mercoledì 7 agosto 2024

L'ANIMALE MORENTE Philip Roth






L'ANIMALE MORENTE
Philip Roth.

Recensione
 «L’unica ossessione che la gente cerca: l’amore. Pensano, le persone, che innamorarsi sia come diventare parte di un tutto? L’unione platonica delle anime? Non per me. Sei una cosa unica prima di iniziare. Poi l’amore ti frantuma. Sei tutto intero, e poi finisci spaccato».....
.... «Riesci a immaginarla, la vecchiaia? Naturalmente no. Io no. Non ci riuscivo. Non avevo idea di che cosa fosse. Non ne avevo neanche un'immagine falsata: non ne avevo alcuna immagine. E non c'è nessuno che abbia voglia di fare previsioni. Nessuno desidera affrontare queste cose prima che venga il momento. Come andrà a finire, tutto? È di rigore l'ottusità.»

Un  libro sincero e senza pudori che ti rimesta nel  profondo. Si tratta di una meditazione  condivisa,  più che una narrazione, sul sesso, sulla vecchiaia, sulla morte che  ti stimola  a fare il punto sullo stato della tua più nascosta intimità.
David Kepesh – alter ego di Roth - non nasconde  il fatto di portarsi a letto le ragazze più  attraenti del suo corso, senza curarsi dei limiti deontologici del suo ruolo.  Spesso, a dire il vero, sono le ragazze che si portano a letto lui. È ciò che succede con Consuela Castillo, meravigliosa ed elegante ragazza, figlia di immigrati benestanti cubani anticastristi.
Consuela ha qualcosa di straordinario che attira morbosamente questo uomo. La sua sensualità mascherata dietro al perbenismo, una consapevole femminilità alla quale appare indifferente. Ma soprattutto Consuela è un'occasione (l'ultima) per rivisitare  il proprio passato, e la sua ossessione per la sessualità e il rapporto con le donne. Dalla memoria emerge la ricchezza non sempre felice di una vita, insieme alle menzogne e meschinità, delle sue storie con le donne. Mentre si accorge per la prima volta in tutta la sua vita che non è più padrone totale dei sentimenti, delle passioni e degli impulsi, da questo amore nasce il dramma, e si passa dalla normalità la tragedia. La vecchiaia incrocia imprevedibilmente la malattia della sua giovane amante nel gioco crudele e straordinario dell'esistenza. Un romanzo tragico che racchiude tutta l'essenza dell'opera di Roth. 

L'ANIMALE MORENTE 
Nel corpo, non meno che nel cervello,   è racchiusa la storia della vita.       EDNA O’BRIEN

 


L’ho conosciuta otto anni fa. Frequentava il mio corso. Io non insegno più a tempo pieno, e se volessi essere preciso dovrei dire che non insegno letteratura: già da molti anni tengo un solo corso, un grande seminario di critica letteraria, per i laureandi, che ho chiamato Practical Criticism. Le mie lezioni attirano un mucchio di studentesse. Per due ragioni. Perché l’argomento presenta un’allettante combinazione di glamour intellettuale e glamour giornalistico; e perché le ragazze mi hanno sentito recensire libri alla radio o visto parlare di cultura alla televisione. Negli ultimi quindici anni fare il critico culturale in un programma televisivo mi ha reso piuttosto popolare, localmente, e per questo il mio corso attira le ragazze. Nei primi tempi non mi ero reso conto che parlare alla Tv per dieci minuti una volta la settimana potesse fare l’effetto che fa a queste studentesse. Ma le ragazze sono irrimediabilmente attratte dalla celebrità, per insignificante che possa essere la mia.

Ora, come sai, io sono molto sensibile alla bellezza femminile. Tutti hanno qualcosa davanti a cui si sentono disarmati, e io ho la bellezza. La vedo e mi acceca, impedendomi di scorgere ogni altra cosa. Queste ragazze vengono al mio corso, e io capisco quasi subito qual è quella che fa per me. C’è un racconto di Mark Twain dove lui scappa, inseguito da un toro, e quando si rifugia sopra un albero il toro alza gli occhi e pensa: «Voi siete la mia preda, signore.» Be’, quando le vedo in aula quel «signore» si trasforma in «signorina.» Sono passati otto anni, dunque: io ne avevo già sessantadue e la ragazza, che si chiama Consuela Castillo, ne aveva ventiquattro. Consuela non è come le altre. Non ha l’aria di una studentessa, non di una comune studentessa, per lo meno. Non è una mezza adolescente, non è una ragazza sbracata, sciatta, pullulante di «cioè.» E raffinata nel parlare, misurata, e il suo portamento è perfetto: sembra che sappia qualcosa della vita degli adulti, oltre a stare seduta, stare in piedi e camminare. Come entri nell’aula, capisci che questa ragazza o la sa più lunga delle altre o a questo aspira. Il modo in cui si veste, per esempio. Non è proprio quella che chiameremmo eleganza, la sua, e non ha sicuramente nulla di vistoso, ma, tanto per cominciare, Consuela non è mai in jeans, stirati o gualciti che siano. Veste con cura, sobrietà e buon gusto, gonne, abiti e calzoni su misura. Non per desensualizzarsi, si direbbe, ma per professionalizzarsi, veste come l’attraente segretaria di un prestigioso studio legale. Come la segretaria del presidente di una banca. Ha una camicetta di seta color panna sotto un blazer di buon taglio blu con i bottoni d’oro, una borsetta marrone con la patina della pelle più costosa e un paio di stivaletti alla caviglia intonati alla borsetta, e porta una sottana di maglia grigia un po’ elastica che rivela le linee del suo corpo con tutta la malizia che può metterci una sottana come quella. I capelli sono acconciati con naturalezza, ma con cura. Il colorito è pallido, la bocca arcuata, anche se le labbra sono piene, e la fronte è tondeggiante, una fronte levigata di un’eleganza brancusiana. È cubana. I suoi sono prosperi cubani che stanno nel New Jersey, oltre il fiume, nella Bergen County. Ha capelli nerissimi, lustri, ma un po’ grossi. Ed è grande. E una ragazzona. La camicetta di seta è slacciata fino al terzo bottone, e questo ti permette di vedere che Consuela ha due seni prepotenti, bellissimi. Noti subito il solco tra i seni. E vedi che lei lo sa. Vedi che, nonostante la compostezza, la meticolosità, lo stile cautamente soigné (o forse proprio per questo), Consuela è cosciente del proprio fascino. Viene alla prima lezione con la giacca abbottonata sopra la camicetta, ma cinque minuti dopo se l’è già tolta. Quando guardo di nuovo dalla sua parte, vedo che se l’è rimessa. In questo modo capisci che è cosciente del suo potere, ma che ancora non sa come usarlo, non sa cosa farne, non sa nemmeno quanto lo desidera. Quel corpo le riesce ancora nuovo, deve ancora metterlo alla prova, ci sta ragionando su, un po’ come un ragazzo che cammina per la strada con una pistola carica e deve ancora decidere se andare in giro armato per difendersi o per iniziare una vita di delitti.

Ed è cosciente anche di un’altra cosa, una cosa che non potevo dedurre da quel primo incontro in aula: la cultura è importante, per lei, anche se in un modo antiquato e deferente. Non che sia una cosa da cui voglia trarre il suo sostentamento. Non vuole e non potrebbe - è stata allevata troppo bene e in un modo troppo conforme alla tradizione, per questo -, ma la cultura è importante e meravigliosa come nessun’altra delle cose che conosce. Consuela è la ragazza che trova affascinanti gli impressionisti, ma il Picasso cubista deve guardarlo bene, aguzzando gli occhi (sempre con un senso di fastidiosa perplessità) e mettendocela tutta per cogliere l’idea. Lei sta lì, in attesa della nuova e sorprendente sensazione, del nuovo concetto, della nuova emozione, e quando non viene (non viene mai), si accusa di essere inadeguata e priva di... cosa? Si accusa di non riuscire a capire nemmeno che cosa le manca. L’arte che puzza di modernità non la lascia soltanto perplessa, ma anche delusa di sé. Vorrebbe che Picasso contasse di più, che operasse in lei qualche trasformazione, magari, ma teso sulla ribalta del genio c’è un telo trasparente che le offusca la vista e tiene un po’ a distanza la sua venerazione. Consuela da all’arte, a tutte le arti, assai più di quanto ne riceva, una specie di zelo che non manca di un suo fascino struggente. Un cuore generoso, un bel viso, uno sguardo insieme invitante e remoto, due seni stupendi; e nata, come donna, da così poco tempo che trovare dei frammenti del guscio attaccati a quella fronte ovoidale non sarebbe stata una sorpresa. Capii immediatamente che quella sarebbe stata la mia ragazza.

Ora, da una quindicina d’anni a questa parte io ho una regola fissa alla quale non vengo mai meno. Non cerco di avere contatti personali con nessuna di queste ragazze finché non hanno superato l’esame finale e ricevuto il voto, cioè fino al momento in cui io non sono più, ufficialmente, in loco parentis. Nonostante le tentazioni - e anche di fronte a un chiarissimo invito a farmi avanti per iniziare il corteggiamento - non infrango questa regola da quando, verso la metà degli anni Ottanta, il numero telefonico della hotline per le molestie sessuali venne affisso per la prima volta fuori della porta del mio ufficio. Non cerco prima questi contatti per non scontrarmi con quegli esponenti dell’università che, se potessero, farebbero di tutto per impedirmi di godermi la vita.

Insegno ogni anno per quattordici settimane, e in questo intervallo non cerco avventure. Ricorro, invece, a un trucco. E un trucco onesto, un trucco molto chiaro e trasparente, ma è pur sempre un trucco. Dopo l’esame finale e l’assegnazione dei voti, organizzo nel mio appartamento una festa per gli studenti. Riesce sempre benissimo ed è sempre la stessa. Li invito per un drink verso le sei. Dico che dalle sei alle otto berremo qualcosa, e loro si fermano sempre fino alle due del mattino. I più audaci, dopo le dieci, si trasformano in esuberanti personaggi e mi spiegano che cosa li interessa veramente. Nel seminario di Practical Criticism ci sono una ventina di studenti, certe volte anche venticinque, dunque saranno quindici o sedici ragazze e cinque o sei ragazzi, due o tre dei quali eterosessuali. Metà di questo gruppo se n’è andata prima delle dieci. Generalmente, restano un eterosessuale, forse un gay, e otto o nove ragazze. Sono invariabilmente i più colti, intelligenti e vivaci di tutti. Parlano di quello che stanno leggendo, di quello che stanno ascoltando, delle mostre che hanno visto: entusiasmi dei quali normalmente non mettono a parte i loro genitori né, necessariamente, i loro amici. Questi ragazzi si trovano frequentando il mio corso. E trovano me. Durante quella festa scoprono all’improvviso che io sono un essere umano. Non sono il loro insegnante, non sono la mia reputazione, non sono uno dei loro genitori. Ho un appartamento su due piani gradevole e ordinato, vedono la mia grande biblioteca, corridoi di doppi scaffali che ospitano le letture di una vita e occupano tutto il piano inferiore, vedono il mio pianoforte, vedono con quale dedizione faccio quello che faccio, e si fermano.

Un anno la mia studentessa più divertente fu come la capretta della favola che va a nascondersi nella pendola. Alle due del mattino buttai fuori l’ultimo, e mentre ci stavamo salutando scoprii che mancava una ragazza. Dissi: «Dov’è il clown del nostro corso, la figlia di Prospero?»

«Oh, credo che Miranda sia andata via», disse qualcuno.

Rientrai in casa per rimettere un po’ in ordine l’appartamento e al piano di sopra sentii una porta che si chiudeva. La porta di un bagno. E Miranda scese le scale, ridendo, un po’ imbambolata da una specie di radioso abbandono - non avevo mai notato, fino a quel momento, che fosse così carina -, e disse: «Non sono stata brava? Mi sono nascosta nel bagno al piano di sopra, e ora andrò a letto con lei.»

Un cosino, forse un metro e cinquantacinque di statura; e si tolse il pullover e mi mostrò le tette, rivelando il busto adolescente di una vergine balthusiana incipientemente trasgressiva; e andammo a letto insieme, certo. Per tutta la sera, come una bambina sfuggita al periglioso melodramma di un quadro di Balthus per la baldoria della nostra festicciola, Miranda era stata carponi sul pavimento col sedere puntato verso il cielo o prostrata senza forze sul sofà o allegramente stravaccata tra i braccioli di una poltrona, apparentemente ignara del fatto che, con la gonna che le scopriva le cosce e le gambe indecorosamente aperte, aveva l’aria tipicamente balthusiana di essere seminuda pur essendo vestita di tutto punto. Ogni cosa si nasconde e nulla si cela. Molte di queste ragazze fanno sesso da quando avevano quattordici anni, e a venti ce ne sono almeno un paio curiose di farlo con un uomo della mia età, anche una sola volta, e ansiose il giorno dopo di raccontarlo a tutte le amiche, che arricciano il naso e chiedono: «Ma... E la pelle? Non aveva uno strano odore? E quei capelli bianchi, così lunghi? E la pappagorgia? E la trippa? Non ti è venuto da vomitare?»

Miranda mi disse poi: «Sarai andato a letto con centinaia di donne. Volevo vedere come sarebbe stato.» «E...?» E poi disse delle cose alle quali non credetti fino in fondo, ma questo non contava. Era stata audace: aveva visto che poteva farlo, per impaurita che potesse essere mentre si nascondeva, pronta a tutto, nel bagno. Lei scoprì il proprio coraggio affrontando questa strana giustapposizione, di poter vincere i propri timori iniziali e ogni iniziale ripugnanza, e io - quanto alla giustapposizione - mi divertii un mondo. Miranda, saltellante e sbracata, che faceva il pagliaccio e si metteva in posa lasciando cadere la biancheria. Per divertirsi bastava guardarla. Anche se questo piacere non fu l’unico premio. I lustri venuti dopo gli anni Sessanta hanno fatto molto per completare la rivoluzione sessuale. Questa è una generazione di regine della fellatio. Non c’è mai stato nulla di simile tra le ragazze del loro ceto.

Consuela Castillo. La vidi e rimasi straordinariamente colpito dal suo comportamento. Quella ragazza sapeva quanto valeva il suo corpo. Sapeva che cos’era. Sapeva anche che non avrebbe mai potuto inserirsi nel mondo culturale in cui vivevo io: la cultura era una cosa dalla quale voleva essere abbagliata, non un mezzo di sostentamento. Perciò venne alla festa - prima della quale mi ero preoccupato che potesse non farsi viva - e li, per la prima volta, si mostrò espansiva anche con me. Non sapendo fino a che punto sarebbe potuta arrivare la sua cautela, ero stato attento a non mostrare un particolare interesse per lei sia durante le lezioni che nelle due occasioni in cui ci eravamo visti nel mio ufficio per rileggere i suoi elaborati. E lei non fu, in quegli incontri privati, altro che sottomessa e rispettosa, annotando ogni parola che dicevo, per irrilevante che fosse. Nel mio ufficio entrò e uscì, sempre, con la giacca sopra la camicetta. La prima volta che venne a trovarmi - e ci sedemmo fianco a fianco al mio tavolo, secondo le direttive, con la porta del corridoio spalancata, e i nostri otto arti, i nostri due busti contrastanti ben visibili a ogni Grande Fratello di passaggio (e anche con la finestra spalancata, aperta da me, quant’era larga, per paura del suo profumo) -, la prima volta indossava un paio di eleganti calzoni grigi di flanella col risvolto, e la seconda una sottana nera di jersey e collant neri, ma, come in aula, sulla sua pelle bianchissima c’era sempre la camicetta, la camicetta di seta di una certa nuance crema, slacciata fino al terzo bottone. Alla festa, però, si tolse la giacca dopo il primo bicchiere di vino, e senza giacca mi guardò spavaldamente, con un sorriso aperto e stuzzicante. Eravamo in piedi, a pochi centimetri di distanza, nello studio, dove le avevo mostrato un manoscritto di Kafka che possiedo: tre pagine di pugno di Kafka, il discorso che aveva tenuto alla festa per il pensionamento del capo della società di assicurazioni dove lavorava, dono, questo manoscritto del 1910, di una ricca signora sposata di trent’anni che era stata una mia studentessa, e mia amante, alcuni anni prima. Consuela stava parlando con calore di ogni cosa. Farle toccare il manoscritto di Kafka l’aveva elettrizzata, e così le cose venivano a galla tutte in una volta, domande che aveva covato per l’intero semestre mentre io segretamente covavo il mio desiderio. «Che musica ascolta? Davvero suona il piano? Legge tutto il giorno? Sa a memoria tutte le poesie dei libri che ha negli scaffali?» Da ogni domanda era chiaro quanto la meravigliasse - parola sua - la vita che facevo, la mia vita culturale tranquilla e coerente. Le domandai cosa faceva lei, com’era la sua vita, e lei mi disse che dopo il liceo non si era iscritta subito all’università, ma aveva deciso di fare la segretaria. Ed era questo che avevo visto subito: la dignitosa e leale segretaria, il bene più prezioso dell’uomo di potere, del direttore di banca o del capo dello studio legale. Consuela apparteneva veramente a un’era tramontata, era un regresso a un tempo più cortese, e io pensai che il suo modo di vedersi, come il suo modo di comportarsi, fosse molto condizionato dal fatto di essere la figlia di ricchi cubani emigrati, persone facoltose fuggite dopo la rivoluzione.

Mi disse: «Fare la segretaria non mi piaceva. Ci ho provato per un paio d’anni, ma è un mondo noioso, e i miei genitori hanno sempre voluto e sperato che io andassi all’università. Così invece, alla fine, ho deciso di studiare. Forse cercavo di ribellarmi, immagino, ma era una reazione infantile, e allora mi sono iscritta qui. Qualunque tipo di arte mi riempie di meraviglia.» Ancora quella parola, «meraviglia», che usava sinceramente e con larghezza. «Sì, e cosa le piace?» chiesi. «Il teatro. Ogni forma di teatro. Vado all’opera. Mio padre ama l’opera e al Met ci andiamo insieme. Il suo compositore preferito è Puccini. Con lui vado sempre volentieri.» «Ama i suoi genitori?» «Moltissimo», disse. «Mi parli di loro.» «Be’, sono cubani. Molto orgogliosi. E qui hanno fatto molta strada. I cubani che sono venuti qui per colpa della rivoluzione avevano un modo di vedere il mondo che, in una qualche maniera, ha fatto fare a tutti molta strada. Quel primo gruppo, come la mia famiglia, ha lavorato sodo, ha fatto tutto quello che si doveva fare, e ha fatto tanta di quella strada che, come una volta ci diceva mio nonno, alcuni di loro, che quando sono arrivati qui hanno avuto bisogno dell’assistenza pubblica, perché non avevano niente... Da alcuni di loro, dopo qualche anno, il governo americano ha cominciato a ricevere degli assegni coi rimborsi. Non sapevano che pesci pigliare, diceva mio nonno. La prima volta, nella storia del Tesoro americano, che avevano ricevuto un rimborso.» «Lei vuol bene anche a suo nonno. Com’è?» chiesi. «Come mio padre: un uomo posato, molto tradizionalista, all’antica. Prima il duro lavoro e l’istruzione. Sopra ogni cosa. E, come mio padre, tutto casa e famiglia. Religiosissimo. Anche se in chiesa non ci va poi tanto spesso. Né tanto spesso ci va mio padre. Mia madre invece sì. Mia nonna sì. Mia nonna dice il rosario tutte le sere. Quando la gente vuole farla contenta le regala dei rosari. Ha i suoi preferiti. Lo ama, il suo rosario.» «E lei ci va, in chiesa?» «Quando ero piccola. Ma ora, no. I miei sanno adattarsi. I cubani di quella generazione dovevano sapersi adattare, almeno fino a un certo punto. I miei vorrebbero che ci andassimo, io e mio fratello, ma no, io non ci vado.» «Quali restrizioni ha avuto una ragazza cubana cresciuta in America che non sarebbero tipiche di un’educazione americana?» «Oh, un sacco di coprifuoco anticipato. D’estate, la sera, dovevo essere a casa quando tutte le mie amiche si erano appena incontrate. A casa alle otto di sera, d’estate, quando avevo quattordici o quindici anni. Ma mio padre non era un orco. E gentile, un padre come tutti gli altri. Solo, nessun ragazzo ha mai avuto il permesso di entrare in camera mia. Mai. Per il resto, quando ho compiuto sedici anni, sono stata trattata com’erano trattate le mie amiche, come orari e tutto.» «E i suoi genitori, quando sono venuti?» «Nel 1960. Allora Fidel lasciava ancora la gente libera di andarsene. Si erano sposati a Cuba. Prima sono andati in Messico. Poi qui. Io sono nata qui, naturalmente.» «Si considera un’americana?» «Sono nata qui, ma no, sono cubana. Cubana fino al midollo.» «Mi sorprende, Consuela. La sua voce, il suo atteggiamento, il suo modo di parlare. Per me lei è americana al cento per cento. Perché si considera cubana?» «Appartengo a una famiglia cubana. Tutto qui. I miei hanno quest’orgoglio smisurato. Amano la loro patria. Ce l’hanno nel cuore. Ce l’hanno nel sangue. A Cuba erano così.» «Cos’amano di Cuba?» «Oh, era un tale divertimento... Era una comunità di persone che avevano il meglio di tutto il mondo. Assolutamente cosmopolita, specie se abitavi all’Avana. Ed era bellissima. E tutti davano questi grandi ricevimenti. Era un vero spasso.» «Ricevimenti? Mi parli dei ricevimenti.» «Ho queste foto di mia madre a questi balli in costume. Di quando ha debuttato in società. Foto di lei al ballo con cui ha debuttato in società.» «I suoi cosa facevano?» «Be’, è una storia lunga.» «Me la racconti.» «Be’, il primo spagnolo dal lato di mia nonna vi fu mandato col grado di generale. C’erano sempre un mucchio di soldi ereditati dagli avi spagnoli. Mia nonna aveva degli istitutori privati, e a diciotto anni andava a comprare i vestiti a Parigi. Nella mia famiglia, da tutt’e due le parti, ci sono dei nobili spagnoli. Alcuni sono di una nobiltà molto antica. Come mia nonna, che è duchessa... In Spagna.» «E anche lei è una duchessa, Consuela?» «No, - disse lei con un sorriso, - sono solo una ragazza cubana fortunata.» «Be’, potrebbe passare per una duchessa. Sui muri del Prado ci dev’essere una duchessa che le somiglia. Conosce il celebre dipinto di Velàzquez, Las meninas? Anche se lì la principessina ha i capelli chiari, è bionda.» «Non credo.» «E’ a Madrid. Al Prado. Glielo mostro.»

Scendemmo la scala a chiocciola d’acciaio che porta agli scaffali della biblioteca, e io trovai un librone di riproduzioni di Velàzquez, e ci sedemmo l’uno accanto all’altra a voltare le pagine per quindici minuti, un eccitante quarto d’ora in cui entrambi imparammo qualcosa: lei, per la prima volta, su Velàzquez e io, di nuovo, sulla deliziosa imbecillità della lussuria. Tutte queste chiacchiere! Le mostro Kafka, Velàzquez... Perché uno fa queste cose?

Be’, qualcosa devi fare. Questi sono i veli della danza. Non confonderla con la seduzione. Questa non è la seduzione. Quella che mascheri è la cosa che ti ha spinto, la pura e semplice lussuria. I veli nascondono l’impulso, che è cieco. Mentre fai questi discorsi hai l’erronea sensazione, come lei, di sapere con che cosa hai a che fare. Ma non è come parlare con un avvocato o sentire il parere di un dottore, e le cose che si dicono non cambieranno la tua linea di condotta. Tu sai che lo desideri e sai che lo vuoi fare e che nulla te lo impedirà. In questa fase nessuno dirà nulla che possa cambiare qualcosa.

Il grosso scherzo che ti fa la biologia è che raggiungi l’intimità con una persona prima di sapere qualcosa di lei. Fin dal primo momento, hai capito tutto. Inizialmente, l’attrazione è esercitata dalle superfici, ma c’è anche l’intuizione della dimensione più completa. E l’attrazione non dev’essere necessariamente la stessa: lei può essere attirata da una cosa, tu da un’altra. E superficie, è curiosità, ma poi, boom, ecco la dimensione. È bello che lei sia di Cuba, è bello che sua nonna fosse questo e suo nonno quello, è bello che io suoni il piano e sia il proprietario di un manoscritto di Kafka, ma questa è solo una digressione lungo la strada che ci porta nel posto dove stiamo andando. È una parte dell’incanto, immagino, ma è la parte di cui io farei volentieri a meno, senza la quale mi sentirei molto meglio. Il sesso: ecco tutto l’incanto necessario. Le donne, per gli uomini, sono davvero tanto incantevoli, una volta tolto il sesso? C’è qualcuno che trova incantevole un’altra persona di questo o di quel sesso se non nutre per lei un interesse di natura sessuale? Da chi, ancora, ti fai incantare così? Da nessuno.

Gli sto dicendo chi sono, pensa lei. Gli interessa sapere chi sono. Questo è vero, ma io sono curioso di sapere chi è perché la voglio scopare. Non ho bisogno di tutto questo grande interesse per Kafka e Velàzquez. Mentre con lei faccio questa conversazione, penso, Quanto dovrò aspettare, ancora? Tre ore? Quattro? Arriveremo a otto? Venti minuti di veli, e sono già li che mi domando, Cosa c’entra tutto questo con le sue tette, la sua pelle e il suo portamento? L’arte francese del corteggiamento non m’interessa. L’impulso selvaggio, sì. No, questa non è seduzione. Questa è una commedia. È la commedia che si recita per creare un collegamento che non è il collegamento - che non può competere con il collegamento - creato spontaneamente dalla lussuria. Questo è un istantaneo richiamarsi alle convenzioni, un darci subito qualcosa in comune, il tentativo di trasformare la lussuria in qualcosa di socialmente conveniente. Ma è proprio la radicale sconvenienza che fa della lussuria la lussuria. No, questo si limita a tracciare la rotta, non in avanti ma indietro, verso l’impulso primordiale. Non confondiamo la dissimulazione col problema sul tappeto. Certo, potrebbero esserci altri sviluppi, ma questi sviluppi non c’entrano niente con gli acquisti prematrimoniali di tendine e copripiumoni e l’iscrizione alla squadra evoluzionista. L’evoluzionismo è un sistema che può funzionare senza di me. Io voglio scopare questa ragazza e... Sì, dovrò rassegnarmi a una certa dissimulazione, ma sarà solo un mezzo per raggiungere uno scopo. Quanto c’è, di astuzia, in tutto questo? Tutto, oserei dire.

«Vogliamo andare a teatro insieme, qualche volta?» le chiesi. «Oh, molto volentieri», disse lei, e allora non sapevo se era sola o aveva un boyfriend, ma non me ne importava, e due o tre giorni dopo - tutto questo risale a otto anni fa, al 1992 - Consuela mi scrisse un biglietto che diceva: «E’ stato bello essere invitata alla festa, visitare il suo magnifico appartamento, la sua straordinaria biblioteca, tenere in mano un autografo di Franz Kafka. Lei mi ha così generosamente fatto conoscere Diego Velàzquez...» Aggiungeva l’indirizzo e il numero di telefono, sicché le telefonai e le proposi una serata fuori. «Perché non viene a teatro con me? Lei sa qual è il mio lavoro. Devo andare a teatro quasi tutte le settimane, ho sempre due biglietti, e magari lei verrebbe volentieri.»

Così cenammo insieme in un ristorante di midtown, andammo a vedere una commedia che non aveva il minimo interesse, e passai la sera seduto accanto a lei, sbirciando il bel solco tra i seni nella scollatura e il suo bellissimo corpo. Porta una quarta, questa duchessa, ha due seni veramente grossi, molto belli, e la pelle bianchissima, una pelle che, quando la vedi, ti fa venire voglia di leccarla. In teatro, al buio, la forza del suo silenzio e della sua immobilità era enorme. Cosa potrebbe esserci di più erotico, in questa situazione, dell’apparente assenza, in una donna eccitante, di ogni intento erotico?

Dopo la commedia le dissi che avremmo potuto andare a bere qualcosa; ma c’era uno svantaggio. «La gente mi riconosce per via della televisione, e ovunque andassimo, all’Algonquin, al Carlyle, potrebbe disturbare la nostra intimità.» «Ho già notato che qualcuno ci guardava, - disse lei, - al ristorante e a teatro.» «Le ha dato fastidio?» chiesi. «Non so se mi ha dato fastidio. L’ho notato e basta. Mi chiedevo se infastidiva lei.» «Non c’è niente da fare, - dissi, - è un rischio professionale.» «Avranno pensato - disse lei - che ero una groupie[1]» «Decisamente lei non è una groupie», la tranquillizzai. «Ma lo avranno pensato di sicuro. "Ecco David Kepesh con una delle sue piccole groupie". Penseranno che sono una ragazza stupida e succube.» «E se anche lo pensassero?» dissi. «Non so se mi piace poi tanto. Vorrei finire l’università prima che i miei genitori trovino la loro figlia nella pagina dei pettegolezzi del "Post".» «Non credo che lei finirà nella pagina dei pettegolezzi. Non accadrà.» «Spero sinceramente di no», disse lei. «Guardi, se è questo che la preoccupa, - dissi, - possiamo aggirare l’ostacolo andando a casa mia. Possiamo andare nel mio appartamento. Possiamo bere qualcosa là.» «Okay, - disse lei, ma solo dopo un lungo momento di riflessione, - questa è probabilmente un’idea migliore.» Non una buona idea, ma solo un’idea migliore.

Andammo a casa mia e lei mi chiese di mettere su della musica. Di solito le facevo sentire dei pezzi facili di musica classica. Trii di Haydn, l’Offerta musicale, movimenti dinamici dalle sinfonie di Beethoven, adagi di Brahms. Le piaceva particolarmente la Settima di Beethoven, e nelle serate che seguirono qualche volta cedette all’impulso irresistibile di alzarsi in piedi e muovere scherzosamente le braccia in aria, come se a dirigere fosse lei e non Bernstein. Guardare i seni che si muovevano sotto la camicetta mentre Consuela faceva finta, un po’ come un bambino, di dirigere l’orchestra con la sua invisibile bacchetta era straordinariamente eccitante; e forse, a quanto ne so io, in questo non c’era proprio nulla di infantile ed eccitarmi era il vero motivo per cui lei fingeva di dirigere l’orchestra. Non poteva esserci voluto molto tempo perché nella sua mente si formasse l’idea che continuare a credere, come una giovane studentessa, che a dirigere il ballo fosse l’anziano professore non si conciliava con la realtà. Nel sesso, infatti, non c’è un punto di stasi assoluta. La parità sessuale non esiste e non può esistere, sicuramente non una parità dove siano pari le rispettive dotazioni, dove il quoziente maschile e il quoziente femminile siano in perfetto equilibrio. Non c’è modo di trattare metricamente questa cosa selvaggia e sfrenata. Non ci sono fifty-fifty come nelle transazioni d’affari. È del caos dell’eros che parliamo, di quella radicale destabilizzazione che è il suo eccitamento. In materia di sesso, è un tornare nella foresta. Un tornare nella palude. Uno scambio di dominio, uno squilibrio perenne, ecco di che si tratta. Vuoi escludere il dominio? Vuoi escludere la resa? Il dominio è la pietra focaia, fa sprizzare la scintilla, avvia il meccanismo. Poi... Cosa? Ascolta. Lo vedrai. Vedrai a che cosa porta dominare. Vedrai a che cosa porta essere dominati.

Ogni tanto, come feci quella sera, le mettevo su un quintetto d’archi di Dvorak: musica elettrizzante, abbastanza facile da riconoscere e da capire. Le piaceva che io suonassi il piano, era una cosa che creava un’atmosfera romantica e tentatrice, gradita a lei e a me. I più semplici preludi di Chopin. Schubert, alcuni dei Moments musicaux. Qualche movimento delle sonate. Niente di troppo difficile, ma pezzi che avevo studiato e che non suonavo troppo male. Di solito suono soltanto per me, anche ora che sono migliorato, ma allora era piacevole suonare per lei. Era una cosa inebriante, per entrambi. Suonare è molto strano. Oggi certe cose mi riescono facili, ma quasi tutti i pezzi hanno sempre delle parti complicate, dei passaggi che in tutti gli anni in cui suonavo da solo e non avevo una maestra non mi sono mai curato di approfondire. Allora, quando m’imbattevo in un ostacolo, ricorrevo, per superarlo, a qualcosa di stralunato. O non lo superavo per niente: certi salti, dei tortuosi movimenti da un capo all’altro della tastiera, erano imprese da rompersi le dita. Non avevo ancora una maestra quando conobbi Consuela, perciò facevo tutte quelle stupide improvvisazioni che s’inventano per risolvere i problemi tecnici. Da ragazzo avevo preso solo qualche lezione e, finché non mi sono rivolto a una maestra, cinque anni fa, ero sostanzialmente un autodidatta. Un autodidatta con una scarsissima preparazione. Se avessi preso seriamente delle lezioni, passerei meno tempo a esercitarmi di quanto faccia oggi. Oggi mi alzo presto e mentre spunta il giorno passo due ore, se posso anche due e mezzo, a esercitarmi, che è, più o meno, il massimo che si possa fare. Anche se, certi giorni in cui lavoro puntando a un certo risultato, faccio un’altra seduta più tardi. Sono in forma, ma dopo un po’ mi stanco. Mentalmente e fisicamente. È tantissima la musica che ho letto. Questo è un termine tecnico: non significa guardarla come si guarda un libro, significa suonarla al pianoforte. Ho comprato un sacco di musica, ho tutto, tutte le partiture per pianoforte, e una volta le leggevo, e le suonavo, malamente. Certi passaggi, forse, non così male. Per vedere come andava, e via dicendo. Non andava troppo bene, l’esecuzione, ma mi dava un certo piacere. E il nostro argomento è il piacere. Come affrontare seriamente, nell’arco di una vita, i propri modesti, privati piaceri.

Le lezioni sono state un regalo che mi sono fatto in occasione del mio sessantacinquesimo compleanno per essere finalmente riuscito a dimenticare Consuela. E ho fatto molti progressi. Suono dei pezzi piuttosto difficili. Intermezzi di Brahms. Schumann. Un arduo preludio di Chopin. Ne rumino un pezzetto di uno difficilissimo, e non lo suono ancora bene, ma ci lavoro su. Quando dico alla maestra, esasperato: «Non ci riesco. Lei come lo risolve, questo problema?» lei dice: «Lo suoni mille volte.» Come tutte le cose gradevoli, vedi, ha dei lati sgradevoli, ma i miei rapporti con la musica si sono approfonditi e oggi sono diventati indispensabili. Oggi far questo è la cosa più saggia. Per quanto tempo ancora potranno esserci delle ragazze?

Non posso dire che suonando io eccitassi Consuela nel modo in cui lei, dirigendo scherzosamente Beethoven, eccitava me. Così come non posso dire che Consuela si eccitasse sessualmente per qualunque cosa io abbia mai fatto. Questo è in gran parte il motivo per cui, dalla sera di otto anni fa in cui andammo per la prima volta a letto insieme, non ho mai avuto un momento di pace, questo è il motivo per cui, se ne rendesse o non se ne rendesse conto, da allora sono sempre stato incerto e preoccupato, il motivo per cui non riuscivo mai a capire se la risposta era vederla di più o vederla di meno o non vederla affatto, rinunciare a lei: fare l’impensabile e, a sessantadue anni, abbandonare volontariamente una splendida ragazza di ventiquattro che centinaia di volte mi diceva: «Ti adoro», ma che mai, anche senza sincerità, riusciva a persuadersi a sussurrare: «Ti voglio, ti desidero, non posso vivere senza il tuo cazzo.»

Questo non era da lei. Eppure era per questo che la paura di perderla e di vederla andare via con un altro non mi lasciava mai, per questo Consuela era sempre nei miei pensieri, per questo, con lei o lontano da lei, non mi sentivo mai sicuro di lei. Il lato ossessivo di tutta la faccenda era terribile. Quando sei stato sedotto da qualcosa, è bello non pensarci troppo e cullarsi nel piacere della seduzione. Ma io non avevo questo piacere; non facevo altro che pensare: pensare, preoccuparmi e... Sì, soffrire. Concentrati sul piacere, mi dicevo. Perché ho scelto di vivere come vivo, se non per il piacere, imponendo alla mia indipendenza il minor numero di restrizioni possibile? Mi sono sposato una volta sola, a poco più di vent’anni ho fatto il cattivo matrimonio che fanno tanti, quel primo matrimonio che non è meno spiacevole della vita delle reclute in un campo di addestramento, ma proprio quell’esperienza mi ha convinto a non volere il secondo cattivo matrimonio, o il terzo, o il quarto. Ero deciso, dopo quella prova, a non vivere più in gabbia. Mai più.

Quella prima sera eravamo seduti sul sofà ad ascoltare Dvorak. A un certo punto Consuela trovò un libro che le interessava: non ricordo quale, anche se non dimenticherò mai quel momento. Si voltò - ero seduto dove sei tu, nell’angolo del sofà, e lei era seduta li - e fece una mezza torsione col busto e, col libro posato sul bracciolo del sofà, si mise a leggere, e a causa dell’inclinazione, del suo sporgersi in avanti, sotto il vestito vidi le sue natiche, ne vidi chiaramente la forma, e questo era un invito grande come una casa. Consuela è una ragazza, molto alta dentro un corpo forse un po’ troppo esile. È come se il corpo non fosse proprio quello giusto per lei. Non perché sia troppo grassa. Ma non è, nel modo più assoluto, il tipo dell’anoressica. In lei vedi la carne femminile, ed è carne buona, abbondante: è per questo che la vedi. Era lì, dunque, non proprio distesa sul sofà, ma, comunque, con le natiche mezzo girate verso di me. Una donna cosciente del proprio corpo come Consuela che si comporta così mi sta invitando, conclusi, a cominciare. L’istinto sessuale è sempre intatto: la correttezza cubana non ha interferito in alcun modo. In quel culo mezzo girato io vedo che nulla ha offuscato la purezza della cosa. Tutto ciò di cui abbiamo parlato, tutto ciò che ho dovuto ascoltare della sua famiglia, niente di tutto questo ha interferito. Consuela sa muovere il culo nonostante questo. Nel modo primordiale. Per metterlo in mostra. E l’esposizione è perfetta. Mi dice che non devo più reprimere il desiderio di toccare.

Cominciai a carezzarle le natiche, e le piacque. Disse: «Questa è una strana situazione. Io non potrò mai essere la tua ragazza. Per ogni ragione possibile e immaginabile. Tu vivi in un mondo diverso.» «Diverso? - risi. - Come, diverso?» E qui, naturalmente, tu parti con le bugie e dici: «Oh, non è un posto così eccelso, se è questo che stai immaginando. Non è un mondo così affascinante. Non è neppure un mondo. Una volta la settimana parlo alla Tv. Una volta la settimana sono alla radio. Ogni due o tre settimane pubblico un articolo nelle ultime pagine di una rivista letta da venti persone al massimo. Il mio programma? È un programma culturale della domenica mattina. Non lo guarda nessuno. Non è un mondo di cui ci si debba preoccupare. Posso introdurti in quel mondo abbastanza facilmente. Ti prego, resta con me.»

Lei sembra riflettere su quello che ho detto, ma che razza di riflessione può essere la sua? «Okay, - dice, - per ora. Per questa notte. Ma non potrò mai essere tua moglie.» «D’accordo», dico, ma intanto pensavo, Chi le aveva chiesto di essere mia moglie? Chi aveva sollevato la questione? Io ho sessantadue anni e lei ventiquattro. Le tocco il culo e mi dice che non può essere mia moglie? Non sapevo che esistessero ancora ragazze simili. È decisamente più tradizionale di quanto immaginassi. O forse più strana, più originale di quanto immaginassi. Come avrei scoperto, Consuela è una ragazza comune, comune ma senza essere prevedibile. Non c’è niente di meccanico nel suo comportamento. E al tempo stesso specifica e misteriosa, e stranamente ricca di piccole sorprese. Ma, specie all’inizio, era difficile da decifrare, ed erroneamente - o forse no - io questo lo ascrivevo alla sua cubanità. «Io amo il mio piccolo mondo cubano, - mi diceva. - Amo l’intimità della mia famiglia, e so già che questa è una cosa che non ti piace e che tu non vuoi. Dunque, non potrò mai essere veramente tua.»

Questa ingenua gentilezza, unita a un corpo meraviglioso, mi riuscì così allettante che già allora, quella prima sera, non mi sentii sicuro di poterla scopare come se fosse un’altra Miranda con le sue capriole. No, Consuela non era la capretta nella pendola. Non importava quello che diceva: era così maledettamente bella che non soltanto non riuscivo a resisterle, ma non vedevo come avrebbe potuto farlo chiunque altro, e fu in quel momento, mentre io le carezzavo le natiche e lei mi spiegava che non avrebbe potuto essere mia moglie, che nacque la mia tremenda gelosia.

La gelosia. L’incertezza. La paura di perderla, mentre ero ancora sopra di lei. Ossessioni che in tutta la mia svariata esperienza non avevo mai conosciuto. Con Consuela come con nessun’altra, la crisi di fiducia fu quasi istantanea.

E così andammo a letto. Tutto accadde molto in fretta, non tanto per la mia ubriacatura quanto per la sua mancanza di complessità. Chiamala chiarezza. Chiamala maturità, una maturità nuova di zecca, ma una maturità, direi, di natura molto semplice: Consuela era in comunione con quel corpo proprio nel modo in cui desiderava e non poteva essere in comunione con l’arte. Si spogliò, e di seta non era soltanto la sua camicetta, ma anche la sua biancheria. Aveva una biancheria quasi pornografica. Una sorpresa. Tu sai che l’ha scelta perché vuole piacere. Sai che l’ha scelta pensando all’occhio di un uomo, anche se un uomo non dovesse mai vederla. Sai che non hai idea di che cos’è, di quanto è intelligente o quanto stupida, di quanto è superficiale o profonda, di quanto è innocente o di quanto è consapevole, di quanto è furba, saggia, perfida persino. Con una donna padrona di sé dotata di una simile forza sessuale, non ne hai idea e non l’avrai mai. Quel groviglio che è il suo carattere è offuscato dalla sua bellezza. Ciononostante, la vista di quella biancheria mi turbò profondamente. Mi turbò la vista di quel corpo. «Guardati», le dissi.

Le cose che si notano nel corpo di Consuela sono due. In primo luogo, i seni. I seni più belli che io abbia mai visto, e sono nato, non dimenticarlo, nel 1930: di seni, ormai, ne ho visti un bel po’. Questi erano tondi, pieni, perfetti. Del tipo col capezzolo che sembra un piattino. Non il capezzolo come una poppa, ma quel grosso capezzolo tra il rosa e il bruno chiaro che è così eccitante. La seconda cosa era che il suo pelo pubico era liscio. Di solito è riccio. Questo era come il pelo delle asiatiche. Liscio, appiattito e non tanto fitto. È importante il pelo pubico, perché ritornerà.

Si, tirai giù le coperte e lei venne nel mio letto, Consuela Castillo, la superclassica femmina fertile della nostra specie di mammiferi. E già quella prima volta, e a soli ventiquattro anni, accettò di buon grado di sedersi su di me. Non sembrava sicura di sé, una volta là, e finché non le diedi un colpetto sul braccio per richiamare la sua attenzione e costringerla a rallentare, si diede troppo da fare, dimentica di tutto, rimbalzando con gli occhi chiusi, presa da un gioco infantile tutto suo. Era un po’ come quando fingeva di dirigere un’orchestra. Immagino che stesse cercando di abbandonarsi completamente, ma era troppo giovane per riuscirci, e per quanti sforzi facesse, non era questo il risultato che otteneva. Tuttavia, poiché sapeva com’erano seducenti le sue tette e voleva che io potessi vederle nella luce migliore, quando glielo avevo chiesto si era arrampicata su di me. Per essere la prima volta, fece anche una cosa piuttosto pornografica, e questo, sempre con mia sorpresa, di sua spontanea volontà: giocherellò con le tette intorno al mio cazzo. Si sporse in avanti per mettersi il cazzo tra i seni, per farmelo vedere là annidato mentre lei se lo stringeva tra le tette con le mani. Sapeva quanto mi eccitava quella vista, la pelle delle une sulla pelle dell’altro. Ricordo che dissi: «Ti rendi conto che hai i seni più belli che io abbia mai visto?» E come una segretaria precisa ed efficiente che prende un appunto, o forse da quella figlia cubana beneducata che era, Consuela rispose: «Sì, lo so. Vedo come reagisci alle mie tette.»

Ma quando faceva l’amore, nei primi tempi era troppo focosa. Si dava troppo da fare per colpire il suo insegnante. Frena, affiatati con me, dicevo. Meno energia, più comprensione. Devi usare più grazia, se vuoi controllare le cose. C’è molto da dire a favore della spontaneità, ma dev’essere meno rude e distaccata. La prima volta che me lo succhiò, muoveva la testa con l’inesorabile rapidità di una mitragliatrice: era impossibile non venire molto prima di quanto avrei voluto; ma poi, appena cominciavo a venire, si fermava di botto e aspettava lo scroscio come lo scarico di un lavandino. Era come venire in un cestino per la carta straccia. Nessuno le aveva mai detto di non smettere proprio in quel momento. Nessuno dei cinque boyfriend precedenti aveva osato dirglielo. Erano troppo giovani. Avevano la sua età. Si accontentavano di ottenere quello che ottenevano.

Poi accadde qualcosa. Il morso a vuoto. La reazione del morso. Il morso con cui la vita reagisce. Una sera Consuela andò oltre i confini della sua confortevole, educata, abituale efficienza, lasciò il corso di studio sotto la guida del suo tutor per l’ignoto dell’avventura, e così cominciò per me la turbolenza della nostra relazione. Ecco come andarono le cose. Una sera che Consuela era stesa sul letto sotto di me, passivamente supina, in attesa che io le aprissi le gambe e glielo mettessi dentro, le ficcai due cuscini sotto la testa, tirandogliela su, gliela feci appoggiare alla spalliera del letto, così, e con le ginocchia piantate ai lati del suo corpo e il culo centrato su di lei, mi sporsi verso il suo viso e ritmicamente, senza interruzioni, glielo misi in bocca e spinsi. Ero così stufo, capisci, dei suoi pompini meccanici che per sconvolgerla la tenni ferma, la immobilizzai tenendola per i capelli, prendendone una ciocca con la mano e avvolgendomela intorno al pugno come un nastro, come una cinghia, come le redini attaccate al morso di una briglia.

Ora, nessuna donna ama essere tirata per i capelli. È certo che si eccita, qualcuna, ma questo non significa che la cosa le piaccia. E questo alle donne non piace perché in quel momento riesce loro impossibile ignorare la prepotenza che stanno subendo, una prepotenza che deve continuare e che le spinge a pensare, Il sesso, ecco, è proprio come immaginavo. È veramente brutale: e quest’uomo non è un bruto, ma conosce la brutalità. Quando venni, e mi staccai, l’espressione di Consuela era non soltanto inorridita, ma feroce. Sì, le sta finalmente capitando qualcosa. Non è più così comodo, per lei. Non è più una studentessa di piano che fa le scale sulla tastiera. Nel suo intimo qualcosa si è mosso, incontrollabilmente. Ero ancora sopra di lei - inginocchiato e gocciolante - e stavamo ancora guardandoci freddamente negli occhi, quando Consuela, inghiottito il boccone amaro, mi mostrò i denti. Con un ringhio improvviso. Crudele. Contro di me. Non era una commedia. Era una cosa istintiva. Mi mostrò i denti, ringhiando, e li strinse, usando tutta la forza dei muscoli masticatori per alzare violentemente la mandibola. Era come se dicesse, Ecco che cos’avrei potuto fare, ecco che cosa volevo fare e non ho fatto.

Finalmente una reazione immediata, incisiva, primordiale da parte di quella ragazza, così classicamente bella e sempre così controllata. Fino ad allora tutto era stato dominato dal narcisismo, dall’esibizionismo, e malgrado il dispendio di energie, malgrado l’audacia, era stranamente inerte. Non so se Consuela si ricorda di quel morso, di quel morso liberatore che la sottrasse alla propria sorveglianza e la introdusse in quel sogno sinistro, ma io non lo dimenticherò mai. Tutta la verità dell’amore. La ragazza istintuale che spezza non soltanto il recipiente della propria vanità, ma la schiavitù della sua accogliente famiglia cubana. Questo fu il vero inizio del suo dominio: il dominio cui l’aveva iniziata il mio dominio. Io sono l’autore del suo dominio su di me.

Ecco, io credo che Consuela vide in me una versione soggiogabile della raffinatezza della sua famiglia, di quel passato irrecuperabile che per lei è più o meno un mito. Un uomo di mondo. Un’autorità della cultura. Il suo maestro. Ora, la maggior parte della gente è sbigottita dall’enorme differenza di età, ma è proprio questo che attira Consuela. L’unica cosa che la gente nota è la stranezza erotica, e la nota come qualcosa di ripugnante, come una farsa ripugnante. Ma la mia età conta molto per Consuela. Queste ragazze con signori anziani non lo fanno a dispetto dell’età: sono attirate dall’età, lo fanno per l’età. Perché Nel caso di Consuela, perché la grande differenza di età le permette di sottomettersi, credo. La mia età e il mio prestigio le danno, razionalmente, licenza di arrendersi, e arrendersi, a letto, non è una sensazione spiacevole. Ma al tempo stesso darsi intimamente a un uomo molto, molto più vecchio conferisce a questo tipo di donna una forma di autorità che lei non può trovare nell’intesa sessuale con un uomo più giovane. Dalla quale ricava sia il piacere della sottomissione che il piacere del dominio. Cos’è un ragazzo che si arrende al suo potere, per una creatura tanto desiderabile? Ma avere quest’uomo di mondo che cede alla forza irresistibile della sua gioventù e della sua bellezza? Avere conquistato il totale interesse, essere diventata la passione divorante di un uomo che in ogni altro campo le sarebbe inaccessibile, entrare in una vita che ammira e che, diversamente, le sarebbe preclusa... Questo è il potere, ed è il potere che lei vuole. Il dominio non è oggetto di uno scambio sequenziale; è oggetto di uno scambio continuativo. Non è tanto uno scambio, quanto un intreccio. E qui è la fonte, non soltanto della mia ossessione per lei, ma della sua contro-ossessione per me. O così avevo immaginato allora, per quel che mi è servito immaginarlo nel tentativo di capire a cosa mirava Consuela e perché io c’ero dentro fino al collo.

Per quante cose tu sappia, per quante cose tu pensi, per quanto tu ordisca e trami e architetti, non sei mai al di sopra del sesso. E questo è un gioco assai rischioso. Un uomo non avrebbe i due terzi dei problemi che ha se non continuasse a cercare una donna da scopare. È il sesso a sconvolgere le nostre vite, solitamente ordinate. Lo so io e lo sanno tutti. Ogni vanità, portata alle estreme conseguenze, finisce sempre per burlarsi di te. Leggi il Don Giovanni di Byron. Ma come fai, quando hai sessantadue anni e credi ormai di non avere più il diritto a qualcosa di tanto perfetto? Come fai, quando hai sessantadue anni e l’impulso di afferrare tutto ciò che esiste di afferrabile non potrebbe essere più forte? Come fai, quando hai sessantadue anni e ti accorgi che tutte quelle parti del corpo che fino ad allora erano invisibili (reni, polmoni, vene, arterie, cervello, intestini, prostata, cuore) cominciano a rendersi angosciosamente manifeste, mentre l’organo più cospicuo in tutta la tua vita è destinato a ridursi in niente?

Non fraintendermi. Non è che, grazie a una Consuela, tu possa illuderti e pensare di poter avere un’ultima iniezione di giovinezza. Mai come in questo momento senti la distanza che ti separa dalla giovinezza. Nella sua energia, nel suo entusiasmo, nella sua giovanile ignoranza, nella sua giovanile sapienza, questa distanza è drammatizzata in ogni momento. Impossibile confondersi sul fatto che è lei, e non tu, ad avere ventiquattro anni. Dovresti essere uno stupido per sentirti ancora giovane. Se ti sentissi giovane, sarebbe troppo facile. Non ti senti giovane, tutt’altro: senti l’ampiezza del suo futuro illimitato contrapposto al tuo futuro limitato, senti - più ancora di quanto fai di solito - l’intensità di ogni ultima grazia perduta. È come giocare a baseball con una squadra di ventenni. Non è che ti senti ventenne perché stai giocando con loro. Noti la differenza ogni minuto che passa. Ma almeno non sei ai bordi del campo, in panchina.

Ecco che cosa succede: senti lo strazio di essere vecchio, ma in un modo nuovo.

Riesci a immaginarla, la vecchiaia? Naturalmente no. Io no. Non ci riuscivo. Non avevo idea di che cosa fosse. Non ne avevo neanche un’immagine falsata: non ne avevo alcuna immagine. E non c’è nessuno che abbia voglia di fare previsioni. Nessuno desidera affrontare queste cose prima che venga il momento. Come andrà a finire, tutto? È di rigore l’ottusità.

Comprensibilmente, ogni fase della vita più avanzata della propria è inimmaginabile. Uno, a volte, è arrivato già a metà della fase successiva prima di rendersi conto di esservi entrato. E le fasi di avanzamento precedenti offrono certe compensazioni. Anche così, per molti, la parte di mezzo è scoraggiante. Ma la fine? La fine è - cosa interessante - il primo pezzo di vita da cui ti senti totalmente escluso, pur essendoci dentro. Osservando minuto per minuto la propria decadenza (se si è fortunati come me), uno ha, grazie alla propria perdurante vitalità, un considerevole distacco dalla propria decadenza: se ne sente addirittura indipendente. Certo c’è, è inevitabile, un moltiplicarsi dei segni che portano a questa spiacevole conclusione; eppure, nonostante ciò, ti senti fuori. E la ferocia dell’obiettività è brutale.

Bisogna fare una distinzione tra il morire e la morte. Non è tutto un morire ininterrotto. Se si è sani e ci si sente bene, è un morire invisibile. La fine, che è una certezza, non dev’essere per forza annunciata con spavalderia. No, tu non puoi capire. L’unica cosa che capisci dei vecchi, quando non lo sei, è che sono stati segnati dal loro tempo. Ma capire solo questo li mummifica nel loro tempo, ed equivale a non capire nulla. Per quelli che non sono ancora vecchi, essere vecchio significa essere stato. Ma essere vecchio significa anche - a dispetto, in aggiunta e oltre a «essere stato» - che sei ancora. Il tuo «essere stato» è molto vivo. Tu sei ancora, e uno è ossessionato tanto dall’«essere ancora» e dalla sua pienezza quanto dall’«essere stato», dal passato. Alla vecchiaia pensa così: il fatto che sia in gioco la propria vita è una semplice realtà quotidiana. Non possiamo fare a meno di sapere che cosa ci aspetta a breve scadenza. Il silenzio da cui saremo per sempre circondati. Per il resto, non è cambiato nulla. Per il resto, si è immortali per tutto il tempo che si è al mondo.

Non troppi anni fa c’era un modo prefabbricato di essere vecchi, proprio come c’era un modo prefabbricato di essere giovani. Non sono più in vigore, né l’uno né l’altro. Sul permissibile c’è stata una grande lotta; e un grande ribaltamento. Nondimeno, un uomo di settantanni dovrebbe ancora lasciarsi coinvolgere nell’aspetto carnale della commedia umana? Essere, senz’alcuna contrizione, un vecchio secolare ancora sensibile a ciò che di umanamente eccitante lo circonda? Non è la condizione che una volta era simboleggiata dalla pipa e dalla sedia a dondolo. Forse è ancora un po’ un affronto, per la gente, rifiutarsi di ubbidire al vecchio orologio della vita. Capisco di non poter contare sul virtuoso rispetto degli altri adulti. Ma cosa posso farci se, per quello che mi riguarda, non ci si mette mai l’animo in pace, mai, per vecchio che uno sia?

Dopo quel morso, cominciò a venire a casa mia con molta disinvoltura. Appena si rese conto del poco che le ci voleva per controllare la situazione, non fu più questione di semplici incontri serali e di scopate. Consuela telefonava e diceva: «Posso venire per qualche ora?» e sapeva che io non avrei mai detto di no, sapeva che ogni volta, per arrivare a sentirmi dire «Guardati» come se fosse lei stessa un Picasso, non doveva fare altro che spogliarsi e stare li. Io, il suo insegnante di Practical Criticism, lo studioso di estetica dei programmi della Pbs della domenica mattina, l’autorità in carica della televisione di New York su ciò che attualmente si deve vedere, ascoltare e leggere, io l’avevo proclamata una grande opera d’arte, con tutta la magica influenza delle grandi opere d’arte. Non l’artista, ma l’arte stessa. Non c’era nulla che lei non potesse capire: doveva solo stare li, in bella vista, e da me scaturiva la comprensione della sua importanza. Non le veniva richiesto, non più di quanto lo si pretenda da un concerto di violino o dalla luna, che avesse una qualunque concezione di se stessa. Questo era compito mio: ero io la coscienza che Consuela aveva di se stessa. Ero il gatto che guarda il pesce rosso. Ma i denti li aveva il pesce rosso.

La gelosia. Quel veleno. E senza motivo. Geloso anche quando mi dice che va a pattinare sul ghiaccio insieme al fratello diciottenne. Sarà lui a portarmela via? In una relazione sentimentale ossessiva come questa non sei più sicuro di te, non quando sei preso dal vortice e non quando la ragazza ha quasi un terzo della tua età. Io sono in ansia se non le parlo per telefono ogni giorno, e sono in ansia dopo che abbiamo parlato. Delle donne che in passato pretendevano chiamate regolari, telefonando in continuazione, mi ero invariabilmente sbarazzato; e adesso ero io a pretenderlo da lei: la mia droga telefonica giornaliera. Perché la devo adulare quando chiacchieriamo? Perché non la finisco di dirle che è perfetta - Perché a questa ragazza ho sempre la sensazione di dire la cosa sbagliata? Non riesco a capire che cosa capisce di me, che cosa capisce di ogni cosa, e la mia confusione mi spinge a dire cose che al mio orecchio suonano false o esagerate, per cui riattacco pieno di un muto risentimento verso di lei. Ma quando passa il raro giorno in cui riesco a controllarmi quanto basta per non rivolgerle la parola, per non telefonarle, per non adularla, per non suonare falso, per non prendermela per quello che mi fa senza saperlo, è peggio. Non posso smettere di fare nulla di ciò che faccio, e tutto ciò che faccio mi lascia scombussolato. Con lei non sento l’autorità che è necessaria per la mia stabilità, eppure lei viene da me a causa di quest’autorità.

Le sere che non è con me, sono sconvolto al pensiero di dove può essere e che cosa può combinare. Ma anche quando è stata con me tutta la sera ed è tornata a casa, non posso dormire. Troppo intensa è l’esperienza che sto facendo con lei. Mi metto a sedere sul letto e nel cuore della notte grido: «Consuela Castillo, lasciami in pace!» Basta, mi dico. Alzati, cambia le lenzuola, fa’ un’altra doccia, liberati del suo odore, e poi liberati di lei. Devi. Con lei è diventata una campagna che non finisce più. Dov’è l’appagamento, dove il senso di possesso? Se tu l’hai, perché non puoi averla? Non riesci ad avere ciò che vuoi nemmeno quando riesci ad avere ciò che vuoi. Non c’è pace in questa storia, e non ci può essere, per la differenza di età e l’inevitabile dolore straziante. A causa della differenza di età, ho il piacere ma non smetto mai di spasimare. Non era mai successo, prima? No. Prima non avevo mai avuto sessantadue anni. Non ero più in quella fase della vita in cui credevo di poter fare tutto. Ma me la ricordavo chiaramente. Vedi una bella donna. La vedi a un miglio di distanza. Vai da lei e dici: «Chi sei?» Cenate insieme. Eccetera. Quella fase, quando non ci sono problemi. Monti sull’autobus. Una creatura così bella che tutti hanno paura di sedersi accanto a lei. Il posto vicino alla ragazza più bella del mondo, ed è vuoto. Perciò lo prendi tu. Ma il presente non è il passato, e il presente non sarà mai calmo, mai pacifico. Mi dava fastidio l’idea che andasse in giro con quella camicetta. Toglile la giacca, ed ecco la camicetta. Toglile la camicetta, ed ecco la perfezione. Un giovanotto la troverà e la porterà via. E la perderò, io che ho acceso i suoi sensi, io che le ho dato la sua statura, io che sono stato il catalizzatore della sua emancipazione e l’ho preparata per lui.

Come so che un giovanotto me la porterà via? Perché una volta il giovanotto che l’avrebbe fatto sarei stato io.

Quando ero più giovane non ero suscettibile. Si ingelosivano prima le altre, ma io mi sapevo difendere. Le lasciavo fare, sicuro di poter prevalere attraverso il dominio sessuale. Ma la gelosia, naturalmente, è il tranello del contratto. Gli uomini reagiscono alla gelosia dicendo: «Nessun altro l’avrà. L’avrò io: la sposerò. La catturerò così. Secondo le regole.» Il matrimonio guarisce dalla gelosia. Ecco perché molti uomini lo cercano. Non essendo sicuri dell’altra persona, le fanno firmare il contratto: prometto di non. . eccetera.

Io, come faccio a catturare Consuela? Il pensiero è moralmente umiliante, eppure esiste. Certamente non me la terrò promettendole il matrimonio, ma in quale altro modo puoi tenerti una donna alla mia età? Cosa posso offrire, in cambio, in questa società dell’abbondanza col suo mercato libero del sesso? Perciò questo è il momento in cui comincia la pornografia. La pornografia della gelosia. La pornografia della propria distruzione. Io sono rapito, sono estasiato, ma sono estasiato fuori della cornice. Cos’è che mi estromette? E la vecchiaia. La ferita della vecchiaia. Nella sua forma classica la pornografia ha un effetto stimolante di cinque o dieci minuti, prima di scadere nella comicità. Ma in questa pornografia le immagini sono estremamente dolorose. La comune pornografia è l’estetizzazione della gelosia. Elimina il tormento. Cosa...

Perché «estetizzazione»? Perché non «anestetizzazione»? Be’, forse tutt’e due. È una rappresentazione, la comune pornografia. È una forma d’arte decaduta. Non è solo una finzione, è apertamente insincera. Tu desideri la ragazza del film porno, ma non sei geloso di chi la scopa perché lui diventa il tuo sostituto. Veramente straordinario, ma questa è la forza di ogni arte decaduta. Lui diventa una controfigura, al tuo servizio; questo toglie il bruciore e lo trasforma in qualcosa di piacevole. Poiché tu sei un complice invisibile nell’atto, la comune pornografia elimina il tormento, mentre la mia lo mantiene. Nella mia pornografia, tu t’identifichi non col saziato, con la persona che lo fa, ma con la persona che non lo fa, con la persona che lo perde, con la persona che ha perduto.

Un giovanotto la troverà e la porterà via. Lo vedo. Lo conosco. So di che cos’è capace perché quel giovanotto sono io a venticinque anni, ancora senza moglie e figlio; sono io nudo e crudo, prima che facessi quello che hanno fatto tutti gli altri. Vedo lui che la segue con lo sguardo mentre attraversa la grande piazza - mentre sgamba attraverso la piazza - al Lincoln Center. È invisibile, dietro una colonna, e l’adocchia come ho fatto io la sera che l’accompagnai al suo primo concerto di Beethoven. Lei porta gli stivali, stivali alti, di pelle, e un miniabito tutto curve; uno schianto di ragazza all’aria aperta, una tiepida sera d’autunno, che batte sfacciatamente le vie del mondo per farsi desiderare e ammirare da tutti: e sorride. È felice. Questo schianto di donna sta venendo da me. Solo che, nel film porno, quello non sono io. È lui. È lui, che un giorno era me, ma che non lo è più. Mentre io guardo lui che guarda lei, so punto per punto che cosa accadrà dopo, e sapendo che cosa accadrà dopo, immaginandolo, è impossibile ragionare in base a quello che tu, razionalmente, interpreti come il tuo interesse personale. È impossibile pensare che non tutti la vedono così, questa ragazza, perché non tutti sono ossessionati da lei. Tu, invece, non riesci a immaginare che stia andando in qualche posto. Non riesci a immaginarla per la strada, in un grande magazzino, a una festa, sulla spiaggia, senza quel tizio che esce dall’ombra. Il tormento pornografico: vederlo fare da un altro che un giorno eri tu.

Quando, infine, perdi una ragazza come Consuela, questo ti succede dappertutto, in tutti i posti dove sei stato con lei. Quando se n’è andata, è strano, ma la ricorderai là, vedrai quello spazio orbo di te, ma con lei com’era con te, col ragazzo di venticinque anni che tu non sei più. La vedi sgambare così nel suo elegante vestitino. Avanzando verso di te. Afrodite. Poi ti ha superato, è sparita, e la pornografia sfugge a ogni controllo.

La interrogo (ma saperlo a che cosa può servire?) sui suoi amichetti, le chiedo di dirmi con quanti è andata a letto prima di me e quando ha cominciato e se è mai stata con un’altra ragazza o con due ragazzi in una volta (o con un cavallo, o un pappagallo, o una scimmia), ed è stato in quel momento che mi ha detto che erano solo cinque. Attraente com’è, beneducata e splendida com’è, ha avuto un numero di amichetti relativamente modesto per una ragazza del nostro tempo. L’influenza moderatrice dell’ambiente, un ambiente cubano ricco e perbene (se, cioè, sta dicendo la verità). E l’ultimo boyfriend era uno stupido compagno di università che non era nemmeno capace di scoparla come si deve, concentrato com’era solamente sul problema di arrivare, lui, all’orgasmo. La solita stupida storia. Non era un uomo che amava le donne.

A proposito, Consuela era incoerente nella sua moralità. Ricordo che a quell’epoca George O’Hearn, il poeta, un uomo che per tutta la vita è stato sposato con la stessa donna, aveva un’amichetta nel quartiere di Consuela, ed era li, in centro, a fare colazione con l’amica in un caffè, quando Consuela lo vide e rimase sconvolta. Lo riconobbe dalla fotografia sulla quarta di copertina di uno dei suoi ultimi libri sul comodino di fianco al mio letto, e capi che lo conoscevo. Quella sera venne da me. «Ho visto il tuo amico. Era con una ragazza alle otto del mattino, in un ristorante, e la stava baciando... Ed è sposato.» In queste cose era di una prevedibile banalità, mentre agiva al di fuori di ogni convenzione nei rapporti con un uomo che aveva trentotto anni più di lei. Intimamente incerta e a volte disorientata: questo era inevitabile; nondimeno, le stava capitando qualcosa di speciale, il surrogato di qualcosa di grande e d’imprevisto che lusingava la sua vanità e rafforzava la sua fiducia in se stessa; ma, pur essendo questa cosa elettrizzante, non sembrava che la stesse (come succedeva a me) rivoltando come un guanto.

Consuela mi disse, durante uno dei miei interrogatori, che al liceo aveva avuto un ragazzo che voleva disperatamente vederla mestruare. Ogni volta che aveva le mestruazioni doveva chiamarlo, e lui accorreva immediatamente, e lei stava là in piedi, e lui guardava il sangue che le scorreva sulle cosce e gocciolava sul pavimento. «Facevi questo per lui?» le chiesi. «Sì.» «E la tua famiglia, questa tua famiglia all’antica? Avevi quindici anni, d’estate non potevi stare fuori dopo le otto di sera, e facevi queste cose? Tua nonna una duchessa - continuai - innamorata del suo rosario, e tu facevi queste cose?» «Non avevo più quindici anni. Ne avevo sedici, allora.» «Sedici. Capisco. Questo spiega tutto. E quante volte l’hai fatto?» «Ogni volta che avevo le mestruazioni. Ogni mese», mi disse. «Chi era il ragazzo? Credevo che i ragazzi non potessero nemmeno entrare nella tua stanza. Chi era? Chi è?»

Un ragazzo socialmente accettabile. Cubano pure lui. Carlos Alonso. Molto perbene, molto corretto, mi dice lei, che andava a prenderla davanti alla porta, in giacca e cravatta, che non la chiamava mai suonando il clacson dal marciapiede, che entrava in casa per salutare i suoi genitori e si sedeva con loro, un ragazzo di buona famiglia riservato e perfettamente consapevole della loro condizione sociale. Come nella famiglia di Consuela, anche in quella di Carlos c’è un grande rispetto per il padre, tutti sono educatissimi, tutti sono bilingui senza fatica, le scuole giuste, il country club giusto, leggono «El Diario» e il «Bergen Record», amano Reagan, amano Bush, odiano Kennedy, ricchi cubani del New Jersey un po’ più a destra di Luigi XIV, e Carlos le telefona e le dice, Non mestruare senza di me.

Prova a immaginarlo. Dopo le lezioni, il bagno, la Bergen County dei sobborghi, e loro due pietrificati dall’enigma del suo flusso come se fossero Adamo ed Eva. Perché anche Carlos è affascinato. Anche lui sa che lei è un’opera d’arte, quella donna rara e fortunata che è un’opera d’arte, arte classica, la bellezza nella sua forma classica, ma viva, viva, e la reazione estetica alla bellezza viva cos’è, ragazzi? Chi lo sa alzi la mano. Il desiderio. Sì, Carlos è il suo specchio. Gli uomini sono sempre stati il suo specchio. Vogliono persino vederla mestruare. Consuela è la magia femminile alla quale gli uomini non possono sfuggire. Culturalmente vestita di un dignitoso passato cubano, ma le sue licenze nascono dalla vanità. Le sue licenze derivano dal fatto che Consuela si guarda nello specchio e dice: «Qualcun altro deve vedere tutto questo.»

«Chiamami, - le dissi, - quando hai le mestruazioni. Voglio che tu venga qui. Voglio vederti anch’io.»

Anch’io. Ecco la gelosia, com’è scoperta; ecco com’è febbrile il desiderio... Ed ecco come accadde qualcosa di molto simile a un disastro.

Perché intanto io avevo, quell’anno, una storia con una donna molto attraente, molto forte e giudiziosa, niente ferite invalidanti, niente vizi né idee folli, un’intelligenza analitica, una persona fidata da ogni punto di vista, troppo seria per essere minimamente spiritosa, ma un’amante sensuale, sollecita ed esperta. Carolyn Lyons. Molto tempo prima, verso la metà degli anni Sessanta, anche lei era stata una delle mie studentesse. Nei decenni successivi, tuttavia, nessuno dei due aveva cercato l’altro, e così, quando c’incontrammo casualmente per la strada mentre Carolyn, una mattina, andava a lavorare, ci abbracciammo e ci tenemmo stretti come se a separarci per ventiquattro anni fosse stato un avvenimento catastrofico come una guerra mondiale (e non lei che, semplicemente, era andata in California a specializzarsi in legge). Ciascuno dei due giurò che l’altro aveva un magnifico aspetto, ridendo rievocammo la frenesia di una sera nel mio ufficio quando Carolyn aveva diciannove anni, e ci mettemmo d’accordo li per lì per cenare insieme la sera dopo.

Carolyn era ancora bella, con la sua faccia larga e raggiante, anche se sotto gli occhi grigio chiaro la pelle era ormai grinzosa e sfatta, e non tanto, direi, a causa della sua cronica insonnia, quanto per quel complesso di disillusioni non insolito nelle biografie delle quarantenni in carriera il cui pasto serale, il più delle volte, bussa alla porta del loro appartamento di Manhattan nella borsa di plastica consegnata da un immigrato. E il suo corpo occupava più spazio di una volta. Due divorzi, niente figli, un lavoro faticoso e ben pagato che richiedeva molti viaggi all’estero... Tutto questo comporta altri quindici chili, e così, quando andammo a letto, Carolyn mormorò: «Non sono più la stessa.» Al che io replicai: «Credi che io lo sia?» E non ne parlammo più.

Quando era una studentessa, Carolyn divideva la sua stanza con una delle agitatrici dell’università, una carismatica arruffapopoli degli anni Sessanta, alla Abbie Hoffman[2], di nome Janie Wyatt, una ragazzina di Manhasset che l’ultimo anno scrisse per me una tesi deliziosa intitolata Cento modi di essere perversi in biblioteca. Cito la frase iniziale: «Il pompino in biblioteca è la quintessenza, la trasgressione santificata, la messa nera del campus.»

Biondina che a vederla ti sembrava di poter sollevare e buttare qua e là, Janie pesava forse quarantacinque chili, misurava non più di un metro e mezzo, ed era la scandalosa diva del college.

Di lei, allora, Carolyn aveva una certa soggezione. Mi diceva: «Ha tantissime storie. Simultaneamente. Vai nell’appartamento di uno, uno studente, un giovane assistente, e c’è la biancheria intima di Janie stesa ad asciugare sopra i rubinetti della doccia.» Gli studenti che avevano voglia di scopare, mi diceva Carolyn, stavano attraversando il campus, improvvisamente gli veniva voglia di scopare, e la chiamavano. E se ne aveva voglia pure lei, via! Erano là che camminavano, si fermavano di botto, dicevano: «Mi sa tanto che telefono a Janie», e in aula non mettevano più piede. Molti dei professori non vedevano di buon occhio la spregiudicatezza del suo comportamento sessuale e la interpretavano come stupidità. Anche certi ragazzi, che un momento parlavano di lei come di una baldracca e un momento dopo ci andavano a letto. Ma Janie non era né una stupida né una baldracca. Era una che sapeva quello che faceva. Si piazzava davanti a te, piccola com’era, con le gambe leggermente divaricate, i piedi piantati per terra, una spolverata di lentiggini, corti capelli biondi, niente trucco tranne il rosso vivo del rossetto, e il suo sorrisone aperto e sincero: questo è ciò che sono, questo è ciò che faccio, se non ti piace, pazienza.

In che modo Janie mi stupiva di più? In tanti modi: nei primi tempi della rivolta studentesca molte furono le cose che la distinsero come una creatura di nuovo tipo e degna di nota. Mi stupì, stranamente, facendo una cosa che oggi potrebbe non sembrare per nulla esagerata, dati i progressi in termini di audacia che le donne hanno fatto da allora, e che non uguagliava necessariamente la roboante spavalderia del suo atteggiamento pubblico. Mi stupì moltissimo quando scelse il più timido del college, il nostro poeta. Lo scambio tra studentesse e professori era eccitante non soltanto perché era una novità, ma perché avveniva alla luce del giorno, e motivò più divorzi del mio. Il poeta non aveva le capacità che hanno gli altri di promuovere i loro interessi mondani. Metteva il suo egoismo solo al servizio della lingua. Alla fine mori alcolizzato, relativamente giovane, ma, isolato com’era in quell’America compagnona, solo il bere poteva sbloccarlo. Sposato, con due figli, era l’uomo più timido del mondo, tranne quando si trovava là sul podio a tenere fantastiche lezioni sulla poesia. Far uscire quest’uomo dall’ombra era inimmaginabile. Ma non per Janie. A un party. Molti studenti, maschi e femmine, avrebbero voluto essergli più vicini. Le ragazze intelligenti avevano tutte una cotta per lui, per questo romantico outsider della vita, ma sembrava che lui non si fidasse di nessuno. Finché Janie, a una festa, lo abbordò, lo prese per mano e disse: «Balliamo», e poi si seppe che lo aveva accalappiato. Il poeta diede a tutti l’impressione di essere arrivato senza fatica a fidarsi di lei. La piccola Janie Wyatt: siamo tutti uguali, siamo tutti liberi, possiamo avere tutto quello che vogliamo.

Janie e Carolyn, con altre tre o quattro spavalde ragazzotte dell’alta borghesia, formavano la cricca delle cosiddette Ragazze di Strada. Queste ragazze non avevano nulla in comune con le donne che io avevo conosciuto fino a quel momento, e non perché fossero coperte di stracci zingareschi e girassero a piedi nudi. Detestavano l’innocenza. Non sopportavano i controlli. Non avevano paura di mettersi in mostra e non avevano paura di tramare nell’ombra. Ribellarsi alla propria condizione era tutto. Con le loro seguaci, hanno forse rappresentato, storicamente, la prima ondata di ragazze americane pienamente coinvolte nel proprio desiderio. Nessuna retorica, nessuna ideologia, solo il campo da gioco del piacere che si stende davanti agli audaci. L’audacia cresceva man mano che si rendevano conto delle possibilità che c’erano, quando capivano di non essere più tenute d’occhio, di non essere più subalterne al vecchio sistema o a qualunque sistema di qualunque tipo: quando si rendevano conto di poter fare qualunque cosa.

Fu una rivoluzione improvvisata, a tutta prima, la rivoluzione degli anni Sessanta; l’avanguardia studentesca era esigua, lo zero e cinquanta, forse l’uno e cinquanta per cento, ma questo non contava, perché venne subito seguita dalla parte più vibrante della società. La cultura è sempre al traino della sua punta più avanzata, tra le ragazze di questo campus le Ragazze di Strada di Janie, le pioniere di un cambiamento sessuale assolutamente spontaneo. Vent’anni prima, ai tempi in cui io ero studente, le università erano amministrate a perfezione. Regole ferree. Sorveglianza incontestata. L’autorità veniva da una remota fonte kafkiana - «l’amministrazione» -, e il linguaggio dell’amministrazione avrebbe potuto essere quello di sant’Agostino. Si cercava di aggirare con l’astuzia tutti questi controlli, ma fino al ‘64 o giù di li tutti i sorvegliati, in generale, erano ligi alla legge, membri stimatissimi di quella che Hawthorne chiamava «la classe che ama i limiti.» Poi ci fu l’esplosione ritardata, l’indecoroso attacco alla normalità del dopoguerra e il consenso culturale. Tutto ciò che c’era di ribelle deflagrò, e l’irreversibile trasformazione dei giovani ebbe inizio.

Carolyn non raggiunse mai la notorietà di Janie, e non aveva mai voluto raggiungerla. Carolyn partecipava alla protesta, alla provocazione, a quello spasso insolente, ma con caratteristica autodisciplina non giunse mai a lasciare che l’insubordinazione potesse compromettere il suo avvenire. Carolyn com’è oggi, oggi che è una donna di mezza età - cittadina del mondo aziendale, stoicamente perbene -, per me non rappresenta una sorpresa. Recare offesa in nome della licenza sessuale non fu mai la sua vocazione. Come non lo fu la ribellione su vasta scala. Ma Janie - lasciami fare una digressione su Janie -, Janie in piccolo, e a modo suo, fu il Simon Bolivar di Consuela Castillo. Sì, un grande leader rivoluzionario come il Bolivar sudamericano, le cui armate annientarono la potenza della Spagna colonialista: un sovversivo che non aveva paura di battersi contro forze superiori, il libertador opposto alla moralità dominante del college che alla fine ne distrasse l’autorità.

Oggi, la spensierata condotta sessuale delle brave ragazze del mio corso è, a quanto credono loro, garantita dalla Dichiarazione d’Indipendenza, un diritto che, per essere goduto, di coraggio ne richiede poco o nulla e che è in armonia con la ricerca della felicità concepita a Filadelfia nel 1776. In realtà, l’assoluta mancanza di inibizioni che le Consuela e le Miranda danno con tanta noncuranza per scontata deriva dall’audacia delle sfrontate e ribelli Janie Wyatt e dalla straordinaria vittoria che esse ottennero negli anni Sessanta grazie al loro barbaro comportamento. La dimensione volgare della vita americana precedentemente illustrata nei film di gangster, ecco quello che Janie portò nel campus, perché quella fu l’intensità che ci volle per distruggere i sostenitori delle norme. Era così che si attaccava lite con i propri custodi: nella tua lingua ingrata, non nella loro.

Janie era nata in città e cresciuta nei sobborghi, a Manhasset, Long Island. Sua madre era una professoressa e ogni giorno andava a Queens, il posto che la famiglia aveva lasciato per Manhasset e dove la donna insegnava ancora alle superiori. Il padre percorreva, nell’altra direzione, il paio di miglia che mancavano a Great Neck, dove aveva uno studio legale in società col padre di Carolyn. Per questo le ragazze si conoscevano. La casa vuota nei sobborghi: questa casa stimola ogni nervo sessuale nel corpo di Janie. Janie, sessualmente, diventa maggiorenne quando la musica cambia, ed è questa la musica che lei mette su. Janie farà ballare tutti, a questa musica. La sua astuzia fu che capì subito, una volta là, a che cosa servivano i sobborghi. In città, da ragazzina, non era mai stata libera, non aveva mai avuto la libertà che avevano i ragazzi. Ma a Manhasset trovò la sua frontiera. Anche là c’erano dei vicini, ma non così vicini come in città. Janie tornava a casa da scuola e le strade erano vuote. Sembravano quelle delle cittadine del vecchio Wild West. Non un’anima in giro. Tutti spariti. Così, finché tornavano tutti a casa in treno, Janie poteva fare qualcosa, mettere in piedi il suo spettacolino. Trent’anni dopo Janie Wyatt degenera e diventa una Amy Fisher[3], che senza che nessuno glielo chieda si abbassa a spompinare il meccanico dell’officina, ma Janie era sveglia e un’organizzatrice nata: indomita, impertinente, un’ardita surfista sull’onda lunga del cambiamento. I sobborghi, dove le ragazze, non esposte ai pericoli della città, non dovevano essere tenute sotto una campana di vetro, dove i genitori non dovevano preoccuparsi ogni momento, i sobborghi furono la sua scuola di perfezionamento. I sobborghi crearono l’agorà per l’attecchimento di questa educazione nel campo del «non approvato.» La diminuzione dei controlli, la graduale cessione di spazio a tutte queste ragazze alle quali il dottor Spock aveva fornito gli strumenti della disubbidienza... E attecchì, altroché. Sfuggì di mano.

Questa era la trasformazione di cui Janie parlava nella sua tesi. Questa era la storia che narrava. I Sobborghi. La Pillola. La Pillola che aveva dato la parità alla donna. La Musica. Little Richard come motore di ogni cosa. Il Backbeat Pelvico. La Macchina. I ragazzi che, là fuori, vanno in giro in Macchina, insieme. Il Benessere. I Pendolari. Il Divorzio. Tutte le distrazioni degli adulti. L’Erba. La Roba. Il dottor Spock. Furono tutte queste cose che portarono all’Università del Signore delle Mosche, che era il soprannome che le Ragazze di Strada avevano dato al nostro college. Quella di Janie non era una cellula rivoluzionaria che voleva far saltare in aria tutto. Janie non era Bernardine Dohrn o Kathy Boudin. E le Betty Friedan[4] non le dicevano niente. Le Ragazze di Strada non contestavano l’assetto politico o sociale, quella era l’altra faccia del decennio. La turbolenza aveva due filoni: c’era la scelta libertaria che dava all’individuo licenza all’orgia e si opponeva agli interessi tradizionali della comunità, ma insieme ad essa, spesso legata ad essa, c’era la giusta presa di posizione sui diritti civili e contro la guerra, la disubbidienza il cui prestigio morale passa attraverso Thoreau. E l’intreccio tra i due filoni rendeva arduo screditare l’orgia.

Ma quella di Janie era una cellula del piacere, non una cellula politica. E queste cellule del piacere esistevano non soltanto nel nostro campus, ma dappertutto e a migliaia, ragazzi e ragazze vestiti di roba annodata e tinta che non sempre olezzavano di violette e facevano, insieme, le loro bravate. Twist and shout, work it on out: questo, non l’’Internazionale, era il loro inno. Musica diretta ed eccitante da mettere sul piatto per scopare. La musica giusta per il sesso orale, il bebop popolare. Certo, la musica è stata sempre usata sessualmente, entro i limiti prescritti del momento. Anche Glenn Miller, quando nelle canzonette dovevi ancora arrivare al sesso attraverso un idillio alla Tin Fan Alley[5], era un lubrificante che facilitava le cose. E il giovane Sinatra. E la vellutata burrosità del sassofono. Ma quali erano i limiti delle Ragazze di Strada? Loro usavano la musica come usavano la marijuana, come un propellente, come l’emblema della loro ribellione, l’incitamento al vandalismo erotico. Durante la mia adolescenza, nell’era dello swing, per sentirsi in vena c’era solo l’alcol. Per loro c’era un arsenale di anti-inibitori a oltranza.

Avere quelle ragazze nel mio corso fu la mia educazione: vedere come si combinavano, osservare in che modo si liberavano della buona educazione e scoprivano la propria volgarità, ascoltare la loro musica con loro, fumare insieme a loro e ascoltare Janis Joplin, la loro Bessie Smith con la pelle bianca, la loro urlatrice, la loro squallida e strafatta Judy Garland, ascoltare insieme a loro Jimi Hendrix, il loro Charlie Parker della chitarra, farsi con loro e sentire Hendrix che suonava la chitarra a rovescio, capovolgendo ogni cosa, rallentando il ritmo, affrettando il ritmo, e Janie che salmodiava, come un mantra perfettamente chiaro, «Hendrix e sesso, Hendrix e sesso», e Carolyn: «Un bell’uomo con una bella voce…». Osservare la spavalderia e l’appetito e l’eccitazione delle Janie che non avevano il terrore biologico dell’erezione, che non temevano la trasformazione fallica dell’uomo.

Le Janie Wyatt degli anni Sessanta, in America, sapevano come regolarsi con gli uomini arrapati. Erano arrapate anche loro, e perciò sapevano come intendersi con gli uomini. L’avventuroso impulso maschile, l’iniziativa del maschio, non era un’azione illegale che richiedeva denuncia e giudizio, ma un segno sessuale al quale si risponde oppure no. Controllare l’impulso maschile e denunciarlo? Non erano cresciute in quel sistema ideologico. Erano troppo giocherellone per farsi instillare dall’alto risentimento, malanimo e animosità. Erano cresciute nel sistema istintuale. Non avevano interesse a rimpiazzare le vecchie inibizioni e proibizioni e istruzioni morali con nuove forme di sorveglianza e nuovi sistemi di controllo e una nuova serie di idee ortodosse. Sapevano dove andare a prendersi il piacere, e sapevano come abbandonarsi al desiderio senza paura. Impavide di fronte all’impulso aggressivo, immerse nel fracas trasformatore - e per la prima volta sul suolo americano da quando le pellegrine della colonia di Plymouth erano state isolate e messe in guardia da un governo ecclesiastico contro la corruzione della carne e l’immoralità degli uomini - una generazione di ragazze che tiravano dalla loro figa le conclusioni sulla natura dell’esperienza e sulle delizie del mondo.

Non è il bolivar l’unità monetaria del Venezuela? Be’, sotto la prima donna-presidente d’America voglio sperare che il dollaro diventerà il wyatt. Janie non merita meno di questo. Perché democratizzò il diritto al piacere.

Chiarimento. La stazione commerciale inglese di Merry Mount, che fece tanto arrabbiare i puritani di Plymouth... La conosci? Mercato di pellicce, più piccola di Plymouth, una trentina di miglia a nordovest di Plymouth. Dove oggi c’è Quincy, Massachusetts. Uomini che bevono, vendono armi agli indiani, bazzicano gli indiani. Che fanno bisboccia col nemico. Che copulano con le indiane, che avevano l’abitudine di mettersi carponi e farsi prendere da tergo. Un focolaio pagano nel Massachusetts puritano, dove la Bibbia era legge. Ballavano mascherati da animali intorno a un palo adorno di fiori, lo veneravano ogni mese. Hawthorne basò un racconto, su quel palo: il governatore Endicott manda la milizia puritana agli ordini di Miles Standish ad abbatterlo, un pino ornato di bandierine e nastri colorati e corna di cervo e rose alto quasi trenta metri. «Tristezza e allegria si contendevano un impero»; ecco il punto di vista di Hawthorne.

Per un certo tempo Merry Mount fu diretta da uno speculatore, un avvocato, un personaggio carismatico e privilegiato di nome Thomas Morton. È una specie di creatura della foresta uscita da Come vi piace, un diavolo scatenato preso dal Sogno d’una notte di mezza estate. Shakespeare è contemporaneo di Morton, nato solo undici o dodici anni prima di lui. Shakespeare è il rock-and-roll di Morton. I puritani di Plymouth lo arrestarono, poi lo arrestarono i puritani di Salem: lo misero alla gogna, lo multarono, lo sbatterono in prigione. Alla fine Morton si autoesiliò nel Maine, dove mori a quasi settant’anni. Ma non resisteva alla tentazione di provocarli. Era fonte di una sorta di pruriginosa attrazione, per i puritani. Perché la devozione, se non è assoluta, porta logicamente a un Morton. I puritani temevano che questo giocondo ibridatore di razze potesse corrompergli le figlie e portarsele a Merry Mount. Un uomo bianco, un indiano bianco, che adescava le vergini e le portava via con sé? Era una prospettiva ancora più sinistra di quella che a rubargliele fossero i pellerossa. Morton gli avrebbe trasformato le figlie in Ragazze di Strada. Questa era la loro principale preoccupazione, oltre al fatto che commerciava con gli indiani e vendeva loro armi da fuoco. I puritani avevano una strizza indiavolata per i giovani della nuova generazione. Perché, una volta perduta la nuova generazione, l’astorico esperimento in dittatoriale intolleranza era fallito. Antichissima storia americana: salvate i giovani dal sesso. Ma è sempre troppo tardi. Troppo tardi perché sono già venuti al mondo.

Due volte lo spedirono in Inghilterra accusandolo di disubbidienza, ma la classe dirigente inglese e la Chiesa d’Inghilterra non sapevano che farsene dei separatisti del New England. Ogni volta il processo a suo carico fu annullato e Morton fece ritorno nel New England. Ha ragione, pensavano gli inglesi; neanche noi vorremmo vivere con lui, ma lui non costringe nessuno e questi puritani del cazzo sono matti da legare.

In Of Plymouth Plantation, il libro del governatore William Bradford, il governatore si dilunga sui mali di Merry Mount, sulla «riottosa prodigalità», sulla «profusione di eccessi.» «Si dettero a grande licenziosità e condussero una vita dissoluta, abbandonandosi a ogni profanità.» I complici di Morton li chiama «sfrenati crapuloni.» Definisce Morton «Signore del Disordine» e maestro di «una Scuola di Ateismo.» Il governatore Bradford è un formidabile ideologo. La devozione sapeva usare la penna, nel diciassettesimo secolo. E anche l’empietà. Pure Morton pubblicò un libro, The New English Canaan, basato sull’affascinata osservazione della società degli indiani; un libro scurrile, secondo Bradford, perché parlava dei puritani e di come «essi fanno grande sfoggio di religiosità, ma non mostrano umanità alcuna.» Morton è sbrigativo. Morton non ha peli sulla lingua. Dovremo aspettare trecento anni prima che la voce di Thomas Morton torni a risuonare, in America, senza censure, col nome di Henry Miller. Lo scontro tra Plymouth e Merry Mount, tra Bradford e Morton, tra ordine e disordine: l’anticipazione coloniale dello sconvolgimento nazionale di trecentotrent’anni dopo o giù di lì, quando l’America di Morton era nata, finalmente, incroci razziali e tutto.

No, gli anni Sessanta non furono aberranti. La piccola Wyatt non era aberrante. Nello scontro in atto fin da allora, era una mortoniana nata. Là nella barbarie americana l’ordine regnerà. I puritani erano gli agenti dell’ordine, della ragione e della virtù divina, e dall’altra parte c’era il disordine. Ma perché parlare di ordine e disordine? Perché Morton non è il grande teologo della mancanza di regole? Perché Morton non è visto per quello che è, il padre fondatore della libertà personale? Nella teocrazia puritana eri libero di fare il bene; nella Merry Mount di Morton eri libero: tutto qui.

E ce n’erano tanti, di Morton. Avventurieri mercantili senza l’ideologia della santità, uomini ai quali non importava un accidente di essere o non essere degli «eletti.» Arrivarono con Bradford sul Mayflower, emigrarono più tardi su altri vascelli, ma non senti parlare di loro durante la festa del Ringraziamento, perché non potevano soffrire queste comunità di santi e di devoti dove nessuna deviazione era permessa. I nostri primi eroi americani furono gli oppressori di Morton: Endicott, Bradford, Miles Standish. Merry Mount è stata espunta dalla versione ufficiale perché è la storia non di una virtuosa utopia, ma di un’utopia del candore. Eppure, è la faccia di Morton che dovrebbe essere scolpita sulla parete del monte Rushmore. E succederà anche questo, il giorno in cui il dollaro sarà chiamato wyatt.

La mia Merry Mount? Io e gli anni Sessanta? Be’, io presi sul serio il disordine di quegli anni - relativamente pochi - e accettai il verbo del momento, liberazione, nel suo significato più pieno. Fu allora che lasciai mia moglie. Per essere precisi, lei mi scoprì con le Ragazze di Strada e mi buttò fuori. C’erano altri, tra i professori, che si fecero crescere i capelli e indossarono quegli abiti bizzarri, ma erano come militari in licenza. Erano un misto di voyeur e turista. Ogni tanto si azzardavano a uscire, ma non furono mai più di quattro gatti quelli che scavalcarono il bordo della trincea per avventurarsi nel campo dell’impegno. Io invece ero deciso, quando vidi il disordine per quello che era, a trovare per quel momento una spiegazione razionale, a cambiare gli oggetti della mia devozione e a non farlo di nascosto, come se fosse una scappatella, a non essere, cioè, come molte persone della mia età, inferiore o superiore o semplicemente solleticato dagli avvenimenti, ma a seguire la logica di questa rivoluzione fino alla sua conclusione, e senza esserne diventato una vittima.

Questo richiedeva una certa attività. Solo perché non esiste un monumento ai caduti con i nomi di coloro che nella tempesta passarono dei guai, non significa che non ci siano state delle vittime. Non si trattò necessariamente di una strage, ma i guasti non furono pochi. Questa non era una bella rivoluzione che si svolgeva dignitosamente sul piano teorico. Era un casino, puerile, assurdo, drastico e incontrollato, una rissa che aveva coinvolto l’intera società. Che aveva, però, anche un lato comico. Era una rivoluzione che era, al tempo stesso, come il giorno dopo la rivoluzione: un grande idillio. La gente si toglieva le mutande e andava in giro ridendo. Spesso non era altro che una farsa, una farsa infantile, ma una farsa infantile di vastissima portata; spesso non era altro che un rigurgito ormonale, l’adolescenza della generazione più grande e più forte d’America arrivata all’età dello sviluppo tutta insieme. Ma l’impatto fu rivoluzionario. Certe cose cambiarono definitivamente.

Lo scetticismo, il cinismo, il buonsenso politico e culturale che normalmente ti escludeva dai movimenti di massa costituiva un valido scudo. Io non ero «fatto» come tutti gli altri, e non volevo esserlo. Per me il problema era separare la rivoluzione dai suoi accessori, dalle sue bardature psicologiche e dalle sue melensaggini retoriche e dalla dinamite farmacologica che faceva saltare la gente dalla finestra, evitare il peggio e cogliere l’idea e metterla a frutto, dirsi, Che grande occasione è questa, che magnifica opportunità di vivere fino in fondo la mia rivoluzione. Devo tenermi le briglie sul collo solo perché il caso ha voluto che nascessi quest’anno e non quell’altro?

Quelli che avevano quindici o vent’anni meno di me, i privilegiati beneficiari della rivoluzione, potevano permettersi di subirla inconsciamente. C’era questo party effervescente, questo sordido e caotico paradiso, e, senza pensare o doverci pensare, loro lo rivendicavano, con tutto il suo ciarpame e tutte le sue banalità. Ma io dovevo pensare. Eccomi qua, ancora nel fiore degli anni, mentre il paese stava entrando in questa fase straordinaria. Sono o non sono candidato a questa violenta, confusa, roca sconfessione, a questa massiccia demolizione di un passato inibitore? Posso impadronirmi della disciplina della libertà anziché della sregolatezza della libertà? Come si trasforma la libertà in un sistema?

Scoprirlo è costato caro. Ho un figlio di quarantadue anni che mi odia. Lasciamo stare. Il fatto è che la plebaglia non venne ad aprire la porta della mia cella. C’era, la plebaglia, quella plebaglia stravagante, ma la porta dovetti aprirla io. Perché ero accondiscendente e sostanzialmente frustrato pure io, anche se, quando ero sposato, sgattaiolavo fuori di casa per scopare tutte le donne che potevo.

Questa specie di liberazione degli anni Sessanta era la cosa che avevo avuto in mente fin dal principio, ma in principio, il mio principio, non ci fu nulla di somigliante a una comune adesione a qualcosa di simile, non ci fu un torrente sociale che ti travolgesse e ti portasse via. C’erano soltanto degli ostacoli, uno dei quali era la civiltà della propria natura, uno dei quali erano le origini provinciali, uno dei quali era l’educazione a nobili concetti di serietà che uno non poteva sfidare da solo. La traiettoria della mia educazione doveva farmi accettare con l’inganno una vocazione domestica per la quale non avevo alcuna tolleranza. Il padre di famiglia, coscienzioso, sposato e col bambino... E poi comincia la rivoluzione. Scoppia tutto, e intorno a me ci sono tutte queste ragazze, e che cosa dovevo fare, continuare così e consumare i miei adulteri e pensare, Ecco, questo è il modo in cui sei costretto a vivere?

Non ho trovato la mia strada perché sono nato nella foresta e sono stato allevato da bestie feroci e perciò sono arrivato alla liberazione in modo naturale. Quando sono nato non sapevo nulla di tutto questo. Mancava anche a me l’autorità di fare apertamente ciò che volevo fare. Quello seduto davanti a te non è l’uomo che si è sposato nel 1956. Per farsi un’idea precisa della sfera della propria autonomia avevi bisogno di una guida che non si trovava in nessun posto, non nel mio piccolo mondo, in ogni modo, ed è questa la ragione per cui sposarsi e avere un bambino sembrava anche a me, nel ‘56, una cosa naturale.

Non eri un uomo sessualmente emancipato, quando raggiungevi l’età adulta. Eri un topo di appartamenti. Eri un ladro, sessualmente parlando. La palpata la davi a tradimento. Lo rubavi, il sesso. Blandivi, imploravi, adulavi, insistevi... Per il sesso dovevi lottare, contro i valori, se non contro la volontà della ragazza. Le regole: ecco perché dovevi imporle la tua volontà. Era il modo in cui le insegnavano a mettere in scena lo spettacolo della sua virtù. Una ragazza comune, se avesse deciso volontariamente, senza essere asfissiata dalle insistenze, di violare il codice e compiere l’atto sessuale, mi avrebbe gettato nella massima confusione. Perché nessuno, maschio o femmina che fosse, era cosciente di avere un qualche diritto all’erotismo. Assolutamente. La ragazza poteva, se era innamorata di te, accettare di farti una sega - il che significava, essenzialmente, usare la tua mano con la sua come un inserto -, ma che una acconsentisse a fare qualcosa senza il rituale dell’assedio psicologico, della tenacia e dell’esortazione incessante e monomaniacale, be’, questo era impensabile. Impossibile che ti facessero un pompino, certamente, se non per l’effetto straordinario di una perseveranza sovrumana. In quattro anni di college me ne hanno fatto uno. Ecco quanto ti veniva elargito. Nella cittadina di provincia sui Catskill dove la mia famiglia gestiva un alberghetto per i villeggianti e dove io sono diventato maggiorenne negli anni Quaranta, l’unico modo di fare sesso consensuale era o con una prostituta o con una che era stata la tua ragazza per la maggior parte della tua vita e che tutti pensavano tu avresti sposato. E poi pagavi la cambiale, perché abbastanza spesso la sposavi per davvero.

I miei genitori? Erano genitori. Ho avuto la mia educazione sentimentale, credimi. Quando mio padre, spinto da mia madre, si decise finalmente a farmi il solito discorsetto sul sesso, avevo già sedici anni, era il 1946, e rimasi disgustato dal fatto che non sapeva cosa dire, quell’anima buona nata nel 1898 in una casa popolare del Lower East Side. Quello che mi voleva dire era ciò che usciva abitualmente dalla bocca del bonario padre ebreo appartenente a quella generazione: «Sei un angelo, sei un tesoro, potresti rovinarti la vita...» Naturalmente mio padre non sapeva che mi ero già beccato una malattia venerea dalla puttanella locale, quella che scopavano tutti. E chiudiamo l’argomento dei genitori in quei tempi lontani.

Guarda, L’eterosessuale che sì sposa è come uno che diventa prete: fa voto di castità, ma senza saperlo fino a tre, quattro, cinque anni dopo. Per l’eterosessuale virile la natura del matrimonio comunemente inteso non è meno soffocante - date le preferenze sessuali di un eterosessuale virile - di quanto lo sia per il gay o per la lesbica. Oggi, però, anche i gay si vogliono sposare. Un matrimonio in chiesa. Due, trecento testimoni. E aspetta che vedano dove va a finire il desiderio che li ha fatti diventare gay. Mi aspettavo di più da questa gente, invece salta fuori che anche in loro non c’è il minimo realismo. Anche se credo che molto dipenda dall’Aids. Il Declino e l’Ascesa del Preservativo: ecco la storia sessuale della seconda metà del ventesimo secolo. Il preservativo è tornato. E, col preservativo, il ritorno di tutto ciò che negli anni Sessanta era stato spazzato via. Quale uomo può dire di apprezzare il sesso col preservativo nello stesso modo in cui l’apprezza senza? Cosa ci trova, in realtà? Ecco perché gli organi della digestione sono arrivati, nella nostra epoca, a competere per la supremazia come orifizio sessuale. Il bisogno urgente della mucosa. Per disfarsi del preservativo devono avere un partner fisso, e allora si sposano. I gay sono militanti: vogliono il matrimonio e vogliono arruolarsi apertamente nell’esercito ed essere accettati. Le due istituzioni che io detestavo. E per lo stesso motivo: l’irreggimentazione.

L’ultima persona che prese sul serio queste cose fu John Milton, trecentocinquant’anni fa. Mai letto i suoi scritti sul divorzio? Gli procurarono molti nemici, ai suoi tempi. Sono qui, sono tra i miei libri, con i margini fittamente annotati nei lontani anni Sessanta. «Forse che il nostro Salvatore ci aprì questa porta fortuita e accidentale del matrimonio solo per chiudercela in faccia come la serranda della morte...?» No, gli uomini non sanno niente - o agiscono deliberatamente come se non sapessero - del lato duro, tragico, della situazione in cui si mettono. Nel migliore dei casi pensano stoicamente, Sì, capisco che in questo matrimonio prima o poi dovrò rinunciare al sesso, però lo faccio per avere altre cose più preziose. Ma capiscono a che cosa rinunciano? Essere casti, vivere senza sesso, be’, come digerirai le sconfitte, i compromessi, le frustrazioni? Guadagnando di più, guadagnando tutti i soldi che puoi? Facendo tutti i figli che puoi? Questo aiuta, ma è niente rispetto all’altra cosa. Perché l’altra cosa si radica nel tuo essere fisico, nella carne che nasce e nella carne che muore. Perché solo quando scopi riesci a vendicarti, anche se solo per un momento, di tutto ciò che non ami nella vita e di tutte le cose che nella vita ti hanno sconfitto. Solo allora sei più nettamente vivo e più nettamente te stesso. La corruzione non è il sesso: è il resto. Il sesso non è semplice frizione e divertimento superficiale. Il sesso è anche la vendetta sulla morte. Non dimenticartela, la morte. Non dimenticarla mai. Sì, anche il sesso ha un potere limitato. So benissimo quanto è limitato. Ma dimmi, quale potere è più grande?

Carolyn Lyons, comunque, quasi venticinque anni dopo e con una quindicina di chili in più. Avevo amato la sua figura di allora, ma presto mi piacque quella di oggi, con tutta la monumentalità, alla base, che reggeva il busto sottile. Me ne lasciavo ispirare come se fossi Gaston Lachaise. Il culone e le cosce massicce mi parlavano di tutto ciò che di femminilmente ruspante c’era in lei. E i suoi movimenti sotto di me, la finezza della sua eccitazione, ispiravano un altro paragone pastorale: l’aratura di un campo dolcemente spazzato dal vento. Carolyn fiore del college, la impollinavi; Carolyn a quarantacinque anni, la coltivavi. La differenza di scala tra la vecchia sinuosa metà superiore e la nuova robusta metà inferiore rinnovava una stuzzicante tensione nella percezione complessiva che avevo di lei. Carolyn era per me un eccitante ibrido dell’audace, fremente, lucida pioniera che in aula non poteva smettere di alzare la mano, la bella dissidente vestita da zingara, la più giudiziosa compagna di Janie Wyatt, che nel 1965 sapeva tutte le risposte, e l’autorevole dirigente d’azienda che Carolyn era diventata una volta raggiunta la mezza età, dotata del potenziale sufficiente per avere la meglio su di te.

Ci sarebbe stato da aspettarsi che col passare del tempo, e con lo spegnersi della passione attizzata dal tabù professore-studentessa, ormai relegata tra i piaceri ammissibili del presente, i nostri incontri avrebbero perduto l’attrattiva della nostalgia. Invece era passato un anno e questo non era accaduto. Grazie alla disinvoltura e alla tranquillità e alla confidenza fisica inerente alla ripresa del gioco tra vecchi compagni di squadra e grazie al realismo di Carolyn - il senso delle proporzioni che le umiliazioni dell’età adulta avevano prevedibilmente imposto alle romantiche aspettative di una ragazza dell’alta borghesia dotata di eccellenti credenziali - raccoglievo frutti che era impossibile ottenere dalle mie scorpacciate dei seni di Consuela. L’affiatamento e la concretezza delle sere che passavamo a letto - programmate di corsa, a mezzo cellulare, ogni volta che Carolyn atterrava al Kennedy dopo uno dei suoi viaggi d’affari - ormai rappresentavano l’unico punto di contatto con la mia sicurezza preconsueliana. Non avevo mai avuto tanto bisogno del semplice appagamento che Carolyn mi offriva con affidabilità quanto ora che lei, messa alla prova come donna, era stoicamente sopravvissuta. Ciascuno dei due riceveva esattamente ciò che voleva. Era una joint venture, la nostra partnership sessuale, che faceva l’interesse di ambedue ed era fortemente colorata dal vivace atteggiamento da executive di Carolyn. Qui piacere ed equilibrio coincidevano.

Poi venne la sera in cui Consuela si tolse l’assorbente e rimase in piedi nel mio bagno, con un ginocchio flesso verso l’altro e, come il san Sebastiano di Mantegna, con un filo di sangue che le rigava le cosce mentre io guardavo. Era emozionante? Ero contento? Ero ipnotizzato? Certo, ma ancora una volta mi sembrava di essere un ragazzo. Avevo deciso di chiederle il massimo, e quando lei senza pudore si prestò, finii per sentirmi ancora intimidito.

Mi sembrò che non ci fosse altro da fare - se non volevo essere completamente umiliato dalla sua esotica praticità - che cadere in ginocchio e pulirla con la lingua. Cosa che Consuela lasciò fare senza commenti. Trasformandomi in un ragazzo ancora più piccolo. Il carattere impossibile che si ha. La stupidità di essere se stessi. L’inevitabile commedia di essere chicchessia. Ogni nuovo eccesso che m’indeboliva ulteriormente: ma un uomo insaziabile cosa deve fare?

L’espressione sul suo viso? Ero ai suoi piedi. Ero sul pavimento. Il mio viso era premuto sulle sue carni come quello di un poppante, e così non potevo vedere nulla di lei. Ma te l’ho detto, non credo che lei fosse intimidita. Non c’era nessuna travolgente emozione nuova che Consuela dovesse affrontare. Una volta superati, come amanti, i preliminari, sembrava capace di assimilare abbastanza facilmente tutto ciò che la sua nudità provocava in me. Era assurdo, per lei, che un uomo sposato come George O’Hearn baciasse in pubblico, alle otto del mattino, una ragazza vestita di tutto punto: quello, per Consuela, era il caos. Ma questo? Questo era solo un nuovo divertissement. Questo era ciò che si meritava, il destino corporale che portava con tanta spensieratezza. L’attenzione prodigata dall’autorità della cultura in ginocchio davanti a lei non era sicuramente una cosa che la faceva sentire poco importante. Consuela era stata allettante per tutta la vita, amata dai suoi per tutta la vita, adorata da suo padre per tutta la vita, per cui questa padronanza di sé, questo aplomb, questa specie di statuaria serenità, era la forma che istintivamente assumeva il suo istrionismo. A Consuela, in un modo o nell’altro, era stato risparmiato l’imbarazzo che proviamo quasi tutti.

Questo accadde un giovedì sera. Venerdì sera Carolyn venne da me direttamente dall’aeroporto, e sabato mattina io ero già a tavola, davanti alla colazione, quando lei entrò in cucina dalla doccia indossando il mio accappatoio di spugna e tenendo in mano un assorbente insanguinato mezzo avvolto nella carta igienica. Prima me lo mostrò e poi me lo tirò. «Tu scopi altre donne. Dimmi la verità disse Carolyn - e me ne vado. Non mi piace. Ho avuto due mariti che scopavano altre donne. Non mi piaceva allora e non mi piace adesso. E tanto meno con te. Scopriamo di avere questa intesa... e poi tu fai queste cose. Hai tutto quello che vuoi nel modo che vuoi - come scopiamo noi, al di fuori di una vita familiare e senza romanticherie - e poi tu fai queste cose. Non ce ne sono molte come me, David. Io ho un interesse per le cose che interessano te. Io ti capisco. Un edonismo ben affiatato. Ce n’è una su un milione di donne come me, idiota... Dunque, come hai potuto far questo?» Non era arrabbiata come una moglie sorretta dalla storica e inflessibile rivendicazione del proprio status, ma come una cortigiana di grande fama, sicura della propria indiscutibile superiorità erotica. Ne aveva il diritto: la maggior parte della gente si porta a letto il peggio della propria biografia; Carolyn si portava a letto solo il meglio. No, non era arrabbiata; era umiliata e distrutta. Ancora una volta la sua generosa sessualità era stata giudicata insufficiente da un altro uomo insaziabile e indegno di lei. Disse: «Non mi va di litigare con te. Voglio sapere la verità e poi non mi vedrai mai più.»

Cercai di mostrarmi più controllato che potevo, solo un po’ curioso, quando chiesi: «Dove l’hai trovato?» Adesso l’assorbente era sul tavolo della cucina, e giaceva tra il piatto del burro e la teiera. «In bagno. Nella pattumiera.» «Be’, non so di chi è né com’è finito là dentro.» «Perché non lo metti sulla tua ciambellina e non lo mangi?» propose Carolyn. Ciò che dissi io, per tutta risposta, fu: «Lo farei, ben volentieri, se questo ti rendesse felice. Ma non so di chi è. Credo che dovrei sapere di chi è, prima di mangiarlo.» «Non lo sopporto, David. Mi fa andare in bestia.» «Ho un’idea. Una possibilità. Il mio amico George - dissi - ha una chiave dell’appartamento. Ha vinto un premio Pulitzer, tiene conferenze, insegna alla New School, incontra donne, ragazze, va a letto con tutte quelle che incontra, e poiché, ovviamente, non le può portare a casa da sua moglie e dai suoi quattro figli, e poiché certe volte è impossibile trovare una camera d’albergo a New York, e poiché, in ogni modo, George è sempre a corto di soldi, e poiché le donne sono sposate, molte di esse, e non le può portare a casa loro... - tutto vero, finora, parola per parola - ... qualche volta le porta qui.»

Ecco, questo non era vero. Era la solita e sempre valida bugia con la quale mi ero già salvato allorché, nel corso degli anni, si era scoperto nel mio appartamento qualche incriminante effetto personale - anche se, devo ammetterlo, mai un effetto così primordiale - che era stato o negligentemente o deliberatamente lasciato lì. La sempre valida bugia del comune libertino. Nulla di cui vantarsi.

«Dunque, - disse Carolyn, - George scopa tutte queste donne nel tuo letto.» «Non tutte. Ma qualcuna sì. Usa il letto nella stanza degli ospiti. È mio amico. Il suo matrimonio non è un paradiso. Mi ricorda la mia situazione quando ero sposato. George si sente puro solo nelle trasgressioni. Il suo lato ubbidiente lo fa stare male. Come posso dire di no?» «Tu sei troppo meticoloso per questo, David. Troppo ordinato. Non credo a una parola di quello che stai dicendo. Nella tua vita tutto è così, tutto è considerato, tutto è deliberato...» «Be’, dovrebbe bastare questo a convincerti...» «Qui c’è stato qualcuno, David.» «Nessuno, - dissi, - non con me. Davvero, non so di chi è quell’assorbente.» Fu un momento di grande tensione, ma mentendo spudoratamente la scampai e, per fortuna, Carolyn non mi lasciò quando avevo più bisogno di lei. Se ne andò solo più tardi, e su mia richiesta.

Scusami, devo prendere questa telefonata. Devo rispondere. Scusa...

Mi spiace di averti fatto aspettare tanto. Non era neanche la telefonata che aspettavo. Scusa se ti ho lasciato solo, ma era mio figlio. Chiamava per dirmi che è ancora molto offeso da tutto quello che ho detto durante il nostro ultimo incontro e per assicurarsi che io avessi ricevuto la lettera adirata che mi ha scritto.

Guarda, non ho mai pensato che per noi sarebbe stato facile, e per quel che ne so io avrebbe potuto cominciare a odiarmi anche senza incoraggiamento. Sapevo che era un’evasione difficile, e sapevo che al di là del muro non avrei potuto portare nessuno. Se avessi portato anche lui, se fosse stato possibile, non avrebbe avuto senso, perché lui aveva otto anni e io non avrei potuto vivere come volevo. Dovevo tradirlo, e questa lui non me l’ha perdonata e non me la perdonerà mai.

L’anno scorso, a quarantadue anni, è diventato un adultero; da allora ha cominciato a venire qui senza preavviso. Le undici, mezzanotte, l’una, anche le due del mattino, ed eccolo al citofono. «Sono io. Lasciami salire, fammi entrare!» Litiga con la moglie, se ne va sbattendo la porta, sale in macchina e, suo malgrado, finisce qui. Da quando è diventato un uomo non ci siamo visti quasi più, per anni e anni; per mesi non ci siamo parlati nemmeno per telefono. Puoi immaginare la mia sorpresa per questa prima visita notturna. Cosa sei venuto a fare? gli domando. È nei guai. E in crisi. Soffre. Perché? Ha un’amica. Una ragazza di ventisei anni che è appena andata a lavorare per lui. Kenny ha un piccolo atelier per il restauro di opere d’arte danneggiate. Era l’occupazione di sua madre fino a quando è andata in pensione: conservatore di opere d’arte. Ha scelto questo campo dopo il dottorato alla NYU, si è messo in società con lei, e oggi ha una ditta molto florida, con diciotto persone che lavorano per lui in un loft di Soho. Molto lavoro per le gallerie, collezionisti privati, case d’aste, consulenti di Sotheby’s, eccetera. Kenny è un bell’uomo, grande e grosso, veste in modo impeccabile, si esprime con autorevolezza, scrive con intelligenza, conversa fluentemente in francese e tedesco: li nel mondo dell’arte è un uomo che fa colpo. Ma non su di me. All’origine delle sue sofferenze ci sono le mie deficienze. Mettimelo vicino, e la ferita che ha dentro riprende a sanguinare. Nel suo lavoro è attivo, sano, solido, tutt’altro che inadeguato, ma basta che io apra bocca per paralizzare tutto ciò che di forte esiste in lui. E a me non rimane che tacere mentre lui parla per scardinare tutto ciò che lo rende valido. Sono il padre che Kenny è incapace di sconfiggere, il padre davanti al quale le sue forze vengono sopraffatte. Perché? Forse perché non ero presente. Ero assente e terrificante. Ero assente ma troppo importante, per lui. L’ho tradito. È una ragione sufficiente per rendere impossibile un rapporto disteso. Nella nostra storia non c’è nulla che impedisca all’istinto filiale di deporre ogni impedimento ai piedi del padre.

Di Kenny io sono il padre Karamazov, la forza ignobile e mostruosa dalla quale lui, santo dell’amore, uomo che deve sempre comportarsi bene, si sente offeso e verso la quale nutre sentimenti parricidi, come se, da solo, fosse tutti i fratelli Karamazov. Nella mente dei figli i genitori hanno un ruolo leggendario, e che la mia leggenda non potesse che essere dostoevskiana lo so dai tardi anni Settanta, quando ricevetti per posta la copia di una tesina scritta da Kenny a Princeton durante il secondo anno, una tesina sui Fratelli Karamazov che fu premiata con una A. Non fu difficile appurare la rilevanza del libro come esagerata fantasia della propria condizione. Kenny era uno di quei ragazzi dal cervello surriscaldato per i quali qualunque cosa leggessero aveva una portata personale che sradicava ogni altra cosa relativa alla letteratura. Era allora completamente assorbito dal problema del nostro estraniamento, e il punto focale della sua tesina era, inevitabilmente, il padre. Un uomo sensuale e depravato. Un vecchio e solitario sporcaccione. Un vecchio con le sue ragazzine. Un gran buffone che installa in casa sua un harem di donne dissolute. Un padre che, forse ricorderai, abbandona il suo primogenito, ignora tutti i suoi figli, «perché un figlio - scrive Dostoevskij - sarebbe stato d’intralcio ai suoi stravizi.» Non hai letto I fratelli Karamazov? Ma devi farlo, se non altro per il divertente ritratto della licenziosa crudeltà di quel padre indegno.

Ogni volta che Kenny veniva a trovarmi, sconvolto, durante l’adolescenza, era sempre per lo stesso motivo. E ancora così: qualcosa ha minacciato l’idea che mio figlio ha di se stesso come persona retta e puntigliosa. In un modo o nell’altro io lo incoraggiavo a modulare quell’idea, a temperarla un po’, ma il mio suggerimento lo faceva andare in bestia, e allora lui mi voltava le spalle e tornava di corsa da sua madre. Ricordo che un giorno gli chiesi, quando aveva tredici anni e stava per andare al liceo e cominciava a sembrare qualcosa di più che un bambino, e a parlare come un ragazzo più maturo, se per l’estate avrebbe gradito stare con me in una casa che avevo affittato sui Catskill, poco lontano dall’albergo dei miei genitori. Era un pomeriggio di maggio ed eravamo a una partita dei Mets. Un’altra delle nostre penose domeniche insieme. Fu così mortificato dall’invito che dovette correre a vomitare nella toilette dello Shea. Una volta, nel Vecchio Continente, i padri iniziavano i figli al sesso portandoli al bordello, ed era come se proprio questa fosse la proposta che gli avevo fatto io. Vomitò perché, se fosse venuto a stare da me, forse avrebbe potuto incontrare una delle mie ragazze. Forse due. Forse più. Perché nella sua mente il bordello era la mia casa. Eppure il suo vomito rivelava non soltanto la sua ripugnanza per me, ma, più ancora, la ripugnanza per la sua ripugnanza. Perché? A causa di ciò che Kenny desiderava disperatamente, perché, anche con un padre che lo delude e lo fa arrabbiare, i momenti che passa con lui sono straordinariamente intensi, e grandissimo è il rimpianto in cui si strugge. Era ancora un ragazzo disarmato in un ginepraio. Questo, prima che cauterizzasse la ferita trasformandosi in un saccentone.

All’ultimo anno di università pensò, correttamente, di avere forse ingravidato una delle sue compagne. In un primo momento era troppo allarmato per dirlo a sua madre, perciò venne da me. Gli assicurai che, anche se fosse veramente risultato che la ragazza era incinta, non era tenuto a sposarla. Non eravamo nel 1901. Se lei era decisa a tenere il bambino, come stava già insistendo, era una scelta sua, non di Kenny. Io ero a favore della libertà di scelta, ma questo non significava che fossi a favore della scelta che lei voleva fare al posto suo. Lo esortai a rammentarle il più spesso possibile che, a ventun anni e appena laureato, lui non voleva un figlio, non poteva mantenerlo, non intendeva in alcun modo avere la responsabilità di un figlio. Se a ventun anni lei ambiva, tutta sola, a una responsabilità del genere, questa era una decisione che prendeva separatamente. Gli offrii dei soldi per pagare l’aborto. Gli dissi che lo appoggiavo e lo esortai a non cedere. «Ma... E se lei non cambia idea? Cosa faccio - chiese lui - se oppone un netto rifiuto?» Gli dissi che, se non fosse rinsavita, la ragazza avrebbe dovuto sopportarne le conseguenze. Gli ricordai che nessuno poteva costringerlo a fare una cosa che non voleva fare. Gli dissi quello che avrei voluto che un uomo di polso avesse detto a me quando ero io in procinto di commettere il mio errore. Dissi: «Vivendo in un paese come il nostro, i cui documenti più importanti sono tutti sull’emancipazione, tutti tesi a garantire la libertà dell’individuo, vivendo in un sistema libero che è sostanzialmente indifferente a come ti comporti purché il tuo comportamento sia lecito, l’infelicità che ti arriva ha molte probabilità di essere autoprodotta. Sarebbe un altro paio di maniche se tu vivessi nell’Europa occupata dai nazisti o in un’Europa dominata dai comunisti o nella Cina di Mao Tse-tung. Là l’infelicità te la producono loro; non devi fare neanche un passo falso per non desiderare mai più di alzarti la mattina. Ma qui, libero dal totalitarismo, un uomo come te l’infelicità deve procurarsela da solo. Tu, per giunta, sei intelligente, comunicativo, attraente, colto: sembri fatto apposta per prosperare in un paese come questo. Qui l’unico tiranno che ci aspetta al varco è la convenzione, e anche questa non è da prendere sottogamba. Leggi Tocqueville, se non l’hai ancora fatto. Non è superato, non sul tema degli "uomini costretti a passare attraverso lo stesso crivello". Il punto è che non dovresti credere che per eludere le pastoie della convenzione devi miracolosamente diventare un beatnik, un hippie o un bohémien. Per riuscirvi non sono necessarie condotte esagerate o stravaganze nell’abbigliamento estranee al tuo temperamento e alla tua educazione. Niente affatto. L’unica cosa che devi fare, Ken, è trovare la tua forza. Ce l’hai, io so che ce l’hai: è solo paralizzata dalla novità della tua difficile situazione. Se vuoi vivere intelligentemente oltre il ricatto degli slogan e delle norme non rivedute, devi solo trovare la tua...» Eccetera, eccetera. La Dichiarazione d’Indipendenza. La Carta Costituzionale. Il Discorso di Gettysburg. Il Proclama dell’Emancipazione. Il Quattordicesimo Emendamento. I tre emendamenti della Guerra Civile. Gli ho parlato di tutto questo. Gli ho trovato il Tocqueville. Pensavo, Ha ventun anni, finalmente possiamo parlare. Sono stato più Polonio di Polonio. Quello che gli dicevo, dopo tutto, non era poi così strampalato, certo non per il 1979. E non lo sarebbe stato neanche quando ero io ad avere bisogno che me lo martellassero nella testa. Concepito liberamente: puro e semplice buonsenso americano. Ma quando terminai, lui cosa fece? Cominciò a illustrarmi tutte le grandi qualità di lei. «E le tue qualità?» gli chiesi. Ma sembrava che non mi avesse udito, perché tornò a spiegarmi quanto era intelligente, com’era carina, che ragazza simpatica era, mi parlò della sua famiglia - favolosa - e un paio di mesi dopo la sposò.

 Conosco tutte le obiezioni che un giovane probo e virtuoso può opporre alla rivendicazione della sovranità personale. Conosco tutte le ammirevoli etichette che si possono attaccare alla decisione di non far valere la propria sovranità. Be’, il problema di Kenny è che lui dev’essere ammirevole a tutti i costi. Vive nel terrore che una donna gli dica che non lo è. «Egoista»: ecco la parola che lo paralizza. Tu, bastardo egoista. E terrorizzato da questo giudizio, perciò è questo il giudizio che prevale su tutti gli altri. Si, conta pure su Kenny se vuoi qualcosa di ammirevole, qualunque cosa sia, ed è questo il motivo per cui quando Todd, il suo figlio maggiore, andò al liceo e mia nuora disse che dovevano avere altri figli, nei sei anni che seguirono lui diventò padre altre tre volte. Proprio quando di lei non ne poteva più. Dal momento che è così ammirevole, non può lasciare la moglie per l’amica, non può lasciare l’amica per la moglie, e naturalmente non può lasciare i figli piccoli. Dio sa che non può lasciare sua madre. L’unico che può lasciare sono io. Ma è cresciuto con la lista delle rimostranze, e così, negli anni immediatamente successivi al divorzio, ogni volta che lo vedevo dovevo perorare la mia causa, allo zoo, al cinema, alla partita di baseball, per spiegargli che non sono quello che sua madre dice che sono.

Ci ho rinunciato perché sono quello che sua madre dice che sono. Kenny era la sua creatura, e quando andò all’università non avevo più voglia di battermi per uno a cui facevo venire il voltastomaco. Ci ho rinunciato perché non volevo simulare il bisogno femminile da cui Kenny è incapace di difendersi. Al pathos del bisogno femminile mio figlio è crudelissimamente assuefatto. Negli anni in cui, solo con sua madre, coltivava quest’arcaica assuefazione che, tra parentesi, ai tempi della donna dipendente asserviva tutti gli uomini migliori - io e lui d’estate passavamo sempre due settimane insieme nell’alberghetto dei miei genitori. Un sollievo, per me, perché i miei genitori si occupavano di tutto. Volevano ricreare l’atmosfera di una vera famiglia, e io e lui, con i nostri precedenti, non ci riuscivamo. Ma quando non ci furono più i nonni, quando lui andò a fare il dottorato, si sposò, diventò padre... Eppure mi telefonava sempre, quando nasceva uno dei suoi figli. Gentile da parte sua, visto quello che prova per me. Che ho perso, naturalmente, lo so da un pezzo. Ma anche Kenny ha perso. Le conseguenze del mio essere ciò che sono sono a lungo termine. Questi disastri familiari sono dinastici.

Ma improvvisamente, una volta al mese, una volta ogni sei settimane, viene a purgarsi, alla mia presenza, di ciò che lo avvelena. C’è paura nei suoi occhi, c’è rabbia nel suo cuore, c’è stanchezza nella sua voce; nemmeno i suoi abiti eleganti gli stanno più bene. La moglie è infelice e furente per l’amica, l’amica si lamenta ed è astiosa per la moglie, e i figli sono spaventati e piangono nel sonno. Quanto al sesso coniugale, dovere esecrando che compie stoicamente, ormai è diventato qualcosa d’impossibile anche con la sua forza d’animo. Abbondano le discussioni, abbonda la sindrome da intestino in subbuglio, abbondano i tentativi di conciliazione, abbondano le minacce e le controminacce. Ma quando gli chiedo: «Allora, perché non te ne vai?» lui mi dice che andandosene distruggerebbe la sua famiglia. Non ci sarebbero superstiti, tutti avrebbero un collasso, la sofferenza dilagherebbe. Quello che invece devono fare è tenersi stretti gli unì agli altri.

Implicito è il giudizio su di me: quanto è più onorevole lui di quel padre che lo abbandonò quando aveva otto anni! La sua vita ha un significato che la mia non ha. Questo è il suo cavallo di battaglia. Qui è dove domina e mi è superiore.

«Kenny, - gli dico, - perché non ti decidi una buona volta ad affrontare tuo padre come una realtà? Affronta finalmente il cazzo di tuo padre. Questa è la realtà di un padre. Al bambino si mente su queste cose. Non possiamo essere candidi sul cazzo di suo padre, col bambino. Che molti padri non riescano a contenersi in un matrimonio, è giusto che ai piccini sia tenuto segreto. Ma tu sei un uomo. Sai come stanno le cose. Conosci tutti questi artisti. Conosci tutti questi mercanti. Ti sarai pure fatto un’idea di come gli adulti vivono la loro vita. E ancora questo lo scandalo più grande che si possa immaginare?»

Io e lui non facciamo altro che bistrattarci, anche se non come vorrebbe la tradizione. Fuori dalle pagine di Dostoevskij, la storia è tradizionalmente l’opposto: l’abituale autorità vincolante è il padre, il figlio è incorreggibile e il castigo va nell’altra direzione. Eppure lui continua a venire qui, e ogni volta che suona il campanello io lo faccio salire. «La tua amica quanti anni ha? - gli chiedo. - E avere una relazione con un uomo sposato di quarantadue anni, padre di quattro figli, che è il suo principale? Neanche lei, dunque, è un grande esempio. Solo tu sei l’esempio. Tu e tua madre.» Dovresti sentirlo parlare di questa ragazza. Una chimica laureata anche in storia dell’arte. E che suona l’oboe. Splendido, gli dico. Anche nell’adulterio tu sei meglio di me. Non vuole nemmeno chiamarlo adulterio. Il suo adulterio è diverso da tutti gli altri. C’è troppo impegno nella loro intesa per poterlo chiamare adulterio. E l’impegno è la cosa che mi manca. I miei adulteri non erano abbastanza seri per soddisfarlo.

Be’, è vero. Io cercavo di evitare che diventasse una cosa seria. Mentre per lui l’adulterio è il reclutamento di una nuova moglie. È andato a conoscere i suoi. Ecco cosa mi stava dicendo un minuto fa, che ieri ha preso un aereo ed è andato a trovarli insieme a lei. «Sei andato in Florida gli ho chiesto - su e giù in giornata per conoscere i suoi genitori? Ma questo è un adulterio. Cosa c’entrano i genitori?» Mi racconta che in un primo momento, all’aeroporto, i suoi genitori sono freddi e molto scettici, ma che quando vanno a cena tutti insieme a casa loro i genitori dicono alla ragazza che gli vogliono bene. Gli vogliono bene come a un figlio. Si vogliono tutti un gran bene. Valeva la pena di fare quel viaggio. «E hai conosciuto la sorella della tua amica e i suoi adorabili bambini? - gli domando. - Hai conosciuto suo fratello e i suoi adorabili bambini?» Accidenti, sta per scambiare la piccola prigione che è il suo attuale matrimonio con un carcere di massima sicurezza. Pronto, ancora una volta, per la gabbia. Gli dico: «Kenny, vuoi il mio permesso e la mia benedizione? Be’, si da il caso che io te li accordi ben volentieri, sia il permesso che la benedizione.» Ma lui mica si ferma qui. Non basta che abbia l’unico padre in questo grande paese pronto ad approvare ciò che fa e magari anche ad aiutarlo a mettere su casa con un altro pezzo di figa con una famiglia meravigliosa in Florida. Devo anche riconoscere la sua superiorità. «E l’oboe, - ho detto. - Non è fantastico? Scommetto che nel tempo libero la tua ragazza scrive poesie. Scommetto che lo fanno anche i suoi genitori.» Credenziali, credenziali, credenziali. Questo non riesce a scopare se non è dominato da una virago che fa schioccare la frusta. Quello non riesce a scopare se la ragazza non è vestita da cameriera. Uno riesce a scopare solo con i nani, uno solo con i criminali, uno solo con le galline. Mio figlio riesce a scopare solo una ragazza con le credenziali morali giuste. Per piacere, gli dico, è una perversione, né migliore né peggiore di tutte le altre. Riconoscila per quello che è e non ti sentire tanto speciale.

Ecco. La lettera che mi aveva spedito e di cui temeva il possibile smarrimento. Con la data del giorno della settimana scorsa - la stessa sera, qualche ora dopo - in cui è venuto a trovarmi. Come se in un anno di scambi d’insulti non ne avessi ricevute altre dieci come questa. «Sei cento volte peggio di quanto immaginassi.» Ecco l’inizio. E il leitmotiv. Poi questo. Lascia che te la legga. «E non ti arrendi. Non ci potevo credere. Le cose che mi hai detto. Tu devi sempre importi, dimostrare che la tua scelta nella vita era quella giusta e la mia quella vile, quella grottesca, quella sbagliata. Sono venuto da te che ero uno straccio, e con quale violenza mentale mi hai ricevuto! Gli anni Sessanta... Lui deve tutto quello che è oggi alla serietà con cui ha preso Janis Joplin. Senza Janis Joplin non avrebbe mai potuto essere, a settant’anni, il fedele ritratto di un patetico vecchio stupido. L’imponente caschetto di lunghi capelli bianchi, i bargigli da tacchino seminascosti dietro l’elegante foulard... Quando comincerai a imbellettarti le guance, Herr Von Aschenbach? Cosa credi di sembrare? Ne hai un’idea? Tutta quella devozione a una Vita Superiore. Difendendo le barricate estetiche di Channel Thirteen. La battaglia solitaria per mantenere i livelli culturali in una società di massa. Ma... E rispettare i normali livelli della decenza? Naturalmente non hai avuto il coraggio di restare nel mondo accademico e comportarti seriamente; non sei mai stato serio un solo giorno in vita tua. Janie Wyatt, dov’è adesso? Quanti matrimoni naufragati? Quanti esaurimenti? In quale ospedale psichiatrico è stata ricoverata in tutti questi anni? Queste ragazze vanno all’università, e non dovrebbero essere protette dalle persone come te? Tu sei l’argomento vivente a favore della loro protezione. Io ho due figlie, le tue nipoti, e se pensassi che le mie figlie dovessero iscriversi a un college e avere come professore un uomo come mio padre...»

E così via... Finché... Vediamo... Sì, qui è più forte. «I miei figli hanno paura e strillano perché i loro genitori stanno litigando e papà è così arrabbiato che vuole andarsene di casa. Sai com’è, per me, con i miei figli, la sera quando torno a casa? Sai cosa vuol dire sentir piangere i tuoi figli? Come potresti saperlo? E io ti ho difeso, io ti ho difeso. Mi sforzavo di non credere che la mamma avesse ragione. Prendevo le tue difese, parteggiavo per te. Dovevo farlo, eri mio padre. In cuor mio cercavo di scusarti, cercavo di capirti. Ma gli anni Sessanta? Quell’esplosione d’infantilismo, quella volgare, insensata regressione collettiva, e questo spiega tutto e scusa tutto? Non puoi trovare un alibi migliore? Sedurre studentesse indifese, coltivare i propri interessi sessuali a spese di tutti gli altri... È così necessario, eh? No, la necessità è nel rimanere in un matrimonio difficile e allevare un bambino e affrontare le responsabilità di un adulto. In tutti quegli anni ho pensato che la mamma stesse esagerando. Ma non era un’esagerazione. Non sapevo, fino a questa sera, cos’aveva dovuto passare. Il dolore che le hai dato, e per cosa? Il fardello che le hai accollato; il fardello che hai accollato a me, a un bambino, di essere tutto, sulla terra, per sua madre, e per cosa? Per poter essere "libero"? Non ti posso soffrire. Non ho mai potuto.»

E il mese prossimo sarà di nuovo qui a dirmi che non mi può soffrire. E il mese dopo. E il mese dopo quello. In fondo, non l’ho perduto. Suo padre è diventato finalmente una risorsa. «Sono io. Fammi salire. Apri!» La sua situazione non gli suscita nessuna autoironia, ma io credo che ne ricavi più di quanto vuol farmi credere. Non ne ricava niente? Deve cavarne qualcosa. Non è affatto stupido. Non può farsi assediare in eterno dalla tragedia della sua infanzia. Sì? Be’, sarà così. Forse hai ragione tu. Gli brucerà per il resto della vita. Una delle tante barzellette: un uomo di quarantadue anni, aggiogato all’esistenza del ragazzo tredicenne e da essa ancora tormentato. Forse è proprio com’era alla partita. Lui muore dalla voglia di evadere. Muore dalla voglia di lasciare sua madre, muore dalla voglia di scappare con suo padre, e non riesce a fare altro che vomitare tutto quello che ha dentro.

La mia relazione con Consuela durò poco più di un anno e mezzo. Solo di tanto in tanto andavamo fuori a cena o a teatro. Lei aveva troppa paura delle indiscrezioni della stampa e di finire nella rubrica dei pettegolezzi, e questo mi stava benone, perché ogni volta che la vedevo mi veniva sempre una gran voglia di scoparla lì per lì, senza dovermi sorbire, prima, qualche troiata. «Sai come sono i giornalisti, sai come trattano la gente, e se mi faccio vedere con te...» «Ottimo, non preoccuparti, - dicevo amabilmente, - stiamo in casa.» Alla fine si decise a passare con me tutta la notte, e la mattina dopo facevamo colazione insieme. Ci vedevamo una volta o due la settimana e, anche dopo l’incidente dell’assorbente, Carolyn non scoprì l’esistenza di Consuela. Eppure, con Consuela non avevo mai l’animo in pace; non riuscivo mai a dimenticare i cinque ragazzi con cui aveva scopato prima di me, due dei quali - risultò - erano fratelli, l’uno diventato il suo amichetto quando lei aveva diciotto anni, l’altro a venti: cubani, i ricchi fratelli Villareal di Bergen County, e un’altra causa delle mie sofferenze. Se non fosse stato per la rasserenante influenza di Carolyn e le magnifiche notti che passavamo insieme, non so proprio come me la sarei cavata. L’agitazione che mi dava l’avere Consuela - contrapposta all’agitazione che mi dava il non averla - fini solo quando lei si laureò e diede una gran festa nella casa del New Jersey dei suoi genitori. Naturalmente fu un bene per entrambi che finisse, ma questo non era nei miei piani, e nei giorni che seguirono scoprii di essere disperato. Per quasi tre anni ebbi saltuarie crisi depressive. Tormentato per tutto il tempo che ero stato con lei, cento volte più tormentato per averla perduta. Fu un brutto periodo, e non finiva mai. George O’Hearn si comportò benissimo. Mi aiutò, con i suoi discorsi, a passare molte sere, quando mi sentivo troppo giù. E avevo il mio pianoforte, che fu la cosa che mi fece superare la crisi.

Ti dicevo che nel corso degli anni ho comprato tanta musica, le partiture per piano, e così non facevo che suonare, quando avevo finito il mio lavoro. Suonai, in quegli anni, tutte le trentadue sonate di Beethoven, nota per nota, sperando che scacciassero Consuela dalla mia mente. Non si dovrebbe costringere nessuno ad ascoltare un nastro di quelle esecuzioni, che comunque non esiste. Certi passaggi erano a tempo, ma la maggior parte no; eppure, incurante di tutto, io continuavo a suonare. Strambo, ma è quello che feci. Con la musica per pianoforte ti sembra sempre di riprodurre le cose che facevano i compositori, e così, fino a un certo punto, sei nella loro testa. Non nella parte più misteriosa, quella dove nasce la musica, ma comunque non stai, passivamente, solo assorbendo un’esperienza estetica. Goffamente, a modo tuo, la stai producendo tu stesso, e fu così che io cercai di colmare la perdita di Consuela. Eseguivo le sonate di Mozart. Suonavo la musica per piano di Bach. La suonavo, la conosco, che è diverso dal suonarla bene. Suonavo pezzi elisabettiani di Byrd e di gente così. Suonavo Purcell. Suonavo Scarlatti. Ho tutte le sonate di Scarlatti, tutt’e cinquecentocinquanta. Non dirò che le ho suonate tutte, ma ne ho suonate tante. La musica per piano di Haydn. Ora la conosco a menadito. Schumann. Schubert. E questo, come ti dicevo, senza una grande preparazione. Ma era un momento terribile, un momento sterile e vuoto, e si trattava o di studiare Beethoven ed entrare nella sua mente o di restare nella mia e rivivere tutte le scene con Consuela che potevo ricordare: peggio, si trattava di rivedere l’errore che avevo fatto non andando alla sua festa di laurea.

Ma, capisci, non avrei mai immaginato che Consuela fosse così comune. Questa ragazza che si toglie l’assorbente davanti a me e poi, siccome non mi presento alla sua festa di laurea, decide che con me è tutto finito? La nonchalance di una cosa così intensa che finisce com’è finita mi sembra incredibile. La sbrigatività con cui finisce, è questo che io rivedo, pensando che il segreto di questa sbrigatività è che Consuela non voleva che la cosa continuasse. Perché? Perché non mi desiderava, non mi ha mai desiderato, perché con me, in realtà, lei faceva degli esperimenti, per vedere quanto potevano essere irresistibili i suoi seni. Ma lei, personalmente, non otteneva mai ciò che voleva. Quello l’otteneva dai fratelli Villareal. Certo. Erano tutti là alla sua festa, circondandola, pigiandosi intorno a lei, belli, giovani, gentili, bruni, muscolosi, e lei avrà pensato, Che ci faccio con questo vecchio? Dunque, ho sempre avuto ragione io: e perciò è stato giusto che finisse. Consuela è arrivata dove voleva arrivare. Se avessi insistito, non avrei fatto altro che prepararmi nuovi tormenti. Non andare a quella festa è stata la cosa più intelligente che ho fatto. Perché avevo continuato a cedere, a cedere in un modo che non capivo. Anche mentre Consuela era con me, il desiderio non spariva mai. L’emozione primordiale, come dicevo, era il desiderio. È ancora il desiderio. Non c’è sollievo dal desiderio, e dalla mia visione di me stesso come un uomo prostrato ai suoi piedi. Ecco: ce l’hai quando sei con lei e ce l’hai quando sei senza di lei. Chi ha deciso, dunque, che finisse tutto? Io, non andando alla festa, o lei, appigliandosi al fatto che alla festa non ero andato? Questa è l’interminabile discussione che facevo tra me e me, e accidenti, per impedire alla mia mente di girare intorno alla perdita di Consuela - per impedirmi di vedere in modo falso in quest’unico avvenimento, la festa, la chiave di tutte le cose che avevo gestito così male - spesso dovevo alzarmi nel cuore della notte e suonare il piano fino all’alba.

Cos’era successo? Che Consuela mi aveva invitato nel New Jersey per festeggiare il conseguimento della laurea e che io avevo dovuto dire di si; ma mentre, in macchina, attraversavo il ponte, avevo pensato, Ci saranno i genitori, i nonni, i parenti cubani, ci saranno tutti i suoi vecchi amici d’infanzia, ci saranno quei due fratelli, e io sarò presentato come il professore che parla alla televisione. Ed era semplicemente troppo stupido, dopo un anno e mezzo, che per questa ragazza io fingessi di essere solo un benevolo mentore, soprattutto davanti a quei Villareal del cazzo. Ero troppo vecchio per queste stupidaggini, e allora mi fermai in fondo al ponte, dalla parte del New Jersey, e le telefonai per dirle che mi si era guastata la macchina e non potevo venire. Una bugia dalle gambe corte - avevo una Porsche da meno di due anni - e così quella sera stessa, dal New Jersey, col fax dei suoi lei m’inviò una lettera, non la lettera più esplosiva che io abbia mai ricevuto da chicchessia, però, comunque, non avrei mai potuto immaginare una Consuela irrefrenabile come quella.

Ma non ero mai riuscito a immaginarla com’era veramente. Che altro ignoravo di lei, accecato com’ero dalla mia ossessione? Lei che nella lettera mi urlava: «Tu che fai sempre la parte del vecchio saggio che sa tutto.» Lei che strillava: «Ti ho visto proprio stamattina alla televisione, nella parte di quello che sa sempre qual è la verità, che sa cos’è la buona cultura e cos’è la cattiva cultura, che sa cosa dovrebbe leggere e cosa non dovrebbe leggere la gente, che sa tutto della musica e tutto dell’arte, e poi, per celebrare questo momento importante della mia vita, io faccio una festa, voglio fare una bellissima festa, voglio che tu sia al mio fianco, tu che sei tutto per me, e tu non ci sei.» E io le avevo già mandato un regalo, le avevo mandato dei fiori, ma lei era furibonda, arrabbiatissima... «Il Signor Critico, l’intellettuale con tutta la sua arroganza, la grande autorità su ogni cosa, quello che insegna a tutti cosa devono pensare e che mette ciascuno in carreggiata. Me da asco!»

Ecco come finiva. Mai prima d’allora, nemmeno affettuosamente, Consuela con me si era servita dello spagnolo. Me da asco. Che nel linguaggio comune significa: «Mi da la nausea.»

Tutto questo risale a sei anni e mezzo fa. La cosa strana fu che tre mesi dopo ricevetti da lei una cartolina, da un paese del Terzo Mondo con stazioni di villeggiatura di prim’ordine - Belize, Honduras, un paese così - ed era una cartolina cordialissima. Poi, sei mesi dopo, mi telefonò. Voleva cercare lavoro nella pubblicità, il tipo di lavoro, disse, per il quale l’avrei odiata, ma ero disposto egualmente a scriverle una lettera di raccomandazione? Come suo ex professore. Lettera che scrissi. Poi ricevetti una cartolina (un nudo di Modigliani esposto al Modern) in cui diceva di aver avuto il posto e di essere molto felice. E poi, da lei, nient’altro. Una sera trovai il suo nome in un nuovo elenco telefonico di Manhattan, l’indirizzo di un appartamento che suo padre doveva averle comprato nell’Upper East Side. Ma tornare indietro non era una buona idea, e non ci provai.

George, tanto per dirne una, non me l’avrebbe permesso. George O’Hearn, pur avendo quindici anni meno di me, era il mio confessore laico. Era l’amico che mi era stato più vicino durante l’anno e mezzo della mia relazione con Consuela, e solo dopo mi disse che si era molto preoccupato, che mi aveva sorvegliato attentamente mentre io mi spogliavo del mio realismo, del mio pragmatismo, del mio cinismo e non pensavo ad altro che al pericolo di perderla. Fu lui che mi vietò di rispondere alla sua cartolina, cosa che morivo dalla voglia di fare, cosa che credevo di essere invitato a fare dal tronco cilindrico del busto, dall’ampiezza del bacino e dalla dolce curvatura delle cosce, dalla fiammata del pelo pubico che segna il punto dove la donna si biforca: dal tipico nudo di Modigliani, l’accessibile, lunga ragazza dei nostri sogni che lui dipingeva come per un rito e che Consuela aveva scelto di spedirmi, così impudicamente, utilizzando il servizio postale degli Stati Uniti. Un nudo i cui seni, pieni e un po’ cascanti sul lato, avrebbero potuto essere stati copiati dai suoi. Un nudo rappresentato con gli occhi chiusi, difeso, come Consuela, da nient’altro che dal suo potere erotico, e, come Consuela, elementare ed elegante a un tempo. Un nudo dalla pelle dorata inspiegabilmente assopito sopra un vellutato abisso nero che, nel mio stato d’animo, associavo alla tomba. Linea lunga e ondulata, lei è là distesa che ti aspetta, immobile come la morte.

George non aveva neanche voluto che io scrivessi la raccomandazione per il posto di lavoro. «Avrai sempre le mani legate con questa ragazza, - disse. - Non sarai mai tu ad avere il coltello per il manico. Qui c’è qualcosa - mi disse - che ti fa perdere la testa, e te la farà perdere sempre. Se non tagli definitivamente questo legame, alla fine quel qualcosa ti distruggerà. Non stai più semplicemente soddisfando un bisogno naturale, con lei. Questa è patologia nella sua forma più pura. Senti, - mi disse, - guardala come un critico, da un punto di vista professionale. Hai violato la legge della distanza estetica. Con questa ragazza hai sentimentalizzato l’esperienza estetica: l’hai personalizzata, l’hai trasportata nella sfera dei sentimenti, e hai perduto il senso della separazione indispensabile per il tuo godimento. Sai quando è successo? La sera che si è tolta l’assorbente. La necessaria separazione estetica è venuta meno non mentre tu la guardavi sanguinare - questo andava bene, non era questo il problema - ma quando non sei riuscito a trattenerti e ti sei inginocchiato. Ma cosa diavolo te l’ha fatto fare? Cosa c’è sotto la commedia di questa ragazza cubana che manda al tappeto uno come te, il professore di desiderio[6]? Bere il suo sangue? Io direi che questo ha rappresentato l’abbandono di una posizione critica indipendente, Bave. Adorami, lei dice, venera il mistero della dea sanguinante, e tu lo fai. Non ti fermi davanti a nulla. Lo lecchi. Lo consumi. Lo digerisci. E lei che penetra te. Che altro la prossima volta, David? Un bicchiere della sua urina? Tra quanto tempo la implorerai di darti le sue feci? Io non sono contrario perché è poco igienico. Non sono contrario perché è disgustoso. Sono contrario perché questo vuol dire innamorarsi. L’unica ossessione che vogliono tutti: l’"amore". Cosa crede, la gente, che basti innamorarsi per sentirsi completi? La platonica unione delle anime? Io la penso diversamente. Io credo che tu sia completo prima di cominciare. E l’amore ti spezza. Tu sei intero, e poi ti apri in due. Quella ragazza era un corpo estraneo introdotto nella tua interezza. E per un anno e mezzo tu hai lottato per incorporarlo. Ma non sarai mai intero finché non l’avrai espulso. O te ne sbarazzi o lo incorpori con un’autodistorsione. Ed è quello che hai fatto, e che ti ha ridotto alla disperazione.»

Difficile approvare queste parole, e non solo a causa della tendenza mitopoietica di George; difficile credere, semplicemente, al catastrofico potenziale di un personaggio in apparenza così poco minaccioso come la protettissima Consuela tutta casa e famiglia dei sobborghi. Ma George non mollava. «L’attaccamento è rovinoso, ed è il tuo nemico. Joseph Conrad: chi si forma un legame è perduto. È assurdo che tu stia lì seduto con quella faccia. L’hai assaggiato. Non ti basta? Di cosa riesci mai ad avere più di un assaggio? È tutto quello che ci è dato nella vita, è tutto quello che ci è dato della vita. Un assaggio. Non c’è altro.»

George aveva ragione, naturalmente, e mi stava soltanto ripetendo ciò che so. Chi si forma un legame è perduto, l’attaccamento è il mio nemico, perciò mi affidai a quello che Casanova chiamava «il rimedio dello scolaretto»: mi masturbai. Immaginavo di sedere al piano mentre lei era in piedi, nuda, accanto a me. Un giorno avevamo veramente realizzato una simile fantasia, perciò quella scena non era solo frutto della mia immaginazione ma anche uno dei miei ricordi. Le avevo chiesto di svestirsi e lasciarsi guardare mentre eseguivo la Sonata in do minore di Mozart, e lei si era gentilmente prestata. Non so se la suonai meglio del solito, ma non era questo il punto. In un’altra fantasia ricorrente, io le sto dicendo: «Questo è un metronomo. La lucina lampeggia e lui fa un rumore periodico. Tutto qui. Se ne regola il passo a seconda di ciò che si vuole. Non soltanto i dilettanti come me, ma i professionisti, anche i grandi pianisti da concerto, hanno il problema di quella che si chiama accelerazione.» Ancora una volta, la vedo vicino al piano con la sua roba ai piedi, come la sera in cui, vestito di tutto punto, eseguii la Sonata in do minore, facendo col movimento lento una serenata alla sua nudità. (Certe volte veniva da me in sogno identificata, come una spia, solo dalla sigla K. 457). «Questo è un metronomo al quarzo, - dicevo. - Non è l’oggetto a forma triangolare che forse hai visto, con un pendolo, dove il pendolo ha un piccolo peso, e ci sono i numeri. I numeri sono gli stessi del pendolo», e quando lei fa un passo avanti per esaminare il quadrante, i suoi seni ciondolanti mi coprono la bocca e soffocano, per un attimo, la pedagogia: la pedagogia che è il mio più grande potere su Consuela. Il mio unico potere.

«Sono numeri standard, - le dico. - Se lo metti su sessanta, ogni battito durerà un secondo. Si, come le pulsazioni cardiache. Fammi sentire come ti batte il cuore con la punta della lingua.» Cosa che lei mi concede, come mi concede tutto il resto: senza commenti, quasi senza complicità. Io le dico: «Veramente, prima che lo inventassero, intorno al 1812 - quello vecchio, cioè -, sulla musica non ci sono indicazioni per il metronomo. Quello che facevano nei trattati generali, per il tempo, era questo: suggerivano di usare il battito del polso come un certo tipo di allegro. Dicevano: "Tastatevi il polso e pensate che il tempo sia quello". Fatti tastare il polso con la testa del mio cazzo. Siediti sul mio cazzo, Consuela, e noi giocheremo col tempo. Ah, non è un allegro veloce, vero? Niente affatto. Ora, non esiste un solo pezzo di Mozart che abbia le indicazioni del metronomo, e perché, perché è così? Ti ricordi quando Mozart morì...» Ma qui ho il mio orgasmo, la lezione di fantasia è finita e, per il momento, io non sono più malato di desiderio. Non era Yeats? «Consumami il cuore; malato di desiderio / E avvinto a un animale morente / Che non sa cos’è.» Yeats. Si. «Preso da quella musica sensuale», e cosi via.

Suonavo Beethoven e mi masturbavo. Suonavo Mozart e mi masturbavo. Suonavo Haydn, Schumann, Schubert, e mi masturbavo con la sua immagine davanti agli occhi. Perché non potevo dimenticare quei seni, i seni maturi, i capezzoli, come me li stringeva intorno al cazzo e mi accarezzava così. Un altro particolare. L’ultimo, e smetto. Sto diventando un po’ tecnico, ma questo è importante. Questo era il tocco che la rendeva un capolavoro di volupté. Consuela è una delle poche donne che ho conosciuto che vengono spingendo la vulva in fuori, spingendola in fuori involontariamente come il corpo tenero, indiviso e schiumante di un mollusco. La prima volta fu una sorpresa. La tocchi e ti sembra una cosa dell’altro mondo, una creatura che viene dal mare. Come se fosse imparentata con l’ostrica o la piovra o il calamaro, un essere che vive a miglia e miglia di profondità e che risale a chissà quanti eoni fa. Normalmente tu vedi la vagina e la puoi aprire con le mani, ma nel suo caso sbocciava come un fiore, quella figa che da sola emergeva dal suo nascondiglio. Le labbra interne venivano estroflesse, si gonfiavano verso l’esterno, e quel turgore viscido e setoso è molto eccitante, stimolante da toccare e da vedere. Il segreto estaticamente svelato. Schiele avrebbe dato un occhio della testa per dipingerla. Picasso l’avrebbe trasformata in una chitarra.

Riesci quasi a venire solo guardandola venire. Consuela distoglieva lo sguardo, quando per lei era così. Girava gli occhi all’insù e si vedeva solo il bianco, e anche questo era uno spettacolo. Tutto, in lei, era uno spettacolo. Nonostante l’agitazione provocata dalla gelosia, nonostante l’umiliazione e la continua incertezza, ero sempre orgoglioso di farla venire. Certe volte non ti preoccupi nemmeno se una donna viene o no: capita, lei non sembra farci caso e la responsabilità non è tua. Con altre donne non è un ostacolo; basta la situazione, basta l’eccitazione, e la cosa non diventa mai un problema. Ma con Consuela, sì, era decisamente una responsabilità mia, e sempre, sempre, un motivo di orgoglio.

Ho un figlio ridicolo di quarantadue anni: ridicolo perché è mio figlio, imprigionato nel suo matrimonio a causa della mia evasione dal mio e dell’importanza che questo ha avuto per lui e della protesta contro la mia vita privata in cui ha ostinatamente trasformato la sua. Il ridicolo è il prezzo che paga per essere stato cambiato troppo presto in un Telemaco, il piccolo ed eroico difensore della madre abbandonata. Eppure, nei tre anni della mia altalenante depressione io sono stato mille volte più ridicolo di Kenny. Cosa intendo dire con «ridicolo»? Cos’è il ridicolo? Rinunciare volontariamente alla propria libertà: ecco la definizione del ridicolo. Se la libertà ti viene strappata con la forza, superfluo dire che non sei ridicolo, se non per colui che con la forza te l’ha tolta. Ma chi regala la propria libertà, chi muore dalla voglia di regalarla, entra in quel regno del ridicolo che fa venire in mente le più celebri commedie di Ionesco ed è una fonte d’ispirazione in tutta la letteratura comica. Chi è libero può essere pazzo, stupido, ripugnante, infelice proprio perché è libero, ma non è ridicolo. Ha lo spessore di un essere umano. Io stesso ero già abbastanza ridicolo con Consuela. Ma negli anni in cui fui schiavo del monotono melodramma rappresentato dalla sua perdita? Mio figlio, plasmato dal disprezzo per l’esempio che gli ho dato, deciso a essere un uomo responsabile dove io ero un relitto, incapace di liberarsi di nessuno, a partire da me... Può anche darsi che mio figlio non voglia vedere più in là della punta del suo naso, ma io giro il mondo affermando il contrario, e il corpo estraneo penetra egualmente. La gelosia s’insinua. S’insinua l’attaccamento. L’eterno problema dell’attaccamento. No, nemmeno la scopata può ripetersi così, allo stato puro. Ed è qui che casca l’asino. Io, il grande propagandista della scopata; e non so fare meglio di Kenny. Certo, manca la purezza del tipo sognato da Kenny, ma non c’è nemmeno la purezza del tipo sognato da me. Quando due cani si accoppiano tra loro, ecco dove la purezza sembra fare capolino. Ecco, pensiamo noi, la scopata allo stato puro, tra le bestie. Ma se ne parlassimo con loro, forse scopriremmo che anche tra i cani esistono, in forma canina, queste folli distorsioni rappresentate dal desiderio, dall’infatuazione, dalla possessività, persino dall’amore.

Questo bisogno. Questa follia. Non avrà mai fine? Dopo un po’, non so nemmeno io qual è la causa della mia disperazione. Le sue tette? La sua anima? La sua giovinezza? La sua semplicità? Forse è peggio di così: forse, ora che mi sto avvicinando alla morte, anch’io segretamente desidero non essere libero.

Il tempo passa. Il tempo passa. Ho delle nuove amiche. Ho delle amiche studentesse. Vecchie amiche si fanno vive dopo venti o anche trent’anni. Alcune hanno già divorziato parecchie volte e altre sono state così prese dal problema di affermarsi professionalmente che non hanno neanche avuto la possibilità di sposarsi. Quelle ancora sole mi chiamano per lagnarsi delle persone con cui escono. Andare a un appuntamento è odioso, i rapporti sono impossibili, il sesso è un rischio. Gli uomini sono narcisisti, ossessivi, pazzi, volgari e privi di ogni sense of humour, o sono bellissimi, virili e irrimediabilmente infedeli, o sono effeminati, o sono impotenti, o sono - semplicemente - troppo stupidi. Le ventenni non hanno questi problemi perché le loro amicizie sono ancora legate all’università e la scuola, naturalmente, è il grande crogiuolo, ma le donne un po’ più mature, quelle sui trentacinque, sono così assorbite dal lavoro che molte di esse, scopro, per trovare un uomo adatto a loro devono ormai rivolgersi alle agenzie matrimoniali. E a una certa età smettono in ogni caso d’incontrare gente nuova. Come mi diceva una delle deluse: «Cos’è questa gente nuova, quando la conosci veramente? È la solita gente vecchia mascherata. Non ha proprio niente di nuovo. E gente.»

Le agenzie matrimoniali offrono tariffe diverse per un anno d’iscrizione, durante il quale è garantito un certo numero di presentazioni. Alcune agenzie fanno pagare duecento dollari, altre duemila, e una di cui mi hanno parlato, specializzata in quelle che la sua titolare chiama «persone di qualità», organizza incontri - fino a venticinque in due anni - per non meno di ventunmila dollari. Quando me lo dissero credetti di aver capito male, invece sì, la tariffa è di ventunmila verdoni. Be’, è dura per le donne che s’impegnano in questo tipo di transazione allo scopo di trovare un uomo che le sposi e metta al mondo dei bambini; non c’è da meravigliarsi se la sera tardi vengono a sedersi e a fare quattro chiacchiere col loro vecchio ex professore, e se qualche volta, nella loro solitudine, finiscono addirittura per passare la notte qui. Recentemente ce n’era una che stava cercando di riprendersi dal fatto che durante il primo incontro era stata piantata a metà del pasto da un uomo che lei descriveva come «un tipo da vacanze estreme, uno di quei fantastici amanti dell’avventura che vanno a caccia di leoni e fanno surf nelle condizioni più difficili.» «E’ dura là fuori, David, - mi disse. - Perché non è neanche uscire insieme, è solo provare a uscire insieme. Ho accettato stoicamente l’agenzia matrimoniale, - disse, - ma non funziona nemmeno questa.»

Elena, la generosa Elena Hrabovsky, che è diventata prematuramente grigia, forse proprio a causa delle agenzie matrimoniali. Le dissi: «Dev’essere uno stress, gli sconosciuti, i silenzi, la stessa conversazione», e lei mi chiese: «Credi che dovrebbe essere così, quando uno ha avuto il successo che ho avuto io?» Elena è un’oftalmologa, capisci, venuta su dal fondo della classe operaia grazie alla sua immensa forza d’animo. «La vita ti frustra, - mi disse, - e tu diventi una persona molto autoprotettiva e finisci per dirti, Che vadano all’inferno. È un peccato, ma ti passa la voglia. Alcuni di questi uomini sono più attraenti della media. Colti. Per la maggior parte, sono persone agiate. Ma io non mi sento mai attirata da queste persone, - mi disse. - Perché è cosi noioso stare con loro? Forse è noioso perché io sono noiosa, - disse. - Vengono a prenderti con una bella macchina. Una Bmw. Musica classica per tutto il tragitto. Ti portano in un bel ristorantino, e per quasi tutto il tempo io sono li che penso, Ti prego, Signore, lasciami andare a casa. Io voglio dei bambini, voglio una famiglia, voglio una casa, - disse Elena, - ma anche se ho la resistenza fisica ed emotiva per passare sei, * sette, otto ore in piedi in sala operatoria, non ce l’ho più per questa umiliazione. Su alcuni di loro faccio colpo, almeno.» «Perché non dovresti? Sei una retinologa. Una specialista in oftalmologia. Ce la metti tutta perché la gente non diventi cieca.» «Lo so. È il sentirsi rifiutati, così, su due piedi, - disse. - Non sono fatta per queste cose.» «Nessuno lo è», dissi io, ma non mi parve che questo l’aiutasse. «Ho fatto i miei tentativi, - disse lei, diventando lacrimosa, - non ti pare, David? Diciannove appuntamenti?» «Mio Dio, - dissi, - altroché.»

Elena fu una frana, quella notte. Rimase fino all’alba, quando andò direttamente all’ospedale per operare. Nessuno dei due dormì molto, perché io la catechizzavo sulla necessità di rinunciare all’idea di accoppiarsi con qualcuno e perché lei ascoltava come la studentessa seria, volonterosa e diligente che era la prima volta che c’incontrammo nell’aula dove tenevo il mio corso. Ma non so se l’ho aiutata. Elena è intelligente, straordinariamente capace, però quello che la fa sragionare è il desiderio di un figlio. Si, l’idea risveglia l’istinto della riproduzione, ed è questo il suo pathos, d’accordo. Ma è sempre un’idea irragionevole, perché poi devi passare alla fase successiva. È una posizione primitiva, per una persona così raffinata. Ma questo è il modo in cui Elena doveva immaginare l’età adulta tanto, tanto tempo fa, prima di diventare lei stessa un’adulta, prima che le malattie della retina diventassero la passione della sua vita.

Cosa le dissi? Perché me lo domandi? Hai bisogno anche tu della lezione sull’infantilismo dell’accoppiamento? Certo che è infantile. La vita familiare, oggi più che mai, oggi che l’ethos è creato sostanzialmente dai figli. È ancora peggio quando non ci sono figli. Perché il posto del bambino viene preso dall’adulto infantile. La vita di coppia e la vita familiare tirano fuori quanto d’infantile c’è in tutti gli interessati. Perché di notte in notte devono dormire nello stesso letto? Perché devono telefonarsi cinque volte al giorno? Perché stanno sempre insieme? Il rispetto forzato è sicuramente infantile. Questo rispetto innaturale. Recentemente ho letto, su una rivista, un articolo su una celebre coppia mediatica sposata da trentaquattro anni e sulla magnifica impresa che rappresenta l’aver imparato a sopportarsi. Fieramente il marito diceva al giornalista: «Io e mia moglie abbiamo un detto: puoi indovinare lo stato di salute di un matrimonio dal numero dei segni che i denti ti hanno lasciato sulla lingua.» Quando incontro persone come queste mi domando, Perché si puniscono, cosa vogliono espiare? Trentaquattro anni. Il masochistico rigore necessario ti mette in soggezione.

Ho un amico, a Austin, uno scrittore di successo. Si sposò giovane a metà degli anni Cinquanta, poi, nei primi anni Settanta, divorziò. Aveva sposato una brava donna con la quale produsse tre bravi ragazzi, e voleva essere libero. Se ne andò senza isterismi e senza fare fesserie. Era un problema di diritti umani. Datemi la libertà o datemi la morte. Be’, dopo il divorzio andò a vivere da solo: era libero ed era infelice. E cosi, in breve tempo, si risposò, e questa volta sposò una donna con la quale non intendeva avere figli, una che aveva già un ragazzo grande. Una vita coniugale senza figli. Be’, nel giro di un paio d’anni probabilmente smisero di avere rapporti sessuali, anche se questo è un uomo che per tutta la durata del primo matrimonio è stato vigorosamente adultero e nei suoi scritti si è concentrato sul sesso. Da solo avrebbe potuto cominciare a godersi apertamente tutto ciò che rimediava di nascosto mentre era sposato. Eppure, libero dalle proprie costrizioni, è infelice fin dal primo momento ed è convinto che lo sarà per sempre. È libero di fare ciò che vuole, e non ha idea della propria situazione. Non sa fare altro che trovare la strada per tornare alla condizione che non sopportava più, ma ora senza la logica che lo spingeva a volersi sposare per avere figli, mettere su famiglia, eccetera. Il fascino della clandestinità? Non lo sottovaluto. Il matrimonio, nel migliore dei casi, è uno stimolo sicuro delle ebbrezze della licenziosità furtiva. Ma il mio amico, per salvarsi, aveva bisogno di qualcosa di più fondamentale del dramma quotidiano dell’adultero costretto a guadare un fiume di bugie. Non era per questa emozione che si era risposato, anche se, rientrato nei panni del marito, riprese quasi subito a coltivare gli antichi piaceri. Il problema, in parte, è che gli uomini emancipati non hanno mai avuto un portavoce sociale o un sistema educativo. Non hanno uno status sociale perché la gente non vuole che l’abbiano. Tuttavia le circostanze di questo personaggio erano favorevolissime a una vita al limite delle sue prerogative, se non altro per la dignità. Ma continuare a rimandare? Fare concessioni su concessioni? Sognare di andarsene un giorno sì e uno no? No, non è un modo dignitoso di essere un uomo. Né di essere una donna, dissi a Elena.

Se ne convinse? Non so. Non credo. Tu no? Perché, perché ridi? Cosa c’è di tanto esilarante? La mia attitudine didattica? Concordo: il lato assurdo di una persona non manca mai di colpire. Ma cosa ci puoi fare? Io sono un critico, sono un insegnante: la didattica è il mio destino. Deduzione e controdeduzione: è di questo che è fatta la storia. O uno impone le sue idee o se le vedrà imporre. Volenti o nolenti, questa è la situazione. Ci sono sempre delle forze contrapposte, e così, se non si ha una sfrenata passione per la subordinazione, si è sempre in guerra.

Guarda, io non appartengo al nostro tempo. Questo lo puoi vedere. Lo puoi sentire. Ho raggiunto il mio scopo usando un corpo contundente. Ho preso a martellate la vita domestica e quelli che le montano la guardia. E la vita di Kenny. Che io sia ancora un martellatore non dovrebbe sorprendere. E non è una sorpresa che la mia insistenza mi renda, per te che appartieni al tempo presente e non hai mai dovuto insistere su queste cose, una figura comica tipo l’ateo del villaggio.

Ora, lascia che si spengano le risa e permetti al professore di finire. Certo, se il piacere, l’esperienza e l’età non sono più un argomento che possa interessare... Sì? Allora fa’ di me quello che vuoi, ma non prima della fine.

Lo scorso Natale. Natale 1999. Quella notte sognai Consuela. Ero solo e sognai che stava per capitarle qualcosa e pensai che dovevo chiamarla. Ma quando guardai nell’elenco telefonico, lei non c’era più, e poiché, sotto la tutela di George, non volevo ripiombare in quell’agitazione che avrebbe potuto annientarmi, non avevo mai annotato l’indirizzo dell’Upper East Side che avevo visto nell’elenco telefonico qualche anno prima, dopo che Consuela aveva trovato il suo primo lavoro. Be’, una settimana dopo, l’ultimo giorno dell’anno, ero solo nel soggiorno, senza ragazze, deliberatamente solo e seduto al pianoforte perché avevo l’intenzione d’ignorare le celebrazioni del nuovo millennio. Se non ti manca qualcosa, vivere in solitudine può essere un grande piacere, ed era questo piacere che mi ero ripromesso di gustare quella sera. La segreteria telefonica era attaccata, e anche normalmente io non alzo mai il ricevitore quando suona il telefono, ma resto in ascolto per sentire chi è. Quella sera, in particolare, ero deciso a non ascoltare una sola parola da nessuno sul Duemila, e così, quando il telefono squilla, io continuo tranquillamente a suonare finché mi rendo conto che quella che sto ascoltandole la sua voce. «Pronto, David? Sono io. Sono Consuela. È passato molto tempo da quando ci siamo sentiti l’ultima volta, è strano telefonarti, ma devo dirti una cosa. E devo dirtela personalmente, prima che tu la senta da qualcuno. O prima che tu la senta di sorpresa. Ti richiamerò. Ma ecco il numero del mio cellulare.»

Ascoltai il messaggio, agghiacciato. Non sollevai il ricevitore, e poi, quando mi avvicinai per farlo, era troppo tardi, e allora pensai, Oh Dio, le è davvero capitato qualcosa. Era a causa della morte di George che immaginavo il peggio per Consuela. Sì, George è morto. Non hai visto il necrologio sul «Times»? George O’Hearn è morto cinque mesi fa. Sono rimasto senza il mio amico più caro. Sono ormai praticamente senza amici maschi. È una grossa perdita, la camaraderie con George. Ho dei colleghi, certo, persone che vedo quando vado a lavorare e con cui chiacchiero, en passant, ma le idee alle quali s’ispira il loro modo di vivere sono così antitetiche alle mie che quando siamo insieme ci riesce difficile anche solo pensare liberamente. Non abbiamo una lingua comune per la vita privata. George era tutta la mia comunità maschile, forse perché, in primo luogo, la categoria di uomini alla quale apparteniamo è ristretta. E un singolo compagno d’armi è sufficiente: uno non ha bisogno di sentirsi spalleggiato dall’intera società. Trovo che la maggior parte degli altri uomini che conosco - specie se mi hanno incontrato per caso con una delle mie ragazzine - o mi giudicano silenziosamente o mi fanno apertamente delle prediche. Sono «un uomo limitato», mi dicono, loro che limitati non sono. E i predicatori sono capaci di arrabbiarsi se non riconosco la verità del loro argomento. Sono troppo «soddisfatto di me», mi dicono, loro che soddisfatti non sono. Quelli tormentati, naturalmente, non vogliono avere nulla a che fare con me. E tra gli uomini sposati, di sicuro, nessuno ha mai mostrato di volersi aprire con me. Con loro non esiste alcuna affinità. Forse serbano le loro confidenze per quelli come loro, ma chissà: io credo che oggigiorno la solidarietà maschile non abbia una grande portata. Il loro eroismo non consiste solo nel sopportare stoicamente la quotidianità delle rinunce, ma nel presentare diligentemente un’immagine contraffatta della loro vita. La vita vera, la vita non clandestina, esiste solo per il loro terapeuta. Non voglio sostenere che siano tutti ostili e che ce l’abbiano con me per il mio modo di vivere, ma si può dire con certezza che in generale non ispiro ammirazione. Morto George, a offrirmi la loro solidarietà sono solo le donne come Elena, quelle che una volta erano le mie amichette. Non possono darmi ciò che mi dava George, ma non sembra che io chieda troppo alla loro tolleranza.

La sua età? George aveva cinquantacinque anni. Un colpo. Gli è venuto un colpo. Ero presente quando è successo. Io e altre ottocento persone o giù di li. Al Ninetysecond Street Y. La sera di un sabato di settembre. Stava per fare una lettura. Ero io quello sul podio che lo stava presentando. Lui sedeva su una sedia tra le quinte, godendosi la mia presentazione e facendo dei cenni con la testa in segno di approvazione. Stese davanti a lui, nei calzoni stretti da impresario di pompe funebri, c’erano quelle sue gambe lunghe e magre: il flessuoso George, in giacca e cravatta, era un irlandese con i capelli neri e il naso adunco che sembrava un attaccapanni. A quanto pare lo colpì l’apoplessia mentre era là seduto con i suoi sei libri di poesie accatastati sulle ginocchia, in attesa di venire, nel suo lugubre abito nero, a incantare la folla come sapeva fare lui. Perché quando il pubblico cominciò ad applaudire e lui fece per alzarsi, rotolò semplicemente dalla sedia e la sedia gli cadde addosso. Sparpagliando la sua opera sul pavimento. I medici non hanno mai creduto che avrebbe lasciato l’ospedale. Ma lui vi restò una settimana senza riprendere conoscenza, e poi la famiglia lo portò a casa a morire.

Rimase quasi sempre in stato d’incoscienza anche a casa. Il lato sinistro paralizzato. Le corde vocali paralizzate. Era partita una grossa porzione del cervello. Suo figlio Tom è un medico, e lo assistette durante l’agonia, che durò altri nove giorni. Gli staccò la flebo, gli tolse il catetere, lo isolò da tutto. Ogni volta che George apriva gli occhi, lo tiravano su e gli davano acqua da bere e ghiaccio da succhiare. Altrimenti gli trovavano la posizione più comoda possibile, mentre lui se ne andava con una lentezza straziante.

Ogni pomeriggio, alla fine della giornata, prendevo la macchina e andavo a Pelham a trovarlo. George aveva segregato la famiglia a Pelham per poter avere, in tutti gli anni in cui insegnò alla New School, mano libera a Manhattan. A volte c’erano anche cinque o sei macchine parcheggiate nel vialetto, quando arrivavo io. I figli facevano i turni, ora con l’uno ora con l’altro dei nipoti. C’era un’infermiera e, verso la fine, la persona per i malati terminali mandata dall’ospedale. Kate, la moglie di George, era ovviamente lì ventiquattr’ore al giorno. Io andavo in camera, dove avevano installato un letto da ospedale, e gli prendevo la mano, la mano dalla parte del corpo dove poteva sentire ancora qualcosa, e gli facevo compagnia per quindici, venti minuti, ma lui era sempre assente. Rantoli. Gemiti. La gamba buona che ogni tanto aveva un tremito, nient’altro. Gli passavo la mano sui capelli, gli toccavo una guancia, gli stringevo le dita, ma non c’era nessuna reazione. Stavo là seduto sperando che potesse tornare in sé e riconoscermi, e alla fine andavo a casa. Poi, un pomeriggio, quando arrivai mi dissero che era successo: era sveglio. Entra, entra, dissero.

Lo avevano appoggiato ai cuscini alzando una parte del letto Sua figlia Betty gli stava dando del ghiaccio. Rompeva dei pezzi di ghiaccio con i denti e gli metteva le schegge in bocca. George cercava di masticarle con i denti dalla parte della bocca che funzionava ancora. Sembrava in condizioni davvero disperate, magro com’era, ma aveva gli occhi aperti e ce la metteva tutta per succhiare quel ghiaccio. Kate stava sulla soglia e lo guardava: era una donna imponente con i capelli bianchi alta quasi come George, ma più grossa dell’ultima volta che l’avevo vista, e molto più stanca. Rotondetta, elastica, beffarda, capace d’irradiare una sorta di testarda cordialità: questa era Kate dopo aver passato da un pezzo la mezza età. Una donna che non si era mai rifiutata di affrontare la realtà, ma che ora sembrava completamente fiaccata, come se avesse combattuto la sua ultima battaglia e avesse perso.

Tom portò dal bagno una pezzuola umida. «Vuoi rinfrescarti, papà?» disse. «Fino a che punto è cosciente? - chiesi a Tom, - fino a che punto capisce la situazione?» «Ci sono dei momenti - disse Tom - nei quali sembra capire qualcosa. E poi più.» «Da quanto tempo è sveglio?» «Una mezz’ora. Avvicinati. Parlagli, David. Sembra che le voci gli facciano piacere.»

Gli facciano piacere? Strano modo di esprimersi. Ma Tom, in tutte le circostanze, è sempre il medico incoraggiante e gioviale. Mi accostai al lato di George non colpito dalla paralisi mentre Tom passava la pezzuola bagnata sul viso di suo padre. Con sorpresa di tutti, George gliela tolse: allungò la mano buona verso la pezzuola, se ne impossessò e se la ficcò in bocca. «Ha la bocca cosi arida», disse qualcuno. George si mise in bocca un lembo della pezzuola e cominciò a succhiare. Quando la tirò fuori, c’era qualcosa che aderiva alla tela. Sembrava un pezzo di palato. Quando lo vide, Betty rimase a bocca aperta, e la donna dell’ospedale, che si trovava nella stanza, le batté la mano sulla spalla e disse: «Non è niente. Ha la bocca così secca... È solo un lembo di pelle.»

George aveva la bocca storta, spalancata, la bocca stremata dei moribondi, ma i suoi occhi erano a fuoco e si aveva addirittura l’impressione che in fondo a quegli occhi ci fosse qualcosa, qualcosa di lui che non aveva ancora ceduto. Come il pezzo di muro rimasto in piedi dopo lo scoppio di una bomba. Con la stessa forza rabbiosa con cui aveva afferrato la pezzuola, tirò giù il lenzuolo che lo copriva e prese a tormentare il velcro all’angolo del suo pannolone, cercando di toglierselo, e mostrando gli stecchi penosi che erano state le sue gambe. Il filamento di tungsteno dentro una lampadina bruciata: ecco a che cosa mi facevano pensare le sue gambe. Tutto, in lui, tutto ciò che era di carne e di sangue, mi faceva pensare a qualcos’altro d’inanimato. «No, no, - disse Tom, - lascialo stare, papà. Va bene così.» Ma George non la smetteva. Tirando rabbiosamente, cercava invano di strapparsi il pannolone. Quando vide che non ci riusciva, alzò la mano e, con una specie di grugnito, indicò Betty. «Cosa? - gli chiese lei. - Non ti capisco. Cosa vuoi? Cosa c’è, papà?» I rumori che mandava erano indecifrabili, ma dai gesti era chiaro che voleva che sua figlia si avvicinasse il più possibile. Quando Betty l’ebbe fatto, lui allungò un braccio, glielo mise sulle spalle e se la tirò vicino per poterle dare un bacio sulla bocca. «Oh, si, papà, - disse lei, - si, sei il padre migliore del mondo, il migliore che ci sia.» Ciò che stupiva era questa forza, questa forza che nasceva in lui dopo tutti i giorni in cui era rimasto inerte ed emaciato, dando l’impressione di essere in procinto di esalare l’ultimo respiro: la forza considerevole con cui aveva attirato Betty e con cui stava sforzandosi di parlare. Forse, pensai, non dovrebbero lasciarlo morire. E se è rimasto qualcosa di più di quello che credono? E se fosse proprio questo ciò che George sta cercando di dimostrare? E se invece di dire addio stesse dicendo: «Non lasciatemi andare. Fate tutto quello che potete per salvarmi»?

Poi George indicò me. «Ciao, George, - dissi. - Ciao, amico. Sono David, George.» E quando gli fui più vicino, lui mi afferrò come aveva afferrato Betty e baciò sulla bocca anche me. Non c’erano odori necrotici, né tanfo da infermo, né fetore: solo l’alito caldo e inodore, il puro e semplice profumo della vita, e due labbra incartapecorite. Era la prima volta in vita nostra che George e io ci baciavamo. Un altro grugnito, e ora George indicava Tom. Prima Tom e poi i propri piedi, scoperti in fondo al letto. Quando Tom, credendo che volesse tirarsi il lenzuolo sulle gambe, cominciò a raddrizzare le coperte, George emise un grugnito ancora più forte e tornò a indicarsi i piedi. «Vuole che tu glieli stringa», disse Betty. «Uno dei due non ha neanche la sensibilità», disse Tom. «Stringigli l’altro», disse Betty. «Okay, papà, l’ho preso... Ti ho preso.» E Tom si mise pazientemente a massaggiare il piede che non aveva perso la sensibilità.

Poi George indicò la soglia sulla quale stava Kate, seguendo ogni cosa con lo sguardo. «Vuole te, mamma», disse Betty. Mi spostai e Kate si avvicinò e si piazzò dov’ero io, di fianco al letto, e allora George si sporse verso di lei, e col braccio buono la tirò a sé, e la baciò con la stessa forza con cui aveva baciato Betty e me. Kate ricambiò il suo bacio. Poi si baciarono di nuovo, questa volta un bacio lungo, un bacio veramente appassionato. Kate chiuse persino gli occhi. È una persona con i piedi per terra, Kate, aliena da ogni sentimentalismo, e non l’avevo mai vista fare una cosa da ragazzina come quella.

Intanto, la mano buona di George era passata dalla schiena di sua moglie al braccio destro, e lui aveva cominciato ad armeggiare col bottone sul polsino della sua camicetta. Stava cercando di slacciarlo. «George», mormorò Kate con dolcezza. Sembrava divertita. «Georgie, Georgie...» «Aiutalo, mamma. Vuole slacciare il bottone.» Sorridendo alle istruzioni di quella figlia troppo emotiva, Kate ubbidì e slacciò il bottone, ma ora George era alle prese con l’altra manica, e stava tirando quel bottone, ragion per cui Kate, compiacente, slacciò pure quello. E in tutto questo tempo lui aveva continuato a cercare avidamente le sue labbra. Kate gli carezzava il volto disfatto, quel volto cavernoso e immensamente solo, lo baciava sulle labbra ogni volta che lui gliele offriva, poi la mano di George salì verso i bottoni sul davanti della camicetta e lui si mise a trafficare con quelli.

Il suo piano era chiaro: stava cercando di spogliarla. Di spogliare questa donna che, come sapevo, come i figli sicuramente sapevano, non aveva toccato, a letto, per anni. Che non toccava quasi più. «Lascialo fare, mamma», disse Betty, e Kate ubbidì nuovamente alle parole di sua figlia. Abbassò la mano e aiutò George a slacciare i bottoni della camicetta. Questa volta, quando si baciarono, la mano buona del malato cercava di afferrare il tessuto del suo grande reggiseno. Ma, bruscamente, questa fu la fine. Le forze lo abbandonarono di colpo, e George non arrivò mai a toccarle i seni ciondolanti. Non morì per altre dodici ore, ma quando ricadde sui cuscini, a bocca aperta, con gli occhi chiusi, respirando come uno che è crollato alla fine di una gara, sapevamo tutti che quello cui avevamo assistito era l’ultimo gesto inatteso della sua vita.

Più tardi, quando mi avviai alla porta per andarmene, Kate uscì sulla veranda e proseguì con me lungo il vialetto fino alla mia macchina. Mi prese le mani tra le sue e mi ringraziò per essere venuto. Dissi: «Sono contento di essere stato qui a vedere tutto questo.» «Sì, è stato bello, no?» disse Kate. E poi, col suo sorriso stanco, soggiunse: «Chissà chi credeva che fossi.»

Dunque, George se n’era andato da appena cinque mesi, e quando Consuela telefonò per lasciare il suo messaggio - «Devo dirti una cosa. E devo dirtela personalmente, prima che tu la senta da qualcuno» -, be’, come dicevo, ascoltai il messaggio pensando che ora fosse capitato qualcosa a lei. Questa cosa, un sogno premonitore seguito dalla sua realizzazione, è già abbastanza strana nei sogni, ma nella vita reale? Non sapevo cosa fare. Dovevo richiamarla? Ci pensai su per quindici minuti. Non la richiamai perché avevo paura. Perché telefona a me? Di cosa può trattarsi? Sono di nuovo padrone della mia vita, e la mia vita è di nuovo serena. Sono abbastanza elastico per Consuela e la sua aggressiva docilità? Non ho più sessantadue anni: ne ho settanta. Posso sopportare, alla mia età, questa situazione d’incertezza? Me la sento di ripiombare in quell’estasi delirante? E possibile che sia un bene per la mia longevità?

Ricordavo come per tre anni, dopo averla perduta, anche quando al buio mi alzavo per andare a far pipì, pensavo solo a lei: alle quattro del mattino, addormentato per sette ottavi davanti al water, il Kepesh sveglio per un ottavo cominciava a mormorare il suo nome. Di solito, quando durante la notte un vecchio si alza per pisciare, la sua mente è completamente vuota. Se è capace di pensare a qualcosa, pensa solo a tornare a letto. Ma io no, allora no. «Consuela, Consuela, Consuela», ogni volta che mi alzavo per andare al gabinetto. E mi aveva fatto questo, bada, senza parlare, senza pensare, senza furberie, senza un’oncia di malevolenza, e a prescindere dalla causa e dall’effetto. Come un grande atleta o una scultura idealizzata o un animale intravisto nei boschi, come Michael Jordan, come un Maillol, come una civetta, come una linee rossa, l’aveva fatto con la semplicità dello splendore fisico. Non c’era ombra di sadismo in Consuela. Non c’era nemmeno il sadismo dell’indifferenza, che spesso accompagna quella grande perfezione. Era troppo convenzionale per una simile crudeltà, e decisamente troppo buona. Ma pensa a come avrebbe potuto burlarsi di me, se non fosse stata una ragazza troppo educata per sfruttare fino in fondo la forza da amazzone dei suoi attributi; pensa a cosa sarebbe successo se avesse avuto anche la coscienza dell’amazzone e si fosse servita, machiavellicamente, del potere che aveva su di me. Per fortuna, come la maggior parte della gente, non era abituata a riflettere profondamente e, anche se aveva lasciato che tra noi accadesse quella cosa, non aveva mai capito tutto ciò che era accaduto.

Se l’avesse capito, e se, per giunta, avesse avuto la minima inclinazione a tormentare il maschio che ha preso fuoco, sarei stato spacciato, completamente distrutto dalla mia Balena Bianca.

Invece, rieccola. No, assolutamente no! Basta con queste aggressioni alla mia tranquillità!

Ma poi pensai, Sta cercando me, ha bisogno di me, e non come amante, non come professore, non per aggiungere una nuova puntata alla nostra storia erotica. Allora chiamai il suo cellulare e mentii e dissi che ero andato al supermarket ed ero appena tornato, e lei disse: «Sono in macchina. Ero davanti al tuo palazzo quando ho lasciato il messaggio.» «Come mai giri in macchina per New York la notte di San Silvestro?» dissi io. «Veramente, non so quello che faccio», disse lei. «Stai piangendo, Consuela?» «No, non ancora.» E io dissi: «Hai suonato il campanello?» «No, - disse lei, - no, perché non osavo.» «Tu puoi sempre suonare il campanello, sempre. Lo sai. Cosa c’è?» «In questo momento ho bisogno di te.» «Vieni, allora.» «Hai tempo?» «Ho sempre tempo per te. Vieni.» «E’ una cosa importante. Vengo subito.»

Deposi il ricevitore. Non sapevo che cosa aspettarmi. Una ventina di minuti dopo una macchina si fermò, e quando andai ad aprire la porta capii immediatamente che c’era qualcosa che non andava. Perché Consuela aveva sulla testa un berretto che sembrava un fez. E che una volta non avrebbe mai portato. I capelli di Consuela sono nerissimi, capelli lisci sempre curati, sempre lavati, spazzolati, pettinati; andava dal parrucchiere ogni due settimane. Ma ora stava là in piedi con un fez sulla testa. Aveva anche una pelliccia elegante, una pelliccia nera di astrakan, con la cintura, che le arrivava fino ai piedi, e quando sciolse la cintura vidi, sotto la pelliccia, la camicetta di seta con la scollatura: deliziosa. L’abbracciai, dunque, e lei abbracciò me, e lasciò che prendessi la pelliccia, e io dissi: «Il cappello? Il fez?» e lei disse: «Meglio di no. La sorpresa sarebbe troppo grande.» Io dissi: «Perché?» E lei disse: «Perché sono molto malata.»

Passammo nel soggiorno, e una volta là io tornai ad abbracciarla, e lei aderì con il suo corpo al mio, e così tu senti le tette, quelle tette meravigliose, e vedi, da sopra la spalla, quelle natiche meravigliose. Vedi quella meraviglia che è tutto il suo corpo. Oggi Consuela ha una trentina d’anni, trentadue, e non è meno bella ma più bella di una volta, e il suo viso, che in qualche modo sembra essersi un po’ allungato, è molto più femminile... E lei mi sta dicendo: «Non ho più un capello. In ottobre mi hanno detto che avevo un cancro. Un cancro alla mammella.» Io dissi: «E orribile, spaventoso, come ti senti, come si affronta una cosa simile?» La chemioterapia era iniziata ai primi di novembre, e Consuela aveva perso rapidamente i capelli. Disse: «Devo raccontarti la storia», e ci sedemmo e io dissi: «Dimmi tutto.» «Be’, mia zia, la sorella di mia madre, ha avuto un cancro alla mammella, ed è stata curata, e ha perso un seno. Dunque, sapevo che la mia famiglia era a rischio. L’ho sempre saputo, e mi ha sempre fatto paura», e mentre parlava, per tutto il tempo, io pensavo, Proprio tu, con le tette più meravigliose del mondo. E lei disse: «Una mattina ero sotto la doccia, e ho sentito qualcosa sotto l’ascella, e ho capito che c’era qualcosa che non andava. Sono andata dal dottore e lui ha detto che probabilmente non era il caso di preoccuparsi, e allora sono andata da un secondo e poi da un terzo dottore, sai com’è, e il terzo dottore ha detto che era il caso di preoccuparsi, invece.» «E ti sei spaventata? - le chiesi. - Ti sei spaventata, mia bellissima amica?» Ero così scosso che ero io che cominciavo a sentirmi prendere dal panico. «Sì, - disse lei, - enormemente.» «Di notte?» «Sì, correvo qua e là nel mio appartamento. Come una matta.» Mi venne da piangere quando udii queste parole, e tornammo ad abbracciarci, e io dissi: «Perché non mi hai chiamato? Perché allora non mi hai chiamato?» E lei ripeté: «Non osavo.» E io dissi: «Chi hai pensato di chiamare?» E lei disse: «Mia madre, naturalmente. Ma sapevo che anche lei si sarebbe spaventata, perché sono sua figlia, la sua sola e unica figlia, e perché è molto emotiva, e perché sono morti tutti. David, sono morti tutti.» «Chi è morto?» «Mio padre.» «In che modo?» «Il suo aereo è precipitato. Era su quell’aereo per Parigi. In viaggio d’affari.» «Oh, no.» «Sì.» «E il nonno al quale volevi tanto bene?» «E morto. Sei anni fa. Tutto è cominciato con la sua perdita. Un attacco cardiaco.» «E tua nonna, con i suoi rosari? La nonna duchessa?» «E’ morta anche lei. Dopo di lui. Era vecchia ed è morta.» «Non il tuo fratello minore...» «No, no, lui sta bene. Ma non potevo chiamare lui, non per questo. Non saprebbe affrontare la situazione. Ecco quando ho pensato a te. Ma non sapevo se eri solo.» «Non è un problema. Adesso promettimi una cosa. Se dovesse venirti una crisi di panico di notte, di giorno, in un momento qualsiasi, telefonami. Verrò. Ecco, - dissi, - scrivi l’indirizzo. Scrivi tutti i numeri di telefono, lavoro, casa, tutto.» E pensavo, Sta morendo sotto i miei occhi, ormai sta morendo anche lei. L’instabilità doveva solo entrare nella vita confortevole della sua famiglia cubana con la morte prevedibile di un vecchio nonno molto amato per mettere in moto rapidamente una serie di disgrazie culminate in un cancro.

«Hai paura, adesso?» dissi. E lei disse: «Tanta. Ho tanta paura. Sto bene per due minuti, penso a qualche altra cosa, e poi mi sento un vuoto allo stomaco e non riesco a credere a quello che succede. E un otto volante, e non finisce mai. Non può finire se non finisce il cancro. Le probabilità - disse - sono del sessanta per cento per la sopravvivenza e del quaranta per cento per la morte.» E poi si mise a parlare della vita, che è tanto preziosa, e di come, soprattutto, le dispiaceva per sua madre: le inevitabili banalità. Volevo fare tante cose, avevo tanti progetti, eccetera. Cominciò a dirmi quanto le sembravano stupide, adesso, tutte le sue piccole ansie di qualche mese prima, le preoccupazioni per il lavoro e gli amici e i vestiti, e come questo aveva cambiato la prospettiva, e io pensavo, No, non c’è nulla che cambi la prospettiva.

La guardavo, l’ascoltavo, e quando non riuscii più ad ascoltare dissi: «Ti spiace se ti tocco i seni?» «No, fa’ pure», disse lei. «Non ti spiace?» «No. Non mi va di baciarti, però. Perché non voglio niente di sessuale. Ma so quanto ti piacciono i miei seni, dunque toccali.» Allora li toccai, con mani tremanti. E, naturalmente, con un’erezione. Dissi: «E’ il sinistro o il destro?» e lei disse: «Il destro.» Allora le misi la mano sul seno destro. C’è una combinazione di erotismo e tenerezza, che ti commuove e ti eccita, e quello che stava accadendo era questo. Ti commuovi e hai l’uccello duro, entrambe le cose nello stesso tempo. E così siamo lì seduti, io col seno di Consuela in mano, e parliamo, e io dissi: «Non ti spiace?» E lei disse: «Anzi. Da te voglio qualcosa di più. Perché so che tu adori i miei seni.» «Cosa vuoi?» dissi io. «Voglio che tu mi palpi dove ho il cancro.» «Va bene. Lo farò, - dissi. - Ma dopo, questo lo faremo dopo.»

Era troppo presto. Non ero ancora pronto. Parlammo, dunque, e lei cominciò a piangere, e io cercai di consolarla, e poi improvvisamente smise di piangere e diventò molto energica, molto decisa. Mi disse: «David, in realtà sono venuta da te con una sola richiesta, una domanda.» E io dissi: «Di che si tratta?» E lei disse: «Dopo di te, non ho mai avuto un boyfriend o un amante che amasse il mio corpo tanto quanto lo amavi tu.» «Hai avuto dei boyfriend?»

Ci risiamo. Lascia perdere i boyfriend. Ma era impossibile. «Ne hai avuti, Consuela?» «Sì, ma non tanti.» «Sei andata a letto regolarmente con degli uomini?» «No. Non in modo regolare.» «Com’era il tuo lavoro? Non c’era nessuno, dove lavoravi, che si è innamorato di te?» «S’innamoravano tutti.» «Lo credo. Ma poi cosa? - dissi. - Erano tutti gay? Non hai conosciuto degli eterosessuali?» «Sì, ne conosco, ne ho conosciuti, ma sono degli inetti.» «Perché sono degli inetti?» «Si masturbano sul mio corpo.» «Che peccato. Che stupidaggine. Che idiozia.» «Tu invece lo amavi, il mio corpo. E io ne ero fiera.» «Ma ne eri fiera anche prima.» «Sì e no. Tu hai visto il mio corpo nel suo momento più glorioso. Perciò volevo che tu lo vedessi prima che sia rovinato da quello che vogliono fare i dottori.» «Smettila di parlare così, non pensarla così. Nessuno ti rovinerà. Cosa dicono di volerti fare, i dottori?» E lei disse: «Ho fatto la chemioterapia. Ecco perché non mi tolgo il berretto.» «Certo. Ma quando si tratta di te, io posso resistere a tutto. Fa’ quello che vuoi.» Lei disse: «No, non voglio farteli vedere. Perché ai capelli capita una strana cosa. Dopo la chemioterapia, vengono via a manciate. E sulla testa ti comincia a crescere una specie di peluria infantile. È stranissimo.» «Sparisce anche il pelo pubico?» chiesi. «No, - disse lei, - no, quello rimane. E anche questo è strano.» «Hai chiesto al dottore?» dissi. «Si, - disse lei, - e la dottoressa non se lo spiega. Si è limitata a rispondere: "Questa è una buona domanda". Guarda le mie braccia», disse Consuela. Le sue braccia sono lunghe e snelle, e la sua pelle candida, e i graziosi peluzzi sulle braccia effettivamente c’erano ancora. «Guarda, - disse, - ho i peli sulle braccia, ma non ho i capelli sulla testa.» «Be’, - dissi, - ho conosciuto degli uomini calvi, perché non posso vedere una donna calva?» «No, - disse lei - Non voglio che tu mi veda.»

Poi disse: «David, posso chiederti un grosso favore?» «Certo. Tutto quello che vuoi.» «Ti spiacerebbe dire addio ai miei seni?» «Mia cara ragazza, - dissi io, - angelo mio, non te lo distruggeranno, il corpo, no.» «Be’, io sono fortunata ad avere tanto petto, ma me ne dovranno togliere circa un terzo. La mia dottoressa sta facendo di tutto per ridurre al minimo l’intervento chirurgico. È molto umana. E meravigliosa Non è una macellaia. Non è una macchina senza cuore. Prima cerca di ridurre il tumore con la chemioterapia. Poi, quando opereranno, ne toglieranno meno che si può.» «Ma possono restaurarlo, ricostruirlo, no, quello che tolgono?» «Sì, possono metterci un po’ di silicone. Ma non so se vorrò. Perché il mio corpo è questo, e quello non sarà più il mio corpo. Non sarà niente, quello.» «E cosa devo fare per dirgli addio? Cosa vuoi? Cosa mi stai chiedendo, Consuela?» E lei finalmente me lo disse.

Andai a prendere la mia macchina fotografica, che è una Leica con un obiettivo zoom, e lei si alzò in piedi. Tirammo le tende, accendemmo tutte le luci, io trovai lo Schubert giusto e lo misi su, e lei allora non iniziò a ballare, per niente, ma quando cominciò a spogliarsi i suoi movimenti mi fecero pensare, piuttosto, a qualcosa di esotico, di orientale. Di molto elegante e vulnerabilissimo. Io ero seduto sul sofà e lei, in piedi, si spogliava. E il modo in cui si spogliava e lasciava cadere a terra ogni indumento era incantevole. Mata Hari La spia che si spoglia per l’ufficiale. E sempre così estremamente vulnerabile. Prima si tolse la camicetta. Poi le scarpe. Straordinario, togliersi le scarpe in quel momento. Poi si tolse il reggiseno. E fu come se un uomo che si era svestito avesse dimenticato di togliersi i calzini, cosa che lo fa sempre apparire un po’ ridicolo. Una donna con la sottana a petto nudo non è erotica, per me. La sottana, in qualche modo, confonde l’immagine. I seni nudi con i calzoni sono erotici, ma sopra una sottana la cosa non funziona. Meglio tenere il reggiseno, con la sottana, ma la sottana con i seni nudi è per l’allattamento.

Così si mostrò a me. Si spogliò fino a tenere soltanto le mutandine. Disse: «Potresti toccarmi i seni?» «E’ questa la foto che vuoi, io che te li tocco?» «No, no. Toccameli prima.» Così feci. E poi lei disse: «Voglio una foto di fronte alla macchina, e di profilo, e poi penzoloni.»

Le scattai una trentina di fotografie. Lei sceglieva le pose, e voleva tutto. Voleva avere le mani sotto, che li reggevano. Li voleva mentre se li strizzava. Li voleva dal lato sinistro, dal lato destro, li voleva fotografati mentre si chinava. Alla fine si tolse le mutandine, e fu possibile vedere che il suo pelo pubico era com’era sempre stato, come l’ho descritto io: liscio, aderente. Pelo asiatico. Tutt’a un tratto mi sembrò eccitata per essersi tolta le mutandine e fatta guardare da me senza niente addosso. Fu una cosa improvvisa. Si capiva dai capezzoli che era eccitata. Anche se adesso io non lo ero più. Tuttavia, le chiesi: «Vuoi passare la notte qui? Vuoi venire a letto con me?» «No, - disse lei. - Non voglio venire a letto con te. Però, voglio che tu mi tenga tra le braccia.» Ero completamente vestito, come ora. E lei sedeva sul sofà tra le mie braccia, vicinissimo a me, e poi mi prese il polso e si mise la mia mano sotto l’ascella per farmi sentire il tumore. Pareva un sasso. Un sasso sotto l’ascella. Due sassolini, uno più grosso dell’altro, il che significava che c’è una metastasi la cui origine è nel seno. Ma nel seno non lo sentivi. «Perché non lo sento, nel seno?» le chiesi, e lei disse: «I miei seni sono troppo grossi. C’è troppo tessuto per sentirlo. È nella parte più profonda del seno.»

Non avrei potuto andare a letto con lei, nemmeno io che avevo bevuto il suo sangue. Dopo tutti gli anni in cui avevo pensato a lei, solo vederla sarebbe stato abbastanza difficile se si fosse presentata in circostanze normali e non in questo modo bizzarro e disgraziato. Dunque, no, non avrei potuto andare a letto con lei, eppure continuavo a pensarci. Perché sono magnifici, i suoi seni. Non mi stancherò mai di dirlo. Era così vergognoso, così degradante, questi seni, i suoi seni... Pensavo, Non possono distruggerli! Come ti dicevo, in tutti gli anni della nostra separazione io mi ero masturbato senza posa pensando a lei. Andavo a letto con altre donne e pensavo a lei, ai suoi seni, a quello che provavo quando vi affondavo il viso. Pensavo alla loro morbidezza, alla loro pelle liscia, a come potevo sentirne il peso, il dolce peso; e questo mentre la mia bocca si strofina contro un’altra donna. Ma in quel momento capii che la sua non era più una vita sessuale. Quella che era in gioco era un’altra cosa.

Sicché le dissi: «Vuoi che ti accompagni all’ospedale? Farò quello che vorrai farmi fare tu. Insisto. Sei praticamente sola.» Lei disse che voleva pensarci su. Disse: «E carino da parte tua, farmi questa proposta, ma ancora non lo so. Non so se avrò voglia di vederti subito dopo che mi avranno operata.» Se ne andò verso l’una e mezza; era arrivata intorno alle otto. Non mi chiese cosa intendevo fare delle foto che aveva voluto che io le scattassi. Non mi chiese di inviarle le stampe. Non le ho ancora fatte sviluppare. Sono curioso di vederle. Le farò ingrandire. Gliene manderò una serie, naturalmente. Ma per svilupparle dovrò trovare una persona di fiducia. Avrei dovuto imparare da un pezzo, con i miei interessi, a sviluppare i rullini, ma non l’ho mai fatto. Sarebbe stato utile.

Dovrebbe andare all’ospedale da un momento all’altro, ormai. Aspetto un suo messaggio in ogni istante, ogni giorno. Da quando l’ho vista, tre settimane fa, non ho più avuto sue notizie. Mi farà sapere qualcosa? Tu credi? Lei mi ha detto di non cercarla. Non voleva altro da me: è quello che ha detto quando se n’è andata. Ho quasi fatto la guardia al telefono, per paura di non sentire la sua chiamata.

Dal giorno della sua visita, ho telefonato io stesso alle persone che conosco, ai medici che conosco, per avere informazioni sulle cure del cancro alla mammella. Perché io avevo sempre creduto che la procedura per queste cose fosse prima la chirurgia e poi la chemioterapia. Ed era questo che mi preoccupava mentre lei era qui... Continuavo a pensare, Nel suo caso c’è qualcosa che non capisco. Ora imparo che fare prima la chemioterapia non è una cosa tanto insolita, che sta diventando la regola nel trattamento dei tumori alla mammella localmente avanzati, ma il problema, evidentemente, è questo: è la cura giusta per lei?

Cosa intendeva dire quando ha parlato di sessanta probabilità su cento di sopravvivere? Perché solo sessanta? Gliel’ha detto qualcuno o l’ha letto in qualche posto o, nel suo panico, se l’è inventato lei? O i medici scherzano con i dati che parlano di forti probabilità di sopravvivenza per soddisfare la propria vanità? Forse è una semplice reazione allo choc - una reazione abbastanza tipica, se è per questo - ma non posso smettere di pensare che nella sua storia c’è qualcosa, o che non mi ha detto o che non è stato detto a lei... Comunque, la storia era questa, come l’ho saputa io, e non ho sentito altro.

Mi lasciò verso l’una e trenta del mattino, dopo che l’Anno Nuovo ebbe raggiunto Chicago. Prendemmo una tazza di tè. Bevemmo un bicchiere di vino. Poiché me l’aveva chiesto lei, accesi la televisione, e guardammo insieme il replay dell’inizio dell’Anno Nuovo in Australia, e poi la sua marcia attraverso l’Asia e l’Europa. Era diventata un po’ sentimentale. Raccontava storie. Storie della sua infanzia. Sul padre che la portava all’opera da quando era piccina. Raccontò una storiella su un fiorista. «Sabato scorso stavo comprando dei fiori con mia madre in Madison Avenue, - mi disse, - e il fiorista ha commentato: "Che bel cappello", e io ho risposto: "C’è un motivo", e lui ha capito, ed è diventato rosso e si è scusato e mi ha regalato una dozzina di rose. Ecco, vedi come reagisce la gente davanti a un essere umano in pericolo? Non sanno cosa fare. Nessuno sa cosa dire o cosa fare. Per questo, ti sono molto grata», disse.

Come mi sentivo? La pena più grande che ho provato quella notte è stata per il fatto che era sola e impaurita nel suo letto. Terrorizzata dalla morte. E ora cosa succederà? Tu che cosa pensi? Io credo che non mi chiederà di accompagnarla all’ospedale. È stata contenta che io glielo abbia proposto, ma quando sarà il momento andrà all’ospedale con sua madre. Può avere perso la testa il giorno di San Silvestro perché era troppo infelice e impaurita per andare alla festa dove l’avevano invitata e troppo infelice e impaurita per restare sola. Non credo che mi telefonerà, se tornerà a farsi prendere dal panico. Desiderava sentirselo proporre, ma non lo farà.

A meno che io non mi sbagli. A meno che, tra due o tre mesi, non venga a dirmi che vuole venire a letto con me. Con me piuttosto che con un uomo più giovane perché io sono vecchio e tutt’altro che perfetto. Con me perché, anche se non ancora del tutto inaridito, il cadavere in decomposizione non è più nascosto così bene come negli uomini della mia palestra che hanno avuto la fortuna di non nascere prima che Roosevelt fosse eletto presidente.

E in tal caso ce la farò? In tutta la mia vita non sono mai andato a letto con una donna che avesse subito una mutilazione simile. Posso parlare solo di una donna che conobbi qualche anno fa e che, mentre andavamo a casa mia, disse: «Devo dirtelo: in seguito a un’operazione ho soltanto un seno. Dunque, non vorrei che tu restassi traumatizzato.» Ora, per imperturbabile che uno ami credersi, se siamo sinceri, la prospettiva di vedere una donna con un seno solo non è molto invitante, vero? Riuscii a fingermi un po’ sorpreso, ma in apparenza non per l’unico seno, e non credo di aver mostrato il mio nervosismo mentre cercavo di metterla a suo agio. «Oh, non essere sciocca, mica stiamo andando là per fare l’amore. Siamo solo buoni amici, e buoni amici credo che dovremmo rimanere.» Una volta sono stato a letto con una donna che aveva una macchia brunastra di vino tra i seni e, in parte, sui seni: una grossa voglia. Questa donna era anche una donna molto alta. Un metro e novantacinque. L’unica donna che mi abbia costretto, per baciarla, ad alzarmi sulla punta dei piedi e ad allungare il collo. Mi sono preso il torcicollo, baciandola. Quando andammo a letto, cominciò a spogliarsi togliendosi la gonna e le mutandine, cosa che normalmente le donne non fanno. Di solito si tolgono prima la camicetta, cominciano a svestire la parte superiore del corpo. Lei invece tenne la maglietta e il reggiseno. «Non ti togli il reggiseno e la maglietta?» dissi io. «Si, ma non voglio che tu sia colto alla sprovvista, - disse lei. - Devi sapere che ho qualcosa che non va.» Sorrisi, cercando di prenderla sottogamba. «Dimmi, cos’hai che non va?» «Be’, - disse lei, - i miei seni hanno qualcosa che ti sorprenderà.» «Oh, non preoccuparti. Fa’ vedere.» E così fece. E io cominciai subito a strafare. A baciare la voglia. A toccarla. A giocarci. Per essere educato. Per farla sentire a suo agio. Dicendo che mi piaceva moltissimo. Non è facile destreggiarsi in queste cose. Ma dovresti riuscire a controllare la situazione, agire senza isterismi, affrontare queste cose di buon grado. Non dovresti rifuggire da alcunché di tutto ciò che un corpo deve sopportare. Quella macchia di vino. Per lei era una tragedia. Un metro e novantacinque. Gli uomini erano attratti, come me, da questa statura eccezionale. E con ogni uomo era la stessa storia: «Devi sapere che ho qualcosa che non va.»

Le fotografie. Non dimenticherò mai Consuela che mi chiede di fare quelle fotografie. A un guardone che avesse spiato dall’esterno sarebbe sembrata solo una scena pornografica. Invece, era la cosa più lontana dalla pornografia che si potesse immaginare. «Hai la tua macchina?» «Ho la mia macchina», dissi. «Ti spiacerebbe farmi delle fotografie? Perché voglio avere delle foto del mio corpo come l’hai conosciuto tu. Come l’hai visto tu. Perché presto non sarà più com’era. Non conosco nessun altro al quale potrei chiedere di farlo. Non potrei chiederlo a un altro uomo. Altrimenti non ti avrei disturbato.» «Si, - le dissi, - lo faremo. Qualunque cosa. Dimmi cosa vuoi. Chiedimi tutto quello che vuoi. Dimmi tutto.» «Potresti mettere su un po’ di musica, - disse lei, - e andare a prendere la macchina?» «Che musica vuoi?» le chiesi. «Schubert. Un po’ di musica da camera di Schubert.» «Okay, okay», dissi, ma non - dissi tra me - La morte e la fanciulla.

Eppure non mi ha chiesto di mandargliene una copia. Non dimenticare che Consuela non è la ragazza più sveglia del mondo. Perché allora le fotografie sarebbero un’altra storia. Allora si dovrebbe parlare di tattica. Allora si dovrebbe riflettere sulla sua strategia. Ma con lei c’è una spontaneità, solo parzialmente consapevole, in tutto ciò che fa, un’onestà, anche se Consuela può non sapere fino in fondo cosa fa o perché lo fa. Venire da me a farsi fotografare, questo è molto vicino alla natura, a un pensiero inconcludente, a un’intuizione, e sotto non ci sono né calcoli né altri ragionamenti. Tu potresti fare questo ragionamento, a posteriori, ma Consuela no. Lei sente di dover fare questa cosa, dice, a titolo di documentazione per me, che ho tanto amato il suo corpo, la qualità che aveva, com’era perfetto. Ma c’era molto di più.

Ho notato che la maggior parte delle donne non sono sicure del proprio corpo, anche se, come lei, sono bellissime. Non tutte sanno di essere belle. Ci vuole un certo tipo di donna, per saperlo. In gran parte si lamentano di qualcosa di cui non dovrebbero affatto lamentarsi. Spesso vogliono nascondere il seno. C’è una vergogna di cui non riesco mai a capire bene l’origine, e tu le devi rassicurare a lungo prima che lo espongano con autentico piacere e traggano autentico piacere dall’essere guardate. Anche la più fortunata di loro. Ce n’è solo qualcuna che si mostra liberamente, e oggigiorno, con tutte le polemiche che ci sono, spesso non sono quelle col modello di seno che avresti inventato tu.

Ma la forza erotica del corpo di Consuela, be’, quella è finita. Sì, quella notte avevo avuto un’erezione, ma non avrei potuto mantenerla. Sono tanto fortunato da avere sia la voglia che l’uccello duro, ma sarei stato in grande difficoltà se Consuela quella notte mi avesse chiesto di andare a letto con lei. E sarò in grande difficoltà quando me lo chiederà, dopo che si sarà ripresa dall’operazione. Come farà. Perché lo farà, no? Perché prima ci proverà con uno che conosce e che è avanti negli anni. Per non perdere la fiducia in se stessa, per difendere il proprio orgoglio, meglio con me che con Carlos Alonso o i fratelli Villareal. L’età può non fare ciò che fa il cancro, ma fa abbastanza.

Parte seconda.

Me lo chiede fra tre mesi, mi telefona e dice: «Vediamoci», e poi torna a spogliarsi. È questo il futuro disastro?

C’è un quadro di Stanley Spencer appeso alla Tate, un doppio ritratto di Spencer e la moglie, nudi, a un’età tra i quaranta e i cinquant’anni. E la quintessenza della sincerità sulla coabitazione, sui due sessi che stanno insieme da chissà quanto tempo. È in uno dei libri di Spencer, da basso. Poi te lo vado a prendere. Spencer è seduto, piegato su se stesso, accanto alla moglie supina. La sta guardando, meditabondo, da vicino attraverso gli occhiali cerchiati di metallo. Anche noi, da parte nostra, li stiamo guardando da vicino: due corpi nudi proprio davanti al naso, per farci vedere bene che non hanno più nulla né di giovane né di attraente. Nessuno dei due è felice. C’è un greve passato attaccato al presente. Nella moglie, in particolar modo, tutto ha cominciato a cedere, a ispessirsi, e incombono rigori più terribili delle smagliature sulla pelle.

Sull’orlo di un tavolo, in primo piano, ci sono due pezzi di carne, un grosso cosciotto di agnello e una braciolina. La carne cruda è resa con fisiologica meticolosità, con lo stesso spietato candore dei seni cascanti e del cazzo flaccido e ciondolante raffigurati solo a qualche centimetro da quel cibo crudo. È un po’ come guardare, attraverso la vetrina di una macelleria, non la carne, ma l’anatomia sessuale di quella coppia di sposi. Ogni volta che penso a Consuela vedo quel cosciotto di agnello che sembra una clava primitiva vicino ai corpi platealmente esibiti di questo marito e di questa moglie. La sua presenza, così vicino al loro materasso, più guardi il quadro, sempre meno incongrua diventa. Nell’espressione un po’ stordita della moglie c’è una malinconica rassegnazione, e c’è quel pezzo di carne macellata che non ha nulla in comune con un agnello vivo, e da tre settimane, dal giorno della visita di Consuela, non sono più riuscito a togliermi quelle due figure dalla mente.

Guardammo l’Anno Nuovo che arrivava sulla terra, assistemmo all’inutile isterismo di massa che accompagnò la celebrazione del millenario giorno di San Silvestro. Esplosioni di luce attraverso i fusi orari, e nessuna provocata da Bin Laden. Vortici luminosi sopra la Londra notturna, più spettacolari di ogni altra cosa dopo gli splendori del fumo colorato prodotto dal Blitz. E la Tour Eiffel che mandava razzi, facsimile di un lanciafiamme come avrebbe potuto progettarlo Wernher von Braun per il mortifero arsenale di Hitler: lo storico missile dei missili, il razzo dei razzi, la bomba delle bombe, con la vecchia Parigi come base di lancio e l’intera umanità come bersaglio. Per tutta la sera, su tutte le reti, l’imitazione dell’Armageddon che nei rifugi costruiti nei cortili aspettavamo dal 6 agosto 1945. Come poteva non accadere? Anche quella notte, soprattutto quella notte, gente che si aspettava il peggio come se la serata fosse solo una lunga esercitazione antiaerea. L’attesa della catena di orrende Hiroshima che collegassero in una distruzione sincronizzata le antiche civiltà della terra. Ora o mai più. E non accadde.

Forse era proprio questo che festeggiavano tutti: che non era accaduto, non era mai accaduto, che il disastro della fine non arriverà mai più. Ogni disordine è disordine controllato trapunto d’intervalli riservati alla vendita di automobili. La Tv che fa quanto le riesce meglio: il trionfo della banalizzazione sulla tragedia. Il Trionfo della Superficie, con Barbara Walters. Al posto della distruzione di città secolari, un’eruzione internazionale del superficiale, uno scoppio globale di sentimentalismo come neanche gli americani avevano mai visto. Da Sydney a Betlemme a Times Square, la rimessa in circolo dei cliché ha luogo a velocità supersoniche. Né bombe che scoppiano, né spargimento di sangue: il prossimo bang che sentirete sarà il boom del benessere e l’esplosione delle borse. La minima chiarezza sull’infelicità resa ordinaria dalla nostra era sedata dallo stimolo grandioso della massima illusione. Assistendo a questa montatura, alla messinscena di questo pandemonio accuratamente programmato, si ha l’impressione che il mondo del denaro stia entrando entusiasticamente in un medioevo di prosperità. Una notte di felicità umana per introdurre barbarism.com. Per accogliere degnamente la merda e il kitsch del nuovo millennio. Una notte da dimenticare, non da ricordare.

Tranne sul sofà dove siedo stringendo Consuela, cingendola con le braccia dov’è nuda, scaldandole i seni con le mani mentre guardiamo il Capodanno che arriva a Cuba. Nessuno dei due avrebbe immaginato che sullo schermo si materializzasse proprio questo, ma ecco che davanti ai nostri occhi c’è L’Avana. Da un anfiteatro che accoglie mille turisti e si fregia del nome di nightclub arriva un’incarnazione imbalsamata da stato di polizia degli allettanti piaceri caraibici che attiravano gli spendaccioni ai tempi della mafia. Il Nightclub Tropicana dell’Hotel Tropicana. Non si vedono cubani all’infuori degli animatori, che non animano un bel niente: tanti giovani - novantasei, dice l’Abc - che portano stupidi costumi bianchi e che, più che ballare o cantare, girano sul palcoscenico strillando nei microfoni che tengono in mano. Le ballerine fanno pensare a quei travestiti sudamericani del West Village che passano, imbronciati, sulle loro gambe lunghe. Sopra la testa hanno degli enormi abat-jour: alti più di un metro, secondo l’Abc. Abat-jour sulla testa e una grande criniera ondeggiante di gale bianche sulle spalle.

«Mio Dio», disse Consuela, e scoppiò in pianto. «Ecco, - disse, e con rabbia, - ecco che cosa offre lui al resto del mondo. Ecco che cosa ci fa vedere l’ultima notte dell’anno.» «Effettivamente è un po’ grottesco. Forse - dissi io - è l’idea che Castro ha di una burla.»

E mi domando, Sarà proprio così? È un’inconsapevole autoparodia - Castro è veramente così «fuori»? - o una parodia deliberata e coerente col suo odio per il mondo capitalista? Castro, che tanto disprezzava la corruzione di Batista, la corruzione che per lui, avresti detto, era simboleggiata dai nightclub per turisti come questo Tropicana, e che invece è la sua offerta per il nuovo millennio? Il papa non farebbe mai una cosa simile: è un grande esperto di relazioni pubbliche, lui. Solo la vecchia Unione Sovietica avrebbe potuto uguagliare questa pacchianeria. Ci sono mille cose tra le quali Castro avrebbe potuto scegliere, mille quadri sorpassati nello stile del realismo socialista: una festa in una piantagione di canna da zucchero, nelle corsie di un reparto maternità, in una fabbrica di sigari... Felici lavoratori cubani che fumano, felici madri cubane che sorridono, felici neonati cubani che poppano... Ma presentare la più merdosa forma d’intrattenimento per i turisti? Era una cosa intenzionale, o stupida, o la consideravano la giusta presa in giro di tutte queste isteriche celebrazioni di un segno senza senso sul reticolo della storia? Qualunque ne fosse il motivo, non spenderà un centesimo. Non passerà un minuto a pensarci su. Perché gli dovrebbe interessare, a Castro il rivoluzionario, perché a chiunque dovrebbe interessare, una cosa che ci da l’impressione di comprendere una cosa che non comprendiamo? Il passare del tempo. Ci siamo dentro, affondiamo nel tempo, fino al giorno in cui anneghiamo e ce ne andiamo. Questo avvenimento inesistente trasformato in un grande avvenimento mentre Consuela è qui che soffre per il più importante avvenimento della sua vita. Il Gran Finale, anche se nessuno sa che cosa sta finendo, se sta finendo qualcosa, e nessuno, certamente, sa che cosa sta per cominciare. Una sfrenata celebrazione di nessuno sa che cosa.

Solo Consuela sa, perché ora Consuela conosce la ferita dell’età. Invecchiare è una cosa immaginabile solo per chi diventa vecchio, ma per Consuela non è più così. Lei non misura più il tempo come fanno i giovani, segnandolo all’indietro fino al giorno da cui sei partito. Il tempo per i giovani è sempre fatto di ciò che è passato, ma per Consuela il tempo, adesso, è quanto le rimane del futuro, e secondo lei non sarà tanto. Oggi lei misura il tempo andando avanti, calcolandolo con quello strumento che è la vicinanza della morte. È crollata l’illusione, l’illusione del metronomo, il pensiero consolante che, tic tac, ogni cosa accadrà al momento giusto. Ora il suo senso del tempo è come il mio, incalzante e ancor più sconsolato del mio. Consuela, in realtà, mi ha sorpassato. Perché io posso ancora dirmi: «Non morirò tra cinque anni, forse non morirò tra dieci, sono in forma, sto bene, potrei viverne anche altri venti», mentre lei...

La più bella favola infantile è che tutto si svolge ordinatamente. I nonni se ne vanno molto prima dei genitori, e i genitori se ne vanno molto prima di te. Se sei fortunato, la situazione può essere questa, con le persone che invecchiano e muoiono ordinatamente, per cui tu, al funerale, mitighi il tuo dolore pensando che quella persona ha avuto una lunga vita. Non rende l’estinzione meno mostruosa, questo pensiero, ma è il trucco al quale ricorriamo per mantenere intatta l’illusione metronomica e per resistere alla tortura del tempo: «Il taldeitali è campato a lungo.» Ma Consuela non ha avuto fortuna, e così siede al mio fianco, condannata a morte, mentre sullo schermo si prolungano i festeggiamenti, l’isterismo artificioso e infantile con cui si abbraccia un futuro senza limite di tempo in modi che gli adulti maturi, con la loro malinconica consapevolezza di un futuro molto limitato, non possono condividere. E in questa notte di follia la consapevolezza di nessuno può essere più malinconica della sua.

«L’Avana, - dice, e di momento in momento il suo pianto si fa sempre più forte, - credevo che un giorno avrei visto L’Avana.» «La vedrai.» «No. Oh, David, mio nonno...» «Si, cosa? Coraggio, dimmi, parla.» «Mio nonno sedeva nel soggiorno...» «Avanti.» La tenevo tra le braccia quando cominciò a parlare di se stessa come non aveva mai fatto prima, come prima non aveva mai avuto motivo di fare, come, forse, lei stessa non aveva mai saputo. «Mentre andava in onda The News Hour, mentre andava in onda The MacNeil-Lehrer News Hour, e... - disse, tra lacrime copiose, - improvvisamente sospirava: "Pobre Mama". Che era morta all’Avana senza di lui. Perché la loro generazione, quella generazione, non era andata via. "Pobre Mama". "Pobre Papa". Loro erano rimasti indietro. Aveva solo questa tristezza, questo rimpianto per loro. Un terribile, terribile rimpianto. Ed è quello che ho io. Ma per me stessa. Per la mia vita, Mi tocco, tocco il mio corpo con le mani, e penso, Questo è il mio corpo! Non può andarsene così! Non può essere vero! Non può capitarmi una cosa simile! Come può andarsene così? Non voglio morire! David, ho paura di morire!» «Consuela, cara, non morirai. Hai trentadue anni. Non morirai, vivrai ancora a lungo.» «Io sono cresciuta in esilio. Per questo ho paura di tutto. Tu sapevi questa cosa di me? Ho paura di tutto.» «Oh, no. Non credo che sia vero. Di tutto? Forse stanotte hai questa impressione, ma non...» «E’ sempre stato così. Io non volevo l’esilio dei miei. Ma si diventa grandi e si sente continuamente "Cuba, Cuba, Cuba"... E guarda! Quella gente! Così volgare! Guarda quell’uomo cos’ha fatto a Cuba! Io non la vedrò mai. Non vedrò mai la casa. Non vedrò mai la loro casa.» «Sì che la vedrai. Quando Castro se ne sarà andato...» «Me ne sarò andata anch’io.» «Non te ne sarai andata. Sarai qui. Non farti prendere dal panico. Starai bene, vivrai...» «Vuoi sapere che idea mi sono fatta? Dell’isola? Per tutta la vita? L’immagine di Cuba che ho nella testa?» «Sì. Dimmi. Cerca di calmarti e dimmi tutto. Vuoi che spenga la Tv?» «No... No. Mostreranno qualcos’altro. Per ora.» «Descrivimi l’immagine che hai nella testa, Consuela.» «Non della spiaggia, non quella. Quella l’avevano i miei genitori. I miei genitori parlavano di quanto si erano divertiti, là, dei ragazzi che correvano sulla spiaggia, della gente sulle sedie a sdraio, che ordinava le mimose. Prendevano una casa sulla spiaggia, eccetera, ma non era questo il ricordo che avevo io. Era un’altra cosa. L’ho sempre avuto. Oh, David... Hanno seppellito Cuba molto prima di essere seppelliti. Hanno dovuto farlo. Mio padre, mio nonno, mia nonna, tutti sapevano che non sarebbero mai tornati indietro. E non sono mai tornati. E ora non ci tornerò nemmeno io.» «Tu sì, - le dissi. - Com’è l’idea che hai sempre avuto tu? Raccontami. Parla», dissi. «Ho sempre pensato che sarei tornata. A vedere la casa. Che sarebbe stata là.» «L’immagine che hai nella testa è quella della casa?» le chiesi. «No. È una strada. El Malecón. Se vedi una foto qualsiasi dell’Avana, vedi una foto del Malecón, questa bella strada lungo il mare. C’è questo muro, e nelle foto sono tutti seduti sul muro a far penzolare le gambe. Hai visto Buena Vista Social Club?» «Sì. Per te, certo che l’ho visto. Ho pensato a te quando l’ho visto.» «Be’, è la strada - disse lei - dove si frangevano le onde. Quel muro. Lo si vede solo per un attimo. È li dove ho sempre pensato di andare.» «La strada che avrebbe potuto essere», le dissi. «Che avrebbe dovuto essere», disse Consuela, e riprese a piangere incontrollabilmente mentre sullo schermo, sotto i loro abat-jour (ciascuno dei quali, veniamo a sapere, pesa circa cinque chili), le ballerine sfilano sul palcoscenico senza una meta precisa. Sì, decisamente questo è Castro che dice «Vaffanculo» al ventesimo secolo. Perché è anche la fine della sua avventura nella storia, del segno che ha fatto e non ha fatto sulla tabella degli eventi umani. «Dimmi, - le dico. - Non mi avevi mai raccontato queste cose. Non parlavi così otto anni fa. Allora ti limitavi ad ascoltare. Eri una delle mie studentesse. Non le ho mai sapute, queste cose. Avanti. Dimmi cos’avrebbe dovuto essere.» «Quel muro, - disse, - e io. Tutto qui. A far penzolare le gambe e chiacchierare con la gente. Ecco. Sei vicino al mare, ma sei in città. È un punto d’incontro.

Una promenade.» «Be’, aveva un’aria piuttosto malandata, - dissi, - nel film.» «Sì. Ma non è così che io l’ho visto per tutta la vita.»

E poi il dolore, il peso della tristezza per tutto ciò che la sua famiglia aveva perduto, per il padre e per i nonni che erano morti in esilio, per se stessa in procinto di morire in esilio (e un esilio che mai prima di allora aveva sentito così crudelmente), per la Cuba dei Castillo che Castro aveva distrutto, per tutto ciò che temeva di dover abbandonare, tutto questo era così grande che tra le mie braccia, per cinque minuti buoni, Consuela perse ogni controllo. Io vidi, concretamente, il terrore che provava il suo corpo. «Cosa c’è? Consuela, che cosa posso fare per te? Dimmelo e lo farò. Cos’è che ti tormenta tanto?»

Ed ecco cosa mi disse quando riuscì a parlare. Ecco, con mia sorpresa, cosa mi disse che la tormentava di più. «Ho sempre risposto ai miei genitori in inglese. Oh, Dio. Come vorrei avergli risposto più spesso in spagnolo!» «A chi?» «A mio padre. Era felice quando lo chiamavo Papi. Ma non l’ho più fatto da quando ero bambina. Lo chiamavo Dad. Dovevo farlo. Volevo essere americana. Non volevo tutta la loro tristezza.» «Carissima Consuela, oggi non ha più importanza come lo chiamavi. Lui sapeva che tu gli volevi bene. Sapeva quanto...» Ma consolarla era impossibile. Non l’avevo mai sentita parlare così, né l’avevo mai vista comportarsi come fece dopo. In ogni persona calma e ragionevole si nasconde un’altra persona che ha una paura matta della morte, ma per una ragazza di trentadue anni il tempo tra Ora e Allora è ordinariamente così vasto, così sconfinato, che forse non accade più di due volte l’anno, e solo per qualche attimo e a notte fonda, che si arrivi a incontrare quell’altra persona, e proprio nello stato di follia che dell’altra persona è la vita quotidiana.

Togliersi il cappello: ecco cosa fece allora Consuela. Togliersi il cappello e buttarlo via. Per tutto questo tempo, capisci, aveva portato quel cappello a forma di fez, anche quando era nuda e io le fotografavo i seni. Ma a questo punto se lo strappò dalla testa. Sullo slancio di Capodanno, si strappò dalla testa quel buffo cappello di Capodanno. Prima la farsa di Castro col suo sexy show e ora la mortalità, completamente svelata, di Consuela.

Vederla senza cappello fu straziante. Una donna così giovane e bella con una specie di soffice alone di capelli cortissimi, fini, incolori, insignificanti: avresti preferito che fosse calva, dopo essere andata a farsi radere dal barbiere, piuttosto che vedere la stupida peluria che aveva sulla testa. La transizione dal pensare nel modo in cui hai sempre pensato a una persona, viva e vegeta come te, a quello che significa per te in quel momento - come mi suggerì la sua lanuginosa calvizie, che quella persona è vicina alla morte, sta morendo - io la sentii non soltanto come uno choc, ma come un tradimento. Un tradimento nei confronti di Consuela per aver assorbito il colpo così in fretta e fatto questa analisi. Era giunto il momento traumatico in cui si verifica il cambiamento, quando scopri che le aspettative dell’altra persona non possono più somigliare alle tue e che, per quanto tu ti comporti e possa continuare a comportarti nel modo più appropriato, lui o lei se ne andrà prima di te: e, se sei fortunato, molto prima.

Proprio lei. Eccola là. Tutto l’orrore della situazione, in quella testa. La testa di Consuela. La coprii di baci. Che altro potevo fare? I veleni della chemioterapia. Tutto ciò che avevano fatto al suo corpo. Tutto ciò che avevano fatto al suo spirito. Ha trentadue anni e si crede ormai esiliata da ogni cosa, crede che per ogni esperienza sia l’ultimissima volta. Ma... E se non fosse così? Cosa...

Ecco! Il telefono! Potrebbe essere... Che ore sono? Le due del mattino. Scusami!

Sì. Era lei. Ha chiamato. Ha chiamato, finalmente. Devo andare. È terrorizzata. La operano tra due settimane. Ha fatto l’ultima chemioterapia. Mi ha chiesto di parlarle della bellezza del suo corpo. Ecco perché ci ho messo tanto. Era quello che voleva sentire. È di questo che ha parlato per quasi un’ora. Del suo corpo. Credi che dopo l’operazione un uomo amerà ancora il mio corpo? Ecco che cosa mi chiede continuamente. Vedi, hanno ormai deciso di toglierle tutto il seno. Prima pensavano di andarci sotto e asportarne solo una parte. Ma ora trovano che la situazione è troppo grave per una cosa simile. Perciò devono toglierlo. Dieci settimane fa le avevano detto che ne avrebbero rimosso solo un pezzo, e ora le dicono che lo toglieranno tutto. Bada, stiamo parlando di un seno. Non è una cosa da poco. Stamattina le hanno detto come andrà; ora è notte, e lei è sola, e la prospettiva di... Devo andare. Vuole che vada da lei. Vuole che io dorma da lei, nel suo letto. Non ha mangiato nulla in tutto il giorno. Deve mangiare. Bisogna nutrirla. Tu? Rimani, se vuoi. Se vuoi restare, se vuoi andare via... Guarda, non c’è tempo, devo scappare!

«Non farlo.»

Cosa?

«Non andare.»

Ma devo. Qualcuno deve stare con lei.

«Troverà qualcuno.»

E’ terrorizzata. Io vado.

«Pensaci. Rifletti. Perché se ci vai, sei finito.»

 


[1] Giovane ammiratrice di celebrità (soprattutto del mondo dello spettacolo) che oltre a seguirle nei loro spostamenti si mostra sessualmente disponibile.

[2] Attivista politico radicale, fu uno dei fondatori del movimento hippie.

[3] All’età di 17 anni, Amy Fisher, definita la «Lolita di Long Island», sparo alla moglie del suo amante, proprietario di un’officina meccanica.

[4] Bernardine Dohrn e Kathy Boudin furono entrambe leader degli Students for a Democratic Society, e poi dei Weather Underground, l’ala armata del movimento, Betty Friedan è attivista e scrittrice femminista.

[5] I palazzi dì Seventh Avenue tra Forty-eighth e Fifty-second Street a New York, dove si componeva, si arrangiava, si pubblicava e si registrava la musica popolare Tin pan era, per i musicisti dell’Ottocento, il pianoforte più economico, dal suono metallico e insoddisfacente.

[6] The Professor of Desire (1977) e il titolo di un precedente romanzo di Philip Roth con lo stesso protagonista.