A RIPOSO
Estratto da "Racconti"
Bernard Malamud
Einaudi
Ultimamente si era messo a studiare la vecchia grammatica greca di cinquant’anni prima. Leggeva il Bulfinch e voleva rileggersi l’Odissea in greco. La sua vita era cambiata. Di questi tempi dormiva meno e la mattina si alzava a fissare il cielo sopra Gramercy Park. Guardava le nuvole finché assumevano delle forme sulle quali poteva riflettere. Gli piacevano i vascelli strani, abitati da fantasmi e gli piaceva osservare uccelli e animali mitologici. Aveva notato che se contemplava queste forme nelle nuvole, se riusciva a tenervi concentrata la mente per un po’, avrebbe potuto diminuire la sua depressione mattutina. Il dottor Morris aveva sessantasei anni, era medico, a riposo da due anni. Aveva chiuso lo studio a Queens e si era già trasferito a Manhattan. Era andato in pensione dopo un infarto, non gravissimo ma abbastanza grave. Era stato il suo primo infarto e sperava l’ultimo, sebbene alla fin fine sperasse di andarsene in fretta. Sua moglie era morta e la figlia viveva in Scozia. Le scriveva due volte al mese e riceveva sue notizie due volte al mese. E benché avesse qualche amico da andare a trovare, e si tenesse al corrente leggendo riviste mediche, e gli piacessero i musei e il teatro, per lo piú lottava contro la solitudine. Il suo problema era il futuro; il futuro era tutto in mano alla vecchiaia.
Dopo una colazione leggera si vestiva ben caldo e usciva a fare un giretto intorno alla piazza. Quella era la parte facile della passeggiata. La faceva anche quando fuori era molto freddo, o se pioveva forte, quando erano scesi parecchi centimetri di neve e lui era costretto a camminare molto piano. Dopo la piazza attraversava la strada e camminava lungo Irving Place, un’alta figura con cappa e bastone, e ritirava il suo «Times». Se il tempo non era troppo brutto proseguiva per la Quattordicesima Strada, voltava in Park Avenue Sud, risaliva la Park Avenue e camminava lungo la Ventesima Strada Est, fino a ritrovarsi davanti all’edificio stretto e alto, di pietra bianca in cui viveva. Gli capitava di rado, ultimamente, di incamminarsi in un’altra direzione, benché durante il giro lungo si fermasse strada facendo almeno una volta, forse davanti a un negozio a metà isolato, forse a un incrocio, per chiedersi dove altro sarebbe potuto andare. Questa era la parte difficile della passeggiata. La difficoltà stava nel fatto che tanto non cambiava mai niente ovunque andasse. Adesso avrebbe voluto non essersi messo a riposo. Sentiva di piú gli anni che aveva da quando era a riposo, sebbene sessantasei non fossero ottanta. In ogni modo significava essere vecchi. E lui viveva dei momenti di angoscia.
Una mattina, dopo la lunga passeggiata rettangolare sotto la pioggia, il dottor Morris trovò una lettera sul tappetino di gomma sotto la fila di cassette della posta nell’atrio. Era un atrio stretto e profondo con delle colonne in falso marmo verde e diverse sedie voluminose in cui non si sedeva quasi mai nessuno. Il dottor Morris aveva visto una giovane donna coi capelli lunghi, con un impermeabile bianco e una borsa a tracolla rosso scuro, e con in mano un ombrello di plastica trasparente, scendere in fretta i gradini del vestibolo e uscire dal palazzo mentre lui stava per entrarvi. Difatti le tenne aperta la porta per farla passare e aspirò una folata del suo profumo ardito. Non ricordava di averla mai vista prima e provò un momentaneo senso di confusione riguardo a chi potesse essere. In seguito se l’immaginò che tirava fuori la lettera dalla cassetta, la leggeva in fretta, poi la ficcava nella borsetta di tessuto rosso scuro che portava a tracolla; ma aveva ficcato dentro la busta e non la lettera.
Quella era caduta per terra. Questo se l’immaginò chinandosi a raccoglierla. Era un foglio piegato di pesante carta da scrivere bianca, scritto in nero con mano maschile. Il dottore lo spiegò e gli diede un’occhiata senza poter decifrare né la formula iniziale né qualsiasi parte del contenuto. Avrebbe dovuto mettersi gli occhiali e pensò che Flaherty, il portiere e l’addetto all’ascensore, avrebbe potuto vederlo se l’ascensore fosse improvvisamente sceso. Naturalmente Flaherty avrebbe potuto credere che il dottore stesse leggendo la propria posta, tranne che non si era mai dato il caso che la leggesse nell’atrio. Non voleva che quell’uomo pensasse che stava leggendo la lettera di qualcun altro. Pensò anche di consegnargli la lettera e di descrivergli la giovane donna cui era caduta. Forse poteva restituirgliela lui stesso? Ma per qualche motivo che non gli fu subito chiaro il dottore se l’infilò in tasca per portarla di sopra e leggerla. Il braccio si mise a tremargli e si sentí palpitare il cuore a una velocità preoccupante. Dopo che il dottore ebbe prelevato la propria posta dalla cassetta – nient’altro che le poche circolari che aveva in mano – Flaherty lo portò su al quindicesimo piano. Flaherty dava il cambio a quello del turno di notte alle otto, e alle sedici veniva poi sostituito. Era un uomo snello di sessant’anni con dei radi capelli bianchi sulla testa quasi calva, che aveva perduto metà della mascella sotto l’orecchio sinistro dopo due operazioni all’osso. Stava via qualche mese; poi tornava, con la parte inferiore del lato sinistro del viso incavata; comunque non era un viso spiacevole a vedersi. Anche se il portiere non parlava mai della sua malattia, il dottore sapeva che continuava ad avere un cancro alla mascella; ma naturalmente se lo teneva per sé; anche se si accorgeva quando l’uomo cercava di nascondere il dolore.
Quella mattina, sebbene fosse preoccupato chiese: – Come va, signor Flaherty?
– Si tira avanti. È una giornata niente male –. Disse ciò, pensando non alla pioggia ma alla lettera che aveva in tasca.
– Una gran bella giornata, – rispose pronto Flaherty. Per lo piú si muoveva e parlava con animazione ed era attento a ben allineare l’ascensore con il pavimento prima di far uscire i passeggeri. A volte il dottore avrebbe voluto dirgli qualcosa in piú di quello che non facesse; ma non stamattina.
Rimase in piedi davanti alla grande finestra doppia del suo salotto che dava sulla piazza, nella smorta luce di una piovosa giornata di febbraio, leggendo con un piacevole senso di eccitazione la lettera che aveva trovato, il genere di lettera che si era aspettato. Era scritta da un padre alla figlia, indirizzata a «Cara Evelyn». Dopo un inizio indeciso ciò che essa esprimeva era l’insoddisfazione del padre per il modo di vivere della figlia. E finiva con un paragrafo esortativo di consigli: «È ora che tu smetta di andare a letto a destra e sinistra. Non capisco cosa ci trovi ormai in quel genere di vita. Credo che abbia provato tutto quello che c’era da provare. Affermi di essere una persona seria ma lasci che gli uomini ti usino per quello che possono ottenere. Per te non c’è nessuna vera ricompensa se non molto temporanea, e per loro la ricompensa reale è di essersi fatti una facile scopata. Io lo so cosa ne pensano e come ne parlano nei gabinetti il giorno dopo. Adesso voglio esortarti una volta per tutte a capire che dovresti essere piú seria nel tuo modo di vivere. Di esperienza ne hai fatta abbastanza. Ti consiglio sinceramente e in fretta di cercarti un uomo con delle abitudini regolari e un buon carattere, che ti sposi e ti tratti come la persona che ritengo tu voglia essere. Non voglio piú pensare a te come a una mezza prostituta alla deriva. Ti prego di seguire questi consigli, ventinove anni non sono piú sedici». La lettera era firmata «Tuo padre»; e sotto la firma, era stata apposta un’altra frase, in una piccola scrittura ordinata «La tua vita sessuale mi riempie di paura. Mamma».
Il dottore ripose la lettera in un cassetto. L’eccitazione lo aveva abbandonato e si vergognava di averla letta. Capiva il padre e allo stesso tempo capiva la giovane donna, sebbene quest’ultima forse in minor misura. Dopo un po’ cercò di studiare la sua grammatica greca ma non riuscí a concentrarsi. La lettera gli rimase impressa nella mente come un tabellone pubblicitario mentre leggeva il «Times» e ci ripensò per tutto il giorno, come se avesse risvegliato in lui qualche forma di attesa che non riusciva a definire. Nella mente gli si ripetevano intere frasi. Sognava ad occhi aperti la giovane donna come se l’era immaginata dopo aver letto ciò che il padre aveva scritto, e come la donna – era lei Evelyn? – che aveva visto uscire dalla casa. Non poteva essere certo che la lettera fosse di lei. Forse non lo era; eppure pensava alla lettera come appartenente a lei, la donna per cui aveva tenuto aperta la porta, il cui profumo indugiava ancora nei suoi sensi.
Quella notte il pensiero di lei gli impedí di addormentarsi. «Sono troppo vecchio per queste sciocchezze». Si alzò per leggere e riuscí a concentrarsi, ma quando pose di nuovo la testa sul cuscino, un lungo treno merci carico di pensieri di lei gli passò davanti rumorosamente trainato da una locomotiva nera. Si raffigurò Evelyn, la mezza prostituta alla deriva, a letto con diversi amanti, presa in vari atti sessuali. Una volta era distesa da sola, eroticamente svestita nel letto con la borsetta di tessuto rosso scuro stretta sul corpo nudo. La pensò anche come una ragazza normale con molti meno amanti di quanto non sembrasse pensare suo padre. Probabilmente questo si avvicinava di piú alla verità. Si domandò se avrebbe potuto esserle utile in qualche modo. Poi provò una sensazione di paura che non era in grado di spiegarsi, ma riuscí a dissolverla ripromettendosi di bruciare la lettera l’indomani mattina. Il treno merci, con i suoi numerosi vagoni, disparve nella nebbia lontana. Quando il dottore si svegliò alle dieci di una soleggiata mattina invernale, non c’era nessuna sensazione, né lieve né pesante, della sua solita depressione.
Ma non bruciò la lettera. La rilesse piú volte durante la giornata, riponendola ogni volta nel cassetto della sua scrivania e chiudendovela a chiave. Poi riapriva il cassetto per rileggerla. Man mano che passava la giornata si accorse di una brama insistente e insoddisfatta dentro di sé. Gli vennero in mente dei ricordi, provò un intenso struggimento e dei desideri che non provava da anni. Il dottore era preoccupato, allarmato da questo suo cambiamento, da questi turbamenti. Cercò di cancellarsi dalla mente la lettera, ma non ci riuscí. Eppure ancora non si decideva a bruciarla, come se facendolo avrebbe chiuso una porta aperta su determinate possibilità nella sua vita, altre strade da percorrere, per quel che ciò potesse significare. Era stupito – addirittura gli pareva un affronto –, che questo gli capitasse alla sua età. L’aveva visto succedere ad altri, nei suoi pazienti d’un tempo, ma non se lo aspettava in se stesso.
La brama che provava, brama di piacere, di abitudini buttate all’aria, di sensazioni rinnovate, nonché la paura che gliene veniva, continuavano a crescergli dentro come un albero morto che ritornato in vita estendeva i suoi rami. Si sentiva come affamato di esperienze esotiche che, se le avesse avute, avrebbero potuto renderlo per sempre famelico. Non voleva che questo gli succedesse. Richiamò alla mente delle figure mitologiche: Sisifo, Mida, che per un motivo o per un altro erano stati in eterno condannati. Pensò a Titone, che, perduta la sua giovinezza, era diventato un grillo in eterno. Il dottore sentí di essere in preda a un’emozione che lo travolgeva, un oscuro vento tenebroso.
Quando Flaherty alle quattro se ne andò e fu di turno Silvio, che aveva dei crespi riccioli neri, il dottor Morris scese di sotto e si sedette nell’atrio, fingendo di leggere il giornale. Appena l’ascensore salí egli si avvicinò alle cassette delle lettere e scorse con uno sguardo rapido i cartellini dei nomi alla ricerca di una Evelyn, chiunque essa fosse. Non trovò nessuna Evelyn anche se c’erano un E. Gordon e un E. Cummings. Ritenne che uno dei due poteva essere lei. Sapeva che spesso le donne sole preferiscono non rivelare il loro nome di battesimo per tener lontani possibili maniaci, non esporsi ad eventuali seccatori. Chiese disinvoltamente a Silvio se la signorina Gordon o la signorina Cummings si chiamassero Evelyn, ma Silvio disse che non lo sapeva ma che probabilmente il signor Flaherty l’avrebbe saputo perché era lui a distribuire la posta. «Troppa gente in questa casa», Silvio scrollò le spalle. Imbarazzato, il dottore osservò che era solo curiosità, un’osservazione un po’ debole ma non gli veniva nient’altro. Uscí a fare una piccola passeggiata a vuoto e al ritorno non disse altro a Silvio. Salirono nell’ascensore in silenzio, il dottore ritto in piedi, quasi rigido. Quella notte dormí di nuovo male. Quando cadde in un sonno profondo, per un momento i suoi sogni furono di natura erotica. Si svegliò provando un desiderio frammisto a disgusto e rimase tranquillamente disteso compiangendosi. Si sentiva incapace di essere diverso da quello che era.
Si alzò che non erano ancora le cinque e per quanto tentasse di far passare il tempo si trovò inutilmente nell’atrio prima delle sette. Sentiva che doveva scoprire, stabilire chi essa fosse. Nell’atrio Richard, il guardiano di notte che lo aveva portato giú, ritornò al libretto pornografico che stava leggendo; la posta, il dottor Morris lo sapeva, non era ancora arrivata. E sapeva che non sarebbe arrivata fino a poco dopo le otto, ma era troppo impaziente per aspettare in casa. Cosí lasciò il caseggiato, comprò il «Times» in Irving Place, proseguí nella passeggiata, e poiché era una mattinata piacevole e non troppo fredda, si sedette su una panchina nei giardini in Union Square Park. Fissava il giornale ma non riusciva a leggerlo. Osservò alcuni passeri che beccavano l’erba secca. Era un vecchio, d’accordo; ma era vissuto abbastanza a lungo per sapere che spesso l’età non vuol dir molto nel rapporto uomo-donna. Era ancora vigoroso e i corpi sono corpi. Fu di ritorno nell’atrio alle otto e mezza, impresa di grande controllo. Flaherty aveva ricevuto il sacco della posta e stava mettendo in ordine alfabetico le lettere regolari su un lungo tavolo prima di distribuirle nelle cassette. Oggi non sembrava molto in forma. Si muoveva lentamente. Il suo viso sformato era grigio; la bocca fiacca, si sentiva il suo respiro; gli occhi racchiudevano il dolore.
Per ora niente per lei, – disse al dottore senza alzare lo sguardo.
– Stamattina aspetterò, – disse il dottor Morris. – Dovrei ricevere notizie da mia figlia.
– Per ora niente ma potrebbe avere fortuna con quest’ultimo pacco –. Tolse lo spago.
Mentre metteva in ordine l’ultimo pacco di lettere, suonò il campanello dell’ascensore e una chiamata costrinse Flaherty a salire.
Il dottore finse di essere assorto nel suo «Times». Quando sentí chiudersi la porta dell’ascensore rimase un momento seduto, poi andò al tavolo e sfogliò in fretta la pila di lettere con l’iniziale C. E. Cummings: era Ernest Cummings. Guardò alla rinfusa attraverso le G, tenendo d’occhio la freccia metallica che indicava la discesa dell’ascensore. Nella pila delle G c’erano due lettere indirizzate a Evelyn Gordon. Una era di sua madre. L’altra, anch’essa scritta a mano, proveniva da un certo Lee Bradley. Quasi suo malgrado il dottore prese questa lettera e se l’infilò nella tasca del completo. Il suo corpo era in fiamme. «È di un’aberrazione», pensò. Era seduto sulla sedia che voltava la pagina del giornale quando la porta dell’ascensore si aprí.
Proprio niente per lei, – disse Flaherty dopo un momento.
– Grazie, – disse il dottor Morris. – Credo che adesso andrò su.
In casa il dottore, cosciente del proprio respiro sibilante, pose la lettera sul tavolo della cucina e si sedette a guardarla, aspettando che bollisse l’acqua per il tè. Il bollitore si mise a fischiare, ma lui restò seduto con la lettera ancora chiusa davanti a sé. Per un po’ rimase lí seduto intontito. Poi si mise a fantasticare su ciò che c’era nella lettera. Immaginò Lee Bradley che descriveva il piacere sessuale che aveva avuto con Evelyn Gordon, e le diceva cos’altro avrebbero potuto provare. Immaginò i loro gesti da amanti. Infine, pur ripetendosi forte di non farlo, aprí con il vapore la linguetta della busta. Le mani gli tremavano nel reggere la lettera. Fu costretto a spiegarla sul tavolo per poterla leggere. Il cuore gli batteva nell’anticipazione di ciò che avrebbe potuto leggere. Ma fu sorpreso perché la lettera era noiosa, un resoconto egoistico di un contratto d’affari che questo Bradley stava architettando. Soltanto le ultime frasi si fecero sorprendentemente vive. «Trovati a letto quando arrivo stasera. Trovati con soltanto le mutandine bianche addosso. Non mi piace perder tempo quando siamo insieme».
Il dottore non sapeva quale dei due lo disgustasse di piú, questo stupido o se stesso. A dire il vero, se stesso. Infilando il foglio di carta nella busta, la richiuse con un leggero strato di colla che aveva spalmato accuratamente sulla linguetta con la punta del dito. Piú tardi quel giorno s’infilò la lettera nel taschino interno della giacca e premette il bottone dell’ascensore per chiamare Silvio. Lasciò poi l’edificio e tornò entro breve con l’edizione pomeridiana del «Post», nella quale si finse assorto finché Silvio dovette accompagnare di sopra due donne appena entrate nell’atrio; allora, con un gesto rapido, infilò la lettera nella cassetta di Evelyn Gordon e uscí a prendere una boccata d’aria.
Era seduto vicino al tavolo nell’atrio quando la giovane a cui aveva tenuto aperta la porta entrò poco dopo le 18. Avvertí quasi subito il suo profumo fresco. Silvio non c’era in quel momento; era sceso nell’interrato a mangiarsi un panino. Lei inserí una piccola chiave nella cassetta di Evelyn Gordon e rimase davanti alla cassetta aperta, fumando, mentre leggeva la lettera di Bradley. Portava un completo pantalone celeste con un giaccone di maglia marrone. La coda di capelli neri era legata con un foulard di seta marrone. Il suo viso, per quanto un po’ pesante, era carino, gli occhi intensi erano azzurri, le palpebre leggermente ombrettate. Il suo corpo, pensò il dottore, era ben proporzionato. Lei non si era accorta di lui, che era quasi innamorato.
La osservò per molte mattine. Scendeva piú tardi adesso, alle nove, e passava un po’ di tempo ad esaminare le circolari mediche che aveva preso dalla sua cassetta, seduto su una sedia di legno simile a un trono vicino a un’alta lampada spenta in fondo all’atrio. Osservava la gente che andava a lavorare o a fare la spesa la mattina. Evelyn compariva verso le nove e mezza e rimaneva là fumando davanti alla sua cassetta, immersa nella posta della mattina. Con l’arrivo della primavera iniziò a portare delle gonne dai colori vivaci con delle camicette color pastello, oppure dei leggeri completi pantaloni slanciati. Qualche volta portava dei vestitini molto corti. Le forme del suo corpo erano incantevoli. Riceveva molte lettere e ne leggeva la maggior parte con evidente piacere, alcune con ciò che sembrava un senso di trattenuta eccitazione. Ad alcune dedicava poco piú di un attimo, le scorreva in fretta e se le ficcava nella borsa. Lui immaginò che fossero di suo padre, o della madre. Pensava che la maggior parte delle lettere provenissero dai suoi amanti, passati e presenti, e provò un curioso sentimento di angoscia che nella cassetta di lei non ce ne fosse nessuna scritta da lui. Le avrebbe scritto.
Studiò il progetto con cura. Alcune donne avevano bisogno di un uomo piú vecchio; stabilizzava la loro vita. Qualche volta addirittura una differenza di trenta o anche trentacinque anni non comportava nessuno svantaggio grave, dando per scontate le differenze di metabolismo, energia. Naturalmente ci sarebbe stato meno sesso, però ce ne sarebbe stato. Il suo sarebbe andato avanti per molto tempo; questo lo sapeva dall’esperienza di amici e di pazienti di un tempo, per non parlare della letteratura medica. Una donna piú giovane ispirava un uomo piú vecchio a rimanere virile. E malgrado l’attacco di cuore, la sua salute era buona, per molti aspetti migliore di prima. Una ragazza come Evelyn, plausibilmente in conflitto con se stessa, avrebbe tratto profitto da un rapporto stabilizzante con un uomo piú vecchio, qualcuno che l’avrebbe rispettata e amata e aiutata a rispettarsi e ad amarsi piú di quanto forse non facesse attualmente; che, per certi versi, avrebbe richiesto meno da lei di molti giovani subissati dal loro egoismo; che avrebbe risvegliato in lei un maggior senso di benessere e, se le cose fossero andate bene, forse perfino l’amore per un uomo in particolare.
«Sono un medico a riposo, un vedovo, – scrisse a Evelyn Gordon. – Le scrivo con qualche esitazione e cautela, sebbene inutile dirlo con alta stima, perché ho un’età tale da poter essere suo padre. L’ho osservata spesso in questa casa, e talvolta mentre ci incrociavamo per strada nei dintorni, e mi è nata una ammirazione profonda per lei. Mi chiedo se mi permetterebbe di fare la sua conoscenza. Mi chiedo se gradirebbe pranzare con me e magari andare al cinema o a teatro. Le mie intenzioni, come si usava dire quando ero giovane, sono “antiche e onorevoli”. Non credo che la mia compagnia la deluderà. Se sarà cosí propensa – cosí gentile, certo – da considerare con tolleranza questa richiesta, le sarei grato se vorrà collocare un biglietto nella mia cassetta. Con rispetto, dottor Simon Morris».
Non andò giú subito a imbucare la lettera. Pensò di tenerla fino all’ultimo momento. Poi fu assalito da un terrore che lo svegliò da un profondo sonno passeggero. Sognò che aveva scritto e chiuso la lettera e poi si ricordò di aver aggiunto un’altra frase: «Trovati con solo le mutandine bianche addosso».
Appena si svegliò gli venne voglia di strappare la busta per vedere se avesse accluso l’osservazione di Bradley. Ma quando fu del tutto sveglio, in possesso delle sue facoltà mentali, seppe di non averlo fatto. Si fece il bagno e la barba piú presto del solito e per un po’ osservò le conformazioni delle nuvole fuori dalla finestra. Nessuna l’interessò. Erano quasi le nove quando il dottor Morris scese nell’atrio. Avrebbe aspettato fino a quando Flaherty rispondeva a una chiamata, e appena si fosse allontanato, avrebbe fatto cadere la sua lettera nella cassetta di lei; ma quella mattina sembrava che Flaherty non avesse delle chiamate a cui rispondere. Il dottore aveva dimenticato che era sabato. Non se ne rese conto finché non ebbe il suo «Times» e si sedette con esso nell’atrio, fingendo di aspettare la distribuzione della posta. Il sacco postale arrivava tardi il sabato. Finalmente sentí un suono prolungato, e Flaherty, che si trovava in ginocchio a lucidare la maniglia di ottone della porta, si alzò su un piede, poi si sollevò su tutte e due le gambe e camminò lentamente verso l’ascensore. Il suo viso asimmetrico era grigio. Poco prima delle dieci il dottore fece scivolare la sua lettera nella cassetta di Evelyn Gordon. Decise che si sarebbe ritirato nel suo appartamento ma poi pensò che avrebbe preferito aspettare dove aspettava di solito mentre lei ritirava la sua proposta. Non si era mai accorta della sua presenza.
Il sacco della posta fu depositato nel vestibolo alle 10.10, e Flaherty divise il primo pacco in ordine alfabetico prima di dover rispondere a un’altra chiamata. Il dottore leggeva il suo giornale nella parte posteriore buia dell’atrio, perché tanto stava solo fingendo di leggerlo. Era in attesa dell’arrivo di Evelyn. Indossava un nuovo abito verde, una camicia a strisce azzurre e una cravatta rosa. Aveva in testa un cappello. Attese con trepidazione e amore.
Quando si aprí la porta dell’ascensore uscí Evelyn in un’elegante gonna nera con lo spacco, sandali, i capelli legati da un foulard rosso. Un uomo dai tratti marcati con delle basette rigonfie e i capelli di media lunghezza accuratamente pettinati, con un taglio fine secolo, uscí dall’ascensore al suo seguito. Era piú piccolo di lei di mezza testa. Flaherty le porse due lettere, che lei fece cadere nella borsetta di vernice nera che aveva in mano. Il dottore pensò, sperò che sarebbe passata davanti alle cassette senza fermarsi; ma lei vide il bianco della sua lettera attraverso la fessura e si fermò per ritirarla. Strappò la busta per aprirla, estrasse l’unico foglio di carta scritto a mano e lo lesse con concentrazione immediata e intensa. Il dottore sollevò il giornale fino agli occhi, sebbene potesse ancora guardare da sopra. Guardò spaventato.
Che pazzo sono stato a non prevedere che avrebbe potuto scendere con un uomo.Quando ebbe finito di leggere la lettera, la porse al suo compagno – forse Bradley – che la lesse, s’aprí in un sogghigno e disse qualcosa che il dottore non riuscí a sentire mentre gliela la restituiva .
Evelyn Gordon strappò con calma la lettera in tanti pezzettini, e voltandosi, li gettò nella direzione del dottore. I frammenti lo colsero come una folata di neve spinta dal vento. Pensò che sarebbe rimasto per sempre seduto sul suo trono di legno nella neve volteggiante.
Il vecchio dottore sedeva esanime sulla sua sedia, con il pavimento tutto intorno cosparso della sua lettera stracciata. Flaherty la spazzò con il suo scopino in un recipiente di metallo. Porse al dottore una busta sottile affrancata con francobolli esteri.
– Ecco qua una lettera da sua figlia arrivata adesso.
Il dottore, cercando di alzarsi in piedi senza muoversi, si premette l’attaccatura del naso. Si asciugò gli occhi con le dita.
– Non c’è niente da fare, la vecchiaia non si può accantonare, – disse dopo un po’.
– In un certo senso no, – disse Flaherty.
– O la morte.
– Ti viene incontro finché ti è addosso.
Il dottore cercò di dirgli qualcosa di gentile ma non gli riuscí.
Flaherty lo fece salire al quindicesimo piano nel suo ascensore.
1973