canzone, lei però non gli rispose. Lasciò cadere l’asciugamano e con la sua faccia rossa, gonfia e sformata guardò dritta verso di me, ma lo sguardo era vuoto, nessun riconoscimento, nessuna sorpresa, nessun dolore. Fu in quel momento che notai Brian? So per certo che lo vidi. Stava in un angolo, si schiacciava contro la parete, e tremava.

– Va’ ad aspettarmi in macchina –. Mio padre non sembrava arrabbiato, ma io mi girai e filai via.

Avevo visto qualcosa che non avrei dovuto vedere, anche se non sapevo esattamente cosa fosse. Aspettai una vita in auto. La gente passava. Ma l’andirivieni non è ben inciso nella mia memoria. Quando finalmente mio padre tornò, sotto la giacca aveva la camicia bianca sporca di sangue. Salí in macchina e io morivo di paura per il rimprovero che credevo stesse per abbattersi su di me e che invece non arrivò. Sembrava quasi che non gli avessi mai disubbidito, che non fossi entrata mai in quella casa, che non avessi mai visto alcunché. Sentivo la tensione fisica di mio padre, vedevo le sue mani contratte sul volante, e la frenata secca che faceva davanti agli stop, e avrei voluto piangere. Ma mi concentrai sulla linea bianca al centro della strada, e finalmente svoltammo su Old Dutch Road, superammo il fienile degli Swansen, e imboccammo a destra il vialetto di ghiaia davanti a casa nostra. Mio padre arrestò bruscamente l’auto davanti al garage e, spento il motore, piegò la testa sul volante e borbottò con voce bassa e soffocata: – Figlio di puttana.

Attorno a questo potente ricordo c’è il vuoto, nulla immediatamente prima o immediatamente dopo. Per esempio non ricordo affatto la lezione di danza o cosa feci tornata a casa. Ma so che uno dei giorni successivi, a scuola, mi accorsi che Brian mi osservava, e dentro mi sgorgarono pietà e imbarazzo, e allora gli sorrisi, non un sorrisone, no, solo un piccolo sorriso che immaginai compassionevole. Ma non passò molto che Brian ordí la vendetta. Il suo malanimo, che prima era stato indirizzato piú o meno verso chiunque, si concentrò su un unico bersaglio. Per settimane quel ragazzino magro, coi capelli a spazzola e il ciuffo ribelle e le unghie orlate di nero, mi seguí per i corridoi di scuola, mi fece la posta al campo giochi e, standomi sempre alle costole, ripeteva ogni mia parola, ogni gesto, ogni espressione. Brian diventò la mia grottesca immagine speculare, un riflesso che mi trasformava in uno stupido ragazzino effeminato.

Il giorno dopo aver raccontato a Whitney questa storia, scrissi sul mio taccuino:

Whitney e io abbiamo esaminato a fondo la storia e capito il mio errore: il sorriso. Lei dice che Brian aveva lottato per difendere la propria dignità nell’unico modo che conosceva. Aveva attaccato la ragazzina che si era intrufolata in casa sua e che non solo aveva visto sua madre sanguinante e mezza nuda, ma aveva visto lui, Brian, tremante in un angolo. Whitney si è chiesta se il sorriso che gli rivolsi non fosse marchiato da un senso di superiorità. Mi ha chiamata «santa Minnesota». Mi sono sentita moralmente indegna, ma chi è in grado di dire cosa provassi esattamente quando, a dieci anni, sorrisi a Brian Malacek?

E poi Whitney ha detto: – E l’uomo chi era?

– Quale uomo?

– Quello che accompagnò tuo padre a casa Malacek. Chi era?

Quattordici anni dopo il fatto, mi rendo conto di non aver mai preso davvero in considerazione quell’uomo. Esamino la memoria cercandolo. Eccolo che gesticola davanti all’Arts Guild, ma non ha faccia né età: a quel tempo tutti gli adulti mi sembravano vecchi. Immagino che seguissimo la sua auto. Doveva essersi precipitato in casa per primo. Ho un qualche ricordo concreto di lui che corre dentro la casa? O sto solo fornendo un supporto visivo a tale domanda?

Whitney ha detto: – Non pensi che potesse essere il padre di Brian?

Cara Pagina, c’è qualcosa di prodigioso nel modo di pensare di Whitney. A me non era mai venuta in mente questa eventualità, del resto non avevo mai visto il padre di Brian, solo sua madre. Secondo Whitney, l’uomo che gesticolava come un pazzo magari aveva picchiato, e forse stuprato, la moglie, in un accesso di rabbia, e poi, spaventato dalla propria violenza, era andato a chiamare il medico. D’altro canto non si può escludere che fosse un vicino di casa o un amico, che aveva sentito urlare e, dopo aver chiamato il medico per la poveretta sanguinante, era uscito di scena e basta. O forse, ha detto Whitney, dando una nuova svolta alla trama, quell’uomo era l’amante di Mrs Malacek. – Forse Mr Malacek aveva scoperto che la moglie lo tradiva.

Un uomo esce da una porta e scompare. Forse se ne va dalla porta sul retro? Se qualcuno fosse uscito dalla porta principale, sicuramente me lo ricorderei, o no? E se invece l’uomo si fosse ritirato semplicemente in camera sua perché anche lui viveva lí nella casa gialla?

– Be’, Mrs Malacek non poteva essersi ridotta in quel modo da sé, – ha insistito Whitney. – Dov’erano i poliziotti?

Dov’erano i poliziotti? Cara Pagina, dov’erano i poliziotti? Io non avevo visto neanche l’ombra di una macchina della polizia, dico bene? Forse Mrs Malacek non aveva voluto denunciare chi l’aveva malmenata? Secondo Whitney dovrei telefonare subito a mio padre per chiedergli di Mrs Malacek e scoprire come andarono veramente le cose.

Non glielo chiesi mai.

Una volta, anni dopo, quando mio padre era già morto da tempo, ritirai fuori con Whitney la storia di Brian Malacek ma lei non se la ricordava piú.

Il mio silenzio era dettato dalla paura. Avevo paura degli eroi e dei cattivi e degli stupidi, avevo paura delle persone importanti.

E chi è la ragazzina che dal corridoio osserva il soggiorno e la donna insanguinata e senza mutande, i cui occhi non vedono e il cui figlio trema in un angolo? Una testimone muta? Un fantasma? Nessuno? «Io sono Nessuno! Tu chi sei?» Nessuno è in grado di scrivere una storia? Il caso della madre di Brian Malacek scritto da una Signora. Da una Bambina. Da Anonimo.

Mentre continuavo a lavorare al mio romanzo ancora senza titolo mi resi conto che Isadora Simon aveva cominciato a scalzare risolutamente Ian Feathers dalla pagina.

Isadora sta prendendo sempre piú spazio, e il povero Ian si sta inaspettatamente ridimensionando come personaggio. Mi sembra di non avere altra scelta se non seguire lei anziché lui. Il fantasma di Frieda Frail rappresenta un ulteriore problema. Devo decidere qualcosa riguardo alla natura di questo spettro. La svolta finale della mia storia consiste nella scoperta che i mulini a vento sono in realtà dei giganti?

Isadora e Ian decisero di interrogare tutti e tre i testimoni che avevano visto il fantasma di Frieda Frail. Raccolsero innanzi tutto la testimonianza di Dora Semplice, poi rintracciarono Martin Pesky, comproprietario del supermercato Red Owl, e lo raggiunsero nel suo ufficio. Mr Pesky aveva accettato di farsi interrogare perché i due adolescenti gli avevano mentito, sostenendo di dover preparare una tesina sul posizionamento dei prodotti nel commercio al dettaglio e il suo effetto sui consumatori. Mr Pesky si era dilungato entusiasticamente sui trucchi utilizzati per indurre i clienti a comprare piú cose di quante avessero in mente di acquistare. – Le barrette di cioccolato, per esempio, insieme alle gomme da masticare e al «National Enquirer» stanno vicino alle casse. La gente si annoia in fila ed è in quel momento che scatta il desiderio! E sono altri soldini per noi! – Ma quando Isadora aveva provato delicatamente a spostare la conversazione sul tema delle apparizioni di Frieda, sostenendo di voler rassicurare la sorellina Dora, che la sua era stata solo un’allucinazione, Mr Pesky era stato sopraffatto dal bisogno improcrastinabile di grattarsi un improvviso prurito itinerante. – Potrebbe descrivermi nei particolari cosa vide, Mr Pesky? – Questa domanda scatenò una vigorosa grattata alle cosce, durante la quale Pesky bofonchiò che doveva avere avuto le traveggole, e quando Isadora disse: – Lei e Frieda eravate fidanzati, vero? – Mr Pesky avvertí il bisogno improvviso di grattarsi con le unghie la pelata, e negò recisamente l’esistenza di un fidanzamento ufficiale. Lui e Frieda si erano «frequentati appena». Tuttavia la domanda che lo fece andare veramente in bestia fu l’ultima che Isadora gli rivolse: – Lei sapeva che Frieda soffriva di epilessia, vero? – Subito Mr Pesky strabuzzò gli occhi e strillò: – Fuori di qui, ragazzacci impiccioni! Levatevi dai piedi, subito!

Usciti dall’ufficio di Pesky, attraversando il supermercato, mentre percorrevano a grandi passi la corsia dei detersivi per il bucato, Ian disse a Isadora: – «Io sono un cervello, Watson. Il resto del mio corpo non è che una semplice appendice».

– Oh, dài, Ian, perché non lasci perdere Sherlock Holmes? – esclamò lei, ma si pentí subito di quel moto di insofferenza, perché l’avvilimento sembrò sgonfiare il suo amico. Il mento, le spalle e il torace gli cedettero all’indentro, dandogli l’aria ingobbita del penitente religioso; allora Isadora gli diede una piccola pacca sulla mano e gli chiese scusa, poi abbassò lo sguardo sugli appunti che aveva preso interrogando Dora Semplice. In fin dei conti si era rivelata una testimone eccellente, nonostante le sue scorribande, del tutto prevedibili, da Stregatto.

A suo modo Isadora voleva bene a Ian. Come diceva la madre di lei, era «un caro ragazzo», e Isadora sapeva che, indipendentemente da quello che diceva di sé, Ian aveva il cuore buono, troppo buono per potersi trasformare in una pura e semplice macchina di Turing. Sapeva anche che Ian le moriva dietro, probabilmente nello stesso modo in cui lei moriva dietro a Kurt Linder, che aveva due anni piú di lei, un ragazzo con i fianchi stretti, una ciocca di capelli che gli cadeva sulla fronte, e un’espressione perplessa che lo abbandonava solo quando sorrideva. Se incontrava Kurt nei corridoi della scuola, il desiderio la paralizzava. Ma l’oggetto del suo grande amore non si curava di lei e Isadora capiva, poiché stava velocemente sviluppando quella che non si può chiamare altro che saggezza, che le frecce di Cupido trafiggono a casaccio, senza ragione o giustizia.

Anche nel mondo di Conan Doyle l’amore era una cosa importante. Isadora si era resa conto che la grande storia romantica nei suoi celebri romanzi era quella fra i due uomini, il medico e il genio. Watson per un certo tempo ha una moglie, ma Mrs Watson muore, e il dottore torna al suo vero amore. La padrona di casa, Mrs Hudson, è una donna ordinata ma talmente marginale in tutti i fatti che contano da non essere mai descritta nel suo aspetto fisico. Le altre donne presenti nei romanzi di Sherlock Holmes per lo piú svolazzano misteriosamente nell’ombra o pronunciano giusto un paio di parole o vengono accoltellate o avvelenate o prese a pistolettate (anche se per Isadora Violet Hunter, Kitty Winter e Irene Adler rappresentavano un’eccezione alla regola generale), ma siccome Ian si immaginava nei panni di Holmes, a Isadora toccava il ruolo secondario dell’eterno aiutante: il dottor Watson. Quando avevano cominciato a occuparsi del caso di Frieda Frail, quattro mesi prima, Isadora aveva solo quattordici anni, e aveva abbracciato con entusiasmo anche un ruolo subordinato. Adesso che ne aveva compiuti quindici, quella maschera le andava stretta, e per poter meglio analizzare il proprio «personaggio» aveva iniziato un’attenta rilettura dei testi sacri di Ian.

Nell’Avventura dei tre Garrideb Isadora credeva di avere trovato la risposta che cercava. In questo racconto il fedele Watson viene colpito con un’arma da fuoco, una ferita superficiale che Isadora immaginò fosse stata esaminata, pulita e bendata con grande cura, ma questo non la preparò alla rivelazione che arriva con un commento di Watson sul turbamento di Holmes per l’incidente occorso all’amico: «Valeva una ferita, molte ferite, scoprire la profondità della devozione e dell’affetto che si celavano dietro quella sua maschera impassibile». Siccome Isadora non aveva limitato le sue letture all’anatomia ma aveva praticato anche molti dei romanzi scritti negli ultimi due secoli, era molto sensibile alle insopportabili convenzioni dell’amore.

«Oh, ferita felice! – si disse cinicamente, – Avrei voluto riceverne altre mille! Sapere che l’oggetto del mio cuore ricambia il mio sentimento è l’unica cosa che conti! Santo Cielo, Watson è come qualsiasi svenevole donna innamorata!» La nostra eroina, sdraiata sul letto in camera sua, studiava una crepa nell’intonaco del soffitto e di colpo le venne fatto di chiedersi se davvero non volesse per sé il ruolo di Sherlock Holmes, se non volesse esser lei a interpretare la parte della maschera di fredda superiorità. Watson era medico e scrittore, dopotutto. Senza Watson non ci sarebbero le avventure di Holmes. Quanto alla questione dell’amore, lei, Isadora, non moriva forse per Kurt? E Ian non moriva forse per lei? Stava meditando queste gravi domande quando in casa dei Simon squillò il telefono al secondo piano e Isadora andò in corridoio per rispondere. Era Ian. – Mio caro Watson, le disse, – è richiesta caldamente e urgentemente la tua presenza.

Dal quaderno Mead:

7 ottobre 1978

Ho visto di nuovo quel ragazzo pallido. Non ne ho mai parlato, ma in dieci giorni è la terza volta che lo noto attorno al nostro palazzo. Sembra malato, tubercolotico, in effetti è una specie di Trilby al maschile, che deperisce di giorno in giorno. Il suo viso è di un pallore estremo e ha cerchi viola scuro sotto gli occhi. Non fa altro che starsene in piedi lí, sfregandosi le braccia contro il freddo e sorvegliando ansiosamente il portone come se aspettasse qualcuno, e quando gli passo davanti, mi fissa come se volesse darmi uno spintone e atterrarmi con un’occhiata.

10 ottobre 1978

Il giovane pallido sembra aver messo le tende in pianta stabile davanti al nostro palazzo. Mi domando cosa voglia. Non ho idea di quanti anni abbia, ma non deve averne molti piú di me. Non chiede l’elemosina, ma il suo sguardo è angosciosamente supplichevole.

11 ottobre 1978

Ieri sera sono rimasta a casa a scrivere. Devo risparmiare. Lucy fischiava e camminava avanti e indietro. Poi è uscita per un paio d’ore. È un fatto insolito. Quando è tornata ha cominciato subito a sproloquiare. Ho preso lo stetoscopio e mi sono messa in ascolto. Ho registrato alcuni frammenti, ma non so neanche io che senso dargli:

«Negli occhi di lui non c’era niente. Capisci cosa intendo? Un marziano. Una cosa paurosa. Una cosa. Perché hai ucciso quel povero animale? Oh, lui sorride di nuovo. Se anche Lindy l’avesse saputo, non l’avrebbe detto. Lei non lo direbbe mai. Non riesco a togliermelo dalla testa. Eliminarlo. Lobotomia. La lobotomia è un metodo antico. Nessuno lo usa piú. Ma come fa uno a liberarsi di un’idea? Aiutami. Aiutami. Non dirmi bugie. Voglio la verità. Devi dirmi la verità. Sei stato tu? Sei stato tu? Sono cosí triste. Sono cosí triste. Lui non c’è. No. Per me lui è morto, morto. Come è chiamata la donna a cui sono morti i figli? Deve esistere un nome! [Piú forte]. Vivere tutta la vita con la paura. Paura di Jimmy. Paura di Ted, di Ted e di Ted. E sculetto. E sorrido. Lucy, che fa girare la testa agli uomini, oh, Lucy, sei divina. [Raschi. Risate]. Ti odio. Sei un maiale. Stai diventando grassa. Smettila di mangiare tutti quei dolciumi. [Rumori di pianto].

Poi Lucy ha parlato al telefono con una certa Patty. Questa Patty chiacchierava un sacco, cosí Lucy restava in silenzio per diversi minuti di seguito. Poi però si è messa a frignare: – Patty, ma come faccio? Cosí non reggo piú! Io devo sapere –. È rimasta ad ascoltare Patty ancora per qualche istante, piagnucolando.

Cara Pagina, Lucy mi irrita. Mi irrita la sua abiezione. Oh, ferita felice! Feriscimi ancora! Eppure sono stata a sentirla, vero o no? E ho pensato a MS (MS non sta per il mio manoscritto).

Adesso sono in grado di distinguerla con chiarezza? Vedo S.H. rannicchiata in posizione accanto alla parete, ascolta con lo stetoscopio una storia che si dipana in frammenti. No, lei non è il nostro Eroe Standard. Lei non è Sherlock Holmes. No, lei è intralciata da un racconto che precede la sua esistenza. Creo ora questa immagine di lei, non è che la sto ricordando. La lettura del taccuino ha prodotto il ritratto di un personaggio: la scrittrice da giovane donna in pigiama, raggomitolata sul pavimento. Il pigiama potrebbe essere quello di flanella a righe rosa che le regalò sua madre, quello che si rimpicciolí nell’asciugatrice cosí l’orlo dei pantaloni non le arriva nemmeno alle caviglie. Ricordo perfettamente quel pigiama.

E vedo il Misterioso Gentiluomo Claudicante che sale le scale perché si è impadronito della storia. Ha una chiave in mano. Quello che la scrittrice ancora non sa è che dovrà balzargli addosso e buttarlo a terra. Dovrà prendere la chiave dal pugno serrato di lui e usarla per aprire una porta.
Capitolo quinto
Quando, un paio di minuti prima delle diciotto del 1° novembre 1978, Malcolm Silver varcò la soglia della East Hall Lounge della Maison Française presso la Columbia University per assistere a una conferenza di Paul de Man (Shelley sfigurato: l’immagine di Jean-Jacques Rousseau nel «Trionfo della vita»), mi ero già trovata un posto. Lui, l’eroe standard seppur temporaneo, scelse una sedia nella fila davanti a me, e riportai nel taccuino che godevo del «panorama del suo collo e della lanugine che gli cresceva nell’avvallamento della nuca».

La presenza di Malcolm Silver, seduto lí quasi a portata di mano, mi provocò una leggera ustione alla zona genitale che cercai di ignorare ascoltando il professor De Man dissezionare una poesia che conoscevo piuttosto bene, tuttavia non ricordo piú come recise il testo o come ne asportò le parti che andavano sottoposte a un esame piú attento, ricordo solo che la sua tecnica mi colpí perché era molto poco cruenta, e mi accorsi di essere annoiata, e i miei pensieri forse vagarono sull’incompiuto Trionfo della vita e, da lí, al Don Giovanni, altra opera incompiuta, questa di Byron e in ottava rima, in cui l’eroe fa naufragio ed è spinto dalle onde sulla spiaggia di un’isola, ma Don Juan era anche il nome della goletta di Shelley, affondata nella tempesta che investí improvvisamente il golfo della Spezia l’8 luglio 1822. Trascorsero dieci giorni prima che le onde restituissero il cadavere del poeta vegetariano annegato, ma i pesci avevano divorato la carne della faccia e delle mani, per cui venne identificato dagli abiti e dal libro delle poesie di Keats che aveva ancora in tasca. Il corpo di Shelley, in ossequio alle leggi italiane sulla quarantena, venne seppellito temporaneamente sulla battigia, lí dove era stato rinvenuto, e poi fu disseppellito e bruciato su una pira funeraria eretta in spiaggia.

Morto a ventinove anni, Shelley diventò un martire della letteratura perché il mondo ama i poeti e gli attori, e anche qualche scrittore, che muoiono giovani e non diventano mai artritici, bolsi e col doppio mento, e li ama ancora di piú se sono tormentati, affetti da allucinazioni e da propositi suicidi, perché l’artista tranquillo, sensato, e ce ne sono molti, non dà lo stesso brivido. E cosí indoriamo i loro giovani cadaveri, li esponiamo alla luce, e li guardiamo risplendere.

Forse pensai anche a Mary Shelley. Tre settimane prima che il marito morisse, si sottopose a un bagno ghiacciato per fermare la copiosa emorragia seguita all’aborto spontaneo che quasi l’aveva uccisa. A quel tempo tre dei suoi quattro bambini erano già morti, e l’autrice di Frankenstein non voleva un altro bebè. In realtà non so a cosa pensassi esattamente perché sul momento non annotai le mie fantasticherie. Tuttavia scrivere un attimo fa quella frase su Mary Shelley immersa nell’acqua ghiacciata mi ha fatto ripensare a Mrs Malacek, di cui ho parlato nel capitolo quarto. E mi chiedo se la scena a cui assistetti quel giorno non rappresentasse oltre alle conseguenze di una scarica di botte anche quelle di un aborto. A dieci anni ignoravo, credo, cosa fosse un aborto.

Tutti eravamo venuti all’East Hall Lounge per suggere la conoscenza dal grand’uomo, per ascoltare le sue frasi elevate, serpeggianti ma rigorose. È una scena che conosco bene, nella mia vita si è ripetuta piú e piú volte per molti anni: i seguaci attenti, a decine o a centinaia o anche a migliaia, col mento all’insú verso il genio o la celebrità, in piedi dietro il leggio, col suo forte accento francese o tedesco o spagnolo o italiano o mandarino o inglese o americano. I discorsi dell’oratore possono essere astrusi o lucidi. Rudi o rarefatti. Innocui o minacciosi. Egli può propugnare la figura cieca del Rousseau di Shelley o mettere in soggezione gli ascoltatori cercando di unire la teoria della gravità quantistica a loop con la teoria delle stringhe. Può leggere passi del suo ultimo romanzo o ostentare la sua politica razzista. Gli ascoltatori possono essere silenziosi o erompere in applausi, in grida, o avere reazioni scomposte. Ma il segreto di ogni grand’uomo non risiede mai in ciò che dice: sta nell’incantesimo collettivo creato dal pubblico stesso, sta nell’approvazione che la grandezza di lui riceve dal pubblico e nell’amore che il pubblico gli porta. Nel grand’uomo il pubblico trova un senso di sé che non può trovare altrove, ed è un’impressione contagiosa. E tale emozione era lí in quella sala, quel giorno. Potevo sentirla.

Nessuno sapeva che Paul de Man, stimatissimo professore di Letteratura comparata presso la Yale University, era stato fortemente contaminato dal fascismo. Allora nessuno sapeva ciò che sarebbe diventato di dominio pubblico solo alcuni anni dopo la sua morte, e cioè che in Belgio, quando questo paese era sotto l’occupazione nazista, Paul de Man aveva pubblicato degli articoli antisemiti sul quotidiano «Le Soir», e aveva falsificato i suoi titoli accademici, e aveva rubato del denaro, abbandonato i figli, praticato la bigamia, salvandosi sempre per il rotto della cuffia mentendo a tutto spiano con le autorità. Insomma, il 1° novembre 1978 nessuno fra gli ascoltatori era a conoscenza del fatto che Paul de Man era uno psicopatico.

Sul quaderno Mead registrai doverosamente il titolo della conferenza, il nome del conferenziere, la mia noia, e l’aria adorante del pubblico:

Lo amavano. A me il suo discorso è sembrato l’explication de texte ma senza arrivare a un qualche significato definitivo. Parole intelligenti, penetranti, ma nessuna rivelazione. C’è qualcosa di sbagliato in me? Mi sono persa qualcosa? Sono stupida? Aveva un tono di voce cosí stanco che mi è venuto sonno. Lo ascoltavo un po’ sí e un po’ no, e osservavo la nuca di Malcolm Silver un po’ sí e un po’ no. Avevo paura di fissarlo. Non volevo che M.S. si sentisse i miei occhi addosso. A un certo punto la ragazza seduta davanti a me, coi capelli raccolti in una crocchia tenuta da uno di quei fermacapelli di cuoio con uno stecchetto in mezzo, spostando i piedi ha rovesciato la borsa della spesa che aveva con sé, e una lattina di zuppa Campbell (Crema ai funghi) è rotolata fuori dalla borsa con sorprendente velocità, mi si è infilata fra le gambe, è passata sotto la mia sedia, procedendo dritta verso il fondo della sala, finché non ha urtato contro qualcosa: la gamba di una sedia? Il muro? Mi è venuto da ridere, ma non ci sono stati risolini e, da quello che ho potuto vedere, nemmeno sorrisi. Nessuno ha fatto una piega, nemmeno un colpo di tosse o un’occhiata veloce. Erano tutti lí, stregati dal grand’uomo.

E quando la conferenza è finita, M.S. mi ha rivolto la parola. Alleluia! Mi ha parlato della teoria critica e di Bacone e di Bentham e mi ha detto che devo assolutamente leggere Sorvegliare e punire e mi sono sentita molle di felicità. Naturale che lo leggerò! Oh, Pagina, mia cara Pagina, domani rivedrò M.S.!

Nessuno sapeva che Paul de Man, stimatissimo professore di Letteratura comparata presso la Yale University, era stato fortemente contaminato dal fascismo.

Nessuno sapeva che Paul de Man, stimatissimo professore di Letteratura comparata presso la Yale University, era stato fortemente contaminato dal fascismo.

Povera ragazza entusiasta e innamorata. Naturale che l’avrebbe letto. Avrebbe letto Foucault e Derrida e Lacan e Kristeva e Barthes e anche luminari di minor vaglia come De Man, perché all’epoca erano tutti di gran moda, e l’autunno successivo avrebbe iniziato a studiare per il dottorato e, con la testa china ora su un libro ora su un altro (volumi nella maggior parte dei casi niente affatto di tendenza) nella sala di lettura della Butler Library, sarebbe andata avanti a leggere, scrivere e fumare sigarette fino alla fine del corso, poi nella primavera del 1986 avrebbe discusso la sua tesi sui sorprendenti trabocchetti pronominali utilizzati dall’incomparabile Charles Dickens davanti a una commissione formata da sei tetri uomini bianchi con i capelli grigi, giusto un anno prima che si venisse a conoscere il passato di Paul de Man e che si organizzassero delle conferenze per capire cosa fare riguardo al dolore e all’imbarazzo suscitato da quella faccenda, tuttavia, mentre era lí nella sala della Maison Française, dopo aver assimilato la metaforica mutilazione di Shelley per mezzo di Rousseau e dopo aver forse contemplato la mutilazione reale del povero Shelley per mezzo del mare, della salsedine e dei pesci, lei, non ancora ventiquattrenne, nulla sapeva della rovina postuma dell’oratore o degli amici che avrebbero cercato di salvarlo dall’ignominia nel periglioso abisso che chiamiamo posterità. No, lei aveva solo una cotta per lo studente di filosofia allievo di Michel Foucault a Parigi.

Vorrei aver registrato i dettagli della mia cotta, che durò dieci settimane, ma non lo feci. Suppongo che scelsi piuttosto di viverla. In ogni caso i passaggi che le sono dedicati risultano enigmatici o di pura esaltazione. Le parole del taccuino mi sono diventate familiari, ma lasciano sempre inappagato il mio desiderio di saperne di piú. Quando mi ci avventuro per cercare di cogliere la prossimità di ossa, muscoli e senso, fallisco. Ricordo, e dimentico. Sfoglio le pagine del mio taccuino e, benché sappia cosa sta succedendo, non riesco a recuperare l’attualità vera della cosa. È come un presente appassito.

Fra il 2 novembre e il 15 gennaio parlai a lungo sul taccuino di quell’altro grand’uomo che a Jonestown dominava i suoi seguaci al punto che riuscí a convincerne cento a togliersi la vita simultaneamente in un campo della Guyana. Parlai anche della poltrona blu che Malcolm e io avevamo trovato nell’immondizia sulla Ottantatreesima Strada Ovest e che avevamo portato a casa mia, una poltrona che dopo un paio di giorni cominciò a esalare uno strano odore, a cui col tempo mi abituai. Inoltre registrai alcuni nuovi monologhi di Lucy, e ragionai su Whitney, Gus e Fanny, la nuova effervescente coinquilina di Whitney, un’artista performativa che si era trasferita nella seconda camera da letto della sua mansarda. Poi, tornata a casa per Natale, registrai lo stupore per come dormivo sodo nel Minnesota, oltre a un lungo elenco di titoli di libri, alcuni accompagnati da un mio commento di lettura, ma tutta l’estasi e l’infelicità dell’affaire de cœur fra S.H. e M.S. spunta solo in nove enigmatiche note:

6 novembre

Troppo intenso. Obbligatori la benda sugli occhi, il paraorecchie, lo stringinaso, dei guanti spessi!!!!!?

12 novembre

Grezzo. Il mondo è grezzo. Oh, cara testa blu! Lui ha detto che Whit è «regale». Non credo lo intendesse come un complimento.

17 novembre

Chiamo in soccorso la baronessa!: «Occhio al sangue! – scatto – Sto male! | Svelti… un abbraccio!» Sta male la vecchia ragazza che affoga.

8 dicembre

Corpi meravigliosi! I nostri corpi. IO-TU, TU-IO, T-I!

10 dicembre

Remoto. Immune. Mascherato.

12 dicembre

Arrivata da lui. Sorridente.

15 dicembre

Ferita.

10 gennaio

Sospensione.

15 gennaio

Una donna che chiede l’elemosina.

La storia è antica e può essere trasformata facilmente in un film muto, sebbene per soli adulti: Ragazza incontra Ragazzo. Beatitudine. Sudore. Saliva. Lingue in movimento, su e giú. Dentro e fuori, e altro movimento in su e in giú. Oh salti di gioia quando scoppiano gli orgasmi: uno, due, tre, quattro (quattro Lei, uno Lui). Ma Ragazzo è spaventato dall’amore esplosivo di Ragazza. Fa marcia indietro. Esce dalla porta. Ragazza insegue sensazioni meravigliose, cioè insegue Ragazzo su e giú per le strade della città. Ragazzo si mette a correre. E anche Ragazza. Ragazzo scompare su per la collina. Ragazza si ferma ai piedi della collina, gira i tacchi e se ne torna a casa, piangendo copiosamente nel suo grosso fazzoletto bianco. Ma adesso che non ha piú Ragazza alle calcagna, Ragazzo si ferma, si gira, osserva la scena dall’alto della collina, si posa una mano sul cuore e i suoi grandi occhi si fanno pensierosi. Ragazzo scopre di sentire la mancanza di Ragazza. Si precipita giú dalla collina e corre a casa di lei. Rincontro. Beatitudine. Sudore. Saliva. Salti di gioia. E ancora inseguimenti, corse, giravolte, camminate, pianti, e salti di gioia. E di nuovo ancora e ancora: inseguimento, corsa, giravolta, camminata, pianto, allegrezza, pianto, allegrezza, pianto. È troppo. La pellicola si spezza e la pizza della corsa e del pianto smette di girare.

Ma in realtà cosa ricordo? Quando rievoco i due mesi e mezzo in cui siamo stati insieme, trovo briciole e una miscellanea di ricordi senza capo né coda: vedo il sole dalla finestra della camera da letto di M.S., e sento l’odore del termosifone, l’aroma invernale di vaporoso calore che intride le stanze di New York e che mi piace tanto. E da quel ricordo di vetro splendente e dall’odore del caldo che soffia, e a tratti fischia nelle condutture, riesco a recuperare qualcosa della mia ebbrezza di allora, e le lenzuola spiegazzate e i sussulti e l’umidore di perdermi in due corpi, e la meraviglia del contatto, e di tutto ciò non mi pento. Malcolm faceva il caffè con un tipo di macchinetta che non avevo mai visto prima. Versava l’acqua nel serbatoio, controllava che il livello fosse giusto, con un cucchiaino riempiva di caffè in polvere un piccolo contenitore rotondo che s’incastrava perfettamente nel serbatoio, premeva i grani col dorso del cucchiaino, avvitava il voluminoso pezzo superiore, e metteva la caffettiera sul fornello. Lo vedo con l’accappatoio addosso, le ginocchia piegate, le dita sulla manopola mentre regola la fiamma. Una volta mi disse: – Mangi in fretta e furia per arrivare il piú presto possibile al caffè e alla sigaretta –. La cosa mi giungeva nuova, e mi domandai se fosse vera. M.S. si faceva lavare e stirare le camicie, e quando le indossava lasciava aperti gli ultimi due bottoni in alto. Il corpo non era peloso ma nemmeno glabro, e la pelle non era bianco rosa ma bianco oliva. Usava gli slip, aveva la vita stretta, e gli si vedevano le costole. Parlava sempre pacatamente, e non rideva spesso, ma quando lo faceva, ridevo con lui perché mi dava un piacere arioso. Ricordo che aveva un paio di scarpe di camoscio marrone, con i lacci, e che portava i pantaloni con le pinces. Ballava male, era troppo rigido, e non mi piaceva osservarlo perché sentivo che ballando non smetteva mai di guardarsi.

Nei primissimi tempi c’era stata una fidanzata, forse un’olandese che, se non sbaglio, viveva ad Amsterdam e sono sicura che il suo nome cominciasse con B. Malcolm aveva un’istantanea incorniciata che la ritraeva in bikini su una spiaggia francese, e mi confortava il fatto che con quei capelli ossigenati e l’abbronzatura color cioccolato al latte ai miei occhi non avesse proprio niente di carino; lui però parlava di lei con reverenza. Però B. era dall’altra parte dell’oceano, e io ero a New York, e Malcolm era nel mio letto, o io ero nel suo, per cui non mi preoccupavo troppo di lei. Non so di preciso in quale settimana della nostra storia la già assente B. finí con lo scomparire del tutto dalla nostra conversazione; lui le scrisse una lettera, dopo di che non la nominò piú.

Malcolm mi diede uno dei suoi lavori da leggere, e trovai la sua prosa farraginosa, piena di terribili nodi, avrei voluto prendere una penna rossa e mettermi subito al lavoro per sbrogliarli, ma avevo paura che si offendesse, e mi intimidiva la placida sicurezza che ostentava riguardo alle sue capacità di riflessione. Bofonchiai qualcosa a proposito dell’opacità dello stile e suggerii un chiarimento per il bene del lettore, il che lo fece sorridere e, nonostante il suo sorriso condiscendente mi ferisse nel profondo, non dissi altro. Anche il professore a cui consegnò la ricerca, l’invisibile ed erudito docente della New School, non ricordo il nome, sembrò fregarsene altamente della farraginosità, poiché lodò il lavoro di Malcolm definendolo «brillante». E io imparai una lezione.

Ian e Isadora e il loro caso divertirono il mio eroe temporaneo, che mi dichiarò talentuosa e arguta, tuttavia, dopo attenta riflessione, mi sono resa conto che lui non aveva alcun accesso alle mie battute, alle mie ironie, poiché sapeva troppo poco circa l’arte di costruire e sviluppare un romanzo. Non lo affascinavano il grasso e il magro e la loro trasformazione nel tempo, non lo appassionava il mio amato camaleonte e la sua borsa piena di trucchi, non aveva alcuna simpatia per le sue glorie ritmiche, per il modo in cui passeggiava e saltellava, o rallentava fino quasi a strisciare, e poi tutto a un tratto cominciava a far le capriole in aria.

Io, S.H., l’insaziabile studentessa frequentatrice di ogni biblioteca, lessi tutti i volumi che Malcolm raccomandava, quelli sulla sofisticata Schizocultura e ogni opera del suo guru, Foucault, in traduzione, e anche Storia dell’occhio di Bataille, Venere in pelliccia di Sacher-Masoch, Justine del marchese de Sade, Diario del ladro di Genet, e le ultime, folli poesie di Artaud. Lui invece non lesse nessuno dei libri che io amavo, una verità che solo adesso risulta limpidamente significativa alle mie orecchie. Malcolm considerava la baronessa una simpatica squinternata, per esempio, e non penso che la prendesse molto sul serio, né comprendeva la mia adorazione per George Eliot o Simone Weil o Djuna Barnes.

Ricordo me in piedi, nel suo appartamento, col cappotto addosso, che ascolto Malcolm che discetta col suo tono ponderato e tranquillo, e intanto fisso la foto appesa al muro che raffigura una donna avvolta nelle bende tipo mummia. Di lei si vedevano solo gli occhi. Ricordo il mio ostinato disagio, l’evidente oppressione al petto che avvertii quando lui dichiarò che il tabú dei rapporti sessuali fra adulti e bambini era solo una «costruzione borghese». E io esclamai: – No, non è vero, perché i grandi hanno loro tutto il potere, e sempre lo avranno! – Un rimbecco che Malcolm Silver accolse con un risolino, arricciando il labbro. E allora me ne andai e mi incamminai giú per la Terza Strada, e mi sentivo male ed ero confusa e camminavo e camminavo e riflettevo e riflettevo e dopo qualche ora passata a camminare e a riflettere mi ritrovai di nuovo davanti alla sua porta.

Malcolm mi dava da pensare perché, vedi, era quasi sempre gentile, e sempre lindo. Era un ragazzo ebreo, di una famiglia di classe media di fuori Cleveland, il padre era proprietario di non so quale noiosa attività commerciale, e mi sembrava del tutto improbabile come paladino degli adulti che se la fanno con i bambini di cinque anni. Era inoltre un amante premuroso, il quale, fra gli spasimi della celestiale allegrezza, non nutriva alcun desiderio, da quello che avevo avuto modo di vedere io, di fruste o corde o oggetti scenici di qualsiasi genere.

Piú di dieci anni dopo che M.S. era uscito dalla porta di casa mia, lasciandomi ridotta a un inconsolabile, lacrimoso mucchietto umano sul mio letto di cassette d’arance, lessi tre frasi in un libro intitolato I love Dick scritto da Chris Kraus, un tempo moglie di Sylvère Lotringer, il professore della Columbia che aveva fondato «Semiotext(e)». Lui me lo ricordo, perché si vestiva tutto di pelle anziché accontentarsi delle semplici toppe di pelle ai gomiti, come la maggior parte dei suoi colleghi. Chris Kraus, l’autrice di I love Dick e di altre notevoli opere, arrivò sulla scena (molto dopo che io l’avevo lasciata) per curare la pubblicazione di una serie di libri per lo piú scritti da donne, ma il tempo, evidentemente, non aveva modificato né l’aspetto né i gusti dei discepoli del professore. «I fan di Sylvère, – scrisse Kraus, – erano perlopiú giovani maschi bianchi attratti dagli elementi piú “trasgressivi” del modernismo, le scienze eroiche del sacrificio umano e della tortura legittimate da Georges Bataille. Attaccavano con il nastro adesivo sui loro taccuini la fotocopia della celebre foto della “Tortura dei cento pezzi” tratta da Le lacrime di Eros di Bataille – un regicida ritratto su lastra in gelatina da antropologi francesi nella Cina del 1902. I Boy di Bataille vedevano la beatitudine nell’espressione agonizzante della vittima mentre il carnefice gli segava l’ultimo lembo restante».

Ricordo Le lacrime di Eros, e ricordo la foto, perché la trovai scioccante, mentre Malcolm insisteva a ragionare sul suo significato superiore. Naturalmente all’epoca non avevo idea che il mio ragazzo fosse una creatura multipla, di cui questo era solo il primo campione. Mi resi conto però che i libri erano fonte di confusione nella nostra liaison. Senza libri, Malcolm e io non avremmo mai avuto una storia. Non mi è mai capitato nella vita di versare lacrime di eros per un ragazzo stupido o incolto. Ma la nostra storia si ruppe in parte anche perché ciascuno di noi era stato creato in maniera diversa e, come il caro, illuso cavaliere e la povera, malaccorta Emma Bovary, eravamo entrambi ebbri di idee, e in questo stava la battaglia dei libri. (E tu non pensare neanche per un attimo che mi ritenga piú bovariana che donchisciottesca, perché se mai è vero il contrario). Bisogna capire, insomma, che Malcolm non aveva alcuna intenzione di segare gli arti a chicchessia. Gli piaceva immaginare di essere un tipo pericoloso senza esserlo davvero, perché lui si guardava soprattutto da fuori, e da quella prospettiva distante aveva deciso che un pizzico di rivolta puramente intellettuale fosse un’aggiunta attraente al suo personaggio. Io ambivo a essere una persona di sani principî, pura, e straordinariamente buona, perché vivevo la mia vita prevalentemente nell’interiorità, e da quel punto di vista interno mi atterrivano la rabbia, l’ostilità e gli impulsi violenti che a volte mi si agitavano dentro.

E cosí, mentre mi avvicino al termine della storia di quella mia antica cotta per Malcolm Silver, voglio raccontare un sogno che non feci io ma lui. Me lo raccontò verso la fine della nostra relazione. Dopo esserci svegliati insieme nel suo letto e aver fatto colazione al suo tavolinetto, mi disse che quella notte aveva sognato che, mentre ero a casa sua, ammazzavo qualcuno e lo facevo a pezzi. Mi spiegò che nel sogno lui cercava disperatamente di proteggermi, nascondendo alla polizia i brandelli del cadavere. Malcolm mi raccontò questo sogno molto tempo fa, e può darsi che abbia dimenticato molti dettagli, ma ricordo distintamente che mi disse di aver trovato la testa della mia vittima nel suo cestino della carta straccia.

È vero che l’appartamento di Malcolm era molto piú carino del mio, e lui possedeva piú mobili di me, ma se, finché durarono i nostri incontri, dormii da lui nella zona meridionale della città molto piú spesso di quanto lui dormisse da me nella zona settentrionale, fu perché non gli piacevano gli sproloqui di Lucy. La prima volta che la sentí era di sera ed eravamo nudi e abbracciati nel mio letto. Mi scostò, si mise a sedere, si guardò attorno, e rantolò: – E questo che diavolo è?

Lucy lo metteva in allarme. Aborriva soprattutto il fatto che avesse due voci: quella acuta e quella grave. – Perché non le bussi alla parete? Perché non le urli di tapparsi la bocca? Perché non reclami? – Era difficile per me rispondere a quelle domande. Una volta avevo accennato con Mr Rosales al fatto che Lucy fischiava e parlava di notte, ma non mi era mai venuto in mente di agire in qualche modo contro la mia vicina. Avevo fatto spazio alla sua voce perché mi ci ero abituata. Tale accomodamento richiedeva per forza una certa elasticità dell’anima, e comportava la sensazione che le chiacchiere di Lucy, i suoi dialoghi interiori ad alta voce appartenessero anche a me in quanto sua ascoltatrice. Mi stai ascoltando? Era come se avessi già risposto: Sí, Lucy, ti sto ascoltando. Forse avrei dovuto capire che, benché bramassi la bocca di Malcolm, le sue mani, le gambe, le braccia, il pisello, e mi piacessero le nostre lunghe conversazioni su vari argomenti, lui non possedeva i requisiti del vero amico fidato, ed era ben piú schizzinoso di me nel cosiddetto mondo reale, il che escludeva la possibilità di raccontargli i brani della storia di Lucy che invece avevo riferito a Whitney, la prima sera che ci eravamo incontrate, e men che meno di metterlo al corrente dell’ascolto amplificato che conducevo addossata alla parete e delle parole pronunciate da Lucy e da me appuntate sul taccuino o del fantasma della piccola Lindy caduta dalla finestra che non mi lasciava mai, ma aleggiava sull’ineffabile confine fra conscio e inconscio: uno spettro che mi terrorizzava e di cui al tempo stesso avevo bisogno. Non è facile per un fantasma essere articolato. I fantasmi non hanno le ossa.

Dilemmi. Paradossi. Trame sconcertanti. Porte che si aprono e si chiudono e a volte sbattono quando il vento scuote la casa. Rumore di passi. Una donna fischia, cosí come un’altra donna canta. Un uomo fischia mentre guida. Si fa notte presto d’inverno. Dopo aver letto e cantato le ninnenanne, mia madre mi bacia, e inspiro il suo odore. L’odore della divinità, dell’estasi e della grazia è un miscuglio di sapone e di cipria e del calore della pelle della madre, e poi mia madre attraversa la camera per andare a baciare Kari, e lascia la lampada accesa in corridoio e accosta la porta fino a trovare il giusto spiraglio… Un po’ di piú, un altro pochino. Cosí va bene? Sí, adesso va bene.

Nel muro accanto al mio letto si apre una lunga crepa frammentata che di colpo diventa un foro spalancato. Sto gridando. Questo terrore è un coltello. La casa sta crollando. Cerco di sostenere il muro. Mi ci addosso. Mi schiaccio con tutto il corpo contro il muro. Mia madre arriva correndo e mi fa allontanare dalla parete. Adesso c’è Kari che grida. Mia madre mi abbraccia e mi culla con forza, e mi accarezza vigorosamente la faccia, e mi parla con la voce dolce che usa con i suoi cari. Noi siamo i suoi cari. E poi si precipita da Kari e la culla, e nel giro di pochi minuti non c’è piú nessuno che urla.

Ricordo con straordinaria nitidezza quel sogno o terrore notturno o allucinazione che dir si voglia. Avevo cinque anni. Quasi vent’anni dopo la bambina che cercava disperatamente di reggere il muro è un’adulta. Ha lasciato i suoi genitori per provare a cavarsela da sola nella grande città, ed è convinta che quell’anno che si è regalata, l’anno accademico 1978-79, sarà cruciale per il suo destino. Immagina di stare scrivendo il suo futuro. Ama quella scena, nei vecchi film, quando dal niente si leva un vento che strappa uno dopo l’altro i fogli del calendario appeso alla parete: settembre, ottobre, novembre, dicembre. Di solito i foglietti svolazzano accompagnati dalla musica. Il tempo passa. E mentre lei, la ragazza della storia che sto scrivendo, si avvicina al suo ventiquattresimo compleanno, io, la sua autrice, ho superato il mio sessantaduesimo. È terribile qui nel presente, nel febbraio 2017. La casa sta cadendo a pezzi. Il segreto del grand’uomo non sta in ciò che dice. Non potrebbe capitare qui, dicono, non può capitare qui.

A metà gennaio 1979 ero di nuovo nel mio appartamento newyorkese dove dormivo in compagnia dell’assente Malcolm Silver e della poltrona blu con lo strano odore che avevamo trovato insieme per strada. Come ben sa chiunque abbia mai pianto per un amore o per un lutto, la persona assente in genere è piú vasta di quella presente, e il dolore per la scomparsa di Malcolm Silver dalla mia vita era complicato dalla vergogna che provavo per me stessa, la Ragazza Piangente, quella che se ne era andata e poi era ritornata e si era scusata per niente, si era scusata perché voleva a tutti i costi Ragazzo, anche se lei detestava Ragazza Devastata che aveva pronunciato fra i singhiozzi le parole: «Ma io ti amo! Ti amo!» e che in linea di massima si comportava male. Male, quanto? Gli telefonò forse dopo che lui aveva detto che non voleva piú parlare con lei? Non me lo ricordo, e non lo scrissi sul taccuino. Ma se anche mi concentro e rivolgo la mia seconda vista verso l’interno, non quella degli occhi rivolti al mondo che è oltre la mia epidermide, bensí quella che ha la capacità di evocare il passato in forma di immagini fluttuanti, non riesco a richiamare in vita neanche un’immagine, ma solo una sensazione. Ciò che ricordo in modo del tutto aspecifico è che lei, il mio io di una volta, si sentiva pressata da un folletto malvagio, un esserino minuscolo che le scorrazzava sul petto e le dava il prurito, e quando le veniva il prurito, lei doveva grattarsi fino quasi a levarsi la pelle.

Il 18 gennaio scrissi sul taccuino: «Ieri sera, Broadway sulla West Broadway». E al contrario della catena di ricordi legati a Malcolm Silver, quelle parole sulle Broadway danno luogo a una fioritura di immagini. Vedo Whitney che mi abbraccia e con l’indice mi dà un buffetto scherzoso sotto il mento per strapparmi al mio umore ostinatamente tetro. Whitney mi schernisce: – Ti piace essere triste! Ti piace! Ti piace! Povera Minnesota. Oh, oh! Lasciamola alla sua infelicità, che se la goda! – E la vedo davanti a me mentre tira fuori uno strampalato tono nasale e con voce tonante improvvisa una canzone intitolata: Il mare è pieno di pesci (un omaggio alla zia Irma, Gran Duchessa dei Clichés), e vedo le palme delle sue mani e le dita allargate che ondeggiano avanti e indietro a meno di trenta centimetri dalla mia faccia, e intanto tiene il ritmo col piede inventando una versione assurda di un genere già assurdo di suo, il musical di Broadway, ed è impossibile non mettersi a ridere. Mi dissi che dovevo ricordarmi di lei, dovevo ricordarmi della cara «Tilty» che canta e balla, e può darsi che sia per questo che me lo ricordo. Whit aveva appena chiuso una storia con un forbito studente di medicina nigeriano che aveva frequentato per tre mesi. La relazione era avvizzita per ragioni «culturali», aveva detto Whitney. Se quel tipo l’aveva ferita in qualche modo, lei comunque non lo dava a vedere. La sua serenità mi metteva in imbarazzo, e ricordo che mi alzai di scatto dal bordo del letto e mi misi a cantare Il mare è pieno di pesci con la mia amica, e ricordo anche che a un certo punto, piú tardi, nel corso della stessa serata, ci ritrovammo fianco a fianco a guardare fuori dalla finestra della mansarda che dava sulla West Broadway, e Whitney disse: – È nostra, che aspettiamo a mangiarcela?

Fin dal giorno in cui mi ero stabilita al 309 della Centonovesima Strada Ovest, la mia vicina, Lucy Brite, aveva girato attorno al suo dolore come un cane gira in cerchio nell’erba prima di accucciarsi per un pisolino. Aveva battuto e ribattuto sempre sugli stessi tasti: La cucina. La finestra. Il cortile. Il cadavere di Lindy sull’asfalto. L’ospedale. I medici che lei odiava. Lucy inveiva contro Ted e poi si rispondeva inveendo contro se stessa come se lei fosse Ted, il quale nella sua versione diventava forse ancora piú aggressivo. Il personaggio che rispondeva al nome di Ted chiamava Lucy «verme» e «scrofa» e «patetica cagna» ma a mano a mano che fra «loro due» aumentavano le vituperazioni, diminuivano i «sontrist» di lei; poi, verso la fine di gennaio, in casa della sua vicina si verificò un cambiamento sorprendente. Lucy lasciava l’appartamento sempre piú spesso e a volte tornava solo a notte fonda. Inoltre parlava al telefono con Patty e un paio di altre persone i cui nomi, ammesso che avessi sentito bene, mi colpirono per la loro assurdità: Moth come falena e Gorse come ginestra. Per un paio di mesi nominò in continuazione un certo Sam Haynes. «Sono io, – diceva con voce sommessa, cospirativa. – Sono io, Lucy».

All’inizio di febbraio arrivò una forte bufera di neve che imbiancò le strade liberandole dal traffico delle auto. Mi ricordo che stavo davanti alla Citibank e guardavo i newyorkesi slittare per la Broadway con gli sci di fondo o avanzare a papera con le ciaspole ai piedi. Quel giorno, quando uscii dalla banca, ero consapevole che la mia situazione economica era disperata. Nei mesi in cui ero stata in balia della mia cotta avevo scialacquato a destra e a manca e prelevavo continuamente banconote da venti dollari senza mai badare al saldo. Si rendevano necessarie misure drastiche. E questo significava niente piú caffè e cornetti alla Pasticceria Ungherese e niente piú cene fuori con gli amici. Significava consumare fagioli e minestre in scatola e tutti i pacchi di pasta fino a svuotare la dispensa. Significava andare a rivendere dei libri da Salter’s. Significava andare su e giú per i locali della Broadway a caccia di piccoli würstel e bastoncini di formaggio durante l’happy hour. Significava una fifa blu al pensiero dell’affitto di marzo. Significava informarsi per un posto da cameriera. (Niente assunzioni). Significava controllare regolarmente la bacheca con le offerte di lavoro nella Dodge Hall alla Columbia e fare telefonate solo per scoprire che tutte le posizioni lavorative erano state già occupate. Arrivò il giorno in cui in banca avevo la cifra dell’affitto di marzo, ma nemmeno un soldo per mangiare nel frattempo. Ripensandoci adesso, so che fui stupida a non chiamare i miei genitori o a non raccontare a Whitney le difficoltà in cui mi trovavo. So anche che, a quel tempo, entrambe le opzioni mi sembravano impossibili. Sarei stata costretta ad ammettere di aver fallito.

15 febbraio 1979

Cara Pagina,

oggi ho fatto una passeggiata a Riverside Park perché ero agitata e nervosa tanto da non riuscire a scrivere. Povero il mio libro! Come faccio a scrivere una commedia in queste condizioni? Non posso permettermi nemmeno un piatto di spaghetti di riso dal cinese! Ieri sera sono ricorsa di nuovo all’happy hour, ma la donna dietro il bancone sta diventando sospettosa. Non ho osato mangiare piú di due piccolissimi pezzi di formaggio arancione sorseggiando lentissimamente la mia coca cola. In casa, come sai, non c’era niente per la prima colazione, niente per il pranzo. Non posso toccare i soldi dell’affitto. Fuori faceva freddo ma ho lasciato che il vento del fiume mi soffiasse addosso e la passeggiata ha avuto un effetto benefico. I miei pensieri sono approdati a Hamsun per ovvie ragioni (Fame) e poi a Dostoevskij, che tanta influenza ebbe sull’autore norvegese, e poi ho pensato a casa, non l’appartamento in cui vivo, ma casa-casa, e alla vista dei campi dalla finestra sul davanti, e alle cassette della posta lungo Old Dutch Road con le loro bandierine rosse alzate, e alle lettere allegre che spedivo con il Servizio di distribuzione rurale n. 1 e ho avuto una voglia tremenda di lasciar perdere, Cara Pagina, sí, lasciar perdere tutto e mettermi a letto e piangere per un mese. Non ho piú sparso una lacrima, e tu lo sai. I due giorni di pianto ininterrotto dopo la storia con M.S. mi hanno prosciugata completamente. Sono stata dura come il granito, una vera stoica. Whitney passa le vacanze invernali con i suoi; meglio cosí, in questo modo non c’è bisogno di spiegazioni. Lei è in una qualche isola dei Caraibi. Sarà stupenda col sarong. Vabbè, comunque ieri sera ero lí che continuavo a camminare e a un certo punto l’ho visto in cima a un bidone della spazzatura: un sandwich al prosciutto e formaggio con una foglia di lattuga e un’intera fetta di pomodoro e la maionese che colava dai bordi. Il bidone era colmo e il sandwich era posato ordinatamente su un letto di carta cerata. L’ho esaminato. Nel pane c’era il segno dei morsi, sí, ma in buona parte appariva intonso. Mi sono guardata intorno. Una coppia mi ha superata e ho finto di cercare qualcosa nella borsetta. C’era una donna seduta su una panchina non lontana, ma aveva l’aria assorta.

Mi sono piegata sul panino e mi sono resa conto che dovevo recuperarlo evitando la cenere di un mozzicone di sigaretta che si era già distribuita sulla carta cerata. Quello che avevo immaginato come un gesto facile e lesto si rivelava un lavoro piú impegnativo. Piegata sul bidone, ho spazzolato via con cautela la cenere dalla carta opaca che ho usato per avvolgere il sandwich. Ero eccitata, cara Pagina. Lo stavo già assaporando mentalmente ma ho sollevato lo sguardo e ho visto la donna che si era alzata dalla panchina e mi fissava con una smorfia di disgusto. Il mio sguardo ha incrociato il suo, e ho sentito che mi tremavano le labbra e che gli occhi mi si riempivano di lacrime di vergogna, e mi sono messa a correre. Ho corso col panino in mano per tutta la strada fino a casa, e appena mi sono chiusa la porta alle spalle, me lo sono cacciato in bocca, masticando energicamente, e l’ho mangiato tutto, ed era buonissimo, e mentre lo mangiavo ho pianto ininterrottamente in preda a una tremenda vergogna. Ecco la mia degradazione. S.H.

16 febbraio 1979

Ho fatto di nuovo il giro dei bar e dei ristoranti. Fin qui, niente lavoro. Non mi sento granché in forze. Anzi mi sento debole, questa è la parola giusta. Ho mal di testa. Mi ha telefonato Kari. È entusiasta del suo ultimo anno all’università. Adora il corso di genetica. Sembrano passati dei secoli da quando ero io all’ultimo anno, un altro mondo. Ho mentito con Kari. Ha chiamato Gus. Ho mentito anche con lui. Sono una bugiarda patentata. Certe cose vanno tenute nascoste.

Ecco su questo tema Simone Weil: «Una sventura troppo grande mette un essere umano al di sotto della pietà: disgusto, orrore e disprezzo.

La pietà scende fino a un certo livello e non al di sotto. Come fa la carità a scendere anche al di sotto?

Quelli che sono caduti tanto in basso hanno forse pietà di se stessi?»

Io ho pietà di me? Sono seduta qui a chiedermi questo.

Oggi ho bevuto tanta di quell’acqua che quando cammino sento che mi sciaborda nello stomaco.

17 febbraio 1979

Oggi fuori del palazzo c’era il giovane pallido, e quando me ne sono accorta mi sono resa conto che era scomparso da settimane, e nel rivederlo ho avuto l’impressione di guardarmi in uno specchio, e ho capito di essere cambiata. Gli ho sorriso e lui mi ha sorriso di rimando: un piccolo sorriso triste con un solo lato della bocca. L’ho superato proseguendo per la mia strada, si stava facendo buio. Io, vedi, ero uscita a caccia armata di torcia elettrica.

Ho dovuto frugare un bel po’ per scovare il mio pasto, ma mentre procedevo di bidone in bidone, e gettavo un fascio di luce su rimasugli vari e liquidi sgocciolanti e pungolavo con la torcia lattine e giornali e mozziconi e bottiglie in cerca di generi commestibili nascosti, ho capito di cosa c’è bisogno: di un’altra storia. S’intitola L’introspettiva detective. L’eroina di questa nuova storia indaga sui problemi filosofici della vita reale. Lei, l’Introspettiva Detective, altrimenti nota come ID – non è un nome meravigliosamente freudiano e appropriato? – è spinta dalla pancia vuota a condurre degli esperimenti attorno a quella soglia che Simone Weil descrisse con la sua incisiva franchezza: il punto in cui la pietà finisce e comincia la carità. Le avventure di ID vanno ben oltre il mero esercizio del pensiero. In questa ragazza non c’è compiacimento, oziosa riflessione in poltrona, piroette mentali in cui non si rischia l’osso del collo; lei la domanda la vive. LEI È DIVENTATA LA DOMANDA IN SÉ. Trovo ID piú che un conforto. ID mi ha riempita di GIOIA.

E, mia cara Pagina, alla fine ho avuto successo: tre belle fette di pizza, intonse, in una scatola dentro un bidone del parco! Nessuno mi ha vista mentre scrutavo sotto il coperchio di cartone e individuavo il bottino. Nessuno mi ha vista quando ho richiuso la scatola, stringendo il mio tesoro al petto. E, mentre a passi vivaci camminavo su per Riverside Drive e imboccavo la Centonovesima Strada, certamente sono stata vista da un’infinità di persone, ma cosa credi che pensassero? Tutti avranno immaginato che avevo ordinato la mia pizza al formaggio in pizzeria, che l’avevo pagata, e che adesso, giovane donna libera e spensierata, coi biglietti da dieci e da venti dollari nel portafoglio, me ne tornavo a casa per banchettare con un bel trancio bollente di pizza al pomodoro coperta da uno spesso strato di formaggio fuso. Ero al settimo cielo e, rientrata a casa, ho scaldato nel forno una di quelle tre fette linde e impeccabili e me la sono mangiata, ed era deliziosa.

Dopo un’ora ho mangiato la seconda fetta.

Oggi, prima di saziarmi di pizza, ho controllato il cavedio per essere sicura che nessun CADAVERE giacesse là sotto. È un po’ che non lo facevo. È un comportamento ossessivo. È Lucy che mi fa venire l’ansia. Credo stia preparando la VENDETTA. Non ho idea di cosa abbia in mente in realtà e di come intenda portare a termine il suo piano, ma di sicuro sono implicate anche altre persone. Patty è una di loro. L’Introspettiva Detective sta lavorando al caso. Buffo, no? Ian e Isadora sono lí che dormono sulla mia scrivania. Non posso scrivere di loro. I miei adolescenti a Verbum non sono all’altezza del compito, ora come ora. Vorrei seguirli, invece seguo Lucy. Le cose cambieranno quando avrò un lavoro e dei soldi. Allora sveglierò i due ragazzi e li rimetterò in moto di nuovo, ma adesso ho i nervi tesi e il respiro accelerato. Mohammed mi ha detto di ripassare domani. Forse cercano qualcuno. Ho fatto anche delle telefonate per tre diverse offerte di lavoro nel campo delle ricerche di mercato. Due posti erano stati già occupati. Ho chiamato per il terzo, ma nessuno mi ha risposto. Riproverò domani. Qualcosa salterà fuori. Adesso sono le dieci e mezza di sera e Lucy tace. Niente sproloqui, niente tv. Forse già dorme, ma stasera ha parlato al telefono. Ha bisbigliato un sacco, per giunta non so cosa dicono dall’altro capo del filo, per cui la trascrizione è piena di buchi, comunque eccola qua, cara Pagina. Non sai quanto vorrei che tu potessi dirmi cosa ne pensi:

– Patty, sono ancora io. Come stai? [Silenzio]. Lo so. È arrivato… apparizioni di spettri. Quando ho finito, te lo farò sapere. [Silenzio]. Il giardiniere storpio è quello da seguire, sí, capisco che… [incomprensibile]. Vecchia origine, Sam Haynes, esatto. Sai, lo voglio punire… [Tace a lungo e ascolta]. Vivo per questo. Perché credi che ne ho parlato con te? [Bisbiglia]. Allora a cosa servono gli scambi?… No, no, senti me. E se lui è colpevole? Non posso vivere senza sapere. Non posso vivere. [Tace]. Dobbiamo farla tornare indietro per farcelo dire. Dobbiamo richiamarla. [Tace, ascolta]. Ho delle foto, dei documenti. Bambole. Tu ce l’hai le bambole? [Tace, respira]. Mmmmmm. Lei ha attraversato il ponte. Te lo dico io. Ha attraversato il ponte. [Fa una pausa]. Tutto qui. [Pausa]. Sí, lo prometto. È una cosa utile. [Tace e ascolta, emette dei mormorii musicali]. Puoi levarmi la paura? [Sussurra]. Sí, questo potrebbe aiutarmi. Il bambino magico, sí, sí, domani alle tre… [bisbigli incomprensibili]… ehi, matta Lena, matta Lena, matta Lena… [ride]… Ciao, sí, sí, me lo ricordo. Olio di lavanda in acqua distillata, timo, due cucchiai e mezzo di vodka. Ok. Sí –. Poi ha attaccato il telefono e si è messa a fischiare, non una cosa triste ma un motivetto allegro, e ha composto un altro numero. – Pronto? Sono io. Per domani sono pronta. Sí, ho fatto le prove. La tentazione può. [?] È qui nel libro [bisbigliando]. No, non è vero. [Silenzio]. Allora a domani, sorella, cara.

Ho una mezza idea di pedinare Lucy, domani, quando va all’appuntamento delle tre. Ho ancora quattro biglietti della metropolitana.

P.S. Ho mangiato la terza fetta. Non potevo lasciarla nel frigo a torturarmi. Mi aiuterà a dormire. Buona notte, Pagina. Ti voglio bene. Minnesota.

No, non ho mai dimenticato di essere andata in cerca della mia cena frugando nell’immondizia e, sí, è ancora terribile ricordare la faccia della donna al parco perché il suo disgusto era anche il mio, e il bruciore della vergogna attraversa senza ostacoli il tempo. E, sí, adesso ho pena per quella ragazza, e vado oltre la pietà, arrivo alla carità, perché era giovane e sotto quel suo tono brillante e volubile, sotto tutte quelle lettere maiuscole, posso individuare il piagnucolio dell’incipiente isteria indotta dalla fame, dall’isolamento voluto, e da uno stupido orgoglio. Quelle condizioni estreme non ebbero lunga durata, e mi sembra evidente che neanche lei credesse che sarebbero durate a lungo. Il colore della pelle e la classe sociale la rendevano immune da tale pessimismo. Proprio il giorno dopo chiamò il numero di telefono che aveva preso dalla bacheca alla Columbia, le rispose una donna, e fissarono per quello stesso pomeriggio un appuntamento per un colloquio, e quando aveva lasciato il meraviglioso appartamento duplex sulla Quinta Strada con la vista su Central Park e la scultura blu cobalto di Yves Klein raffigurante una donna senza testa, senza braccia, senza gambe – solo le parti sessuali – su un piedistallo in un angolo della stanza in cui lei era stata appollaiata su un basso, imponente divano bianco a sorseggiare tè aromatizzato, ingurgitando parecchi biscotti granulosi (cinque mentre la donna con cui stava svolgendo il colloquio era sparita per rispondere al telefono), aveva un nuovo capo: Mrs Elena Bergthaler.

Capitolo sesto