LA GATTA HA VISTO TUTTO
Dolores Hitchens
Un classico, «un giallo dell’età d’oro» (Joyce Carol Oates, nell’Introduzione). Miss Rachel Murdock, un’anziana signora, è l’investigatrice dilettante, coadiuvata dal burbero tenente Mayhew. Una mattina di tranquilla routine, riceve una chiamata dalla nipote Lily. Questa le chiede di venirle in aiuto nella città dove abita, senza dire il perché. La zia parte subito. Porta con sé la gatta Samantha, felino accudito con particolare cura perché ha ereditato la fortuna della bizzarra zia Agatha. A Miss Rachel la nipote non piace troppo, la classica mela caduta lontana dall’albero, priva dell’eleganza e dell’intelligenza di famiglia. Appena arrivata viene accolta dalla nipote con vaghezze e frasi futili, la pensione in cui vive si presenta molto misera e con una atmosfera vagamente sinistra, gli altri inquilini sembrano misteriosi, se non minacciosi. Così tutto precipita senza apparente motivo. Lily viene improvvisamente uccisa, nella stessa stanza in cui anche Rachel, avvelenata e priva di coscienza, rischia di morire, sotto gli occhi della gatta. Nella scena insanguinata entra il tenente Mayhew, quanto di più lontano si possa immaginare dalla quieta raffinatezza di Rachel. La coppia così assortita non potrebbe mai raggiungere l’obiettivo senza decifrare i messaggi della gatta Samantha. «C’era qualcosa di strano... di strano e di diverso nella gatta».
Dolores Hitchens, pioniera della domestic suspense, si rivela abilissima nel trascinare il lettore nella sua trama. Una serie di novità interessanti fa risaltare il suo modo di narrare: gli indizi, tipicamente disseminati ovunque, sono mimetizzati nella agile naturalezza degli avvenimenti; due voci (dei protagonisti) fuori campo commentano i fatti ex post. Infine il colpo di genio della gatta, enigmatica testimone, che rende indimenticabile questo romanzo, il primo di una serie di dodici libri.
Dolores Hitchens (San Antonio, Texas, 1907-Orange County, California, 1973) ha pubblicato tra il 1938 e la morte un gran numero di romanzi, quasi tutti gialli e sotto diversi pseudonimi. Spesso serie, come i dodici «misteri della gatta» (1939-1956). Da un suo romanzo Jean-Luc Godard ricavò il film Bande à part.
Introduzione
di
Joyce Carol Oates
La magia è misteriosa e il mystery è magico: siamo affascinati da ciò che non conosciamo (ancora), e molti di noi sono sotto l’incantesimo di una compulsione quasi viscerale a scoprire la verità, «risolvere» il mystery.
È un istinto naturale voler sapere. I problemi esistono per essere risolti, ma il mystery è sempre sfuggente. Anche se sappiamo chi ha commesso il delitto, abbiamo bisogno di sapere come, di sapere perché. E oltre a questo, aneliamo a conoscerne il significato. Nella magia, il mago geniale è colui che non solo sa come compiere la magia, ma sa come distogliere l’avida attenzione dei suoi spettatori dai meccanismi della magia, che sono (naturalmente) illusori: il mago è un «illusionista». Della magia si dice che esiste solo negli occhi rapiti dello spettatore; svelare il meccanismo che si cela dietro la magia, la riduce a niente di più che un trucco: disincanto.
I romanzi gialli e polizieschi dell’età d’oro (1920-1939) somigliano più alla magia che alla letteratura tradizionale, dove ciò che conta è lo scandaglio della personalità umana in un mondo riconoscibile come «reale», tanto quanto la cura del linguaggio come fine in sé. Nei classici romanzi gialli o polizieschi di Agatha Christie, John Dickson Carr ed Ellery Queen, tra gli altri, un banale gioco di prestigio eseguito con maestria cela ai lettori «indizi», sapientemente seminati nella prosa narrativa, che a una seconda e più attenta lettura si rivelano premonitori. Questo spiega tutto, pensiamo, stupiti. Come nella Lettera rubata di Edgar Allan Poe, gli indizi più brillanti, giacché è probabile che rimangano invisibili, sono proprio davanti ai nostri occhi.
Tutti i romanzi gialli e polizieschi iniziano con un crimine, di solito un omicidio, che fa precipitare tutto quel che segue. Per scrivere un’avventura investigativa di una certa lunghezza è necessario che l’autore, come un illusionista esperto, distolga l’immediata attenzione del lettore dagli indizi che svelerebbero il mistero troppo presto e la indirizzi verso e al contempo lontano dall’individuo che alla fine sarà smascherato come colpevole. In teoria i lettori dovrebbero rimanere sorpresi dallo smascheramento, pur riconoscendolo plausibile, anzi inevitabile. Se prima non saranno stati seminati indizi adeguati, il lettore si sentirà ingannato; se gli indizi saranno troppo ovvi, il lettore si sentirà ingannato. (La natura di questo genere letterario è simile a un gioco, come mette brillantemente in evidenza l’innovativa «sfida al lettore» di Ellery Queen, che interrompe la narrazione per dichiarare che, dato l’insieme degli indizi disponibili a un certo punto, il lettore attento dovrebbe essere in grado di risolvere il mistero da sé). Come la magia, i romanzi gialli e polizieschi sono varianti di formule, lette da appassionati che hanno familiarità con le convenzioni del genere, che possono anche creare dipendenza: poiché il Mistero non è mai risolto, ma si trasferisce dentro nuove circostanze, i misteri possono essere esplorati all’infinito.
Nella letteratura poliziesca di genere niente precede il crimine: non ci sono antefatti significativi, né condizioni sociali complesse. La scoperta di un cadavere mette in moto una serie di azioni, ognuna delle quali è collegata a quella precedente e a quella successiva secondo una relazione di causa-effetto; il giallo dell’età d’oro rifugge la casualità della vita. Per l’autore, simile a un burattinaio, il giallo composto in modo sapiente comincia dalla fine ed è immaginato a ritroso: ogni movimento in avanti – la «trama» – si dirige inesorabilmente verso quel finale, la «soluzione» del crimine o dei crimini. Lungo la via, sarà fornita un’ampia gamma di indizi, fondati e ingannevoli; e ci sarà un cast (colorito, si spera) di «sospetti» provvisti di «moventi». Il mystery ideale dell’età d’oro è un enigma della camera chiusa, in cui quel che conta è l’ingegno dimostrato dall’assassino (ignoto) e dall’investigatore che ne segue le tracce e alla fine gli dà un nome. A questo punto la narrazione si dissolve in quel tipo di finale caratteristico delle fiabe: niente oltre a questo nominare il «colpevole», nessuna conseguenza duratura degli assassinii, nessun trauma permanente per le vittime, nessuna preoccupazione che la giustizia penale sia esercitata in modo equo, o anche solo che sia esercitata. Come in La gatta ha visto tutto, l’investigatore ideale è un dilettante per il quale è fuori discussione servirsi dei mezzi della scientifica o delle risorse delle forze dell’ordine, un dilettante che deve fare affidamento sulle proprie capacità di ragionamento: «C’era l’enigma del crimine, che affascinava la sua mente matematica alla stessa maniera di un problema di algebra».
L’investigatore, come il lettore, è messo di fronte a una situazione che di solito prevede un’escalation di atti criminali; ma, a differenza del lettore, l’investigatore può costruire un percorso coerente attraverso il sottobosco. Alla fine del romanzo siamo abbagliati dalla rivelazione di una sola trama, cruciale e apparentemente inevitabile, che «risolve» il caso; in un esemplare ideale del genere, una seconda lettura mostrerà con quanta abilità l’autore abbia orchestrato le sue rivelazioni in mezzo a molte altre distrazioni.
La gatta ha visto tutto è un esempio originale di questo genere di lavoro, poiché vi troviamo insieme due «misteri»: il mistero di chi ha commesso un omicidio stranamente imbarazzante, quasi pasticciato, e il mistero di chi sta raccontando la storia da una prospettiva futura nella quale il caso (a quanto pare) è stato risolto, e uno o due o tre persone sono impegnate a narrarlo. Il primo è un mistero convenzionale che prevede degli omicidi a distanza ravvicinata, con un ristretto cast di personaggi/sospettati, come nei classici delitti della camera chiusa. Il secondo è più intrigante, perché la soluzione risiede necessariamente al di là dell’arco temporale della narrazione, in un futuro concepito dall’improbabile investigatrice, la settantenne Miss Rachel Murdock.
Primo di una serie di gialli di D.B. Olsen, uno degli pseudonimi dell’autrice di bestseller Dolores Hitchens (1907-1973), La gatta ha visto tutto (1939) inaugura quello che è diventato un curioso fenomeno editoriale, il cat mystery, che oggi rappresenta un’industria milionaria. (Considerata la mitologia sui gatti, che ha origine nell’antico Egitto, dove pare che questi animali fossero venerati come divinità, non sorprende che proprio il gatto, tra tutti gli animali, sia immaginato come il Doppelgänger dei detective dilettanti, di solito donne. Se i cani sono estroversi e desiderosi di compiacere, i gatti tendono a una sorta di introversione meditabonda e sono segnatamente disinteressati a compiacere: il genere di personalità adatta all’investigazione obiettiva e allo smascheramento degli inganni). In dodici romanzi gialli, pubblicati tra il 1939 e il 1956, che hanno titoli spiritosi come, tra gli altri, The Cat Wears a Noose, Cats Have Tall Shadows, Cats Don’t Smile, Death Walks on Cat Feet, Miss Rachel Murdock, gracile di corporatura ma acuta osservatrice, affronta un omicidio dopo l’altro con una compostezza stupefacente per una signora nubile d’età avanzata. In La gatta ha visto tutto Miss Rachel è intrepida, talvolta temeraria nel tentativo di risolvere il mistero di chi abbia brutalmente ucciso non solo sua nipote e per di più in sua presenza (Miss Rachel era stata drogata con della morfina) ma anche qualcun altro, con in aggiunta una raccapricciante mutilazione del cadavere. Nella coppia di affezionate e anziane sorelle zitelle, Miss Rachel è la sorella vivace, la sorella curiosa, quella che l’autrice preferisce:
Anche all’età di settant’anni rimaneva qualche traccia di quel che era stata la sorprendente bellezza di Miss Rachel. L’attaccatura dei capelli, per quanto ormai bianchi e più radi, era una perfetta attaccatura a V e conferiva al suo viso una forma a cuore. Gli occhi scrutavano Jennifer con una scura vivacità, come il movimento dell’acqua in una piccola pozza che avverte la corrente del ruscello. Le mani spezzavano il pane tostato con grazia e sicurezza.
Miss Rachel si rivelerà un’incantevole investigatrice dilettante, più che all’altezza della sua controparte professionista, il tenente Stephen Mayhew, socialmente goffo e un po’ imbranato, che viene chiamato sulla scena del crimine nella cittadina costiera di Breakers Beach, California. La collaborazione informale tra Mayhew e Miss Rachel, che il tenente chiama con condiscendenza «l’anziana signora», conferisce a La gatta ha visto tutto un che di edificante, come nel romance o nella narrativa young adult, in cui individui improbabili sviluppano un legame nel corso di un’impresa eroica eccezionale.
Senza dubbio Mayhew sembra più un investigatore dilettante che un detective della polizia, dal momento che durante l’indagine persuade un’ingenua ragazza a fare da esca all’assassino, con conseguenze quasi fatali per lei. È una sorta di «personaggio» cinematografico: volubile, irascibile, un sessista che «ha in antipatia le donne grasse con le unghie pittate di rosso», un bullo che «scaraventa» in un corridoio un sospettato fastidioso e schiaffeggia in pieno viso una giovane donna traumatizzata. È di mente così ristretta che il tentato suicidio di una (palesemente innocente) signora d’età è per lui «l’equivalente di una confessione». Descritto esoticamente come un uomo dai «capelli nerissimi, folte sopracciglia nere e una faccia bruna e quadrata capace di mutare a seconda delle emozioni quanto una maschera di legno ben intagliata», a Mayhew «manca solo un bel ruggito cattivo per somigliare in tutto e per tutto a un orso nero». Negli anni il tenente sarà protagonista di due gialli di Dolores Hitchens indipendenti dalla serie, ma non è una creazione neanche lontanamente interessante o originale come Miss Rachel.
Una delle novità di La gatta ha visto tutto è che il caso è commentato da Miss Rachel e da Mayhew, in un imprecisato tempo futuro. Mentre il caso di omicidio è al passato, il commento è al presente, una distinzione che potrebbe confondere alcuni lettori con i suoi frequenti salti temporali e una prospettiva indefinita, nella quale il tenente Mayhew sembra intrattenere un rapporto personale e non formale con Miss Rachel. (Non rischiamo di svelare troppo informando i lettori perplessi che Miss Rachel, Mayhew e la sua giovane moglie si conoscono bene, dato che hanno stretto un legame di amicizia nello sforzo di trovare l’assassino; in un successivo momento di pace i tre mettono insieme i pezzi dei loro ricordi individuali sul caso, che Mayhew ha definito «il caso più dannato in cui si sia mai imbattuto». Se il lettore tiene a mente questo, i frequenti salti temporali di Hitchens non lasciano poi così frastornati).
La gatta che ha visto tutto è la Samantha di Miss Rachel, una creatura dal pelo «nero e setoso», gli «occhi dorati» e un «miagolio da soprano», la cui vita è in pericolo perché si dà il caso sia un’ereditiera, alla quale la sorella maggiore di Miss Rachel ha lasciato una piccola fortuna. (Questa è una sottotrama che non fa parte del mystery principale). I lettori che non si sentono a loro agio con l’idea di un felino soprannaturale che agisce da investigatore o partner di un investigatore possono stare certi che la gatta di Dolores Hitchens non possiede doti straordinarie, e Miss Rachel non è una padrona particolarmente infatuata: a un certo punto non è nemmeno sicura che la gatta sia davvero Samantha. (Tra le cose, nel romanzo, che mettono alla prova la verosimiglianza c’è la bizzarra idea che una gatta sconosciuta sia stata sostituita a Samantha; allo stesso modo, è forse poco credibile che dopo due attentati alla vita della gatta Miss Rachel non l’abbia portata via al sicuro).
Oltre all’esuberante Miss Rachel, al tenente Mayhew che somiglia a un orso e alla gatta nera Samantha, i personaggi di La gatta ha visto tutto non sono altro che funzioni della trama, abbozzati come esseri dalla fisicità repellente: tra i sospettati c’è la signora Turner («le guance ossute rosse di rabbia, il grosso mento proteso verso di lui. [...] Aveva il becco e gli occhi di un uccello rapace, e il collo era rugoso e grigiognolo come quello di un avvoltoio); un’altra sgradevole sospettata è «alta e mascelluta», un’altra ancora ha un «petto abbondante». La nipote di Miss Rachel, Lily, la cui funzione nella trama è farsi uccidere in uno dei primi capitoli, è una figura sciatta, palesemente ripugnante per l’autrice quanto per la scrupolosa Miss Rachel:
Lily Sticklemann si stava pericolosamente avvicinando ai quaranta, e cercava disperatamente, ma con scarsi risultati, di non darlo a vedere. Era un donnone dalla pelle molto pallida, i denti sporgenti e una montagna di capelli chiari [...]. Lily non aveva una figura slanciata. Straripava a dispetto del suo eccellente corsetto [...]. Se qualcosa infastidiva Miss Rachel, era il fatto che Lily fosse così palesemente e ostinatamente stupida. Era una stupidità complessa che tentava di simulare la scaltrezza, che amava i suoi piccoli misteri, che era leziosa, ottusa.
È significativo che l’indolente Lily non sia una nipote consanguinea di Miss Rachel ma acquisita: confessa a Miss Rachel di aver barato a bridge, ma in modo così inetto da aver perso parecchio, e di essere ora schiacciata dai debiti; offre a Miss Rachel un tutt’altro che appetitoso tramezzino con salsiccia di fegato da cui «estrasse un lungo capello biondo [...] e lo gettò nel lavello, dove si posò desolato sui piatti sporchi». Fonte inesauribile di maniere sconcertanti, Lily è ben presto uccisa con estrema brutalità, in circostanze che sarebbero improbabili nella vita reale ma che sono caratteristiche dei «delitti della camera chiusa», in cui vi sono molti sospettati nelle vicinanze, ognuno dei quali dovrà essere interrogato dall’investigatore.
Le scene piene di suspense presenti nel romanzo provano che Miss Rachel non è un’investigatrice esclusivamente cerebrale, ma che è disposta a rischiare in prima persona; per stabilire chi può aver ucciso sua nipote, riesce nell’impresa acrobatica di calarsi negli appartamenti dei sospettati in loro assenza, uno sforzo concreto descritto con precisione:
C’era un’apertura di questo genere nel soffitto di Miss Rachel, e quando lei la vide il suo cuore ebbe un sussulto di pura gioia investigativa. [...] Entrarci senza lasciare a vista una pila di sedie, o analoghi supporti per salire, le parve all’inizio un bel problema, ma poi divenne eccezionalmente facile. Le bastò tirare un po’ ogni cassetto della cassettiera, in modo che i bordi le fornissero un solido appoggio, e montò con audacia su quella scala improvvisata. [...] La soffitta era buia come si suppone lo siano le più estreme profondità dell’Ade.
A dispetto della corporatura fragile, Miss Rachel non è limitata dal fatto che è una donna, non più che dalla sua classe sociale elevata e da un’indole assennata.
Come mero intrattenimento, lasciando da parte le bizzarre inverosimiglianze, La gatta ha visto tutto è realizzato con perizia. Miss Rachel è un’investigatrice dilettante che coinvolge, e addirittura conquista, e la «nera e setosa» Samantha è una compagna molto promettente per le successive avventure. Dolores Hitchens è un’abile narratrice e i suoi gialli meritano di essere riscoperti, specialmente alla luce della letteratura poliziesca femminile e dei cat mysteries contemporanei. Sotto la superficie del romanzo, che scorre rapido come la corrente di un fiume, c’è una sorta di tragica saggezza, consona a un’epoca che si fa sempre più buia, come il 1939, tanto quanto alla nostra.
Mayhew era turbato da quella prova più di quanto volesse ammettere. Era entrato molte volte a contatto con morti violente, pianificate o accidentali e il più delle volte orribili, ma la vera e propria tortura a sangue freddo era qualcosa di eccezionale per lui. Si ritrovò a interrogarsi sulla mano e sul suo proprietario: quale gelido, sovrumano autocontrollo o quale farneticante frenesia si erano impossessati di lui al momento dell’agonia e, soprattutto, quale poteva essere stato lo scopo della tortura?
Quale sia lo scopo non è un tema trattato dalla maggior parte dei romanzi gialli e polizieschi, al di là del fine pragmatico e opportuno di creare un mistero che deve essere risolto da un investigatore intraprendente. In La gatta ha visto tutto è appagante che il trentatreenne detective in borghese Mayhew venga agevolato dalla collaborazione con la settantenne Miss Rachel: solo unendo le forze questi due individui in apparenza antitetici mettono fine a quella che rischiava di diventare una serie di efferati omicidi commessi da un assassino brutale e privo di rimorso.
JOYCE CAROL OATES
2021
LA GATTA HA VISTO TUTTO
Capitolo uno
Lily ha paura
Il tenente investigativo Stephen Mayhew sostiene che l’omicidio Sticklemann sia stato il caso più dannato in cui si sia mai imbattuto; che risolverlo sia stato come fare un puzzle a testa in giù e con le tessere capovolte; che era andato peggiorando man mano che si trascinava avanti; e che lo aveva portato a fare cose assurde come strappare i peli alla gatta di Miss Rachel o costringere una grassa signora impaurita a urlare. Aveva detto, usando un eufemismo, di aver odiato la faccenda dall’inizio alla fine.
Ma Miss Rachel, con la saggezza dei suoi settant’anni, è di un altro avviso. È convinta che l’atteggiamento truce di Mayhew fosse in realtà un modo per camuffare la felicità. Sostiene che il tenente, checché ne dica, aveva gli occhi che brillavano e il passo veloce. È dell’idea che in quel periodo mangiasse bene e dormisse come un ghiro. È sicura che Mayhew abbia sorriso quando ha trovato lo spillo alla finestra, come è sicura di avercelo messo lei stessa. Era uno spillo piccolo e ordinario, ma aveva mandato all’aria la prima accurata macchinazione dell’assassino. La cosa doveva aver fatto piacere al tenente.
Quanto a Miss Rachel: c’erano lo shock e il dolore, e c’era stato un momento in cui le fredde dita della morte l’avevano quasi afferrata. C’era l’enigma del crimine, che affascinava la sua mente matematica alla stessa maniera di un problema di algebra. Solo in una circostanza aveva davvero avuto disperatamente paura, e cioè la notte che aveva trascorso in soffitta ascoltando l’assassino che rovistava giù nella sua camera. La soffitta era gelida e piena di spifferi, e così buia che Miss Rachel aveva avuto la sensazione di essere priva di corpo nell’oscurità. Finché non aveva starnutito. Allora si era sentita molto presente nella propria carne: una cosa senza fiato e tutta orecchie per cogliere se la persona di sotto aveva sentito lo starnuto e stava salendo a cercarla. Il vento le soffiava addosso nella soffitta ammuffita, l’oscurità le premeva sugli occhi come un pugno e lei non osava muoversi per paura di fare rumore.
Era trascorso un minuto. Forse due. Di sotto il fruscio era continuato come se qualcuno frugasse tra le sue cose. Rachel aveva ripreso a respirare.
Poi la gatta aveva aperto la bocca emettendo un breve suono flebile nell’oscurità e Miss Rachel era stata presa di nuovo dal terrore. Stava per miagolare o per sbadigliare? Era rimasta in attesa.
Il tenente Mayhew, tuttavia, potrebbe obiettare che la storia non dovrebbe iniziare da qui, non è corretto. Si dovrebbe cominciare dall’inizio, quando lui non era ancora entrato in campo.
Così la scena sfuma indietro e ancora indietro.
Le signorine Murdock stavano facendo colazione.
Nella desolata ampiezza del bianco salone il piccolo tavolo sembrava tristemente smarrito, come se si fosse avventurato fuori da un monolocale con angolo cottura e non sapesse come fare per tornare indietro. Anche le signorine Murdock sembravano piuttosto smarrite. Erano minuscole, grigie e molto anziane; due bizzarre figure in abiti di percalle a quadretti, avvolte in scialli di lana per proteggersi dal freddo della vasta casa senza riscaldamento e appollaiate sulle sedie del piccolo tavolo a masticare pane tostato e sorseggiare latte.
Miss Jennifer guardò con la consueta espressione di mite rimprovero le imponenti pareti bianche e, oltre la porta, la vastità della cucina, ed ebbe un brivido. Anche il brivido era qualcosa di consueto, così come le parole che seguirono:
«Dovremmo rinunciare a questo posto, Rachel. Affittarlo a una famiglia numerosa, darlo in locazione a qualcuno. È grande a sufficienza per quaranta persone e decisamente troppo grande per noi due sole». Si tirò su lo scialle a coprire un orecchio diafano dalle vene blu. «Fa freddo anche di mattina. Se avessimo una casa più piccola ci potremmo permettere di tenerla calda».
Miss Rachel, seduta di fronte a lei, non mostrò sorpresa né preoccupazione sentendo queste lamentele. Non diede alcuna risposta a parte sollevare le sopracciglia bianche al di sopra degli occhi scuri e luminosi. Anche all’età di settant’anni rimaneva qualche traccia di quel che era stata la sorprendente bellezza di Miss Rachel. L’attaccatura dei capelli, per quanto ormai bianchi e più radi, era una perfetta attaccatura a V e conferiva al suo viso una forma a cuore. Gli occhi scrutavano Jennifer con una scura vivacità, come il movimento dell’acqua in una piccola pozza che avverte la corrente del ruscello. Le mani spezzavano il pane tostato con grazia e sicurezza.
Miss Jennifer non assomigliava granché alla sorella. Era una semplice donna anziana, così come era stata una ragazza semplice, e non aveva niente da spartire con le creme per il viso. Aveva un aspetto trascurato.
Rachel si limitò a ricordarle, pensierosa: «Questa casa l’ha costruita nostro padre, Jennifer».
Jennifer fissava il suo latte, irritata. «Lo so. Perciò rimaniamo. Anche se geliamo, rimaniamo. Portando avanti la tradizione dei Murdock. Se solo fosse possibile fare una tradizione a pezzetti e gettarli nella stufa per trarne un po’ di calore... questo mi renderebbe felice».
Miss Rachel sembrava afflitta. «È casa nostra da più di quarant’anni, Jennifer. Nessun altro posto potrebbe mai andarci bene dopo tutto questo tempo. Tu stessa ti tireresti indietro al momento di andartene, ne sono sicura».
Suo malgrado Miss Jennifer si intenerì, ma era ancora infelice. «Lo farei, suppongo. A pensarci bene, non riesco a immaginarci da nessun’altra parte. Siamo abituate a questa vecchia casa. Un posto moderno con tutti quegli aggeggi meccanici probabilmente ci spaventerebbe a morte. Ma negli ultimi tempi ho sofferto così tanto il freddo. È come un fienile qui dentro. I miei piedi sono congelati».
Fu allora che squillò il telefono. Il suono penetrante fu assorbito e amplificato dalle grandi stanze echeggianti così che i suoi richiami piombarono addosso alle signorine Murdock come potenti rintocchi di campane. A Miss Jennifer andò di traverso il latte.
Ci fu un attimo di silenzio guardingo e interrogativo. Poi Miss Rachel si pulì le labbra con un tovagliolo blu e si alzò. «Vado io», disse tranquilla, come se una telefonata prima delle otto del mattino fosse la cosa più ordinaria al mondo.
La sorella la osservava con un’espressione allarmata. «Chi potrà mai essere a quest’ora? Di certo non il droghiere».
«Stiamo per scoprirlo», rispose calma, e uscì dalla stanza.
Jennifer rimase seduta dritta e immobile fino al ritorno di Rachel, senza mangiare, fissando la parete con fastidio misto a preoccupazione e raccogliendo briciole di pane tostato con la punta delle dita.
Miss Rachel tornò senza fretta, così com’era andata. «Era Lily», disse in risposta allo sguardo interrogativo di Jennifer. «Mi ha chiesto di andare a trovarla. Oggi».
Miss Jennifer ruminò il pane tra i denti e il messaggio telefonico nella mente, assimilando entrambi poco a poco. «Per quale motivo?», chiese.
«Non lo ha detto», fu la risposta secca.
Il volto di Miss Jennifer tradì un principio di stupore. «Vuole che tu faccia tutta quella strada per andare da lei a Breakers Beach, e non ti ha detto perché? È più stupida di quanto pensassi se si aspetta che tu lo faccia. Il viaggio fin lì e ritorno...».
«Vuole che rimanga con lei per qualche giorno». Miss Rachel rifletteva guardando fuori dalla finestra.
«Questa poi... Ancora più assurdo! Non ci ha mai chiesto niente del genere». Lo sguardo pensieroso di Rachel catturò l’attenzione della sorella. «Non starai davvero pensando di andare...?».
Miss Rachel osservava la città che si ridestava ai piedi della ripida collina dove vivevano. Ci fu un attimo di silenzio nella stanza. Poi: «Sono tentata di farlo», ammise.
Jennifer tremava quasi. «Rachel! Rimanere a Breakers Beach? Perché? Quell’aria di mare così umida non ti farebbe bene! Potresti prendere la polmonite o l’asma o qualunque malanno si prenda sulle spiagge. Oh, non puoi!».
«Sciocchezze», disse Miss Rachel, calma. «Ho bisogno di uscire, di andare via da qui per un po’. Tu stessa suggerivi la necessità di un cambiamento solo pochi minuti fa. O no?».
Miss Jennifer scosse la testa grigia. «Non quel genere di cambiamento. Intendevo solo un piccolo spostamento. Non tutta quella strada fino a...».
La sorella la interruppe di nuovo. «Non essere sciocca. Breakers Beach è ad appena un’ora da Los Angeles con il treno elettrico. Non è come se Lily vivesse a Timbuctù, o Napoli – anche se, lo sa il cielo, vorrei quasi che ci vivesse. Solo i nomi di quei posti... Comunque, sembra interessante – andare al mare, voglio dire. Tu e io non andiamo più da nessuna parte. Ci hai fatto caso, Jennifer?».
Miss Jennifer strinse le labbra con fermezza e lanciò alla sorella uno sguardo di disapprovazione. «Non è quello che ci si aspetta alla nostra età. Siamo anziane, Rachel. Abbiamo bisogno di quiete e di riposo. Io sono contenta di non andare in giro a bighellonare per il paese. So quel che è meglio, io».
«Quel che è meglio?». Le bianche sopracciglia di Miss Rachel si sollevarono come quelle di un bambino. «Non ti sembra piuttosto come... come morire, starsene qui sedute ad aspettare la fine?».
Miss Jennifer sbuffò dal naso. «Non sto aspettando la fine, come dici tu. Sto bene così, o perlomeno starei bene se questa casa fosse più calda, e so che è più saggio rimanere a casa. Se ti stanno tornando le smanie, allora fai questo viaggio al mare. E voglio dirti una cosa: con ogni probabilità non sarà dannoso come la mania del cinematografo che ti è presa quest’inverno. Film polizieschi!».
Miss Rachel arrossì un po’. «Erano interessanti», si difese debolmente.
«Altroché! Dopo il terzo – com’è che si chiamava, Orrore purpureo? – eri agitata come la gatta. Bene, vai al mare a scoprire che cosa vuole Lily. Soldi, scommetto. Come sempre, no?».
In quel momento un miagolio da soprano arrivò dalla cucina e una gatta dal pelo nero e setoso entrò dalla porta. Guardò le signorine Murdock con i suoi occhi dorati carichi di rimprovero agitando la coda vaporosa, dono del padre persiano, in segno di lieve fastidio.
Miss Rachel osservò divertita la gatta. «Non è agitata, come non lo ero io. È un po’ irritata perché vuole la colazione».
«Tu eri agitata», insisté la sorella, alzandosi per versare del latte nella scodella della gatta. «Ecco, Samantha, bevi la tua colazione».
Samantha immerse la lingua rosea nel latte. Miss Rachel, ancora intenta ad osservarla, parlò con un tono fintamente disinvolto. «Dovrò portare Samantha con me, lo sai».
Miss Jennifer si voltò, con la bottiglia di latte ancora in mano. «Portare la gatta? La gatta! Ti senti bene, Rachel?».
Miss Rachel assunse un’espressione di perfetta sanità mentale. «Non essere così seccata. E neanche così smemorata. Sai che Samantha deve stare con me. Ricorda che non ha mangiato nemmeno un boccone mentre ero in ospedale l’anno scorso. Al mio ritorno era tutta pelle e ossa. È terribilmente legata a me e dovrà venire al mare».
«Hai davvero intenzione di portarla con te?».
«Sì, esattamente».
Miss Jennifer sospirò. «Sei così testarda, Rachel. E con che cosa pensi di trasportarla?».
«C’è quel vecchio cesto da picnic. Nell’armadio all’ingresso, no? Ci mettiamo qualche vestito sul fondo, la tua vecchia sottogonna, per esempio. Va’ a prenderla, Jennifer».
Miss Jennifer aprì la bocca spigolosa, triste. «Continuo a pensare che non...», si lamentò.
«Vado a mettere in valigia un po’ di cose. Non molte. Probabilmente mi fermerò lì solo qualche giorno». Rachel si alzò di nuovo dalla sedia, magra ma non ossuta nel suo abito di percalle a quadretti, e lisciò una ciocca bianca sfuggita dall’acconciatura ordinata. «Solo pochi giorni», consolò la sorella. Non poteva sapere, allora, dello spillo e della soffitta piena di spifferi, né del tenente Mayhew. Ma stava andando incontro a tutte queste cose.
Salì in camera ed estrasse la sua antiquata valise dall’angolo più interno di un armadio. Ci finirono dentro un pettine e una spazzola d’argento, un vasetto di crema per il viso, un minuscolo portacipria. Poi la camicia da notte, che profumava delicatamente di lavanda, presa da una cassettiera all’angolo. Dopo una riflessione sui difetti persino delle migliori pensioni sul mare, due lenzuola e una federa, anch’esse profumate di lavanda, seguirono la camicia da notte. Furono aggiunti un paio di pantofole, una veste da camera, un vestito in più e altri articoli che Miss Rachel considerava necessari.
Passò in rassegna la fila di vestiti appesi nell’armadio e decise di indossare l’abito di taffetà grigio, quello con il giacchino. Non stava pensando ai vestiti, però. Stava riflettendo sulle allarmanti parole di Lily al telefono.
«Vieni qui, zietta. Ti prego», l’aveva implorata la voce roca di Lily. «Sono in una specie di pasticcio e ho un disperato bisogno di consigli». Quella era stata la parte principale.
Lily non era l’unica ad attendere l’arrivo di Rachel. Anche lo spillo, la soffitta e l’assassino la stavano aspettando, a luogo e a tempo debito. Così come quell’omone dalla faccia abbronzata, il tenente Mayhew. Quella mattina stava contrattando con un borseggiatore per avere delle informazioni e forse, se glielo avessero chiesto, avrebbe detto di essere abbastanza felice. In seguito, mentre il caso Sticklemann era in corso, dichiarò che stava impazzendo.
Ma oggi Miss Rachel è convinta che si sia divertito.
Lily Sticklemann si stava pericolosamente avvicinando ai quaranta, e cercava disperatamente, ma con scarsi risultati, di non darlo a vedere. Era un donnone dalla pelle molto pallida, i denti sporgenti e una montagna di capelli chiari che portava tagliati in un caschetto lungo. Aveva notato che questo taglio si addiceva molto alle giovani donne. Il fatto è che non si addiceva a Lily. Enfatizzava l’afflosciarsi delle guance e gli occhi piccoli, azzurri. Lily non aveva una figura slanciata. Straripava, a dispetto del suo eccellente corsetto dotato di ferretto intorno alla vita. Ma Lily non si lasciava scoraggiare.
Aspettava impaziente alla stazione interurbana di Breakers Beach, felicemente inconsapevole di essere straripante e di avere l’aspetto di una donna di mezz’età. Notò lo sguardo di un sottufficiale della marina deviare nella sua direzione. Si chiese se fargli l’occhiolino, ci ripensò e si limitò a sorridergli. Il sottufficiale distolse lo sguardo in tutta fretta.
Un’espressione compiaciuta offuscava in lei, senza cancellarle, la preoccupazione e l’ansia e una determinazione vacillante. Dietro il suo sorriso, ancora acceso a dispetto della freddezza del sottufficiale, Lily stava cercando di prendere una decisione. E nel momento in cui Miss Rachel Murdock l’avesse vista, quella tranquilla vecchietta l’avrebbe capito.
Se qualcosa infastidiva Miss Rachel, era il fatto che Lily fosse così palesemente e ostinatamente stupida. Era una stupidità complessa che tentava di simulare la scaltrezza, che amava i suoi piccoli misteri, che era leziosa, ottusa. Non aveva mai, con aperto stupore di Lily, colto di sorpresa nessuna delle sorelle Murdock. Le aveva soltanto condotte a discutere liberamente, nella riservatezza di casa loro, i limiti della nipote.
Non si sentivano in colpa dopo quelle discussioni. Lily non era una nipote di sangue. Era la figlia adottiva del loro defunto fratello Philip, un randagio fuori del consorzio civile che Rachel e Jennifer avevano amato con tutto il cuore da bambine e del quale si erano un po’ vergognate da adulte.
Rachel sospirò dentro di sé quando scendendo dal treno interurbano vide Lily che la attendeva alla stazione. Il lungo caschetto ribelle era una novità, e Rachel lo giudicò subito peggiore del taglio alla maschietta che lo aveva preceduto. La massa aggrovigliata di capelli sembrava il simbolo della vita ingarbugliata di Lily: storie d’amore inconcludenti, mode passeggere, cambi di direzione.
Come le accadeva tutte le volte che vedeva Lily, Miss Rachel ripensò al matrimonio della nipote, una decina di anni prima. Lily era andata a trovarle, maliziosa e allegra e misteriosa. Era sulla trentina allora, una donna non sgradevole anche se già tendente alla pinguedine. Si trascinava dietro un uomo che presentò timidamente come suo marito: un uomo smilzo e immusonito, dai capelli rossi e il passo sgraziato. Il signor Sticklemann era stato vago e poco propenso a comportarsi amichevolmente con le anziane zitelle. Era stata Lily a invitarle ad andarli a trovare. Le zie, diligenti, avevano chiamato la settimana dopo, consapevoli di ciò che dovevano alla memoria di Philip.
Sul retro di un fatiscente e disordinato negozio di riparazioni elettriche, avevano trovato l’appartamentino di Lily. Il negozio era del signor Sticklemann e di sua sorella. Lily aveva fatto un’osservazione imbarazzata sulla necessità di rifinanziare il posto. Il signor Sticklemann aveva grugnito guardando Miss Rachel. La conversazione si era esaurita lì. In un paio di occasioni, durante quella visita, un viso si era affacciato rapido a guardare dentro dal negozio. Era un volto scuro e spigoloso coronato da un’orrenda cuffietta nera. Non aveva sorriso; li aveva osservati con gli occhi affilati e maliziosi ed era sparito. «È Anne», Lily si era affrettata a spiegare. «Era uscita, credo. Ci sono talmente tante cose di cui lei... noi, intendo... abbiamo bisogno, e così...». La risata di Lily era stata nervosa quanto le sue mani grasse e bianchicce che armeggiavano con un fazzoletto. «Ad Anne piace fare compere», terminò, senza guardare le zie. In quel momento Miss Rachel aveva avuto la certezza che il signor Sticklemann e sua sorella Anne stavano divorando tutto il denaro di Lily. La cosa le aveva lasciato una sensazione di nausea.
Per alcuni mesi Lily era stata scioccamente, stupidamente orgogliosa del suo matrimonio. Poi erano arrivati indizi di rottura, gli accenni alle liti con l’onnipresente cognata Anne per il denaro e infine la confessione che il signor Sticklemann e la sorella se ne erano andati. Erano nati dei dubbi sul fatto che il signor Sticklemann avesse avuto il diritto di sposare Lily, ma lei non ne aveva saputo nulla fino all’ultimo. Alla fine, l’aver vissuto, inconsapevolmente, con il signor Sticklemann senza un legale vincolo matrimoniale e il modo in cui questi si era servito dell’informazione le era costato del denaro.
Il signor Sticklemann era morto quasi esattamente un anno dopo. Miss Rachel capì dal sollievo di Lily che doveva aver operato un drenaggio costante dalla sua borsa.
Da allora, Lily aveva avuto una serie di innamorati sorprendentemente eterogenei. Grassi, magri, poveri, benestanti, ce n’erano stati a dozzine. Solo di recente non c’erano state notizie di nuove storie d’amore.
Miss Rachel varcò l’ingresso della stazione, con il cesto sottobraccio.
Lily sfoderò quello che credeva essere fascino. Era radiosa, era entusiasta. Afferrò la minuta zia che cercava di liberarsi dalla presa e la baciò davanti a tutti. Come stavano le sue zie dilette? Così bene che una di loro era andata a trovare la piccola Lily! E aveva anche un così bell’aspetto. Che giacchino delizioso! Uuuuuuuh... il cestino... è il pranzo? No? Poteva dare una minuscola sbirciatina? Oooooooh! La gatta! La vecchia cara Samantha, come se la passava?
«Molto bene», la rassicurò Rachel, sospirando. Detestava le smancerie in pubblico.
Lily le fece un’altra coccola e se ne andò a cercare un facchino lasciando una scia di profumo intenso e un sentore stantio di sigarette turche. Rachel lisciò una piega sulla spalla dell’abito di taffetà grigio mentre la guardava allontanarsi. Era chiaro che Lily era preoccupata per qualcosa, come indicava la sua chiamata; ma non troppo preoccupata, e stava cercando di decidere se risolvere il problema con l’aiuto della zia o a modo proprio. Il che voleva dire a casaccio, con una grande perdita di tempo e noiosi sotterfugi. Miss Rachel si chiese che cosa stesse succedendo.
Distrattamente controllò il gancio del cesto. Era ben chiuso e la vibrazione delle fusa soddisfatte le carezzò la punta delle dita mentre lo toccava.
A questo punto al tenente Mayhew sarebbe piaciuto possedere il dono della chiaroveggenza. Sostiene che avrebbe rispedito Miss Rachel dritta a casa, gatta, bagagli e tutto. Oggi, pensa, avrebbe avuto il piacere di sapere in prigione due persone spregevoli. Persone crudeli e spietate, che meritavano molto di peggio di quel che è toccato loro.
Miss Rachel lo aveva convinto a lasciarle andare.
Capitolo due
Carne avvelenata
Miss Rachel, omicidio a parte, aveva un aspetto curioso e affascinante che attirava l’attenzione di più di una persona nella sala d’aspetto. Al di sotto dell’attaccatura a V dei capelli color neve, il viso a forma di cuore era sereno; lo sguardo mobile e intelligente, la postura ben eretta. Detestava i cappelli tanto amati dalla maggior parte delle donne anziane – i cappellini a tamburello e a cuffietta e i turbanti troppo alti sui capelli radi. Quelli che indossava lei erano di tipo totalmente diverso. Non avevano uno stile particolare. Stavano bene sulle sue orecchie, erano comodi, e le falde svasavano appena al di sopra dell’attaccatura dei capelli ad incorniciarle il viso. Indossava abiti di taffetà perché le piaceva l’opulento fruscio di quella stoffa e non perché fosse considerata appropriata per le vecchie signore. Le sue scarpe erano strette e avevano stile. Avrebbe potuto essere una nonna, perché aveva lo sguardo dolce e placido che contraddistingue così tante nonne – e diverse persone alla stazione sembravano desiderare che fosse la loro.
Lily tornò fumando una sigaretta. Il suo sorriso si era dissolto in uno sguardo di schietta speculazione. La seguiva un facchino che recuperò la valigia di Miss Rachel dal mucchio al deposito bagagli e chiamò loro un taxi.
Il tassista, canticchiando vivacemente, avviò l’auto con un ruggito e il mondo cominciò a scorrere fuori dal finestrino a una certa velocità. Superarono un agente in motocicletta che sonnecchiava in un angolo. Secondo Miss Rachel, l’agente aprì un occhio per guardare nella loro direzione. La giornata era molto calda.
Seacliff Boulevard si estende per tutta la lunghezza della scogliera che sovrasta la spiaggia. C’è un piccolo parco sul lato che guarda l’oceano, poi una discesa a picco fino al lungomare con i suoi chioschi e i suoi sgargianti intrattenimenti, e infine il Pacifico. Miss Rachel si ritrovò a guardare fuori dal finestrino la luccicante distesa blu che le feriva gli occhi.
Al di sotto della scogliera c’erano pensioni, chioschi, cinematografi e ristorantini che si aprivano sul lungomare di cemento affacciato sulla spiaggia. Miss Rachel, tuttavia, non collegò nessuno di quei posti alla nipote finché Lily non si sporse in avanti per dire al tassista di svoltare in direzione della spiaggia alla traversa successiva.
L’uomo annuì sprezzante senza guardarsi intorno, fece ruotare il suo proiettile su due ruote urlanti, si lanciò in picchiata e si fermò bruscamente sul bordo del vialetto di cemento che costeggiava la spiaggia. Miss Rachel dovette ingoiare il proprio cuore. Ancora oggi sostiene di sapere come deve sentirsi un collaudatore d’automobili.
«Abito proprio sulla spiaggia questa stagione. È così eccitante!», le mormorò Lily all’orecchio. Poi dilatò i suoi piccoli occhi. «Proprio nel bel mezzo di tutto, la gente passa di qui tutta la notte e si sente ogni singola onda che si infrange sulla spiaggia! È tutto così vero, zietta!».
«Un po’ rumoroso, forse?», chiese Miss Rachel, riprendendosi e tenendo gli occhi fissi su un ragazzino che batteva su un tamburo. Una bambina che doveva essere la sorella minore soffiava dentro qualcosa che somigliava tanto a un piffero. Andavano avanti e indietro battendo i piedi con precisione militare e urtando contro i passanti, ma facevano pensare allo Spirito del ’76.1
«Oh, forse un po’, immagino», minimizzò Lily. «Ma non si può avere tutto e io dico sempre che è per la spiaggia che si viene qui. E allora perché non alloggiare proprio sulla spiaggia? Anche la gente qui è interessante. E ce n’è un sacco! Senti le onde? Le vedi?». Lily ridacchiò con la sigaretta tra le labbra mentre aiutava Miss Rachel a scendere. Pagò il tassista con una manciata di monete. «Non si preoccupi, penso io al bagaglio. Sono solo pochi passi».
Si fecero strada tra la folla in abiti da passeggio schivando energici gruppi di bagnanti che andavano e venivano dalla spiaggia. Samantha miagolò una sola volta, quando un uomo corpulento urtò il suo cesto.
«Chiedo scusa, signora», l’uomo grasso s’inchinò.
Miss Rachel ringraziò tra sé che la gatta fosse chiusa dentro. Se ne avesse avuto la possibilità, Samantha lo avrebbe graffiato.
«Eccoci, cara! Per nulla raffinato, temo. Ma abbastanza comodo. Sali da qui».
Miss Rachel si fermò. Rimase immobile e Lily, già sui gradini, si voltò per vedere che cosa la trattenesse. Con le labbra strette intorno alla sigaretta, sorrise. «Sorpresa? Te lo avevo detto che non era un posto raffinato».
Miss Rachel tese il piedino per fare un passo lento. «È... è così diverso, Lily. In qualche modo... ricordo ancora la tua ultima casa».
«Oh, quella! In quel posto sperduto».
«Ma era bella. Lily... C’è qualche problema con il denaro? Quello che ti ha lasciato Philip in amministrazione fiduciaria. Ti garantisce ancora un reddito, no?».
«Quella miseria? Sì, la ricevo. Ma non giudicare questo posto dall’aspetto. Gli affitti sono alti qui al mare. Mi costa tanto quanto mi costavano gli altri. Entra. Non morde mica».
Forse non morde, pensò Miss Rachel salendo i gradini deformati, ma pare pronto a crollare addosso ai suoi inquilini. Il legno non veniva ridipinto da anni, e nebbia e venti marini lo avevano segnato fino a lasciarlo del tutto incolore. La struttura portante del tetto sembrava danneggiata. Le zanzariere erano piegate verso l’esterno e rosse di ruggine.
Era tutto su un piano e proprio al centro un corridoio correva per tutta la lunghezza dell’edificio.
Passarono dalla splendente luce del sole sulla spiaggia a un’oscurità che sapeva di muffa. Miss Rachel tese una mano esplorativa.
«È un po’ buio qui dentro», ammise Lily. «Bisogna tenere le luci accese tutto il giorno. Attenta qui! Questa parte del tappeto è consumata e ci si inciampa se non si fa attenzione. Mi ci sono quasi rotta l’osso del collo la scorsa settimana. Niente di grave, comunque», si affrettò ad aggiungere.
Superarono svariate porte, rettangoli più scuri nella semioscurità del corridoio. Una aveva uno spiraglio aperto. Sul legno scuro Miss Rachel distinse nitidamente il pallore spettrale di quattro dita. C’era qualcuno lì, che se ne stava zitto e immobile dietro la porta aspettando che passassero. Non si stava nascondendo. La mano in bella vista indicava che non era importante se la sua presenza venisse notata o meno. Se ne stava in attesa in un corridoio vuoto.
Rachel camminò un po’ più veloce. La mole di Lily, stretta nel corsetto, si fermò poco più avanti e si udì il rumore di una chiave nella serratura. Uno squarcio di luce si allargò nel corridoio. Lily indicò davanti a sé.
«Questa è la tua, zietta. È come il resto della casa, niente di sofisticato o raffinato. Ma penso che la troverai confortevole. La mia camera è quella accanto, verso il retro. Dall’altra parte c’è il signor Leinster. È giovane, ma molto silenzioso. Le persone che alloggiano nella camera di fronte non le conosco... sono arrivate solo ieri. Una ragazza con una donna che deve essere sua madre. Anche loro silenziose. O perlomeno lo sono state la scorsa notte. Tutto ciò che sentirai durante la notte è il rumore delle onde, e forse qualche strascico della musica proveniente dalle giostre all’altro capo della spiaggia».
«Oh, andrà bene, Lily. Sono sicura che mi godrò la visita. Quando hai chiamato stamattina...», osservò la faccia di Lily per vedere se tradiva un po’ della preoccupazione che aveva espresso al telefono. Niente. Lily si stava accendendo un’altra sigaretta con aria indifferente. «Quando mi hai chiamato chiedendomi di venire, l’idea mi ha davvero allettato. Jennifer pensava che non dovessi...».
«La cara zia Jennifer!». Le quattro parole furono pronunciate con grande trasporto.
«Ma a me è sembrata l’occasione buona per andare via per un po’. Stiamo troppo a casa ultimamente, perciò eccomi qui. E poi... tu hai accennato a qualche problema».
«Io?». Lily spalancò gli occhietti azzurri più che poteva. «Al telefono? Mmm... vediamo. Oh, sì. Certo, ora ricordo». Emise una risatina dal fondo della gola. «Ti sono sembrata drammatica? Ero un po’, beh, preoccupata. Sai come a volte anche le piccole cose possono turbare; immagino lo si possa definire annegare in un bicchier d’acqua. Non era niente di che. Mi dispiace se ti ho spaventata, zietta, o se ti ho fatto pensare che ci fosse qualcosa di serio che non andava. Ma tu volevi venire comunque, no? Per una semplice visita, intendo».
«Oh, sì. Sì». Miss Rachel si mise a sistemare le cose che aveva in valigia. Lily aveva deciso di non parlare, dunque. Quale che fosse il pasticcio, voleva tenerlo per sé, preferiva nasconderlo. Amava i suoi piccoli misteri finché non le esplodevano in faccia, come di solito accadeva. Allora era tutto un «Al lupo! Al lupo!» e grandi invocazioni di soccorso. Lily non aveva mai sentito parlare del pastorello che aveva esaurito la pazienza dei suoi mancati soccorritori.
Miss Rachel poggiò il set da toilette in argento sul comò, sforzandosi di non badare allo spesso strato di polvere che ricopriva già il mobile. Sollevando lo sguardo, la sua stessa immagine distorta nello specchio scheggiato la fece trasalire. Sussultò.
Lily osservava il fumo della sigaretta con studiato interesse. All’improvviso prese a parlare dei concerti sulla spiaggia. «Tutte le sere tranne il lunedì», spiegò, «e la musica è veramente stupenda. Il signor Malloy – vive qui anche lui, un uomo meraviglioso! – mi ha insegnato ad apprezzare i concerti. Tu mi conosci. Non è il genere di cose che fa per me, anche se mi è sempre piaciuto il buon jazz. Ma dopo che il signor Malloy me ne ha parlato e li abbiamo ascoltati insieme... sarà stato il chiaro di luna». La strana nota da ragazzina nella sua risata fece voltare Miss Rachel che si fece subito attenta. C’era un lieve rossore sulle guance di Lily, la bocca era leziosa. Miss Rachel conosceva quei sintomi da tempo. Tornò a disfare il bagaglio.
«Il signor Malloy ama il chiaro di luna. Lo fa sembrare una cosa romantica. Conosce la poesia e tutta quella roba. È istruito. Ti piacerà».
«Lo incontrerò? Stasera?».
Una specie di apprensione stemperò il suo rossore da ragazza. «Oh, lo incontrerai, sì. Ci tengo molto. È davvero piacevole, non come certuni che ho presentato a te e zia Jennifer. Alcuni di loro non dovevano essere tanto entusiasmanti, a pensarci. Anche se il signor Malloy dice che non bisogna rimuginare sul passato, mai!».
«È al lavoro adesso, suppongo».
«No, è via. Da qualche parte... non so esattamente...». Lieve corrugamento della fronte, molto fumo. «Ma tornerà. So che tornerà. Allora potrai incontrarlo».
Miss Rachel la assecondò mostrando un moderato interesse. «È molto piacevole, dici? Mmm. E che cosa fa?».
«Per vivere? Oh, lui... lui lavora. Fa diverse cose. Sai com’è adesso. Ha lavorato in alcuni dei negozi sul lungomare. Prima faceva l’attore; gli conferisce una certa aria, sai».
«È più vecchio di te?».
«Un po’. Cinquantatré, credo. Capelli grigi, ed è alto. Non dimostra la sua età. È terribilmente bello. Ha ancora il suo personalino. Ho una sua foto in camera mia. Lascia le tue cose e te la mostro».
Andarono da Lily, nella camera a fianco. Il disordine era totale. Lily senza una donna delle pulizie era qualcosa di inimmaginabile. C’erano vestiti dappertutto, flosci e sporchi per la maggior parte. Il letto, a differenza di quello nella camera di Miss Rachel, era del tipo che si ribalta al muro durante il giorno conferendo all’ambiente l’aspetto di un salotto. Ma il letto era ancora aperto, le lenzuola un involto arrotolato al centro. Accanto c’era una sedia. Sopra, la scatola di una torta piena di briciole e un bicchiere vuoto con aloni circolari di latte lungo la superficie interna.
Ma ciò che più suscitò la disapprovazione di Miss Rachel furono le tende alla finestra. Erano roba da quattro soldi già in partenza, ma adesso erano vecchie e macchiate e una aveva un grosso strappo che si apriva lasciando intravedere la carta da parati sbiadita sotto il davanzale. Miss Rachel lanciò una rapida occhiata alla nipote. Lily stava frugando in un enorme comò in cerca della foto del signor Malloy. Rachel prese uno spillo da dietro il bavero del suo giacchino di taffetà e andò alla tenda per sistemarla. Una pungente nuvoletta di polvere le salì su per le narici. La stoffa era così vecchia da essere marcita e non riusciva a trattenere lo spillo. Miss Rachel, cercando di fare in fretta per timore che Lily si infastidisse, fermò lo spillo nel davanzale di legno. Nel legno teneva. La tenda sembrava di nuovo integra. Guardò oltre i vetri. La finestra era chiusa. Era chiusa da così tanto tempo che contro il vetro sporco si intravedevano i fili traslucidi di una ragnatela.
Lily le stava porgendo la foto del signor Malloy. Rachel vide la testa e le spalle di un uomo sulla cinquantina, con i capelli grigi, naso e mento prominenti e lo sguardo arrogante.
«Bello, no, zietta?».
Miss Rachel scelse un termine più formale. «Piacente, sì».
«Vorrei che fosse qui, così potresti conoscerlo. Capiresti quanto sa essere affascinante».
«Mi dispiace che non ci sia. Ma forse tornerà prima che io riparta, è possibile?».
Di nuovo un lieve corruccio ad aggrottare le sopracciglia di Lily. «Mi piacerebbe saperlo. Strano che se ne sia andato senza dirmi nulla. Beh, senza dubbio avrà avuto un motivo più che valido. Ad ogni modo, stare qui a parlare di questo non ci procurerà il pranzo».
Aprì una porta in fondo alla stanza che conduceva a un bugigattolo con angolo cottura. «Posso preparare dei panini. Entra».
Miss Rachel la seguì nella squallida stanzetta. «Sembra un po’ soffocante qui dentro, non credi? Potremmo... potremmo aprire la finestra?».
Lily alzò lo sguardo verso la piccola lastra di vetro macchiato sopra il lavello e rise allegra. «Quella finestra è finta. Non sono mai riuscita ad aprirla. Vedi?». Le grosse braccia bianche provarono a forzarla senza riuscire a smuoverla. «Immagino che l’abbiano messa qui per aiutare la gente a farsi i muscoli».
Lily prese a imburrare delle fette di pane e poi le condì con salsiccia di fegato. Canticchiava un motivetto. A un certo punto estrasse un lungo capello biondo da un tramezzino e lo gettò nel lavello, dove si posò desolato sui piatti sporchi.
Miss Rachel sondò il terreno: «Se qualcosa ti preoccupa, Lily, vorrei saperlo. La tua telefonata...».
La nipote assunse un’espressione sconcertata e innocente. «Che cosa, zietta? La telefonata? Oh, non devi agitarti per quello! Sei ancora preoccupata?».
«Un po’», ammise Miss Rachel. «Sembravi... spaventata».
Lily smise di canticchiare. Era concentrata a scegliere le parole con cura. «Beh, c’è una cosetta. Niente di troppo importante. Ma ho deciso che posso occuparmene io. Più o meno». Questo la zia lo aveva già capito. «È solo... solo una piccola faccenda di soldi. Tutto qui».
La situazione cominciava a suonare familiare. Miss Rachel proseguì con delicatezza: «Soldi che devi a qualcuno? È così?».
Lily spinse un piatto di panini sul tavolo e fece segno alla zia di sedersi. Il suo viso era inespressivo. «Sì, soldi che devo a qualcuno». Miss Rachel fissò intensamente le due fette di pane con il ripieno che fuoriusciva grigio e unto. «Tanti soldi?», chiese.
Mentre masticava il panino Lily stava considerando se dirle la verità o mentire. Poi: «Circa un migliaio», ammise.
Ci fu un momento di silenzio. «È quasi il tuo reddito annuo, vero?».
«All’incirca».
«Volevi... volevi che ti aiutassi io, Lily?».
«Stamattina mi è venuta una idea assurda. È stato allora che ti ho chiamato. La memoria deve giocarmi brutti scherzi. Poi mi sono ricordata che il tuo denaro è in amministrazione fiduciaria come il mio».
Separando il grano dal loglio, Miss Rachel decise che quest’ultima affermazione non era esattamente vera. La memoria di Lily non era così pessima, aveva ricevuto troppi promemoria sullo stesso tema in passato. «Sì, è in amministrazione fiduciaria», disse Rachel con accuratezza, come se fosse un argomento nuovo. «Ce l’ho messo io stessa alcuni anni addietro. Vedi, Jennifer e io abbiamo fatto degli investimenti sbagliati con il denaro che papà ci ha lasciato. Philip ha investito il suo nella sua impresa: è di quello che tu benefici, Lily. Ma è stata Agatha l’unica capace di trasformare la sua parte di eredità in vero denaro. È stata molto accorta».
Lily rise, rude e amareggiata. «E di quel denaro è Samantha che ne beneficia!».
Miss Rachel tese una mano delicata. «Non essere risentita, Lily. Ricorda che era il denaro di Agatha. E lei era diventata un po’... un po’ strana verso la fine. Diffidava di tutti. Ripeteva in continuazione che la gatta era la sua unica amica e riversava tutto l’affetto di cui era capace la sua povera anima su quell’animale. A te sembra crudele avere bisogno di denaro e sapere che appartiene a un gatto. Ma non c’è nulla da fare se non aspettare. Per Jennifer o per me non ha più importanza. Abbiamo a sufficienza per le nostre necessità».
«Altroché! Voi percepite tutte le rendite provenienti da quel che Agatha ha lasciato!».
«No. Non tutte. Solo abbastanza da pagare le spese necessarie alla cura di Samantha. Sii paziente, Lily».
Lily respirò affannosamente dal naso e lanciò alla zia un lungo sguardo. C’era stanchezza e apprensione in quello sguardo, e una determinazione che andava montando. «Non importa, in ogni caso», disse. «Ce la farò».
Prima di prepararsi per andare a dormire, Miss Rachel lasciò uscire un po’ Samantha in cortile.
Non si vedeva la luna. Nello stretto cortile all’ombra della scogliera l’oscurità sembrava di velluto. Un debole sferragliare echeggiava dal lungomare: le scariche delle pistole del tiro a segno, le grida affievolite dei venditori di biglietti nei chioschi, la calliope della giostra. Miss Rachel inspirò la fresca aria di mare e la trovò buona.
Si alzò una leggera brezza, che cambiò direzione portando con sé l’odore di pesce fritto dal ristorante accanto dove lei e Lily avevano cenato. E poi... qualcos’altro! Miss Rachel si irrigidì, lì nel portico sul retro. Voltò la testa, inspirando forte l’aria nei polmoni. Un’espressione di paura le si disegnò sul viso. Cercò di afferrare il proprio cuore che sembrava martellarle in gola.
Allora ebbe difficoltà a far funzionare la voce. «Qui, micia micia!». Si chinò tendendo le mani.
La gatta non venne subito. Per un lungo istante Miss Rachel rimase lì in quella posizione imbarazzante, con gli arti che tremavano come per un freddo improvviso.
Poi arrivò Samantha, affiorando dalla notte. I suoi occhi vagarono dorati su per i gradini come se lì ci fossero solo loro due, poi la luce alle spalle di Miss Rachel restò impigliata nel luccichio del suo pelo. Le strofinò contro il polso un piccolo orecchio duro. Miss Rachel la condusse nell’ingresso e la prese in braccio. Dalle fauci della gatta pendeva un pezzo di carne cruda, abbastanza fresca, tagliata con un coltello.
Miss Rachel aprì a forza quelle fauci riluttanti. Mise giù la gatta e girò il pezzo di carne verso la luce. Si intravedeva lo scintillio di una qualche sostanza cristallina non dissolta del tutto.
Tornò in camera, con la gatta che la seguiva da vicino come le piaceva fare. Pose Samantha nel cesto. Quel pezzo di carne era un enigma. Alla fine, svuotò il vasetto della crema per il viso spingendone il contenuto nello scarico del lavabo. Mise il pezzo di carne nel vasetto, avvitò stretto il coperchio in modo che nessun animale affamato potesse prenderlo e farlo cadere dalla finestra, sulla sabbia.
Il tenente Mayhew lamenta di non essere stato chiamato in questa fase del gioco, che stava già prendendo una forma piuttosto sinistra, con possibilità che si profilavano da ogni parte. Pensa che avrebbe potuto fare qualcosa... solo, non è certo di cosa. Ma è sicuro che il suo fiuto di detective avrebbe sentito puzza di ratto morto.
Miss Rachel obietta che non si può sentire la puzza di un ratto che è stato quasi ucciso, e che ad ogni modo non si trattava di un ratto ma di un gatto. Osserva, inoltre, che in tutto quel pasticcio l’unica cosa che avevano capito fin dall’inizio era perché alla gatta fosse stata data della carne avvelenata.
Avevano compreso subito quale fosse il movente di questo crimine minore, il che non era stato di alcun aiuto nel seguito delle indagini.
1 Dipinto di Archibald Willard realizzato nel 1875 per celebrare il centenario della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti.
Capitolo tre
Miss Rachel riceve una lettera
Nell’istante in cui aprì gli occhi, Miss Rachel fu subito conscia di alcune cose: il chiaro di luna che premeva come una mano candida contro la sua finestra, il cupo ticchettio del suo orologino, lo sciabordio della risacca, il cuore che le batteva forte e rapido. E quell’altra cosa. Si guardò intorno nell’oscurità della piccola stanza. Non c’era nessuno lì dentro a parte lei.
Doveva venire da fuori, oltre la porta, quel rumore di graffi, di artigli. Unghie che dal corridoio grattavano il margine inferiore della sua porta.
«Chi c’è?», chiese nella notte. Non ci fu risposta e il grattare si fermò all’improvviso. Il ticchettio dell’orologino, lo sciabordio della risacca. Passò un minuto al chiaro di luna.
Miss Rachel si alzò a sedere sentendo il freddo che la accarezzava. Mise fuori dal letto un piede, in ascolto. Le ci volle un po’ per raccogliere il coraggio sufficiente ad arrivare fino alla porta, aprirla e sbirciare fuori.
Era Lily, riversa bocconi nel corridoio. Si vedeva che era senza corsetto, il corpo rilassato nella squallida vestaglia e i capelli scarmigliati che le coprivano i lineamenti del volto. Non era morta, però. Non appena Miss Rachel si chinò su di lei, gemette e si mosse. Rachel sentì la propria voce echeggiare debolmente nel corridoio vuoto e male illuminato. Era rauca, aveva la gola secca e le parole le tremarono. «Lily! Lily! Alzati!». Afferrò la veste da camera ma all’improvviso Lily si mosse, strappandole il tessuto dalle mani. «Lily... Rispondi! Sei ferita?».
D’un tratto c’erano altre persone nel corridoio. Erano apparse come fantasmi da ogni direzione, gli spifferi sollevavano le loro camicie da notte. La prima a raggiungerle fu una donna di mezz’età, piuttosto alta, la cui magrezza era accentuata dal giallo tenue della luce in fondo al corridoio. Si chinò su Lily, fissandola intensamente. In preda al panico, Miss Rachel ebbe l’illusione di conoscere il nome della donna, di poterlo pronunciare se avesse voluto. Doveva essere a causa dello spavento per Lily. Quando la donna macilenta alzò gli occhi e Rachel vi lesse la rabbia e il disprezzo, l’illusione svanì.
«Cos’è questa confusione? Cos’è successo alla signora Sticklemann? Perché è sul pavimento?».
Lily gemette una risposta incomprensibile.
«Sono la proprietaria, qui. Non posso permettere che accadano cose del genere. Questa è una casa rispettabile».
Tornò a guardare in basso e di nuovo Miss Rachel avvertì il curioso impulso di chiamarla per nome, un nome in qualche modo dimenticato. Ma lei conosceva il nome della donna e non aveva nulla di familiare. Lily le aveva detto come si chiamava la proprietaria: era la signora Turner.
In quel momento una ragazza, con un piccolo viso ovale e capelli lunghi simili a una matassa di seta gialla, si chinò accanto a Miss Rachel. Era così pulita e luminosa, e aveva un profumo così dolce, come di fiori bagnati di rugiada, che Miss Rachel, anche in preda alla paura e allo sconcerto, non poté fare a meno di notarla. Con lei c’era un’altra donna, che stava uscendo nel corridoio dalla porta di fronte a quella di Miss Rachel. Era una donna più matura, aveva gli occhi spalancati e tuttavia amari, e i capelli erano grigi. La ragazza aiutò Miss Rachel a voltare Lily e vide il suo viso. Si alzò all’istante e a bassa voce disse qualcosa all’altra donna.
Si allontanarono entrambe, la ragazza aveva l’aria di aver toccato qualcosa che avrebbe preferito non toccare. Ma quando vide le fragili braccia di Miss Rachel combattere con il corpo abbandonato di Lily, si chinò di nuovo e l’aiutò a sollevarla.
Altre due persone, un uomo e una donna, arrivarono dalla parte anteriore della struttura, ma rimasero indietro senza prestare aiuto. La signora Turner diede una mano con riluttanza. «Se è una crisi», ammonì con durezza, «state attente che non vi morda. Può capitare con le crisi».
Portarono Lily a letto e poi lasciarono la stanza, tutti tranne Miss Rachel. Lily non era del tutto priva di conoscenza: gli occhi vagavano per la stanza, che aveva le luci accese. Sembrava molle e intontita. Sul mento si vedeva chiaramente un’abrasione rossa, come se fosse stata colpita di striscio da un pugno. Una serie di segni andavano scurendosi sulla pelle del collo fino a prendere la forma di dita. Il suo respiro riempiva la stanza.
Nessuna delle due parlò per un bel po’. Miss Rachel guardava la finestra. Il chiaro di luna sbiadiva e mutava, e fuori il paesaggio cominciava a prendere forma nel grigiore dell’alba.
Alcuni banchi di nebbia passarono sulla brezza mattutina. Una luce si accese nella finestra sul retro del ristorante lì accanto e risuonò un debole acciottolio di pentole. Miss Rachel riusciva a sentire l’odore del caffè in preparazione.
Tornò a guardare Lily quando era ormai quasi giorno e si trovò addosso gli occhi del donnone che la fissavano. Miss Rachel si sporse dalla sedia a toccare la coperta con delicatezza. «Ti senti meglio?».
Lo sguardo di Lily era di pietra. «Sto bene».
«Vorrei sapere che cosa è successo».
«Non posso dirtelo».
Miss Rachel tornò a sedersi. «Non è mia intenzione essere indiscreta, Lily. Vorrei solo aiutarti, se possibile».
«Non puoi aiutarmi. Nessuno potrebbe. Ci sono dentro fino al collo».
Rachel si sporse di nuovo in avanti, solo un pochino. «Non puoi esserne sicura. Potrebbe esserci qualcosa che posso fare. Lasciami provare». Lily guardò il soffitto senza rispondere. «Non devi pensare che io voglia... interferire con i tuoi affari. Non voglio, davvero. Se si tratta di qualcosa che puoi gestire da sola, ben venga. Ma se non è così... Vedi, Lily, non posso fare a meno di ricordare che eri la bambina di Philip. Nessuna di noi ha mai avuto bambini... Una volta sei caduta dalle scale a casa nostra. Io ti ho sollevato e medicato il ginocchio. Ricordi?».
Nessuna risposta. Lily guardava fuori dalla finestra e Rachel notò il brillio delle lacrime riflesse sul vetro. «Anche solo parlarne può essere d’aiuto. Sembra che qualcuno ti abbia... ti abbia aggredito. Ha qualcosa a che fare con il tuo debito, quello di cui mi hai parlato?».
Lily mosse la testa una sola volta in un muto assenso.
Miss Rachel proseguì con cautela. «E riguardo al fatto che vivi qui, in questo strano posto. È così diverso dagli altri posti in cui hai vissuto. Posso capire che tu stia qui provvisoriamente, finché non trovi di meglio. Una casa di ripiego, insomma... Stai cercando di risparmiare per ripagare il tuo debito?».
Era stata cauta, ma capì dall’espressione di Lily di aver fatto un passo falso. La donna si voltò di scatto: adesso era sulla difensiva, gli occhi carichi di rabbia. «Mi piace qui», sbottò. «Ed è per questo che ci vivo: perché mi piace. Non ha niente a che fare con il mio debito. Niente. Perciò lascia perdere».
Miss Rachel si scusò. Sentiva di aver oltrepassato un qualche limite invisibile a cui avrebbe dovuto prestare attenzione. «Chiedevo soltanto», mormorò. «Per favore, non essere arrabbiata».
Lily si ammorbidì e cercò la fragile mano della zia. «Non sono arrabbiata, zietta. Mi dispiace se ti sono sembrata irritata. È solo che a volte mi ricordi mio padre. Per come vedi le cose, intendo. Parlava sempre di buongusto ed eleganza, cose così. Non gli sarebbe piaciuta questa casa. Lo sai anche tu che non gli sarebbe piaciuta. Ma io so quando sono più felice. Ero... voglio dire, sono felice qui. E intendo rimanerci. Solo che adesso è diventato imbarazzante perché pure le persone a cui devo il denaro vivono qui. Ma le pagherò. E non me ne andrò».
Miss Rachel strinse la mano più forte, in ansia. «Ma qui sei in pericolo. Non puoi restare! Anche se qui è... piacevole, non puoi. È pericoloso. Lo sento! Per favore, vieni via».
Ma Lily scosse il capo. «No, zietta. Non posso andarmene. C’è un motivo preciso per cui devo rimanere. Non posso spiegarti, e non posso andarmene».
«Allora dobbiamo almeno vedere di raccogliere un po’ di denaro. Oggi tornerò in città. Non avevo capito che fossero così impazienti...». Le sembrò una parola inadeguata a descrivere i sentimenti dei creditori di Lily, ma era troppo stanca per cercarne un’altra.
La nipote continuava a scuotere il capo, i capelli si muovevano flosci e monotoni sul cuscino. «No. Non fare niente. Non c’è niente che tu possa fare per aiutarmi».
«Potrei riuscire a mettere insieme un migliaio di dollari».
Lily alzò il viso duro. «Non si tratta più di mille dollari, zietta. Loro... loro ne vogliono duemila adesso».
Miss Rachel non provò nemmeno a rispondere questa volta. Non c’era molto da dire. I pensieri la fecero sentire male. Il guaio in cui si era cacciata Lily era più grave, più sinistro delle altre volte. Era stata aggredita in camera sua o nel corridoio, ed era stata strangolata fino quasi a perdere i sensi. Il suo debito era raddoppiato in un qualche momento durante le ore in cui Miss Rachel aveva dormito. Era disorientante, e spaventoso.
Un brivido freddo corse lungo la schiena di Rachel mentre si sedeva accanto al letto della nipote. Ricordò con improvvisa nostalgia che quello era il giorno in cui veniva a casa la donna delle pulizie e che di lì a poco Jennifer, in cuffietta e grembiule, avrebbe accolto la signora Brannigan alla porta della loro grande casa. Desiderò essere lì, invece che in quella stanza sgradevole e soffocante con Lily che guardava il soffitto attraverso le lacrime.
Provò l’impulso di tornare a casa. Ma Lily era stata la bambina di Philip negli anni perduti in cui Miss Rachel era giovane, e quella stessa bambina – trasformatasi non si sa come in una donna un po’ rozza – adesso aveva bisogno di aiuto. La guardava attraverso gli occhi di Lily, la supplicava con la voce di Lily. Miss Rachel si smarrì in un sogno ad occhi aperti, ricordando ciò che era stato.
Fu Lily a riscuoterla da quella gelida distanza. Trasalì toccando la mano di Miss Rachel, così fredda. «Torna a letto a dormire, zietta. Andrà tutto bene. Vai».
Miss Rachel si alzò, avvertendo il riverbero della stanchezza nelle ossa indolenzite. Lily non si voltò per guardarla andare via.
Rachel cercò di assopirsi, raggomitolata nelle coperte, nel grande letto affossato, ma il sonno non arrivava.
Alla fine, un debole miagolio le offrì la scusa per alzarsi. Scese dal letto e fece uscire Samantha dal cesto. La gatta nera si inarcò con grazia, chiuse gli occhi per sbadigliare, rivolse uno sguardo di scuse in direzione della sua padrona e attraversò la stanza sulle zampette silenziose, annusando gli oggetti.
Quando uscì nel corridoio con la gatta sottobraccio, si ritrovò faccia a faccia con la ragazza e la signora che aveva visto la notte precedente. La ragazza era vestita di bianco, con semplicità ed eleganza, i capelli color dell’oro erano legati con un nodo sul collo. Era molto dritta, dritta come un’indiana, pensò Miss Rachel, pur non avendo mai visto in carne ed ossa un esemplare di pellerossa. La madre, alle sue spalle, sembrava stanca e sopraffatta. Le labbra tese celavano una qualche emozione repressa. Era alta quanto la figlia, ma non era più dritta come lei: era curva come un albero ritorto.
Rachel indugiò, aspettandosi che le chiedessero di Lily. Le donne mormorarono un saluto veloce e passarono oltre, in direzione della porta.
Miss Rachel trovò la porta di Lily nella penombra e bussò; e subito la nipote aprì. Aveva la gola bendata con un fazzoletto di cotone grezzo – per nascondere i lividi, pensò Rachel – e sul suo volto erano evidenti i segni delle lacrime. «Entra, zia Rachel. Ecco una sedia. Immagino che tu abbia fame. Sono le nove passate. Ho un po’ di roba per la colazione. Preparo subito».
Miss Rachel disse di non aver appetito. Aveva notato le macchie d’inchiostro sulle grosse dita di Lily e la busta appoggiata sul cassettone. Sulla busta era scritto il nome della zia in un ampio scarabocchio. Si avvicinò con cautela. «Questa è per me?».
Lily lanciò alla busta un’occhiata riluttante. «Sì. È per te. Avevo intenzione di dartela dopo la colazione, ma tanto vale farlo subito». Prese la busta e la guardò in modo strano prima di porgergliela. Era chiaro che ci stava ancora riflettendo su. «Ecco a te, zietta. Tienila al sicuro da qualche parte. Non deve essere aperta, a meno che non mi accada qualcosa». Guardava la zia dritta negli occhi, e per una volta Miss Rachel non trovò alcuna traccia di dissimulazione sul suo volto. «In caso io muoia, intendo. Allora devi aprirla e leggerla».
Miss Rachel strinse la busta. «Lily, hai davvero così tanta paura? Sai con certezza di essere in pericolo qui?».
Lily scosse la testa con determinazione. «Non credo di esserlo. Non in vero pericolo. Ma stanno diventando violenti. Questo ormai lo sai anche tu».
«Lily...». Ma Lily rispose alla sua supplica con insipida immobilità. Era come se stesse parlando al vento. Ma doveva insistere. Implorò di nuovo la nipote di venir via con lei.
Lily voleva fare colazione. Rise, di un riso che non era sincero, e spinse la zia verso il cucinino. Mangiarono pane tostato, uova strapazzate e pancetta. Lily trangugiava il cibo con soddisfazione, ma Miss Rachel non riusciva a costringersi a essere allegra.
Se qualcosa preoccupava Lily, doveva essere Charles Malloy. Era loquace su quest’unico argomento. Il signor Malloy era via ormai da quasi tre settimane. «Se tornasse lo saprei subito», le confidò Lily. «La sua camera è proprio di fronte alla mia e lo sentirei. Ma non è mai rientrato... per tutto questo tempo. Mi manca».
Gli occhi luminosi di Rachel la guardarono comprensivi. «Sei molto affezionata al signor Malloy, non è vero? Siete fidanzati?».
Lily abbassò la forchetta e meccanicamente raccolse qualche briciola di uova dal labbro inferiore con la punta della lingua. Nello sguardo che rivolse alla zia c’era qualcosa di più che sorpresa: preoccupazione, paura, stupore.
«Che cosa vai dicendo!», sbottò infine, e di nuovo si leccò le labbra senza pensarci. Si stava riprendendo. «Via, zietta! Non mi prendere in giro! Siamo ottimi amici... amici...».
Miss Rachel non fece nulla per impedire alle sopracciglia curate di sollevarsi un po’. La cosa spaventò di nuovo Lily, che spezzò un po’ di pane, nervosa. «Dagli tempo! Ci conosciamo a malapena! Dopotutto...».
Non riusciva a cambiare argomento, né a smettere di guardare la zia. «Cos’è che te lo fa dire, zietta? È buffo, terribilmente divertente! Il signor Malloy è stato carino con me. Siamo stati insieme al cinema e a ballare e ai concerti sulla spiaggia. È un brav’uomo». Abbozzò una risatina soffocata, sputacchiando qualche briciola sul piatto. «Fidanzati! Oh, zietta! Se sapessi come suona buffo. Siamo soltanto amici...».
Miss Rachel guardò fuori dalla finestra la parete macchiata dell’edificio accanto. Richiamò le sopracciglia al loro posto. Stava pensando tra sé, modellando i pensieri sul chiacchiericcio di Lily. Desiderava che la smettesse. Lily stava mentendo e lei lo sapeva.
Nel calore salmastro di mezzogiorno Miss Rachel andò a scrivere alcune lettere in veranda.
Surf House – questo era il nome che la pensione vantava, su una tavola appesa sopra la porta – non aveva un atrio a disposizione degli inquilini, ma quello che avrebbe dovuto essere il primo appartamento entrando a destra aveva una vetrata che dava sulla spiaggia ed era arredato con un dozzinale divano in vimini, uno scrittoio, alcune tristi sedie a dondolo verniciate e un portavaso con una felce. La vista era bella. Vicino ai gradini c’era un ampio viottolo di cemento, e poi la spiaggia di sabbia sulla quale ombrelloni sgargianti spuntavano come funghi, e all’orizzonte il luccichio blu del mare.
Allo scrittoio una bambina di forse cinque anni giocava con dei fogli. Era una bimba esile, dai capelli chiari, il viso giallognolo e affilato, e ginocchia e gomiti sporgenti. Osservò Miss Rachel con superficiale antipatia.
«Sono Clara», annunciò, «rimanendo allo scrittoio».
Miss Rachel accolse la presentazione con un sorriso gentile. Chiese di poter usare lo scrittoio per qualche minuto. Clara la guardò di traverso, voltando la testa come avrebbe fatto un uccello. «Potrei lasciarti lo scrittoio», disse scaltra, «se tu mi dai un penny».
Miss Rachel frugò nella borsetta. «E che cosa farai con il penny se te lo do?».
Un’espressione di indignazione comparve sul viso giallognolo. «Scommetto che so cosa stai pensando. Pensi che voglio comprare delle caramelle. Non è vero?».
«Oh, no. Non pensavo affatto alle caramelle. Mi chiedevo solo che cosa farai con il tuo penny quando lo avrai avuto».
«Beh, non andrò a comprarmi delle caramelle, nossignore!», disse Clara mettendosi ben dritta, l’esile schiena come una verga. «Le caramelle fanno venire il mal di pancia e fanno cadere i denti. Lo so, okay. Ma ti dirò un segreto: voglio il penny per prendere qualcosa a mia mamma». Lo sguardo scontroso svanì per un momento in un gran sorriso, poi tornò e gli occhi della bambina s’indurirono. «Non andrai a raccontarlo? Vedi di non dirlo. Sarà una sorpresa, quando avrò abbastanza soldi».
«Non lo racconterò. Ecco un penny».
La bambina prese la moneta e scivolò via dalla sedia. Valutò Miss Rachel con franchezza. «Lo sai? Non sei una vecchia signora brutta. Anche se hai i capelli bianchi».
«Grazie», rispose Miss Rachel con solennità, accomodandosi sulla sedia. «Non ti piacciono le signore anziane?».
«La maggior parte di loro no. Però immagino che tu potresti piacermi. Non sembri arrabbiata o scontrosa. Ti piacciono le bambine?».
Miss Rachel guardò il volto stretto. «Mi piacciono molto», rispose. «Un tempo desideravo averne una mia».
«E non l’hai avuta?».
«No. Mai».
Lo sguardo diffidente si ammorbidì per un momento. Poi: «Mi dispiace. Mia mamma dice che non possiamo avere tutto». Clara si diresse imbarazzata verso la porta. «Arrivederci». Oltrepassò la porta, poi la sua testa fece di nuovo capolino. «Non lo racconterai, vero?».
Miss Rachel la rassicurò e la testolina sparì.
Scrisse due biglietti (uno era per Jennifer), li mise nelle rispettive buste e annotò gli indirizzi. Rovistò nella borsa e aggiunse qualcosa dentro una delle buste. Poi si alzò per andarsene.
La porta dell’appartamento dall’altra parte del corridoio si aprì e ne uscì una donna. Era alta e pettoruta, indossava un bel vestito e guardava sfacciatamente davanti a sé. C’era un che di arrogante nel suo modo di camminare. Fece alcuni passi, guardando Miss Rachel in maniera diretta. Il suo sguardo vagliò il minuscolo cappello di Rachel, la giacca pesante, la borsetta e le lettere che aveva in mano. «Buongiorno!», esclamò con voce suadente. «Sta uscendo?».
Incrociando il suo sguardo, Miss Rachel vi trovò qualcosa di velenoso. «S-sì», balbettò. «Sto uscendo».
«Anch’io», disse mellifluo il donnone. «Sono la signora Scurlock. È bello avere qualcuno con cui passeggiare. Andiamo?».
Miss Rachel strinse più forte le lettere. Desiderava disperatamente una via di fuga. Non ce n’erano, a meno di essere davvero sgarbati. E questo non rientrava nelle sue abitudini. «Io però... Dovrà aspettare. Devo tornare in camera a prendere una cosa».
Il volto scuro si ricompose. «Sarò lieta di aspettarla. Mi troverà proprio qui al suo ritorno».
Il tenente Mayhew, che in seguito ebbe modo di conoscere bene la signora Scurlock, ha poi domandato a Miss Rachel perché, tornata in camera, non si sia nascosta sotto il letto. Ma lei sostiene di non aver provato affatto un simile impulso. Andò semplicemente in camera a prendere la gatta nel cesto e raggiunse il donnone alla porta d’ingresso.
C’era un bel tepore dentro la vecchia casa ma all’aperto il vento era freddo. Scesero insieme nella zona dei divertimenti e la trovarono molto tranquilla a quell’ora del giorno. Alcune persone pranzavano nei ristoranti, altre se ne stavano distese in spiaggia, ma i chioschi erano deserti. Le due donne non parlavano. La signora Scurlock aveva un’aria risoluta, calma, determinata. Miss Rachel sembrava un topo che valuta con ponderazione un nuovo tipo di trappola.
Giunsero a una buca delle lettere dove Miss Rachel depositò le due buste. Poi si voltò verso l’alta e mascelluta signora Scurlock. «Ero uscita solo per questo. Devo rientrare adesso».
La signora Scurlock la prese molto bene. «E io sono uscita solo a prendere un po’ d’aria», disse. «Devo tornare anch’io».
Capitolo quattro
Omicidio
La signora Scurlock passò una grossa mano pesante sotto il gomito di Miss Rachel e la aiutò a voltarsi. A Miss Rachel era già capitato di essere aiutata in passato – agli angoli delle strade da signori galanti che sottovalutavano la sua prontezza di riflessi, e in mezzo al traffico da gioviali poliziotti irlandesi che avevano delle nonne a casa – ma non era mai stata accompagnata con una così greve cortesia o una tale forza coercitiva. I suoi piedini scalpicciavano obbedienti accanto alle calme falcate della signora Scurlock e, anche se non era tipo da cedere alla paura, il cuore aveva cominciato a battere forte.
Fu scortata alla pensione in minaccioso silenzio. Le accolse sui gradini all’ingresso un uomo alto, di un biondo scialbo, i cui abiti erano troppo corti e gli occhi troppo ravvicinati nel viso lungo. Quando le vide si illuminò. Compose il volto a un sorriso.
«Beh! Chi è la tua nuova amica, Donna? Non mi presenti?». Fece un inchino massaggiandosi i guanti gialli.
La signora Scurlock con gran disinvoltura spinse Miss Rachel sul primo gradino. «È la zia della signora Sticklemann. Miss Murdock, vorrei presentarle mio marito, il signor Scurlock».
Suonava come se fosse stato tutto preparato. La mano di Miss Rachel fu stretta in un guanto giallo e i suoi occhi si trovarono davanti una gran quantità di denti. «Sono così felice di incontrarla, Miss Murdock. Conosciamo piuttosto bene sua nipote. Ci ha raccontato così tante cose affascinanti su di lei... Non vedevamo l’ora di incontrarla! Lei sembra un ritratto, se posso permettermi. Un ritratto dell’album di Nonno. Ah, ah! Non badi alle mie farneticazioni».
Miss Rachel provò per lui un’antipatia talmente intensa che non osò parlare. Mormorò qualcosa nella sua direzione. Sembrò che i due la volessero circondare in un modo o nell’altro e lei fu sospinta nel corridoio. «Non vuole entrare da noi per un minuto?», la signora Scurlock le sussurrò all’orecchio, proprio come il famoso ragno deve aver detto alla sua mosca. «Ci piacerebbe tanto conoscerla meglio. Non è vero, Herbert?».
Miss Rachel tentò di divincolarsi. La presa della signora Scurlock era di ferro. «Moltissimo. Davvero moltissimo», rispose il signor Scurlock prendendo la sua chiave.
Miss Rachel strinse il cesto di Samantha; era pronta ad arrischiare un flebile belato di aiuto e darsela a gambe. Ma fu in quel momento che Lily irruppe nel piccolo gruppo. Si era avvicinata silenziosamente nelle sue pantofole da camera. Il volto in fiamme al di sopra del ruvido fazzoletto. Li raggiunse e strappò via la minuta zia dalle mani della signora Scurlock.
«Lasciate stare mia zia», disse con asprezza. «Lei non c’entra».
Gli Scurlock la studiarono, ognuno a suo modo: la signora Scurlock sfacciata e arrabbiata, il signor Scurlock con un ghigno di disagio. Lui infilò la chiave nella serratura. «Non dimentica qualcosa?».
Lily scosse la testa. Deglutì a fatica e il fazzoletto di cotone si mosse. «No. Non dimentico. Ma mia zia non c’entra niente con questa storia... proprio niente. Chiaro?».
Gli occhi odiosi della signora Scurlock indugiarono sul volto di Miss Rachel. «Non era così all’inizio», sussurrò. «Dovevamo tutti collaborare. Come amici». Rise.
Lily le rivolse un’occhiataccia e condusse via la zia. «Non ascoltarli», disse furiosa. «Non fare caso a loro». Entrarono nella quiete della camera di Miss Rachel.
«Chi sono, Lily? Davvero conosci persone del genere?».
«Conoscere non è la parola giusta. Li ho addosso. Devo loro del denaro, stupida che non sono altro».
Miss Rachel lesse l’amarezza sul volto di Lily. «Quel denaro? Il debito di cui abbiamo parlato prima?».
Un’espressione diffidente attraversò il volto di Lily. Respirò affannosamente per un istante, senza dire nulla. Poi: «Non fare domande, zia Rachel. Non posso spiegarti. Voglio solo che tu dimentichi tutto questo. E stai alla larga da quella gente, per l’amor del cielo!».
A un tratto Miss Rachel si guardò intorno nella squallida stanza come se la vedesse per la prima volta. «Che cosa ci trattiene qui?», sussurrò. Lily le chiese brusca che cosa avesse detto. Miss Rachel provò a mentire: «Stavo pensando che non mi sono piaciute quelle persone... gli Scurlock. Sono così untuosi, melliflui, duri e... cattivi. E pericolosi, Lily».
Lily guardò altrove. Frugò nella tasca della veste da camera in cerca di una sigaretta. Guardò la zia al di sopra della fiammella. «Loro pensano di essere molto furbi», commentò con un ghigno. «Credono di avermi in pugno. Ma sarò io ad avere la meglio su di loro. Vedrai se non è così».
«Io non scherzerei con questa gente. Se devi loro dei soldi sarebbe meglio pagarli e farla finita».
Lily soffiò un grosso fungo di fumo e gettò il fiammifero in un angolo. «Mangiamo», disse con voce piatta. «Ho chiamato la gastronomia, ho ordinato un po’ di roba. Sembra buona».
A Miss Rachel pareva di non aver fatto altro che mangiare da quando era arrivata in quella casa sinistra. Se c’erano dei piaceri di cui godere a Breakers Beach, lei ne aveva visti ben pochi. Avevano trascorso la maggior parte del tempo in camera di Lily. Sua nipote sembrava a stento aver voglia di parlare. Sedeva immobile per gran parte del tempo, o stravaccata sul letto con gli occhi vacui. Aspettava qualcosa, c’era in lei una parvenza di attesa perplessa. Si rianimava solo all’ora dei pasti. L’appetito non le mancava mai.
Miss Rachel lasciò la gatta in camera e andò da Lily.
Ancora una volta incontrò in corridoio la ragazza con la madre – di nuovo una coincidenza?, si chiese. La donna indietreggiò quando intravide Lily, mentre la ragazza rimase immobile, a testa alta. Aspettarono, tese e in silenzio, che Lily le oltrepassasse. Lily non prestò loro nessuna attenzione, solo un veloce sguardo. Il corridoio non era ben illuminato – appena un fioco riflesso del bagliore proveniente dalla spiaggia rischiarava la scena attraverso la porta d’ingresso aperta – ma Miss Rachel si accorse che la donna si era voltata con espressione disgustata per evitare il fumo della sigaretta di Lily e che la ragazza aveva guardato la madre con occhi pieni di pietà.
Entrarono nella camera disordinata di Lily. «Conosci quelle persone?», chiese Miss Rachel.
Lily scosse la zazzera gialla. «No, non le conosco. Sono nuove qui. Non ti avevo detto che sono arrivate solo l’altro ieri? Non so nemmeno come si chiamino».
«La ragazza è molto carina, non è vero?».
«Abbastanza, immagino. Un po’ magrolina».
«Il suo viso ha qualcosa di familiare. Non ti ricorda qualcuno che conosciamo, Lily? Non riesco a capire a chi assomigli... ma somiglia a qualcuno...». Miss Rachel corrugò la fronte, pensierosa.
«Non l’ho notato. Vieni in cucina e mangiamo».
Pranzarono. Lily si rimpinzò soddisfatta. Rachel beccava il cibo come una gallina convulsa.
Non aspettò che fosse sera per far uscire Samantha a sgranchirsi. La portò in cortile intorno alle cinque. Sedette per circa mezz’ora a guardare la gatta che giocava, poi si alzò dai gradini e la chiamò. E iniziò la frana.
Alcuni sassolini si mossero in cima alla scogliera, raccogliendo altri detriti e acquistando velocità man mano che precipitavano a ventaglio giù per il pendio. La gatta guardò dietro di sé, incuriosita dal rumore. Miss Rachel la chiamò di nuovo. Alcuni grossi massi vennero giù con un tonfo, spinti dalla sommità. La gatta si inarcò e soffiò. Una pietra la colpì alla coda e lei urlò infuriata correndo dalla padrona.
Sul volto solitamente tranquillo di Miss Rachel si disegnò un’espressione di fredda rabbia. Rimase in piedi a osservare la sommità della scogliera. Passò un minuto, due, e poi qualcosa comparve tra le foglie verdi degli arbusti. Qualcosa di colore chiaro e luccicante. Si alzò, rivelandosi una linea di capelli attorno a una testa umana. Capelli biondi, ma gli occhi non si vedevano: sbirciavano, nascosti, attraverso le foglie. Dopo un istante la testa era sparita.
La sera scese uggiosa insieme alla nebbia che arrivava dal mare. La vecchia casa sulla spiaggia era come isolata. Avrebbe potuto essere una nave a mille miglia da terra. La nebbia premeva umida contro la finestra di Miss Rachel, come ovatta contro il vetro. Non era possibile vederci attraverso e anche i rumori erano attutiti. L’aria era densa e umida da respirare e aveva un forte odore di mare. Anche tra le quattro squallide pareti della sua camera Miss Rachel poteva sentire che il fragore della risacca si era fatto più forte. Sotto la nebbia la marea stava salendo. Il vetro instabile vibrò con un rantolo spettrale, attirando l’attenzione risentita della gatta. Gli occhi dorati rimproveravano la padrona per quell’ambiente desolato. Miagolò una volta, sconsolata.
Alle venti e trenta Miss Rachel mise via il libro che stava leggendo per prendere il suo tonico, che aveva dimenticato nell’agitazione della notte precedente. L’etichetta recitava: «Assumere due cucchiai all’ora di andare a dormire»; e per lavarsi la coscienza, ne prese quattro. Era una medicina innocua, anche se amara. Dopo la doppia dose, non ne rimase molta nel flacone.
«Ha un sapore più brutto del solito», si disse a mezza voce. «Sono felice che sia quasi finita».
Indossò uno scialle, uscì dalla camera chiudendo a chiave ed era quasi arrivata alla porta di Lily quando si accorse che la gatta l’aveva seguita nel corridoio. Due occhi ambrati brillavano ai suoi piedi.
Raccolse Samantha e si meravigliò come sempre del suo peso e della lucentezza del suo pelo.
La prima missione riguardava la signora Turner. Alla fine del corridoio si fermò davanti alla porta dell’affittacamere. Dall’interno arrivava il ronzio regolare di una macchina per cucire elettrica. Quando bussò il ronzio s’interruppe e la signora Turner aprì la porta. «Sì?», disse brusca.
La camera alle sue spalle sembrava calda e confortevole, con la macchina per cucire al centro e metri di stoffa per tendaggi gettati sul tavolo da cucito.
«Sì?», ripeté.
«Ho bisogno di qualche asciugamano», spiegò Miss Rachel.
La donna si voltò e sparì alla vista dietro la porta. Quando tornò aveva un unico asciugamano appeso al braccio. Lo porse a Miss Rachel. «Domani è giorno di bucato», disse seccamente.
Preso l’asciugamano, Miss Rachel passò da Lily per darle la buonanotte. Il ronzio della macchina per cucire si alzò alle sue spalle, più accanito che mai, come se la signora Turner si fosse risentita per essere stata sottratta alle sue tende.
Lily aveva mal di testa. Era distesa sul letto in perpetuo disordine con un panno umido sulla fronte. Era irritabile e sembrava stanca, ma quando Miss Rachel fece per tornare nella propria camera la implorò di restare. «Mi sento sola», ammise amara. «E vorrei parlare. Forse sono stata una sciocca a tenere tutto per me. Stavo pensando... Forse non sarebbe male sentire che cosa ne pensi. Ti va di ascoltarmi?».
Miss Rachel si sistemò nelle profondità di una larga e sporca poltrona di pelle e si adagiò la gatta in grembo. «Certo che mi va. Dimmi tutto ciò che vuoi».
Lily sospirò emettendo un suono aspro. Sistemò il panno umido e si passò la lingua sulle labbra. «Cominciamo con l’ammettere che è soprattutto colpa mia. Ora mi rendo conto di quanto sono stata matta. E te ne renderai conto anche tu, prima che io abbia finito. Ma magari tu puoi trovare una soluzione alla quale io non sono riuscita a pensare. Accidenti... la mia testa!». Gemette un po’. «Passami quella scatola di aspirine e prendimi un bicchiere d’acqua... lo faresti, zietta?».
Arrivarono aspirina e acqua. Miss Rachel aspettava che Lily proseguisse.
«Maledetto mal di testa! Potrei urlare. E con il pasticcio in cui mi trovo... È troppo!».
«Forse posso essere d’aiuto».
«Lo spero. Comunque, devo del denaro. Questo te lo avevo detto. Non ti ho detto che si tratta di un debito di gioco, ma è così. Non riesco ancora a capire perché non ho vinto, o piuttosto perché non sono riuscita a continuare a vincere. All’inizio la mia fortuna era incredibile».
«La tua... fortuna?».
Lily si voltò di scatto a guardare la zia. «Perché lo dici... con quel tono?», domandò.
Miss Rachel aveva un’aria innocente. «Oh, non so. Per qualcosa che hai detto, credo. Sul non vincere... Sembri così sicura che avresti dovuto».
Lily rise amaramente, ma un’ombra di qualcosa di simile alla vergogna comparve sul suo viso.
«Charles – il signor Malloy, cioè – ha un sistema per vincere al bridge. Tu lo definiresti barare, immagino. Non la pensavo così in quel momento. Quelle persone mi avevano vinto quasi cinquanta dollari. Ero furiosa e volevo riprendermi i miei soldi. Non mi sembrava sbagliato usare il genere di carte che aveva Charles, così mi ha spiegato come leggerne il retro quando venivano distribuite». Un’altra occhiata furtiva al volto della zia. «Pensi che sono pessima, scommetto. Forse lo sono stata».
Ma Miss Rachel non stava pensando che Lily era stata pessima. Riteneva che si trattasse di un trucco incredibilmente stupido. Se erano gli Scurlock le persone con cui aveva giocato, non potevano essere stati ingannati a lungo dal metodo di Lily.
La nipote continuò a parlare con un tono più sobrio. «Beh, andava bene all’inizio. Per diverse serate Charles e io abbiamo giocato in coppia contro di loro. Abbiamo alzato la posta e abbiamo vinto ancora. Poi Charles ha ottenuto un lavoro temporaneo in un negozio di oggettistica sul lungomare. Era un lavoro serale e non potevamo più giocare insieme. Ma a me piaceva l’idea di vincere. Sembrava facile a quel modo. Così ho parlato con il signor Leinster – il giovanotto che vive nell’appartamento di fronte al tuo, un tipo molto amichevole – e lui ha accettato di farmi da compagno. Ma non potevo spiegargli la faccenda delle carte. Sembra un tipo onesto. Così ho pensato che magari potevo fare da sola. Ma non abbiamo vinto... Abbiamo perso. Abbiamo continuato a perdere. Allora il signor Leinster si è preoccupato e ha detto di non potersi permettere di continuare a perdere denaro a quel modo. Zietta, io ero certa che prima o poi avremmo iniziato a vincere! Ma sì, conoscevo ogni singola carta e sapevo chi l’aveva! Se solo fossi stata in grado di pensare più rapidamente, a volte, mentre giocavamo... Beh, ho pregato il signor Leinster di rimanere in gioco come favore personale e gli ho detto che avrei coperto tutte le perdite di entrambi. Non gli piaceva l’idea, ma io l’ho implorato. Così abbiamo continuato a giocare ogni sera, e tuttavia non vincevamo. Un incubo... Ero disperata, dovevo loro un sacco di soldi. Oh, zietta, la posta in gioco si faceva sempre più alta fino a diventare agghiacciante! Ho provato e riprovato a essere prudente, a pensare a tutto. Però il bridge può farti confondere, se giocato veloce come fanno loro... Ma, zietta, mi stai ascoltando?».
Era vero, Miss Rachel sembrava eccezionalmente assonnata. Mentre Lily le parlava, si sforzava di sembrare attenta. Era ansiosa di sapere con chi Lily aveva giocato d’azzardo. Era l’unico dato che il donnone si era ostinata ad omettere.
I minuti passavano sull’orologio malandato di Lily. Quando la nipote riprese a parlare, fu con un tono diverso e di un altro argomento. «Zietta, c’è una cosa di cui mi dispiace tanto. Mi chiedevo se lo avessi capito... Volevo davvero vederti, ma c’era un altro motivo per cui ti ho chiesto di venire quaggiù. Ora mi vergogno. Vedi, sapevo che avresti portato la vecchia gatta. Io... Avevi già capito che sono stata io a... a...?». Ingoiò un singhiozzo soffocato; la sua voce si perse nel silenzio della stanza, spenta dal fragore ovattato della risacca.
Miss Rachel voleva alzare lo sguardo, ma gli occhi erano pieni di sonno. Voleva aprire la bocca e dire a Lily che lei sapeva, che capiva e che la perdonava. Ma le parole non uscivano. Sentiva la testa pesante e intontita, e la stanza oscillava lentamente fuori fuoco mentre i contorni si distorcevano in strani angoli.
Una piacevole leggerezza si stava spandendo nei suoi pensieri, una letargia le appesantiva le membra. Sentì la gatta muoversi delicatamente sul suo grembo e sollevare la testa. C’era stato uno stridore proveniente dalla porta?
Il ticchettio regolare dell’orologio suonava lontano.
Osservare la stanza era come guardare nelle profondità di uno specchio distorto. Il panno era scivolato sugli occhi di Lily – strano che in un momento di lucidità Miss Rachel lo avesse notato – e la nipote lo aveva lasciato lì. Nascondeva le lacrime che per lei erano così insolite.
Rachel sapeva che Lily aspettava che lei parlasse, ma una pesante stanchezza la tratteneva, impedendole di muovere le labbra e dire della strana condizione che l’aveva sopraffatta.
La gatta sollevò di nuovo la testa e nello stesso istante Miss Rachel avvertì una corrente d’aria fredda sul collo. La porta si stava aprendo, l’aria entrava dal corridoio. La porta che si apriva così silenziosamente per lasciare entrare... chi?
Sebbene incapace di qualsiasi movimento, di colpo i suoi sensi si risvegliarono per un istante e ciò che vide e sentì divenne dolorosamente chiaro. La testa le cadeva in avanti, e tuttavia vide Lily, sempre distesa con gli occhi coperti, vide l’orologino con le lancette che segnavano quasi le nove in punto. Insieme all’aria, dal corridoio giunsero dei suoni: il cigolio di una sedia a dondolo sopra un’asse sconnessa nella camera di fronte, e il rumore della macchina per cucire della signora Turner simile a un calabrone smarrito in fondo al corridoio.
La macchina per cucire si fermò per un momento. Lo stesso fece la sedia a dondolo.
Poi entrambe ricominciarono, la macchina per cucire a ronzare e la sedia a lamentarsi.
La corrente d’aria a poco a poco si affievolì. Qualcuno era entrato nella camera e stava chiudendo la porta.
«Devo avvertire Lily», pensò Miss Rachel, da qualche parte nei meandri della sua mente. «Devo dire qualcosa».
E tuttavia non ci riuscì. Si stava addormentando, scivolando in una nebbia blu in cui nulla importava.
La nebbia blu la inghiottì. Dormiva.
E mentre lei dormiva, lì, accanto al letto di Lily, fu commesso l’omicidio.
Il tenente investigativo Stephen Mayhew è un uomo grande e grosso che non sembra mai particolarmente felice. È ben più alto di un metro e ottanta e pesa più di novanta chili. E tutto in lui pare tormentato dalla malinconia. Ha capelli nerissimi, folte sopracciglia nere e una faccia scura e quadrata capace di mutare a seconda delle emozioni quanto una maschera di legno ben intagliata. Ha l’abitudine – Miss Rachel è sicura che non si tratti di niente di più – a curvarsi in avanti, in una posa che lo fa sembrare pronto a balzare su qualunque cosa o qualunque persona si trovi davanti. Pare che provi piacere ad accigliarsi, cosa che alle sue sopracciglia nere riesce benissimo. Il signor Leinster ha insinuato malevolo che al tenente Mayhew manca solo un bel ruggito cattivo per somigliare in tutto e per tutto a un orso nero.
Miss Rachel non è d’accordo. Sostiene che il tenente Mayhew è in realtà molto incompreso; che se avesse avuto orari regolari, mangiato cibo casalingo e si fosse trovato sotto l’influenza di una brava donna, sarebbe stato un tipo completamente diverso. Mayhew le prime due cose le desiderava. L’ultima, fino a quel momento, era riuscito ad evitarla.
La prima volta che aveva posato gli occhi su Miss Rachel aveva dato per scontato che fosse morta. Fu solo dopo che il medico legale, il dottor Southart, applicò lo stetoscopio sul suo petto e annunciò che era ancora viva, che Mayhew le prestò maggiore attenzione. Stava esaminando il bagno di sangue sul letto.
«È viva a malapena. In tutta franchezza, direi che sta morendo. Ma forse c’è una possibilità. Chiamate un altro medico – Aaronson andrà bene – e un paio di infermiere. Prendete una di quelle donne nel corridoio e mettetela a fare il caffè. Caffè forte. Andate da chi gestisce questo posto e scoprite se questa è la sua stanza oltre che quella della morta. In tal caso, procurategliene un’altra. Sully, tu e Thomas portatela fuori di qui. Non posso esaminare una donna morta e rianimarne una che sta morendo nello stesso tempo».
Il dottor Southart rinfilò nella borsa il flessibile stetoscopio di gomma e si allontanò dalla poltrona di Miss Rachel. Mayhew la guardò bene per la prima volta.
«Dov’è ferita?», chiese al medico.
«Non è ferita, a quanto pare. Drogata, sicuramente. Sta morendo per avvelenamento da morfina, direi. Se Aaronson e le infermiere non si sbrigano, non ci sarà più niente da fare».
Mayhew si chinò a osservare più da vicino quella figurina rannicchiata. «È minuscola, vero?», domandò. «Ma, mio Dio, se non ci sono ferite da nessuna parte come ci è finito tutto questo sangue su di lei?».
«Il sangue appartiene all’altra donna. Uno spettacolo orrendo, e io ne ho visti. Prova a colpire la testa di qualcuno come è stata colpita la sua e vedrai il sangue schizzare da tutte le parti. Quella ferita sul collo, da sola, deve aver spruzzato come un geyser. Quella gatta... ehi! Dov’è la gatta? Ce n’era una quando sono entrato».
Gli occhi infossati di Mayhew colsero la palla di pelo nero in un angolo lontano. «Ecco la gatta».
«Anche la gatta sarà ridotta un disastro... o perlomeno dovrebbe».
Mayhew si diresse verso quegli occhi dorati, che si nascosero sotto il comò. Si chinò per guardare. «Ti sbagli. La gatta è pulitissima», disse pensieroso.
Capitolo cinque
Qualcosa di strano sulla gatta
Il medico alzò le spalle. «A pensarci bene, perché non dovrebbe? Probabilmente si è spaventata e mentre veniva commesso l’omicidio è rimasta nascosta sotto il comò».
«Possibile», Mayhew assentì enigmatico. Poi si voltò verso Sully che veniva dal corridoio.
«Una signora qui fuori dice che la vecchietta occupava la camera accanto. La portiamo lì?». Si avvicinò alla sagoma rannicchiata di Miss Rachel e fece per sollevarla.
«Sì. Portatela fuori di qui. Starò con lei finché non arriva Aaronson. Quella sul letto può aspettare».
Thomas, l’esperto di impronte digitali che prendeva tutto alla lettera, intervenne: «Non può aspettare a lungo», ricordò al medico.
Il dottor Southart gli lanciò un’occhiata affilata come uno dei suoi bisturi. «Qualcuno sta facendo il caffè?», domandò perentorio. «Tu, Edson, setaccia questo postaccio e trova un tubo di gomma e una bottiglia d’acqua. Improvviserò un’attrezzatura da proctoclisi».
Edson, il vice di Mayhew, che era strabico e distratto e sempre curioso, chiese che cosa fosse un’attrezzatura da proctoclisi. Il medico glielo spiegò. Palesemente a disagio, Edson uscì dalla stanza. C’era molto da fare nella camera della donna assassinata. Fu installata una macchina fotografica e vennero scattate fotografie del cadavere da varie angolazioni. Le impronte digitali furono rilevate e fotografate. Nella camera a fianco, invece, ebbe inizio una battaglia: una battaglia per la vita di Miss Rachel contro la morfina, il coma e la morte, che l’aveva quasi afferrata.
Mayhew rovistava nella camera di Lily cercando di evitare la pozza di sangue che ormai si stava seccando assumendo una consistenza appiccicaticcia. Notò subito che la finestra era aperta, con le zanzariere che pendevano sganciate. Uscì fuori passando per il corridoio e la porta sul retro. Alla luce della sua torcia scoprì vari segni lasciati in profondità da un qualche attrezzo lungo il margine inferiore del telaio della zanzariera. Decise di tenerli d’occhio fino a che non fosse stato possibile farne un calco. Tornò in camera della vittima, che ora lampeggiava di luce ed era densa di fumo di sigaretta.
Il medico, che grazie all’arrivo di Aaronson non doveva più occuparsi di Miss Rachel, stava esaminando il cadavere con attenzione. «Percossa molto forte con qualcosa di piuttosto pesante e affilato», borbottò.
«Un coltello?», azzardò Edson dopo averci pensato su un attimo.
«Dio mio!», esclamò Thomas incredulo. «Com’è possibile che ti abbiano preso alla Omicidi? Il medico dice che qualcuno l’ha percossa alla testa e tu chiedi se l’arma è un coltello! Hai mai sentito di qualcuno percosso con un coltello? I coltelli sono fatti per trafiggere, se non lo sapessi».
«Già», grugnì Mayhew. «E ora piantala con le chiacchiere. Vai avanti, Doc».
«Molte ferite... davvero tante. Il cranio deve avere una dozzina di fratture. Un po’ troppi colpi, solo per ucciderla. Potrebbe trattarsi di un caso di rancore... vendetta, o qualcosa del genere. Vedi come sono profondi questi squarci?», indicò con il lungo dito delicato. «Direi che questa donna aveva un nemico».
«Così sembrerebbe», mormorò Thomas con un sorrisetto compiaciuto. Non era tipo da lasciarsi soggiogare, nemmeno da un’occhiata truce come quella di Mayhew.
«Difficile che sia morta al primo colpo». Il dottor Southart guardò gli schizzi di sangue intorno a sé. «Probabilmente ha perso subito conoscenza, però. Questo spiegherebbe perché non ci sono ferite sulle braccia. Voglio dire, le avrebbe alzate se fosse stata cosciente. Ha avuto tutto il tempo di dissanguarsi mentre il cuore ancora pompava. Riassumerei dicendo che ha perso conoscenza al primo colpo, è stata colpita ancora, ha perso molto sangue ed è stata finita una volta per tutte dalla frattura alla tempia. Credo che la maggior parte delle ferite alla testa siano successive alla morte. La ferita al collo spiegherebbe tutto questo sangue: ha reciso un’arteria. Certo, questo a un esame preliminare. Fornirò un resoconto completo dopo l’autopsia».
Mayhew ringraziò il dottore con un cenno.
Stava pensando che molto dipendeva dalla vecchia signora nella stanza a fianco. Se fosse rinvenuta, anche solo per un istante, forse sarebbe stata in grado di dire loro chi aveva ucciso la signora Sticklemann. Se fosse morta senza parlare il lavoro sarebbe stato più complicato, ma Mayhew non aveva dubbi che avrebbe risolto il caso con successo. Come sempre. Ricordandosi di Miss Rachel, decise di andare a vedere come stava. Ma quando uscì nel corridoio si trovò la strada bloccata da un folto gruppo di persone le cui voci si spensero non appena lo videro. Lo osservavano mute con una sorta di attenzione impaziente e inorridita, tutti trattenevano il respiro.
Mayhew torreggiava fra loro con un’espressione che non tradiva emozioni eccetto una studiata ira. «Chi è che ha trovato queste donne?», tuonò guardando tutti in faccia uno per uno. Una donna alta e scarna si ritrasse e una bassina e in carne si fece avanti. Si stringeva sul petto un cappotto marrone a mo’ di protezione e guardava in su timorosa verso la faccia scura del tenente Mayhew. «Sono... Sono io», riuscì a dire dopo aver deglutito varie volte.
«Mi racconti. In breve, per favore». Mayhew licenziò con un’occhiata tutti gli altri, che tuttavia indugiavano affascinati.
La donna piccola e robusta agitò le mani di fronte a lui, tentò di parlare di nuovo e si fermò, con l’aria di star male. Un uomo tondo e rubicondo come lei le si avvicinò dandole una pacca sulla spalla. Ansante, riuscì allora a proseguire. «La gatta», disse con difficoltà. «Era lì dentro che miagolava...».
«Sì. Vada avanti», la sollecitò Mayhew.
Lei, presa dalla paura, cominciò a scusarsi. «Normalmente non mi sognerei nemmeno di entrare nella stanza di qualcun altro». Lanciò uno sguardo confuso e supplice agli altri volti che si attardavano in corridoio. «Ma non rispondeva nessuno e quella povera gatta continuava a piangere e piangere! Allora ho aperto uno spiraglio e ho chiamato la micetta. Ma non è venuta subito. Allora ho sbirciato dentro. E c’erano...». Si aggrappò al marito piccolo e robusto per sostenersi. «C’erano... loro!».
«Il suo nome, prego?». Mayhew tirò fuori un taccuino logoro e un mozzicone di matita.
«Timmerson», l’ometto prese in carico la situazione e la moglie. Si sistemò occhiali e doppio mento. «Rodney J. Timmerson e signora», precisò. «Viviamo qui, nel primo appartamento dall’altra parte della pensione, di fianco alla veranda. Stiamo qui da tanto tempo. Chieda alla signora Turner. Le dirà che siamo qui da un anno, fin da quando è arrivata».
«Per stanotte basta così», gli disse Mayhew. Alzò la voce per farsi sentire dagli altri, sparsi per tutta la lunghezza del corridoio. «Voglio vedervi tutti domani mattina. Restate a disposizione». Si udirono dei borbottii in risposta alle sue istruzioni, ma non gli diede retta. Andò alla porta della camera di Miss Rachel e bussò piano. Fece capolino una giovane testa bruna con una cuffietta bianca.
L’infermiera era molto carina; i suoi occhi sorridevano tanto quanto la bocca. «Le serve qualcosa?», chiese in modo spiccio. «Temo che non possa entrare».
«Come sta la vecchietta?», le chiese Mayhew. «C’è qualche speranza?».
Le belle labbra si incresparono in un’attraente espressione d’incertezza. «Il dottor Aaronson dice che è troppo presto per dirlo. Pensa che ci siano buone possibilità. Si tratta di morfina, e lei è molto anziana, ma il dottore dice che sta rispondendo. C’è altro?».
Mayhew scosse la testa. «Niente».
«Allora con permesso. Il dottore sta per fare un’endovenosa». La testa bruna si ritirò, la porta si chiuse.
Mayhew guardò distrattamente l’orologio. Era quasi l’una di notte.
Per Miss Rachel la nebbia si diradò solo un istante, come l’alzarsi di un sipario all’opera: c’erano luci e suoni e gente che si muoveva intorno. Fece un debole sforzo per mettersi seduta e qualcuno in abiti bianchi e inamidati si sporse ad aiutarla. Qualcun altro le porse una tazza e il caffè caldo le bruciò la bocca. Ansando, mosse le gambe. Le dolevano come se avesse camminato a lungo, ma non ricordava nulla.
Se ne stava seduta lì, aggrappata a un braccio bianco, e si sentiva molto strana, disorientata e debole. La gatta, vedendola seduta, balzò rapida sul copriletto tra le esclamazioni di fastidio del dottore e delle infermiere. Samantha fece le fusa, impastando le coperte con gli artigli, poi si avvicinò alla padrona e si acciambellò in una palla nera contro il suo ginocchio.
Miss Rachel si allungò per toccare il pelo setoso.
C’era qualcosa di strano... di strano e di diverso nella gatta.
Non riusciva a individuare che cosa fosse perché i suoi pensieri erano vaghi e indistinti, e desiderava disperatamente riaddormentarsi. Ma Samantha... non avrebbe dovuto essere... qualunque cosa fosse...
Poi Miss Rachel si trovò di nuovo sdraiata sui cuscini. Qualcuno stava dicendo: «Deve rimanere sveglia per un po’. Non si addormenti». Ma le si chiusero gli occhi e la mente si svuotò come se dentro avessero serrato le imposte.
Era destinata a raccontare al tenente Mayhew della sua vaga impressione sulla gatta. Avrebbe anche visto quell’omone sedere paziente mentre lei frugava nella memoria sforzandosi di riacciuffare quel pensiero evaporato. Ma ora non era preoccupata, e non era sconvolta per l’omicidio. Dormiva, e non sognava.
Il tenente Mayhew aprì una pagina del suo taccuino consunto e disegnò delle linee. Due lunghe linee parallele dividevano il foglio. Mayhew scrisse la parola «corridoio» tra le due linee. Da lì, continuò dividendo lo spazio su ognuno dei due lati in cinque quadrati approssimativamente uguali. Poi, avendo ottenuto una pianta della vecchia casa bastevole ai suoi scopi, si mise a scrivere dei nomi nei quadrati. Era seduto allo scrittoio della veranda. La luce brillava intensa sul suo lavoro. Fuori, oltre il lungomare, alcuni bagnanti mattinieri sfidavano le onde. Non erano ancora le nove del mattino, il giorno dopo il ritrovamento del cadavere della signora Sticklemann.
Disegnata la mappa e collocati i nomi che conosceva, mandò Edson, che stava sul divano di vimini a farsi le unghie con un temperino, a convocare i Timmerson.
Entrarono lenti, con aria di dignità e innocenza. «Ha chiesto di vederci, signore? Senza dubbio riguardo a quanto è avvenuto la notte scorsa...». Il signor Timmerson lasciò la voce appesa a un filo di dubbio. Dietro le lenti gli occhi erano spalancati, ma le palpebre sbattevano rivelando qualcosa di simile allo sgomento.
Mayhew spostò la sua mole sulla sedia e li guardò con freddezza da sotto le sopracciglia pesanti. Allungò le grosse mani, raccolse il taccuino stringendolo minaccioso, quasi che contenesse la prova della colpevolezza dei Timmerson. Il suo sguardo torvo era accusatorio. Parte dell’innocenza dei Timmerson si sciolse. La signora Timmerson si lasciò cadere su una sedia afferrandosi il petto.
«Esattamente». Il tono di Mayhew era disinvolto, più confortante del suo sguardo. «Riguarda l’omicidio. Vi ho chiamati prima di tutti gli altri perché siete stati i primi, con ogni probabilità, ad aver visto la scena del delitto dopo che l’assassino se n’è andato. Tutto ciò che siete in grado di ricordare potrebbe rivelarsi importante, anche dettagli che sembrano insignificanti. Sedetevi, rilassatevi e ditemi tutto quello che sapete».
La signora Timmerson si rasserenò un pochino. Il signor Timmerson si sedette sull’orlo di una sedia. Stirò il doppio mento, se lo accarezzò e poi si schiarì la voce. «L’ora è importante, vero? Vediamo... Erano le undici circa, vero, Maria? O no?».
«No», stava rispondendo lei con enfatica precisione quando Mayhew la interruppe: «Facciamo un passo indietro. Iniziate da subito dopo cena e raccontatemi che cosa avete fatto per tutta la sera, soprattutto all’ora del delitto. E cominciate a pensare a qualcuno che possa confermare quel che mi dite». Rovistò, tirò fuori il mozzicone di matita e si preparò a prendere appunti.
I Timmerson lo osservavano in un silenzio che da stupefatto si fece preoccupato. «L’ora del delitto?», boccheggiò la signora Timmerson. «Ma non siamo stati noi!». E il signor Timmerson, deglutendo: «Dobbiamo rendere conto dei nostri orari... Ci sta dicendo che siamo sospettati?».
Mayhew era irritato dalla loro paura ma il suo cipiglio non li aiutava affatto. «Nessuno è sospettato per il momento», tuonò contro di loro. «Vogliamo solo conoscere i movimenti di tutta la gente che vive in questa casa. Cosa che, come capirete, è molto importante».
La signora Timmerson rifletté: «Allora... lei pensa che l’assassino sia qualcuno che vive qui? Un altro inquilino?».
Lo sguardo torvo di Mayhew non le diede risposta.
«Torniamo alla questione originaria», disse. «Per favore, ditemi che cosa avete fatto ieri sera».
Esitando tra indignazione e delusione, la signora Timmerson si sistemò la gonna, come se si stesse preparando per un pubblico, e parlò. «Siamo andati a vedere un film», disse con fermezza.
«E prima?», la incalzò Mayhew.
«Noi... abbiamo cenato. E passeggiato sul lungomare per un po’».
Mayhew spostò lo sguardo sul signor Timmerson. Ebbe l’effetto di un riflettore su un palco: il signor Timmerson si animò e attaccò la sua parte. «Mia moglie dice bene, benissimo, tenente. Abbiamo cenato intorno alle sei... sì, alle sei. Poi abbiamo passeggiato per un po’, osservando le persone. Sono interessanti, non trova? Lei... ah, ehm... no? Beh, poi siamo andati a uno spettacolo».
«E questo quando?».
«L’ora, intende? Oh, alle diciannove circa, credo».
«Immagino possiate provare che eravate al cinema».
«Provare, amico? Senta, siamo o non siamo...».
Ma la signora Timmerson, raggiante, lo interruppe con un sorriso: «Ma certo che possiamo provare che eravamo al cinema. Non ricordi, caro, il problema che hai avuto con la banconota? Il cassiere se lo ricorderà».
Il signor Timmerson rimase senza parole. Fulminò la piccola moglie compiaciuta. Respirò come se avesse nella trachea qualcosa che non doveva trovarsi lì. «Non parlarne!», sbottò alla fine.
«Me ne parli invece», intervenne pronto Mayhew. Con grande disagio del signor Timmerson, la signora continuò a raccontare al tenente che il marito aveva pagato con una banconota falsa al cinematografo e che c’era stato un bel trambusto al riguardo. Sotto gli occhi attenti di Mayhew, Timmerson arrossì e balbettò che non aveva falsificato lui la banconota, se era questo che stava pensando.
Mayhew li indirizzò nei loro discorsi e loro andarono avanti. Venne a sapere che i Timmerson erano rientrati a casa dallo spettacolo alle ventuno e trenta circa. Il signor Timmerson spalancò gli occhi con rinnovato orrore. «È stato allora che abbiamo sentito la gatta. Si lamentava in modo spaventoso!».
«E nessun altro lo aveva notato?».
La signora Timmerson aggrottò le sopracciglia e rifletté. «No. È strano, ora che mi ci fa pensare, ma non c’era nessun altro lì intorno... anche se di solito fanno presto a lamentarsi di qualsiasi rumore. Si sentiva distintamente. Noi lo abbiamo sentito nell’istante in cui abbiamo varcato la porta d’ingresso. Ho percorso il corridoio e ho bussato. Nessuno ha risposto, così ho scostato appena la porta, per far uscire la gatta. Non è venuta subito. Ho sbirciato e ho visto... le ho viste». Deglutì, afferrando un bottone del suo vestito.
Mayhew scribacchiava sul taccuino. «E poi?».
«Io... io immagino di essere...».
«È svenuta!», aggiunse il marito in fretta e furia. «Fragilità femminile, sa com’è. Per fortuna ero proprio dietro di lei. L’ho presa mentre cadeva».
«Non è entrato nella camera?».
«Beh... non in quel momento».
«Dopo?».
«Subito prima che arrivasse la polizia. Sono entrato, pensando che forse non erano morte come aveva detto il signor Leinster e che magari potevo fare qualcosa per aiutarle. Ma è bastata un’occhiata per capire che la signora Sticklemann era al di là di ogni possibile aiuto umano, e anche la signora più anziana sembrava morta. Perciò sono uscito e ho chiuso la porta come l’avevamo trovata».
«Non ha toccato niente?».
Timmerson si contorse. «Oh, io... non avrei potuto toccare... niente!».
«Questo signor Leinster. Dice che era lì attorno?».
«Non all’inizio. È saltato fuori subito dopo che mia moglie ha urlato ed è svenuta».
«Qual è il suo appartamento?».
«Quello di fianco alla stanza della zia, la signora... Non conosco il nome della signora. Il signor Leinster sta tra lei e gli Scurlock, che hanno l’appartamento sulla facciata, su quel lato».
«Veniva dal suo appartamento?».
Il signor Timmerson iniziò a parlare, poi si fermò con aria molto perplessa. Dopo un attimo di tentennamento proseguì: «Non ci avevo pensato finora. Non chiaramente, intendo. Ma ora che me lo chiede, non riesco davvero a ricordare il signor Leinster che esce dal suo appartamento. C’è qualcosa che non torna... qualcosa che non va. È proprio saltato fuori all’improvviso. Non riesco a ricordare nessuna porta che si apre».
«Ma lei era occupato con sua moglie. Potrebbe non averlo notato».
Timmerson ammise che era possibile.
«Lei dice di essere entrato nella stanza prima che arrivasse la polizia. Ora, questo è un punto importante. Più tardi dovrò chiederle di dare un’altra occhiata là dentro per rinfrescarle la memoria, così magari ricorderà qualcosa che le era parso significativo. Ma in questo momento voglio sapere se qualcun altro oltre a lei è entrato nella stanza prima che arrivasse la polizia».
«Il signor Leinster è entrato».
«Capisco. Quando?».
«Subito dopo lo svenimento di mia moglie. Era stesa nel corridoio e io ero chino su di lei. Il signor Leinster deve averla sentita gridare. È arrivato quasi trottando per il corridoio – a passo leggero per essere un giovanotto massiccio – ed è andato dritto in camera della signora Sticklemann. Ma ne è uscito subito».
Mayhew mugugnò dal profondo della gola. «Le ha detto qualcosa?».
Timmerson guardò il tenente illuminandosi. «Sì, signore. Ha fatto un commento che mi pare molto curioso, date le circostanze. Decisamente curioso».
Mayhew attese con grande pazienza.
«Suonava... suonava molto strano con quelle due povere donne coperte di sangue in quella stanza terrificante, signore. È uscito dalla stanza e si è come fermato, esitando. Non guardava affatto verso di me quando ha parlato. Era come se parlasse a... all’aria».
«Che cosa ha detto?». Il mozzicone di matita attendeva nell’enorme pugno di Mayhew.
«Beh, signore, proprio mentre stava fermo lì ha parlato a voce alta. Ha detto: “Questo è reale. È autentico. E io ho sbagliato tutto. Una pallida imitazione”. Poi se n’è andato, tenente, e ha telefonato alla polizia».
Capitolo sei
Carte da bruciare
I Timmerson attendevano in silenzio che il tenente reagisse a questa informazione. Il petto abbondante della signora Timmerson pareva aver smesso di andare su e giù mentre i suoi occhietti sorvegliavano il viso di Mayhew. Ma quella maschera scura non concesse loro alcunché: non sorpresa o soddisfazione, né un’alzata di sopracciglio che denunciasse interesse. Sembrava che stesse riflettendo, ma i suoi pensieri si trovavano assai più in profondità dell’imperscrutabile superficie del suo volto. Osservava i segni illeggibili sul taccuino, masticava il malridotto mozzicone di matita e guardava fuori, verso il mare. Il silenzio durò a lungo. Il signor Timmerson si accarezzò il doppio mento e si sistemò gli occhiali. La signora Timmerson sprofondò nella delusione. Ma alla fine Mayhew parlò.
«Dato che voi e Leinster eravate insieme, per così dire, al momento della scoperta del delitto, adesso chiamerò lui. E vorrei che voi rimaneste qui ad ascoltare la sua storia. Più tardi, mi direte se pensate che ci siano omissioni o discrepanze nelle sue parole».
La signora Timmerson si illuminò e tentò una battutina. «Ci vuole un ladro per prendere un ladro, eh, tenente?». Ma l’espressione accigliata del marito la frenò.
Edson, che indugiava sulla porta, andò a chiamare il signor Leinster. Leinster entrò: alto, massiccio e biondo, lentiggini sul viso largo e peli rossi sul dorso delle mani quadrate. Sorrise amabile al tenente e ai Timmerson e si lasciò cadere su una sedia. «È per l’omicidio, immagino. Cosa vuole sapere?».
A Mayhew non piacciono le persone che affrontano le situazioni in modo diretto e disinvolto. Gli rivolse il suo migliore sguardo. Leinster glielo restituì con aria innocente. «Vorrei che mi raccontasse dove ha trascorso la serata di ieri e come ha scoperto il delitto, più o meno allo stesso orario dei Timmerson. E qualunque cosa le sembri di rilievo o insolita riguardo alla scena del crimine».
Il signor Leinster reclinò la testa all’indietro sullo schienale della sedia di vimini osservando il soffitto. «Risponderò per prima all’ultima domanda», disse a Mayhew. «Devo ammettere che non appena ho capito che era stato commesso un delitto sono corso dentro a cercare... beh, un indizio. Ero sicuro che mi sarebbe saltato agli occhi, per così dire, e volevo essere il primo a trovarlo».
Mayhew lo interruppe: «Perché?».
Il signor Leinster si affrettò a rispondere: «È solo un hobby. Una mania. Sa, detective dilettante e tutte quelle sciocchezze. Beh, sono entrato nella stanza senza problemi. Ma, Dio mio, quelle donne! Non mi sarei mai aspettato niente del genere. Immagino che in tutto il mio teorico lavoro investigativo avessi in un certo senso pensato ai cadaveri come a dei fantocci – nessun massacro, niente sangue –, quelli non ti osservano da una testa ridotta in...».
Ma la signora Timmerson si era alzata e si muoveva in modo esagitato. Il colorito del signor Timmerson stava virando al verde. Mayhew mise un freno all’eloquenza di Leinster. «Tutto questo lo sappiamo. Il cadavere era ridotto male. Vada avanti».
«Beh, mi ha sconvolto. Ero entrato nella stanza con l’idea di trovare subito un indizio e sistemare l’intera faccenda prima ancora che la polizia venisse chiamata, e invece ho visto un cadavere che... Oh, perdonatemi. Comunque, per un attimo le cose mi sono sembrate pazzesche e mi sono sentito male. Era... beh, troppo reale. Troppo... Non importa. Sono uscito e ho chiamato la polizia. Non ne volevo più sapere di quel lavoro, glielo assicuro».
Mayhew riassunse il succo di quel lungo resoconto. «Quindi quello a cui vuole arrivare è che non ha notato niente che potrebbe essere importante per risolvere il caso?».
«Esattamente. È quello che mi aveva chiesto, no?».
«Sì. E il resto? Dove ha passato la serata, e dove si trovava quando la signora Timmerson ha urlato vedendo il cadavere?».
Il signor Leinster fece un ampio gesto con le mani quadrate. «Oh, ero impegnato in qualcosa di molto innocente, glielo assicuro. Mi trovavo in questa stanza, in effetti. Stavo scrivendo delle lettere seduto a quello scrittoio dove sta lei adesso. Sono venuto qui intorno alle diciannove. Stavo appunto riponendo la mia cancelleria nella custodia di cuoio quando ho sentito urlare la signora Timmerson. È stato allora che sono corso in corridoio per vedere di che cosa si trattava».
Mayhew scribacchiò sul suo taccuino. «Ha sentito urlare la signora Timmerson, d’accordo. Ma non ha sentito urlare la signora Sticklemann quando è stata aggredita?».
Leinster scosse la testa. «No. Nient’altro tutta la sera. Mi chiedo, però, se sia possibile sentire urlare una donna dietro quella porta».
Mayhew chiuse secco il taccuino. «Ottima idea, signor Leinster. Voi detective dilettanti avete una vostra utilità, dopotutto. Scopriamo se si sente urlare attraverso la porta».
«E come?», si meravigliò la signora Timmerson, ma le toccò scoprirlo subito. Tremante e con gli occhi sgranati, fu condotta dal tenente Mayhew nella stanza del delitto e, dopo che la chiave nella manona di Mayhew aprì la porta, venne accompagnata all’interno da quell’austero gentiluomo. Guardandosi intorno in una sorta di tormentata fascinazione, vide le pozze di sangue rappreso e il letto insanguinato e si sentì mancare. Svenne addosso al tenente.
Mayhew sa essere piuttosto spietato con le grasse signore che svengono. Si limitò a reggerla con un braccio mentre con l’altro chiudeva la porta. Intorno a loro si fece buio. Nella penombra Mayhew guardò in viso la signora Timmerson. «Urli!», le ordinò con una voce di tamburo.
L’ordine brusco la fece rinvenire. Guardò in alto quegli occhi cupi e arrabbiati. Gridò, forte e a lungo, e continuò a urlare finché qualcuno cominciò a picchiare dietro la porta. Mayhew spalancò la porta e ricondusse la signora Timmerson in corridoio. La signora Turner, la proprietaria, lo affrontò. «Che cosa succede qui?», le guance ossute rosse di rabbia, il grosso mento proteso verso di lui.
Mayhew richiuse a chiave e oltrepassò la donna senza uno sguardo. Guidò la mezza svenuta signora Timmerson verso la veranda. Ma la signora Turner non aveva finito. «Sta trasformando questo posto in un manicomio!», lo accusò agguerrita. «Non glielo permetterò. Mi ha sentito? Perderò tutti quanti i miei affittuari – sarò completamente rovinata – se continua così. Un omicidio è già abbastanza grave, ma se lei si chiude con altre donne là dentro e fa loro delle cose fino a farle urlare...». Osservò la signora Timmerson, che si era fermata per appoggiarsi al muro. Lo sguardo fisso, si stringeva la scollatura in un modo che suggeriva un trattamento peggiore di quello che Mayhew le aveva riservato. La signora Turner serrò le labbra in una linea amara. «Che cosa le stava facendo?», pretese di sapere.
Edson scoppiò a ridere. Ma Mayhew guardò la signora Turner furioso. «Vada nel suo appartamento e ci rimanga!», le ordinò. «La chiamerò io quando vorrò parlare con lei. Ora, fuori!».
La signora Turner non si mosse e sostenne lo sguardo. «Lei non mi fa paura», disse lentamente e Mayhew capì che era vero. In effetti non riusciva a immaginare quella megera macilenta spaventata da qualcosa o da qualcuno. Aveva il becco e gli occhi di un uccello rapace, e il collo era rugoso e grigiognolo come quello di un avvoltoio. La sua voce aspra e sprezzante lo seguì fino alla veranda.
Mayhew si risistemò allo scrittoio, soltanto le nere sopracciglia aggrottate tradivano la rabbia che provava nei confronti della vecchia maligna nel corridoio. «Allora?». Frugò e tirò fuori la matita e il taccuino.
Il signor Timmerson pareva agitato e sofferente. Strinse la moglie al petto per confortarla. Fu Leinster a rispondergli: «L’abbiamo sentita. Distintamente. Poteva anche trovarsi nella stanza accanto per come ha urlato».
La signora Timmerson sollevò la testa dalla camicia del marito e lanciò a Leinster uno sguardo di rimprovero. «Ero spaventatissima», piagnucolò.
«Allora è piuttosto evidente che la signora Sticklemann non può aver emesso alcun suono quando è stata aggredita, altrimenti sarebbe stata udita. Mmm. Ora, un’ultima cosa. Vorrei sapere da ognuno di voi due gentiluomini che cosa fate per vivere».
Il signor Timmerson prese la parola con prontezza. «Sono in pensione», rispose. «Insegnavo in un coro parrocchiale, e ho fatto anche il venditore. Interessi vari, si potrebbe dire... Le due professioni non hanno molto in comune. Bene, tre anni fa ho avuto l’occasione di partecipare a un affare in borsa grazie a un mio nipote. Ci abbiamo investito fino all’ultimo centesimo che possedevamo, o che potevamo elemosinare o prendere in prestito. E si è rivelato migliore di quanto avessimo sperato. Da allora io e Maria ce la prendiamo comoda. Viviamo qui, vicino alla spiaggia, e tiriamo avanti con il nostro piccolo reddito».
Mayhew annuì e si volse verso il grosso giovanotto. «E lei, signor Leinster?».
Leinster mise su l’ombra di un sorriso. «Anch’io sono in pensione», disse affabilmente.
Mayhew sollevò le sopracciglia nere, gli occhi scuri parevano sorpresi. «In pensione?», ripeté.
Il signor Leinster si mosse un po’ sulla sedia ma rimase cordiale e collaborativo. «È quel che ho detto, tenente. In pensione».
Mayhew allora aggrottò la fronte e chiuse il taccuino con un gesto irritato. «Questo non le sarà d’aiuto, Leinster. Voglio sapere che cosa fa per vivere».
Leinster sollevò la sua mole dalla sedia facendo leva sui gomiti, si mise in piedi e si stiracchiò. Il suo volto era controllato e innocente. Camminando verso la porta si voltò. «Ho detto che sono in pensione. Prendere o lasciare. Dovrà bastare, ad ogni modo, finché non scoprirà qualcosa di diverso».
Mayhew rispose in tono tagliente: «Non ho ancora detto che può andarsene».
Leinster esitò sulla porta. «Che altro vuole sapere?».
«Voglio sentire che cosa sa della donna uccisa. Fino all’ultima briciola di informazione che è in grado di fornire, perciò torni qui e cominci a parlare».
«Oh, Dio, quel poco che so...», cominciò, ma il tenente Mayhew si sporse in avanti sulla sedia; le grosse spalle sembrarono crescere di misura e il suo viso assunse un’espressione che il signor Leinster, in altra sede, ha poi definito cattiva. Si affrettò a tornare indietro, ma non si sedette. «Quel poco che so di lei è presto detto», disse in fretta. «E la parte principale è che... che era la donna più stupida che avessi mai conosciuto. Questo esempio vi farà capire che cosa intendo. L’unico contatto che ho avuto con lei è stato giocando a bridge con alcuni inquilini di qui. Lei e io in coppia. Ogni sera a un certo punto tirava fuori un mazzo truccato e... il modo in cui usava le carte e i maldestri tentativi di servirsene per vincere... beh, erano proprio pessimi. Anche un bambino avrebbe capito che cosa stava facendo. Quelli erano due volponi, e mi sono fatto l’idea che anche loro avessero un qualche sistema. Comunque, questa signora Sticklemann ha insistito perché continuassimo a giocare con loro finché le sue perdite devono essere diventate esorbitanti. Ed era troppo stupida per capire perché non riuscisse a vincere».
Mayhew recepì l’informazione con apparente indifferenza. Aprì il taccuino e scribacchiò qualcosa. «E il nome di queste altre persone... Erano marito e moglie?», chiese.
Leinster lanciò un’occhiata, oltre l’ingresso della veranda, alla porta chiusa di fronte. «I signori Scurlock», disse apertamente. «Stanno nell’appartamento di fronte, proprio dall’altra parte del corridoio rispetto a dove ci troviamo».
Allora Mayhew si comportò in un modo strano, quasi bizzarro, ma silenzioso e rapido nello stesso tempo. Chiuse il taccuino, lo infilò in tasca e si alzò dallo scrittoio. La signora Timmerson ha poi riferito che a questo punto il tenente scattò in avanti, e che sembrava agile e slanciato. Le ricordava una pantera nera in agguato. Non che ne avesse mai vista una. Lo vide uscire dalla veranda, con le grosse braccia che oscillavano, e subito fu dall’altra parte del corridoio senza fare rumore. In un batter d’occhio la grossa mano scura si chiuse sulla maniglia.
Quel che accadde dopo, i tre nella veranda non poterono vederlo perché la mole del tenente Mayhew riempiva la porta d’ingresso. Videro la porta aprirsi all’improvviso verso l’interno, sentirono una voce maschile sbraitare una maledizione e l’urlo soffocato di una voce femminile. E poi arrivò loro la voce di Mayhew, chiara e controllata, che diceva: «Avrò quei documenti, signora Scurlock. Non li avvicini al fiammifero. Non le sarebbe di aiuto».
La figura di Mayhew entrò nell’appartamento degli Scurlock e allora fu possibile vedere il signor Scurlock seduto sul pavimento che si accarezzava la testa. Doveva essersene stato vicino alla porta, chinato ad origliare, quando Mayhew gliel’aveva spalancata addosso. Dentro, in piedi vicino al tavolo dozzinale al centro della stanza, c’era la signora Scurlock. La sua faccia scura era sconvolta, gli occhi neri fiammeggiavano. «Non ha il diritto di piombare qui dentro!», urlò. «Fuori! Non osi avvicinarsi!». Ma Mayhew arrivò subito al suo fianco e cercò di strappare un fascio di documenti da una delle sue mani. Lei lo contrastò con l’altra mano, affondandogli le unghie in volto. Mayhew le afferrò il polso facendola strillare. A quel punto i documenti furono suoi.
La signora Scurlock si lanciò su di lui e con velenosa precisione gli graffiò la faccia e il collo, ferendogli la pelle a sangue. Mayhew sopportò per un po’, poi trattenne la signora Scurlock con la mano destra e le sferrò un pugno al plesso solare con la sinistra. Lei si afferrò l’addome, appena al di sopra dello stomaco, e cadde senza fiato sul pavimento trascinando il tavolo con sé. Dopo di che non emise più un suono né si mosse.
Mayhew osservò con evidente soddisfazione le carte che aveva in pugno. «Sono cambiali», mormorò al signor Scurlock, che si passò la lingua sulle labbra facendosi piccolo per la paura. «Firmate dalla signora Lily Sticklemann. Come pensavo. Stavate aspettando di sentire se ne avremmo parlato prima di bruciarle, non è così?». Agitò il fascio di fogli che teneva tra le dita scure e robuste. «Un bel mucchio, non è vero? Corrispondono, direi...», ne lesse parecchi e diede un’occhiata al resto, «a un migliaio di dollari all’incirca. Una bella somma. È per questo che l’avete uccisa?».
Il signor Scurlock rimase muto. Scosse la testa.
«No? Bene, questo è da vedere. Per ora le tengo io, ad ogni buon conto». Guardò torvo l’omone spaventato sul pavimento. «Si alzi e si occupi di sua moglie. Non vede che è svenuta?».
Scurlock si mise in piedi troppo rapidamente; inciampò finendo quasi disteso sul tavolo rovesciato.
Mayhew osservò disgustato come si affrettava tutto tremante. «E non pensate di bruciare, stracciare o gettare via nulla», disse severo, «finché non avrò avuto modo di parlare con entrambi. Ora faccia rinvenire sua moglie. Vi farò chiamare tra pochi minuti». Poi uscì dalla stanza e la porta si chiuse sulla disfatta degli Scurlock.
Mayhew diede una rapida occhiata alle tre persone in veranda. La signora Timmerson era pallida, il signor Timmerson rosso, ed entrambi erano agitati. Ma Leinster se ne stava a fumare allungato su una sedia, e dietro la scia di fumo blu della sigaretta i suoi occhi si prendevano gioco di Mayhew. «Li ha strapazzati per bene, eh?», chiese piano, a nessuno in particolare. «Entrare, maltrattare, uscire tutto orgoglioso. Ecco il metodo del nostro acuto investigatore. Un’altra delle mie idee che ha bisogno di essere rivista, pare. Un gran bisogno. Pensavo che si potesse usare il cervello».
Mayhew si avvicinò a Leinster. Il giovane si accorse con evidente sorpresa della presenza di parecchi solchi sanguinanti sul volto di Mayhew. Si raddrizzò sulla sedia gettando la sigaretta sul pavimento. «Mi scusi», disse asciutto. «Autodifesa. È assolto».
Mayhew lasciò che un angolo della bocca si contraesse, poi si rivolse al signor Timmerson. «Poco fa ho suggerito che lei tornasse nella stanza in cui è stato commesso il delitto per pensare a qualche fatto o circostanza di rilievo. Lei vive in questo posto. Conosceva la donna assassinata. Ciò che potrebbe aver visto lì subito dopo il crimine potrebbe essere importante. Vogliamo andare? Anche lei, Leinster, dal momento che è un tale segugio».
Ci andarono, con la signora Timmerson che li seguiva svolazzando come una falena ferita. Ma il signor Timmerson corse fuori dalla stanza e vomitò nel corridoio. La moglie gli teneva la testa piagnucolando insieme a lui.
Nella penombra giallastra della camera di Lily, Leinster e Mayhew si guardarono intorno. Tornò Edson, che era andato a bere un bicchiere di birra, e si unì a loro. «Che cosa ne pensa?», chiese Leinster.
Mayhew si avvicinò alla finestra. «Questa era aperta», disse. «Il vetro era sollevato e la zanzariera era stata forzata. Qui ci sono i segni di un attrezzo usato per fare leva sul telaio. Penso che l’assassino sia entrato da qui».
Leinster contestò quell’idea. «Ma la donna avrebbe urlato se qualcuno fosse entrato dalla finestra».
«Non necessariamente», obiettò Mayhew. «È possibile che stesse dormendo e non si fosse accorta che stava per essere colpita. O forse conosceva i colpevoli e li ha lasciati entrare senza fare domande. È abbastanza sicuro...». A quel punto la sua voce si spense e lui rimase perfettamente immobile con gli occhi fissi sulla tenda. Leinster stava frugando il letto, sollevando il materasso e scompigliando le lenzuola insanguinate. Mayhew chiamò Edson. «Vai fuori», gli disse. «Voglio che scavalchi dalla finestra».
Dopo un minuto Edson comparve fuori dalla finestra. Gettò via la sigaretta e si avvicinò alla facciata dell’edificio. «C’è una scatola qui fuori. Devo salirci sopra?».
«No, se non è necessario. Vieni dentro».
Mayhew fece un passo indietro mentre la figura ingobbita di Edson strisciava oltre il davanzale. Edson grugnì, si voltò e atterrò sul pavimento. Mayhew si chinò a raccogliere qualcosa di molto piccolo che brillava. Lo sollevò verso la luce. Era uno spillo. Sogghignò. «Questo cambia tutto!», esclamò felice.
Edson si avvicinò e lo fissò con i grandi occhi vacui. «Che cos’è?», chiese in tono lamentoso.
«È uno spillo». Mayhew se lo rigirò tra le dita.
«Soltanto uno spillo?». Edson guardò Mayhew con aria delusa.
Il tenente lasciò che alla sua grande bocca sfuggisse un sorrisetto. «Soltanto uno spillo, come dici tu. Ma si dà il caso che fosse in quella tenda».
«E quindi?», chiese Leinster avvicinandosi.
«Era nella tenda, proprio così. Vedete? Teneva insieme questo strappo. Lo spillo era stato fissato attraverso la stoffa della tenda nel legno del davanzale». Rimise lo spillo dove lo aveva trovato.
Leinster increspò le labbra ed emise un lungo fischio. «Cozza con l’idea del tizio che entra dalla finestra, non è vero? Aspetti... oppure no. Magari l’assassino si è accorto dello spillo e lo ha rimesso a posto dopo essere entrato».
«Lasciando la zanzariera come l’abbiamo trovata e il vetro aperto? No, non avrebbe senso. Ammesso che l’assassino sia entrato dalla finestra, sembra che non gli importasse che la cosa venisse scoperta. Anzi, penso che per qualche ragione l’assassino volesse far credere di essere entrato dalla finestra, mentre in realtà non lo ha fatto. E questo», allungò il braccio tra le tende malandate e spinse per aprire la zanzariera, «deve averlo fatto dopo aver ucciso la vittima. Ha cercato di far sembrare che fosse stata usata la finestra. Ma non sapeva dello spillo, e lo spillo lo ha colto in fallo».
«Non sarebbe potuto entrare senza toccare lo spillo?», farfugliò Edson, chinandosi e strizzando gli occhi per mettere a fuoco la luccicante punta di metallo.
«Direi di no. E questo esclude la finestra».
Edson si raddrizzò e si grattò i capelli color sabbia. «E i segni lasciati sul davanzale? Segni recenti, non vecchi. Sono stati fatti dall’esterno. Ho aiutato Thomas a farne un calco. Che mi dice di questo?».
Lo sguardo di Mayhew si fece per un istante duro e corrucciato. Disse una sola parola, e la disse con amarezza: «Bizzarro».
«Non quadra. O è entrato dalla finestra oppure no. Lo spillo dice che no, i segni sul davanzale che sì, o che ci si è divertito un sacco a provarci», disse Edson senza badare troppo alla grammatica.
Mayhew passò in rassegna la stanza con lo sguardo ardente, come per strapparne il segreto della morte di Lily Sticklemann e del sotterfugio della finestra che l’aveva preceduta o seguita. Appariva terribilmente in collera. Leinster ed Edson si allontanarono un po’, come per fare abbastanza spazio alla sua rabbia.
Miss Rachel pensa che fu proprio a quel punto che il tenente cominciò a divertirsi.
Capitolo sette
Il signor Malloy è scomparso
Mayhew si sistemò allo scrittoio, aprì il taccuino e guardò verso Edson, l’unica altra persona presente nella stanza.
«Sentiamo gli Scurlock», disse laconico indicando il corridoio.
Gli Scurlock arrivarono, ognuno con il proprio atteggiamento: lei fredda e altezzosa, lui subdolo e furtivo. Si sedettero, non proprio comodi, e guardarono Mayhew.
Lui li osservò per un minuto. «Sentiamo», disse poi.
La signora Scurlock ricambiò lo sguardo senza aprire bocca, ma il signor Scurlock si sforzò di mostrarsi compiacente. «Che cos’è che vuole sapere? Saremmo lieti di aiutare. La prego di non giudicarci da...».
Mayhew lo interruppe. «Sì. Cominci da lì. Mi racconti di quelle cambiali. Devono essere piuttosto importanti».
Il signor Scurlock guardò la moglie con aria servile, ma lei ricambiò con lo stesso sguardo freddo e scintillante che aveva riservato al tenente. «Devo parlare, cara? Per entrambi, intendo». Dovette leggere una sorta di permesso nei suoi occhi perché si volse verso Mayhew. «Non definiamole importanti, tenente. Non erano importanti, perché avevamo poche speranze di riscuoterle. Ma nelle attuali circostanze sono decisamente – beh, ammettiamolo – pericolose. È la parola giusta, credo. Me lo concederà?».
«Forse». Mayhew stava osservando la donna. Era una tigre. Guardava tutti loro con occhi assassini.
Il signor Scurlock abbozzò un sorriso. «Ci mettono in una posizione imbarazzante, tenente. Con la signora Sticklemann morta, sapevamo che le cambiali non valevano nulla. Ma non sapevamo proprio che cosa farne. Sarebbero potute sembrare molto... incriminanti, se fossero state trovate in nostro possesso. Perciò – del tutto innocentemente, glielo assicuro – abbiamo deciso di bruciarle».
«Proprio mentre il signor Leinster mi stava facendo una soffiata sul fatto che giocavate d’azzardo con la signora Sticklemann? Che coincidenza!». Mayhew si concesse una risatina ironica.
Scurlock cercò di leggere la sua espressione. «Le coincidenze capitano, tenente», disse, ancora affabile e guardingo.
«Sì, capitano. Lasciamo andare. Parliamo del fatto che giocavate d’azzardo con la signora Sticklemann e Leinster».
La signora Scurlock sollevò una mano bianca per protestare. «Non esattamente gioco d’azzardo. Solo amichevoli partite di bridge. Facevamo delle puntate, certo, ma...».
«Che genere di puntate?».
Il signor Scurlock spalancò la bocca e sembrò preoccuparsi. «Noi... partivamo da mezzo centesimo al punto», disse infine.
«Per arrivare a?», lo sollecitò Mayhew.
Scurlock lanciò una rapida occhiata all’espressione glaciale della moglie. I suoi occhi ardevano di disprezzo. Ecco come doveva apparire Lucrezia Borgia, si disse Mayhew, soddisfatto di questa divagazione storica.
«Alla fine le puntate arrivavano a dieci centesimi al punto», ammise Scurlock, allentando la cravatta improvvisamente troppo stretta. «È stata la signora Sticklemann a suggerire di alzare la posta in gioco. Lo sa Dio perché, tra l’altro, dato che era una pessima giocatrice».
«Pessima e disonesta?», suggerì Mayhew, sporgendosi in avanti come a incoraggiare delle confidenze.
Sul viso scuro della signora Scurlock si ravvivò l’espressione di disprezzo. Allora parlò. «No di certo. Era una persona onesta. Noi tutti lo eravamo».
«Ma sicuro!». Mayhew ammiccò al signor Scurlock con un’espressione beffarda. L’uomo dai capelli chiari si lasciò cadere sulla sedia con uno sguardo di stupore e paura. Se le domande aggressive di Mayhew non gli erano piaciute, ovviamente gradiva ancor meno quell’ammiccamento insinuante. Non tradiva nessuna informazione, ma implicava un ampio e pericoloso campo di conoscenza che poteva contenere qualunque cosa.
Con un’espressione di sorniona allegria Mayhew si volse al suo taccuino. «Proseguiamo, allora», suggerì. «Ditemi dove avete trascorso la serata di ieri».
Il signor Scurlock si portò una mano floscia alla fronte con aria confusa. La moglie rispose per entrambi. «Siamo rimasti nel nostro appartamento per tutta la sera. Abbiamo cenato – il nostro appartamento è uno di quelli provvisti di cucina – e siamo rimasti lì fino all’ora di andare a dormire».
«Non siete usciti nemmeno una volta?».
La voce della donna rimase fredda e decisa. «Nemmeno una», gli assicurò.
Mayhew la guardò negli occhi e vi scorse uno sguardo di sfida. «Non ne dubito», disse gentilmente. Era il modo in cui trattava chi stava in guardia. «Sa dirmi qualcosa sulla signora Sticklemann, qualcosa che secondo lei può essere rilevante per l’indagine?».
«Ovviamente le direi qualunque cosa possa sviare i sospetti da noi. Ma non so niente. Niente di niente».
«Nemmeno lei, signor Scurlock?».
Il signor Scurlock sembrava lottare con se stesso. «Niente, credo», disse dopo un minuto. «No... ma un momento! Non dovrebbe sapere di Malloy, cara?».
La donna scrollò le spalle con un’indifferenza di pietra. «Se desideri dirglielo, Herbert».
Scurlock proseguì approfondendo l’informazione: «Questo Malloy era un uomo di mezza età. Stava nell’appartamento di fronte a quello della signora Sticklemann, e io credo che fossero... beh, perlomeno che ci fosse un legame sentimentale. Tre settimane fa circa, se ricordo bene, è scomparso. Nessuno di noi lo vede da un po’. Ma la signora Sticklemann mi è sembrata agitata da quando è sparito dalla circolazione. Aveva una gran cotta per lui. È solo un pensiero, tenente. Forse Malloy è tornato e l’ha uccisa!».
Mayhew parve prendere in seria considerazione l’idea. «E lei, signora Scurlock, pensa che questo Malloy potrebbe aver ucciso la signora Sticklemann?».
«Qualcuno deve averlo fatto, no?».
«Lei non ha un’opinione in proposito?».
«Assolutamente nessuna».
Terminato di scrivere, Mayhew rimase a fissare il taccuino.
«Un’ultima domanda», disse all’improvviso. «Di che cosa si occupa, signor Scurlock?».
Scurlock sussultò nervoso. Cercò di riflettere in preda alla confusione e guardò perfino fuori dalla finestra come in cerca di un’occupazione decorosa. Ma la moglie gli venne in soccorso. «È in pensione», rispose a Mayhew con la sua voce intensa e vibrante. «È in pensione da... vediamo... circa sei anni ormai. Non è vero, caro? Sì, sei anni, tenente».
Mayhew chiuse lentamente il taccuino mentre la sua faccia da scura diventava rossa. «Che io sia dannato!», imprecò. «Qualcuno in questo maledetto posto dovrà pur lavorare per vivere!», sbraitò osservando la piantina con i nomi scritti all’interno dei quadrati. «Ora...», fece scorrere un grosso dito lungo la parte sinistra del foglio fino ad arrivare all’ultimo quadrato di quel lato. «Ora... sentirò la signora Marble. Occupa l’ultima stanza dall’altra parte della pensione. Portala qui».
Edson uscì e tornò con una donnina dagli abiti trasandati che dimostrava circa trent’anni. Il grigiore e la trascuratezza si erano portati via la sua giovinezza. Mayhew le riservò il suo sguardo gelido, ma quando lei trasalì e cominciò a tremare cambiò atteggiamento.
«Sto indagando sulla morte della signora Sticklemann», disse con gentilezza. «Non deve avere paura. Mi dica solo che cosa ha fatto ieri sera, dove è andata e così via. E, naturalmente, qualunque cosa abbia notato che possa avere rilevanza per questo caso. Lei occupa l’appartamento accanto a quello della signora Sticklemann, vero?».
La donnina trasandata venne avanti con aria meno impaurita, anche se teneva le mani arrossate giunte davanti a sé e gli occhi erano spalancati. «Non so nulla», si affrettò a dire. «Vede, sono stata fuori tutta la sera. Non sapevo nemmeno che la signora Sticklemann fosse stata assassinata fino a quando non sono rientrata, molto dopo la mezzanotte».
«Dov’era?».
«A lavoro. Svolgo le faccende domestiche per la signora Terry al Ravenswood Arms. Non sono una vera e propria cameriera, anche se cucino e servo in tavola. Due volte alla settimana ci vado di mattina. Il martedì le faccio il bucato e stiro. Ogni sera vado a preparare la cena, lavo i piatti della giornata e metto in ordine la casa. Una o due volte alla settimana riceve e io devo rimanere fino a tardi per servire cocktail e tramezzini, o preparare waffles. Ieri sera aveva un bel po’ di ospiti, e a mezzanotte ho servito una cena a base di pollo fritto. Dovevano essere quasi le due quando sono tornata qui, nel mio appartamento».
«Come ha saputo della morte della signora Sticklemann?».
«Me lo ha detto la signora Turner. Deve avermi sentito infilare la chiave nella serratura perché ha fatto capolino e mi ha bisbigliato che era morta... ammazzata. Ero troppo stanca per badarci, persino a una cosa come quella. Ci ho pensato un po’, ma poco dopo sono andata a dormire».
«Che cosa sa della signora Sticklemann? Qualunque cosa possa essere d’aiuto nell’indagine».
«Non sapevo molto di lei. Una volta mi ha fatto capire di avere un reddito che le permetteva di vivere senza lavorare. Non aveva figli e credo avesse divorziato dal marito. Un’altra volta mi ha detto di avere due zie zitelle che vivevano a Los Angeles. Oltre a questo, non riesco a pensare a niente che possa essere importante».
«E per quanto riguarda questo Malloy? Lui e la signora Sticklemann erano buoni amici?».
«Beh, sì, immagino di sì. Quando la signora Sticklemann ha preso in affitto il suo appartamento, mi era parso di capire che si fosse trasferita qui per stare vicino al signor Malloy. Non riesco a ricordare perché ebbi quest’impressione, se me lo disse qualcuno o fu solo una mia supposizione. In ogni caso, ne ero convinta in quel momento. È un po’ strano che qualcuno con del denaro debba vivere in questa topaia, vero?».
Mayhew sorrise cupo. «Abbiamo tutti del denaro qui», disse con freddo umorismo. «Perlomeno, tutti sembrano essere in pensione. Tranne lei. È bello incontrare un’onesta lavoratrice. È vedova?».
«Sì. Il signor Marble è morto anni fa. Sono sola con la mia bambina».
Gli occhi castani di Mayhew si animarono e fissarono ansiosi il pallido volto che avevano di fronte. «La sua bambina? Dov’era la notte scorsa?».
«Nell’appartamento. Dormiva. La metto a letto prima di uscire, alle sei e mezza».
«Vorrei vederla. È nell’appartamento ora?». La donna annuì lentamente.
«Edson, vai a cercare la figlia della signora Marble».
Edson fece ritorno insieme alla piccola bandita dello scrittoio che Miss Rachel aveva conosciuto il giorno prima. Lo sguardo di Clara Marble passò dalla madre al volto abbronzato del tenente. Contrasse i lineamenti in un terribile cipiglio. «Sei un poliziotto, vero? Lo so. Ma non fare del male alla mia mamma. Altrimenti ti ficcherò il rompighiaccio nella pancia!».
La madre parve sentirsi male per la vergogna e l’umiliazione. «Tenente, per favore, non si arrabbi con lei! Sono costretta a lasciarla così tanto tempo da sola mentre lavoro, e lei impara espressioni terribili di ogni sorta scorrazzando libera nella zona dei divertimenti. Non è... non è una bambina cattiva, davvero».
Il tenente Mayhew abbassò lo sguardo su quella faccia stretta dagli zigomi prominenti. I suoi occhi presero nota, senza darlo a vedere, del corpicino esile, delle ginocchia nodose, delle braccia scarne. Tese una delle grosse mani, esitante. «Sono sicuro che non è una bambina cattiva, come dice lei. Vuole bene alla sua mamma. Ora, Pupetta, vorrei farti una domanda».
Lei non era tipo da lasciarsi vincere subito. «Come mi hai chiamata?».
«Pupetta. Non ti piace?».
Arricciò il piccolo naso. «Un po’. È un nome buffo. Posso tenerlo?».
«Sicuro. Da oggi ti chiami Pupetta. Se lo ricordi, signora Marble. A sua figlia piace il nome Pupetta e perciò Pupetta sia. Ora, Pupetta, rispondi a questo: hai sentito qualche rumore strano la scorsa notte?».
I suoi occhi azzurri si rannuvolarono. Guardò la madre. «Rispondi, cara», le disse la signora Marble.
«Non ho sentito niente», rispose lei con prontezza.
«Proprio nessun rumore? Bene, allora, hai visto qualcosa? Intendo qualcosa come una persona che sgattaiola fuori dalla finestra o che sbircia dentro, niente del genere?».
La bambina scosse la testa, decisa. «Non ho nemmeno visto niente», assicurò a Mayhew.
Mayhew pescò un nichelino dalla tasca. Lo tese verso Clara. «Ecco, tieni. È per aiutarti a ricordare che, se ti dovesse capitare di pensare a qualcosa accaduto la scorsa notte, devi dirlo a tua mamma. Lo farai?».
Clara prese il nichelino con solennità. «Glielo dirò se ricordo qualcosa. Ma non penso che succederà».
Mayhew la guardò con aria ingenua. «E come mai?».
Clara sembrava trovare molto interessanti i lacci delle proprie scarpe. «Semplicemente non penso che succederà. Potrebbe. Ma è più probabile che non succeda».
«Capisco. Bene, signora Marble, credo sia tutto. Chieda a Clara... oh, mi scusi, voglio dire a Pupetta, qui... se riesce a ricordare qualsiasi cosa di quanto è accaduto la notte scorsa. Ci provi una volta ogni tanto. Potremmo ottenere qualcosa, anche se è improbabile. Voi potete andare».
La signora Turner seguì Edson nella veranda e rivolse a Mayhew uno sguardo carico di disprezzo. Era pomeriggio inoltrato. C’era stata una pausa per il pranzo.
Era una donna alta e vigorosa. Il volto, al di sotto dei crespi capelli color ruggine pettinati alla Pompadour, ricordava a Mayhew un cavallo. «Non ho niente per lei. È inutile farmi delle domande. Inoltre, ho del lavoro da fare», nitrì, e l’illusione fu completa.
«Si sieda», le disse Mayhew. «Ci sono un bel po’ di cose che voglio sapere, invece. Lei è la proprietaria, qui. Probabilmente sa più lei di ogni affittuario che chiunque altro. Cominci raccontandomi tutto quello che sa della signora Sticklemann».
La signora Turner storse la bocca, ma cedette abbastanza da sedersi. «So molto poco di quella donna, solo che era divorziata e che non doveva lavorare per vivere. È tutto».
«Che cosa sa dei suoi rapporti con un uomo di nome Malloy?».
«Che cosa intende con... rapporti? Si conoscevano, credo. Lei si è trasferita qui per stare con lui, ma io non sono una spia. Non so quel che fanno i miei affittuari quando stanno insieme».
«Stavano insieme allora? Spesso?».
«Non lo so. E, cosa più importante, non mi importa se erano immorali».
Mayhew si sporse in avanti per guardare più da vicino i lineamenti grossolani e marcati della proprietaria. «È un’insinuazione grave, signora. Per favore, la approfondisca. Che basi ha per pensare che la signora Sticklemann fosse immorale?».
«Non ho detto che lo fosse. Ho detto solo che se lo fosse stata non mi importerebbe. Non cerchi di rigirare le mie parole».
Mayhew guardò la donna con profondo risentimento. «Non sto cercando di rigirare le sue parole, signora Turner. Voglio semplicemente stabilire con chiarezza quale rapporto ci fosse tra la signora Sticklemann e questo Malloy. Ho ragione di credere che fossero molto interessati l’uno all’altra. Malloy è sparito dal suo alloggio qui, secondo gli altri inquilini, e la signora Sticklemann è morta. Ora vorrei che mi dicesse tutto quel che sa su Malloy».
La signora Turner lo fissò con uno sguardo carico di collera. «È mio cugino da parte di madre. Era sposato ma sta divorziando. Circa tre settimane fa ha lasciato questa casa e non è più tornato. È tutto quello che so di lui».
«È suo cugino... e tutto quello che sa di lui si riduce a questi pochi fatti? Non sembra ragionevole. Di certo deve sapere un bel po’ di cose su quest’uomo!».
«Oh, un sacco di cose irrilevanti. Ma non è necessario che lei sprechi il mio tempo per riuscire a saperle. Chieda a sua moglie e a sua figlia».
«Lo farò, quando saprò dove si trovano. Lei ha il loro indirizzo?». Rimase in attesa con il taccuino aperto.
«Proprio qui, nell’appartamento accanto a quello dei Timmerson e di fronte a quello della vecchietta, Miss Murdock. Sono lì adesso, credo, in attesa che lei le convochi».
Mayhew non riuscì a nascondere del tutto la sorpresa. Consultò la sua piantina e vide che l’appartamento in questione era stato contrassegnato con un punto di domanda perché non aveva ancora chiesto chi fossero gli inquilini. Mentre fissava il foglio, la signora Turner si alzò e si mosse verso la porta.
«Solo un momento, signora Turner. Vorrei la chiave dell’appartamento di Malloy. Immagino che lei abbia una sorta di passe-partout in grado di aprire la porta, no?».
La donna si irrigidì in atteggiamento di sfida dentro i vestiti che le cadevano male. «E anche se l’avessi?», ribatté. «Mi serve, non lascerò che la tenga lei».
«Sì, invece», disse Mayhew, calmo. «Edson, vai con la signora Turner e portami la chiave. E... signora Turner, un’ultima domanda. Che cosa ha fatto ieri sera tra le sette e le dieci?».
Per la prima volta uno sguardo pensoso, concentrato, sostituì l’aria di sfida. «Ho cucito per la maggior parte del tempo. Stavo facendo l’orlo a delle tende per la casa. Devo aver iniziato verso le sette e mezza, perché lavoravo da un po’ quando la vecchietta è venuta a chiedermi un asciugamano». Raccontò dell’arrivo di Miss Rachel alle nove. «Avevo quasi finito con l’ultima partita di tende quando sono iniziate le urla. La signora Timmerson che faceva tutte quelle storie».
«Il rumore della macchina per cucire poteva impedirle di sentire rumori insoliti nel corridoio?».
La donna increspò la bocca spigolosa. «Credo di sì. Non ho sentito niente».
Mayhew la lasciò andare ed Edson la seguì.
Mentre sedeva pensieroso allo scrittoio, Mayhew notò una figura con la cuffia bianca e la mantella blu ferma sulla porta d’ingresso. Chiamò l’infermiera: «Come sta la vecchina? Qualche miglioramento?».
La ragazza gli sorrise con gli occhi. «Si sta riprendendo bene. Non potrebbe andare meglio».
«Bene», disse Mayhew. Stava pensando che magari la zia della donna assassinata poteva essere d’aiuto, anche se era improbabile. Di solito le persone anziane sono lente, non sentono né vedono bene. E questa anziana signora in particolare a quanto pareva dormiva profondamente a causa di una overdose di morfina al momento in cui il delitto veniva commesso.
E tuttavia, rimuginava, forse poteva essere d’aiuto, se non altro per fare luce sul passato della nipote.
I semi di questo crimine si trovavano da qualche parte nel passato: il passato recente, in cui Lily aveva incautamente cercato di fregare gli Scurlock a carte, o in un periodo remoto e ancora ignoto della vita disordinata di quella donna.