sabato 9 settembre 2023

LEZIONI Ian McEwan

 


LEZIONI

Ian McEwan

Recensione 

È un libro  sull'impossibilità di comprendere la complessità della vita e tanto meno di trarne delle "lezioni" morali...è la storia di un uomo, della sua presunta innocenza nel guardare la sua vita e il suo passato, e dei suoi debiti "formativi" nei confronti di tre donne: madre, insegnante, moglie. Abuso e abbandono sono i due cardini attorno a cui ruota la sua vita.
Mi sono sentito coinvolto nelle peripezie esistenziali di Roland, bimbo, adulto, anziano, piccoletto, uomo maturo, eternamente giovane e a volte mal vissuto. Come sempre McEwan dimostra la sua  grande capacità di portare chi legge in una zona in cui intrattenimento e riflessione profonda  sulla storia umana si fondono e ti rapiscono dall'inizio alla fine del racconto.

LEZIONI

Capitolo primo

Era un ricordo insonne, non un sogno. Sempre quella lezione di piano – pavimento in piastrelle arancione, un’unica finestra alta, il nuovo pianoforte verticale in una stanza spoglia nei pressi dell’infermeria. Lui undicenne, alle prese con quello che altri avrebbero forse riconosciuto come il primo preludio, volume 1, del Clavicembalo ben temperato di Bach, versione semplificata, ma di cui lui non sapeva niente. Non si chiedeva se fosse un brano celebre o sconosciuto. Era senza luogo e senza tempo. Impossibile immaginare che qualcuno si fosse preso il disturbo di scriverlo. La musica era una semplice realtà, una cosa di scuola, oppure un buio, come una foresta d’inverno, riservata a lui solo, suo privato labirinto di gelida angoscia. Non l’avrebbe lasciato andare mai.

La maestra gli sedeva accanto sullo sgabello lungo. Viso pieno, schiena dritta, profumata, severa. Una bellezza occultata dai modi. Non si accigliava mai, non sorrideva. Secondo certi bambini era pazza, ma lui ne dubitava.

Fece un errore nel solito punto, l’errore che faceva sempre e lei si chinò piú vicina per mostrarglielo. Il suo braccio sodo e tiepido gli premeva sulla spalla, le mani, le unghie laccate gli poggiavano in grembo. Sentí un tremendo pizzicore sottrargli la concentrazione.

– Ascolta. È un suono semplice, un’onda.

Ma suonando, lui non sentiva nessuna onda semplice. Il profumo di lei gli confondeva i sensi, assordandolo. La fragranza era dolciastra, una cosa dura, levigata come un ciottolo di fiume, che gli premeva forte sui pensieri. Tre anni dopo scoprí che era acqua di rose.

– Riprova –. Lo disse nel tono crescente di un avvertimento. Lei aveva orecchio, lui no. Sapeva che la mente della maestra era altrove e sapeva di infastidirla con la sua irrilevanza – l’ennesimo scolaro del collegio sporco di inchiostro. Le sue dita premevano sui tasti scordati. Già intravedeva il punto dolente della pagina prima di arrivarci, succedeva prima ancora di succedere, lo sbaglio gli veniva incontro a braccia aperte, come una madre, pronto ad accoglierlo, sempre lo stesso sbaglio che veniva a prenderlo senza la promessa di un bacio. E cosí avvenne. Il pollice viveva di vita propria.

Insieme ascoltarono le note stonate spegnersi nel silenzio ronzante.

– Mi scusi, – mormorò fra sé.

Lo scontento di lei si presentò sotto forma di una rapida espirazione dalle narici, una snasata inversa che aveva già sentito prima. Le dita trovarono il suo interno coscia all’altezza dell’orlo dei pantaloncini grigi, e pizzicarono forte. La sera ci sarebbe stato un piccolo livido azzurro in quel punto. Il tocco di lei era fresco e la mano salí sotto i pantaloncini fin dove l’elastico delle mutande incontrava la pelle. Lui scattò in piedi dallo sgabello, tutto rosso in viso.

– Siediti. Ricomincia!

La sua durezza fu come un colpo di spugna su quanto era appena accaduto. Tutto scomparso, e già lui metteva in dubbio il proprio ricordo. Esitava dinanzi all’ennesimo sfolgorante faccia a faccia con l’agire degli adulti. Non ti dicevano mai quel che sapevano. Ti nascondevano i confini della tua ignoranza. Quanto accaduto, qualunque cosa fosse, doveva essere colpa sua, e la disubbidienza non era nella sua natura. Perciò si rimise a sedere, alzò la testa verso la bieca colonna di chiavi di sol appese sulla pagina, e ripartí ancor piú incerto di prima. Escluso il verificarsi di qualsiasi onda, non in quella foresta. Troppo presto sentí avvicinarsi il solito punto malefico. Un disastro sicuro la cui consapevolezza trovò conferma nel suo pollice idiota già pronto a pigiare quando avrebbe dovuto restare fermo. Si bloccò. La prolungata dissonanza parve pronunciare il suo nome a voce alta. Lei gli prese il mento tra pollice e nocca e gli girò la faccia verso la sua. Le profumava anche il fiato. Senza staccargli lo sguardo di dosso, afferrò il righello da dodici pollici dal coperchio del piano. Non le avrebbe permesso di picchiarlo, ma scivolando fuori dallo sgabello, non vide quel che stava arrivando. Lo colpí sul ginocchio non di piatto, ma di coltello, e bruciava. Lui fece un passo indietro.

– Adesso fa’ come ti ho detto e siediti.

Nonostante il bruciore non voleva spostarci sopra la mano, non ancora. Rivolse un’ultima occhiata a lei, alla sua bellezza, alla camicetta aderente dal colletto alto e i bottoni di madreperla, alle pieghe della stoffa che si aprivano a ventaglio intorno ai seni, sotto il suo sguardo fermo e inattaccabile.

Corse via da lei, lungo un colonnato di mesi finché non ebbe tredici anni, ed era sera tardi. Per mesi lei era comparsa nelle sue fantasie pre-sonno. Ma quella volta era diverso, una sensazione violenta, un senso freddo di vuoto allo stomaco che doveva essere quel che la gente chiamava estasi. Ogni cosa era nuova, buona o cattiva che fosse, ed era tutta sua. Niente gli aveva mai procurato un’eccitazione piú forte che superare il punto di non ritorno. Troppo tardi, impossibile fermarsi, ma che importa? Sbalordito venne nella sua mano per la prima volta. Quando si riprese, si rizzò a sedere nel buio, scese dal letto, raggiunse i servizi del dormitorio, i cosiddetti «pantani», per esaminare il grumo biancastro sul palmo della sua mano di bambino.

E qui, i suoi ricordi sfumavano in sogni. Stringeva il campo, sempre di piú, attraversando l’universo scintillante fino allo spettacolo, dall’alto di un picco, a perdita d’occhio su un lontano oceano, come quella intravista dal corpulento Cortés in un sonetto che tutta la classe aveva dovuto copiare venticinque volte per punizione. Un mare di creature serpeggianti, piú piccole di girini, milioni e milioni, pigiate in massa contro la curva dell’orizzonte. E poi piú stretto ancora, fino a individuare e seguire un singolo essere in viaggio a nuoto in mezzo alla moltitudine, sgomitando tra consanguinei per farsi strada lungo morbide gallerie rosa, superando gli altri che rinunciavano esausti. Alla fine, era arrivato da solo di fronte a un disco magnifico, simile al sole, che roteava placido in senso orario, sapiente, in imperturbabile attesa. Se non era lui, sarebbe stato un altro. E mentre superava le spesse cortine rosso sangue, gli arrivò di lontano un grido, e infine il lampo del viso di un neonato in pianto.

Era un uomo fatto, un poeta, gli piaceva pensare, in preda ai postumi di una sbornia, con la barba non rasata da cinque giorni, in faticosa ripresa dalle secche del sonno recente, e diretto con passo incerto dalla sua camera a quella del neonato urlante che avrebbe tirato su dalla culla e preso in braccio.

Poi era al piano di sotto, con il bambino addormentato sul petto, sotto una coperta. Una sedia a dondolo e, poco lontano, su un tavolino, un libro sui grandi problemi del mondo che aveva comprato e sapeva che non avrebbe mai letto. Gli bastavano i suoi, di problemi. Si trovava di fronte a una porta-finestra affacciata su un angusto giardino di Londra. E guardava attraverso la foschia di un’alba umida un unico melo spoglio. Alla sinistra dell’albero era rovesciata una carriola verde, che nessuno spostava piú sin da un dimenticato giorno d’estate. Piú vicino ancora, un tavolo di ferro, rotondo, che diceva sempre di voler dipingere. La gelida primavera avanzata dissimulava la morte dell’albero che non avrebbe messo le foglie quell’anno. Nelle tre settimane di torrida siccità iniziata in luglio avrebbe potuto salvarlo, nonostante il divieto di bagnare con il tubo di gomma. Ma aveva avuto troppo da fare per trascinare secchi pieni d’acqua per tutto il giardino.

Gli occhi gli si chiudevano, la testa crollava all’indietro e di nuovo ecco che ricordava, non dormiva. Il preludio, adesso, come lo si sarebbe dovuto suonare. Era da un pezzo che non tornava lí, di nuovo undicenne, in marcia con altri trenta verso una vecchia baracca in lamiera. Troppo piccoli per rendersi conto di quanto fossero depressi, troppo infreddoliti per chiacchierare. La svogliatezza collettiva li faceva muovere a tempo come un corpo di ballo, mentre in silenzio calavano lungo un ripido pendio erboso per andare a mettersi in fila fuori nella nebbia, in attesa obbediente che le lezioni iniziassero.

Dentro, a metà della stanza, c’era una stufa a carbone e, appena si erano un po’ riscaldati, diventavano turbolenti. Lí era possibile, a differenza che altrove, perché il maestro di latino, un mite scozzese basso di statura, non era in grado di controllare la classe. Sulla lavagna, queste parole nella grafia del maestro: Expectata dies aderat. E sotto, nella grafia incerta di uno scolaro: Il giorno tanto atteso era arrivato. In quella stessa baracca, cosí gli era stato insegnato, ma in tempi molto piú cupi, degli uomini si erano addestrati a combattere in mare, studiando l’aritmetica relativa al posaggio delle mine. Facevano i loro compiti. Nello stesso posto in cui ora un bambino grande e grosso, a tutti noto come un bullo, incedeva spavaldo fino in cima alla sala per poi chinarsi, ghignando, e offrire il fondoschiena sprezzante all’inefficace pedata del mite scozzese. Si alzavano grida di approvazione in favore del bullo, perché nessun altro avrebbe osato tanto.

Mentre il baccano cresceva col caos e un oggetto bianco veniva lanciato tra i banchi, lui ricordava: era lunedí e il giorno tanto temuto e atteso era arrivato… di nuovo. Al polso, il grosso orologio ricevuto in dono dal padre. Non perderlo. Fra trentadue minuti sarebbe cominciata la lezione di piano. Si sforzava di non pensare alla maestra, perché non si era esercitato. Era troppo buio in quella foresta terrificante, per spingersi fino al punto in cui il suo pollice calava sul tasto come una mannaia. Se pensava a sua madre, gli veniva da piangere. Era lontanissima e non lo poteva aiutare, perciò la scacciò dalla mente. Nessuno poteva impedire che arrivassero i lunedí. Il livido della settimana prima stava sbiadendo, e del resto cos’era, ricordare il profumo della maestra di piano? Non certo come sentirlo dal vivo. Piú simile a un’immagine senza colore, o forse a un posto, o alla sensazione provata per un posto, o una cosa a metà tra le due. Oltre il terrore c’era qualcos’altro che doveva scacciare: l’eccitazione.

Per Roland Baines, l’uomo in debito di sonno sulla sedia a dondolo, la veglia della città altro non era che un lontano, insistente rumore in crescendo di minuto in minuto. L’ora di punta. Espulsa dai sogni e dal letto, la gente si spostava per la città come il vento. Qui, invece, lui non doveva far altro che essere un letto per il suo bambino. Sentiva il cuore del piccolo battergli addosso, a un ritmo grosso modo il doppio del suo. Le loro pulsazioni si armonizzavano e si sfasavano, ma un giorno si sarebbero perse per sempre. Mai piú sarebbero stati tanto vicini. Lui l’avrebbe conosciuto meno bene, e poi meno ancora. Altri avrebbero conosciuto Lawrence meglio di lui, dov’era, che cosa stava facendo e dicendo, che si andava affezionando a un particolare amico, poi a un’amante. Che a volte piangeva, da solo. Dal padre, qualche visita occasionale, un abbraccio sincero, due chiacchiere per sapere del lavoro, della famiglia, un po’ di politica, e tanti saluti. Per il momento, sapeva tutto di lui, dove si trovava in ogni istante, dovunque. Lui era il letto di quel bambino, e il suo dio. Poteva piacere o no, ma forse il fondamento dell’essere genitore stava tutto in questo lungo lasciar andare, inconcepibile da questa prospettiva.

Erano passati diversi anni da quando aveva lasciato andare l’undicenne con il segno ovale segreto nell’interno coscia. Quella sera se l’era osservato bene, dopo che si erano spente le luci, abbassandosi i pantaloni del pigiama nei pantani, e chinandosi per guardare piú da vicino. Ecco l’impronta lasciata dall’indice e il pollice di lei, la sua firma, una testimonianza scritta che rendeva vero il momento. Una specie di fotografia. Non faceva male accarezzarne i bordi dove la pelle chiara sfumava dal verde all’azzurro. Premette forte, al centro dov’era quasi nero. Non faceva male neppure lí.

Nelle settimane successive alla scomparsa di sua moglie, le visite da parte degli agenti di polizia e la casa sigillata, aveva cercato piú volte di spiegarsi l’incubo di quella notte in cui all’improvviso era stato solo. Stress e stanchezza lo avevano all’improvviso risospinto indietro alle origini, ai primordi, all’eterno passato. Sarebbe stato peggio se avesse saputo che cosa lo aspettava: una serie di visite presso un logoro ufficio, attese interminabili insieme a centinaia di sconosciuti su panche di plastica imbullonate al pavimento, finché non veniva chiamato il suo numero, svariati colloqui nei quali esponeva il proprio caso con Lawrence H. Baines in braccio che si dimenava lallando. Alla fine, aveva ottenuto un sussidio, un assegno per genitori single, una specie di reversibilità, anche se lei non era morta. Quando Lawrence avesse compiuto l’anno, ci sarebbe stato un posto al nido per lui mentre il padre avrebbe ottenuto una titolarità – in un call-center o roba simile. Docente di Ascolto Solidale. Perfettamente logico. Voleva forse permettere che altri sgobbassero per mantenerlo mentre lui tirava sera sistemando sestine? Nessuna contraddizione. Era una soluzione come un’altra, un contratto che lui accettò… per poi detestare.

Il fatto accaduto tanto tempo prima nella stanzetta accanto all’infermeria era stato disastroso quanto quel che gli toccava adesso, ma lui era andato avanti, allora come ora, dando quasi l’impressione che andasse tutto bene. Quel che poteva distruggerlo veniva da dentro ed era la sensazione di essere nel torto. E se il bambino di allora era stato erroneamente indotto a interpretare la cosa in quel modo, perché cedere adesso al senso di colpa? Era lei in difetto, non lui. Era arrivato a ricordare a memoria le sue cartoline, il suo messaggio d’addio. Di norma, simili comunicazioni venivano lasciate sul tavolo di cucina. Lei, la sua gliel’aveva lasciata sul cuscino, come un amaro cioccolatino omaggio in un albergo. Non mi cercare. Sto bene. Non è colpa tua. Ti amo, ma non intendo tornare. Ho vissuto una vita che non era la mia. Ti prego, cerca di perdonarmi. Sul letto, dalla sua parte, c’erano le chiavi di casa.

Che razza d’amore era quello? Possibile che mettere al mondo un figlio fosse la vita sbagliata? Di solito era dopo una solenne bevuta che si concentrava con odio sulla frase finale che lei non era riuscita a completare. Ti prego, cerca di perdonarmi, avrebbe dovuto scrivere, come io ho perdonato me stessa. Il vittimismo del fuggiasco contro l’amara lucidità dell’abbandonato, del lasciato indietro. Si inacidiva a ogni dito di whisky un po’. Un altro dito fantasma dal richiamo irresistibile. La odiava sempre di piú, e ogni pensiero era una replica, una variazione sul tema dell’egoismo di quell’abbandono. Dopo un’oretta di elucubrazioni forensi, sapeva che il punto di non ritorno non era lontano, il perno del lavorio mentale della serata. Ci siamo quasi, ancora un goccio. I pensieri deceleravano, per poi bloccarsi di colpo, senza motivo, come il treno di quella poesia che la loro classe doveva imparare a memoria se non voleva affrontare la punizione. Un giorno caldissimo a una fermata nel Gloucestershire, e l’aria immobile nella quale qualcuno dà un colpo di tosse. Ed ecco che gli tornava in mente, una consapevolezza nitida e acuta come un cinguettio non lontano. Finalmente sbronzo, era libero di amarla di nuovo, di rivolerla indietro. La sua bellezza remota e serafica, la delicata fragilità delle sue mani dalle ossa minute, e la voce appena velata dall’infanzia tedesca, un po’ roca, come se fosse reduce da un accesso di urla. In realtà lei non urlava mai. Lo amava, perciò la colpa doveva essere sua ed era stata generosa ad avergli lasciato scritto sul biglietto che non era cosí. Non sapendo quale parte difettosa di sé accusare, lui deduceva di prendersela con tutto l’insieme della sua persona.

Stordito e mortificato, alla deriva in una nebbia dolce e malinconica, si trascinava meditabondo su per le scale, controllava il bambino, crollava nel sonno, a volte vestito com’era, di traverso sul letto, per risvegliarsi nell’arsura delle ore piccole, sfinito e vigile, furibondo e assetato, pronto a ricalcolare nel buio tutte le sue virtú e la portata del vilipendio subito. Guadagnava poco meno di lei, si era reso disponibile con Lawrence al cinquanta per cento, notti comprese, era fedele, affettuoso, non si era mai posto come il genio poetico bisognoso di vivere in base a regole particolari. Dunque era stato un idiota, un fesso, ed era per questo che lei lo aveva lasciato, magari per un altro, un uomo vero. No, macché, lui era buono, lui era buono e la odiava. Per sempre. Ecco percorso il ciclo completo, di nuovo. A quel punto la cosa piú vicina al sonno in cui poteva sperare era restarsene coricato a occhi chiusi, all’erta per sentire Lawrence, e altrimenti smarrito tra desideri, ricordi, propositi, perfino qualche verso passabile che non aveva voglia di mettere per iscritto, per una, due, tre ore magari, fino all’alba. Di lí a poco avrebbe rivissuto per l’ennesima volta l’arrivo della polizia, il sospetto che gravava su di lui, l’atmosfera velenosa contro la quale aveva sigillato la casa e il dubbio se fosse necessario ripetere l’operazione. Tale inutile procedura lo aveva riportato indietro, una notte, alla lezione di piano. Nella stanzetta echeggiante in cui si era ritrovato ed era stato costretto a guardare.

Grazie al latino e al francese, aveva imparato i tempi verbali. Esistevano da sempre, passato, presente, futuro, ma lui non aveva mai fatto caso al modo in cui la lingua suddivide il tempo. Ora lo sapeva. La sua maestra di piano usava un presente imperativo per condizionare il futuro prossimo. – Ti siedi ben dritto, con il mento alto. Tieni i gomiti ad angolo retto. Le dita si preparano, leggermente piegate, lasci morbidi i polsi. Tieni gli occhi fissi sullo spartito.

Sapeva anche cos’era un angolo retto. Conosceva tempi verbali, angoli, ortografia. Erano quelli gli elementi del mondo reale per imparare i quali suo padre lo aveva spedito a 2000 miglia di distanza dalla madre. C’erano problemi da grandi, milioni di problemi, di cui piano piano sarebbe venuto a conoscenza. Quando arrivò, trafelato e puntuale, dalla lezione di latino, la maestra di piano lo interrogò sull’esercizio svolto durante la settimana. Lui le mentí. Poi lei tornò a sedersi accanto a lui. Lo avvolse con il suo profumo. Il segno che gli aveva lasciato sulla gamba la settimana precedente era scomparso e il suo ricordo dell’accaduto risultava incerto. Ma se avesse provato a fargli male di nuovo, lui sarebbe corso via dalla stanza senza fermarsi. Si sentí dentro una specie di forza, un’eccitazione soffocata, mentre le mentiva dicendo di essersi esercitato per tre ore nel corso della settimana. La verità era zero, nemmeno tre minuti. Non aveva mai imbrogliato una donna, prima. Aveva mentito a suo padre, di cui aveva paura, per levarsi dai guai, ma a sua madre aveva sempre detto la verità.

La maestra si schiarí piano la gola, il che indicava che gli aveva creduto. O forse no.

Mormorò: – Bene. Procedi.

Il grosso fascicolo di pezzi facili per principianti stava aperto al centro del piano. Per la prima volta notò le tre graffette che tenevano insieme le pagine lungo la piega nel mezzo. Quelle non erano da suonare: il pensiero stupido lo fece quasi sorridere. L’austero cappio verticale della chiave di sol, la chiave di basso arrotolata come il feto del coniglio sul suo manuale di biologia, le note nere, quelle vuote e bianche che bisognava tenere piú a lungo, il lurido paginone piegato agli angoli che costituiva per lui un castigo speciale. Niente di tutto ciò al momento risultava familiare e nemmeno ostile.

Quando attaccò, la sua prima nota uscí di un volume doppio rispetto alla seconda. Si mosse cauto verso la terza, e la quarta, guadagnando velocità. Nasceva come prudenza e presto gli sembrò un’iniziativa segreta. La mancanza di esercizio lo aveva reso libero. Ubbidiva alle note, suonando la mano sinistra con la destra e ignorando la diteggiatura a matita. Non aveva niente altro da ricordare se non premere i tasti nell’ordine giusto. Il punto brutto lo colse alla sprovvista, ma il pollice sinistro si scordò di precipitare sul tasto, e subito dopo fu tardi, si era già svincolato, era già arrivato oltre, e si muoveva tranquillo lungo il pianoro sopra la foresta, dove la luce e lo spazio erano piú tersi, e per un po’ ebbe l’impressione di poter distinguere l’accenno di una melodia sospesa come uno scherzo sulla marcia ininterrotta dei suoni.

Seguire le istruzioni, due se non tre ogni secondo, richiedeva la sua totale concentrazione. Si dimenticò di sé, e perfino di lei. Tempo e spazio svanirono. Il piano stesso svaní insieme all’esistenza. Fu come svegliarsi da una notte di sonno, quando alla fine si trovò a suonare a due mani un facile accordo aperto. Ma non levò la mano dai tasti come gli indicava di fare il segno di breve sullo spartito. L’accordo risuonò, estinguendosi nella piccola sala vuota.

Non lasciò andare quando sentí la mano della maestra sulla testa, e nemmeno quando gliela premette forte sul capo per girargli la faccia dalla sua parte. Niente nell’espressione di lei gli anticipò quel che stava per succedere.

Gli disse sottovoce: – Tu…

Solo allora sollevò finalmente le mani dai tasti.

– Tu piccolo…

In un movimento complesso, lei abbassò la testa di lato e disegnando nell’aria un arco elegante avvicinò la faccia alla sua per concludere il gesto con un bacio sulla bocca, un lungo dolcissimo bacio. Lui non oppose resistenza ma nemmeno partecipò. Stava accadendo e lo lasciò accadere, senza provare nulla, durante. Solo ripensandoci, vivendo, e rivivendo, e animando quell’attimo in solitudine, si rese conto della sua immane portata. Durante, le labbra di lei stavano sulle sue e lui attendeva passivo che l’istante terminasse. Poi ci fu all’improvviso una distrazione, e fu tutto finito. Il lampo di un’ombra, qualcosa che si muoveva al di là della finestra in alto. Lei si ritrasse per voltarsi a guardare, e lo stesso fece anche lui. L’avevano vista o percepita contemporaneamente, con la coda dell’occhio. Cos’era stato? un volto, un volto e una spalla carichi di condanna? Ma il finestrino quadrato mostrò loro soltanto brandelli di nuvola e ritagli di un pallido azzurro invernale. Sapeva che, dall’esterno, la finestra era troppo alta per essere raggiungibile anche da un adulto di statura straordinaria. Era stato un uccello, probabilmente un piccione dalla colombaia nel cortile delle scuderie. Comunque, maestra e allievo si erano separati con aria colpevole e malgrado lui ci capisse ben poco, sapeva che d’ora in poi li avrebbe legati un segreto. La finestra vuota aveva brutalmente evocato il mondo degli altri. E si rese anche conto di quanto sarebbe stato scortese portarsi una mano alla bocca per alleviare il formicolio prodotto dall’umidore che andava asciugando.

Lei tornò a girarsi verso di lui e con un tono fermo e rassicurante, che suggeriva la sua indifferenza alla curiosità della gente, lo guardò intensamente negli occhi e gli parlò utilizzando un futuro amorevole questa volta, allo scopo di fargli apparire il presente sensato. E lo era infatti. Ma non l’aveva mai sentita parlare tanto.

– Roland, tra due settimane ci sarà una mezza giornata di vacanza. Cade di venerdí. Voglio che tu mi ascolti attentamente. Prenderai la bici e verrai da me, a Erwarton. Venendo da Holbrook si trova subito dopo il pub, sulla destra, una porta verde. Arriverai in tempo per l’ora di pranzo. Hai capito?

Annuí, senza capire niente. Che dovesse pedalare attraverso la penisola su viottoli stretti e sentieri di campagna fino al villaggio per pranzo quando poteva benissimo mangiare a scuola lo sconcertava. Tutto quanto lo sconcertava. Al tempo stesso, nonostante la confusione, o proprio a causa di quella, non vedeva l’ora di essere solo per risentire e pensare al bacio.

– Ti manderò un biglietto per ricordartelo. D’ora in avanti farai lezione con Mr Clare. Non piú con me. Gli dirò che stai facendo enormi progressi. Allora, giovanotto, adesso facciamo scale maggiori e minori con due diesis.

Piú facile domandarsi dove che come mai. Dove se n’era andata? Passarono quattro ore prima che denunciasse alla polizia la scomparsa di Alissa e il suo messaggio d’addio. Secondo i suoi amici anche due ore sarebbero state troppe. Chiamali subito! Lui resisteva, teneva duro. Non solo perché preferiva pensare che potesse tornare da un momento all’altro. Non gli andava che un estraneo leggesse il messaggio, né che l’assenza diventasse ufficiale. Con suo stupore, si presentò qualcuno il giorno dopo la sua chiamata. Era un agente del posto dall’aria stanca. Raccolse qualche particolare, diede un’occhiata al biglietto di Alissa e disse che sarebbe tornato. Non capitò nulla per una settimana, e nel frattempo arrivarono le sue quattro cartoline. L’esperto si presentò senza preavviso il mattino presto a bordo di un’auto di pattuglia che parcheggiò in divieto di sosta davanti alla casa. Era piovuto forte, ma lui non si preoccupò del sentiero che le sue scarpe lasciavano sul pavimento dell’ingresso. L’ispettore Douglas Browne, guance pendule come festoni di carne, aveva il muso di un cagnone bonario dagli occhi marroni. Sedette curvo al tavolo di cucina di fronte a Roland. Accanto alle enormi mani dell’ispettore dalle nocche ombreggiate di peli scuri, stavano il taccuino di Roland, le cartoline e il biglietto trovato sul cuscino. Il cappotto pesante che non si era tolto aumentava la stazza dell’uomo e la sua sembianza canina. Intorno a tutti e due, una baraonda di piatti e scodelle sporchi, posta pubblicitaria, bollette, un biberon semivuoto, le macchie di avanzi della colazione di Lawrence e il suo bavaglino. Erano quelli che uno degli amici di Roland amava definire «anni melmosi». Lawrence stava nel seggiolone, insolitamente quieto, e osservava stupefatto quel colosso d’uomo e le sue spalle fuori misura. Per l’intera durata dell’incontro, Browne ignorò la presenza del bambino. Roland si sentí un po’ offeso per conto del figlio. Irrilevante. I soavi occhi marroni del poliziotto si concentravano solo sul padre, e Roland fu costretto a rispondere a domande di routine. Il matrimonio non era in crisi – lo disse a voce un tantino piú alta di quanto avesse inteso fare. Non era stata ritirata nessuna somma di denaro dal conto cointestato. Era ancora periodo di vacanza, perciò la scuola dove lavorava Alissa non avrebbe saputo che se n’era andata. Aveva preso con sé una piccola valigia nera. Il suo cappotto era verde. Ecco qualche foto, la data di nascita, nomi e indirizzo dei suoi genitori in Germania. Forse indossava un berretto.

L’ispettore trovò interessante la cartolina piú recente, quella in arrivo da Monaco. Per quanto Roland ne sapeva, non conosceva nessuno da quelle parti. A Berlino sí, come pure ad Hannover e Amburgo. Proveniva dal Nord luterano, Alissa. All’espressione dubbiosa di Browne, Roland rispose spiegando che Monaco era nel Sud. Ma forse era su Lutero che avrebbe dovuto fornire qualche chiarimento. L’ispettore comunque abbassò lo sguardo al taccuino e passò a un’altra domanda. No, disse Roland, non aveva mai fatto niente di simile, in passato. No, non aveva una copia dei dati del suo passaporto. No, non gli era sembrata depressa, ultimamente. I suoi abitavano nei dintorni di Nienburg, una cittadina a sua volta nel Nord del paese. Li aveva chiamati con un pretesto e aveva capito che Alissa non era stata da loro. Lui non li aveva informati. Sua madre, tormentata da un astio invincibile, avrebbe dato in escandescenze a quella notizia sulla sua unica figlia. Abbandono del tetto coniugale. Ma come si permetteva! Madre e figlia litigavano di continuo. Tuttavia, si sarebbe dovuto dirlo ai suoceri e ai suoi genitori. Le prime tre cartoline di Alissa, rispettivamente da Dover, Parigi e Strasburgo, erano arrivate nel giro di quattro giorni. La quarta, quella da Monaco, due giorni piú tardi. Da allora piú niente.

L’ispettore Browne tornò a studiare le cartoline. Tutte identiche. Tutto bene. Non ti preoccupare. Da’ un bacio a Larry da parte mia. xx Alissa. L’assenza di variazioni aveva un che di folle e di ostile, come il saluto privo di slancio. Una richiesta di aiuto, o una forma di insulto. Stesso pennarello azzurro, niente data, francobolli illeggibili e, a parte Dover, lo stesso insignificante panorama delle città dai ponti della Senna, del Reno, dell’Isar. Grandi fiumi. Si spostava a est, sempre piú lontano da casa. La sera precedente, nel dormiveglia prima del sonno, Roland l’aveva evocata come l’Ofelia annegata di Millais, ondeggiante sulle calme acque limpide dell’Isar, dopo Pupplinger Au con i suoi nudi bagnanti distesi sulle rive erbose come foche spiaggiate; era a galla sul dorso, la testa nel senso della corrente, e fluttuava inosservata e silenziosa attraverso Monaco, oltre il Giardino inglese, alla confluenza con il Danubio, e poi ancora oltre, ancora ignorata, passando per Vienna, Budapest e Belgrado, percorrendo dieci nazioni e le loro storie spietate, lungo i confini dell’Impero romano, fino ai cieli bianchi e alle sconfinate paludi del Mar Nero, dove loro due una volta avevano fatto l’amore nel riparo di un vecchio mulino a Letea, e avevano visto nei pressi di Isaccea uno stormo di pellicani chiassosi. Solo due anni prima. Aironi rossi, ibis sgargianti, un’oca selvatica. Fino ad allora, non gli era mai importato niente degli uccelli. Quella sera, prima di addormentarsi, era scivolato insieme a lei in un luogo di sfrenata felicità, una sorgiva. Negli ultimi tempi rimanere a lungo nel presente gli comportava uno sforzo di concentrazione. Il passato era spesso un condotto che collegava il ricordo a fantasticherie inquiete. Attribuiva il fenomeno a stanchezza, postumi da alcol, confusione.

Chinandosi sul suo taccuino, Douglas Browne stava dicendo in tono consolatorio: – Mia moglie, quando ne ha avuto abbastanza, ha buttato fuori me.

Roland fece per parlare ma Lawrence si intromise con uno strillo. La richiesta di essere considerato. Roland si alzò per liberarlo dal seggiolone e sistemarselo in braccio. La prospettiva diversa, frontale, sul gigante sconosciuto, ammutolí di nuovo il bambino. Lo fissava intensamente, a bocca spalancata e sbavante. Nessuno potrebbe dire che cosa passa nella mente di un bambino di sette mesi. Un vuoto soffuso, un grigio cielo d’inverno contro il quale le impressioni – visive, acustiche, tattili – esplodono come fuochi d’artificio in archi di colori primari, istantaneamente dimenticate, per essere istantaneamente sostituite e poi dimenticate ancora. Oppure una pozza profonda nella quale tutto precipita e scompare ma restano, seppure irrecuperabili, forme scure che esercitano in acque abissali la loro attrazione gravitazionale anche ottant’anni dopo, su letti di morte, tra confessioni estreme e disperati lamenti per un amore perduto.

Dopo l’abbandono di Alissa, Roland aveva osservato il figlio per cogliere segnali di sofferenza o danneggiamento che aveva riscontrato puntualmente. Un neonato doveva sentire la mancanza della madre, ma come, se non nel ricordo? A volte Lawrence se ne stava in silenzio troppo a lungo. Cos’era, scioccato, stordito, assorto, in capo a poche ore, nella formazione di tessuto cicatriziale nelle regioni inferiori dell’inconscio, sempre che un luogo o un processo simile esistano? La notte prima aveva strillato troppo forte. Furibondo per l’assenza di ciò che non poteva avere, pur avendo dimenticato che cosa fosse. Non il seno. Era stato allattato al biberon fin dal principio su insistenza della madre. Parte del piano, si diceva Roland nei momenti peggiori.

L’ispettore chiuse il taccuino. – Si rende conto che se troviamo Alissa, non potremo dirle dove si trova senza il suo permesso.

– Ma potete dirmi se è viva.

Annuí e dopo aver riflettuto un momento disse: – Di solito, quando una moglie scomparsa è morta, ad ammazzarla è stato il marito.

– In tal caso speriamo sia viva.

Browne si rizzò, inchinandosi appena all’indietro sulla sedia, in una pantomima della sorpresa. Per la prima volta si aprí in un sorriso. Sembrava cordiale. – Succede spesso cosí. Allora. Lui la fa fuori, si disfa del suo corpo, magari nella New Forest, per dire, un angolino appartato, una fossa improvvisata, denuncia la scomparsa, e poi?

– E poi?

– E poi comincia la storia. Di colpo si rende conto che lei era una donna adorabile. Si amavano tanto. Sente la sua mancanza e comincia a credere alla sua versione dei fatti. È lei che ha tagliato la corda. Oppure uno psicopatico l’ha fatta fuori. Lui non fa che frignare, è depresso, l’attimo dopo è furioso. Non è un assassino, non sta mentendo, non per come la vede adesso, almeno. Lei è sparita e lui soffre sul serio. E ai presenti sembra tutto vero. Sincero. Sono i piú difficili da far crollare, quelli.

La testa di Lawrence ciondolò sul petto del padre, si stava appisolando. Roland avrebbe voluto che l’ispettore non se ne andasse ancora. Perché a quel punto gli sarebbe toccato pulire la cucina. Mettere in ordine le stanze, fare il bucato, pulire la traccia di fango in ingresso. Preparare la lista della spesa. Mentre lui voleva soltanto dormire.

Disse: – Sono fermo allo stadio della nostalgia, per ora.

– Sono i primi giorni, signore.

E si fecero entrambi una risata sommessa. Come se la cosa facesse ridere e loro fossero vecchi amici. Roland si sentiva ben disposto verso quella faccia collassata dall’aria mansueta da cane bastonato, un’aria al di là dello sfinimento. Provava rispetto per l’impulso dell’ispettore a certe improvvise confidenze.

Dopo una pausa, Roland disse: – Come mai l’ha sbattuta fuori?

– Lavoravo troppo, bevevo troppo, tornavo tardi la sera. Trascuravo lei, trascuravo i figli, tre bei bambini, e avevo un’altra, e qualcuno gliel’ha fatto sapere.

– Ne aveva le tasche piene di lei quindi?

– Proprio cosí. Stavo diventando il classico tipo da due famiglie. Se ne sente parlare. La vecchia non sa della nuova, la nuova è gelosa della vecchia, e tu non fai che scorrazzare dall’una all’altra col fuoco al culo.

– Adesso sarà con la nuova.

Browne emise un sospiro sonoro, distolse lo sguardo e si grattò il collo. L’inferno fai-da-te è una condizione interessante. Ce ne costruiamo almeno uno tutti quanti, nell’arco di una vita. Certe vite poi, non conoscono altro. È una tautologia: l’infelicità autoinflitta costituisce un’estensione della personalità. Ma Roland ci rifletteva spesso. Ti costruisci una macchina di tortura e poi ti ci infili dentro. Ti calza a pennello e offre una vasta gamma di supplizi procurati da certi lavori, o da una propensione all’alcol o alle droghe, oppure dalla delinquenza unita a un talento per farsi beccare. Un’alternativa ulteriore era il rigore religioso. Un intero sistema politico poteva optare per l’angoscia autoinflitta – in passato aveva trascorso qualche tempo a Berlino Est. Il matrimonio, una macchina di tortura biposto, garantiva enormi possibilità, tutte varianti della folie à deux. Ognuno di noi ne ha presente qualche esempio e quello di Roland era di qualità artigianale. Una sera, la sua buona amica Daphne gliel’aveva detto chiaro, molto prima che Alissa se ne andasse, dopo averlo ascoltato confessare che da mesi si sentiva depresso. – Eri un portento alla scuola serale, Roland. Tutte quelle materie! Ma in ogni cosa che hai provato a fare, hai sempre voluto essere il migliore. Pianoforte, tennis, giornalismo, e adesso la poesia. E queste sono solo le cose che so, per combinazione. Appena scopri di non essere il numero uno, butti via tutto e cominci a odiarti. Lo stesso vale per le relazioni. Tu vuoi troppo e passi oltre. O magari è lei che non tollera la smania di perfezionismo e butta via te.

Nel silenzio dell’ispettore, Roland riformulò la domanda. – Comunque, che sia la vecchia o la nuova signora, lei cosa vuole?

Senza emettere suono, Lawrence stava facendo la cacca nel sonno. L’odore non era terribile. Ecco una delle scoperte dell’età adulta: quanto poco si impiega a sopportare la merda di chi amiamo. Una regola generale.

Browne meditò seriamente sulla domanda. Il suo sguardo vagò per la stanza. Vide scaffali di libri caotici, pile di riviste, un aquilone rotto appoggiato su un mobile. Ora, con i gomiti sul tavolo e la testa china fissava le venature del legno di pino massaggiandosi la nuca con entrambe le mani. Alla fine, si tirò su.

– Quello che voglio davvero è un campione della sua grafia. Va bene qualsiasi cosa. Anche una lista della spesa.

Roland attese che una piccola ondata di nausea salisse e si ritirasse. – Crede che li abbia scritti io, questi messaggi?

Che sbaglio, dopo una nottata pesante, saltare la colazione. Neanche una fetta di pane tostato e imburrato con un po’ di miele da contrapporre all’ipoglicemia. Tutto il daffare con Lawrence. E a quel punto il caffè che aveva fatto con mani tremanti era venuto tre volte troppo forte.

– Va bene anche un biglietto per il lattaio.

Dalla tasca del cappotto Browne estrasse un voluminoso oggetto in cuoio dotato di cinghia. Tra borbottii e un sospiro di esasperazione, liberò la macchina fotografica dalla custodia logora, operazione che comportava girare una vite troppo minuscola per le sue grosse dita. Era una vecchia Leica, 35 millimetri, nera e argento, piena di ammaccature. Tenendo gli occhi su Roland, l’ispettore fece un sorrisetto imbronciato mentre toglieva il copriobiettivo.

Si alzò. Con una cura pedante, posizionò le quattro cartoline e il biglietto in fila. Quando ebbe fotografato tutto su entrambi i lati ed ebbe rimesso la macchina in tasca, disse: – Fantastica, questa pellicola veloce. Ci fai quello che vuoi. Le interessa?

– Una volta avevo la passione –. Poi Roland aggiunse, in tono accusatorio: – Da ragazzo.

Browne estrasse dall’altra tasca del cappotto un fascio di sacchetti di plastica. Tirò su una alla volta le cartoline prendendole per un angolo e le infilò in quattro buste trasparenti che sigillò con le dita. Nella quinta ritirò il messaggio d’addio. Non è colpa tua. Sedette e ne fece una pila precisa, che sistemò con le grandi mani.

– Se non le spiace, queste le porto con me.

Il cuore di Roland batteva talmente forte da farlo sentire quasi rinvigorito. – Mi spiace, sí.

– Impronte digitali. Molto importanti. Gliele riporto.

– Dicono che in commissariato si perdono tante cose.

Browne sorrise. – Facciamo un giro della casa. Allora, ci serve la sua grafia, un capo di vestiario della signora, un oggetto con le sue impronte, una cosa che ha toccato solo lei e, che altro? Ah, un campione anche della sua di grafia.

– Ma quello ce l’ha già.

– Deve essere vecchio.

Roland si alzò con Lawrence in braccio. – Forse è stato un errore, coinvolgerla in una questione personale.

L’ispettore si stava già dirigendo alle scale. – Forse sí.

Quando giunsero sul piccolo pianerottolo Roland disse: – Prima devo sistemare il bambino.

– L’aspetto qui.

Ma cinque minuti dopo, quando Roland tornò con Lawrence agganciato al fianco, trovò Browne in camera da letto, la loro camera da letto, drasticamente rimpicciolita dalla massa dell’uomo che stava alla finestra accanto allo scrittoio al quale lavorava Roland. Come prima, il bambino fissava la scena stupefatto. Intorno alla macchina da scrivere, una Olivetti portatile, c’erano un taccuino e tre dattiloscritti di poesie recenti. Nella penombra della camera affacciata a settentrione l’ispettore aveva in mano un foglio che orientava verso la luce.

– Scusi. Questa è roba privata. È molto indiscreto da parte sua, cazzo.

– Il titolo è buono –. Lo lesse con voce monotona. – Glamis ha ucciso il sonno. Glamis. Bel nome per una ragazza. Gallese –. Mise giú il foglio e si avvicinò a Roland e Lawrence nello spazio angusto tra il fondo del letto e la parete.

– Non sono parole mie, e comunque è scozzese.

– Dunque non riesce a dormire bene?

Roland lasciò perdere. Gli arredi della stanza erano stati dipinti da Alissa di un verde pallido, con stencil azzurri a disegni di ghiande e foglie di quercia. Roland aprí un cassetto per Browne. C’erano le sue maglie in tre file ordinate. I vari profumi che utilizzava si fondevano in una fragranza tenue, ricca di storia. Il momento del loro primo incontro andava a sovrapporsi all’ultima volta che si erano parlati. Quei profumi e la sua presenza improvvisa lo travolsero costringendolo a fare un passo indietro, come abbagliato da troppa luce.

Browne si chinò con fatica e prese la maglia piú vicina. Cashmere nero. Si voltò e la fece scivolare dentro una delle sue buste di plastica.

– E la mia grafia?

– Quella ce l’ho –. Rizzandosi in piedi Browne si batté sulla tasca del cappotto da cui sporgeva la macchina fotografica. – Il suo taccuino era aperto.

– Senza il mio consenso.

– Lei dormiva su quel lato? – Guardava verso la testa del letto.

Roland era troppo furioso per rispondere. Sul comodino da notte di Alissa c’era una pinza per capelli di plastica agganciata a un libro in edizione economica che Browne prese tenendo dai bordi. Pnin, Nabokov. Sollevò delicatamente la copertina e diede un’occhiata.

– I suoi appunti?

– Sí.

– L’ha letto?

Roland annuí.

– Questa copia?

– No.

– Bene. Potremmo chiamare la scientifica ma a questo punto non credo valga piú la pena.

Roland intanto recuperava il controllo e si sforzò di assumere un tono pacato. – Credevo fossimo ormai al tramonto delle impronte digitali. Il futuro è nella genetica.

– Fesserie di moda. Non mi basterà la vita per vederle in uso. Né la mia, né la sua.

– Sul serio?

– La mia, la sua, la vita di nessuno –. L’ispettore si mosse verso il pianerottolo. – Deve capire questo: la genetica non è una cosa. È un’idea. Un’idea che ha a che fare con l’informazione. Un’impronta digitale invece è una cosa, una traccia fisica.

I due uomini e il bambino scesero le scale. Arrivato in fondo, Browne si voltò. Si era sistemato sotto il braccio la busta trasparente con la maglia di Alissa. – Non ci presentiamo sulla scena di un crimine a caccia di idee astratte. Noi cerchiamo tracce di cose reali.

Furono nuovamente interrotti da Lawrence. Slanciando in fuori un braccio, il bambino diede in un urlo a piena gola che cominciava con una consonante occlusiva, una b o una p, e intanto il piccolo indicava vanamente il muro con un dito bavoso. Quel suono doveva allenarlo, secondo la deduzione sommaria di Roland, a una vita da creatura parlante. Alla lingua occorreva tenersi in forma per tutto ciò che avrebbe detto in futuro.

Browne procedeva nell’ingresso. Mentre lo seguiva, Roland disse, ridacchiando: – Mi auguro lei non intenda questa come la scena di un crimine.

L’ispettore aprí la porta, uscí e si girò. Alle sue spalle, parcheggiata storta sul cordolo, si intravedeva la sua vettura minuscola, una Morris Minor celeste. Il sole basso del mattino gli sottolineava le pieghe meste e cascanti del viso. Il tono didascalico non risultava convincente in lui.

– Una volta avevo un sergente secondo il quale dove ci sono persone c’è la scena di un crimine.

– Mi sembra un’enorme idiozia.

Ma Browne si era già voltato e parve non sentire. Padre e figlio lo guardarono percorrere il breve sentiero ingombro di erbacce fino al cancello rotto che non aveva mai voluto saperne di stare chiuso. Quando arrivò al marciapiede, passò un buon mezzo minuto a rovistare un po’ curvo dentro le tasche a caccia delle chiavi. Finalmente le trovò e si aprí la portiera. Poi, con un unico movimento e una torsione agile della massa corporea, si ripiegò appoggiandosi indietro, salí in macchina e sbatté la portiera.

Cosí ebbe inizio la giornata di Roland, una giornata fresca nella primavera del 1986, che si preannunciava pesante. Le faccende domestiche, l’insensatezza che si combinava a un elemento nuovo, la sensazione imprecisa e torbida di essere un sospettato. Se quello era il caso. Quasi un colpevole. Un delitto, l’uxoricidio, gli si era attaccato addosso come la crosta di pappa sulla faccia di Lawrence. Poverino. Insieme osservarono l’ispettore attendere prima di immettersi nel traffico. Accanto al cancello d’entrata cresceva una pianta rachitica, legata a una canna di bambú. Una robinia. Il commesso del vivaio gli aveva assicurato che non avrebbe risentito dei fumi di scarico, anzi. Agli occhi di Roland, da quell’uscio di casa, tutto sembrava un’imposizione arbitraria, come se l’avessero calato da chissà dove nelle circostanze attuali, dentro una vita resa vacante da qualcun altro, niente che fosse stato lui a scegliere. La casa che non aveva mai voluto comprare e che non si poteva permettere, il bambino in braccio che non era stato nei suoi piani e che non sentiva il bisogno di amare. Il traffico raro e lentissimo davanti al cancello che adesso era suo e che non avrebbe mai riparato. La robinia malaticcia che non avrebbe mai immaginato di poter comprare, l’ottimismo di averla messa a dimora che ormai non sentiva piú. Sapeva per esperienza una cosa, l’unico modo per superare uno stato di dissociazione psichica era dedicarsi a un compito elementare. Sarebbe andato in cucina a lavare la faccia di suo figlio, e l’avrebbe fatto amorevolmente.

Ma mentre chiudeva con un calcio la porta di casa, gli venne un’idea diversa. E con quel solo pensiero in mente, salí in camera da letto con Lawrence e andò allo scrittoio a controllare il suo taccuino aperto. Non ricordava l’ultima cosa che aveva scritto. Nove poesie pubblicate su riviste letterarie nell’arco di quindici mesi: quel taccuino era lo specchio della sua serietà. Compatto, carta rigata di un grigio pallido, copertina rigida blu scuro, costa verde. Non avrebbe permesso che si trasformasse in un diario, aggiornato sulle minuzie dei progressi del bambino o sui suoi umori ondivaghi o le inevitabili riflessioni sull’attualità. Troppo banale. Il suo materiale era di stoffa piú pregiata. Seguire la pista buia di un’idea pregevole capace di condurre a una strettoia felice, a un punto fiammeggiante, un inatteso istante di luce pura su un primo verso che avrebbe contenuto la chiave segreta dei versi successivi. Era già successo in passato, ma volerlo, desiderare che riaccadesse non garantiva un bel niente. La necessaria illusione era che la miglior poesia mai scritta fosse a portata di mano. Avere la mente lucida non aiutava. Niente lo aiutava. Era costretto a starsene quieto in attesa. A volte cedeva e riempiva una pagina di fiacche considerazioni o di brani d’altri scrittori. L’ultima cosa che avrebbe voluto. Copiava un capoverso di Montaigne sulla felicità. Non gli interessava, la felicità. E prima di quello, un passaggio da una lettera di Elizabeth Bishop. Serviva a darsi un’aria impegnata, ma non poteva prendere in giro se stesso. Una volta Seamus Heaney disse che è dovere dello scrittore sedersi alla scrivania. Appena il bambino si addormentava di giorno, Roland si sedeva e spesso si addormentava a sua volta, la testa sopra le braccia.

Il taccuino era aperto come l’aveva lasciato Browne, a destra della macchina da scrivere. Non avrebbe avuto bisogno di spostarlo per fare le foto. La luce proveniente dalla finestra a ghigliottina era fresca e uniforme. I versi erano in cima alla pagina di sinistra: i suoi anni di adolescente trasformati, il corso dell’esistenza deviato. Ricordo, danno, tempo. Decisamente una poesia. Prese in mano il taccuino e Lawrence si lanciò per impossessarsene. Roland lo allontanò dalla sua portata, provocando uno strillo di protesta. Dietro la macchina da scrivere c’era una pallina da pallamano dimenticata a raccogliere polvere. Non aveva mai giocato, ma la strizzava quotidianamente per irrobustire un polso infortunato. Andarono in bagno a pulire la faccia del bambino e lavare la palla. Una cosa su cui Lawrence potesse affondare le gengive. Funzionò. Si coricarono insieme sul letto supini, uno accanto all’altro. Il bambino minuscolo, grosso modo un terzo della lunghezza del padre, succhiava e mordeva. Il passaggio non era come Roland lo ricordava, perché adesso lo leggeva con gli occhi di un poliziotto. Il che non lo migliorava.

Quando decisi di mettere la parola fine lei non mi ostacolò. Sapeva che cosa aveva fatto. Mentre la morte incombeva su tutto il mondo. Ormai era sepolta, ma nelle notti insonni erompe dal buio. Si siede vicina sullo sgabello del piano. Camicetta, profumo, unghie rosse. Intensa come sempre, come se avesse la terra della fossa nei capelli. Ah, quelle scale! Orrendo fantasma. Non vuole saperne di andarsene. Nel momento piú sbagliato, quando ho bisogno di calma. Lei deve restare morta.

Lo rilesse due volte. Era perverso accusare le due donne assieme, ma lo aveva fatto lo stesso: Miss Miriam Cornell, la maestra di pianoforte che si intrometteva nelle sue cose con mezzi sempre nuovi a distanza di tempo e di luoghi; Alissa Baines, nata Eberhardt, moglie adorata, che lo teneva al cappio da dovunque si trovasse. Finché lei non avesse manifestato la propria esistenza, lui non sarebbe riuscito a liberarsi di Douglas Browne. Cosí come si era reso responsabile di aver dato forma al sospetto dell’ispettore, Roland stesso ora si accusava. Dopo la seconda lettura, pensò che la sua grafia era evidentemente diversa da quella sulle cartoline e sul biglietto. Non andava proprio tutto male. Ma andava abbastanza male.

Si girò sul fianco per guardare suo figlio. Ecco una rivelazione alla quale era arrivato con ritardo: tutto considerato, Lawrence era piú un conforto che una seccatura. La pallina aveva perso interesse e scivolò dalla sua presa a due mani. Rotolò sulla coperta, lustra di bava. Il bambino guardava in su. I suoi occhi grigio-azzurri erano un trionfo di concentrazione. Gli artisti medievali dipingevano la visione come una emanazione luminosa della mente. Roland seguí il fascio di luce diretto verso le piastrelle screziate del soffitto di materiale teoricamente ignifugo, e verso un foro irregolare dal quale un tempo pendeva il lampadario del vecchio proprietario. Un gesto fiducioso in una stanza bassa di tre metri per meno di quattro. Poi però lo vide, giusto sopra di loro in quel momento, un ragno dalle zampe lunghe diretto a testa in giú verso un angolo della camera. Straordinaria determinazione in una testolina cosí piccola. Si fermò, dondolandosi su zampe sottili come capelli, ondeggiando al ritmo di una melodia segreta. Esisteva un’autorità in grado di spiegare che cosa stesse facendo? Intorno non c’erano predatori da ingannare, nessun altro ragno da attrarre o intimorire, niente che potesse ostacolarlo. Eppure quello aspettava, danzando sul posto. Quando il ragno riprese a muoversi, l’attenzione di Lawrence si era già spostata. Girò il testone sproporzionato e vide suo padre, e allora le gambe presero a muoversi in spasmi, ora piegate ora tese, e le braccia ad agitarsi. Una fatica fisica premeditata. Ma l’intenzione era di comunicare, di chiedere anzi. Gli occhi restavano fissi su quelli di Roland mentre continuava a scalciare, prima di entrare in uno stato di attesa accompagnata da un mezzo sorriso. Allora, che te ne pare? Voleva farsi ammirare per le sue gesta. Perché un neonato di sette mesi si esibisse, era necessario che avesse idea di altre menti analoghe alla sua, e di che cosa potesse significare essere sbalorditi, di quanto fosse desiderabile e soddisfacente guadagnarsi l’ammirazione di un altro. Impossibile? Eppure, eccolo lí. Troppo complicato sviscerare l’argomento.

Roland chiuse gli occhi e si abbandonò a una sensazione di lenta vertigine. Oh, dormire adesso, se avesse dormito anche lui, se avessero potuto dormire insieme qui, nel letto, anche solo per cinque minuti. Ma a Lawrence gli occhi chiusi del padre suggerivano l’immagine di un universo che si contrae nella gelida oscurità, lasciando lui, ultima creatura rimasta, a rabbrividire reietta su un arenile deserto. Inspirò profondamente prima di lanciare un urlo, un desolato vagito penetrante che comunicava un senso di abbandono e angoscia. Per gli umani afasici e inermi, gran parte della potenza dipende dalla manifestazione violenta di emozioni estreme. Una modalità primitiva di tirannia. I tiranni del mondo sono spesso paragonati a infanti. Le gioie e i dolori di Lawrence erano separati da un velo finissimo. Forse neppure. Dovevano essere ravvolti insieme ben stretti. Quando Roland si fu alzato ed ebbe raggiunto la cima delle scale con il bambino in braccio, la contentezza era già tornata a regnare sovrana. Lawrence si teneva appeso al lobo dell’orecchio del padre. Mentre scendevano, scandagliò le volute del padiglione con stoccate maldestre.

Non erano nemmeno le dieci del mattino. La giornata si presentava lunga. Lo era già. In ingresso, la scia bagnata di scarpe sporche sulle piastrelle geometriche di qualità mediocre lo riportavano a Browne. Sí, andava decisamente male. Ma da lí bisognava partire. Eliminare. Con la mano libera afferrò un mocio, riempí un secchio e pulí lo sporco, allargandolo su una superficie piú vasta. È cosí che perlopiú si rimedia alla sporcizia, dilatandola fino a farla sparire alla vista. La stanchezza gli trasformava tutto in metafora. Il tran tran domestico lo rendeva ostile e refrattario a pretese e lusinghe della vita del mondo esterno. Due settimane prima si era verificata un’eccezione. Gli eventi internazionali si erano insinuati nel suo passato. Nel corso di un raid su Tripoli, degli aerei americani avevano distrutto la sua vecchia scuola elementare senza riuscire a uccidere il colonnello Gheddafi. Il fatto era che leggere la trascrizione di un discorso di Reagan, Thatcher o dei suoi ministri faceva sentire Roland escluso, e colpevole di essersi distratto. Ma questo era il momento di mettere giú la testa e restare concentrato sui compiti che si era dato. Pensare di meno aveva un suo valore. Affrontare la stanchezza, e badare alle cose essenziali: il bambino, la casa, la spesa. Non vedeva un giornale da quattro giorni. La radio in cucina restava sempre a volume basso, e utilizzava talvolta una voce pacata ma carica di virile insistenza per richiamarlo con le buone all’ascolto. Si sforzava di ignorarla passando da quelle parti con secchio e mocio. Questa è per te, mormorava la radio. Sommosse in diciassette penitenziari. Quando ancora frequentavi il mondo, questo era esattamente il genere di cose che ti interessava… Un’esplosione… nuovi sviluppi a seguito di… le autorità svedesi riferiscono della presenza di materiale radioattivo… Roland affrettò il passo. Non ti fermare, non stare ad annuire, non chiudere gli occhi.

Dopo l’ingresso, si dedicò alla cucina mentre Lawrence seduto nel seggiolone mangiava e giocava con una banana sbucciata. La pulizia di tavolo-e-acquaio fu grosso modo conclusa. Portò Lawrence di sopra. Nelle due camere da letto l’ordine da lui imposto era di tipo cosmetico, ma la deriva nel caos risultava se non altro sospesa. Il mondo sembrava un minimo piú ragionevole. Qui, alla fine, in cima alle scale c’era un mucchio di roba pronta per la lavatrice. Alissa non era meglio di lui, in quel senso. Anzi… ma no, oggi non intendeva pensare a lei.

Piú tardi, Lawrence si bevve un biberon intero di latte e si addormentò, e Roland andò nella sua stanza, la porta accanto. Anziché dormire, aveva in mente qualche correzione alla sua poesia sulla mancanza di sonno. Glamis. Il tono era discreto – doveva esserlo per forza perché non ne sapeva abbastanza – c’erano di mezzo i Troubles. Nell’84 aveva passato qualche giorno a Belfast e Derry con Simon, un amico irlandese di Londra, che si era arricchito di recente con una catena di centri fitness, ed era un idealista. L’idea di Simon era di aprire alcune scuole di tennis per bambini, sfidando la divisione settaria. Roland avrebbe coordinato gli allenatori. Si misero a cercare sedi e fondi locali. Erano due ingenui, due idioti. Qualcuno li pedinava, o cosí pensavano loro. In un pub di Knockloughrim, un tizio in sedia a rotelle – gambizzato, si convinsero – suggerí loro di «stare all’occhio». L’accento misto di Ulster e Londra di Simon suscitava indifferenza ovunque. Nessuno era molto interessato al tennis per bambini. Passarono sei interminabili ore trattenuti a un posto di blocco da militari britannici che non credevano alla loro storia. Quella settimana Roland quasi non chiuse occhio. Pioveva, faceva freddo, si mangiava da cani, le lenzuola dell’albergo erano bagnate, fumavano tutti come ciminiere e avevano un colorito infame. Lui si aggirava come in un incubo, ricordando costantemente a se stesso che la paura che provava non era psicosi. Ma di fatto lo era. Nessuno li toccò, né minacciò di farlo.

Temeva che la sua poesia richiamasse troppo Punizione di Heaney. Come il corpo di una donna preservato per secoli in una torbiera avesse evocato le sue «sorelle traditrici» irlandesi, vittime imbrattate di pece per aver frequentato il nemico, mentre il poeta stava a guardare, inorridito e complice nella sua capacità di comprendere. Che cosa poteva mai avere da dire sui Troubles un forestiero, un inglese impegnato nella causa sí e no da una settimana? L’idea nuova che gli era venuta era proprio quella: deviare la poesia verso il tema della sua ignoranza e dell’insonnia. Confessare quanto si era sentito perduto e impaurito. Ora però sorgeva un nuovo problema. La versione dattiloscritta che aveva di fronte era stata tra le mani di Browne. Roland lesse il titolo e, sentendo nella testa la voce monocorde dell’ispettore, le parole Glamis ha ucciso il sonno lo disgustarono. Fiacco, pretenzioso, clandestino a bordo della nave di Shakespeare. Dopo una ventina di minuti mise da parte la poesia per concentrarsi sulla sua ultima idea. Aprí il taccuino. Il pianoforte. Amore, ricordo, danno. Ma l’ispettore era stato anche lí. In sua presenza, la privacy era stata violata. Il patto fiducioso tra pensiero e pagina, tra idea e mano, era stato infranto. O contaminato. Un intruso, una presenza ostile, lo aveva reso sprezzante nei riguardi delle sue stesse frasi. Si era visto costretto a leggersi attraverso gli occhi di un altro e a lottare contro un probabile travisamento delle sue parole. L’imbarazzo era una condanna a morte per un taccuino.

Lo scostò con la mano e si alzò, ricordando le sue circostanze attuali e tutto il loro peso. Quanto bastava per farlo rimettere seduto. Pensaci bene. Alissa se n’era andata solo da una settimana. Basta debolezze! Tante capziosità quando avrebbe dovuto mostrarsi robusto. Un’autorità in campo poetico aveva detto una volta che scrivere una buona poesia era una fatica fisica. Lui aveva trentasette anni, era forte, energico e comunque padrone di quel che aveva scritto. Il poeta non si sarebbe lasciato scoraggiare dal poliziotto. Gomiti puntati sulla scrivania, mento nelle mani, si inflisse una ramanzina di questo tenore finché Lawrence non si svegliò e cominciò a strillare. Per quella giornata, addio lavoro.

Nel primo pomeriggio, mentre vestiva il bambino per portarlo a fare un po’ di spese, il chiasso di alcuni uccelli che litigavano nelle grondaie sottotetto sul retro della casa gli suggerí un’idea. Di sotto, con Lawrence di traverso sotto un braccio, controllò il calendario che teneva accanto al telefono dell’ingresso, in cima a una pila di elenchi telefonici. Non si era accorto che fosse già maggio. Poiché era sabato, doveva essere il 3. Era dalla mattina che in casa faceva sempre piú caldo. Aprí una finestra al piano terra. Che entrassero pure i ladri mentre era a far compere. Non avrebbero trovato niente da rubare. Si sporse fuori. Una farfalla, una pavonia, si scaldava al sole sui mattoni del muro. Il cielo che aveva ignorato per giorni era terso, l’aria odorava forte dell’erba tagliata del vicino. Lawrence poteva uscire senza la tutina pesante.

Roland non era del tutto disteso quando si trovò fuori di casa con Lawrence nel passeggino. Ma la sua vita soffocata gli pareva meno importante. Ce n’erano altre, di vite, e problemi piú grandi. Procedendo, si sforzò di esibire un’indifferenza spigliata; se hai perso una moglie, allora fanne a meno, oppure cercatene un’altra, o aspetta che torni la tua – non esistevano tante mezze misure. Il trionfo della saggezza stava nel non prendersela troppo. Lui e Lawrence ce l’avrebbero fatta. L’indomani andavano a cena da amici simpatici che stavano a dieci minuti a piedi da casa. Il bambino si sarebbe addormentato sul divano, protetto da una barriera di cuscini. Daphne era una sua vecchia amica e confidente. Lei e Peter cucinavano in modo eccellente. Avevano tre figli, uno dei quali dell’età di Lawrence. Altri amici si sarebbero fatti vivi. Dovevano essere curiosi dei nuovi sviluppi. La visita di Douglas Browne, il suo stile di indagine, la fossa improvvisata nella New Forest, la scandalosa invadenza, la piccola macchina fotografica in tasca, quello che aveva detto il suo sergente – sí, Roland intendeva riformulare tutto ciò trasformandolo in una commedia di costume. Browne poteva diventare Dogberry, lo sbirro di Molto rumore per nulla. Sorrise tra sé diretto ai negozi e immaginando l’ilarità degli amici – l’avrebbero ammirato per la sua capacità di recupero. Per certe donne, un uomo che badi a un figlio da solo è una figura affascinante, per non dire eroica. Gli uomini lo avrebbero visto come un babbeo. Lui comunque era abbastanza fiero di sé, del bucato che in quel momento girava in lavatrice, del pavimento pulito in ingresso, del bambino sereno e ben nutrito. Voleva comprare dei fiori che aveva visto qualche giorno prima dentro un gran secchio di zinco. Due mazzi di tulipani rossi per il tavolo di cucina. Il negozio era poco piú avanti, piú un’edicola-emporio che non un fioraio, e mentre c’era, si sarebbe anche preso un giornale. Era pronto a tuffarsi nel turbinio del vasto mondo. Lawrence permettendo, avrebbe letto qualcosa al parco.

Risultava impossibile comprare un giornale senza vedere il titolo di prima pagina. Nube radioattiva raggiunge il Regno Unito. Aveva già sentito nel brusio della radio in cucina certi frammenti riguardo alla notizia dell’esplosione. Mentre aspettava alla cassa che gli confezionassero i fiori, si domandò come fosse possibile sapere una cosa, seppure in termini molto vaghi, e al tempo stesso negarla, rifiutarla, girarci attorno, e infine godersi il lusso di esserne scioccato nel momento della rivelazione.

Manovrò il passeggino fuori dal negozio e proseguí verso le altre commissioni. La normalità della via aveva un che di sinistro, come una scena al rallentatore. Aveva creduto di potersi imboscare, ma il mondo era venuto a stanarlo. Non lui. Lawrence. Un uccello predatore industriale, un’aquila spietata, al servizio della macchina del fato, era calata a strappare il bambino dal nido. E intanto il genitore idiota, virtuosamente impegnato con i piatti della colazione nell’acquaio, con il cambio delle lenzuola nel lettino, e con i tulipani da mettere in cucina, si era distratto e aveva guardato altrove. No, peggio, aveva deciso di guardare altrove. Pensava di essere immune, perché lo era sempre stato. Immaginava che fosse il suo amore a proteggere il bambino. Ma nel momento in cui scattano, le emergenze pubbliche diventano fattori livellanti e non guardano in faccia nessuno. Bambini compresi. Roland non aveva alcuna dispensa speciale. C’era dentro come tutti gli altri, e avrebbe dovuto mettersi in ascolto degli annunci pubblici, delle rassicurazioni inaffidabili fornite dalle autorità che, tradizionalmente, si rivolgevano ai cittadini in tono paternalistico. Quello che funzionava per la massa secondo l’idea che poteva avere un politico, aveva buone probabilità di non funzionare per il singolo individuo, specialmente per lui. Ma adesso lui era la massa. E sarebbe stato trattato per quell’idiota che dimostrava da sempre di essere.

Si fermò accanto a una cassetta postale. Il suo rosso pittoresco e le insegne regali di Giorgio V erano ormai le vestigia di un tempo passato, o della risibile fiducia in una continuità mantenuta attraverso i messaggi postali. Roland sistemò i fiori nella borsa appesa al manico del passeggino e aprí il giornale per rileggere il titolo di prima pagina. Il tono era da fantascienza insulsa, fiacca e apocalittica. Naturalmente. La nube aveva sempre saputo dove era diretta. Per arrivare lí dall’Ucraina sovietica aveva dovuto attraversare altri paesi meno rilevanti. Una questione locale. Lo sbalordiva constatare quanto già ne sapeva, di quella storia. L’incidente in una centrale nucleare, l’esplosione e l’incendio in una remota località chiamata Černobyl´. Una traccia di passata normalità sotto forma di sommosse carcerarie persisteva annidata a fondo pagina. Sotto il giornale, Roland aveva uno scorcio della testa lanuginosa e semicalva di Lawrence che roteava seguendo il tragitto di ogni passante. Il titolo non era allarmante quanto il testo sovrapposto in corpo minore. «Le autorità sanitarie escludono l’esistenza di qualsiasi pericolo per la popolazione». Ma certo. La diga reggerà. La malattia non è destinata a diffondersi. Il presidente non è gravemente malato. Dalle democrazie alle dittature, la calma, soprattutto la calma.

Il suo cinismo era una buona forma di difesa. Lo induceva a prendere provvedimenti che non lo avrebbero fatto sentire un mero componente della massa anonima. Il suo bambino ce l’avrebbe fatta. Lui era un uomo preparato e sapeva come comportarsi. La farmacia piú vicina era a meno di cento metri da lí. Al banco delle ricette fece dieci minuti di coda. Lawrence era inquieto; si agitava, inarcava la schiena contro le cinghie di sicurezza del passeggino. Come solo i bene informati sapevano, lo ioduro di potassio protegge la vulnerabile tiroide dalle radiazioni. I bambini in particolare erano soggetti a rischio. La farmacista, una signora cordiale, sorrise e si strinse stoicamente nelle spalle, come avrebbe potuto fare commentando una giornataccia di pioggia battente. Esaurito. Già dalla sera prima.

– È la follia del momento, caro.

In altre due farmacie gli dissero la stessa cosa, ma meno gentilmente. Un vecchio in camice bianco reagí seccato: non aveva visto il cartello sulla porta? Poco oltre, lungo il tragitto, Roland comprò sei bottiglie d’acqua da un litro e mezzo e una borsa abbastanza resistente per contenerle. I serbatoi idrici dovevano essere contaminati, e l’acqua del rubinetto andava evitata. Si fermò a un ferramenta per acquistare numerosi teli di plastica e rotoli di nastro adesivo.

Al parco, mentre Lawrence stringeva nel pugno un pezzo della seconda banana di quella giornata e poi si addormentava, Roland scorse le pagine del giornale e si formò un primo quadro della situazione. La nube invisibile si trovava a sessanta miglia. Alcuni studenti britannici in arrivo a Heathrow da Minsk presentavano livelli di irradiamento cinquanta volte superiori al normale. Minsk stava a duecento miglia dall’incidente. Il governo polacco sconsigliava il consumo di latte e di prodotti caseari. I primi a rilevare la fuga radioattiva erano stati gli svedesi, a settecento miglia di distanza. Dalle autorità sovietiche non arrivavano avvertenze di sorta alla popolazione riguardo a cibi e bevande contaminate. Da noi è escluso che possa succedere. Peccato che invece fosse già successo. La fuga radioattiva di Windscale era stata tenuta segreta. Il terzo segretario all’ambasciata russa di Stoccolma aveva ricevuto l’incarico di chiedere alle autorità svedesi come gestire un incendio di grafite. Gli svedesi non avevano risposte e suggerirono ai russi di rivolgere la domanda agli inglesi. Non trapelò altro. Francia e Germania avevano dichiarato che non poteva esserci pericolo per la popolazione. Meglio comunque non bere latte.

Nell’inserto centrale, una sezione in dettaglio della stazione nucleare illustrava le circostanze dell’incidente. Lo colpí che un giornale potesse saperne tanto in cosí poco tempo. Altrove si leggeva degli appelli allarmati che gli esperti da molto tempo lanciavano su reattori di quel tipo. A fondo pagina, un elenco delle centrali britanniche grosso modo simili. Un editoriale sosteneva che era arrivato il momento di passare all’eolico. Un commentatore si domandava che fine avesse fatto la glasnost di Gorbačëv. Una truffa sin dal principio. Qualcuno, nella pagina dedicata alle lettere al direttore, affermava che dovunque ci sia di mezzo l’energia nucleare, che sia a est o a ovest, ci saranno menzogne ufficiali.

Dall’altra parte dell’ampio percorso asfaltato che attraversava il parco, su una panchina come la sua una donna leggeva un giornale piú popolare. Roland lesse di sfuggita il titolo di prima pagina. Meltdown: è la Catastrofe! Tutta quella storia con il suo accumulo di dettagli stava cominciando a dargli la nausea. Come ingozzarsi di dolci. Avvelenamento da radiazioni. Due donne gli passarono accanto sospingendo carrozzine all’antica ben molleggiate. Sentí una delle due pronunciare la parola «emergenza». Si percepiva la sensazione vagamente euforica che si diffonde quando l’argomento di tutti è uno solo. L’intera nazione si univa compatta attorno alla propria inquietudine. L’impulso ragionevole suggeriva la fuga. Se avesse avuto i soldi, avrebbe preso in affitto qualcosa in un posto sicuro. Ma dove? O comprato un biglietto aereo per gli Stati Uniti, Pittsburgh magari, dove aveva degli amici, o Kerala, dove lui e Lawrence potevano tirare avanti con poco. Che impressione ne avrebbe avuto l’ispettore Browne? Quel che gli ci voleva, pensò Roland, era una chiacchierata con Daphne.

Il meteo sull’ultima pagina del suo giornale prometteva brezza da nord-est. Altra nube in arrivo. Il suo primo dovere era portarsi a casa le confezioni d’acqua in bottiglia, e mettersi a sigillare le finestre. Continuare a tenere il mondo lontano, questo doveva fare. La distanza era di una ventina di minuti a piedi. Mentre estraeva dalla tasca le chiavi di casa, Lawrence si svegliò. Senza alcun motivo, come fanno i neonati, attaccò a strillare. Il trucco era prenderlo in braccio il prima possibile. Un’operazione faticosa e maldestra, tra cinghie da slacciare, bambino urlante e paonazzo da sollevare, passeggino da recuperare e spingere in casa insieme ad acqua, fiori e teli di plastica. Appena entrato la vide, per terra, la parte scritta rivolta in su, un’altra cartolina di Alissa, la quinta. Piú parole, questa volta. Ma la lasciò dov’era e si diresse in cucina con Lawrence e le cose che aveva comprato.

Capitolo secondo

Lui e i suoi arrivarono a Londra dal Nord Africa nella tarda estate del 1959. Circolava voce di un’ondata di caldo definito «afoso» – parola che Roland non aveva mai sentito – a poco piú di 30 gradi di temperatura. Lui si manteneva sprezzante, fiero oriundo di un posto dove la luce di metà mattina è di un bianco accecante, dove il caldo ti picchia in faccia rimbalzando da terra e ammutolisce anche le cicale. Avrebbe potuto raccontarlo ai suoi parenti. E invece lo raccontava a se stesso. Qui, le strade nei pressi dell’alloggio della sua sorellastra Susan, a Richmond, erano belle ordinate e suggerivano un’idea di stanzialità. Colossali pavimentazioni e cordoli in pietra, troppo pesanti per essere sollevati o rubati. Strade nere levigate e sgombre di terra e di escrementi. Niente cani, cammelli, asini, niente grida, clacson pigiati per mezzo minuto di seguito, niente carretti stracarichi di meloni o di datteri ancora attaccati ai rami di palma, o blocchi di ghiaccio che andavano fondendo sotto teli di iuta. Nessun odore di cibo nella via, nessun fischio, sferragliamento, nessun puzzo di olio e gomma bruciati da sotto i tendoni di officine dove pressavano vecchi pneumatici per ricavarne di nuovi. Niente richiami alla preghiera nel canto dei muezzin dai loro altissimi minareti. Qui, la superficie pulita della strada era leggermente curva, come se ci fosse sepolto un enorme tubo nero quasi del tutto invisibile. Serviva a far defluire la pioggia, gli spiegò suo padre, il che aveva un senso. Roland notò i massicci tombini di ferro lungo scoli di pietra mai intasati. Tanto lavoro per pochi metri di una strada modesta, e nessuno che ci facesse caso. Quando provò a spiegare a sua madre l’idea del tubo nero, Rosalind non capí. Il Tubo, the Tube, per lei era la ferrovia, ma quella sotterranea non arrivava fino a Richmond. Lungo la porzione visibile del suo tubo nero, il traffico procedeva scorrevole, come senza fatica. Nessuno cercava di superare nessuno.


Verso metà pomeriggio del loro primo giorno completo «a casa», Roland andò con suo padre, il capitano Robert Baines, ai negozi inglesi. La luce era dorata, e densa come melassa. I colori dominanti, certi rossi e verdi carichi – i famosi autobus e le sorprendenti cassette postali sovrastate da vertiginosi platani e ippocastani e circondate piú in basso da siepi, prati, margini erbosi, erba che cresceva tra le crepe del selciato. Il rosso e il verde, diceva sua madre, non si dovrebbero mai vedere. Quei colori dissonanti si associavano alla sua ansia, a una tensione all’altezza delle spalle che lo obbligava a camminare curvo in avanti. L’indomani lui e i suoi avrebbero fatto settanta miglia da Londra, per andare a prendere visione della sua nuova scuola. Il semestre non iniziava che parecchi giorni dopo. Gli altri ragazzi non c’erano ancora. Di questo era sollevato, perché il pensiero di incontrarli gli faceva torcere le budella. La parola «ragazzi», nella sua accezione collettiva, conferiva al gruppo una supremazia, un potere brutale. Quando poi suo padre li definiva «giovanotti», nella sua mente diventavano piú alti, coriacei, sconsideratamente forti. In una cittadina a sei miglia dalla sua scuola – la sua scuola – lui e i genitori sarebbero andati a comprare l’uniforme da un fornitore autorizzato. Anche quella prospettiva gli dava il mal di pancia. I colori della scuola erano il giallo e l’azzurro. La lista comprendeva una tuta da lavoro, stivali di gomma, due tipi diversi di cravatta, due tipi diversi di giacca. Non aveva detto ai suoi genitori che non aveva idea di cosa ci si facesse con quegli indumenti. Non voleva deludere nessuno. Chi avrebbe saputo dirgli a che serviva una tuta da lavoro, che cos’erano gli stivali di gomma, che cosa un blazer, che s’intendesse per «tweed spigato con toppe in pelle», e quando era il momento giusto di indossare tutto ciò e di toglierlo?


Non aveva mai portato una giacca. D’inverno, a Tripoli, qualche volta metteva un maglione lavorato ai ferri da sua madre, con un motivo a intrecci sul davanti. Due giorni prima di salire a bordo dell’aereo a doppia elica che li aveva portati a Londra passando per Malta e per Roma, suo padre gli aveva insegnato come si fa il nodo alla cravatta. E, in soggiorno, Roland aveva ripetutamente dimostrato a padre e madre di saperlo fare a sua volta. Non era facile. Roland temeva che in mezzo agli altri ragazzi, a centinaia di giovanotti grandi e grossi, schierati in fila davanti a specchi giganteschi come quelli che aveva visto in una fotografia del palazzo di Versailles, non avrebbe ricordato come annodarsi la cravatta. Si sarebbe trovato da solo, deriso e angosciato.


Erano usciti a comprare le sigarette di suo padre anche per fuggire dalle due piccole stanze in cui Susan viveva con il marito e la figlia piccola. Sua madre aveva già ritirato le brandine e ora passava l’aspirapolvere sulla moquette senza polvere. La piccola non smetteva un momento di piangere per via dei due molari che stava mettendo. Era appena giusto che «gli uomini» si levassero di torno. Camminarono fianco a fianco per un quarto d’ora. Nel punto in cui la loro via incrociava la strada principale cresceva l’enorme ippocastano che inaugurava il viale verso il primo dei negozi ai quali erano diretti. Roland era abituato ai grandi eucalipti dalle aride foglie fruscianti e la corteccia sfaldata in placche, alberi che parevano sopravvivere al limite della morte per disidratazione. Amava le palme altissime che si curvavano verso abissi di cieli azzurri. Ma gli alberi di Londra erano maestosi e solenni, come la regina, e definitivi, come le cassette postali. Ed ecco un’altra angoscia, peggiore. In confronto, giovanotti, tute da lavoro e il resto non erano niente. Ogni singola foglia di ippocastano, come la linea dell’orizzonte sul Mediterraneo, come le parole scritte sulla lavagna della scuola elementare di Tripoli, custodivano un segreto che a stento era in grado di confidare a se stesso. Non ci vedeva bene. Fino all’anno prima, riusciva a rimediare rovinandosi gli occhi. Adesso non funzionava piú. C’era qualcosa che non andava e lui non riusciva a sopportare il pensiero di come sarebbe potuta finire. Cecità. Una malattia e un fallimento allo stesso tempo. Non riusciva a dirlo ai suoi; perché lo terrorizzava l’idea di deluderli. Gli altri ci vedevano bene, e lui no. Era quello il suo inconfessabile segreto. Il proposito era di portare con sé in collegio la propria vergogna e affrontarla da solo.


Ogni ippocastano era un’indistinta parete a strapiombo di verde. A mano a mano che si avvicinavano al primo, le foglie prendevano a configurarsi, ciascuna divaricando con esuberanza la superficie pentalobata. Fermarsi a osservarla da vicino lo avrebbe tradito. Scrutare una foglia non era il tipo di gesto che suo padre considerava apprezzabile.


Quando raggiunsero l’edicola, senza che glielo chiedesse, il Capitano comprò insieme alle sigarette anche una barretta di cioccolato per il figlio. Anni di vita da fuciliere alla caserma di Fort George in Scozia prima della guerra, sottopagato e perennemente affamato, avevano reso il padre di Roland sensibile alla soddisfazione di elargire dolciumi al figlio. Oltre a renderlo severo, un uomo al quale era rischioso disubbidire. Una miscela potente. Roland lo temeva e lo amava. E lo stesso faceva sua madre.


Roland aveva ancora un’età in cui un impasto di cioccolato, caramello al latte, biscotto e schegge di arachide era in grado di dominare i suoi sensi e di cancellare la realtà circostante. Quando riprese coscienza, stavano per entrare in un altro negozio. Birra per gli uomini, sherry per le donne, gazzosa per lui. Piú tardi quel pomeriggio, in televisione, sarebbe passata la partita di calcio miracolosamente trasmessa dallo stadio Ibrox di Glasgow. E l’indomani, un varietà dal London Palladium. In Libia la televisione non c’era, nemmeno si parlava della sua assenza. I programmi radiofonici trasmessi da Londra alle famiglie delle forze armate di stanza all’estero andavano e venivano tra i sibili e i ronzii del casino cosmico. Per Roland e i suoi genitori, la televisione non era una novità. Era un prodigio. Poterla guardare imponeva un festeggiamento. Ci voleva qualcosa da bere.


Ora padre e figlio tornavano sui propri passi dalla rivendita di alcolici carichi di bevande in robusti sacchetti di carta. Quando al viale mancavano ancora cinque minuti e l’edicola era appena alle loro spalle, udirono un forte boato, come il colpo secco di un fucile, tipo quello dei .303 che Roland aveva sentito tante volte al poligono di tiro su al Kilometre Eleven. Quello che Roland vide voltandosi, gli rimase impresso per il resto della vita. Alla fine della quale avrebbe assunto le forme vaghe dell’agonia e le voci mormoranti della sua anima in ritirata. Un uomo in casco bianco, giacca nera e pantaloni azzurri disegnava volando una curva bassa. Poiché procedeva di testa, la sua pareva una scelta, una sfida temeraria e deliberata. Atterrò carponi e crollò di faccia sulla strada per poi strisciare sull’asfalto producendo un suono raschiante. Al momento dell’impatto, il casco gli rotolò via. Dovette viaggiare una decina di metri a dir poco, forse dodici. Dietro di lui, un’utilitaria col parabrezza completamente in frantumi. L’uomo era schizzato sopra il tettuccio. Il rottame di una moto giaceva contorto e capovolto nel fosso. Sull’auto, una donna strillava.


Il traffico si fermò mentre sulla città calava il silenzio. Roland attraversò di corsa la strada dietro a suo padre. Come giovane fuciliere della Fanteria leggera delle Highlands il ventitreenne caporale Baines si era trovato sulla spiaggia presso Dunkerque dove aveva visto tantissima morte, e uomini smembrati dalle bombe, ma ancora vivi. Sapeva che non bisognava spostare il motociclista dalla strada. Avvicinò l’orecchio alla bocca dell’uomo per sentire il respiro e cercò di prendergli il battito tra i capelli incollati alle tempie dal sangue. Roland osservava intensamente. Il Capitano rovesciò l’uomo su un fianco e gli separò le gambe per dargli maggiore stabilità. Si tolse la giacca e la ripiegò per sistemarla sotto la testa del motociclista. Si diressero verso la macchina. Ormai si era radunata una folla. Il capitano Baines non era il solo – a parte i giovanissimi, tutti gli uomini erano stati in guerra e sapevano che cosa fare, pensò Roland. Le portiere anteriori erano aperte, e tre tizi si sporgevano verso l’interno dell’auto. Era opinione diffusa che la donna non dovesse essere spostata. Era giovane, capelli biondi e ricci e camicetta di raso a pois colorati macchiata di sangue. Aveva uno squarcio che le attraversava tutta la fronte. Non stava piú urlando, adesso, ma ripeteva come un automa: – Non ci vedo. Non ci vedo –. La voce ovattata di un uomo arrivò dall’abitacolo dell’auto. – Tranquilla, tesoro. È solo il sangue che ti è colato negli occhi –. Ma lei non smetteva. Roland distolse lo sguardo, frastornato.


Di lí a poco, arrivarono due ambulanze. La donna, che adesso taceva, stava seduta sul gradino del marciapiede con una coperta sulle spalle. Un paramedico le medicava la ferita alla testa. Il motociclista privo di conoscenza era sdraiato in barella, accanto a un’ambulanza. L’interno era di un bianco pastoso, illuminato da luci gialle. C’erano coperte rosse, due letti gemelli e uno spazio in mezzo, come in una cameretta da bambino. Suo padre e altri due uomini si offrirono di dare una mano con la barella, ma non ce ne fu bisogno. Un mormorio di solidarietà si levò dalla folla quando la donna scoppiò a piangere mentre sistemavano anche lei in barella. Le rincalzarono la coperta e la trasportarono alla seconda ambulanza. Roland adesso constatava che le luci azzurre non avevano mai smesso per tutto il tempo di lampeggiare. Di lampeggiare eroicamente.


Quella manciata di minuti fu spaventosa. Nei suoi undici anni di vita non aveva mai conosciuto niente di simile. Fu un’esperienza scomposta, dal carattere onirico. Nel ricordo, gli eventi si sarebbero confusi perdendo sequenzialità. Forse erano corsi prima alla macchina e poi all’uomo steso a terra perché nessun altro si stava occupando di lui. C’era un tempo vuoto, come un sonno, durante il quale erano arrivate le due ambulanze. Le sirene dovevano essere accese, eppure non le aveva sentite. C’era un’auto della polizia, ma lui non l’aveva vista arrivare. Forse era stata una donna tra la folla a svenire e a trovarsi in seguito seduta sul cordolo del marciapiede con una coperta addosso. Forse la donna dell’auto era rimasta al suo posto mentre il paramedico le tamponava la ferita sanguinante. La luce gialla all’interno dell’ambulanza poteva ben essere un riflesso della luce del sole. Non era facile come con una foglia di ippocastano esaminare la precisione del dettaglio della memoria. L’uomo sparato in aria, quello era incontestabile. Come pure la modalità del suo atterraggio con il casco bianco che gli rotolava via, verso il ciglio erboso della strada. Ma ciò che rimase piú impresso a Roland, ciò che gli fece la differenza, fu quanto accadde dopo che i portelloni posteriori furono chiusi e le ambulanze partirono per inserirsi nel traffico paralizzato. Gli venne da piangere. Si allontanò per non farsi vedere dal padre. Roland era in pena per il motociclista e la donna, ma il punto non era quello. Le sue erano lacrime di gioia, scaturite da un’ondata di comprensione che sul momento non avrebbe ancora saputo definire in questi termini: quanto era amorevole e buona, la gente, quanto era civile un mondo in cui c’erano ambulanze che arrivavano subito da chissà dove, e dovunque ci fosse dolore fisico e sofferenza. Sempre all’erta, un intero sistema, appena sotto la superficie del quotidiano, in vigile attesa, pronto in tutta la sua abilità e competenza a precipitarsi in soccorso, inserito in una piú vasta rete di civiltà ancora da scoprire. In quel momento, mentre le ambulanze se ne andavano portandosi via il baccano delle sirene, a lui parve che ogni cosa funzionasse, e che fosse buona e amorevole e giusta. Non aveva afferrato che stava per lasciare casa sua per sempre, che per i prossimi sette anni tre quarti della sua vita si sarebbero svolti a scuola e che a casa sarebbe ormai stato un ospite in visita. E che dopo la scuola sarebbe venuta l’età adulta. Sentiva di essere sulla soglia di una vita nuova ed era convinto che il mondo fosse un luogo solidale ed equanime. Che lo avrebbe abbracciato e protetto benevolmente, adeguatamente, e che niente di brutto, o davvero brutto, sarebbe mai capitato né a lui né a nessun altro, almeno per molto tempo.


La folla cominciava a disperdersi, ciascuno tornava alla propria quotidianità. A quel punto Roland notò tre poliziotti fermi accanto all’auto di pattuglia. Il braccio del capitano Baines era incrostato di sangue secco color ruggine dalle dita al gomito. Si tirò giú la manica mentre con Roland andava a recuperare la giacca piegata dal fosso. C’era del sangue sulla fodera di rasatello grigio. Attraversarono la strada con le borse e si fermarono mentre il padre metteva la giacca. Spiegò che doveva nascondere il sangue ai poliziotti. Non gli andava di essere convocato in tribunale come testimone. Lui e la madre di Roland avevano un volo da prendere per tornare a casa la settimana dopo. Quel richiamo al fatto che non avrebbe viaggiato con loro interruppe l’epifania di Roland. Raggiunsero l’appartamento della sorella camminando in silenzio. Piú tardi si uní a loro Keith, il marito di lei, trombonista nella banda dell’esercito. Mentre la piccola finalmente dormiva, bevvero birra, sherry o gazzosa e guardarono la partita in tv con le tende tirate.


Due giorni dopo Roland e i suoi genitori presero un treno da Liverpool Street a Ipswich. Una volta usciti dalla letargica stazione vittoriana attesero un autobus 202, come da indicazioni della segretaria del preside. Arrivò dopo quarantacinque minuti; un double-decker deserto, in un insolito bicolore crema e amaranto. Salirono a sedersi di sopra dove il Capitano poteva fumare. Roland prese posto accanto al finestrino che era stato aperto per via del caldo. Percorse una lunga via dritta, tra misere villette a schiera in mattoni rosso scuro. Nei pressi di un cantiere svoltarono in una viuzza che costeggiava il litorale. All’improvviso la vista si aprí sul fiume Orwell che con l’alta marea sembrava azzurro e pulito. Lui dava le spalle ai suoi genitori, perciò si stropicciò gli occhi nella speranza di vederci meglio. In lontananza, a monte, c’era una centrale elettrica. La strada poco trafficata si snodava attraverso un acquitrino di vasche fangose il cui odore di sale e di marcio saliva dolciastro nell’aria tiepida di fine estate e invadeva l’autobus. Sulla sponda lontana del fiume adesso iniziavano i prati e i boschi. Vide un barcone dagli alti alberi e dalle vele dello stesso colore del sangue che il Capitano aveva sulla manica. Roland indicò l’imbarcazione alla madre, ma lei si girò troppo tardi per riuscire a vederla. Era un paesaggio nuovo per lui, ne era incantato. Per qualche minuto dimenticò lo scopo del viaggio mentre l’autobus si inerpicava per una salita, passava accanto a una torre antica, e il fiume spariva alla vista.


Il controllore salí la scaletta per informarli, nel cantilenante accento locale, che la prossima fermata era la loro. Scesero nell’ombra fresca e fitta di un grosso albero fronzuto. Cresceva a bordo strada, vicino a una panchina di legno. Non era un ippocastano, ma ricordò a Roland il suo segreto e il piacere del tragitto in autobus fu subito dimenticato. Suo padre estrasse dalla giacca la lettera della segretaria per consultare le indicazioni. Superarono un cancello di ferro battuto e la portineria e proseguirono sul vialetto. Nessuno parlava. Roland prese la mano di sua madre. Lei gli strinse forte la sua. Gli parve che fosse preoccupata e cercò di farsi venire in mente qualcosa di interessante e di affettuoso da dire. Ma l’unica cosa che aveva in testa, a cui non poteva far cenno, era quello che li aspettava, invisibile, al di là degli alberi. La separazione imminente. Era suo dovere proteggerla ancora per qualche minuto. Superarono prima una chiesa normanna e, in un avvallamento della strada, un piccolo edificio intonacato di rosa dal quale provenivano i versi e l’odore di maiali. Appena la strada prese a salire, a circa trecento metri al fondo di una distesa erbosa, comparve una costruzione imponente di pietra grigia, con colonnato, corpi laterali stondati e comignoli alti. La Berners Hall era un bell’esempio di architettura palladiana inglese, come Roland avrebbe letto un giorno da qualche parte. Ben distanziate, seminascoste da altissime querce, c’erano le scuderie e la torre idrica.


Si fermarono a guardare. Il Capitano indicò l’edificio e disse, inutilmente: – Eccolo lí.


Sapevano che cosa intendesse. O meglio Rosalind Baines lo sapeva benissimo, e suo figlio lo intuiva molto vagamente.


In Inghilterra pochi sapevano della Libia. E meno di pochi sapevano del contingente britannico di stanza in Libia, avanzo delle vaste campagne militari condotte nel deserto durante la Seconda guerra mondiale. In politica estera la Libia era un luogo sperduto. La famiglia Baines era vissuta per sei anni in un oscuro crepaccio della storia. Una bella vita, secondo Roland. C’era una spiaggia nota come Piccolo Capri dove le famiglie si incontravano di pomeriggio dopo il lavoro e la scuola. Ufficiali da un lato, altri ranghi un po’ piú in là. I migliori amici del capitano Baines erano uomini come lui che avevano combattuto e fatto carriera durante la guerra. Gli ufficiali di Sandhurst e le loro famiglie appartenevano a un mondo diverso. Gli amici e le amiche di Roland e Rosalind erano esclusivamente figli e mogli degli amici del Capitano. I loro punti di riferimento erano questi: la spiaggia, la scuola elementare di Roland che aveva sede all’interno della caserma di Azizia nel settore meridionale della città – bersaglio che un giorno gli Americani avrebbero distrutto; la YMCA nel cuore di Tripoli, presso la quale lavorava Rosalind; l’officina per mezzi blindati e corazzati leggeri del campo di Gurji dove lavorava il Capitano; lo spaccio della NAAFI dove si rifornivano del necessario. A differenza di quasi tutte le altre famiglie, i Baines compravano carne e verdura anche al suq di Tripoli. Rosalind soffriva di tremende nostalgie di casa, sferruzzava innumerevoli golfini per neonati che da neonati non avrebbe mai conosciuto, confezionava regali di compleanno con frequenza pressoché settimanale, scriveva lettere ai parenti che si concludevano di solito con la frase: «Ora devo correre a ritirare la posta».


Le scuole medie non c’erano, perciò al compimento degli undici anni, Roland si sarebbe dovuto trasferire in Inghilterra. Il capitano Baines riteneva che suo figlio fosse legato alla madre in modo eccessivo e poco adatto a un figlio maschio. L’aiutava nelle faccende di casa, dormiva con lei quando il Capitano si assentava per esercitazioni tattiche, le dava la mano, anche a nove anni compiuti. La scelta di Rosalind, se avesse avuto il bene di poter scegliere, sarebbe stata tornare a casa in Inghilterra a una vita normale e iscrivere il figlio in una scuola media locale. L’esercito era in fase di riduzione di organico e offriva pensionamenti anticipati a buone condizioni. Ma suo padre, oltre che generoso e severo, cortese e autoritario, era anche diffidente riguardo a ogni forma di cambiamento prima ancora di aver schierato le ragioni del proprio disaccordo in proposito. E aveva altri motivi per volere Roland lontano. Vent’anni piú tardi, una sera dopo qualche birra, il maggiore (in pensione) Baines disse al figlio che i bambini sono sempre d’intralcio nei matrimoni. Trovare un convitto statale in Inghilterra era un vantaggio per tutti «a 360 gradi».


Rosalind Baines, nata Morley, moglie di un militare, figlia del suo tempo, non dava in escandescenze per la propria mancanza di potere, né si piangeva addosso. Lei e Robert avevano interrotto gli studi a quattordici anni. Lui diventò garzone di macelleria a Glasgow, lei, domestica in una famiglia benestante vicino a Farnham. Quella di una casa linda e ordinata restò la sua passione per sempre. Robert e Rosalind volevano per Roland l’istruzione che a loro era stata negata. Questa, la storia che raccontava a se stessa. Che lui potesse frequentare una scuola solo di giorno e rimanere con lei era un’idea che dovette aver ubbidientemente bandito dalla sua mente. Era una donna minuta, nervosa, un’apprensiva, molto graziosa a detta di tutti. Incline a lasciarsi intimidire, spaventata da Robert quando Robert aveva bevuto, il che succedeva ogni giorno. Lo stato di miglior benessere per lei, il massimo della serenità, era quando si trovava a condurre lunghe conversazioni confidenziali con una persona amica. Allora raccontava aneddoti e rideva volentieri, gorgheggiando sonorità acute e spigliate che al capitano Baines succedeva raramente di sentire.


Roland era una di quelle persone amiche. Durante le vacanze, quando facevano i lavori di casa insieme, lei gli raccontava della sua infanzia nel villaggio di Ash, vicino alla città di guarnigione di Aldershot. Lei e i suoi fratelli usavano dei rametti per pulirsi i denti. Il primo spazzolino l’aveva ricevuto dal suo datore di lavoro. Come tantissimi della sua generazione aveva perso tutti i denti prima dei trent’anni. Nelle vignette dei giornali, si vedeva spesso un personaggio a letto con la dentiera sul comodino da notte, dentro un bicchiere d’acqua. Lei era la prima di cinque figli e aveva passato gran parte dell’infanzia a occuparsi di fratelli e sorelle. La sua preferita era sua sorella Joy che abitava ancora ad Ash. E dov’era la madre mentre Rosalind badava ai bambini? La sua risposta era sempre la stessa, la risposta di una ragazzina mai modificata in età adulta: tua nonna prendeva l’autobus per Aldershot e passava la giornata in giro a guardare le vetrine. La madre di Rosalind era severamente contraria all’uso dei cosmetici. Da adolescente, le rare volte che usciva, Rosalind incontrava l’amica Sybil e andava con lei in un nascondiglio segreto, un sottopasso stradale in fondo al villaggio, per mettersi cipria e rossetto. Raccontò a Roland che a vent’anni, già sposata con Jack, il suo primo marito, e incinta di Henry, il suo primo figlio, era ancora convinta che il bambino le sarebbe uscito dal sedere. La levatrice l’aveva ragguagliata in proposito. E Roland rideva, insieme a sua madre. Non sapeva da dove uscissero i bambini e sapeva che non era opportuno chiedere.


La guerra per Rosalind arrivò da un momento all’altro. Lavorava come aiutante di un vecchio camionista di nome Pop. Facevano consegne di forniture intorno ad Aldershot. Una bomba colpí la strada e l’esplosione scaraventò il veicolo in un fosso. Né lei, né Pop rimasero feriti. Dopo la guerra, Rosalind riprese a lavorare con Pop. A quel punto, Jack Tate era stato ucciso in servizio attivo e lei era madre di due bambini. Henry stava con la nonna paterna. Susan, in un istituto per le figlie dei militari caduti. Durante la guerra il lavoro per le donne non mancava. Nel 1945, tra una corsa e l’altra al deposito militare fuori Aldershot, Rosalind cominciò a notare il bel sergente nella guardiola. Aveva l’accento scozzese, il portamento eretto, e un paio di baffi azzimati. Dopo svariati incontri, lui la invitò a ballare. Rosalind era in soggezione e rifiutò molte volte prima di acconsentire. Si sposarono in gennaio, due anni dopo. L’anno successivo, nasceva Roland.


Del primo marito parlava sempre abbassando la voce. Roland non ci mise molto a capire che davanti a suo padre era meglio non nominare quell’uomo. Aveva un nome che suonava adatto a un eroe: Jack Tate. Era morto dopo essere stato ferito all’addome in Olanda, quattro mesi dopo lo sbarco in Normandia. Prima della guerra era stato un vagabondo. Quando era via, Rosalind e i suoi due figli campavano a spese della parrocchia, vale a dire che erano poverissimi. A volte il poliziotto del paese riportava Jack Tate a casa. Dove era stato? La risposta di Rosalind alla domanda di Roland era invariabilmente la stessa: a dormire sotto i ponti.


Henry e Susan, fratellastro e sorellastra di Roland, erano figure romantiche, distanti, adulti che conducevano le loro vite in Inghilterra, con tanto di lavori, matrimoni, figli. Nel tempo libero, Henry suonava la chitarra e cantava in una band. Susan era stata in famiglia fino ai sei anni di Roland. Ai suoi occhi era bellissima e lui le voleva bene. Ma quelli erano i figli di Jack Tate e c’era un che di proibito che riguardava entrambi e li rendeva indistinguibili. Come mai nel 1941 erano stati mandati a vivere con la madre di Jack, una nonna severa e poco amorevole, negli anni che precedettero la morte del padre? Henry ci era poi rimasto per tutta l’adolescenza fino al servizio militare. Susan invece fu spedita in quel postaccio a Londra, un’istituzione fondata nel diciannovesimo secolo con l’intento di formare personale domestico. Susan si ammalò di un ascesso alla gola e finalmente fu riportata a casa.


Perché Henry e Susan non erano cresciuti con la madre? Queste domande Roland non le rivolgeva nemmeno a se stesso. Facevano parte della nube che incombeva sui rapporti della famiglia. Una nube accettata peraltro come un normale elemento della vita. Per tutta la metà dell’infanzia trascorsa in Libia, nessuno suggerí mai a Roland di scrivere a suo fratello e a sua sorella. Né loro scrissero a lui. A un certo punto gli giunse all’orecchio che il matrimonio di Susan e Keith, il trombonista, era in crisi – e perfino questo era un concetto dai contorni piuttosto sfumati. Susan avrebbe preso un aereo per Tripoli e ci sarebbe rimasta per un po’. Il giorno prima di andare a prenderla al RAF Idris, Rosalind chiamò Roland da parte e gli parlò seriamente. Gli ripeté ogni cosa due volte, come se avesse fatto qualcosa di sbagliato. Non doveva mai e poi mai raccontare a nessuno che lui e sua sorella avevano padri diversi. Se qualcuno glielo chiedeva, doveva dire che suo padre era il padre di Susan. Aveva capito? Annuí, senza capire niente. Quella faccenda adulta e importante era parte della nube familiare. Non parlarne sembrava logico e opportuno.


In principio, subito dopo l’arrivo a Tripoli di Roland e della madre per ricongiungersi al Capitano, la famiglia abitava in un appartamento con due stanze e un minuscolo terrazzo, al terzo piano. Poco lontano c’era il palazzo del re. Il caldo e la cultura diversa della città di Tripoli, insieme alle gite in spiaggia, lo entusiasmarono. Ma qualcosa non funzionava in famiglia, e presto qualcosa smise di funzionare anche nel Roland bambino di sette anni. Incubi accompagnati da grida, il tentativo di lanciarsi dalla finestra della sua stanza durante un episodio di sonnambulismo. A volte i suoi lo lasciavano solo in casa dalle prime ore della sera. Lui se ne stava seduto in poltrona con le ginocchia raccolte al petto, in terrorizzato ascolto di qualunque rumore, e in attesa del loro ritorno.


Poi si ritrovò a passare i pomeriggi in casa di una vicina, una signora simpatica – mezza italiana – che viveva con la figlia, June, coetanea di Roland e presto sua migliore amica. La madre di June faceva la psicologa e doveva essere stata lei a proporre una soluzione pratica al problema. I Baines si trasferirono in una villetta bianca a un solo piano su un terreno agricolo ai margini occidentali di Tripoli. Intorno alla casa crescevano arachidi, melograni, olivi e viti. Se Roland avesse deciso di saltare dalla finestra, sarebbe precipitato di mezzo metro in tutto. Anche il regalo del cucciolo Jumbo poteva essere stato un’idea della psicologa. June e la madre tornarono in Italia e per un po’ Roland fu tristissimo. A risollevarlo fu la vita di campagna. A un miglio di distanza, dove finivano gli oliveti e cominciava il deserto, c’era la base militare di Gurji, presso la quale lavorava il Capitano. A volte Roland ci andava a piedi da solo fino a casa di un compagno di scuola, percorrendo una pista di terra sabbiosa costeggiata da alte siepi di cactus.


In un’altra zona della nube di famiglia abitava la tristezza di sua madre. Per lui era la normalità. Se ne stava acquattata nei suoi toni sommessi, nella sua apprensione, nel mondo in cui ogni tanto smetteva di fare quello che stava facendo e guardava lontano, persa in un ricordo o in un sogno a occhi aperti. Stava nei suoi improvvisi accessi di collera con lui. Ai quali rimediava sempre parlandogli con dolcezza. La tristezza di Rosalind era un legame tra loro. Ogni tre o quattro mesi, per una quindicina di giorni, il capitano Baines si trasferiva con l’unità nel deserto per un’esercitazione sul campo. L’idea era mantenersi pronti per il giorno in cui gli egiziani, sostenuti dai russi, avessero attaccato la Libia da est. I carri armati Centurian, la cui manutenzione era affidata all’officina del Capitano, dovevano essere testati nelle manovre difensive. Roland, che sapeva qualcosa di quegli addestramenti di guerra, si infilava di notte nel letto di sua madre non solo per ricevere conforto, ma anche per darne con la propria sola presenza. Nei suoi confronti era protettivo non meno che bisognoso.


Ma anche di suo padre aveva bisogno. In vecchiaia il capitano Baines divenne incline alla prudenza e vittima di un invalidante ossequio alla disciplina militare. Ma da quarantenne era stato un uomo aperto. Quando i musicisti arabi transitavano dalle parti di casa, lui usciva sulla sabbia con loro e si faceva dare la zukra, la loro cornamusa, per suonare insieme al resto del gruppo. I suoi colleghi militari non avrebbero mai messo la bocca dove era stata la bocca di un arabo. Le escursioni in macchina da solo con il figlioletto di nove anni forse rientravano nel programma di promozione virtú e abilità virili. Raggiungevano un campo di addestramento dove Roland imparò a salire sulla corda e ad arrampicarsi a forza di mani sulla rete. Al poligono di tiro del Kilometre Eleven, si sdraiava accanto a suo padre per guardare nel mirino di un .303 – number four mark one, gli insegnò che doveva dire – in direzione di bersagli lontani addossati a banchi di sabbia. Roland premeva il grilletto e il Capitano assorbiva il rinculo nella propria spalla. Il rumore, il pericolo, la micidialità, era tutto esaltante. Il Capitano prese accordi con un sergente affinché facesse salire Roland su un mezzo blindato e glielo facesse guidare per le scoscese dune di sabbia del campo. Insegnò al figlio il codice Morse e portò a casa due set di chiavi e cento metri di filo spinato. Lo portò in macchina al piazzale da parata di Azizia dove Roland poteva coprire grandi distanze in pattini a rotelle. Il capitano Baines aveva un concetto maschio del nuoto. Insegnò al figlio a tuffarsi, a trattenere il fiato sott’acqua per mezzo minuto e a nuotare a crawl – la definizione di stile libero era buona per le signorine. Alla spiaggia escogitarono assieme un gioco che battezzarono «il record». Il Capitano si portava in mare fino ad avere l’acqua all’altezza del petto e lentamente contava quanto Roland riusciva a mantenersi in equilibrio sulle sue spalle unte di brillantina. Quando il gioco dovette interrompersi, poco prima del loro aereo per Londra, il record stava a una conta di trentadue.


Una volta Roland disse di voler vedere uno scorpione, e allora il Capitano lo portò in giro per il deserto a ovest di Tripoli. Durante quel genere di spedizioni, il padre se ne usciva con: – Tre ottavi? – E Roland strillava: – 0,375! – Oppure il Capitano diceva: – Venti miglia – e Roland procedeva al calcolo mentale – diviso cinque, moltiplicato otto – e annunciava il risultato in chilometri. Il padre lo preparava per l’esame di passaggio alle medie rivolgendogli il tipo di domande che a suo giudizio non potevano non saltare fuori. Non una, invece, nemmeno una.


– Capitale della Germania Ovest?


– Bonn!


– Nome del primo ministro?


– Mr Macmillan!


Accostarono sul ciglio della strada deserta che portava in Tunisia. Procedettero a piedi per una decina di minuti nell’immensa distesa pietrosa con piccoli cacti e boscaglia. Roland non fu affatto sorpreso che sotto il primo sasso che suo padre decise di sollevare ci fosse un grosso scorpione giallo. Aveva la coda erettile e il pungiglione sollevati. Li stava aspettando. Il Capitano lo sospinse temerariamente dentro un barattolo con il pollice. Per una settimana Roland cercò di nutrirlo procurandogli cervi volanti, ma lo scorpione indietreggiava spaventato. Rosalind disse che non riusciva a dormire con quella bestia in casa. Robert se lo portò in ufficio e lo riportò a casa annegato nella formaldeide, dentro il barattolo sigillato. Per anni, Roland immaginò il fantasma dello scorpione che veniva a cercarlo per vendicarsi. Il suo piano era quello di pungerlo su un piede nudo mentre si lavava i denti la sera. L’unico modo per tenerlo a bada era sforzarsi di guardarlo bene e di sussurrargli: – Mi dispiace.


Ma la sua grande avventura formativa era arrivata quando aveva otto anni. Il padre ne fu la figura centrale, come una sorta di antico eroe. Stranamente, Rosalind non c’era. Era la prima volta che lontani rivolgimenti internazionali interferivano con il suo piccolo mondo. Ne aveva una comprensione pressoché pari a zero. Avrebbe imparato in seguito, a scuola, che litigi tra divinità greche potevano avere conseguenze gravi per i comuni mortali.


In tutta l’area del Medio Oriente, andava aumentando la forza politica del nazionalismo arabo il cui nemico diretto erano le potenze coloniali ed ex coloniali europee. Il nuovo Stato ebraico di Israele, fondato su una terra che i palestinesi rivendicavano come propria, costituiva a sua volta una provocazione. Alla fine di luglio il presidente egiziano Nasser decise di nazionalizzare il canale di Suez fino ad allora controllato dal Regno Unito, e diventò l’eroe della causa nazionalista. Si ipotizzò che il sentimento antibritannico avrebbe presto incendiato anche la vicina Libia. Non appena Regno Unito e Francia, alleandosi con Israele, attaccarono l’Egitto per recuperare il controllo del canale, a Tripoli scattarono le dimostrazioni di piazza in favore di Nasser. La folla levò anche striscioni contro il re Idris, accusato di un’eccessiva accondiscendenza nei confronti degli interessi americani ed europei. Londra e Washington decisero di mettere in sicurezza tutte le famiglie britanniche e americane, in attesa di evacuarle.


Che poteva saperne Roland, di tutto questo? Soltanto quel che gli diceva suo padre, e cioè che gli arabi si erano inferociti. Non c’era tempo di chiedersi come mai. Tutti i bambini e le madri dovevano raggiungere immediatamente il piú vicino campo militare per la propria sicurezza. Il caso volle che allo scoppiare della crisi di Suez Rosalind si trovasse in Inghilterra dove era andata a trovare Susan. C’era qualche problema «a casa», di cui Roland non sapeva nulla. Come non seppe chi fosse entrato nella villetta bianca mentre lui era a scuola per preparargli una borsa di vestiti. Di sicuro non il Capitano che era l’ufficiale responsabile dell’evacuazione e aveva perciò ben altro da fare.


L’autobus che dalla scuola elementare lo portava alla caserma di Azizia quel giorno non fermò presso il viottolo che attraversava il giardino di melograni e arrivava alla villa. Proseguí invece per un altro miglio, fino al campo di Gurji. C’erano nidi di mitragliatrici tra sacchi di sabbia nei pressi della guardiola, e blindati leggeri parcheggiati in strada. Soldati armati salutarono sull’attenti il loro autobus che entrava nell’area militare.


Le grosse tende da venti posti erano tutte identiche, ma era scontato che i figli degli ufficiali fossero sistemati in alloggi separati rispetto ai figli di altri ranghi. Le mogli fecero subito squadra per l’allestimento di una cucina, una mensa e un lavatoio improvvisati. Nella successiva settimana non accadde nulla di straordinario. Nessun arabo inferocito e armato fino ai denti attaccò la base per massacrare bambini britannici e le loro madri. Il campo era piccolo, nessuno poteva uscire, e Roland non era mai stato piú felice. Lui e due suoi amici si impadronirono del posto. Impararono a riconoscere l’odore di olio lubrificante sulla sabbia fine e caldissima. Esplorarono le officine meccaniche, parlarono con i capicarro dei mezzi blindati, giocarono a calcio sul campo regolamentare su cui non cresceva un filo d’erba. Si arrampicarono in cima alle torri di guardia per stare con i mitraglieri. I casi erano due: o la disciplina si andava allentando, oppure il timore di un attacco imminente era scomparso. Soldati e ufficiali di servizio – tutti molto giovani – erano disponibili nei loro riguardi. Un sottotenente portò Roland in giro per tutta la base sulla sua moto da 500 cc. Altre volte Roland vagava per la tendopoli contento di starsene per conto suo. Le mamme del campo che presiedevano ai pasti, lavavano uno dopo l’altro fino a diciotto bambini in una grande tinozza di zinco e decretavano quando era ora di andare a dormire, erano donne in gamba e gioviali. Roland aveva diritto a un surplus di benevolenza perché non c’era sua madre. Ma l’ultima cosa di cui sentiva la mancanza era proprio la premura materna.


Bisogni e reclami erano riportati al capitano Baines e ai suoi uomini. Talvolta il Capitano si presentava alle tende delle famiglie per risolvere un problema, con la sua pistola d’ordinanza agganciata alla vita. Non aveva tempo di parlare con il figlio. Bene cosí. Roland era troppo piccolo per sapersi spiegare l’euforia di quei giorni. L’interruzione della routine, l’eccitamento prodotto dal pericolo mescolato a uno straordinario senso di sicurezza, ore di gioco con gli amici senza sorveglianza; e infine un insieme di liberazioni: dalla necessità di strizzare gli occhi per vedere la lavagna della scuola di Azizia, dall’attenzione apprensiva e dalla tristezza di sua madre, dall’autorità di ferro del padre. Il Capitano aveva smesso di impomatargli energicamente i capelli la mattina prima di scuola e di disegnargli sulla cute una riga precisa con la punta del pettine; e sua madre, di tormentarlo per le strisciate sulle scarpe. Ma soprattutto, era libero dagli innominati problemi familiari che esercitavano su di lui una forza insistente e misteriosa come quella di gravità.


Le famiglie lasciarono il campo a tarda sera e raggiunsero la base aerea RAF Idris sotto rigorosa scorta militare che comportò l’utilizzo di veicoli corazzati. Roland fu orgoglioso di vedere il padre al comando, come sempre armato, pronto a impartire ordini alle truppe, e a portare madri e bambini sani e salvi fino alla scaletta del bimotore a elica diretto a Londra. Ma non ci fu l’occasione di salutarsi.


L’episodio, quel surreale assaggio di libertà, era durato otto giorni. Gli fu di sostegno in collegio, ispirò l’irrequietezza delle sue vaghe ambizioni di ventenne e irrobustí la sua refrattarietà a un impiego fisso. Ma divenne anche un ostacolo: qualunque cosa facesse, lo perseguitava il pensiero di una libertà superiore, altrove, di un’esistenza autonoma appena fuori portata, di una vita che gli sarebbe sfuggita di mano se si fosse legato attraverso impegni indissolubili. Perse cosí svariate occasioni e si accollò lunghi periodi di monotonia. Era in attesa che la vita gli si aprisse davanti come un sipario, che una mano scendesse dal cielo per ricongiungerlo al suo paradiso riconquistato. Il luogo dove il suo obiettivo, vale a dire la gioia dell’amicizia e dell’appartenenza alla comunità insieme all’ebbrezza dell’imprevedibile, avrebbe trovato una completa realizzazione. Non essendo riuscito a comprendere e a definire quelle speranze finché non si furono spente molti anni dopo, Roland restò vulnerabile al loro richiamo. Non aveva idea di che cosa volesse – nel mondo reale. Perché nella dimensione irreale invece era di rivivere gli otto giorni trascorsi nelle officine militari del Royal Electrical and Mechanical Engineers del campo di Gurji nell’autunno del 1956.


Tornati in Inghilterra, Roland e Rosalind alloggiarono per sei mesi in casa di un costruttore di Ash, il paese in cui Rosalind era nata. Roland frequentò la stessa scuola elementare frequentata dalla madre all’inizio degli anni Venti, nonché piú tardi da Henry e Susan. Per la Pasqua dell’anno dopo, Rosalind e Roland tornarono in Libia, in un nuovo agglomerato di villette vicino alla costa. È possibile che la separazione avesse fatto bene ai suoi, perché la vita risultò piú facile: sua madre era meno ansiosa e il Capitano cominciò ad apprezzare le avventure con il figlio.


Nel luglio del 1959 si procedette alla scelta di una scuola e alla preparazione del viaggio di ricognizione in settembre, pochi giorni prima dell’inizio del semestre. Roland scoprí che avrebbe preso lezioni di piano. Il Capitano suonava l’armonica a bocca sfoggiando un ragguardevole stile improvvisato. Prediligeva canzoni della Grande Guerra. It’s a Long Way to Tipperary, Take Me Back to Dear Old Blighty, Pack up Your Troubles in Your Old Kit Bag. C’era qualche brano scozzese, vecchi cavalli di battaglia di Harry Lander che gli riuscivano bene. A Wee Deoch an’ Doris, Stop Your Tickling, Jock! e I Belong to Glasgow. Non c’era piacere piú grande che farsi qualche birra con i commilitoni, e suonare e cantare per la compagnia invitando gli altri a unirsi al gruppo. L’unico rimpianto era di non aver mai imparato a suonare il piano, perché gliene era mancata l’occasione. Roland doveva avere quel che a lui era mancato. Chi sa suonare il piano, ripeteva spesso a suo figlio, sarà sempre l’anima della festa. Basta che attacchi un vecchio pezzo amato, e gli si raccoglieranno tutti attorno.


Le lezioni furono concordate con l’istitutore, che rispose con un cortese messaggio per confermare che tutto era stato disposto e che Miss Cornell, fresca di diploma presso il Royal College of Music, sarebbe stata la maestra di Roland. La scuola teneva parecchio all’educazione musicale e si sperava che Roland potesse partecipare all’opera Il Flauto Magico il cui allestimento era previsto per il successivo semestre.


Alcune settimane prima che la famiglia lasciasse la Libia per raggiungere Londra, il Capitano fece un’altra mossa ardita. Si fece consegnare a casa enormi casse di legno, utilizzando un furgone militare da tre tonnellate. Un soldato semplice e un caporal maggiore le trasferirono poi nel giardinetto sul retro della villa. Padre e figlio le inchiodarono insieme per costruire una «base» da giardino. Roland si infilava carponi nel suo labirinto di casse e vi conduceva i suoi esperimenti chimici con misture casuali di prodotti domestici: salsa worcester, detersivo, aceto, sale da cucina – insieme con foglie di malvarosa, geranio e palma da dattero. Purtroppo niente di tutto ciò esplose come sperato.


Eccolo lí. Se ne resero conto tutti e tre, ciascuno in modo diverso. L’edificio palladiano eretto al fondo del campo di cricket segnò la fine del loro triangolo familiare. I ritmi quotidiani e le segrete correnti di emozioni e conflitti si erano fatti piú intensi in quel remoto avamposto, una delle dimenticate vestigia della guerra. Nessuno aveva nulla da dire a proposito di una fine, perciò procedettero in silenzio. Roland lasciò la mano di sua madre. Il padre indicò e loro due, ubbidienti, guardarono. Sul prato, un trattore rimorchiava pali da rugby. Quattro uomini stavano montando con l’aiuto di corde una struttura a forma di H. Prima gli alberi li avevano nascosti alla vista. Sul campo di cricket nessun paletto, e il tabellone segnapunti era muto. Era finita l’estate. Adesso il viale li conduceva su un’ampia curva che costeggiava le scuderie e la torre idrica. Oltre l’edificio principale intravidero un parapetto, un felceto che digradava nei boschi, e infine di nuovo la riva e il vasto fiume azzurro, che scorreva diritto fino a un’ansa lontana. In direzione di Harwich, disse il Capitano.


Roland non sapeva se l’idea fosse sua o se gliel’avesse detto qualcuno una volta: niente è mai come te l’immagini. Ne coglieva a fondo la strabiliante verità. La dimensione, lo spazio, la grandiosità, il rigoglio del verde – come avrebbe fatto a sapere che cosa lo aspettava dalla prospettiva della loro villetta di Giorgimpopoli, o dal suo banco davanti alla lavagna sfocata nell’aula della caserma di Azizia, o dal mare calmo e dalla spensierata calura del Piccolo Capri? Il suo attuale stupore era tale da placargli l’ansia. Procedeva fra i suoi genitori come nello scenario di un sogno, verso la maestosa costruzione. Vi entrarono da un ingresso laterale. Dentro faceva fresco, quasi freddo. In un piccolo vano prima dell’androne, c’erano una cabina telefonica e un estintore. La scala era ripida e senza pretese. Dettagli rassicuranti. Poi si trovarono in un atrio enorme, echeggiante e vertiginoso con tre lucide porte scure, tutte chiuse. La famiglia sostò incerta, nel centro. Il capitano Baines stava per estrarre di nuovo la lettera di istruzioni, quando comparve la segretaria dell’istituto. Dopo le presentazioni – lei di cognome faceva Manning – ebbe inizio la visita. Rivolse qualche domanda cordiale a Roland, che le rispose educatamente, e lo informò che sarebbe stato il piú giovane della sua classe. Dopo quella notizia, Roland faticò a starla a sentire, e lei smise di parlargli: un sollievo. I commenti adesso erano indirizzati al Capitano. Lui formulava domande, mentre Roland e sua madre li seguivano, come se fossero entrambi futuri alunni. Tra di loro in compenso non si guardavano. Dalle parole della loro guida Roland colse gli accenni a quelli che erano definiti «i ragazzi». Dopo pranzo, se non c’era rugby, i ragazzi si cambiavano per indossare la tuta. Il che non prometteva niente di buono. La donna sottolineò piú volte quanto fosse strano e silenzioso e ordinato, il posto, senza i ragazzi. E tuttavia le mancavano. Roland sentí montargli dentro la solita vecchia ansia. I ragazzi avrebbero saputo cose di cui lui era all’oscuro, si sarebbero già conosciuti a vicenda, sarebbero stati piú grossi, piú forti, piú grandi. L’avrebbero snobbato.


Lasciarono l’edificio da un’uscita laterale e passarono sotto un’araucaria. Mrs Manning indicò una statua di Diana cacciatrice con una specie di gazzella al fianco. Non le si avvicinarono quanto Roland avrebbe voluto. Si fermarono invece in cima ad alcuni gradini che affacciavano su un cancello di cui Mrs Manning illustrò a lungo le iniziali in ferro battuto. Roland osservò il fiume immenso e si perse nei propri pensieri. Se fossero stati a casa, a quell’ora si sarebbero preparati per andare in spiaggia. Pinne e maschera dal tipico odore di gomma calda, costumi, teli da bagno. Granelli di sabbia del giorno prima dentro maschera e pinne. Avrebbe trovato gli amici ad aspettarlo. La sera, sua madre gli avrebbe passato la lozione rosa di calamina su naso e spalle spelacchiati dal sole.


Si avvicinavano intanto a un edificio basso, moderno. Al piano rialzato, visitarono i dormitori. Qui c’era la prova piú schiacciante della presenza dei ragazzi. File di letti a castello, coperte grigie, odore di disinfettante, armadietti ammaccati che Mrs Manning chiamò «settimini» e, nei gabinetti, una serie di tozzi lavabi sotto altrettanti piccoli specchi. Niente che ricordasse Versailles.


Piú tardi, tè e una fetta di dolce nell’ufficio scolastico. Le lezioni di piano di Roland furono saldate in anticipo. Il Capitano firmò certe carte e, dopo i saluti, ripercorsero il viale, attesero brevemente l’autobus sotto l’albero enorme, raggiunsero il centro a Ipswich e da lí tornarono al soffocante emporio di forniture scolastiche le cui pareti rivestite in legno di quercia assorbivano gran parte dell’aria a disposizione. Ci volle parecchio tempo per completare l’elenco necessario. Il capitano Baines se ne andò al pub. Roland provò un’ispida giacca di Harris Tweed con toppe di pelle ai gomiti e bordature di pelle ai polsi. La sua prima giacca. La seconda fu un blazer azzurro. La tuta si presentava piegata dentro una scatola di cartone. Non occorreva provarla, disse il commesso. L’unico articolo che gli piacque era una cintura elastica gialla e azzurra che si chiudeva in un gancio a forma di serpente. Sul treno da Ipswich a Londra, di ritorno a Richmond a casa di sua sorella, tra borse piene di roba per lui, i genitori gli chiesero in vari modi se gli era piaciuta la scuola o questo o quel particolare di ciò che aveva visto. A Roland, la Berners non era piaciuta né dispiaciuta. Era soltanto una realtà opprimente che si configurava già come il suo futuro. Rispose che gli era piaciuta e l’espressione sollevata sulle loro facce lo rese felice.


Cinque giorni dopo il suo undicesimo compleanno, i suoi lo accompagnarono in una via nei pressi della stazione di Waterloo dove li aspettavano i pullman. Uno era riservato ai nuovi. L’addio fu impacciato. Suo padre gli batté sulle spalle, sua madre si mostrò insicura e si decise infine a riservargli la versione trattenuta di un abbraccio che lui accolse con imbarazzo, intimidito da quello che ne avrebbero pensato gli altri ragazzi. Qualche minuto dopo, gli toccò assistere a molti abbracci lacrimosi e scomposti, ma ormai era tardi per tornare indietro. A bordo del pullman, ci fu un quarto d’ora difficile, con i suoi genitori sul marciapiede a sorridergli, salutandolo un po’ con la mano e rivolgendogli raccomandazioni inudibili dal finestrino, mentre al suo fianco un ragazzo voleva parlargli. Quando finalmente il pullman si mosse, i suoi se ne andarono. Il braccio di suo padre cingeva le spalle di sua madre, scosse dal pianto.


Il vicino di Roland gli tese la mano e disse: – Sono Keith Pitman e voglio fare il dentista.


Roland aveva stretto educatamente la mano a parecchi adulti in passato, specie a colleghi del padre, ma non aveva mai celebrato lo stesso rituale con qualcuno della sua età. Prese la mano di Keith e disse: – Roland Baines.


Aveva già notato che quel ragazzo simpatico non era piú grande di lui.


In un primo momento, lo shock non dipese dalla separazione dai genitori, a 2000 miglia di distanza. Il colpo immediato ebbe a che fare con la natura del tempo. Sarebbe successo comunque. Doveva succedere, il passaggio al tempo e agli obblighi della vita adulta. Prima di allora, era cresciuto in una vaghissima foschia di eventi, incurante del loro susseguirsi, fluttuando libero o tuttalpiú incespicando attraverso le ore, i giorni, le settimane. Compleanni e Natali erano i soli veri marcatori temporali. Il tempo era ciò che ricevevi da altri. I suoi genitori ne controllavano il flusso domestico, a scuola tutto accadeva in un’unica aula e i rari scostamenti dalla routine erano programmati da insegnanti che ti accompagnavano tenendoti addirittura per mano.


Qui invece la transizione fu brusca. I bambini nuovi dovevano imparare rapidamente a vivere in base alla legge dell’orologio, a diventarne schiavi, anticiparne le richieste o subirne le conseguenze in caso di errori: il rimprovero di un insegnante irritabile, una punizione o, in ultima istanza, la minaccia della «sculacciata». Quando alzarsi e rifarsi il letto, quando scendere a colazione, e poi all’appello, e poi alla prima lezione; come radunare tutto il necessario per le cinque lezioni successive; consultare l’orario, o certe bacheche che potevano contenere il tuo nome; trasferirsi puntuali da un’aula all’altra ogni quarantacinque minuti e non fare tardi per pranzo subito dopo la quinta lezione; sapere in quali giorni erano previste le gare sportive, dove appendere e dove recuperare l’equipaggiamento e quando consegnarlo per farlo lavare; e di pomeriggio, se non c’erano attività sportive, a che ora trovarsi in classe per le ultime lezioni, e quando presentarsi il sabato mattina; quando iniziavano le ore di studio e quanto tempo avevi per finire i compiti da memorizzare o da scrivere; quando fare la doccia, quando essere a letto quindici minuti prima che si spegnessero le luci; quali erano i giorni del bucato e a che ora dovevi metterti in coda per consegnare i vestiti sporchi alla responsabile – calze e biancheria certi giorni, pantaloni, camicie e asciugamani, altri; quando il lenzuolo di sopra passava di sotto e quello pulito di sopra; quando presentarsi per il controllo unghie e pidocchi, o per il taglio di capelli, o la distribuzione della paghetta e quando apriva lo spaccio delle merendine.


Le proprietà risultavano tirannicamente legate al tempo. Potevano scivolarti via dalle dita. Ce n’erano tante che avresti probabilmente perduto o dimenticato di portare con te all’inizio della giornata: l’orario, un libro di testo, i compiti fatti la sera prima, i quaderni, i fogli delle domande o le cartine geografiche, una penna che non macchiava, la matita, la gomma, il goniometro, il compasso, il righello. Se le tenevi tutte dentro un astuccio, potevi perdere quello e ritrovarti in un guaio ancora piú serio. L’educazione fisica era un capitolo a parte, a sua volta terrificante. Due volte la settimana, ti trascinavi l’attrezzatura da ginnastica da una lezione all’altra. L’insegnante era Mr Evans, un gallese prepotente che puniva i ritardi e l’incapacità fisica con perfidia, sia psicologica che corporale. Nel corso di quella prima settimana ficcò l’unghia del pollice nel lobo di Roland perché non era riuscito a sedersi a gambe incrociate sul campo di rugby in modo corretto. Mentre il dolore aumentava, Roland si dimenava sull’erba cercando la posizione giusta. In Libia, soltanto i libici si sedevano a terra, sui sassi duri e bollenti. In palestra, le probabili vittime dell’insegnante erano i bambini grassi, i deboli, i goffi. Dopo quel primo incontro, Roland sfuggí alla sua attenzione.


Il tempo, la smisurata sfera all’interno della quale lui si era mosso libero in tutte le direzioni, divenne dal giorno alla notte una stretta pista a senso unico lungo la quale doveva spostarsi con i suoi nuovi amici da una lezione all’altra, da una settimana all’altra, finché non divenne una realtà incontestabile. I ragazzi di cui aveva temuto la presenza si rivelarono non meno smarriti di lui, e amichevoli. Gli piaceva la cordialità del loro accento londinese. Si accalcavano insieme, certi la notte piangevano, certi bagnavano il letto, erano perlopiú instancabilmente allegri. Nessuno veniva deriso. Dopo lo spegnersi delle luci, si raccontavano storie di fantasmi o elucubravano teorie sul mondo, o si vantavano dei loro padri, alcuni dei quali, scoprí Roland in seguito, non esistevano. Roland udí la sua stessa voce nel buio provare senza riuscirci a descrivere l’evacuazione di Suez. La storia dell’incidente invece ebbe successo. Un uomo fiondato in aria verso una morte sicura, la donna accecata dal sangue, le sirene, la polizia, il braccio sporco di sangue di suo padre. Un’altra sera, la ripeté a grande richiesta. Guadagnò prestigio, un concetto che non aveva mai fatto parte della sua vita. Pensò che stava diventando una persona diversa, qualcuno che i suoi genitori avrebbero forse stentato a riconoscere.


Dopo pranzo, tre pomeriggi alla settimana, la classe dell’età di Roland indossava le tute da lavoro – presto fatto – e veniva spedita a giocare non sorvegliata nei boschi e sulla riva del fiume. Molto di quel che aveva letto nei romanzi della serie sulle avventure del giovane Jennings e fantasticato vivendo nell’arida Libia finalmente trovava soddisfazione. Era come ricevere istruzioni direttamente dal giornalino «Boy’s Own». Costruivano accampamenti, si arrampicavano sugli alberi, si fabbricavano archi e frecce, e scavavano pericolose gallerie senza sostegno che poi attraversavano per scommessa strisciando sulla pancia. Alle quattro erano di nuovo in classe. Le dita che stringevano la penna stilografica potevano essere ancora imbrattate di fango nero dell’estuario o di macchie d’erba. Se capitavano due ore di seguito di matematica o storia, era una lotta restare svegli novanta minuti. Ma se era venerdí, e quella di lingua era l’ultima ora, l’insegnante li entusiasmava leggendo con la sua acuta voce nasale l’ennesimo episodio di un romanzo western intitolato Il cavaliere della valle solitaria. La lettura durò l’intero semestre.


Roland impiegò svariate settimane a capire che perlopiú gli insegnanti non erano cattivi e nemmeno maldisposti. Davano quell’impressione per via delle toghe nere. In larga misura, erano simpatici e qualcuno lo conosceva addirittura per nome, cioè per cognome, s’intende. Molti erano il prodotto del tempo passato in guerra a combattere. Pur essendo finita quattordici anni prima – la sua intera vita piú quasi un quarto – la guerra mondiale era tuttora una presenza, un’ombra ma anche una luce, fonte di significato e virtú, proprio come in Libia, nella villetta di Giorgimpopoli e nelle officine di Gurji ai margini del deserto. Il fucile Lee Enfield .303 il cui grilletto gli era stato permesso di premere tante volte era stato un’arma in dotazione alla 7a divisione corazzata, anche nota come Desert Rats, e doveva sicuramente aver ucciso tedeschi e italiani. Qui nel Suffolk rurale, la residenza e il terreno annesso erano stati requisiti dall’esercito nel 1939 e dalla marina negli anni successivi. Ne restava memoria nei capanni Nissen montati al limitare del bosco digradante verso la riva del fiume. Attualmente i capanni erano utilizzati come aule di latino e di matematica. Nel breve tragitto attraverso i boschi si trovava il tratto in cemento lungo il quale le barche venivano trasportate a mano o trascinate su ruote giú fino al fiume. Poco lontano c’era un pontile di legno costruito dai genieri durante il conflitto. Da lí, il 6 agosto 1944, un gruppo di rinforzo composto di 1000 uomini a bordo di quaranta mezzi da sbarco discese il fiume Orwell e affrontò il lungo viaggio fino alle spiagge della Normandia per la liberazione dell’Europa. La guerra sopravviveva nella immutata scritta sui muri in mattoni all’esterno dell’infermeria: CENTRO DECONTAMINAZIONE. Ed era presente in quasi ogni aula dove la disciplina non era imposta bensí responsabilmente impartita da ex combattenti i quali a loro volta avevano ricevuto ordini per una causa importante. L’obbedienza non era in discussione. Si poteva stare tutti tranquilli.


Il segreto terribile di Roland fu scoperto nel giro di due settimane. I nuovi iscritti venivano spediti a gruppi in infermeria e sostavano in mutande, accalcandosi in sala d’attesa finché non si sentivano chiamare per nome. Roland si presentò alla temibile suor Hammond. Si diceva che con lei «ci fosse poco da scherzare». Senza nemmeno salutarlo gli ordinò di montare sulla bilancia. Dopodiché fu visitato, ossa, giunture, orecchie, perfino i testicoli non ancora scesi, per escludere anomalie. Infine, la suora gli posizionò una benda su un occhio e, girandolo di spalle, lo sistemò dietro una linea sul pavimento e gli disse di guardare un cartellone di lettere sempre piú piccole appese al muro. E cosí, praticamente nudo, stava per essere smascherato. Il cuore gli batteva forte. Strizzare gli occhi non sarebbe servito, il destro non era meglio del sinistro e tutti i tentativi di indovinare le lettere andarono a vuoto. Non era in grado di leggere dopo la seconda riga. Senza scomporsi, suor Hammond prese un appunto e fece venire il prossimo.


Dieci giorni dopo la visita dall’oculista di Ipswich, lo convocarono fuori dall’aula e gli consegnarono una rigida busta marrone. Era una tiepida mattina d’autunno, il cielo senza una nuvola. Si fermò davanti a una grande quercia per fare un esperimento prima di rientrare in classe. Si guardò attorno per accertarsi che non ci fosse nessuno in giro. Estrasse l’astuccio dalla busta, fece scattare la molla della chiusura e tirò fuori l’oggetto sconosciuto. Gli sembrava una cosa viva, sgradevole, tra le sue mani. Aprí le stanghette, si portò l’attrezzo alla faccia e guardò in alto. Una rivelazione. Esclamò di gioia. L’immensa sagoma della quercia gli saltò addosso come dentro uno specchio di Alice nel Paese delle Meraviglie. All’improvviso, ogni foglia isolata delle migliaia che crescevano sull’albero assunse una singolarità sfolgorante di forma e colore e fremito luminoso nella brezza leggera, ogni foglia una delicata variazione di rosso, arancio, oro carico e giallo pallido su fondo verde contro l’azzurro intenso del cielo. Quell’albero, come le decine che lo circondavano, si era accaparrato una porzione di arcobaleno. La quercia era un intricato gigante dotato di una consapevolezza di sé. Si stava esibendo per lui, dandosi delle arie, pago della sua stessa esistenza.


Quando timidamente inforcò in classe gli occhiali pronto alla possibilità di esporsi al ridicolo e alla vergogna, nessuno ci fece caso. A casa, durante le vacanze di Natale, ora che l’orizzonte del Mediterraneo era tornato a mostrarsi preciso come una lama affilata, i suoi genitori si espressero solo con qualche commento spassionato. Si accorse che tantissime persone intorno a lui portavano gli occhiali. Per due anni si era preoccupato senza motivo e non aveva capito niente. Non era soltanto il mondo reale ad aver recuperato nitore. Aveva preso visione anche di se stesso per la prima volta. Era una persona particolare – anzi, di piú, era decisamente sui generis.


Non era il solo a pensarla cosí. Di ritorno a scuola un mese piú tardi fu allontanato dall’aula per consegnare una lettera in segreteria. Mrs Manning non c’era. Avvicinandosi alla sua scrivania, riconobbe il proprio nome a rovescio su un documento aperto. Fece il giro della scrivania per andare a leggere. Nella casella intitolata QI lesse il numero 137, che non gli disse nulla. Poco sotto c’era scritto: «Roland è un bambino incline all’intimità…» Sentí rumore di passi nel corridoio e si allontanò in fretta per ritornare in classe. Intimità? Credeva di conoscere il senso di quella parola, ma l’intimità di certo prevedeva un’altra persona. Appena fu libero nel pomeriggio andò in biblioteca a cercare un dizionario. Aprendolo provò un senso di nausea. Stava per decifrare il verdetto di un adulto su chi o che cosa lui fosse. La parte intima, piú segreta, di sé: interiorità, privatezza, segreto. Contemplò la definizione, trovando conferma alla propria perplessità. Con chi avrebbe condiviso i propri segreti? Qualcuno di cui si era scordato, o che doveva ancora conoscere? Non lo seppe mai, ma conservò un interesse speciale per quella parola che ospitava il segreto della sua essenza.


Già la seconda settimana di scuola era andato alla prima lezione di pianoforte nel dipartimento di musica, vicino all’infermeria. Nei dieci giorni precedenti la sua vita era stata un susseguirsi di attività inedite. La lezione era solo l’ultima della serie, perciò non si sentiva turbato mentre aspettava dondolando le gambe in sala d’attesa. Era una cosa nuova, ma tutte lo erano. Nessun suono di pianoforte. Solo un mormorio di voci. Un ragazzo piú grande uscí dalla sala prove, si chiuse la porta alle spalle e se ne andò. Calò il silenzio, interrotto dal suono di scale proveniente da una stanza piú lontana. Da qualche parte, un operaio fischiettava qualcosa.


Finalmente la porta si aprí e una mano e un pezzo di braccio ingioiellato gli fecero cenno di entrare. L’aria della stanzetta era satura del profumo di Miss Cornell. Sedeva sul doppio sgabello dando la schiena al pianoforte e Roland le si fermò davanti per farsi osservare. Indossava una gonna nera e una camicetta di seta color panna, abbottonata fino alla gola. Il rossetto rosso carico le disegnava le labbra in un arco acuto. Roland pensò che sembrava una persona severa e provò la prima fitta di ansia.


Disse: – Fammi vedere le mani.


Lo fece, tenendole a palmo in giú. Lei allungò una mano per toccargli ed esaminargli le dita e le unghie. Insolitamente, per la sua età, lui le teneva corte e pulite. L’esempio del padre militare.


– Girale.


Alla vista dei palmi, si ritrasse un poco. Poi lo guardò negli occhi per parecchi secondi, prima di parlare. Lui sostenne lo sguardo, non per spavalderia ma perché aveva paura e non osava guardare altrove.


Disse: – Fanno ribrezzo. Va’ a lavartele subito. Sbrigati.


Non sapeva dove fosse il bagno, ma lo trovò per caso spingendo una porta senza indicazioni. Il pezzo di sapone screpolato era sporco e molliccio. Aveva mandato qui altri ragazzi. Niente asciugamani, quindi usò il davanti dei pantaloncini. L’acqua corrente gli aveva messo voglia di fare la pipí e l’operazione portò via un po’ di tempo. In preda alla sensazione superstiziosa che lei lo stesse osservando, si rilavò le mani e se le asciugò di nuovo nei pantaloni.


Al suo ritorno, gli disse: – Si può sapere dove sei stato?


Non rispose. Le mostrò le mani pulite.


Lei indicò i calzoni. Aveva le unghie dipinte dello stesso rosso che aveva sulle labbra. – Te la sei fatta addosso, Roland. Sei un bambino piccolo?


– No, signorina.


– Allora cominciamo. Vieni qui.


Sedette sullo sgabello accanto a lei e lei gli mostrò il do centrale e gli disse di appoggiare il pollice della mano destra. Poi gli fece vedere come era scritta la nota sul foglio che aveva davanti. Era una semiminima. Ce n’erano quattro in quella battuta e lui doveva suonarle dando a ciascuna lo stesso valore. Roland era ancora sottosopra per la domanda umiliante e per essere stato chiamato con il suo nome di battesimo. Non lo sentiva da quando aveva salutato i suoi genitori. Da queste parti lui era Baines. Quella mattina prendendo un paio di calze pulite gli era caduta una caramella per terra, una morbida al latte di quelle che gli piacevano, sistemata lí da sua madre per fargliela trovare. Ce l’aveva in tasca, adesso. Lo travolse un’ondata di nostalgia che istantaneamente represse mentre suonava la nota per quattro volte. La terza risultò piú forte delle prime due e la quarta udibile a stento.


– Fallo di nuovo.


Il trucco per mantenere il controllo era evitare il ricordo di qualsiasi tenerezza che i suoi, soprattutto sua madre, gli avessero mai dimostrato. Ma la caramella in tasca la sentiva comunque.


– Mi pareva avessi detto che non sei un bambino piccolo –. Allungò il braccio oltre il coperchio del pianoforte, prese un fazzolettino da una scatola e glielo mise in mano. Lui temette che potesse chiamarlo Roland di nuovo, o dire qualcosa per consolarlo, o accarezzargli una spalla.


Quando ebbe finito di soffiarsi il naso, lei gli prese il fazzolettino e lo buttò nel cestino che aveva al suo fianco. Quel gesto avrebbe potuto annientarlo, ma girandosi verso di lui gli disse: – Ci manca mammina, dico bene?


Il suo sarcasmo fu una salvezza. – No, signorina.


– Bene. Riprendiamo.


A fine lezione gli diede un quaderno con il pentagramma. Per compito doveva imparare a distinguere e a scrivere minime, semiminime, crome e semicrome. La settimana successiva gliele avrebbe battute con le mani, e adesso gli avrebbe mostrato come. Al momento, Roland le stava davanti in piedi come all’inizio della lezione. Malgrado lei fosse seduta e lui no, la piú alta era lei. Mentre gli batteva piano una serie di semicrome, il suo profumo si fece piú intenso. Quando ebbe finito, Roland credette di essere stato congedato e fece l’atto di andarsene. Ma lei gli indicò con un dito che doveva restare.


– Avvicinati.


Fece un passo avanti.


– Guarda in che stato sei. Le calze arrotolate sulle caviglie –. Si chinò dallo sgabello e gliele tirò su. – Quando esci devi andare in infermeria e farti dare un cerotto per questo ginocchio.


– Sí, signorina.


– E la camicia –. Lo avvicinò a sé, gli slacciò la cintura con la fibbia a serpente e il primo bottone dei pantaloncini e gli sistemò la camicia davanti e dietro. La faccia di lei era talmente vicina alla sua quando gli raddrizzò la cravatta che Roland dovette abbassare gli occhi. Pensò che anche il suo alito aveva lo stesso profumo. I suoi gesti erano rapidi, efficienti. Non gli avrebbero suscitato nostalgia, nemmeno alla fine, quando gli ravviò con le dita i capelli scostandoli dagli occhi.


– Cosí va meglio. E cosa mi dici, ora?


Non aveva idea.


– Mi dici: grazie, Miss Cornell.


– Grazie, Miss Cornell.


Ebbe inizio cosí – nella paura, che Roland non poté far altro che riconoscere come tale, piú qualcos’altro che non avrebbe saputo definire. Si presentò alla seconda lezione con le mani pulite, piú pulite almeno, ma i vestiti erano lo stesso disastro della volta precedente, pur non essendo piú malmesso degli altri ragazzi della sua età. Si era scordato del cerotto per il ginocchio. Questa volta lei lo sistemò prima di cominciare la lezione. Quando gli sbottonò i pantaloncini per mettergli a posto la camicia, il dorso della sua mano gli sfiorò l’inguine. Ma fu una cosa accidentale. Roland aveva fatto il compito sul quaderno e batté il tempo delle note in modo corretto. Aveva studiato bene, non per zelo né per il desiderio di compiacerla, ma perché aveva paura di lei.


Non avrebbe osato mancare a una lezione né arrivare tardi o disubbidire quando lo spediva fuori a lavarsi le mani, anche se erano già pulite. Non gli passò mai per la testa di chiedere ad altri bambini che prendevano lezioni di piano da lei come li trattasse. La sua Miss Cornell abitava un universo privato e lontano da quello dei suoi amici e della scuola. Non si mostrava mai materna né affettuosa con lui, anzi, piuttosto distaccata, a volte addirittura sprezzante. Sin dal principio, assumendo il dominio del suo aspetto, specialmente quando gli sbottonava i pantaloncini, rivendicò su di lui diritti e controllo assoluto a livello mentale e fisico, anche se dopo le prime due occasioni non le capitò piú di toccarlo in modo insolito. Con il passare delle settimane, lo soggiogò senza che lui potesse farci niente. Quella era una scuola, lei era una maestra e lui doveva fare come gli dicevano. Poteva umiliarlo e ridurlo alle lacrime. La volta in cui sbagliò ripetutamente un esercizio e osò dire che non ci riusciva, lei lo chiamò bimbetta buona a nulla. A casa aveva un abitino rosa a volant di sua nipote: glielo avrebbe portato per poi confiscargli i vestiti e farglielo indossare.


Per tutta la settimana Roland visse nell’incubo dell’abitino rosa. Non ci dormiva la notte. Contemplò l’idea di fuggire, ma poi gli sarebbe toccato affrontare suo padre, e comunque non aveva un posto dove andare. Non aveva i soldi del treno e dell’autobus per arrivare da sua sorella. Gli mancava il coraggio di annegarsi nel fiume Orwell. Quando finalmente venne l’ora della temuta lezione l’abitino rosa non comparve e nessuno lo nominò. La minaccia non fu ripetuta. Forse Miss Cornell neanche ce l’aveva, una nipote.


Otto mesi dopo, Roland era in grado di eseguire la versione semplificata del preludio. Dopo il pizzicotto, le botte col righello, la mano sulla coscia e poi il bacio, Roland era passato a prendere lezioni in un altro edificio, dal capo del dipartimento di musica, Mr Clare. Un uomo gentile e competente, regista e direttore dell’allestimento del Flauto Magico della scuola. Roland aveva dato una mano con la pittura dei fondali e nei cambi di scena. Il messaggio che Miss Cornell gli aveva promesso non arrivò in tempo e fu per questa ragione, si disse, che non pedalò a casa di lei per pranzo, nella mezza giornata libera, pur non avendo dimenticato le sue precise istruzioni su come trovare l’indirizzo. Provava ancora sollievo per essersela lasciata alle spalle. Quando il messaggio arrivò, due giorni dopo, con quell’unico imperativo – Ricordati –, Roland credette di poterlo ignorare.

Si sbagliava. Miriam Cornell compariva sempre piú spesso nelle sue fantasie erotiche. Si trattava di immagini vivide e devastanti, che tuttavia non era in grado di portare a compimento raggiungendo un sollievo. Il suo giovane corpo glabro, dalla voce bianca e lo sguardo tenero del bambino, non era ancora pronto. Da principio, lei faceva parte di una piccola troupe, le altre erano ragazze quasi ventenni, disponibili e deliziose nella loro nudità, con volti presi a prestito dalle foto che ricordava sui cataloghi di abbigliamento di sua madre. Ma prima dei suoi tredici anni, Miss Cornell le aveva già eliminate tutte. Restò lei sola sul palco, nel teatro dei sogni, a presenziare con occhio impassibile il suo primo orgasmo. Erano le tre del mattino. Roland scese dal letto e attraversò il dormitorio fino ai gabinetti per esaminare quel che si era scaricato nel palmo della mano.

Credette di averla scelta, ma ben presto fu chiaro che senza di lei non poteva esserci alcun piacere. Era stata lei a scegliere lui. In una sequenza di scene mute, lei se lo trascinava in sala musica. Spesso, a mo’ di ouverture, tornava a fantasticare sul bacio, solo per renderlo piú intenso, piú smanioso. Lei gli sbottonava i pantaloncini, fino in fondo. Poi si trovavano in un altro posto, tutti e due nudi. Lei gli mostrava che cosa fare. Roland non poteva far altro che ubbidire. Non doveva far altro che ubbidire. Era fredda, decisa, addirittura sprezzante. E, al momento giusto, gli rivolgeva uno sguardo profondo che sembrava carico di affetto, di apprezzamento, perfino.

Aveva seminato se stessa nel terriccio molle non solo della sua psiche, ma della sua biologia. Non c’era orgasmo senza di lei. Era lo spettro di cui non poteva piú fare a meno.

Un giorno, l’insegnante d’inglese, Mr Clayton, entrò in classe e annunciò: – Ragazzi, vi voglio parlare della masturbazione.

Rimasero impietriti dall’imbarazzo. Sentire un maestro pronunciare quella parola era insopportabile.

– Una sola parola, al riguardo –. E qui Mr Clayton osservò una pausa a effetto. – Godetevela.

Roland lo fece. Nel corso di un’unica lunga domenica di noia pensò che si sarebbe forse liberato del fantasma di Miriam Cornell evocandolo sei volte di seguito in altrettante ore. Perversione pura, e sapeva benissimo che lei sarebbe tornata. Riuscí a scordarsela per qualche ora, ma poi ebbe di nuovo bisogno di lei. Dovette accettare il fatto che ormai era andata a incastrarsi in una zona speciale della sua fantasia e del suo desiderio, ed era lí che lui voleva restasse, intrappolata nei suoi pensieri, come l’unicorno ammansito nel suo recinto circolare: l’insegnante di arte aveva mostrato alla classe una foto del celebre arazzo. L’unicorno non doveva mai liberarsi dalla catena, né uscire da quel recinto minuscolo. Spostandosi da un’aula all’altra, qualche volta la intravedeva da lontano e faceva in modo di non incontrarla. Nei suoi lunghi giri in bicicletta sulla penisola, evitava con cura il suo villaggio. Non sarebbe mai andato a trovarla, nemmeno se si fosse ammalata gravemente e sul letto di morte gli avesse spedito un messaggio in cui lo supplicava di farlo. Era troppo pericolosa. Non sarebbe andato da lei nemmeno per scongiurare la fine del mondo.

Capitolo terzo

La nube dell’autoinganno si diffuse su tutta l’Europa. Un’emittente televisiva della Germania Ovest si convinse che il miasma radioattivo non avrebbe mai contaminato l’Occidente ma solo l’impero sovietico, come per vendetta. Un portavoce ministeriale della Germania Est ipotizzò un complotto americano teso a distruggere le centrali energetiche del popolo. Il governo francese sembrava credere che l’estremità sud-occidentale della nube coincidesse con il confine franco-tedesco, e non avesse licenza di attraversarlo. Le autorità britanniche esclusero che potesse esistere alcun rischio per la popolazione, pur ordinando intanto la chiusura di 4000 aziende agricole, l’abbattimento di 4 milioni e mezzo di ovini, il sequestro di tonnellate di formaggio e lo smaltimento immediato di un mare di latte. Mosca, non volendo riconoscere l’errore, lasciò che neonati e bambini continuassero a bere latte contaminato. Ben presto, tuttavia, gli interessi nazionali ebbero il sopravvento. Non c’era alternativa. L’emergenza doveva essere affrontata e la possibilità della segretezza era esclusa.


Roland si uní alla generale rinuncia al buon senso. La sera, mentre Lawrence dormiva, prese a sigillare la casa, applicando fogli di plastica su tutte le finestre. Anche se la nube ormai era ben oltre Londra. La presenza di Cesio 137 era stata rilevata su pascoli gallesi, nel Nord-Ovest dell’Inghilterra e sulle Highlands scozzesi, ma lui non demordeva. Fu un lavoro lungo, perché il nastro adesivo non teneva se sugli infissi c’era polvere. La sua scala a libretto era malferma e non alta abbastanza. Ondeggiava pericolosamente quando doveva alzarsi in punta di piedi sull’ultimo gradino per lavare il lato superiore dell’infisso con un lurido panno umido. Una volta si salvò da una caduta all’indietro aggrappandosi al volo a una guida per le tende. Sapeva bene che l’idea era assurda. Glielo disse anche Daphne, che cercò di convincerlo a lasciar perdere. Altre persone non stavano mettendo in sicurezza le loro case. Faceva caldo, e la scarsa aerazione sarebbe risultata superflua e insalubre. Non c’era nessuna polvere radioattiva, era tutta una paranoia. Lo sapeva. Ma viveva in circostanze paranoiche che gli consentivano di fare quel che voleva. Fermarsi ora significava ammettere di avere avuto torto sin dal principio. Inoltre un ossequio per l’ordine ereditato dal padre gli ricordava che quanto si era iniziato andava portato a termine. Nella sua attuale condizione, Roland si sarebbe depresso ad andare in giro per casa oggi a staccare i teli di nylon sistemati ieri per buttarli via. E infine non credere a tutto ciò che le autorità dichiaravano risultava corroborante. Se la versione era che la nube si era spostata a nord-est, voleva dire che si andava depositando a sud-est. Se abbattevano tante pecore sane, era meglio stare attenti. La sua scelta era di essere solitario e battagliero. Mangiava cibo in scatola badando alla data di confezionamento riportata sul coperchio. Niente dopo la seconda metà di aprile. Lawrence lo seguí, guadagnando l’accesso ai suoi primi alimenti solidi. Il suo latte conteneva la migliore acqua minerale pre-Černobyl´. Insieme sarebbero sopravvissuti.


Non era una bella situazione, fingersi fuori di testa. In apparenza si mostrava discretamente credibile; si prendeva cura del bambino, lo faceva giocare, comprava altra acqua in bottiglia, sbrigava le faccende di casa alla svelta, parlava al telefono con gli amici. Quando dovette richiamare Daphne – nelle prime settimane dopo la scomparsa di Alissa dipendeva parecchio da lei – si imbatté in Peter. Roland espose la propria teoria che il disastro di Černobyl´ avrebbe segnato l’inizio della fine degli armamenti nucleari. Supponiamo che la Nato avesse lanciato sull’Ucraina un dispositivo tattico allo scopo di bloccare un’avanzata russa: ne avremmo pagato tutti le conseguenze, contaminati da Dublino agli Urali, dalla Finlandia alla Lombardia. Ripercussioni. Un arsenale nucleare era militarmente inutile. Roland aveva alzato la voce, altro segnale che aveva perso il controllo. Peter Mount, che al tempo lavorava per la rete elettrica nazionale e s’intendeva di distribuzione energetica, ci pensò su un attimo e disse che il concetto di inutilità non aveva mai ostacolato la guerra.


Qualche anno prima, Peter aveva mostrato a Roland la sede del centro nazionale dove lavorava. Il perimetro della centrale ricordava quello di una base militare, con recinzioni di massima sicurezza, doppi cancelli a comando elettronico e due imperturbabili agenti della sorveglianza che impiegarono un’eternità a cercare il nominativo di Roland sull’elenco. Il cuore del centro sembrava una versione degradata della sala di controllo della Nasa a Houston: tecnici silenziosi davanti alle loro consolle, una serie di quadranti e indicatori, un grande schermo in alto sulla parete. Qui si cercava essenzialmente di far coincidere la domanda con l’offerta.


La visita fu noiosa. Assai poco interessato alla gestione dell’energia elettrica, Roland fece molta fatica a mostrarsi attento. A differenza di Peter, non trovava esaltante la prospettiva che un giorno i computer avrebbero condotto il gioco. L’unico momento memorabile arrivò verso sera. I monitor a parete della sala di controllo erano sintonizzati sulla famosa soap opera, Coronation Street. Qualcuno sbraitava dentro un telefono in un francese anglicizzato. All’approssimarsi dello stacco pubblicitario, una voce dall’altoparlante diede inizio a un conto alla rovescia, che si concluse nell’istante in cui milioni di spettatori si alzarono dai rispettivi divani per andare ad accendere il bollitore elettrico e farsi un tè. Zero. Due mani su una pesante leva nera tirata giú di scatto. Un fiume di megawatt precipitati alla velocità della luce lungo i cavi sotto il canale della Manica, a spese di sprovveduti francesi – che diavolo era Coronation Street? Qual era l’utilità di un bollitore elettrico? Di certo non poteva trattarsi di un sistema primitivo come una leva azionata da qualcuno. Eppure Roland si trovò a raccontare quella storia cosí spesso da finire per crederci.


Il pomeriggio gli fece venire in mente una gita scolastica. Si concluse nella mensa illuminata da tubi al neon. Peter, alcuni suoi colleghi e Roland sedettero attorno a un tavolo in formica ancora umido per essere stato energicamente pulito. La conversazione si concentrò sul passaggio della distribuzione di energia elettrica ad aziende private. Sarebbe andata cosí, prima o poi, convennero tutti. C’era da farci una montagna di soldi. Ma nemmeno questo era uno degli argomenti che appassionavano Roland. Mantenne le apparenze, fingendo pieno interesse, ma intanto si perse a ricordare una gita scolastica alla Harris Bacon Factory di Ipswich quando aveva undici anni, non molto tempo dopo il suo pranzo domenicale mancato a casa di Miriam Cornell.


L’idea era di appurare che cosa succedeva ai maiali ai quali aveva portato da mangiare per il progetto Giovani agricoltori. Un tormento bello e buono, alle cinque e mezza del mattino. Due secchi pesanti, pieni di broda – avanzi di carne annegati in crema di latte – da trasportare dalle cucine della scuola fino alla porcilaia, insieme al suo amico Hans Solish. Non cosí facile, a quell’età e nell’aria umida dell’alba autunnale, accendere il fuoco sotto il pentolone di ferro e rovesciarci dentro la sbobba per farla scaldare. Intanto, sentendo l’odore, i maiali smaniavano. Dopodiché, i ragazzi entravano nel porcile trasportando secchi di intruglio caldo, assediati alle gambe dalle bestie. La parte piú difficile era versare la sbobba nei truogoli senza farsi sbattere a terra.


Piú tardi nello stabilimento di Ipswich, come adesso nella centrale di Peter, si era seduto con altri intorno a un tavolo in formica. Il Roland bambino, in stato di shock, si era rifiutato di mangiare e bere. La bibita arancione servita in bicchieri di carta puzzava di budella di maiale. Aveva visto sangue e carneficina come in un incubo. Vittime strillanti sospinte in massa da un furgone chiuso, precipitate nel panico lungo una rampa in cemento verso uomini in stivali e grembiuli di gomma immersi nel sangue fino alle caviglie e armati di dispositivi di stordimento elettrici, lampi di coltellacci che aprivano gole, corpi nudi appesi con catene alle caviglie e diretti verso enormi porte che si spalancavano sullo scorcio di un getto di fiamma al calor bianco, e infine cadaveri che vorticavano in acqua bollente raschiati da tamburi rotanti muniti di denti in acciaio, lame elettriche sibilanti, mucchi di teste con occhi e bocche aperti, tinozze piene di viscere luccicanti, inclinate per rovesciare il proprio contenuto su scivoli di metallo diretti verso fragorosi trituratori che producevano cibo per cani.


La centrale elettrica era un’attività piú pulita, ma ciascuna delle due lasciò il segno. Dopo essersi allontanato dallo stabilimento a bordo del pullman, Roland non toccò piú un boccone di carne per tre anni. Scelta scomoda, in una scuola del 1959. Il direttore del convitto spedí una lettera di rimostranze ai suoi genitori. Al Capitano, che non aveva mai sentito di nessuno che non mangiasse la carne, non piacque il tono stizzoso del messaggio e difese suo figlio. Era necessario assicurargli un regime alimentare alternativo.


Ogni volta che, come adesso, Roland afferrava il bollitore elettrico, il suo pensiero andava a due mani, reali o immaginarie, nell’atto di abbassare una leva in nome di bilancio, offerta e domanda e magica convenienza. La vita quotidiana nella grande città, dal tè alle uova e pancetta alle ambulanze, era sostenuta da sistemi invisibili, saperi, tradizioni, reti, sforzi operativi, profitti.


Tra questi, il sistema postale che gli aveva fatto pervenire la quinta cartolina. Attualmente stava con l’immagine in vista sul tavolo di cucina accanto ai tulipani. Erano le 11 di sera. Aveva finito di sigillare l’ultima finestra e di realizzare una copertura improvvisata intorno alla porta sul retro affacciata sul giardino. La radio mormorava le notizie: gli allevatori protestavano contro la macellazione delle loro greggi. Roland beveva tè, perché aveva smesso con l’alcol. La decisione era stata tanto facile quanto improvvisa, in parte indotta da una telefonata dell’ispettore Browne. Una liberazione. Per commemorarla, aveva rovesciato una bottiglia e mezza di scotch nell’acquaio.


L’ispettore gli disse che il giorno della sua scomparsa, il nome di Alissa risultava su un elenco di passeggeri senz’auto al seguito a bordo del traghetto Dover-Calais delle 17:15. Aveva trascorso la notte a Calais all’Hôtel des Tilleuls, non lontano dalla stazione ferroviaria. Lei e Roland ci erano stati qualche volta insieme, e avevano preso da bere nell’angusto cortile polveroso dove due tigli lottavano per un po’ di luce. Amavano quel genere di locali economici e senza pretese dai pavimenti scricchiolanti, gli arredi instabili, e una vecchia doccia poco affidabile con la tenda di plastica irrigidita da anni di sapone. Al piano di sotto, il solito menu fisso a trentaquattro franchi. Erano strati di ricordi sovrapposti. Un cameriere alto e smunto dai capelli grigi che gli piovevano sugli zigomi girava fra i tavoli con una zuppiera d’argento. C’era un che di dignitoso nel modo in cui ne proponeva il contenuto. Patate e porri. Per secondo, un trancio di pesce alla griglia, una lustra patata lessa, un mezzo limone a fianco, insalata verde in una ciotola bianca, un litro di rosso in una bottiglia senza etichetta. Formaggio e frutta. Era l’anno prima che si sposassero. Avevano fatto l’amore di sopra su un lettino cigolante. Non era stato corretto da parte di Alissa tornarci senza di lui. Ebbe coscienza di quella ingiustizia in un momento di intensa nostalgia. Quell’albergo per lui era tutt’uno con l’amante, perciò ne era geloso. Ma forse non c’era andata da sola.


Il sistema centralizzato, napoleonico e paranoide, di registrare e archiviare i movimenti degli ospiti di tutti gli hotel era ancora in auge. Le due notti successive, gli disse Browne, Alissa era stata a Parigi all’Hôtel La Louisiane sulla rue de Seine, nel sixième. Lo conoscevano bene. Con poco sforzo aggiungeva tradimento a tradimento. Dopo Parigi, aveva passato una notte all’Hôtel Terminus di Strasburgo. Nessun problema con quello, dovunque fosse. Su Monaco, invece, non c’era niente. La Germania Ovest si interessava meno della Francia ai propri visitatori.


La voce di Browne gli arrivava lontana. Circondata da un mormorio, il rumore di una macchina da scrivere e, insistente, il miagolare di un gatto.


– Sua moglie se ne va in giro per l’Europa. Di sua volontà. Non abbiamo ragione di credere che sia in pericolo. Per il momento, non c’è altro.


Nessun motivo per accennare all’ultimo messaggio, da parte di Roland. Era una faccenda privata, e avrebbe dovuto esserlo fin dal principio. Provò a sollecitare delle scuse. – Dunque non pensa che abbia falsificato le cartoline né che l’abbia uccisa.


– Allo stato attuale, no.


– Le sono grato di tutto, ispettore. Mi riconsegnerete la roba che ha portato via?


– Passerà qualcuno a portargliela.


– Le foto che ha fatto al mio taccuino.


– Sí.


– Negativi compresi.


La voce era fiacca. – Faremo il possibile, Mr Baines –. Browne riagganciò.


Roland stringeva il tazzone tiepido del tè tra le mani sporche. L’orologio a parete segnava le 23:05. Troppo tardi per chiamare Daphne e parlare con lei dell’ultima cartolina di Alissa. Lawrence si sarebbe svegliato entro un’ora. Meglio fare la doccia subito. Ma non si mosse. Prese la cartolina e tornò a fissare la foto a colori alterati di un prato in discesa sullo sfondo delle Alpi bavaresi.


Fiori di montagna, pecore al pascolo. Non molto lontano dal suo paese di origine. Intanto, all’ultimo notiziario un allevatore dei monti gallesi spiegava che chi abitava in città non avrebbe nemmeno potuto immaginare i legami d’affetto che si creavano tra gente come lui e sua moglie e le loro pecore e i loro agnelli. E adesso quegli animali affidati alle loro cure erano destinati a finire in un posto non dissimile dallo stabilimento di Ipswich. Giustizia in guanti di velluto. Essere spediti nel dimenticatoio da chi dice di amarti. Da chi ripete di amarti ancora. Caro Roland, lontano da voi due = dolore fisico. Davvero. Una ferita profonda. Ma so che la mtrntà mi avrebbe distrutta. E parlavamo di averne un 2o! Meglio soffrire adesso, che affrontare dolore/caos/amarezza piú a lungo in seguito. Il percorso + cammino che mi aspetta è chiaro. Oggi certe persone gentili di Murnau mi hanno lasciata restare 1 h nella camrtta della mia infnz. Prestò raggiungerò i miei al Nord. Ti prego, non chiamare. Mi dispiace amore. A.


Aveva deciso di portarsi in vantaggio nella gara a chi soffriva di piú. Le abbreviazioni continuavano a lasciarlo stupito anche dopo numerose letture. Le avanzavano almeno due dita di spazio bianco lungo il bordo dentellato della cartolina. Piú che sufficienti per scrivere maternità per intero. Nella cittadina commerciale di Murnau, dalla finestra dell’abbaino della sua stanza da letto incastrata sotto un soffitto spiovente, aveva guardato il panorama di tetti arancioni verso lo Staffelsee e meditato sui suoi trentotto anni di vita e sull’interruzione improvvisa, la fuga dal peso opprimente di un’esistenza ordinaria, lo sventurato miracolo della nascita di Lawrence, la mediocrità di un marito tutto meno che eccezionale. Ma parlare del suo «cammino»? Non era un termine del suo frasario. Alissa non credeva nell’ineluttabile, un concetto implicito nell’idea di seguire un cammino. Non era religiosa, nemmeno un po’. Era o comunque era stata un’insegnante di lingua e letteratura tedesca ben preparata e innamorata di Leibniz, dei fratelli Humboldt e di Goethe. La ricordava un anno prima, reduce da una brutta influenza, seduta nel letto a leggere concentratissima una biografia di Voltaire in tedesco. Per natura tendeva a uno scetticismo bonario. Questo portava Roland a escludere le sette New Age. Nessun guru avrebbe tollerato il suo umorismo benevolo. Se era rimasta un’ora nella stanzetta che un tempo aveva diviso con l’orsacchiotto logoro attualmente coricato nella culla di Lawrence al piano di sopra, allora il cammino di cui parlava si muoveva a ritroso, dritto dentro il passato.


E se adesso se ne andava a nord a trovare i suoi genitori, voleva dire che Roland non si sbagliava. I rapporti tra loro erano stati difficili. C’erano state parecchie crisi. Lontani per metà dell’anno, appena s’incontravano si davano sui nervi. Malgrado fossero molto legati, o forse perché lo erano. L’ultima volta che lui e Alissa, al quarto mese di gravidanza, erano andati a Liebenau era l’aprile dell’85. Scopo della visita: comunicare ai genitori la bella notizia. Dopo cena in cucina scoppiò un litigio, breve ma acceso. Jane e la sua unica figlia lavavano i piatti insieme. L’oggetto del contendere era come ritirare i piatti puliti in un armadietto. Nella stanza accanto, Heinrich e Roland sorseggiavano brandy. In quella famiglia, agli uomini era interdetto l’accesso a qualsiasi lavoro domestico. Quando il volume delle voci salí in tedesco e infine esplose in inglese, la lingua della madre, il suocero di Roland gli lanciò uno sguardo, il classico sorrisetto con alzata di spalle del tipo che-ci-vuoi-fare.


Il problema vero emerse a colazione. Quattro mesi? Perché Jane doveva essere tra gli ultimi a saperlo, ben dopo tutti i loro amici di Londra? Come aveva osato Alissa sposarsi senza informare i suoi genitori? È cosí che si tratta chi ti ha sempre voluto bene e si è preso cura di te?


Alissa avrebbe potuto dire a sua madre che il bambino di cui era incinta era stato concepito nella camera al piano di sopra. E invece, perse immediatamente le staffe. Che differenza faceva? Perché sua madre non mostrava entusiasmo per quel genero meraviglioso e per il futuro nipote? Perché non apprezzava il fatto che lei e Roland si fossero sobbarcati tutti quei chilometri per dare loro la notizia di persona? Lunedí mattina a lei toccava tornare in classe. Alissa snocciolò le tappe del viaggio sfruttandone l’energia allitterativa. Il caso volle che in buona parte il tragitto coincidesse con quello di Roland per raggiungere al tempo il collegio. Da Londra a Harwich, poi Hook of Holland, e Hannover, e infine arrivare lí. Un viaggio pesante e costoso. Si era aspettata un’accoglienza affettuosa. Che ingenua! Il tedesco di Roland era abbastanza buono da permettergli di seguire il discorso, ma non sufficiente per l’articolazione di interventi concilianti. Quel ruolo toccava a Heinrich che all’improvviso esclamò, come aveva già fatto prima: – Genug! – Basta! Alissa si alzò da tavola e andò a sbollire la rabbia in giardino. L’indomani mattina fecero colazione in silenzio.


Se Alissa era lí adesso, nella linda villetta in legno e mattoni costruita al centro del giardino da un quarto di ettaro, doveva avere uno scopo preciso. Se intendeva comunicare ai suoi genitori che stava abbandonando marito e figlio, ne sarebbe nata una lite senza precedenti.


Jane Farmer era nata a Haywards Heath nel 1920, figlia di due insegnanti di lingue. Dopo il liceo dove si distinse in francese e tedesco, aveva frequentato dei corsi di stenodattilo – l’ipotesi dell’università non fu mai contemplata. Era una ragazza da novanta parole al minuto. All’inizio della guerra, lavorava presso un ufficio di segreteria del ministero dell’Informazione e divideva un minuscolo appartamento non riscaldato a Holborn con una compagna di scuola. Fu per l’influenza di quella coinquilina, destinata a diventare negli anni Sessanta una figura di spicco al Courtauld, che Jane cominciò a leggere poesia e narrativa contemporanea. Le due ragazze frequentavano insieme i reading di poesia e organizzarono un circolo di lettura che durò quasi due anni. Jane scriveva liriche e racconti, nessuno dei quali fu mai accettato dalle piccole riviste del settore sopravvissute durante il conflitto. Continuò a fare la dattilografa e l’archivista in vari ministeri ed ebbe relazioni con uomini animati dalle sue stesse ambizioni letterarie. Nessuno dei quali riuscí mai a sfondare.


Nel 1943 rispose a un annuncio per dattilografa a mezza giornata presso la rivista «Horizon» di Cyril Connolly. Faceva quattro ore a settimana. Anni dopo raccontò al genero che se ne stava seduta in un angolino minuscolo a sbrigare corrispondenza noiosissima. Non era bella, non era ben introdotta e neppure sapeva destreggiarsi in società come molte delle giovani donne che transitavano nell’ufficio. Non stupiva perciò che Connolly non la notasse nemmeno, ma di quando in quando le capitava di trovarsi di fronte a divinità del mondo letterario. Vide, o credette di aver visto George Orwell, Aldous Huxley e una signora che poteva benissimo essere Virginia Woolf. Ma, come Roland sapeva, Woolf era morta due anni prima, e Huxley abitava in California. Ci fu una sola persona prestigiosa e di alto lignaggio, sua preziosa contemporanea, che manifestò un cordiale interesse per Jane e le passò addirittura un paio di abiti smessi: Clarissa Spencer-Churchill, nipote di Winston. Avrebbe sposato Anthony Eden prima che diventasse primo ministro. Nel 1956 commentò memorabilmente che certi giorni le pareva che il Canale di Suez tagliasse in due il salotto di casa sua. Clarissa in seguito passò oltre. Jane ricordava Sonia Brownell, la moglie di Orwell, come una presenza gentile. Affidò a Jane due libri da recensire, ma non pubblicò nessuno dei due pezzi.


Jane era una figura marginale sulla scena dell’«Horizon», con i suoi due pomeriggi a settimana dopo il turno al ministero del Lavoro. Ma nel tempo, quel posto ebbe il suo effetto. Entro la fine della guerra, le ambizioni letterarie di Jane si erano irrobustite. L’idea era di viaggiare in tutta l’Europa e scrivere di quel che vedeva. Una volta le era capitato di sentire Stephen Spender parlare della Rosa Bianca, un coraggioso gruppo di studenti antinazisti attivi nell’ambiente universitario di Monaco. Si trattava di un movimento individuale non violento che distribuiva segretamente volantini in cui venivano enumerati e denunciati i crimini del regime, compreso lo sterminio di massa degli ebrei. All’inizio di febbraio del 1943 i massimi esponenti del gruppo furono rastrellati dalla Gestapo, processati da un «Tribunale del Popolo» e giustiziati. Nella primavera del 1946 Jane riuscí a ottenere l’attenzione di Connolly per cinque minuti. Gli espose la propria idea di recarsi a Monaco per cercare i sopravvissuti del movimento e raccogliere le loro storie. Di sicuro rappresentavano il meglio della nazione tedesca e ne incarnavano lo spirito futuro.


Ai suoi esordi, verso la fine del 1939, il direttore di «Horizon» aveva assunto sulla guerra una prospettiva da esteta. La grande sfida era non piegarsi alla follia del momento, ma farsi di lato e continuare a sostenere le migliori tradizioni critiche e letterarie del mondo civile. Ma col procedere del conflitto, Connolly si convinse dell’importanza di un coinvolgimento serio, attraverso reportage, preferibilmente dalla prima linea, laddove possibile. Si mostrò cortese e incoraggiante con Jane, sensibile alla sua proposta tanto da offrirle 20 sterline dal conto corrente della rivista a copertura delle spese. Un gesto generoso. Connolly aveva in mente un progetto collaterale. Quando avesse finito le ricerche a Monaco, voleva che facesse «un salto oltralpe», in Lombardia, per una serie di articoli sulla cucina e i vini locali. La dieta britannica, da sempre un disastro, era stata ulteriormente peggiorata dalla guerra. Era venuto il momento di cominciare a pensare alle tradizioni gastronomiche delle assolate regioni dell’Europa meridionale. Già prima che finisse la guerra, Connolly era stato a Parigi e aveva soggiornato presso l’ambasciata britannica appena aperta per godersi la cucina francese. Adesso voleva informarsi sui piatti tipici della provincia lombarda, tipo spiedo bresciano, osso buco, polenta e osei, e sui vini locali. Estrasse la banconota da 20 sterline dalla cassetta del contante. L’incarico che avrebbe trasformato la vita di Jane Farmer e dato inizio a quella di Alissa fu concordato nei pochi minuti prima che Cyril Connolly scappasse per una colazione al Savoy Hotel con Nancy Cunard.


La ventiseienne Jane Farmer lasciò l’Inghilterra ai primi di settembre del ’46 con 125 sterline, metà delle quali in valuta americana, abilmente distribuite sulla sua persona e nel bagaglio. Connolly le firmò una lettera su carta intestata che la definiva «corrispondente europea» della rivista «Horizon». Nell’estate del 1984, durante la sua prima visita a Liebenau, Roland si intrattenne in giardino con Jane. Avevano già discusso di letteratura qualche ora prima e Jane aveva messo sul tavolo una vecchia scatola di cartone. Tirò fuori, per mostrarla a Roland, la lettera intestata ormai ingiallita, con la firma del direttore. Connolly e Brownell si erano messi in gioco per lei. Forse nutrivano della simpatia per quell’impiegata che qualcuno in ufficio chiamava «Farmer Jane», a sottolinearne il provincialismo. Tramite un amico di Malcolm Muggeridge, ed ex agente dell’MI6, Brownell le procurò tre nominativi e altrettanti indirizzi di persone a Monaco che avrebbero saputo fornirle informazioni sulla Rosa Bianca. Grazie ai contatti di Connolly, Jane portava con sé anche un paio di lettere di presentazione per ufficiali dell’esercito britannico che potevano aiutarla qualora avesse avuto grane al confine francese. Ci fu una colletta improvvisata. Cunard, sempre pronta a sostenere i movimenti di resistenza, elargí 30 sterline. Arthur Koestler ne diede 5 a una persona che doveva farli avere a lei. Alcuni autori dell’«Horizon» donarono dieci scellini a testa. Quasi tutti buttavano mezze corone e monete da due scellini nella Scatola della Rosa Bianca che stava in ufficio. Jane aveva ereditato 50 sterline da uno zio. Sospettava che le 5 sterline donate da Sonia arrivassero direttamente da Orwell.


Quella sera d’estate nel giardino di Liebenau, dopo avergli mostrato la lettera di Cyril Connolly, Jane prese dalla scatola i suoi sette diari. Cercò di comunicargli il senso di liberazione che aveva provato durante il viaggio da Londra a Monaco passando per Parigi e Stoccarda – l’avventura piú emozionante della sua vita. Aveva abbandonato il ruolo di docile figlia e modesta impiegata, come pure quello di persona intellettualmente e socialmente inferiore relegata nell’angolo di un ufficio, e ancora non aveva assunto quello di moglie devota. Per la prima volta nella sua vita, aveva compiuto una scelta seria, dando inizio a una missione e a un’avventura. Non dipendeva da nessuno. Doveva contare sul proprio ingegno, e prepararsi a diventare una scrittrice.


Dopo tre settimane in Francia, sorprese se stessa riuscendo a procurarsi un invito a cena a una mensa ufficiali nei pressi di Soissons. Convinse un riluttante sergente gallese a farla salire sul suo autocarro e darle un passaggio per le ultime trenta miglia fino al confine tedesco. Respinse le avances di numerosi militari e civili. Un sottotenente americano con cui ebbe una breve relazione la portò da vicino Stoccarda a Monaco a bordo della sua jeep. Conosceva discretamente il francese e il tedesco per averli studiati e presto affinò entrambe le lingue. – Ero diventata me stessa! – esclamò rivolta a Roland. – E dopo mi sono persa.


I diari erano un segreto. Heinrich non ne sapeva niente. Ma Roland poteva mostrarli ad Alissa, se desiderava. Jane lo lasciò solo in giardino e rientrò a occuparsi della cena. La prima pagina del primo quaderno lo informava in bella grafia che il 4 settembre 1946 Jane aveva viaggiato in terza classe sul ripristinato Golden Arrow da Londra a Dover e, in seguito, sulla Flèche d’Or da Calais a Parigi. Se aveva notato gli altri passeggeri o osservato il panorama dal finestrino attraversando le distese della Piccardia liberata, Jane non ne faceva parola. I primi commenti risalivano a Parigi. «Tra squallore e incanto. Sorprendentemente intatta. Negozi deserti». Si esercitava nella scrittura giornalistica descrivendo il minuscolo albergo e il suo propriétaire nel Quartiere latino, una rissa fuori da un fornaio, una coppia dei primi rari turisti americani accolti dai locali con una certa freddezza, in un tabac. Aveva assistito a una lite in un bar tra un ufficiale della marina britannica che parlava la lingua con disinvoltura e una «specie di intellettuale francese».


Sintesi delle rispettive posizioni. Ufficiale, leggermente sbronzo: «Non dire a me da che parte stava la Francia durante la guerra. I tuoi amici ci combattevano e ammazzavano i nostri soldati in Siria, Iraq e Nord Africa. La vostra flotta non volle lasciare Mers-el-Kébir e raggiungere Portsmouth per stare al nostro fianco, perciò fummo costretti ad attaccare. Ora scopriamo che i vostri gendarmes qui a Parigi scortarono 3000 bambini francesi alla Gare de l’Est per consegnarli a un destino di morte. Si dà il caso che fossero ebrei». Intellettuale brizzolato, a sua volta leggermente sbronzo: «Abbassi la voce, M’sieur. Qualcuno potrebbe anche ucciderla per idee come questa. La sua versione dei fatti è scorretta. Quelle navi sarebbero rimaste leali alla Francia. In seguito, quando i tedeschi tentarono di impossessarsi della nostra flotta a Tolone, preferimmo affondarla. Mio cognato è morto sotto le torture della Gestapo. Vicino alla mia città natale quasi un intero paese fu sterminato. France libre era con voi e combatté valorosamente. Durante la liberazione migliaia di cittadini francesi caddero sotto le bombe delle vostre navi da guerra. Il vero spirito della nazione fu la Resistenza». A quelle parole tutti i clienti del bar esclamarono Vive la France! Io continuai a scrivere, fingendo di non aver sentito niente.


Permise a Roland di tenere i quaderni quella notte. Lui li lesse dopo cena e piú tardi, la sera, a letto, Alissa diede inizio al primo, mentre Roland ormai leggeva la cronaca di una «divertentissima» serata in compagnia di ufficiali britannici a Soissons, in una «bella casa con parco e lago privato». A colpire Roland fu la sicurezza e la precisione della prosa. E soprattutto, il dono di Jane per le descrizioni spericolate e brillanti. La pagina e mezza dedicata alla relazione con il sottotenente americano Bernard Schiff fu una sorpresa. Jane Farmer non aveva mai conosciuto un amante cosí generoso, cosí «straordinariamente attento al piacere di una donna», a differenza degli uomini inglesi del suo passato e dei loro meccanici stantuffamenti. Consapevole della presenza dei suoceri nella stanza accanto al di là di una parete sottile, lesse sottovoce il ricordo di Jane del sesso orale con Schiff. Alissa, bisbigliando a sua volta disse: – Deve essersene dimenticata. Morirebbe di vergogna se sapesse che l’ho visto.


Due giorni dopo, entrambi avevano letto i diari di Monaco da cima a fondo. Prima di pranzo fecero una passeggiata a Liebenau, costeggiando la riva del Große Aue fino al castello. Alissa era agitata, sottosopra per quel che aveva letto, confusa per non dire offesa. Come mai sua madre non aveva mai fatto parola dei quaderni? Perché consegnarli a Roland, e non a lei? Jane avrebbe dovuto pubblicarli. Ma le era mancato il coraggio. Heinrich non l’avrebbe mai permesso. In seno alla famiglia, la Rosa Bianca era suo appannaggio esclusivo, malgrado ci fossero altri superstiti. Un certo numero di studiosi, storici e giornalisti lo avevano intervistato. Non aveva avuto un ruolo centrale nel movimento e mai aveva finto il contrario. Gli chiesero qualche consulenza per una produzione cinematografica. Il risultato lo deluse. Non erano riusciti a cogliere la realtà. – Gli Scholl, Hans e Sophie, erano diversi, non assomigliavano a quelli! – Lo disse pur ammettendo di averli a stento conosciuti. Anche gli articoli sui giornali, i saggi, e le monografie che cominciarono a uscire non gli piacevano. – Nessuno di loro era lí, non possono sapere. La paura! Ormai è storia, non è piú realtà. Sono solo parole. Non si rendono conto di quanto eravamo giovani. Non capiscono la purezza dei nostri sentimenti. I giornalisti di oggi sono atei. Non gli interessa sapere quanto fosse forte la nostra fede religiosa.


Non c’era mai niente in nessun argomento che potesse soddisfarlo. Non era questione di accuratezza. Lo addolorava il fatto che l’esperienza vissuta si fosse trasformata in un’idea, in un concetto nebuloso nella mente di sconosciuti. Nulla era mai all’altezza dei suoi ricordi. E i diari di sua moglie che avrebbero forse potuto riportare ogni cosa in vita sarebbero stati per lui una minaccia perché avrebbero mutato il suo ruolo nella vicenda – questa era l’opinione di Alissa e Roland pensò che aveva ragione. Suo padre era un uomo volitivo, di vedute antiquate. Jane una donna indipendente in giro per Francia e Germania a fare sesso con degli estranei! La pubblicazione era impensabile, anche presso una stamperia privata Jane non avrebbe mai fatto nulla contro la volontà del marito. L’unica ribellione che si concesse fu di permettere a sua figlia e a Roland di fare una fotocopia segreta dei diari da portare a Londra. Una specie di pubblicazione. Il giorno prima della partenza, Roland e Alissa si recarono in una copisteria di Nienburg dove passarono il pomeriggio ad aspettare il duplicato prodotto da una macchina lenta e difettosa. Nascosero le 590 pagine in una borsa della spesa. Tornando a piedi lungo il fiume, Alissa parlò a Roland di suo padre. Un cortese signore di settant’anni, arroccato sulle proprie posizioni. I suoi ricordi del movimento della Rosa Bianca, come le sue opinioni al riguardo, erano inamovibili. E non avrebbe voluto che qualcosa li complicasse. Quanto al sesso orale: al pensiero di suo padre, devoto e integerrimo praticante, alle prese con il vigoroso sottotenente di quasi quarant’anni prima, Alissa scoppiò in una risata talmente scomposta da doversi reggere al tronco di un albero.


Roland ripensò alla loro passeggiata attraverso il villaggio di Liebenau prendendo dal tavolo la sua cartolina prima di avviarsi al piano di sopra per fare una doccia. Sí, in quell’estate del 1984 l’umore di Alissa era stato curioso e instabile, in seguito alla lettura dei diari di sua madre. Ne avevano discusso a lungo, poi l’argomento si era esaurito. Nell’inverno si trasferirono nella casa di Clapham, era in arrivo il bambino, Daphne e Peter aspettavano il loro terzo e le due famigliole felici si frequentarono parecchio – la vita quotidiana spazzò via tutto quanto apparteneva al passato. La copia semidimenticata fu avvolta in carta di giornale e ritirata in un cassetto in camera loro.


Roland si fermò ai piedi della scala. Ancora nessun richiamo da parte di Lawrence. In camera, buttò i vestiti nel cesto della biancheria. Contaminati dalla polvere di Černobyl´. Quasi quasi ci credeva. In piedi nella vasca si piazzò sotto il soffione improvvisato che fuoriusciva malfermo dalla parete non piastrellata, allo scopo di depurarsi. I ricordi avevano un tempo di radioattività lungo. Mentre tornavano frettolosamente dal centro di Liebenau per arrivare puntuali a cena, Roland si era chiesto se quei diari avrebbero permesso ad Alissa di vedere sua madre sotto una luce diversa, di ammirarla di piú, di essere meno incline alla lite con lei. Si verificò il contrario. Durante l’ultimo giorno di visita, madre e figlia furono impossibili insieme. Come una coppia di vecchi coniugi bizzosi che avessero perso da anni la possibilità di separarsi. La sessantaquattrenne Jane trattava la figlia come una concorrente da rimettere al suo posto. Appena rientrati in casa, Alissa se la prese con la madre in cucina per l’orario della cena. A tavola, ci fu un lungo battibecco sull’Unione cristiano-democratica e sull’Erziehungsgeld di Helmut Kohl, l’indennità parentale proposta per legge dal cancelliere. Ci volle un pugno battuto con forza sul tavolo da Heinrich per chiudere il discorso. Piú tardi, in giardino, polemizzarono sulla sequenza di certi eventi verificatisi durante una vacanza di famiglia nel borgo di pescatori di Hindeloopen, nei Paesi Bassi. Coricandosi con Alissa quella sera, Roland le chiese, come altre volte in passato, quale fosse il problema tra di loro.


– Siamo fatte cosí. Non vedo l’ora di tornare a casa.


Nella notte Roland si svegliò e la trovò che piangeva. Una cosa insolita. Non volle dirgli il perché. Si addormentò sul suo braccio e Roland rimase sveglio a pensare all’arrivo a Monaco di una giovane e sconcertata Jane Farmer.


Il sottotenente Schiff l’aveva avvertita. Jane aveva seguito gli sviluppi del conflitto ma trascurato la cronaca dei settanta raid aerei pesanti sulla città. Scese dalla jeep a un incrocio nei pressi dell’ex stazione ferroviaria centrale. Monaco era un cumulo di macerie. Jane si era sentita «personalmente responsabile». Uno stato d’animo assurdo, secondo Roland. La città era devastata come Berlino, scriveva Jane. «Molto peggio del Blitz di Londra». Salutò Bernard Schiff «con un lungo bacio», ma senza fingere che si sarebbero sentiti ancora. Era un uomo sposato del Minnesota, con tre figli di cui le aveva mostrato le foto sorridenti. Lui mise in moto e partí. Lei prese la valigia e s’incamminò con un Baedeker degli anni Venti nella mano libera. Si fermò all’ombra per consultare una cartina pieghevole. Impossibile stabilire dove si trovava dato che non vedeva un cartello stradale. Era finita in una landa desolata, faceva un caldo innaturale per la stagione. Il traffico – perlopiú di rari veicoli militari americani – sollevava polvere di detriti nell’aria senza vento. Gli edifici accanto a lei erano scoperchiati. Al posto delle finestre restavano «grandi buchi, piú o meno rettangolari». A sedici mesi dalla fine della guerra, i calcinacci erano stati raccolti in «mucchi ordinati». Jane fu sorpresa dal passaggio silenzioso di un vecchio tranvai elettrico carico di passeggeri. C’era un discreto numero di persone in giro, perciò lasciò cadere la cartina e decise di mettere a frutto il suo tedesco scolastico. I passanti non reagivano con ostilità al suo accento. Ma nemmeno con particolare simpatia. Dopo un’ora e qualche indicazione sbagliata o capita male, trovò un posto, una pensione sulla Giselastraße nei pressi dell’università e vicino al Giardino inglese.


Non si capacitava, come già le era successo attraversando la Francia, che ci fossero alberghi e persone addette a cambiare le lenzuola e a cucinare quello che si trovava. Cosí presto, dopo una guerra totale. Altrove il cibo scarseggiava. Lungo le strade, non era insolito imbattersi in mezzi corazzati dati alle fiamme. C’erano residuati di guerra ovunque. Sul marciapiede di un paesino francese, aveva visto l’ala annerita di un aereo da caccia. Per ragioni che non era riuscita a scoprire, nessuno voleva rimuoverla. Nelle strade e nelle stazioni rimaste in piedi si radunavano gli sfollati; ebrei superstiti, ex militari, ex prigionieri di guerra, rifugiati in arrivo dalle zone sotto il controllo dell’Unione Sovietica. Venivano ammassati a decine di migliaia in speciali campi. Dovunque «miseria, lerciume, fame, dolore, amarezza».


La città era per i due terzi in rovina. Ma rimanevano sacche di intatta normalità, dove le bombe non erano cadute. La sua stanzetta minuscola al terzo piano era polverosa e odorava di muffa, ma steso sul letto c’era un bel piumino imbottito, un articolo esotico al tempo per un cittadino britannico. Davanti alla finestra, dirigendo lo sguardo dove pensava scorresse il fiume, Jane poteva «convincersi che quella follia non fosse mai successa». Per quel che riusciva a capire, la pensione era stata occupata da ufficiali e burocrati americani. Scendendo dalla sua stanza, sentiva il ticchettio di macchine da scrivere al di là di alcune porte chiuse. L’odore di fumo di sigarette filtrava copioso nella tromba delle scale.


Il mattino successivo percorse il breve tratto fino all’edificio centrale dell’università sulla Ludwigstraße. La indirizzarono al primo piano. Percorse un lungo corridoio colonnato, pieno di studenti. Altra inattesa normalità. Si fermò dinanzi all’ufficio amministrativo per ripassare il vocabolario tedesco che si era preparata. All’interno di uno stanzone rettangolare dalle finestre alte trovò una dozzina di segretarie o impiegate. Non essendoci un banco di accoglienza riconoscibile, Jane si rivolse a voce alta alla sala intera nel suo tedesco schematico. Si voltarono tutti a guardarla.


– Entschuldigung. Guten Morgen! – Stava scrivendo un articolo sulla Rosa Bianca per una importante rivista londinese. Qualcuno poteva fornirle i nominativi di persone da contattare? Era pronta a ricevere una risposta antipatica. Sei membri chiave del movimento, Hans e Sophie Scholl, tre studenti loro cari amici e un professore, erano stati condannati a morte e ghigliottinati. Seguirono altre esecuzioni. Quando la notizia dell’esecuzione si diffuse, 2000 studenti si radunarono per gridare a gran voce la propria approvazione. Traditori. Feccia comunista. E adesso? Troppo presto forse, troppa vergogna per esprimere qualcosa di piú di un imbarazzato silenzio. Si levò invece un mormorio solidale. Un paio di dattilografe si alzarono dalle scrivanie sorridendo, mentre le andavano incontro.


Tre anni prima, le stesse impiegate si sarebbero probabilmente sentite in dovere di sputare in terra sentendo nominare la Rosa Bianca. Nelle circostanze attuali, l’Università di Monaco desiderava identificarsi con il gruppo, vantarne il coraggio e la trasparenza morale. Nessun altro ateneo tedesco aveva martiri simili da rivendicare. Gli Scholl, Alex Schmorell, Willi Graf, Christoph Probst, il professor Kurt Huber erano figli di Monaco. Di fronte alla brutalità di un potere oppressivo, la loro era stata una resistenza puramente intellettuale. «Quei ragazzi erano talmente giovani, talmente coraggiosi». Chi avrebbe mai voluto dissuadere un’istituzione accademica, a partire dai suoi piú modesti impiegati, dal riconoscere in figure come quelle i simboli del ritorno alla vera finalità del sapere? Libero pensiero! «Questa, – scriveva Jane, – è stata l’università di Max Weber e di Thomas Mann – e ora è tornata a esserlo».


La prima a raggiungerla fu una signora in carne sulla sessantina, con occhiali che le ingigantivano gli occhi, conferendole le sembianze di una «simpatica rana». Prese Jane per un gomito e la indirizzò verso uno schedario. Ne estrasse un plico sottile di documenti ciclostilati.


– Hier ist alles was Sie wissen müssen –. Qui c’è tutto quello che le occorre sapere.


Copie dei sei opuscoli originali della Rosa Bianca, ciascuno non piú di due pagine in tutto, erano arrivate a Londra dalla Svizzera o dalla Svezia. Ciclostilati in gran numero, furono scaricati a milioni su tutta la Germania dai piloti della Raf. Jane si vergognò della propria ignoranza. Aveva immaginato che i volantini fossero documenti rari, raccolti molto tempo prima e distrutti dalla Gestapo. Muggeridge o il suo contatto dovevano saperlo. Con ogni probabilità lo sapevano tutti, nella redazione dell’«Horizon», e avevano pensato che ne fosse al corrente anche lei.


Altre persone negli uffici dell’Università di Monaco intanto annotavano nomi e indirizzi. Nacque qualche divergenza. Sentí esclamazioni del tipo «No, lei non abita piú qui», oppure «Quello è un bugiardo. Non ha mai partecipato». Saltò fuori il nome di una sorella, Inge Scholl. Doveva risiedere a Ulm, nella casa di famiglia. No, disse qualcuno, stava a Monaco. Girava voce che stesse scrivendo un resoconto. Aveva passato del tempo in un lager e non si era ancora ripresa del tutto. Era possibile che non volesse parlare. Secondo altri invece l’avrebbe fatto. Nessuno si irritava durante quegli scambi di opinione. L’umore, a detta di Jane, era di animato orgoglio.


Si trattenne un’ora nell’ufficio. Temeva che potesse arrivare un superiore, un capo, a rimproverare i presenti di un comportamento di cui la responsabile sarebbe stata lei. Ma il superiore si trovava già nella stanza. Era «un tipo irsuto che indossava un completo scuro due taglie di troppo per lui». Quello che aveva spiegato a Jane la sequenza degli opuscoli: i primi quattro composti tra l’estate e l’autunno del 1942 e distribuiti segretamente a Monaco e nei centri vicini. Gli altri due, scritti all’inizio dell’anno successivo, dopo il ritorno di Hans Scholl, Probst e Graf dal fronte russo, dove avevano prestato servizio come personale medico dell’esercito. L’ultimo dei due, giusto un giorno o due prima che la Gestapo arrestasse tutti i membri del gruppo. L’uomo disse a Jane che avrebbe notato la differenza tra l’opuscolo numero cinque e il numero sei.


Jane procedette con i saluti e i ringraziamenti, promettendo di spedire una copia del suo articolo. Sulla Ludwigstraße, fu presa da una curiosità impaziente. Si fermò su un angolo, tirò fuori i fogli pinzati e lesse il titolo del primo: Volantino della Rosa Bianca. Il suo tedesco le permise di arrivare al fondo della prima frase senza bisogno di un dizionario: «Non c’è nulla di piú disonorevole per una nazione civile che lasciarsi “governare”, senza opporre resistenza, da una banda di canaglie senza scrupoli, e dominati dai piú bassi istinti».


Dedicò metà pagina del suo quaderno alla propria reazione di fronte a quelle parole. Roland immaginò che l’avesse scritta quando ormai aveva letto tutti e sei i volantini.


Per un popolo civile non vi è nulla di piú vergognoso… Era come se stessi leggendo la traduzione di un venerabile autore latino dell’antichità… quella dichiarazione iniziale dal tono cosí solenne, scritta da un uomo, uno studente, poco piú che ventenne, animato dalla passione per la libertà intellettuale e da una salda consapevolezza che una preziosa tradizione artistica, filosofica e religiosa stava rischiando l’annientamento. Ho provato un brivido, una specie di vertigine… è stato come quando ci si innamora… Hans Scholl, sua sorella Sophie e i loro amici, praticamente soli in un’intera nazione, levavano le loro flebili voci contro la tirannia, non in nome di un credo politico ma della civiltà stessa. Erano morti, adesso. Morti da tre anni e io li piangevo su un angolo della Ludwigstraße. Avrei cosí tanto desiderato conoscerli, averli ancora accanto a me. Sono tornata all’albergo carica di tristezza, come un’amante in lutto.


Non lasciò la stanza finché non ebbe riletto e annotato i volantini. Che gesto rischioso, quanto coraggio nel definire il Terzo Reich «un carcere dello spirito… un apparato statale meccanizzato nel quale spadroneggiano criminali e alcolizzati», e scrivere che «ogni parola pronunciata da Hitler è una menzogna… La sua bocca è il fetido cancello dell’inferno». Tutto questo, sostenuto da riferimenti eruditi di altissimo livello: Goethe, Schiller, Aristotele, Lao-Tze. Jane si sentiva come «se stessi ricevendo un insegnamento». Si rese conto appieno di come la frequentazione costante di autori come quelli potesse ampliare e arricchire l’amore per la libertà. Scoprí di nutrire «collera e perfino risentimento» al pensiero che i suoi genitori, senza troppo pensarci e perché lei era femmina, non le avessero offerto il privilegio dell’istruzione universitaria di cui aveva potuto godere suo fratello. Lui era ancora nell’esercito, capitano della Royal Artillery. Era stato decorato con una medaglia al valore militare. In quel momento, seduta sul letto della piccola stanza affacciata su uno scorcio del Giardino inglese, Jane decise in cuor suo che, una volta tornata, dopo aver consegnato il pezzo al giornale, si sarebbe iscritta all’università. Filosofia o letteratura. Preferibilmente entrambe. Sarebbe stato il suo piccolo gesto di… già, di cosa, precisamente? Di resistenza, un tributo. Un omaggio dovuto alla Rosa Bianca. Si appuntò delle frasi estrapolandole dai volantini. I piú spregevoli crimini dello Stato, «crimini che eccedono drammaticamente qualsiasi misura umana… Non dimenticate che ciascun popolo merita il regime che accetta di sopportare… il nostro attuale Stato è la dittatura del male». E, da Aristotele, «il tiranno tende continuamente a provocare guerre». Alla fine del primo volantino, dopo un paio di nobili versi dal Risveglio di Epimenide di Goethe, la commosse profondamente il semplice, fiducioso appello: «Per favore, fate piú copie che potete di questo volantino e distribuitelo».


«… a partire dall’occupazione, sono stati massacrati, in Polonia, trecentomila ebrei nel modo piú bestiale». Hans Scholl e i suoi compagni avevano sognato di scuotere il popolo tedesco dall’inerzia, dall’apatia «di fronte a questi abomini, a questi crimini che degradano la razza umana… l’ottusa apatia del popolo tedesco non fa che incoraggiare i criminali fascisti». Senza l’impegno di passare all’azione, nessuno poteva chiamarsi fuori, perché ogni individuo «è colpevole, colpevole, colpevole». Nella frase conclusiva del quarto volantino si leggeva: «Non siamo disposti a tacere. Noi siamo la voce della vostra coscienza. La Rosa Bianca non vi darà pace!» Ma la speranza restava, non era ancora troppo tardi: «Ora che li abbiamo visti per quello che sono, è nostro primo e unico dovere, il sacro dovere di ciascun tedesco, distruggere questi mostri». Di fronte allo strapotere del male, l’unica risorsa era la «resistenza passiva». Silenzioso sabotaggio nelle fabbriche, nelle università e in tutti i campi delle arti. «Non versate un centesimo nelle collette… Non donate nulla per le raccolte di metalli, tessuti o altro».


Negli ultimi due volantini i toni si alzavano. Ora i titoli erano Volantino della Resistenza e Colleghi Combattenti della Resistenza! Nel quinto si diceva che, con il riarmo degli Stati Uniti, la guerra era ormai agli sgoccioli. Era tempo che il popolo tedesco si dissociasse dal nazionalsocialismo. Ma Hitler «conduce il popolo tedesco nell’abisso, Hitler non può vincere la guerra, può soltanto prolungarla… Il tempo del castigo si avvicina». «Previsione esatta», annotava doverosamente Jane sul suo quaderno, «ma un tantino prematura».


Il movimento di opposizione della Rosa Bianca non sembrava avere un progetto politico per il futuro. Ancora nel quinto e piú sintetico dei volantini, composto nel gennaio del 1943, Jane lesse: «Soltanto grazie a un’ampia collaborazione tra le nazioni europee si può preparare la strada della ricostruzione… La Germania di domani dovrà essere uno stato federale».


Sophie Scholl fu sorpresa mentre distribuiva questo volantino nello stesso edificio universitario che Jane aveva visitato quel giorno. Un custode la vide gettare i fogli dal lucernario dell’atrio. La denunciò ed ebbe inizio la fine. A quel punto, le forze tedesche erano già state respinte a Stalingrado. Il massacro aveva assunto proporzioni inimmaginabili. Si identificò giustamente quel passaggio come la svolta nelle sorti del conflitto. «Trecentotrentamila tedeschi sono stati inutilmente e irresponsabilmente trascinati alla morte e alla rovina dalla geniale organizzazione del nostro caporale scelto della Prima guerra mondiale. Grazie, nostro Führer!» Nei capoversi conclusivi dell’ultimo volantino, si trovava un disperato appello alla gioventú tedesca, affinché si sollevasse in nome di «valori intellettuali e spirituali… della libertà intellettuale… dell’essenza morale». Alla gioventú tedesca spettava il compito di «annientare l’oppressore…» e «fondare una nuova Europa dello spirito… I morti di Stalingrado ci chiedono di agire». E infine, l’ultima vibrante affermazione: «Il nostro popolo è pronto a ribellarsi all’asservimento dell’Europa da parte del nazionalsocialismo, nella scoperta entusiasmante della libertà e dell’onore». Cosí si concludeva la vicenda, con struggente ottimismo. Dopo gli arresti, seguirono in rapida successione, il processo farsa dall’esito scontato, e le prime esecuzioni. Tre giovani teste traboccanti di nobiltà e coraggio mozzate dal corpo. Sophie Scholl, la piú giovane, aveva ventun anni.


Jane rimase sdraiata a letto per una mezz’ora in uno stato di sfinita esaltazione. E questo, scrisse, lasciò il posto a una «bonaria autocritica». Quanto le pareva meschina e irrisolta adesso la sua vita. Un accumulo informe di settimane alle sue spalle. Aveva attraversato la guerra battendo a macchina impersonali lettere amministrative come in preda a uno stordimento. In tutta la sua vita non aveva osato mai niente di piú di una sigaretta proibita a quattordici anni in una macchia di rododendri al di là del campo da gioco della scuola. La buona sorte l’aveva assistita durante il Blitz su Londra, ma non poteva certo farsene un vanto. L’aveva subito insieme a tutti gli altri. Non aveva mai preso le difese di qualcuno né corso alcun rischio per un’idea, un principio. E adesso? Non rispose alla domanda. «Ebbe la meglio la fame. Non avevo mangiato niente per tutto il giorno». L’albergo non serviva la cena quella sera. Vagò per il quartiere universitario in cerca di un locale economico. «Mi sentivo diversa, in procinto di diventare una persona diversa. Stavo per affacciarmi su una nuova vita». Alla fine, trovò un posto che vendeva «orride salsicce su pane raffermo. Ma la senape aggiustava tutto».


La risposta immediata al suo E adesso? fu di passare al vaglio l’elenco di contatti della Rosa Bianca, scrivere il pezzo, e partire alla volta della Lombardia. Tra le macerie di Monaco, la sua esistenza le era sembrata «piuttosto promettente». Si insigniva del ruolo di membro onorario del gruppo. Ne avrebbe portato avanti l’impegno, collaborando alla costruzione della nuova Europa che loro avevano sognato. Anche il piú modesto contributo avrebbe fatto la differenza, come migliorare la cucina inglese, scrisse in tono spigliato, «descrivendo l’arte di preparare l’osso buco!» Un quarto di secolo piú tardi, quando sentí che il suo paese aveva finalmente aderito al progetto europeo, provò una gioia elettrizzante nel ricollegarsi a un momento della sua giovinezza. Per adesso, sul posto, si dedicò per i successivi dieci giorni al sincero sforzo di ricostruire la storia della Rosa Bianca.


Il suo primo errore fu quello di ritenere che i contatti dell’MI6 le garantissero informazioni privilegiate. Si fece chilometri a piedi per tutta la città con il suo Baedeker, senza cavare un ragno dal buco. Il primo indirizzo, un condominio di fine Ottocento, era crollato. In un altro, una villetta appartata nel quartiere di Schwabing, stava ora una famiglia italiana e nessuno di loro sapeva niente. Il terzo edificio, sempre a Schwabing, era intatto ma dava l’impressione che da molto tempo non ci abitasse anima viva. Nel caos della guerra, e del dopoguerra, nessuno si fermava a lungo nello stesso posto. Le andò un po’ meglio con le piste universitarie, ma rimanevano comunque molte lacune. Il suo primo successo fu un’ora con un’amica di Else Gebel, una prigioniera politica incaricata di registrare i nomi degli arrestati dalla Gestapo. Gebel aveva trascorso del tempo con Sophie Scholl durante i suoi ultimi giorni di vita e perfino diviso per qualche notte la cella con lei. Si trattava di una verità di terza mano, ma Jane si fidava di quella donna vivace e intelligente di nome Stefanie Rude. Gebel aveva in mente di redigere il suo resoconto che sarebbe forse stato inserito nel libro che Inge Scholl stava scrivendo. Stefanie era certa che a Scholl avrebbe fatto piacere che Gebel parlasse con Jane.


Sophie Scholl aveva detto a Else di avere sempre saputo che se l’avessero sorpresa a distribuire o lanciare volantini inneggianti alla Libertà a Monaco non avrebbe avuto scampo. Dopo il primo interrogatorio durato tutta la notte era tornata in cella calma e tranquilla. Quando le fu proposto di ritrattare le proprie opinioni sul nazionalsocialismo rifiutò. Erano i suoi aguzzini a sbagliarsi. Ma quando seppe che Christoph Probst era stato arrestato, le sue difese subirono un duro colpo. Probst era padre di tre bambini. Piú tardi si riprese, sostenuta dalla fede religiosa e dal credo politico. Si era persuasa che l’invasione delle forze alleate fosse imminente e che la guerra sarebbe finita in capo a qualche settimana. Rimase ferma nella convinzione che il nazionalsocialismo incarnasse il male e continuò a ripetere che, se suo fratello Hans doveva morire, allora doveva morire anche lei. Si mostrò calma durante le udienze del Tribunale del Popolo. Dopo la sentenza, fu trasferita al carcere di Stadelheim insieme al fratello e a Christoph Probst. Ai fratelli Scholl fu concesso un breve incontro con i genitori prima dell’esecuzione.


Tutto ciò che Jane udí nel corso di quello e di altri colloqui sarebbe entrato nella leggenda. La Rosa Bianca era destinata a diventare un elemento base di trattazioni scolastiche, poesie scadenti, facili sentimentalismi agiografici, film strappalacrime ed enfatici libri per bambini, innumerevoli ricerche accademiche e una valanga di tesi di dottorato. Era la storia di cui la Germania del dopoguerra aveva bisogno come fondamento narrativo del nuovo Stato federale. Diventò un racconto luminoso cosí ben costruito e retoricamente investito di ogni ufficialità che negli anni a venire avrebbe provocato scetticismo quando non di peggio. Hans Scholl non era stato un tempo un capofila della Gioventú hitleriana? L’apprezzato musicologo professor Huber non era forse un antisemita, la cui influenza risultava rintracciabile nel secondo volantino e nella curiosa precisazione: «qualsiasi posizione si voglia prendere sulla questione ebraica»? Frange della sinistra tedesca accusarono Huber, conservatore tradizionalista, di essere un «antisovietico» né piú e né meno dei nazisti. Altri si domandavano che differenza avessero fatto quei giovani cristiani inermi. Soltanto la potenza militare degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica era riuscita a sconfiggere il nazismo.


Ma Jane era convinta che leggere la storia di quella resistenza isolata con il paese in rovina, metà della popolazione ridotta alla fame, e mentre ogni singolo tedesco si stava appena risvegliando dall’incubo al quale tutti, o quasi tutti, avevano contribuito, sarebbe stato corroborante, una sorta di rivelazione, l’alba di un riscatto. E lei si era trovata lí, nel posto e nel tempo giusto, pronta a scrivere e dare alle stampe il primo resoconto documentato.


Nel giro di una settimana, aveva parlato con una decina di persone collegate a vario titolo e livello alla vicenda. Ebbe la fortuna di assicurarsi una mezz’ora di colloquio con Falk Harnack, per combinazione di passaggio a Monaco. Era stato il direttore del Teatro nazionale a Weimar. Aveva molte conoscenze nell’ambiente poco coeso e coordinato della resistenza tedesca. Era stato l’organizzatore di un abboccamento tra Hans Scholl e un gruppo di dissidenti berlinesi. La data concordata per l’incontro coincise di fatto con quella dell’esecuzione di Scholl. Da varie fonti Jane sentí il racconto di un raduno ufficiale presso l’Università di Monaco nel corso del quale gli studenti riuniti, compresi mutilati di guerra, erano stati arringati da un pezzo grosso del partito nazista, il Gauleiter Paul Giesler. In linea con la loro politica di resistenza passiva, gli Scholl non vi avevano preso parte. Con una retorica oscena e grossolana, Giesler aveva raccomandato alle studentesse di farsi ingravidare per dare figli alla nazione. Era loro dovere di patriote. Alle donne «non abbastanza attraenti per rimediare un compagno» promise di mobilitare i suoi sottoposti. Gli studenti lo subissarono in un crescendo di grida, frastuono di piedi battuti a terra e fischi di disapprovazione, prima di abbandonare alla spicciolata la sala – una protesta contro il partito senza precedenti. La Rosa Bianca non era dunque tanto isolata, dopo tutto. Jane incontrò Katharina Schüddekopf e in seguito, troppo brevemente, Gisela Schertling, la fidanzata di Hans Scholl – il punto piú vicino al cuore del movimento che ebbe occasione di raggiungere. Katharina le mostrò le sue fotografie degli Scholl, di Graf, di Probst. Sia lei sia Schertling erano state in carcere per attività sediziose.


Jane aveva ormai raccolto materiale piú che sufficiente sui sei membri chiave del gruppo, compreso il professor Huber. La sera prima delle ultime due interviste, scrisse il capoverso iniziale del pezzo per l’«Horizon». L’indomani mattina, si recò ancora una volta a Schwabing, per incontrare un maturo studente di giurisprudenza dell’Università di Monaco, Heinrich Eberhardt. Era stato un appassionato realizzatore di scritte ABBASSO HITLER e di graffiti inneggianti alla LIBERTÀ, e si era spostato a Stoccarda e in altri centri cittadini per distribuire il quarto, quinto e sesto volantino. In precedenza, durante il servizio militare in Francia, era stato ferito a un piede da un proiettile di grosso calibro guadagnandosi cosí lo stato di non combattente e un’estensione della licenza universitaria. Aveva incontrato vari membri del gruppo, pur senza mai entrarvi a pieno titolo. Sapeva di un certo Leo Samberger, uno dei giovani avvocati che avevano seguito il processo Scholl-Probst con orrore e vergogna. Jane pensava che sarebbe stato interessante conoscerlo.


Arrivò alle dieci puntuali. Contrariamente a quanto ci si poteva aspettare da uno studente, la stanza al piano terra di Heinrich era ampia, ben arredata e luminosa, con una porta a vetri che affacciava su un piccolo giardino. Quando si salutarono, Jane sentí un brivido premonitore. Era come se tutte le sue ricerche l’avessero preparata a quel momento. Un altro modo per dire che l’incontro l’aveva in un certo senso ammaliata, confondendo la sua chiarezza di giudizio. Il giovane alto dalla voce soave e la leggera zoppia che le stringeva la mano indicandole di accomodarsi era l’incarnazione di Scholl, Probst, Schmorell e Graf messi insieme. Come loro nelle foto, teneva in mano una pipa, ora spenta. In lui Jane rivide l’energia e l’avvenenza di Hans Scholl, lo sguardo aperto e sincero di Christoph, la delicatezza di Alex, la profondità sognante di Willi e gli stessi fitti capelli scuri gettati all’indietro. L’impressione di Jane fu immediata: Heinrich era la Rosa Bianca. Si rese conto subito, perfino nell’agitazione del momento, di sentirsi strana, poco lucida, forse, ma non le importava. Era incantata. Le tremavano un po’ le mani quando sedette ed estrasse il quaderno dalla borsa. In tono serio che forse, pensò, nascondeva un velo di bonaria ironia, lui si complimentò per il suo tedesco. Quando si alzò e attraversò la stanza per andare a prepararle una tazzina di orrendo caffè, Jane vide la fila di manuali di giurisprudenza aperti sulla scrivania, e una foto in cornice che immaginò fosse dei suoi genitori. Nessuna traccia di una fidanzata. Sollevò la tazzina, avendo cura di non farla raschiare contro il piattino. Per un poco rispose alle cortesi domande di lui riguardo al viaggio dall’Inghilterra, alle condizioni di Parigi, di Londra, al razionamento alimentare. Desiderava assolutamente fare una buona impressione.


Dopo i preliminari, Jane portò il discorso sul processo. Che cosa aveva saputo Heinrich dal suo amico Samberger? Ora che la conversazione verteva sulla resistenza, Heinrich si mostrò piú interessato a parlare degli altri gruppi con cui la Rosa Bianca era entrata in contatto. Lui ad esempio era originario di Amburgo, città che vantava un’onorevole storia di ostilità al Führer. Hans Scholl aveva stabilito dei collegamenti con un gruppo radicale del posto interessato a sabotaggi simili a quelli della Resistenza francese. C’era stato un tentativo di procurarsi della nitroglicerina. Poi c’erano le cellule di Friburgo e di Bonn. Stoccarda era un caso a parte. E infine c’era il gruppo berlinese, sotto l’influenza diretta della Rosa Bianca. La voce di Heinrich era bassa e calma, e Jane l’adorava. Ma sentire discorsi su altri gruppi antinazisti in giro per tutta la Germania la innervosiva. Complicava la storia. Non sarebbe stata in grado di inserire in un pezzo di 5000 parole tutte le varie scoordinate organizzazioni sovversive inefficaci, specie quelle che erano saltate fuori dopo Stalingrado e dopo gli spietati bombardamenti delle città renane. Voleva la Rosa Bianca e basta. Quello era il suo argomento. Perché Heinrich cercava di portarla su altre strade? Lo incalzò con le domande e finalmente lui cominciò a dirle tutto quello che aveva saputo dal suo amico e da altre fonti.


La voce gli si fece piú grave e pressoché spenta. Jane dovette sporgersi in avanti per riuscire a sentirlo. Sul diario, in una grafia insolita e spigolosa, registrò un mosaico di dicerie raccolte in carcere e in tribunale, alcune di terza mano. È possibile che a farle tremare le dita fosse la forte emozione. Tutti, comprese le guardie carcerarie, perfino Robert Mohr, l’agente della Gestapo che aveva condotto l’interrogatorio, erano stati colpiti dal contegno calmo e dignitoso degli accusati. Mohr fu sbalordito dal modo in cui Sophie Scholl accolse la notizia della sua morte imminente. Le lettere d’addio ai familiari e agli amici che ad Hans, Sophie e Christoph era stato suggerito di scrivere non furono mai consegnate. Le autorità al contrario le sequestrarono. In tribunale i genitori dei fratelli Scholl arrivarono a processo pressoché concluso. La madre svenne, poi si riprese. Il giudice Freisler era noto per la sua ferocia. Ai suoi occhi, i tre imputati erano morti ancor prima che le udienze avessero inizio. Quando la sentenza fu emessa, Sophie si rifiutò di rilasciare la consueta dichiarazione. Hans cercò di invocare la grazia per Christoph, che era padre di tre bambini uno dei quali appena nato. Ma Freisler lo interruppe.


Per l’esecuzione, i condannati furono tradotti a Stadelheim, alla periferia di Monaco. Le guardie allentarono la severità del regolamento e permisero agli Scholl di vedere i genitori. La moglie di Probst era ancora in ospedale, indebolita da un’infezione postparto. Sophie era bellissima. Consumò il dolcetto che aveva portato la madre e che Hans aveva rifiutato. Fu Sophie la prima a essere portata via: si allontanò senza una parola. Quando venne il turno di Hans, l’attimo prima di appoggiare la testa sul ceppo, il giovane gridò qualcosa sulla libertà, ma le testimonianze erano discordanti.


Heinrich si fermò. Forse aveva notato che Jane aveva gli occhi lucidi. Come per consolarla, le disse che secondo certe indiscrezioni il giudice Freisler era morto durante un bombardamento aereo.


Poi ci fu quel piccolo gesto di tenerezza che avrebbe cambiato il corso delle loro vite. Heinrich si sporse sul tavolo e appoggiò la mano sopra quella di Jane. In risposta, dopo alcuni secondi, lei girò la sua e le loro dita si intrecciarono. Si strinsero forte. Quanto accadde dopo non venne riportato, ma Jane annotò che aveva lasciato la stanza di Heinrich verso le nove di sera. Undici ore piú tardi. L’indomani mattina scrisse un messaggio a un collega di Kurt Huber, scusandosi di non essersi presentata all’appuntamento per l’ultima intervista.


Jane non era una giornalista di professione. Se già nella fase delle ricerche era stata troppo coinvolta dal tema trattato, adesso ne era completamente sopraffatta e travolta. Non importava se fosse di Heinrich o della Rosa Bianca che si era innamorata. La violenta ondata emotiva le avrebbe impedito di cogliere la differenza. Aveva bisogno di entrambi. A causare le lacrime che avevano spinto Heinrich a posare una mano sulla sua era stato il pensiero che avrebbe potuto senz’altro toccare a lui di essere condotto alla ghigliottina. Stessa bellezza, stessa intelligenza, bontà e coraggio, stroncati d’un colpo.


In capo a una settimana si era trasferita dalla pensione alla stanza di Heinrich, a Schwabing. Certe sere d’autunno ormai erano fredde, ma l’alloggio di Heinrich era piú caldo di qualsiasi posto a lei noto di Londra. La sua vita cambiava a una tale velocità! Non sapeva di poter essere tanto passionale. Giorno e notte, non si separavano mai. Heinrich mise da parte lo studio per gli esami di giurisprudenza. Jane non trovava il tempo per scrivere. Non se ne preoccupava, perché durante i loro vagabondaggi per la città, sentiva di essere ancora sulla pista della Rosa Bianca. Heinrich le indicò l’appartamento di Hans Scholl, e la casa di proprietà di Carl Muth, dove il gruppo e altri amici si incontravano spesso. Era lí che Heinrich aveva conosciuto Willi Graf e gli Scholl.


Insieme, si recarono al carcere di Stadelheim e al vicino cimitero di Perlach, ma non riuscirono a trovare le tombe. Forse cercavano nei posti sbagliati. O forse le autorità sotto il comando del Gauleiter Giesler avevano preferito non incoraggiare il culto dei martiri.


Una sera, non molto tempo dopo il suo trasferimento da lui, Heinrich mostrò a Jane la cosa piú preziosa che possedeva. Stava sotto una pila di libri, fra tende tarlate, ficcato in mezzo a strati di cartone. L’aveva tenuto nascosto per tutta la guerra. Era la prima edizione del Blaue Reiter Almanac, pubblicata nel 1912, una specie di manifesto del gruppo di rappresentanti dell’espressionismo attivi a Monaco e dintorni nei pochi anni che avevano preceduto il primo conflitto mondiale. I nazionalsocialisti li definirono «degenerati», e trafugarono le loro opere per venderle, distruggerle o farle sparire. Poco piú tardi, disse Heinrich, quando i dipinti di Kandinskij, Marc, Münter, Werefkin, Macke e molti altri avessero fatto ritorno sulle pareti delle gallerie, quella pubblicazione avrebbe acquistato un enorme valore. Era stata un regalo per i suoi vent’anni da parte di uno zio facoltoso e appassionato di modernismo, che aveva perduto quasi per intero la sua collezione. Da allora, per Jane e Heinrich, il Blaue Reiter diventò un progetto condiviso. Dalla rosa al cavaliere, dal bianco all’azzurro, dalla guerra alla pace, un intenso movimento si succedeva all’altro. Heinrich possedeva un catalogo di opere di fine anni Venti e, sebbene quasi tutte le illustrazioni fossero in bianco e nero, anche Jane cominciò ad apprezzare ciò che veniva definito «colore non rappresentazionale».


In una giornata insolitamente calda di metà ottobre, si fecero una sessantina di chilometri su una vecchia motocicletta presa in prestito, per raggiungere la cittadina di Murnau, a sud di Monaco. Il viaggio era un tributo. Gli amanti Vasilij Kandinskij e Gabriele Münter ci erano venuti nel 1911 e ne erano rimasti incantati. Vi affittarono una casa e quella casa divenne la sede del gruppo Blaue Reiter. Sostenevano che la cittadina e la campagna attorno costituissero uno stimolo importante per la loro creatività. Anche Jane e Heinrich furono incantati passeggiando per i vicoli di Murnau. Forse videro i vibranti colori dell’autunno sugli alberi e i prati circostanti attraverso gli occhi di Gabriele Münter. Avevano sentito che Gabriele aveva ancora casa in città. Molto tempo dopo seppero che, come Heinrich, ma su scala decisamente piú vasta, aveva nascosto al regime nazista molte opere del Blaue Reiter, compresi diversi Kandinskij. Fu cosí che, quando Jane rimase incinta nel gennaio del 1947 e lo stesso mese lei e Heinrich zitti zitti si sposarono, prese corpo l’idea del trasferimento a Murnau. Affittarono casa e in primavera traslocarono.


Mentre disfaceva gli scatoloni e si sistemava nello chalet a tre piani, Jane si rese finalmente conto che non avrebbe mai scritto il suo pezzo sulla Rosa Bianca. Era innamorata, visibilmente incinta e tutta presa dalla nuova vita. Heinrich aveva trovato lavoro nello studio di un notaio che si occupava di passaggi di proprietà agricole. Lei si dedicava ai preparativi per l’arrivo del bambino. Tra sensi di colpa e tormentate stesure, scrisse la lettera di scuse alla redazione dell’«Horizon». Connolly era stato talmente gentile con lei che non riuscí a indirizzare il messaggio a lui direttamente. Scrisse invece a Sonia Brownell, spiegando che la situazione di una Monaco devastata e ridotta alla fame le aveva impedito di trovare molto sulla Rosa Bianca. Le fu difficile ammettere di essersi sposata. Disse di non essere in grado di raggiungere la Lombardia, per motivi di salute. Si impegnava, col tempo, a restituire tutto il denaro ricevuto. Spedire la lettera le procurò un grande sollievo. Quando qualche mese piú tardi uscí il libro di Inge Scholl provò una fitta di rammarico. Il suo scritto avrebbe potuto essere il primo. Ma sapeva che il libro di Scholl sarebbe stato comunque di gran lunga migliore, piú profondo e commosso, piú necessario di qualsiasi suo risultato. Ciononostante, il rimpianto le durò tutta la vita. Heinrich si ritirò a poco a poco, cristallizzandosi in se stesso: non era né aveva mai finto di essere uno Scholl, un Probst, un Willi Graf. Diventò un notaio di provincia, religioso praticante, uomo di saldi e sani principî, membro attivo dell’Unione cristiano-democratica a livello locale.


Jane trovò la propria strada tra le pareti domestiche. Presto i cordiali vicini di Murnau dovettero riconoscere che il suo tedesco, musicalità bavarese inclusa, era praticamente perfetto. Non frequentò mai l’università come suo fratello, non divenne una scrittrice, non fece mai «una capatina» oltralpe per riferire i segreti del sommo osso buco a insipidi inglesi. Fu solo quando lei e Heinrich si furono trasferiti a nord nel ’55 che cominciò ad ammettere con se stessa di aver avuto alla fine una vita protetta e un matrimonio noioso. Lo stesso zio che aveva regalato a Heinrich il Blaue Reiter Almanac gli lasciò, morendo, una casa a Liebenau, nei pressi di Nienburg. Jane avrebbe preferito rimanere a Murnau ma la prospettiva di liberarsi da un affitto era, a detta di Heinrich, un’opportunità irresistibile. Da Liebenau, non si spostarono piú. Per ragioni cliniche non meglio specificate, Jane non ebbe altri figli. Heinrich aveva completato gli studi di giurisprudenza a Monaco nel 1951 e concluse la carriera come socio anziano di uno studio di Nienburg. Jane neanche si accorse di quanto a poco a poco si fosse piegata alla convenzione nell’adeguarsi ai desideri del marito. Lui a sua volta non aveva consapevolezza della propria prepotenza, né di quanto desse per scontato che Jane lo dovesse servire e riverire in casa. Chi la conosceva molto bene notava che a volte affiorava nei suoi modi una punta di durezza, di acidità perfino, e di delusione. Molti anni dopo a cena, raccontando al genero il viaggio che non aveva mai fatto nelle tenute agricole dell’Italia settentrionale, Jane sentenziò ironicamente: – Potevo diventare una Elizabeth David!


Ma tutto questo apparteneva al futuro remoto. Secondo l’ultima pagina del suo ultimo quaderno, in quella assolata estate del 1947 Jane era in stato di grazia. Si dedicò a tinteggiare e arredare le stanze della sua nuova casa, piantò erbe aromatiche fuori dalla porta della cucina, e ortaggi e aiuole fiorite un po’ piú in là, nel giardino, mentre il sabato e la domenica andava a nuotare nelle placide acque dello Staffelsee in compagnia del suo giovane e avvenente marito Heinrich Eberhardt, uno delle sparute migliaia di tedeschi su milioni ad aver resistito alla tirannia nazista.


Ogni tanto la coppia intravedeva per strada la settantenne Gabriele Münter. In una sola occasione, dopo averne nervosamente discusso, l’avvicinarono. Era sola, fuori da una macelleria. La ringraziarono per le sue opere che avevano procurato loro un immenso piacere, ma che li avevano anche condotti alla splendida Murnau. Lei disse poco e si allontanò subito, ma decisero di interpretare il suo sorriso garbato come una forma di approvazione. In quei mesi radiosi, Jane era meno dispiaciuta di aver abbandonato i propri progetti, rispetto a come lo sarebbe stata in seguito. Si sentiva «piú felice di quanto chiunque potesse meritare» in un paese devastato e impoverito da una guerra disastrosa, e sicura che altra felicità fosse in procinto di arrivare. Il diario si concludeva sulla nota alta di quello stato d’animo. Nell’ottobre di quell’anno era nata Alissa.


Fu riscosso dai suoi pensieri da un grido acuto e penetrante nel buio. Non il solito richiamo di un neonato che si sveglia e ha bisogno di essere consolato. Sapeva di avere una tendenza alla proiezione in questo momento dell’esistenza, ma quel vagito felino gli pareva un segnale di disperazione. Chissà come ci si sente a emergere dagli abissi del sonno infantile nella realtà strana e sconvolgente della vita. Ogni cosa del mondo sconosciuta, poco o niente da utilizzare per conoscerla. In quel suono sottile che si andava spegnendo, la desolazione assoluta. Un urlo umano. Fu in piedi all’istante, i pensieri cancellati, come se anche lui si fosse svegliato all’improvviso. Con soltanto un asciugamano addosso, prese una bottiglia dallo scaldabiberon. Prima di averlo in braccio, le urla di Lawrence si erano trasformate in singhiozzi, sussulti troppo forti, al principio, per consentirgli di bere. Alla fine, cominciò a succhiare famelico. Quando Roland l’ebbe cambiato e rimesso sotto le coperte, il bambino si era già quasi riaddormentato.


Era un piacere sistemarsi sulla piccola poltrona accanto al lettino. La corvée notturna poteva avere effetti positivi per entrambi: Roland si tranquillizzava guardando il figlio dormire, supino, a braccia gettate indietro, con le mani che a stento raggiungevano l’altezza della testa. La massa enorme del cervello e della sua protezione ossea era un ingombro cosí pesante da non permettere a Lawrence di stare seduto eretto per i primi sei mesi di vita. In seguito, si sarebbe forse inventata altri modi di essere molesta. Per il momento, quel testone pressoché calvo rappresentava per il padre la promessa di un figlio geniale. Chissà se un genio può trovare la felicità. Einstein non se l’era cavata male, tra il violino, la barca a vela, l’amore per la fama, e la gioia pura procuratagli dalla sua teoria della relatività generale. Ma anche un brutto divorzio, la battaglia per l’affidamento dei figli, le penose storie d’amore, l’ossessione che David Hilbert potesse rubargli la scena, la difficoltà ad accettare la teoria dei quanti, nonché i giovani di ingegno che gli dovevano tutto. Meglio essere un idiota, una mediocrità? Non ci credeva nessuno. Gli idioti hanno i loro sistemi per raggiungere l’infelicità. Quanto all’appagamento del mediocre, Roland era la prova vivente del contrario. A scuola e agli esami di solito si guadagnava posizioni e voti al di sotto dei due terzi della classe, con valutazioni finali tipo «sufficiente», e «potrebbe migliorare». A quindici anni avrebbe potuto conoscere una rinascita intellettuale ma a quel punto apparteneva a Miriam Cornell. Il suo picco cerebrale restò relegato al pianoforte e non riuscí a tradursi in risultati accademici. Da allora, nessun talento spendibile, nessun successo, e nemmeno la scappatoia di appellarsi alla sfortuna. Nel suo buco di South London, in quella topaia soffocante sigillata cosí bene che adesso lui e Lawrence facevano fatica a respirare, mantenuto dai sussidi statali, lui era un perfetto vittimista infelice. Che cos’era una nube radioattiva delle dimensioni di un continente in confronto alla scomparsa di sua moglie? Quanto poi alle imprescindibili ed effimere gioie del sesso, attualmente se ne era allontanato piú di quando aveva appena compiuto i sedici anni.


Si svegliò che il suo orologio segnava le due e mezza. Aveva dormito due ore e adesso aveva un freddo cane. L’asciugamano gli era scivolato sulle caviglie. Lawrence era rimasto nella stessa posizione: le braccia sempre gettate indietro in un atteggiamento di abbandono fiducioso. Roland tornò in camera sua e si fece un’altra doccia. Poi si rimise a letto, pulito, tranquillo, quasi nudo, e inutilmente vigile alle tre del mattino. Non poteva piú prendersela con l’alcol e non aveva nessuna voglia di leggere. Era in vena di farsi un bel discorsetto. Organizzati la vita! Non puoi continuare a perdere tempo. Metti in conto che lei non tornerà piú. D’accordo. E allora? Allora… Ogni volta che arrivava a quel punto, si alzava una specie di nebbia sul suo futuro di lotta quotidiana con il mestiere di padre e la relativa fatica. Non poteva esserci alcun piano, nessuna tregua, quando tutto ciò che poteva fare era starsene con i piedi per terra, andare avanti, crescere Lawrence, continuare ad accudirlo, a giocare con lui e a prendere il sussidio statale, sbrigare le faccende di casa, cucinare, fare la spesa. Il comune destino ripetitivo e asfissiante di ogni madre single era diventato il suo.


C’era però una poesia che gli girava in testa, sollecitata da una frase fatta che gli era capitato di sentire uscendo da un negozio: se l’è cercata. Bel titolo. Forse era cosí anche per lui. Quindi era di un cattivo impulso personale che cercava di liberarsi descrivendolo. Ma a che poteva servire la poesia quando c’era bisogno di soldi? Come per prendersi gioco della sua ambizione letteraria, un vecchio amico dei tempi del jazz, Oliver Morgan, lo aveva chiamato due settimane prima con una proposta. Per sua stessa definizione Morgan incarnava il nuovo spirito imprenditoriale thatcheriano. Non suonava piú il sax. Adesso fondava aziende, le avviava al successo, a sentire lui, e poi le rivendeva. Per quanto ne sapevano gli amici, non si era mai fatto un soldo. Bene che andasse, ne usciva in pari. La nuova attività si concentrava sul business dei biglietti di auguri. Il mercato, spiegò a Roland, era zeppo di porcherie, immagini e parole sdolcinate. Kitsch. Filastrocche stucchevoli. Merce acquistata perlopiú, secondo quanto rivelato dalle indagini, da gruppi economici di categoria C e D. Fumatori compulsivi obesi, chiarí Morgan. Gente poco istruita, senza gusto, senza soldi. Ma esisteva una immensa minoranza trascurata di giovani professionisti laureati oltre a cinquantenni tipo «docente universitario». Immagini di arte erotica indiana o di rinascimento europeo riprodotte come si deve avrebbero potuto coprire quel mercato. Carta spessa tinta avorio. E per il testo interno Morgan voleva il meglio dei versi d’occasione d’avanguardia. Spiritosi sull’invecchiamento, arguti su nascite, matrimoni e morti. Oscenità consentite. Acquirente e destinatario sarebbero stati lusingati dall’ampiezza dei riferimenti culturali. Roland era il soggetto ideale: relegato in casa, un mucchio di tempo da perdere, vaste conoscenze in campo poetico. Per i primi sei mesi sarebbe stato pagato perlopiú in partecipazioni azionarie, e perciò non avrebbe avuto niente da dichiarare alle agenzie erogatrici dei sussidi.


Roland, a corto di sonno e nervoso, aveva riagganciato per poi richiamare una ventina di minuti dopo e scusarsi, riuscendo cosí a salvare l’amicizia. Ma restava la percezione di un’offesa ricevuta. Morgan non aveva capito che lui era un poeta serio, con poco meno di una decina di liriche uscite su riviste di prestigio. Si trattava per ora di case editrici universitarie con tirature molto ridotte, ma la prossima poteva essere la Grand Street. Sulla scrivania a poco piú di un metro da lui c’era la sua ultima revisione. Era in attesa di una risposta.


Ancora caldo di doccia, Roland se ne stava sdraiato sul copriletto di cotone indiano viola e arancio, sotto lo stretto fascio di luce da lettura che escludeva dalla vista la stanza strapiena di roba. In anni recenti, il governo aveva insegnato anche agli oppositori che non c’era da vergognarsi a sognare di essere ricchi. Roland cercava di immaginare per sé una vita di lusso. In una casa grande quattro volte la sua, con una moglie amorevole e non latitante, la notorietà letteraria, due o tre bambini felici e una signora delle pulizie, come quella di Daphne e Peter, che faceva una «capatina» da loro due volte la settimana. Quell’espressione di sua suocera avrebbe per sempre descritto ogni viaggio non intrapreso. Come nella frase: Fece una capatina a Liebenau e persuase la sua Alissa a ritornare a casa. Allungò una mano e prese la cartolina dal tavolino da notte per guardarla di nuovo. Il prato in discesa della foto poteva essere lo stesso dipinto da Gabriele Münter nel 1908, con i colleghi del Blaue Reiter Alexej von Jawlensky e Marianne von Werefkin sdraiati comodi sull’erba. Con i volti curiosamente privi di lineamenti. Nessuna pecora in vista. Un dipinto che forse aveva nascosto nella sua casa di Murnau insieme ai tanti di Kandinskij che sopravvissero ad alcune perquisizioni naziste. Il loro ritrovamento avrebbe potuto significare il lager per Gabriele. Ce l’avrebbe avuto quel coraggio lui? Ecco un altro dilemma. Scacciò il pensiero e girò la cartolina per leggerla ancora. La parola maternità senza vocali non lo disturbava piú. Il senso era chiaro. L’avrebbe trascinata a fondo e lei aveva necessità di fuggire e di «trovare se stessa». Quella era la teoria di Daphne. La maternità poteva trascinare a fondo anche lui. Nel momento in cui aveva scritto la cartolina, Alissa era diretta a Liebenau. Ti prego di non chiamare lí. A meno che avesse optato per una visita breve, doveva essere con i suoi adesso. Lo aveva sollevato dal peso di cercarla. Era sempre Jane, non Heinrich, a rispondere al telefono. Avrebbe dovuto dirle la verità oppure mentirle senza sapere che cosa lei già sapeva.


Ai suoi genitori non aveva detto niente. Suo padre aveva prolungato l’ingaggio nell’esercito accettando, come ufficiale in congedo, l’incarico di gestire un’officina per veicoli leggeri in Germania. Ora che i dieci anni supplementari erano scaduti, Robert e Rosalind si erano sistemati in una villetta moderna nei pressi di Aldershot, non lontano dal posto in cui lei era nata e dalla guardiania dove si erano conosciuti nel ’45, quando Rosalind faceva l’aiutante del camionista. Meno di due mesi dopo il loro ritorno «a casa», avevano avuto un incidente stradale. Svoltando a destra per immettersi sulla trafficata carrozzabile a quattro corsie che costeggiava la dorsale collinare nota come Hog’s Back, il maggiore Baines aveva guardato dalla parte sbagliata intersecando la traiettoria di un’auto che viaggiava veloce. La sterzata aveva evitato un impatto violento. Nessuno si era fatto male, ma Robert e Rosalind ne erano usciti traumatizzati – in uno stato di shock che durò settimane. Lei soprattutto manifestò sintomi di nervosismo, distrazione, insonnia. Mani e braccia le si coprirono di eritemi, la bocca di afte. Non era certo il momento adatto per informarli su Alissa.


Aveva raggiunto la fase – comune dopo i trentacinque anni – in cui i genitori danno inizio alla loro decadenza. Fino a quel momento, erano stati padroni di sé e di quel che facevano, a patto di mantenersi in discreta salute. Ora invece, piccole schegge della loro vita cominciavano a staccarsi e a cadere, come i frantumi dello specchietto dell’auto del Maggiore. Poi toccava a porzioni piú consistenti che venivano via e richiedevano l’intervento dei figli pronti a raccoglierle o ad acchiapparle al volo. Il processo era lento. Dieci anni dopo ancora ne avrebbero discusso a tavola chiacchierando con gli amici. Era stata la buona e scrupolosa Susan, sua sorella, a fare quasi tutto, finora. Lui si era occupato della domanda di indennizzo presso l’assicurazione. E prima di quello, della richiesta del mutuo, delle grondaie intasate nella casa nuova, di impostare i programmi su una radio appena comprata, e poi di qualcosa che non si apriva, qualcosa che non funzionava, piccole cose, per il momento. Su suggerimento di Alissa, acquistò per loro una specie di pinza per rimuovere tappi e coperchi da barattoli e bottiglie. Fece la dimostrazione d’uso su un vasetto di cavolo rosso sottaceto. I suoi, in piedi nella cucina nuova, gli si accalcarono attorno per guardare. Fu un momento importante. La loro presa si andava indebolendo. Ormai sull’ottantina, la generazione della guerra aveva iniziato il proprio declino. Potevano volerci quarant’anni, forse anche di piú, prima che scomparisse l’ultimo superstite. Nel 2020 sarebbe stato ancora possibile a un centenario ricordare combattimenti durati tutto il periodo del conflitto. Da soldato semplice nella fanteria leggera delle Highlands, la recluta Robert Baines aveva assistito al massacro di civili e militari durante la ritirata sulle strade impraticabili che portavano alle spiagge di Dunkerque. Si beccò tre pallottole in una gamba da una mitragliatrice tedesca. Un contadino francese di nome Roland, dopo averlo curato, lo portò fino alla spiaggia di Dunkerque. Tornato in Inghilterra, dopo un interminabile viaggio in treno fino a Liverpool, Robert trascorse mesi all’ospedale Alder Hey, nello stesso reparto in cui era finito suo padre con un piede fracassato, combattendo per lo stesso reggimento, nella guerra mondiale precedente. Robert perse il fratello in Norvegia nel ’41. Rosalind il suo primo marito alle porte di Nimega quattro mesi dopo lo sbarco in Normandia. Un colpo in pancia. Lui a sua volta aveva perso il fratello, un prigioniero di guerra giapponese sepolto in Birmania.


Era piuttosto comune per Roland e i suoi coetanei cresciuti e diventati adulti in Inghilterra riflettere sui pericoli che a loro non era mai toccato di affrontare. Con la distribuzione gratuita del latte in bottigliette da un terzo di pinta, lo Stato aveva provveduto a fornire alle ossa di Roland il calcio necessario. Sempre gratuitamente gli aveva offerto un po’ di latino, di fisica e perfino di tedesco. Nessuno andava in galera per le sue scelte intellettuali moderniste, o per l’uso di colori non rappresentazionali. La sua generazione era stata piú fortunata anche della successiva. Si era cullata nel grembo accogliente della storia, accomodandosi in un piccolo anfratto di tempo per accaparrarsi tutta la panna e consumarla. A Roland era toccata la buona sorte storica, e aveva avuto tutte le opportunità. Eppure, eccolo lí, al verde proprio adesso che lo Stato benevolo si era trasformato in una megera. Al verde, e costretto a sopravvivere di avanzi delle passate generosità: di latticello.


Ma con due ore di sonno al suo attivo, l’incubo ridimensionato, il tepore della stanza, il benessere delle gambe sotto le coperte di cotone e le idee chiare, cominciò a invaderlo un senso di ribellione. Poteva essere libero. O fingere di esserlo. Poteva scendere adesso, infrangere la regola e riempirsi un bicchiere, rovistare in fondo a un cassetto di cucina in cerca di un portarullino di plastica con dentro dell’erba che qualcuno aveva lasciato lí sei mesi prima. Forse c’era ancora. Rollarsene una, uscire in giardino nel cuore della notte, prendere le distanze dalla vita di ogni giorno e ricordare a se stesso, come gli succedeva da ventenne, che lui era solo un organismo trascurabile su un’immensa roccia rotolante in direzione est a mille miglia l’ora, lanciata in corsa nel vuoto tra la remota indifferenza delle stelle. Un brindisi a questa verità, in alto i calici. La felicità pura della consapevolezza. Un tempo lo esaltava. Forse funzionava ancora. Sí, poteva fare tutto questo. Gli era capitato di rifarlo negli anni Settanta con il suo vecchio amico, Roy Dole, uno psichiatra passato alle neuroscienze. Le Montagne Rocciose, le Alpi, il Causse du Larzac, i monti della Slovenia. Da questa lontananza, gli sembrava un’esperienza di libertà anche quando era entrato a Berlino Est dal Checkpoint Charlie portando libri e dischi semi-illegali. Poteva uscirsene in giardino adesso e rendere omaggio alla libertà del suo passato, festeggiare. Invece non si mosse. Alcol e cannabis alle quattro, quando Lawrence si sarebbe svegliato prima delle sei e a quel punto sarebbe cominciata la giornata? Ma non era neanche quello. Non si sarebbe mosso nemmeno se non ci fosse stato il bambino. Che cosa lo frenava? C’era un elemento in piú adesso. La paura. Non della vastità del vuoto. No, piú da vicino. Gli tornò in mente il pensiero che aveva voluto allontanare. Il coraggio. Un concetto quasi superato. Ce l’aveva lui, il coraggio?


Nella cronaca della Rosa Bianca di Inge Scholl, poi ripresa e sintetizzata da Jane, a Herr e Frau Scholl fu accordato il permesso di recarsi nel carcere di Stadelheim per incontrare i figli e salutarli qualche minuto prima dell’esecuzione. Dati i razionamenti imposti dalla guerra, il dolcetto che avevano portato era una specie di insipido surrogato di cioccolata. Hans lo rifiutò. Sophie lo accettò volentieri. Disse ai suoi che non aveva pranzato e che aveva fame. Roland ne dubitava. Doveva aver pensato che ai suoi genitori desse un po’ di conforto vederla mangiare il loro piccolo dono, prima che la portassero via. Lo avrebbe avuto lui, il coraggio di mangiarsi una barretta di cioccolato scadente pochi minuti prima di morire, per rassicurare i suoi?


Si alzò dal letto. Gli era venuta la curiosità di rileggere il riassunto fatto da Jane del resoconto di Inge Scholl. C’era anche Christoph Probst, con i coniugi Scholl, in quegli ultimi istanti? Sua moglie aveva partorito quattro settimane prima ma era ancora troppo debole per lasciare l’ospedale. Non c’era nessun suo caro a salutarlo? Roland aprí il cassetto basso dove Alissa teneva le sue maglie. Dalle pieghe di quelle pile ordinate, la fragranza fiorita del suo profumo lo raggiunse ancora una volta con amorevolezza. Avevano avvolto le seicento pagine in una vecchia copia della «Frankfurter Allgemeine Zeitung». Quindi gli bastarono pochi secondi per stabilire che la fotocopia era sparita. Pazienza. Era roba sua, dopo tutto. Già si era accorto che si era portata via le bozze dei suoi due romanzi respinti da una serie di editori. Doveva essere partita con un bagaglio tutt’altro che leggero.


Tornò a letto. Da quel che ricordava, Hans e Sophie avevano incontrato i genitori separatamente. Cinque minuti per Hans, prima che venisse il turno di Sophie. Si parlarono attraverso una barriera. È possibile che la famiglia desiderasse conservare questo ricordo di lei, ma non è improbabile che fosse la verità: Inge Scholl scrive che, secondo i suoi genitori, la sorella si presentò fiera, rilassata, bellissima, rosea nel colorito, le labbra di un bel rosso naturale. Roland ricordava anche che, subito dopo, ai tre prigionieri furono concessi alcuni minuti insieme. Si strinsero gli uni agli altri. Christoph Probst, in mancanza di sua moglie, dei figli, e del neonato che non avrebbe mai conosciuto, ebbe almeno il conforto di abbracciare i suoi amici. Sophie fu la prima a essere condotta alla ghigliottina. Fu una tragedia rappresentata su un palcoscenico allestito da uomini animati da un sogno orrendo e crudele. La ferocia era divenuta norma universale. Di fronte a questo, lui, Roland, sarebbe stato all’altezza del coraggio di Sophie e di Hans? Pensava di no. Non ora. La partenza di Alissa lo aveva infragilito e la catastrofe di Černobyl´, terrorizzato.


Chiuse gli occhi. Nei remoti angoli settentrionali e occidentali del paese, là dove la pietra calcarea soffice cedeva il posto al granito, sugli altipiani e sui pascoli, su ogni filo d’erba, in ogni cellula vegetale, giú fino al livello elementare dei quanti, le particelle di isotopi velenosi seguivano il percorso delle loro orbite. Strana materia innaturale. Immaginò sul territorio ucraino animali da cortile e cani gettati a migliaia a marcire dentro fosse scavate dai bulldozer o bruciati su pire immense, e latte radioattivo rovesciato a fiumi nei fiumi. Al momento si parlava dei bambini non ancora nati che potevano morire per le malformazioni, degli eroi russi e ucraini che andavano incontro a terribili agonie lottando contro un incendio senza precedenti, dell’ineluttabile impulso alla menzogna della propaganda sovietica. Lui era sprovvisto delle doti necessarie, in termini di audacia come di giovanile slancio, anche soltanto per scendere in giardino e starsene sotto il cielo nel cuore della notte a levare un brindisi alle stelle. Non ora che certi fenomeni causati dall’uomo sfuggivano al controllo. I Greci avevano ragione immaginando le divinità come membri di un’arrogante élite litigiosa, imprevedibile e vendicativa. Se avesse potuto credere nell’esistenza di dèi tanto eccessivamente umani, ne avrebbe avuto paura.

Capitolo quarto

La terza settimana dopo la scomparsa di Alissa, Roland si decise a mettere in ordine gli scaffali strapieni di libri intorno al tavolo appena fuori dalla cucina. Non è facile riordinare dei libri. Scegliere quali buttare via. I libri oppongono resistenza. Roland si piazzò accanto uno scatolone per gli scartati da destinare ai negozi dell’usato. Un’ora dopo, lo scatolone conteneva due guide turistiche tascabili non aggiornate. Certi volumi avevano dentro foglietti di carta o lettere che bisognava leggere prima di ricollocare il libro sullo scaffale. Su altri c’erano delle belle dediche. Molti erano vecchie conoscenze che non si poteva prendere in mano senza sentire l’impulso di aprirli e riassaggiarli, scorrendone la prima pagina o un’altra a caso. C’era un gruppetto di prime edizioni che esigevano un momento di ammirata attenzione. Roland non era un collezionista, si trattava di regali o di acquisti casuali.


Qualche progresso riuscí a farlo durante un sonnellino di Lawrence in tarda mattinata. Riprese la sera, dopo cena. Il secondo libro che gli capitò tra le mani dalla nuova pila estratta dai ripiani era un volume di una biblioteca scolastica. Dentro c’erano il timbro del Comune di Londra e quello del bibliotecario che indicava la data del 2 giugno 1963. Mai riaperto da allora, il libro era sopravvissuto a una serie di traslochi e a un anno di deposito in magazzino. Gioventú e altri due racconti di Joseph Conrad. Edizione economica, J. M. Dent & Sons Ltd, ristampato nel 1933, 7 scellini e 6 pence. Le pagine avevano i bordi leggermente frastagliati. Aveva ancora la sovraccoperta originale nei colori crema, rosso e verde scuro, e l’effetto di un intreccio di palme inciso con un vascello a vele spiegate che supera una scogliera sullo sfondo di una catena montuosa. Un richiamo all’Oriente tropicale, la cui prospettiva infiamma l’animo del giovane protagonista della storia. Roland si emozionò ritrovandolo. Il libro lo aveva sempre seguito, senza farsi notare. Aveva amato Gioventú a quattordici anni, un’età in cui non aveva quasi mai voglia di leggere. Non ricordava niente della vicenda.


Tenendo il volume tra le mani, come un libro di preghiere, aperto alla prima pagina, si lasciò cadere sulla sedia piú vicina e non si mosse per un’ora. Mentre si accomodava, dalle pagine scivolò un foglietto ripiegato che mise da parte. Il narratore e altri quattro personaggi sedevano attorno a un tavolo in mogano sulla cui lustra superficie si riflettevano una bottiglia di chiaretto e i loro bicchieri. Non si dice altro dell’ambiente che li circonda. Potrebbero trovarsi nel quadrato di poppa di una nave come nella saletta riservata di un club londinese. Il tavolo è lucido come uno specchio d’acqua. I cinque uomini provengono da professioni diverse, ma esiste tra loro «il legame forte del mare». Hanno tutti iniziato la carriera nella marina mercantile. Sarà Marlow, l’alter ego di Conrad, qui alla sua prima apparizione, a raccontare la storia. Come è noto, sarà ancora lui il narratore di Cuore di Tenebra, il successivo racconto del volume.


Gioventú è speciale perché, come spiega Conrad nella sua Nota dell’Autore, si tratta di «un’opera della memoria». Marlow riferisce del viaggio intrapreso all’età di vent’anni come secondo ufficiale di una vecchia nave, la Judea, che da un porto dell’Inghilterra settentrionale deve trasferire un carico di carbone a Bangkok. Il percorso è funestato da sventure e ritardi. Appena uscita dal Tamigi, l’imbarcazione incappa al largo di Yarmouth in una burrasca e impiega in tutto sedici giorni per raggiungere la foce del Tyne. Quando finalmente è possibile procedere al carico, la Judea viene accidentalmente speronata da un piroscafo. Qualche giorno dopo, al largo della penisola di Lizard, monta una tempesta. Nessuno sa raccontare una tempesta in mare come Conrad. Il bastimento imbarca acqua, i membri dell’equipaggio cercano per ore di pomparla fuori, ma sono costretti a ripiegare su Falmouth. Ha inizio una lunga attesa dovuta ai lavori di riparazione. Passano mesi, non succede nulla. La nave e l’equipaggio diventano oggetto di scherno tra i locali. Marlow ottiene una licenza, va a Londra, e torna con un’edizione dell’opera completa di Lord Byron. Finalmente le riparazioni sono concluse e si può salpare. La vecchia imbarcazione arranca verso i tropici a tre miglia l’ora. Nell’Oceano Indiano il carico comincia a bruciare. Nei giorni successivi fumo ed esalazioni velenose avvolgono la nave. Si combatte giorno e notte contro il fuoco, ma alla fine una colossale esplosione costringe il capitano e l’equipaggio ad abbandonare la nave in affondamento e ad allontanarsi a bordo di tre scialuppe. Marlow si trova sulla piú piccola, insieme a due abili marinai. È per la prima volta al comando. Remano per ore in direzione nord e sbarcano nel piccolo villaggio portuale di Java.


Su quel tavolo lustro doveva esserci piú di una bottiglia di Bordeaux. Marlow interrompe regolarmente il racconto per dire: «Passate la bottiglia». Il tema centrale della storia e il senso del titolo sono che in qualsiasi circostanza, per quanto catastrofica, il giovane, Marlow o Conrad che sia, conserva il proprio entusiasmo. I tropici e il favoleggiato Oriente lo aspettano e ogni cosa, pur nel pericolo, nello sfinimento e nella noia, è un’avventura. È la gioventú, lo spirito che lo sostiene. Gioventú curiosa, tenace, indomita nella sua sete di esperienza. «Ah! Gioventú!», ripete il ritornello della storia.


Le ultime parole sono affidate non a Marlow, ma al narratore che al principio lo introduce. Appena Marlow conclude il suo racconto, il narratore commenta: «tutti annuimmo rivolti a lui attraverso il tavolo lucido che, come una lastra immobile d’acqua marrone, rifletteva i nostri visi, scavati, rugosi; i nostri visi segnati dalla fatica, dalle delusioni, dal successo, dall’amore; i nostri occhi stanchi… che ansiosamente cercano nella vita qualcosa che, mentre si aspetta, è già passato».


Roland lesse l’ultima mezza pagina due volte. Lo turbava. Marlow dichiarava all’inizio che il viaggio ha avuto luogo ventidue anni prima, quando lui aveva vent’anni. Il che significa che quando racconta la storia ai suoi amici, uomini dai volti scavati e rugosi segnati dallo sforzo, e dagli occhi stanchi, Marlow ha quarantadue anni. Vecchio? Di già? Roland ne ha trentasette. La vecchiaia con i suoi rimpianti, la gioventú trascorsa e le illusioni perdute, sono dietro l’angolo, dunque. Tornò alla Nota dell’Autore. Sí, Gioventú è «il resoconto di un’esperienza, ma quell’esperienza, nei fatti, nella coloritura interna ed esterna, ha inizio e fine in me stesso».


Che esperienza aveva lui, Roland, da rivendicare interamente a se stesso? Mentre cosí pensava, la mano sfiorò sul tavolo il foglietto scivolato fuori dal libro. Era un vecchio ritaglio di giornale, strappato qua e là lungo le linee della piegatura. Veniva dal «Times», in data 2 giugno 1961 e il titolo diceva: Scuola pubblica aperta all’uso della comunità. Prima di leggere, a lasciarlo perplesso fu la data. Il libro era stato timbrato l’ultima volta in biblioteca tre anni dopo, nel 1964, mesi prima che lui abbandonasse per sempre la scuola. Doveva essere stato qualcun altro a infilare il ritaglio nel libro, e lui non l’aveva mai notato.


Era il classico articolo d’occasione piuttosto noioso e riguardava il decimo anniversario della fondazione della sua scuola, «ingiustamente bollata nella mente di tanti come la Eton dei poveri». In realtà si trattava di un collegio liceale amministrato dal Comune di Londra, libero dalle «soffocanti tradizioni di molte istituzioni private», come pure «dai ragazzi problematici degli istituti di rieducazione», dotata di «splendidi terreni digradanti verso il fiume», una scuola aperta a tutti coloro che avessero superato l’esame di ammissione, «una comunità di ragazzi provenienti da ogni ambiente sociale, figli di diplomatici accanto ai figli di militari di truppa… molti proseguono gli studi all’università… generose possibilità di rette variabili… una larga maggioranza di famiglie esonerata in toto». Molte le attività proposte, dalle prodezze veliche al Club dei giovani agricoltori, agli allestimenti teatrali, e un’atmosfera «cordiale». Ma la cosa che piú saltava all’occhio era «l’aria disinvolta dei ragazzi».


Tutto vero, o comunque non falso. All’età di vent’anni, Marlow era in mare da sei. Si era arrampicato sull’albero di mezzana tra il rollio delle onde, aveva ammainato vele, urlato comandi nel vento a uomini che avevano il doppio dei suoi anni. Dalla sua, Roland poteva vantare cinque anni in un collegio tra quei ragazzi dall’aria disinvolta. Aveva navigato a vela come membro dell’equipaggio di piccole imbarcazioni, acquattato sotto il boma, con il compito di tirare una scotta attaccata a un angolo del fiocco mentre un ragazzo piú grande di nome Young gli urlava ordini per due ore di seguito. Al tempo, era convinzione diffusa che i lupi di mare dovessero comportarsi cosí. A detta di Marlow, simili perdite di tempo su un fiume erano giusto «distrazioni dalla vita». La sua esperienza in mare era invece «la vita stessa». Una volta Roland aveva scuffiato, su quel fiume Orwell, che appariva di un bell’azzurro da lontano, ma da vicino, era una fogna a cielo aperto. Ecco, quella era l’essenza dell’articolo del «Times»: una prospettiva lontana. E da vicino, dunque? Dall’«interno»? Roland non aveva una risposta certa, e il dubbio lo tormentava.


Se avesse ancora bevuto, quello sarebbe stato il momento adatto per versarsi uno scotch e meditare sugli anni che passano. Marlow si presentava come un uomo ben oltre la metà del cammino. Roland gli stava alle calcagna. Dopo i trentacinque, potevi cominciare a domandarti che tipo di persona eri. Il primo lungo capitolo di turbolenta età adulta era alle spalle. E cosí pure la possibilità di giustificarsi sfruttando il vissuto. Genitori inadeguati? Carenza affettiva? Un eccesso di affetto? Basta, niente piú scuse. Avevi amici decennali, se non di piú lunga data. Ti vedevi riflesso nei loro occhi. Era probabile o auspicabile che fossi passato da un amore all’altro. Di certo avevi trascorso del tempo prezioso in solitudine. Ti eri ormai fatto un’idea della vita pubblica e di come eri in grado di entrare in relazione con gli altri. Il peso della responsabilità doveva averti aiutato a definirti. Diventare genitore aveva di certo gettato altra luce. La figura dal volto stropicciato che ti stava dinanzi non era quella di Marlow. Bensí quella di un te stesso quarantenne. Dovevi già aver individuato sul tuo corpo i primi segnali di mortalità. Non c’era tempo da perdere. Sin d’ora potevi intravedere un te stesso, solitario e lontano, pronto ad affrontare il tuo giudizio. Ciononostante, potevi anche sbagliarti del tutto. Forse ti ci sarebbero voluti altri vent’anni – e non sarebbe stato facile nemmeno allora.


Che speranza poteva esserci dunque per uno scolaro di quattordici anni, cresciuto in un tempo, in una cultura e tra una moltitudine che non incoraggiavano certo alla scoperta di sé, e nemmeno a prenderla in considerazione? In uno stanzone dormitorio diviso con altri nove la manifestazione delle proprie difficoltà emotive – insicurezza, fragili speranze, ansia sessuale – era cosa rara. Quanto al desiderio sessuale, lo si soffocava sotto smargiassate, insulti e battute assolutamente incomprensibili. In ogni caso, ridere era obbligatorio. Dietro a tanto nervoso cameratismo si celava la consapevolezza del vasto territorio sconosciuto pronto a riceverli. Prima della pubertà, la sua esistenza latente non li aveva mai turbati. Ora il pensiero di un incontro sessuale si ergeva dinanzi a loro come una catena montuosa, magnifica, pericolosa, irresistibile. Ma tuttora lontana. Mentre parlavano sghignazzando nel buio dopo che le luci erano state spente, l’aria si caricava di impazienza, della ridicola bramosia di qualcosa che nessuno conosceva. La soddisfazione di quel desiderio sarebbe arrivata, ne erano sicuri, solo che avrebbero voluto anticiparla. Poco probabile, in un collegio maschile di provincia. Come fare a scoprire di che cosa si trattava e come comportarsi, quando tutte le informazioni al riguardo provenivano da aneddoti e battute assai poco affidabili? Una sera, uno dei ragazzi chiese nel buio tra un discorso e l’altro: – E se uno muore prima di averlo fatto? – Calò il silenzio nel dormitorio mentre tutti consideravano l’ipotesi. Poi Roland disse: – C’è sempre l’aldilà –. E tutti risero.


Una sera lui e i suoi amici piú o meno undicenni ancora nuovi del posto ricevettero un invito speciale nel dormitorio dei ragazzi piú grandi. Avevano solo un anno in piú, ma sembravano membri di una tribú piú esperta e superiore, piú forte e in qualche modo minacciosa. L’evento era classificato come segreto. Roland e gli altri primini non sapevano cosa aspettarsi. Due ragazzoni ben piantati e fisicamente precoci si piazzarono uno a fianco dell’altro nel corridoio tra i letti a castello. Si radunò una folla di bambini in pigiama. Ce n’erano molti appollaiati sulle brande piú alte. Aleggiava un lezzo di sudore come di cipolla cruda. Le luci erano spente da un pezzo. Nel ricordo, il dormitorio era inondato dal chiarore della luna piena. Ma poteva non essere stato cosí. Forse c’erano delle torce. I due ragazzi si tolsero i pantaloni del pigiama. Roland non aveva mai visto peli pubici, né un pene adulto né un’erezione. A un grido convenuto, i due presero a masturbarsi freneticamente in un pompare energico e confuso. Intorno, urla e strepiti di incoraggiamento. Un chiasso da bordocampo a una partita importante. Un misto di ilarità e rispetto ammirato. La gran parte dei presenti non era cresciuta abbastanza da poter partecipare alla competizione.


L’incontro si concluse in meno di due minuti. Vinceva chi per primo arrivava all’orgasmo, o eiaculava piú lontano, e la questione fu subito motivo di controversia. A quanto pareva i concorrenti avevano superato il traguardo insieme. I loro due grumi lattiginosi sul pavimento di linoleum risultavano equidistanti. Ma davvero si sarebbero visti solo al chiaro di luna? Gli sfidanti non sembravano piú interessati alla vittoria. Uno di loro cominciò a raccontare una barzelletta oscena che Roland non era in grado di seguire. Alla fine, le risa e gli schiamazzi richiamarono l’attenzione di un prefetto e furono rispediti tutti a dormire.


Come si sentiva Roland? Stupefatto, inorridito, euforico? Non c’era risposta possibile, nessuna interiorità attingibile come quella descritta da Conrad. La sua mente, le quotidiane variazioni di umore del suo giovane io, gli risultavano impenetrabili, a questa distanza. Non rifletteva mai sui suoi stati d’animo. Ogni cosa prendeva subito il posto della precedente. Aule, gare, lezioni di piano, compiti, andirivieni di amici, spintoni, code, luci spente. A scuola Roland sperimentava la vita mentale di un cane alla catena di un continuo presente.


C’era tuttavia un’eccezione importante. Ormai ultratrentacinquenne, Roland ne ricordava ogni dettaglio. L’interiorità custodita nel profondo oceano dei pensieri di un bambino. Quando le ultime chiacchiere del dormitorio si affievolivano fino al silenzio e al primo sonno, lui si ritirava in quel luogo privato. La maestra di piano, che non gli dava piú lezioni, neanche sapeva di avere una doppia vita. C’era la donna, quella vera, Miss Cornell. La vedeva ogni tanto passando dalle parti dell’infermeria, delle scuderie o delle sale da musica. Sempre sola, andava e veniva dalla sua piccola auto rossa, prima o dopo le lezioni. Non la incrociava mai davvero, si assicurava che non succedesse. Avrebbe detestato sostenere il probabile genere di conversazione tra di loro se lo avesse fermato per chiedergli se era «tutto a posto». Peggio ancora se l’avesse ignorato, senza rivolgergli la parola. E peggio ancora se non l’avesse nemmeno riconosciuto.


E poi c’era la donna dei suoi sogni serali a occhi aperti alla quale lui faceva fare sempre la stessa cosa, vale a dire privarlo di qualsiasi volontà e farlo obbedire a ogni suo desiderio.


La coloritura esterna è perlopiú quel che rimane dell’infanzia. In un caldo pomeriggio di settembre, dopo due settimane di scuola, Roland insieme a una comitiva di ragazzi raggiunse in bici il lato opposto della penisola per andare a nuotare nel fiume Stour, ampio e soggetto alle maree come l’Orwell, ma piú pulito. Roland seguí i piú grandi giú per il sentiero di un prato fino alla spiaggia di fango secco e ciottoli. Si allontanò a nuoto piú degli altri, ostentando le bracciate vigorose degli anni passati a Tripoli. Ma la marea stava cambiando e lo trascinava al largo verso acque fredde e fonde. I muscoli delle gambe gli si irrigidirono in un crampo. Non riusciva piú a nuotare e quasi faticava a stare a galla. Gridò agitando le braccia e un ragazzo grande, che di cognome faceva proprio Rock, lo raggiunse e lo trainò a nuoto alla spiaggia. Terrore, umiliazione, gratitudine, gioia di essere ancora vivo: non ne restava traccia. Avrebbero pedalato fino a scuola in tempo per inserirsi nella solita routine dell’orario: lezioni delle quattro, cena, compiti.


Periodicamente si verificava un momento di crisi, dovuto a un gesto di sinistra trasgressione che compattava la scuola in un senso di colpa collettivo. Di solito aveva a che fare con un furto. Una radio a transistor, una mazza da cricket. Una volta era sparita della biancheria femminile stesa fuori dagli alloggi del personale. In quei casi tutti gli studenti erano convocati in aula magna. Il preside, un tipo affabile, perbene e inetto, ex campione di rugby, del quale si diceva che si rivolgesse alla moglie chiamandola George, si presentava sul palco per dire ai 350 ragazzi della scuola che, fino a quando non si fosse fatto avanti il colpevole, sarebbero rimasti seduti lí in silenzio, a costo di saltare pranzo o cena. Non funzionò mai, men che meno nel caso delle mutande rubate. I piú grandi già sapevano e venivano alle convocazioni con un libro o una scacchiera portatile.


Non solo i furti avevano il potere di unire in quel modo l’istituto. Tutti gli anni in primavera veniva organizzata un’uscita alla base dell’aviazione americana di Lakenheath che ospitava una flotta di enormi B52 armati di ordigni nucleari pensati per fiaccare o distruggere l’Unione Sovietica. Roland ci andò con i compagni a bordo dello scuolabus. Rimasero in coda un’ora per guadagnarsi a turno una trentina di secondi seduti al posto del pilota su un aereo da combattimento. Ci fu anche una parata aerea di rombanti cacciabombardieri. Le loro misere finanze personali non bastarono per comprare costolette alla griglia, bistecche con patate fritte e Coca-Cola in bicchieroni di carta cerata grandi come fioriere. Ma almeno guardarono.


Quella sera ci fu una convocazione in aula magna. Il preside diede inizio al solito atto d’accusa. Aveva telefonato il comandante della base per richiamare la sua attenzione sul fatto che alcuni alunni, identificati dall’uniforme della scuola con tanto di stemma e motto Nisi Dominus Vanum – Senza il Signore Tutto è Vano – erano stati visti scendere dall’autobus alla base mostrando i distintivi bianchi e neri con la scritta CND. Tale ostentazione, dichiarò il preside, rappresentava un oltraggio all’accoglienza ricevuta, «una volgare villania nei riguardi dei nostri ospiti americani». I responsabili dovevano consegnarsi. Fino ad allora, tutta la scuola sarebbe rimasta in punizione in silenzio.


Per i piú piccoli, seduti nelle prime file sotto il palco, con la testa allo stesso livello degli scarponi del preside, quelle lettere non significavano niente. La campagna per il disarmo nucleare doveva coincidere con qualcosa di vergognoso, per non dire satanico, vista l’animosità che aveva suscitato. Fu dunque una sorpresa, quando in fondo all’aula ci fu un trambusto e cinque o sei ragazzi grandi si alzarono. Tutti gli altri si voltarono. La sala si fece rumorosa mentre venivano fatti i nomi dei colpevoli – la scuola era abbastanza piccola da permettere che gli alunni si conoscessero tutti. I ragazzi raggiunsero il palcoscenico in fila indiana e si fermarono compatti di fronte al preside. Lui stava immobile, con il viso contratto, e li fissava con sdegno. Il brusio in sala aumentò mentre i presenti prendevano atto che i compagni avevano ancora i distintivi sotto accusa appuntati sul bavero della giacca! Un membro del gruppo, un eroe del penultimo anno di liceo, cominciò a leggere una dichiarazione preparata. In sala calò il silenzio. La bomba era una minaccia per l’umanità, per la vita sul pianeta, un abominio morale, uno sconsiderato spreco di risorse. Il preside lo interruppe superandolo mentre lasciava il palcoscenico. Voleva vederli tutti nel suo ufficio e subito.


La serata di coraggio morale si sarebbe conclusa in bellezza se i membri del gruppo avessero raggiunto l’ufficio del preside decisi a sottrarsi alla punizione corporale. Erano tutti ragazzi grandi e grossi. Ma dovevano passare altri tre anni prima che lo spirito ribelle degli anni Sessanta raggiungesse le rive fangose del fiume Orwell. Nell’aprile del 1962, era considerato un comportamento onorevole prendersi le legnate con spirito indomito e senza emettere un fiato.


Ai piccoli si raccomandava di scrivere a casa una volta alla settimana. Era sempre sua madre a rispondere a Roland. Se fosse stata conservata, quella corrispondenza avrebbe forse potuto fornire alcuni indizi sullo stato d’animo del ragazzo nel 1959. Ma Rosalind, da scrupolosa massaia, aveva l’abitudine di strappare le lettere subito dopo aver risposto. E forse non si era poi persa molto, dal momento che Roland aveva enormi difficoltà a produrre quei resoconti da spedire a casa. La sua vita, la sua attività giornaliera e il suo ambiente erano talmente lontani da quelli dei suoi, e la campagna del Suffolk cosí completamente diversa dal Nord Africa, che non gli veniva nessuna idea, non sapeva come cominciare, non aveva termini di riferimento con cui esprimere la qualità della sua nuova esistenza, il baccano, le risate e le liti e il disagio fisico di non essere mai soli, la necessità di essere sempre all’ora giusta nel posto giusto con il materiale richiesto. Per come ricordava, scriveva frasi tipo: «Abbiamo battuto il Wymondham 13-7. Ieri abbiamo mangiato uova e patate fritte ed era tutto buonissimo». Le lettere di sua madre erano ancora piú povere di contenuto. Il problema di Rosalind era di un ordine superiore al suo. Un altro figlio era stato allontanato da lei senza una protesta da parte sua. Si augurava che si fosse divertito durante la gita scolastica. Augurava alla sua squadra di vincere anche la prossima partita. Le faceva piacere che non piovesse.


Molti anni piú tardi Roland sentí la figlia quattrenne di un amico dire al padre: «Sono triste». Un’affermazione elementare, sincera, banale, inesorabile. Mai da bambino Roland ne avrebbe pronunciata una simile. E nemmeno avrebbe saputo formulare il pensiero riguardo a se stesso fino all’adolescenza. Da adulto gli era capitato di raccontare agli amici che al suo arrivo in collegio era caduto in una specie di depressione durata fino ai sedici anni, e che la nostalgia non l’aveva fatto piangere di notte. L’aveva ammutolito. Ma era poi vero? Avrebbe potuto anche sostenere di non essere stato mai altrettanto libero e contento. All’età di undici anni vagava per la campagna come se fosse di sua proprietà. Insieme a un caro amico, Hans Solish, trovò a un miglio a sud della scuola un bosco proibito, fitto e impenetrabile. Ignorarono il divieto di accesso e scavalcarono un cancello. Al fondo di un vallone coperto di pini individuarono un lago grandissimo. Un pesce saltò in superficie, in un punto in cui l’acqua era colpita dai raggi del sole e agitata dal vento. Probabilmente una trota. Lo presero come un invito. Si fecero largo tra la boscaglia e scesero fino alla sponda del lago dove montarono una baracca pericolante. Ignorando il sentiero che correva intorno al lago, i due esploratori si convinsero di averlo scoperto e stabilirono di non fare parola con nessuno della sua esistenza. Ci tornarono parecchie volte.


In quale altro posto avrebbe mai potuto godere di tanta libertà? Non in Libia dove, col senno di poi, si era reso conto di aver fatto parte di un’élite bianca intorno alla quale andava crescendo l’ostilità. I bambini e le bambine bianchi non vagavano per la campagna senza essere accompagnati da un adulto. La spiaggia che frequentavano quotidianamente era vietata ai libici. Non sapevano che uno degli edifici che superavano a bordo dello scuolabus era il famigerato carcere Abu Salim. Nel giro di pochi anni il re Idris sarebbe stato deposto in seguito al colpo di Stato del colonnello Gheddafi che avrebbe preso il potere instaurando la dittatura. Nel carcere di Abu Salim, Gheddafi avrebbe ordinato il massacro di migliaia di dissidenti libici.


Marlow, portavoce del suo creatore, si guarda indietro di una ventina d’anni e si riconosce benissimo – l’interiorità, come la coloritura esterna. Per il Roland ultratrentacinquenne il bambino della Berners Hall era uno sconosciuto. Alcuni avvenimenti restavano ben custoditi nella memoria, ma gli stati d’animo, come fiocchi di neve in una giornata tiepida, si dissolvevano ancor prima di toccare terra. Rimanevano solo la maestra di piano e tutto quello che Roland aveva provato per lei. Un giorno, mentre andava in classe con i suoi amici, la vide da lontano, a quasi cento metri di distanza. Indossava un soprabito di un azzurro carico e stava vicino all’albero sul quale lui aveva messo alla prova gli occhiali nuovi. Forse l’aveva notato e aveva alzato un braccio. O forse stava salutando qualcun altro. Roland si girò verso i compagni, fingendosi tutto preso da quel che stava dicendo. Quell’attimo privato fu registrato e memorizzato una volta per tutte: mentre voltava le spalle a Miriam Cornell, si rese conto che gli batteva fortissimo il cuore.


La sua scuola, come quasi tutte le scuole, era tenuta insieme da un sistema di privilegi lentamente distribuiti nel corso di anni e graduati in misura infinitesimale. La gerarchia rendeva i ragazzi piú grandi custodi attenti dell’ordine costituito, gelosi dei diritti acquisiti con tanta pazienza. Perché elargire innovativi favori ai piú piccoli, quando si erano dovute tollerare privazioni per conseguire i benefici di una raggiunta maturità? Il percorso era lungo e impervio. I piú piccoli, alunni di primo e secondo anno, erano miserabili nullatenenti. Al terzo anno si otteneva il diritto di indossare calzoni lunghi e una cravatta a righe diagonali anziché diritte. Gli studenti di quarto anno avevano una loro sala comune. Quelli del quinto passavano dalla camicia grigia a quella bianca lava-e-indossa che veniva strofinata sotto la doccia e appesa su grucce di plastica. E poi avevano una cravatta azzurra di livello superiore. L’orario delle luci spente avanzava di un quarto d’ora ogni anno. All’inizio, il dormitorio era uno stanzone da trenta posti letto. Cinque anni dopo si era ridotto a sei. Al sesto anno si potevano indossare giacche e cappotti di proprio gusto, anche se i colori sgargianti non erano tollerati. Era inoltre concessa una fornitura settimanale di quattro libbre di formaggio Cheddar da dividere con una dozzina di compagni, oltre a svariate forme di pane, un tostapane, e del caffè istantaneo, perciò si poteva mangiare qualcosa tra un pasto e l’altro. Si andava a dormire quando si voleva. All’apice della gerarchia stavano i prefetti. A questi era consentito calpestare l’erba dei cortili interni e urlare contro chiunque fosse di rango inferiore e osasse alzare la voce con loro. Come ogni altro ordine sociale, anche questo appariva a tutti, tranne agli autentici spiriti rivoluzionari, connaturato con il tessuto stesso della realtà. Roland non lo mise in discussione quando, all’inizio dell’anno accademico nel settembre del 1962, insieme ad altri dieci studenti della sua camerata, prese possesso della sala comune per il quarto anno di corso. Dopo tre anni di servizio, quello era il primo avanzamento significativo sulla scala del sistema. Roland, e i suoi amici con lui, stavano finalmente ottenendo il diritto alla cittadinanza. Aveva intanto acquisito i modi spigliati per cui era nota la scuola, con il tocco di sfumata arroganza tipica del quart’anno. Si era lasciato alle spalle l’accento dell’Hampshire rurale di sua madre. Nel suo, adesso, si riscontrava un che di cockney mescolato a un accenno di Bbc, piú un terzo elemento difficile da definire. Un vezzo da tecnocrate, forse. Sicuro di sé. Lo riconobbe anni dopo nell’ambiente dei musicisti jazz. Non snob, e nemmeno smanioso di esserlo, ma non irrispettoso di chi lo era.


Le sue valutazioni scolastiche si mantennero medio-basse. Un paio di insegnanti cominciò a sospettare che potesse essere piú intelligente di quanto sembrava. Doveva essere incoraggiato. Dopo tre anni e due ore la settimana con Mr Clare era diventato una promessa del pianoforte. Si andava facendo strada attraverso i vari livelli. Quando riuscí a superare il settimo, il maestro gli disse che come quattordicenne era «quasi precoce». Per due volte aveva accompagnato gli inni domenicali sostituendo Neil Noake, di gran lunga il miglior pianista della scuola, che era a letto con il raffreddore. Tra i compagni il suo prestigio si collocava appena sopra la media. A tenerlo indietro era la sua mediocrità come atleta e come studente. Ma qualche volta se ne usciva con una battuta spiritosa che poi sentiva ripetere da altri. Inoltre aveva meno brufoli della maggior parte dei coetanei.


La sala comune del quart’anno disponeva di un tavolo, undici seggiole di legno, qualche armadietto e una bacheca. Un ulteriore privilegio inatteso fece la sua comparsa sul tavolo ogni giorno dopo il pranzo: un giornale, che poteva essere il «Daily Express», o il «Daily Telegraph». Scarti provenienti dalla sala insegnanti. Un bel giorno Roland entrò in sala comune e vide un amico che, seduto con una gamba incrociata sull’altra, reggeva un giornale aperto, e si rese conto che erano finalmente diventati adulti. La politica li annoiava, come amavano ripetersi. I loro interessi, come gruppo, si concentravano piú sulle vicende umane, ragion per cui preferivano l’«Express». La donna che aveva preso fuoco sotto il casco del parrucchiere. Il folle armato di coltello che era stato ucciso a colpi di fucile da un contadino poi finito in galera, nella generale disapprovazione. La presenza di un bordello individuato non lontano dal Parlamento. Il guardiano dello zoo ingoiato intero da un pitone. Vita adulta insomma.


Al tempo, gli standard morali nella vita pubblica erano alti e, di conseguenza, lo era anche l’ipocrisia. Il tono era perlopiú carico di raffinata indignazione. Gli scandali entravano a far parte della loro aneddotica in materia di educazione sessuale. Mancava solo un anno all’affare Profumo. Perfino il «Telegraph» avrebbe pubblicato in cronaca foto di ragazze sorridenti dai capelli cotonati e ciglia spesse e scure come le sbarre di una prigione.


Infine, quell’ottobre, la politica divenne un argomento interessante nella sala comune. Un giorno i due giornali comparvero stranamente insieme sul tavolo dopo pranzo. Erano assai sgualciti, ripiegati agli angoli, con l’inchiostro di stampa scolorito dalle tante mani che l’avevano toccato; entrambi riportavano la stessa foto in prima pagina. Per ragazzi freschi di uscita scolastica a Lakenheath, la base aeronautica americana per un giorno aperta al pubblico, dove avevano potuto accarezzare il freddo muso d’acciaio di un missile come se fosse una reliquia, la vicenda era irresistibile. Pur non presentando un interesse sessuale, procurava soddisfazioni inattese. Agenti segreti, aerei spia, telecamere nascoste, sotterfugi, bombe, i due uomini piú potenti del pianeta pronti a un confronto armato, la possibilità di un conflitto. Chissà che quella foto non arrivasse dalla cassaforte di un pezzo grosso dell’intelligence, chiusa a tripla mandata. Mostrava colline basse, coltivazioni squadrate, un terreno boschivo attraversato da piste e radure bianche. Sottili contrassegni rettangolari contenevano utili indicatori: venti lunghi serbatoi cilindrici; veicoli cingolati per il trasporto di missili; 5 carrelli portamissili; dodici Guideline Missile. Con l’utilizzo dei loro ricognitori ad alta quota U2, dotati di una strabiliante potenza telescopica, gli americani avevano rivelato al mondo la presenza di testate missilistiche sovietiche in territorio cubano, ad appena novanta miglia dalle coste della Florida. Intollerabile, fu l’unanime verdetto. Una pistola puntata alla tempia dell’Occidente. Le stazioni dovevano essere bombardate prima che diventassero operative e subito dopo occorreva invadere l’isola.


Come avrebbero reagito i russi? Pur impegnandosi a manifestare una genuina preoccupazione adulta di fronte a questo inedito stato delle cose, per i ragazzi del quart’anno parole come «testate termonucleari», simili a vertiginosi banchi di nubi temporalesche al tramonto, evocavano scenari di elettrizzante, sconsiderata distruzione, e la promessa di una libertà definitiva grazie alla quale scuole, programmi, regolamenti, perfino genitori, ogni cosa sarebbe stata spazzata via, e il mondo ne sarebbe uscito rinnovato. Certi di sopravvivere al disastro, i ragazzi si intrattenevano parlando di zaini, borracce, coltellini, mappe. Un’avventura senza precedenti era a portata di mano. A quel punto, Roland era diventato membro del club di fotografia e aveva imparato a sviluppare e a stampare. Aveva macinato parecchie ore in camera oscura lavorando a versioni multiple di una veduta dell’altra sponda del fiume, con querce e felci, sei pollici per quattro, discretamente buona, eccezion fatta per la seccante striatura marrone al centro che non era riuscito a eliminare. Ottenne un ascolto rispettoso, quando esaminò le nuove immagini scattate dagli U2 che comparvero il secondo giorno sul giornale. Una di queste mostrava altri contrassegni: dispositivo lanciamissili; zona campo. Qualcuno gli passò una lente d’ingrandimento. Si avvicinò all’immagine. Quando individuò l’imbocco di un tunnel che agli analisti della Cia era sfuggito, gli credettero. Uno dopo l’altro i compagni guardarono bene e lo videro. C’era poi chi esponeva importanti teorie su come occorresse agire e su cosa sarebbe successo in conseguenza.


Le lezioni proseguivano come sempre. Nessun insegnante nominò in classe la crisi e i ragazzi non se ne stupirono. Erano regni separati, quelli della scuola e del mondo reale. James Hern, preside severo ma intimamente benevolo, non fece mai parola, nei suoi annunci serali, della possibilità che il mondo fosse prossimo alla fine. Mrs Maldey, la responsabile un po’ bistrattata del collegio, non accennò alla Crisi dei missili di Cuba quando i ragazzi le consegnarono calzini, mutande e asciugamani, ed era comunque genericamente seccata da chiunque minacciasse il regolare svolgimento delle sue complesse procedure. Roland non si ricordò la situazione nella successiva lettera a casa. Non perché non volesse allarmare sua madre, che doveva comunque esserne già stata informata dal Capitano. Il presidente Kennedy aveva dato l’annuncio di una «quarantena» nelle acque intorno a Cuba; imbarcazioni sovietiche con un carico di testate nucleari erano dirette verso una flottiglia di navi da guerra americane. Se Chruščëv non avesse ordinato l’inversione delle rotte, le navi sarebbero state affondate e sarebbe potuta scoppiare la Terza guerra mondiale. Come si conciliava tutto ciò con il progetto di Roland e del Club dei giovani agricoltori di piantare un vivaio di abeti nel terreno fangoso alle spalle dell’edificio scolastico? Roland e sua madre si scambiavano lettere e quelle di lei non erano meno ingenue delle sue. I ragazzi non avevano accesso alla tv, riservata agli studenti del sest’anno, e solo in certi giorni. Nessuno ascoltava né sapeva dell’esistenza di seri radiogiornali. Qualche lieve accenno arrivò da Radio Luxembourg, ma di fatto la questione dei missili cubani rimase una tragedia confinata alle pagine di quei due giornali.


La prima frenesia di eccitazione adolescenziale cominciò a stemperarsi. Il silenzio ufficiale della scuola prese a impensierire Roland. Specie quando era solo. Una nervosa passeggiata tra le querce e il felceto oltre il muro di cinta non sortí alcun effetto. Sedette per un’ora ai piedi della statua di Diana cacciatrice, contemplando il fiume. Forse non avrebbe mai rivisto i suoi, né sua sorella Susan. E nemmeno avrebbe avuto modo di conoscere meglio suo fratello Henry. Una sera, dopo il buio, i ragazzi discutevano come al solito della crisi. Si aprí la porta ed entrò un prefetto. Era il Capo della Casa. Anziché chiedere che abbassassero la voce, si uní alla conversazione. Cominciarono a fargli delle domande e lui rispondeva solennemente, come se fosse appena rientrato dalla Unità di crisi della Casa Bianca. Si dichiarò in possesso di informazioni riservate e i ragazzi credettero a tutto quel che diceva e furono anche lusingati di averlo lí con loro. Era già a pieno titolo un membro del mondo adulto, e un ponte per raggiungerlo. Tre anni prima era stato uno di loro. Non lo vedevano, sentivano soltanto il timbro basso e pacato della sua voce provenire dalla direzione della porta, nella tipica parlata d’istituto che era un misto di cockney ingentilito con un tocco di sicurezza da studioso o da scienziato. Li informò di una cosa allarmante che avrebbero poi dovuto elaborare per conto proprio. In caso di conflitto nucleare a tutto campo, uno degli obiettivi sensibili inglesi per i sovietici, disse, sarebbe stata la base aeronautica di Lakenheath, a meno di cinquanta miglia di distanza. Questo significava che la scuola sarebbe stata annientata all’istante, il Suffolk si sarebbe trasformato in un deserto e tutti gli abitanti sarebbero stati vaporizzati. Vaporizzati. Alcuni dei presenti fecero echeggiare quella parola nel buio.


Se ne andò, il discorso in dormitorio proseguí. Qualcuno disse di aver visto una foto di Hiroshima dopo l’esplosione. Di una donna non era rimasto altro che l’ombra impressa su un muro. Si era vaporizzata. La conversazione si fece piú sporadica e fumosa nella notte, mentre il sonno prendeva il sopravvento. Roland era ancora sveglio. Quella parola non lo lasciava dormire. Era la morte dunque. Logico. Mr Corner, il professore di biologia, aveva spiegato in classe non molto tempo prima che il corpo umano è composto per il 93 per cento di acqua. Sarebbero evaporati in un lampo di calore, mentre il restante 7 per cento si sarebbe attorcigliato nell’aria come il fumo di una sigaretta disperso dalla brezza. In alternativa l’uragano atomico li avrebbe spazzati via. Altro che rifugiarsi a nord con gli amici e con gli zaini pieni di razioni alimentari di sopravvivenza, in fuga dalla città come i londinesi di Daniel Defoe nell’anno della peste. Roland comunque non ci aveva creduto, all’avventura dei superstiti. Ma l’aveva distratto dal pensiero di quello che poteva succedere davvero.


Non aveva mai preso in considerazione la propria morte. Era sicuro che le consuete associazioni – buio, freddo, silenzio, decomposizione – non fossero rilevanti. Erano tutte cose percepibili e comprensibili. La morte si collocava all’estremità piú remota del buio, perfino al di là del nulla. A lui come a tutti i suoi amici, la vita ultraterrena non interessava. Si assoggettavano alla messa obbligatoria della domenica sera riservando una sdegnosa sufficienza ai fervidi parroci blateranti di un dio inesistente. Si facevano un punto d’onore di non pronunciare mai le risposte dell’assemblea dei fedeli e di non chiudere gli occhi, chinare la testa, dire «amen» o unirsi al canto pur tenendo l’innario aperto a una pagina a caso per un residuo senso di cortesia. Come quattordicenni si erano appena lanciati su un percorso di efferata, magnifica ribellione. Era liberatorio essere o comportarsi da villani. Satira, parodia, sberleffo erano le loro modalità espressive, come l’imitazione comica dell’autorità e dei relativi cliché. Erano caustici e spietati anche tra di loro, pur mantenendosi leali. E tutto questo, e tutti loro, presto si sarebbero vaporizzati. Non vedeva come i russi potessero tirarsi indietro con gli occhi del mondo intero puntati addosso. Entrambe le parti, affermando con forza di essere favorevoli alla pace, sarebbero, per superbia e amor proprio, scivolate nella guerra. Bastava un piccolo scambio, l’affondamento di una nave in risposta a quello di un’altra, e si sarebbe scatenato un conflitto furioso. Perfino gli scolaretti sapevano che cosí era cominciata la Prima guerra mondiale. Ci avevano scritto dei temi in classe. Ogni nazione diceva di non volere la guerra e alla fine tutte ci erano cascate con una ferocia di cui ancora il mondo discuteva e che cercava di comprendere. Questa volta non sarebbe rimasto nessuno a farlo.


E che dire del famoso primo incontro, di quella magnifica e pericolosa catena montuosa? Spazzato via, insieme a tutto il resto. Mentre aspettava di riuscire a prendere sonno, ricordò la domanda del suo amico: e se uno moriva prima di averlo fatto? Aver fatto quella cosa.


Il giorno dopo, sabato 27 ottobre, cominciava la pausa di metà semestre. Niente lezioni, niente partite. Tutto sospeso fino al lunedí. Alcuni ragazzi di Londra aspettavano i genitori in visita. Uno studente del sest’anno aveva una copia del «Guardian» e gli permise di dare un’occhiata. Nel Mar dei Caraibi gli americani avevano concesso il transito a una petroliera russa diretta a Cuba. Si riteneva che trasportasse solo petrolio. Il flusso di navi sovietiche spudoratamente armate di missili assicurati sul ponte di coperta era diminuito o del tutto cessato. Ma si era rivelata la presenza in zona di sottomarini russi e nuove immagini dei ricognitori dimostravano che le manovre erano ancora in corso presso le basi cubane. I missili erano pronti a partire. Le forze militari americane si concentrarono a Key West, in Florida. Sembrava probabile che ci fosse il progetto di invadere Cuba e distruggere le basi missilistiche. Un politico francese ebbe a dire che il mondo intero stava «barcollando» sull’orlo della guerra nucleare. Molto presto sarebbe stato troppo tardi per tornare indietro.


Per onorare la cosiddetta vacanza la cucina serví uova fritte a colazione, e dal momento che alcuni ragazzi le detestavano o non sopportavano il grasso in cui galleggiavano, Roland poté divorarsene quattro. Dopo mangiato, si mise in cerca del vicesorvegliante, un uomo che godeva della stima dei ragazzi, perché si erano convinti che avesse una decina di fidanzate, portasse la pistola e svolgesse incarichi segreti. Vero era che guidava una Herald della Triumph, emanava profumo di tabacco dai pori della pelle e di cognome faceva Bond. Paul Bond. Abitava con moglie e tre figli nella vicina Pin Mill. Gli accordò il permesso di fare un giro in bicicletta. Mr Bond, ancora nuovo del posto, era poco attento alle procedure regolamentari. Si dimenticò di concordare un orario di rientro e non si prese la briga di segnare sul registro l’allontanamento di Roland dall’istituto.


La bici stava su un marciapiede dietro le cucine della scuola, una vecchia bicicletta da corsa a ventuno cambi con una piccola perdita nella camera d’aria anteriore che Roland non aveva mai voglia di sistemare. Mentre la gonfiava, provò un senso di nausea. Chinandosi per infilarsi i jeans nei calzini gli rinveniva in gola un sapore di zolfo. Una delle uova doveva essere guasta. O forse tutte. La giornata era serena e quasi calda. Abbastanza limpida da poter vedere i missili in arrivo da est. Percorse la discesa verso la chiesa in velocità, trattenendo il fiato per non sentire il lezzo di sbobba calda per i maiali che saliva dalla porcilaia. Svoltò a sinistra uscendo dai cancelli della scuola e si diresse a Shotley. Dopo il villaggio di Chelmondiston, cominciò a cercare la sua scorciatoia, una strada agricola sulla destra che lo avrebbe fatto tagliare per la piana dei campi, superare Crouch House, costeggiare Warren Lane fino allo stagno delle anatre e a Erwarton Hall. Ogni ragazzo della scuola sapeva che in quella dimora Anna Bolena era stata felice da bambina e che lí il futuro re Enrico veniva a trovarla e a corteggiarla. Prima di essere decapitata nella Torre di Londra per ordine del re, Anna chiese che il suo cuore fosse inumato nella chiesa di Erwarton. Si diceva che fosse custodito in un piccolo scrigno cuoriforme sepolto sotto l’organo.


Arrivato al portico d’ingresso della tenuta, Roland si fermò, appoggiò la bicicletta all’antico cancello, attraversò la strada e si mise a camminare in su e in giú. La casa di lei era a pochi minuti da lí. Non era pronto. Era essenziale non presentarsi sudato o senza fiato. Aveva trascorso cosí tanto tempo a pensarci e a evitare Erwarton che gli pareva di averci passato l’infanzia anche lui. Fissava lo stagno delle anatre chiedendosi come mai non se ne vedesse neanche una, quando sentí una voce alle sue spalle.


– Ehi, dico a te.


Un tale in giacca di tweed giallo screziato e cappello deerstalker se ne stava piazzato a braccia conserte accanto al cancello.


– Sí?


– È tua questa bici?


Annuí.


– Come ti viene in mente di appoggiarla a questo magnifico edificio?


– Scusi, signore –. Le parole gli erano uscite prima che potesse fermarle. Un’abitudine acquisita a scuola. Quindi rallentò il passo e riattraversò, improvvisando un’andatura spavalda e un’aria indifferente. Aveva quattordici anni ormai, con lui non si scherzava. Anche l’altro era giovane, pallido e gracilino, con gli occhi sporgenti.


– Come scusi?


– La bici.


– Sí, che problema c’è?


Il giovane sorrise. – Come non detto. Probabilmente va bene cosí.


Preso alla sprovvista, Roland stava per cedere e spostare la bici sul prato ma quello gli calò una mano sulla spalla e, indicando un punto, disse: – La vedi quella casetta in fondo sulla destra?


– Sí.


– L’ultima persona morta di peste in Inghilterra abitava lí. 1919. Incredibile, no?


– Non lo sapevo, – disse Roland. Sospettava che quel tizio fosse una specie di psicopatico. – Ora però è meglio che vada.


– Benissimo!


In capo a pochi minuti stava superando la chiesa, poi le case sparse del villaggio e poco dopo si trovò fuori dal suo cottage. Lo riconobbe dall’auto rossa parcheggiata sul prato. C’era un cancello di legno bianco e un vialetto in mattoni che curvava appena prima di raggiungere la porta di casa. Appoggiò la bicicletta alla macchina, si liberò i jeans dai calzini e si fermò esitante. Si sentiva osservato pur non essendo visibile alcun movimento alle due finestre del piano terra. A differenza degli altri cottage intorno, questo non aveva tendine a rete. Roland avrebbe preferito che fosse lei a uscire. Che venisse a salutarlo e dicesse quel che c’era da dire. Dopo un attimo spinse il cancello e si avviò lentamente verso la porta. I bordi che delimitavano il vialetto avevano l’aria incolta di un’estate dimenticata. Non aveva ancora estirpato le erbacce ingiallite. Lo sorprese notare vecchi vasi di plastica rovesciati e carte di caramelle pestate in mezzo alle foglie morte. Gli era sempre sembrata un’amante dell’ordine e della pulizia, ma in fondo non sapeva niente di lei. Stava commettendo un errore e avrebbe dovuto fare dietro-front adesso, prima che lo vedesse. No, era deciso ad andare incontro al suo destino. La mano era già pronta a sollevare il pesante battiporta e a lasciarlo ricadere. Una, due volte. Udí rapidi tonfi sordi mentre lei scendeva velocemente le scale. Poi il suono del chiavistello tirato. Spalancò la porta cosí in fretta da metterlo subito a disagio e impedirgli di incrociare il suo sguardo. La prima cosa che vide fu che era scalza e aveva le unghie dei piedi dipinte di viola.


– Sei tu –. Lo disse in tono neutro, senza esitazione né stupore. Lui alzò la testa e si scambiarono uno sguardo e, nella confusione del momento, Roland pensò che forse aveva bussato alla porta sbagliata. Cioè, lei lo aveva riconosciuto. Ma sembrava diversa. Aveva i capelli sciolti, lunghi quasi fino alle spalle, indossava una maglietta verde chiaro sotto un golf informe, e jeans ben sopra le caviglie. La tenuta del sabato. Si era preparato una cosa da dire, a mo’ di preambolo, ma ora l’aveva scordata.


– In ritardo di quasi tre anni. Il pranzo si è freddato.


Rispose precipitosamente. – Sono stato in punizione per un bel po’.


Lei sorrise e lui arrossí di incontenibile orgoglio per quella risposta arguta. Chissà dove l’aveva rimediata.


– Entra, allora.


La superò per introdursi in un corridoio stretto che finiva su una ripida rampa di scale e due porte, una a destra e una a sinistra.


– Sinistra.


Vide per primo il pianoforte a mezzacoda che, sebbene incassato in un angolo, occupava buona parte della stanza. Pile di spartiti su due sedie, due divanetti uno di fronte all’altro con in mezzo un tavolino, a sua volta carico di libri. I quotidiani sul pavimento. In fondo, la porta che dava su una cucina minuscola affacciata sul giardino con il suo muretto basso di cinta.


– Seduto, – gli disse, come se parlasse a un cane. Scherzava, ovviamente. Gli si sedette di fronte e lo fissò intensamente, con l’aria di divertirsi della sua presenza. Che cosa vedeva guardandolo?


Roland se lo chiese spesso, negli anni a venire. Un quattordicenne, di statura media per la sua età, e di corporatura sottile ma abbastanza forte, capelli scuri, lunghi per l’epoca, su remota ispirazione di John Mayhall e Eric Clapton. Nel corso di una breve visita a sua sorella, Roland era stato accompagnato dal cugino Barry al Ricky Tick Club di Guildford a sentire i Rolling Stones. Fu lí che mise a punto il suo stile, perché i jeans neri di Brian Jones lo avevano conquistato. Quali altri cambiamenti potevano aver colpito Miriam? La voce appena cambiata. La faccia sottile e seria, labbra carnose che a volte fremevano come nello sforzo di reprimere certi pensieri, occhi tra il verde e il marrone dietro un paio di occhiali passati dal servizio sanitario statale, a cui lui aveva scollato la montatura di plastica molto prima che a John Lennon venisse in mente di fare lo stesso. Giacca grigia in Harris tweed con toppe sui gomiti su camicia hawaiana con una fantasia di palme. I calzoni in flanella grigia a tubo di stufa erano l’alternativa piú simile al jeans nero attillato che il codice di abbigliamento della Berners concedesse. Le winklepicker ai piedi avevano un che di medievale. Profumava di acqua di colonia agrumata. Quel giorno non aveva brufoli. C’era qualcosa di indefinibile e depravato in lui. Una magrezza da serpe.


Si era disteso goffamente sul divano, mentre lei era rimasta seduta dritta, prima di sporgersi un poco in avanti. La voce le uscí soave e comprensiva. Forse le faceva pena. – Allora, Roland. Dimmi di te.


Una di quelle richieste da adulti, difficilissime e insulse. Solo un’altra volta lo aveva chiamato con il nome di battesimo. Rizzandosi a sedere in una posizione piú simile a quella di lei, Roland non riuscí a farsi venire in mente nient’altro che le lezioni di piano con Mr Clare. Spiegò che al momento faceva un’ora e mezza extra la settimana gratuitamente. Negli ultimi tempi, le disse, stava studiando…


Lo interruppe e intanto sollevava la gamba destra per infilarla sotto il ginocchio sinistro. Aveva la schiena decisamente piú dritta di quanto non fosse mai stata la sua. – Ho saputo che hai passato il livello 7.


– Ah, sí.


– Merlin Clare dice che sei bravo nella lettura a prima vista.


– Non so.


– E hai pedalato fin qui per suonare dei duetti con me.


Arrossí di nuovo, questa volta perché gli parve che le sue parole contenessero un’allusione sessuale. Intanto registrava l’inizio di un’erezione. Si portò una mano in grembo, in caso si vedesse. Ma lei nel frattempo era in piedi e si dirigeva al pianoforte.


– Ho giusto la cosa adatta. Mozart.


Era già seduta mentre lui rimaneva sul divano stordito dall’imbarazzo. Stava per fare una brutta figura e sentirsi umiliato. E cacciato via.


– Pronto?


– In realtà non mi sento.


– Solo il primo movimento. Di che cosa hai paura?


Non vedeva via di scampo. Si alzò lentamente, e le passò dietro per prendere posto a sinistra. Nel farlo, sentí il calore salire dalla sua nuca. Mentre si sedeva, notò un orologio sul caminetto dal ticchettio rumoroso come quello di un metronomo. Tenere il tempo in duetto sarebbe stato un’impresa con quel rumore in sottofondo. Lei sistemò lo spartito. Re maggiore. Un brano di Mozart per pianoforte a quattro mani. L’aveva suonato tutto una volta con Neil Noake, forse sei mesi prima. All’improvviso lei cambiò idea.


– Scambiamoci posto. Cosí ti diverti di piú.


Si alzò per spostarsi, mentre lui scivolava sulla destra. Tornando a sedersi, disse con la stessa voce soave di prima: – Non vogliamo andare di fretta qui.


Con una minima inclinazione di tutto il corpo, sollevò entrambe le mani sulla tastiera prima di riabbassarle e attaccare a un passo che a Roland parve insostenibile. Come scendere in slitta da una montagna ghiacciata. Rimase un istante indietro sulla superba frase iniziale sicché lo Steinway produsse il suono di uno strumento da piano bar. Per nervosismo non riuscí a soffocare lo sbruffo di una risata nasale. Poi la raggiunse ma subito dopo, per eccesso di zelo, la superò. Si sentiva in bilico su uno strapiombo. Non poteva badare né all’espressione né alla dinamica – riusciva a stento a suonare le note giuste nell’ordine in cui apparivano accalcate sulle pagine. Ci furono momenti quasi buoni. Mentre si rilanciavano avanti e indietro una breve sezione in un palpitante prolungato crescendo, lei esclamò un «bravo». Facevano un gran frastuono in quella stanza minuscola. Quando raggiunsero la fine del movimento, voltò la pagina. – Non possiamo fermarci, adesso!


Roland se la cavò discretamente, barcamenandosi sulla melodia cadenzata mentre lei lo accompagnava con un morbido basso albertino che lo sosteneva. Intanto gli premeva addosso, piegandosi sulla destra mentre giungevano insieme a un registro piú acuto. Roland si rilassò un poco sentendola quasi inciampare su un precipizio di note, scherzetto privato di quel monello di Mozart. Ma il movimento parve durare ore e alla fine i due punti neri che indicavano la ripetizione giunsero come un castigo, una seconda condanna. Il peso imposto alla sua concentrazione stava diventando impossibile. Gli bruciavano gli occhi. Finalmente, il brano sprofondò nell’accordo finale che lui sostenne per una semiminima di troppo.


Lei si alzò subito in piedi. Roland avrebbe pianto per il sollievo, constatando che non intendeva suonare l’allegro molto. Ma non aveva ancora parlato e lui ebbe la sensazione di averla delusa. Stava giusto dietro di lui. Gli posò le mani sulle spalle e si chinò a bisbigliargli all’orecchio: – Andrai bene, vedrai.


Non sapeva che cosa significasse. La vide lasciare la stanza per andare in cucina. Guardare i suoi piedi bianchi e nudi, udirne il fruscio sulla pietra lo faceva sentire debole. Un paio di minuti dopo lei tornò con due bicchieri di succo d’arancia, anzi di vera e propria spremuta, un sapore nuovo. A quel punto, Roland stava dubbioso in piedi accanto al tavolino, domandandosi se avrebbe dovuto andarsene. Non gli sarebbe dispiaciuto. Bevvero in silenzio. Poi lei mise giú il bicchiere e fece una cosa che per poco non lo faceva svenire. Dovette reggersi al bracciolo del divano. Andò alla porta d’ingresso, si inginocchiò e spinse con forza il chiavistello nella sede del pavimento. Poi tornò indietro e gli prese la mano.


– Dài, vieni.


Lo portò ai piedi della scala dove si fermò per guardarlo intensamente negli occhi. I suoi erano luminosi.


– Hai paura?


– No, – mentí lui. Aveva la voce impastata. Avrebbe dovuto schiarirsi la gola, ma non osava per non sembrare insicuro, o stupido, o malato. Per non svegliarsi dal sogno. La scala era stretta. Le tenne la mano mentre lei lo precedeva tirandoselo appresso. In cima alla rampa c’erano un bagno e, come al piano di sotto, una porta a destra e una a sinistra. Lo trascinò verso quella di destra. La camera lo mise in agitazione. Era un caos. Il letto disfatto. Per terra, accanto a un cesto del bucato, un mucchietto di biancheria in varie tinte pastello. Quella vista lo intenerí. Quando aveva bussato probabilmente lei stava organizzando il bucato della settimana, come si fa il sabato mattina.


– Levati calze e scarpe.


Si inginocchiò davanti a lei e fece quel che gli era stato richiesto. Non gli piaceva il modo in cui sulle tomaie delle sue scarpe si era formato un solco che andava a impennarsi sulle punte. Le fece sparire sotto una sedia.


Lei gli si rivolse in tono pratico. – Sei circonciso, Roland?


– Sí. Cioè, no.


– Beh, comunque sia, ora vai in bagno e ti dai una bella lavata.


Gli sembrò una richiesta di buon senso, e di conseguenza l’eccitazione si spense. Il bagno era minuscolo, moquettato di rosa, vasca stretta e box doccia a vetro leggermente inclinato e, su una rastrelliera portasciugamani in acciaio, morbidi teli di spugna bianca che gli ricordavano quelli di casa. Su una mensola sopra il lavandino vide una sinuosa boccetta del suo profumo di cui lesse il nome, acquadirose. Non essendo la prima volta che lei lo spediva a lavarsi, Roland procedette meticolosamente. Dispiacerle in qualunque modo era ciò che temeva di piú. Mentre si rivestiva sbirciò dal finestrino piombato sotto l’abbaino. Offriva una vista a distesa sui campi fino allo Stour quasi in bassa marea, con le sponde di fango emergenti tra specchi d’acqua come gobbe di creature mostruose, e macchie d’erba acquatica e voli di uccelli marini. Una vela a due alberi rincorreva il flusso in mezzo al canale. Qualunque cosa stesse succedendo, in questo cottage, il mondo sarebbe andato avanti lo stesso. Fino a fermarsi. Forse nel giro di un’ora.


Quando tornò, lei aveva riordinato la stanza e tirato indietro le coperte. – Dovrai fare cosí ogni volta.


L’allusione a un futuro gli restituí l’eccitazione. Gli indicò con un gesto di sedersi sul letto vicino a lei. Poi gli mise una mano sul ginocchio.


– Sei preoccupato per la contraccezione?


Non rispose. Non ci aveva nemmeno pensato e ne sapeva comunque ben poco.


Lei disse: – Non è escluso che io sia la prima donna della penisola di Shotley a prendere la pillola.


Anche quest’affermazione lo spiazzava. Sua unica risorsa al momento era la verità, vale a dire ciò che era del tutto ovvio. Si voltò a guardarla e disse: – Sono proprio contento di essere qui con lei –. Mentre gli uscivano di bocca, le sue parole gli suonavano puerili. Lei comunque sorrise, avvicinò la faccia alla sua e si baciarono. Un bacio non molto lungo, né molto profondo. Roland la seguiva. Dunque labbra, di sfuggita, punta della lingua, e poi labbra di nuovo. Lei si abbandonò sui cuscini e disse: – Spogliati per me. Voglio guardarti.


Si alzò e sfilò dalla testa la camicia hawaiana. Le vecchie assi di quercia del pavimento scricchiolarono sotto il suo peso mentre restava in piedi su una gamba sola per levarsi i pantaloni. Stretti in fondo da sua madre per tenerli al passo con la moda, si faceva fatica a sfilarli dal tallone. Roland era in forma, e pensò che non si vergognava di restare svestito davanti a Miriam Cornell.


Lei però disse brusca: – Tutto quanto.


Allora si calò anche le mutande e ne uscí scavalcandole.


– Cosí va meglio. Bravo, Roland. E guardati.


In effetti… Non aveva mai conosciuto un’eccitazione come quella. Gli faceva paura eppure di lei si fidava ed era pronto a eseguire ogni suo ordine. Tutto il tempo che aveva passato con lei nella mente e, prima ancora, tutte quelle angoscianti lezioni di piano erano solo prove generali di quanto stava per accadere. Era tutto parte di un’unica lezione. Avrebbe fatto di lui qualcuno pronto a sfidare la morte, lieto di essere vaporizzato. La guardò trepidante. E che cosa vide?


Il ricordo non l’avrebbe mai piú abbandonato. Il letto era a due piazze per gli standard di allora, poco piú di un metro e cinquanta di larghezza. Due coppie di guanciali. Lei sedeva appoggiata a una delle due con le ginocchia al petto. Mentre Roland si spogliava si era levata golf e jeans. Le mutande, come la maglietta, erano verdi. Cotone, non seta. La maglietta era un’abbondante misura da uomo il che, forse, avrebbe dovuto fargli temere un rivale. Il panneggio del cotone pettinato assumeva un che di voluttuoso nel suo stato di eccitazione. Anche gli occhi di lei erano verdi. Un tempo gli era sembrato di scorgerci una traccia di crudeltà. Ora invece il loro colore suggeriva audacia. Quella di una persona capace di fare tutto ciò che voleva. Le sue gambe nude mostravano un residuo di abbronzatura estiva. Il viso rotondo, che in passato aveva assunto i tratti di una maschera, ora appariva dolce e gentile. La luce che entrava dalla finestra della piccola stanza metteva in risalto le linee forti dei suoi zigomi. Niente rossetto quel sabato mattina. I capelli finissimi, che durante le lezioni portava raccolti, ora accompagnavano a ciocche i movimenti del capo. Lo guardava anche adesso in quel suo modo speciale, paziente e sardonico insieme. C’era qualcosa in lui che la divertiva. Si tolse la maglietta e la lasciò cadere sul pavimento.


– È ora che impari come si slaccia un reggiseno.


Si inginocchiò sul letto vicino a lei. Sebbene gli tremassero le dita, l’operazione si rivelò abbastanza semplice, bastava sfilare i ganci dagli occhielli. Lei scostò coperte e lenzuola. Continuava a fissarlo, come a impedirgli di restare imbambolato a guardarle il seno.


– Mettiamoci sotto, – disse. – Vieni qui.


Si sdraiò supina, con un braccio disteso. Voleva che Roland ci si coricasse sopra, o dentro. Con la mano libera tirò su le coperte, si girò sul fianco e lo tirò verso di sé. Roland era a disagio. Gli pareva piú un abbraccio tra una madre e un bambino. Aveva la sensazione di dover assumere un ruolo piú dominante. Era convinto di non dovere assolutamente lasciarsi vezzeggiare. Già, ma quanto convinto? Essere stretto fra le braccia in quel modo si rivelava un’improvvisa e inattesa delizia. Non aveva scelta. Lei si tirò il suo viso al seno che ora occupava il suo intero campo visivo e Roland prese in bocca un capezzolo. Con un fremito lei mormorò: – Oh, Dio –. Roland riemerse per prendere fiato. Erano faccia a faccia e si baciavano. Lei gli guidò le dita tra le cosce per mostrargli come, poi ritirò la mano. Gli sussurrò: – No, dolcemente, piú piano – e chiuse gli occhi.


All’improvviso gettò via le coperte e rotolò sopra di lui, si sedette – ed ecco, era fatto, finito. Semplicissimo. Come il trucco del nodo che si scioglie per magia su un pezzo di corda. Sdraiato in preda allo stupore dei sensi, Roland le cercò le mani, non riuscendo a parlare. Probabilmente erano passati solo pochi minuti. Gli pareva che gli avessero fatto conoscere una piega segreta dello spazio che conteneva un fermo, una serratura e, una volta sbloccata quella e sollevata la pellicola illusoria del quotidiano, finalmente gli era dato di vedere quel che da sempre era lí. I loro ruoli, maestra, allievo, le gerarchie e la prosopopea della scuola, gli orari, le biciclette, le auto, gli abiti, perfino le parole… era tutto soltanto un diversivo che doveva tenere la gente lontana da questo. Era, a scelta, esilarante o drammatico che le persone portassero avanti le loro routine quotidiane nel solito modo quando sapevano che c’era questo. Perfino il preside, che aveva un figlio e una figlia, doveva saperlo. Perfino la regina. Ogni singolo adulto lo sapeva. Quanta falsità. Quanta ipocrisia.


Poco dopo lei aprí gli occhi e, rivolgendogli uno sguardo distante, disse: – Manca ancora una cosa.


La voce di Roland era fievole come arrivasse da dietro il muro – Sí?


– Non hai detto il mio nome.


– Miriam.


– Devi dirlo tre volte.


Ubbidí.


Silenzio. Lei si dondolava e disse: – Dimmi qualcosa. E chiamami per nome.


Roland non ebbe esitazioni. La sua era una lettera d’amore, ed era sincera. – Cara Miriam, sono innamorato di Miriam. Ti amo, Miriam –. E mentre lo ripeteva, lei inarcò la schiena, e le uscí un grido bellissimo, strozzato. E concluse anche lui, seguendola subito, appena un passo indietro, il tempo di una semiminima.


La raggiunse di sotto dopo una decina di minuti. Si sentiva lucido, leggero e fece le scale due gradini alla volta. Non era ancora cambiata l’ora, il sole era alto. Non era neppure l’una e mezza. Sarebbe stata una gioia mettersi in bici adesso, scegliere un’altra strada per tornare a scuola, passare per Harkstead a tutta velocità, costeggiare la pineta che nascondeva il suo lago segreto. Ritrovarsi da solo, a godersi il tesoro che nessuno poteva portargli via, assaporarlo, studiarlo, ripercorrerlo. Considerare le proporzioni del cambiamento avvenuto nella sua persona. Magari poteva allungare il giro, passare per le strade di campagna fino a Freston. Una prospettiva stupenda. Prima però, c’era il saluto. Quando arrivò in soggiorno, lei era china a raccogliere i giornali da terra. Non era tanto ingenuo da non accorgersi del cambiamento di umore. I gesti di lei erano rapidi, tesi. Si era legata i capelli in una coda stretta. Si rizzò in piedi, lo guardò e capí.


Disse: – Oh no, te lo scordi.


– Che cosa?


Gli si avvicinò: – Te lo puoi scordare.


Roland provò a dire: – Non so che cosa intendi, – ma lei gli diede sulla voce: – Hai avuto quel che volevi e ora te ne vai. Giusto?


– No. Davvero. Voglio restare.


– Stai dicendo la verità?


– Sí!


– Sí, signorina.


La guardò per capire se lo prendeva in giro. Impossibile stabilirlo.


– Sí, signorina.


– Bene. Mai sbucciato patate?


Annuí, non osando contraddirla.


Lo portò in cucina. Accanto all’acquaio, in una ciotola di latta c’erano cinque grosse patate sporche di terra. Gli consegnò l’attrezzo e un colapasta. – Ti sei lavato le mani?


Roland cercò di assumere un tono asciutto. – Sí.


– Sí, signorina.


– Credevo volessi essere chiamata Miriam.


Gli rivolse un’occhiata di sdegnosa compassione e proseguí dicendo: – Quando le hai sbucciate e risciacquate, tagliale in quattro e mettile in quel tegame.


Si infilò un paio di zoccoli e uscí nel giardino sul retro mentre lui si dava da fare. Si sentiva in trappola, disorientato, e al tempo stesso capiva di doverle molto. Certo, sarebbe stato scorretto, terribilmente maleducato andarsene. Ma quand’anche fosse stato giusto, lui non avrebbe saputo contrastarla. Gli aveva sempre messo paura. Non aveva dimenticato quanto poteva essere crudele. Adesso la questione era piú complessa, le cose erano peggiorate ed era stato lui a peggiorarle. Sospettava di essere incappato in una legge fondamentale dell’universo: un’estasi di quella portata non poteva non compromettere la sua libertà. Era il prezzo da pagare.


Sbucciare la prima patata fu un lavoro lento. Come intagliare il legno, un’attività nella quale era sempre stato un disastro. Alla quarta, gli pareva di aver capito il procedimento. Il trucco era ignorare il dettaglio. Fece in quattro e sciacquò le sue cinque patate che tuffò nel tegame pieno d’acqua. Andò alla porta a vetri della cucina per vedere che cosa combinava lei. La luce era dorata. La vide trascinare un tavolo di ferro battuto sul prato, verso un capanno. Fermarsi, e tornare a trascinarlo di pochi centimetri per volta. Si muoveva a scatti, quasi con rabbia. Gli attraversò la mente il pensiero atroce che potesse esserci qualcosa che non funzionava in lei. Lo vide e gli fece segno di uscire.


Quando le fu accanto, gli disse: – Non startene lí a guardare. Pesa un casino, ’sta roba.


Insieme ritirarono il tavolo nel capanno. Poi gli mise in mano un rastrello e gli disse di spazzare le foglie e di gettarle nel compost in fondo al giardino. Mentre Roland rastrellava foglie di betulla cadute dall’albero del vicino, lei trafficava con le cesoie alla siepe di cinta. Passò un’ora. Stava portando l’ultimo mucchio di foglie al compost. In fondo allo spazio aperto si intravedeva un segmento di fiume e uno spicchio di insenatura tinto di arancio. Avrebbe potuto scavalcare la staccionata bassa che dava sulla campagna, fare il giro intorno al cottage, recuperare la bicicletta e andarsene. Non tornare mai piú. Poco importava se la fine del mondo era vicina. Avrebbe potuto farlo. Ma molto semplicemente non era in grado. L’impulso di andare via lo sorprendeva non meno dell’incapacità di muoversi. Era una questione di cortesia dare una mano, fermarsi a pranzo. Fame aveva fame, la coscia di agnello che aveva visto in cucina sarebbe stata di sicuro meglio di qualsiasi piatto a scuola. Il fatto che Miriam pochi minuti dopo gli chiedesse di rastrellare anche il prato davanti a casa aiutò, o quanto meno semplificò le cose. Non gli lasciava scelta. Mentre si voltava per ubbidire all’ordine lei lo tirò per il colletto della camicia e lo baciò su una guancia.


Entrò a cucinare lasciandolo a spingere una carriola con dentro il rastrello sotto il portico laterale, fino al giardino dove si rimise al lavoro. Era piú faticoso qui. Le foglie si erano raccolte dietro e in mezzo a spinosi arbusti di rose lungo la siepe di cinta. La testa del rastrello era troppo larga. Dovette mettersi carponi e radunare le foglie con le mani. Raccolse vasi di plastica vuoti, carte di caramella, e altro ciarpame finito là sotto. Appena fuori del cancello era parcheggiata l’auto di lei con la sua bici appoggiata di lato. Roland cercò di non guardarla. Forse era la fame a renderlo cosí irritabile. La fame e il lavoro rognoso che doveva fare.


Quando ebbe finito e riportato rastrello e carriola nel capanno, tornò in casa. Miriam stava spennellando l’agnello.


– Non è ancora pronto, – disse, e poi lo vide. – Ma guarda in che stato sei. Hai i calzoni luridi –. Lo prese per mano. – E ti sei tutto graffiato. Povera stella. Dài, levati le scarpe. Sotto la doccia, subito, vengo con te.


Si lasciò guidare di sopra. In effetti le spine delle rose gli avevano fatto sanguinare il dorso delle mani. Si sentí accudito e anche un po’ eroico. In camera da letto si spogliò davanti a lei.


La voce di Miriam era calda. – Guarda un po’. Ti è cresciuto di nuovo –. Se lo tirò addosso, toccandolo, mentre si baciavano.


La doccia non fu una bella esperienza. L’acqua scendeva a filo e la distanza tra gelata e bollente stava in una frazione di millimetro nell’apertura o chiusura del rubinetto. Quando tornò in camera con l’asciugamano intorno alla vita, i vestiti non c’erano piú. La sentí arrivare su per le scale.


Senza dargli il tempo di chiedere, disse: – Sono in lavatrice. Non puoi tornare a scuola tutto sporco di fango –. Gli passò una maglia grigia e un paio di suoi pantaloni beige. – Niente paura. Le mutande non te le impresto.


I vestiti gli andavano bene di taglia, anche se i pantaloni gli facevano i fianchi da ragazza. Finivano con un passante da infilare sotto il tallone, in teoria. Lo lasciò pendere dietro. Mentre la seguiva giú per le scale, il pensiero di essere scalzi tutt’e due gli fece piacere. Pranzarono molto tardi e lei bevve un bicchiere di bianco che disse di preferire a temperatura ambiente. Roland non conosceva le regole del vino ma annuí con aria da intenditore. A lui versò un bicchiere di limonata fatta in casa. In principio, mangiarono in silenzio e Roland era nervoso perché aveva cominciato a capire con quale velocità lei cambiasse umore. Lo preoccupava anche il fatto di essere senza vestiti. La lavatrice era in funzione, ed emetteva gemiti sommessi. Ma presto le sue ansie passarono perché aveva nel piatto dell’agnello arrosto, roseo, perfino al sangue qua e là, cosa nuova per lui. E sette grossi tocchi di patate arrosto e abbondante cavolfiore al burro. In risposta all’offerta prese un secondo piatto di carne e poi un terzo e un totale di quindici pezzi di patate e quasi tutto il cavolfiore. Non gli sarebbe dispiaciuto arraffare anche la salsiera ancora mezza piena e scolarsi tutto il sugo perché di sicuro sarebbe finito in pattumiera. Ma sapeva come ci si deve comportare.


Finalmente Miriam affrontò il discorso, l’unico vero tema. Essendo stato il motivo della sua visita, Roland aveva ritenuto la questione automaticamente archiviata.


– Suppongo che tu non legga i giornali.


– Invece sí, – si affrettò a dire. – So che cosa sta succedendo.


– E che ne pensi?


Ci pensò bene. Era talmente sazio – oltre che una persona del tutto nuova, un uomo ormai – che in quel preciso momento non gli importava granché. Ma disse: – Potremmo essere tutti morti entro domani. O entro stanotte.


Miriam scostò il piatto e incrociò le braccia. – Sul serio? Non mi sembri spaventato.


L’attuale indifferenza era un gran peso. Si sforzò di ricordare come si era sentito il giorno prima e la sera precedente. – Sono terrorizzato –. Poi, d’improvviso, sentendosi circonfuso dalla vasta aura della sua maturità recente, le restituí la domanda in un modo che mai sarebbe passato per la testa a un bambino: – E tu, che ne pensi?


– Io penso che Kennedy e l’America in generale si stiano comportando da bambini viziati. Stupidi e incoscienti. E che i russi siano bugiardi e mascalzoni. Fai bene a essere terrorizzato.


Roland era stupefatto. Non aveva mai sentito una sola parola contro gli americani. Il presidente era proposto come un dio in tutto quello che Roland aveva letto. – Ma sono stati i russi a piazzare i missili…


– Sí, sí. E gli americani hanno i loro giusto al confine sovietico con la Turchia. Ci hanno sempre detto che l’equilibrio strategico era il solo modo per mantenere il mondo al sicuro. Dovrebbero fare un passo indietro tutti e due. E invece, continuano con questi giochetti stupidi e pericolosi, in alto mare. Con queste bambinate!


L’impeto di lei lo sorprese. Era avvampata. A lui batteva forte il cuore. Non si era mai sentito cosí adulto. – E secondo te cosa succede?


– I casi sono due: o qualche idiota dal pulsante facile commette un errore in mezzo al mare e saltiamo tutti per aria, come tu temi possa capitare. Oppure arrivano all’accordo che dei veri capi di Stato avrebbero dovuto fare dieci giorni fa, anziché portarci tutti quanti sull’orlo dell’abisso.


– Cioè, secondo te potrebbe davvero scoppiare una guerra?


– È possibile, esatto.


La fissò. La sua dichiarazione rispetto alla possibilità di essere tutti morti entro quella sera era sostanzialmente retorica. Era quanto sostenevano a scuola i suoi amici e gli studenti del sest’anno. Era un conforto sentirla confermare da chiunque. Ma sentirla adesso venire da lei fu uno shock. Miriam sembrava lucida. I giornali riferivano lo stesso genere di cose, ma gli importava di meno. Erano solo storie, intrattenimenti. Cominciava a sentirsi tremare dentro.


Lei gli piazzò una mano sopra il polso, lo girò e andò a intrecciare le dita con le sue. – Roland, ascolta. È davvero molto improbabile. Saranno anche stupidi, ma hanno molto da perdere da una parte e dall’altra. Lo capisci?


– Sí.


– Sai di che cosa ho voglia? – Attese la sua risposta.


– Di che cosa?


– Ho voglia di portarti sopra con me –. E aggiunse in un sussurro. – Di farti sentire al sicuro.


Perciò si alzarono senza separarsi e per la terza volta quel giorno lei lo trainò su per le scale. Nella luce bassa del tardo pomeriggio accadde tutto da capo, e di nuovo Roland si stupí di se stesso, di come qualche ora prima fosse stato ansioso di andarsene, e di tornare allo stadio di bambino in bicicletta. Dopo, restò sdraiato sul braccio di lei, col viso all’altezza del suo seno, sentendosi invadere da una crescente sonnolenza. Non era in grado di prestare attenzione costante a quel che lei gli diceva sottovoce.


– Ho sempre saputo che saresti venuto… Ho avuto molta pazienza, ma lo sapevo… e tu forse no, invece. Mi ascolti? Bene. Perché ora che sei qui, devi sapere. Ti aspetto da tanto tempo. Non devi parlare di questa cosa con nessuno. Nemmeno con il tuo migliore amico, non ti devi vantare, per quanto tu possa averne voglia. Ti è chiaro?


– Sí, – disse lui. – È chiaro.


Quando si svegliò, fuori era buio e lei non c’era. L’aria della stanza gli arrivava fredda sul naso e sulle orecchie. Stava coricato supino su quel letto comodo. Sentí da sotto la porta aprirsi e chiudersi e poi un ticchettio consueto che non riuscí a decifrare. Rimase cosí una mezz’ora, perso in vaghe fantasticherie. Se non finiva il mondo, tra cinquantaquattro giorni, almeno il trimestre si sarebbe concluso. E lui se ne sarebbe andato in Germania a passare le vacanze di Natale con i suoi, una prospettiva carica di sollievo e di noia. Gli piaceva però anticipare le varie fasi del viaggio, il treno da Ipswich a Manningtree, dove il fiume Stour cessava di essere mareale, il cambio per Harwich per prendere il traghetto della sera diretto a Hoek van Holland, l’attraversamento dei binari fino alla banchina e al treno per Hannover, e il controllo continuo, a ogni tappa, che il passaporto fosse sempre nella tasca della giacca.


Si rimise in fretta i vestiti che gli aveva imprestato e scese. La prima cosa che vide fu la sua bicicletta appoggiata al pianoforte. Lei era in cucina, che finiva di lavare i piatti.


Gli disse. – È piú sicura qui. Ho parlato con Paul Bond. Sapevi che do lezione a sua figlia. Puoi fermarti a dormire qui stanotte –. Gli si avvicinò per baciarlo sulla fronte.


Indossava un abito azzurro di velluto a costine con bottoni blu sul davanti. Gli piaceva il profumo che aveva sempre. Per la prima volta aveva la sensazione di rendersi conto di quanto fosse bella.


– Gli ho detto che stiamo provando un duetto. Ed è vero.


Lui portò a mano la bici in giardino attraversando la cucina e la sistemò nel capanno. La notte era stellata e prometteva l’arrivo dell’inverno. Sull’erba che aveva rastrellato si stava già formando la galaverna. La sentí crocchiare sotto i piedi mentre si allontanava dalla luce della cucina per guardare la forbice sbavata della Via Lattea. La Terza guerra mondiale non avrebbe fatto alcuna differenza per l’universo.


Miriam lo chiamò dalla porta di cucina. – Roland, vuoi congelare? Entra in casa.


Si diresse subito da lei. Quella sera suonarono di nuovo il brano di Mozart e questa volta Roland fu piú espressivo e riuscí a seguire le indicazioni di tempo. Nel movimento lento cercò di imitare la fluida scioltezza del legato di Miriam. Si precipitò tuonando nell’allegro molto, tanto da far vibrare i vetri di casa. Non importava. Ne risero insieme. Alla fine, lei lo abbracciò.


Il mattino dopo Roland dormí fino a tardi. Quando scese in cucina era passata anche l’ora di pranzo. Miriam stava cuocendo delle uova. Per terra e su una poltrona erano sparse le pagine del giornale della domenica, l’«Observer». Nessuna svolta, la crisi perdurava. Il titolo era chiaro: Kennedy: nessun accordo prima del disarmo dei missili di Cuba. Gli diede un bicchiere di succo d’arancia prima di costringerlo a un altro duetto di Mozart, in fa maggiore, questa volta. Suonò tutto il brano a prima vista. Alla fine lei gli disse: – Suoni le note puntate come un jazzista –. Un richiamo che lui prese per un complimento.


Quando finalmente sedettero a tavola e Miriam accese la radio per sentire il notiziario, la vicenda aveva avuto degli sviluppi. La crisi si era risolta. Ascoltarono la voce grave e carica di autorevolezza annunciare la fine. C’era stato un importante scambio di messaggi tra i leader. Le navi sovietiche si ritiravano, Chruščëv avrebbe ordinato la rimozione dei missili da Cuba. Era opinione generale che il presidente Kennedy avesse salvato il mondo. Il primo ministro Harold Macmillan lo aveva chiamato per congratularsi con lui.


La giornata era di nuovo limpida. Il sole basso, ben piú che equinoziale, infiammava i vetri della metà superiore della porta di cucina raggiungendo il piccolo soggiorno e inondando anche il tavolo. Mangiando la sua omelette, Roland tornò a sentire l’insidioso desiderio di andarsene, di pedalare a rotta di collo lungo il tragitto che aveva immaginato. Fuori discussione. Gli era già stato detto che, mentre lei gli stirava i vestiti, a lui sarebbero toccati i piatti. Miriam si era guadagnata il diritto di dargli ordini. Del resto, ce l’aveva sin dal principio.


– Che sollievo, – continuava a ripetere. – Ma non sei contento? Non si direbbe.


– Eccome, davvero. È stupendo. Che sollievo.


Ma lei lo aveva capito in effetti. Appena sotto uno strato di decenza, si celava in Roland la semiconsapevole sensazione di essere stato ingannato. Il mondo sarebbe andato avanti, lui non sarebbe evaporato. Tutto questo era stato per nulla.


Mr Clare, capo del dipartimento di musica, tutto preso dalle prove di Madre Coraggio, per il cui allestimento aveva composto una partitura originale, disse a Roland che in futuro sarebbe tornato a fare lezione con Miss Cornell.


– È al corrente dei tuoi progressi, della lettura a prima vista e tutto il resto. Sarà felice di vederti. Si occuperà anche dei tuoi novanta minuti extra. Quelli li pagherà la scuola. Al momento sono troppo impegnato. Spero che tu capisca. Sei un bravo ragazzo.


Era chiaro da chi fosse partita l’iniziativa, anche se Miriam non ne aveva fatto parola con Roland. Gli comunicò che avrebbero suonato la Fantasia di Schubert e un duetto di Mozart, in occasione di un concerto a Norwich. Una settimana dopo vide una locandina. Annunciava il concerto di Natale d’istituto per il 18 di dicembre. Sotto il Concerto brandeburghese n. 5 c’era Mozart e sotto di lui il suo nome e quello di Miriam. Sonata in re maggiore per due pianoforti K 448.


– Non avresti accettato se te l’avessi detto. Io sono la maestra, tu sei il mio allievo e questi concerti sono il genere di cosa al quale voglio che ti prepari. Ora basta, comunque. Vieni qui.


Erano a letto in quel momento. Alle sei del mattino. A volte Roland usciva alla chetichella dal dormitorio verso le cinque e pedalava come un pazzo nel buio, sullo sterrato fangoso. Aveva ridotto a un quarto d’ora il tempo del percorso, quattordici minuti, perfino. La porta di casa, accostata, lasciava filtrare una eccitante striscia di luce gialla. Tornava a rotta di collo appena faceva chiaro e si univa inosservato ai ragazzi che scendevano per la colazione delle 7:30. Laddove il giovane Marlow contava sul suo albero di mezzana in alto mare, Roland aveva la sua bicicletta. Andava a Erwarton nei pomeriggi liberi, e nei weekend, se non era impegnato in una partita. Si portava da lei i compiti nel cestino della bici, ma quand’era lí non li toccava quasi mai. La domenica di solito pranzava con Miriam. Ormai comunicava al preside dove stava andando: le lezioni di piano e le prove erano il loro distintivo di rispettabilità. Ogni volta che la lasciava, lei gli impartiva rigide istruzioni sul giorno e l’ora del successivo incontro. Lo teneva a catena corta. Spesso Roland partiva da scuola malvolentieri da quando novembre aveva lasciato il posto a dicembre, e gli alberi erano spogliati di ogni foglia da un vento che si diceva arrivasse dalla Siberia senza incontrare neppure l’ostacolo di un’altura. Roland frequentava meno gli amici, e disertava anche gli incontri in camera oscura. Tra i compagni del suo anno di corso si era guadagnato la reputazione di un pianista fissato e quindi barboso. Nessuno era incuriosito dalle sue assenze. Consegnava i compiti in ritardo. Il lavoro sul Signore delle Mosche che inizialmente aveva immaginato lungo il doppio del minimo richiesto si ridusse a una cosetta rabberciata in fretta, tre misere pagine in grafia ampia e ben spaziata. Una C meno meno a biro rossa fu la valutazione di Mr Clayton, l’entusiasmante professore di letteratura. «Ma l’hai letto?», fu il suo unico commento.


Era dura trascinarsi fuori dall’aria viziata e ben riscaldata del suo edificio e lasciarsi alle spalle il lavoro che doveva fare. Dura mettersi sotto la pioggia battente. Al cottage c’era solo una stufa a carbone e due piccoli caloriferi elettrici. Per gli spostamenti, Miriam gli regalò una giacca da sci e un berretto di lana. Aveva un pompon in cima ma lui lo tagliò via con il coltellino. Il problema comunque non era solo il potere che Miriam aveva su di lui. Roland stesso era un fastidio per sé. Prima ancora di aver varcato i cancelli della scuola per imboccare Shotley Road, era costretto a pedalare con una mezza erezione. Ma doveva accettare l’idea che non ogni visita avrebbe comportato fare sesso. Non aveva il coraggio di manifestare la propria delusione. Diceva a se stesso che una volta su due era fortunato. Miriam era instancabile con i lavori di casa e pretendeva che lui l’aiutasse. Oppure gli imponeva una lunga lezione al pianoforte. E finita quella, sarebbe stata ora di rispedirlo a scuola. A volte gli diceva che le bastava saperlo lí con lei e in nessun altro posto. Ma quando invece lo portava di sopra, allora l’esperienza superava le contrade piú remote della gioia. A scuola, la sera dopo le luci spente, ascoltava le spacconate senza fondamento dei suoi amici e sapeva che a loro non sarebbe mai toccato quello che aveva lui. Era innamorato, amato da una donna bellissima che gli insegnava come amare, come toccarla, come arrivare al piacere lentamente. Lo viziava lusingandolo. Lo definiva «un genio dell’improvvisazione con la lingua». Roland si scoprí contrario a metterle l’uccello in bocca. Non sapeva perché, ma lo innervosiva. A Miriam stava bene cosí. Quando dormivano, lo abbracciava come un bambino. E spesso lo trattava come tale, mandandolo a lavarsi le mani, ricordandogli che cosa doveva fare.


Una volta, nei primi tempi, Roland protestò e lei disse: – Ma, Roland, tu sei un bambino. Dài, non fare il broncio. Vieni qui, dammi un bacio.


E lui andava a darle un bacio. Era questo il punto: non riusciva a resistere a lei, alla sua faccia, alla sua voce, al suo corpo e ai suoi gesti. Ubbidirle era il tributo da pagare. Per giunta, Miriam lo batteva a mani basse perché sapeva terrorizzarlo con un rapido cambio di umore. Ogni dissenso e soprattutto ogni disobbedienza poteva essere immediatamente accolta come una provocazione. E interrompere la tenerezza che lo inebriava.


Si presentò una domenica mattina e per un’ora suonarono duetti e si esercitarono per il concerto, per quanto possibile, in assenza del secondo pianoforte. Quando ebbero finito, Miriam andò in cucina a farsi un caffè – a lui non permetteva di berlo – e al suo ritorno Roland estrasse dalla cartella una cosa da mostrarle. L’aveva appena comprato per due scellini: lo spartito di Round Midnight di Thelonious Monk. Sedendosi accanto a lui, Miriam lanciò un’occhiata alla copertina e mormorò – Schifezze. Metti via.


Il rischio era alto, ma dovette difendere ciò che amava. Perciò, a mezza voce, disse: – No, è davvero bello.


Gli strappò via lo spartito, l’appoggiò al leggio e cominciò a suonare. L’intenzione era quella di distruggerlo, e ci riuscí. Suonato esattamente com’era scritto, il pezzo risultava esile, banale come una canzonetta per bambini. Miriam si interruppe. – Ok?


– Ma non è cosí che si suona.


Affermazione pericolosa. Lei si alzò e, portandosi via la tazza del caffè, passò in cucina e in giardino, e intanto lui suonava per lei. Un gesto di pura follia, ma gli premeva farle sentire che aveva già messo a punto il modo per eseguire il brano con il pesante tocco sincopato maldestro dello stesso Monk. Adesso si rendeva conto di quanto era stato saggio da parte sua non dirglielo. Progettava di mettere su un trio jazz con due ragazzi piú grandi. Bravi entrambi, sia il batterista sia il bassista.


La guardò arrivare al fondo del giardino e osservare la distesa dei campi scaldandosi le mani intorno alla tazza. Poi la vide girarsi per tornare con passo deciso. Roland smise di suonare e attese. Non c’è dubbio, aveva esagerato.


Quando fu vicino al pianoforte, disse: – È ora che ti avvii.


Mezz’ora prima aveva accennato all’idea di salire. Roland provò a protestare ma gli dette sulla voce: – Puoi andare. Prendi la borsa –. Era sulla porta. Gliela teneva aperta, le cose erano a un punto tale che Roland non aveva nulla da perdere mostrandole di potersi arrabbiare a sua volta. Afferrò lo spartito, prese la cartella, la giacca a vento e se ne uscí in silenzio senza guardarla. Aveva la gomma della ruota anteriore floscia ma non intendeva certo gonfiarla sotto il suo sguardo. Portò a mano la bici fino alla strada. Non si erano accordati per l’incontro successivo.


Passò una settimana all’insegna del rimorso, l’incertezza e il desiderio. Non osava presentarsi al cottage non invitato rischiando un rifiuto senz’appello. Il suo tentativo di scriverle una lettera di scuse, che poi non spedí, era insincero. Continuava a pensare che Miriam avesse torto a proposito di Round Midnight. Perché non accettare semplicemente di avere gusti diversi? L’unico suo desiderio era che lei lo riprendesse con sé. Ma non aveva idea di come procedere, visto che non riusciva a capire per cosa dovesse scusarsi. Il crimine era stato dirle che quel pezzo non si suonava cosí. Impossibile ora dis-dirlo. E poi era la verità. Il jazz sullo spartito era solo metà della storia, al massimo una linea guida. Non si poteva eseguirlo come una ciaccona di Purcell.


Gironzolò attorno alla cabina telefonica nel sottoscala dell’edificio centrale. Stringeva in mano gli spiccioli per una chiamata locale. Parlando, le cose potevano peggiorare, anche fino alle estreme conseguenze. Entrò comunque, infilò i penny nella fessura, compose quasi tutto il numero prima di premere il pulsante B per la restituzione delle monete, e uscire. Camminò nel parco, oltre il fosso di cinta, lungo un sentiero che tagliava in mezzo a felci cascanti color ruggine fino alla costa dove lui e i suoi amici un tempo giocavano in tuta da lavoro. E lí, sotto una quercia spoglia, su un piccolo promontorio erboso, che si estendeva alle prime pozze fangose presso la riva, si concesse il lusso di un pianto disperato. Non c’era nessuno intorno, perciò si lasciò andare a sfogare la frustrazione prima in modo esitante e poi a pieni polmoni. Si era rovinato con le sue stesse mani. Poteva starsene zitto su Thelonious Monk. Che bisogno c’era di provocarla? E cosí era crollato un palazzo magnifico, una dimora di sensualità, musica, intimità – tutto ridotto in macerie. Non era piú questione di sesso. Qui c’era tutta la nostalgia di casa per la quale non aveva mai versato una lacrima.


Anche se. Anche se quella settimana riscrisse il compito sul Signore delle Mosche e in capo a un paio di giorni gli tornò indietro da Neil Clayton. A+. Il suo miglior voto di sempre. «D’accordo, ti sei riscattato. Brillante, il riferimento al Disagio della civiltà. Ma, attenzione a non esagerare con Freud. Non è attendibile. Non dimenticare che, al di là del piano allegorico, Golding è stato un maestro di scuola, costretto a vedersela ogni giorno con orridi scolaretti».


Il trio jazz si incontrò per la sua prima session. Bassista e batterista erano individui schivi e solitari, a cui non dispiaceva lasciarsi dirigere da un ragazzetto di due anni piú giovane. I primi esperimenti furono un casino. Il bassista era in grado di leggere solo intavolature, il batterista faceva decisamente troppo chiasso. Roland gli suggerí di passare alle spazzole. E anche lui si rivelò incerto sui semplici tre accordi del blues. Alla fine si dissero l’un l’altro che come inizio non c’era male. Roland giocò una bella partita di tennis al freddo sfidando il suo partner dei doppi estivi e rischiando di vincere. Tornò a frequentare gli amici. Ciondolavano appoggiati ai termosifoni fuori del refettorio – era prassi che ai termosifoni avessero accesso solo gli alunni dal quart’anno in su. Roland fu allegramente preso in giro in quanto sgobbone del pianoforte che si alzava addirittura prima di colazione per esercitarsi. Disse loro la verità. Aveva un’appassionante storia d’amore con una donna piú vecchia di lui. Risata generale. Ma perfino mentre si divertiva con quella verità mascherata da battuta, provò una fitta di intenso dolore. E ancora, quella settimana si piazzò quarto in una verifica di fisica sul coefficiente di frizione e prese un buon voto per una versione in classe senza dizionario di cinque paragrafi tratti dal Notaire du Havre di Georges Duhamel. Tutti i compiti furono consegnati in tempo, quella settimana.


Il sabato, un ragazzo mingherlino e ordinatissimo con il naso puntuto come quello di un topo gli si avvicinò con un pezzo di carta ripiegato. Un allievo di Miriam, pensò Roland. Il messaggio diceva soltanto: domenica, ore 10. Terrore e speranza subentrarono alla disperazione. Quel pomeriggio giocò in trasferta contro il Norwich. Per ottanta minuti, mentre correva avanti e indietro sul campo fradicio dominato dalla cattedrale, non pensò a Miriam. Norwich era famosa per i generosi rinfreschi offerti dopo le partite. Per un’altra ventina di minuti, mentre Roland sedeva con i compagni di squadra e con gli avversari a divorare decine di tramezzini, lei restò fuori dai suoi pensieri. Il viaggio di ritorno in autobus fu eterno. Roland si isolò davanti con aria immusonita, ignorando le solite chiacchiere oscene. Di recente aveva sentito apostrofare qualcuno con l’insulto «nobilastro babbeo dal mento sfuggente». E mentre l’autobus procedeva nel buio verso sud, di ritorno nel Suffolk, Roland scorse la propria immagine riflessa e cominciò a sospettare di non avere poi chissà quale mento neppure lui. Se faceva scorrere il dito dal labbro inferiore al pomo d’Adamo sentiva una linea piatta. Quanta generosità da parte di Miriam, non farglielo mai notare. Tornò ripetutamente a tastarsi e misurarsi col dito. Cercò di intravedere il suo profilo nel vetro tremolante dell’autobus. Impossibile. Le sue prospettive erano scarse. Meglio, forse, starsene alla larga. Non riusciva a immaginare che cosa sarebbe successo quando lei gli avesse aperto la porta. Avrebbero dovuto riprendere il discorso su Thelonious Monk. Era pronto a cedere su tutto. Se Miriam aveva saputo del trio e voleva che lo abbandonasse, l’avrebbe fatto subito.


Verso la fine del viaggio era giunto alla conclusione di volerle fare un regalo, un oggetto simbolico capace di spiegare tutto ciò per cui non riusciva a trovare le parole. Nell’ora di arte aveva modellato un vaso, l’unico di sua creazione che non si fosse sbriciolato nel forno. L’aveva dipinto di verde e decorato a cerchi azzurri. E sotto il convitto c’era un terreno coltivato da un suo amico in gamba, Michael Boddy, che poi realizzava splendidi acquerelli delle sue piante. Di una poteva senz’altro privarsi tranquillamente. Ma un regalo sarebbe bastato a mitigare l’effetto della sua deformità, pensava Roland?


Fu il primo a scendere quando l’autobus si fermò davanti all’edificio centrale. Bastò un minuto con uno specchio a mano che si fece prestare e lo specchio del bagno nel dormitorio a restituirgli il mento perduto. Non gli sarebbe mai piú capitato nella vita di risolvere cosí facilmente un problema personale di analoga impellenza. Dovette ammettere con se stesso che si trovava in condizioni molto particolari.


L’indomani mattina dopo colazione, spinse la bici fino al terreno di Boddy dove scelse la piantina piú insignificante e senza fiori, alta poco piú di una decina di centimetri. Ce n’erano molte altre uguali. Con un paio di pugni di terriccio la invasò facilmente. Per proteggerla nel cestino della bici, la avvolse bene con carta appallottolata. Alla curva a destra dalla statale, subito dopo Chelmondiston e prima di imboccare le strade agricole, si rese conto che se Miriam lo avesse respinto sarebbe stata l’ultima volta che percorreva quel tragitto. Rallentò, cercando di guardare il paesaggio – la distesa piatta dei campi, il filare di pali del telegrafo sullo sfondo di un cielo grigio – come se lo ricordasse, molti anni dopo, ormai vecchio, quando ormai aveva dimenticato quasi tutto.


Fece appena in tempo a prendere la borsa e a lasciar cadere la bici sul prato davanti a casa, che Miriam aveva già aperto la porta. Nella sua espressione non c’era un solo indizio che lo aiutasse a decifrare il suo umore. Prima ancora di salutarla, Roland sollevò il regalo e glielo mise tra le mani. Lei lo fissò per alcuni secondi.


– Ma, Roland. Questo cosa sarebbe?


Era una domanda sincera. – Un regalo.


– C’è dentro la tua testa mozzata? Che devo fare, morire di dolore per te?


Le rivolse uno sguardo vacuo. – No, non credo.


– Non conosci la poesia di Keats? Il vaso di basilico? Isabella?


Scosse il capo.


Miriam lo trascinò in casa. – Sarà meglio che entri e impari qualcosa.


Tutto qui, nient’altro. Ricominciarono e basta. Lo portò in soggiorno dove il camino era acceso e la tavola apparecchiata per la colazione; non era mai troppo sazio per una seconda colazione. Gli spiegò la poesia, gli disse di Frank Bridge che l’aveva musicata. Doveva avere una partitura per pianoforte da qualche parte, un brano interessante al quale potevano dare un’occhiata insieme. Parlando, gli scostava i capelli dagli occhi, come una madre affettuosa. Ma sfiorò anche le labbra e poi scese con la mano fino alla vita e cominciò a giocherellare con la fibbia a forma di serpente della sua cintura elasticizzata, pur senza sganciarla. Mangiarono cereali e uova in camicia e parlarono della rimozione dei missili da Cuba, e degli articoli di giornale che ipotizzavano la costruzione di un tunnel sotto il Canale della Manica che avrebbe collegato il Regno Unito alla Francia. Di sopra, quando furono a letto, gli fece raccontare della sua settimana. Lui le disse del rugby, della sfida a tennis, delle verifiche di fisica e di francese e dei commenti di Mr Clayton al suo tema su Golding. Facendo l’amore Miriam fu talmente tenera e lui cosí sollevato che al momento cruciale non riuscí a trattenere un grido non poi tanto diverso da quelli emessi per disperazione sulla spiaggia.


Dopo, mentre lui l’abbracciava a occhi chiusi, gli disse: – Devo dirti una cosa importante. Mi ascolti?

Annuí.

– Ti amo. Ti amo moltissimo. Tu appartieni a me e a nessun altro. Sei mio ora e per sempre. Lo capisci, Roland?

– Lo capisco.

Una volta tornati al piano di sotto, gli raccontò di essere andata fino ad Aldeburgh per sentire Benjamin Britten che parlava di quartetti d’archi. Roland dichiarò che il nome non gli diceva nulla. Miriam lo tirò a sé, gli diede un bacio sulla punta del naso, e disse: – Mi sa che abbiamo un bel po’ di lavoro da fare con te.

Ecco, cosí sarebbero andate le cose in futuro. Era questo che le remote divinità della guerra, Chruščëv e Kennedy, avevano predisposto per lui. Non avrebbe mai osato compromettere una riconciliazione sollevando la questione irrisolta fra loro. Mentre lei lo abbracciava con tanta dolcezza, sarebbe stato assurdo, e autolesionista. L’avrebbe cacciato di nuovo. E tuttavia, le domande restavano. Perché allontanarlo, perché causare tanta sofferenza inutile e negare a entrambi il piacere reciproco solo per Round Midnight, ma anche per tutta la musica jazz messa insieme? Si sentiva troppo vile per affrontare il discorso, troppo coinvolto. Contava solo il fatto di essere stato perdonato. Miriam lo aveva ripreso e lo amava. Era stata arrabbiata, molto arrabbiata, ma adesso non lo era piú. A lei stava bene cosí, e a lui pure. Roland era troppo giovane per conoscere il concetto di possesso, per capire che il suo interesse per il jazz aveva minacciato di sottrarlo alla sfera di influenza assoluta di Miriam. A quattordici anni, come faceva a sapere che, a soli venticinque, era giovane anche lei? L’intelligenza di Miriam, l’amore e la conoscenza di musica e letteratura, la vivacità e il fascino nascondevano la sua disperazione fintanto che Roland era indiscutibilmente in suo possesso.

Per tutto novembre e gran parte di dicembre lavorò con lei ai concerti e all’ottavo livello di piano – l’esame era tosto e, a detta di tutti, lui era molto giovane per tentarlo e, soprattutto, per passarlo con merito. Ormai suonava la propria parte nei duetti di Schubert e di Mozart con quelle che lei definiva le tre D: destrezza, delicatezza e dinamismo. Il loro concerto nel salone degli eventi a Norwich cadeva a metà dicembre. Il pubblico era numeroso e, agli occhi di Roland, composto perlopiú da persone vecchie e austere. Ma quando i due pianisti si alzarono di fronte ai rispettivi Steinway a coda, l’applauso prima per Mozart e poi per Schubert lo elettrizzò. Miriam lo aveva allenato bene anche nell’inchino. Non avrebbe mai immaginato che un semplice battimani potesse procurargli una simile struggente sensazione di piacere. Due giorni dopo lei gli mostrò una recensione, uscita sul quotidiano locale, l’«Eastern Daily Press».

Un evento eccezionale, oserei dire storico. Miss Cornell ha avuto la generosità e la perspicacia di lasciare al suo allievo il ruolo di protagonista. Gli interpreti precoci non sono una rarità nella musica classica, ma il quattordicenne Roland Baines appartiene alla categoria dei prodigi. Sarei fiero di essere stato il primo ad affermare che lo attende un grande futuro. Insieme alla sua maestra, ci ha strabiliati con l’entusiasmante K 381 di Mozart. La Fantasia di Schubert però è un vero capolavoro oltre che un brano di gran lunga piú arduo. Si tratta di una delle ultime composizioni schubertiane, e una sfida notevole per ogni musicista, e di ogni età. Il giovane Roland ha eseguito la sua parte non solo dimostrando padronanza tecnica, ma con una maturità emotiva pressoché incredibile e con formidabile acume. Prevedo che, da qui a dieci anni, il nome di Roland Baines sarà noto nell’ambiente della classica e non solo. È semplicemente magnifico. Il pubblico l’ha riconosciuto, si è innamorato, gli ha reso onore. Il boato dell’ovazione deve essersi fatto sentire su tutta Market Place.

Al concerto di Natale della scuola cinque giorni dopo Roland ebbe un momento di panico prima di salire sul palco. Gli si era rotta una stanghetta degli occhiali e non riusciva a tenerli sul naso. Miriam non si scompose e glieli aggiustò con il nastro adesivo. Suonarono il pezzo meglio di sempre. Dopo, Mr Clare venne a dirgli di essere stato incantato dalla bellezza della loro esecuzione e di essersi commosso durante l’adagio. Alla fine, quando maestra e allievo si alzarono davanti ai pianoforti verticali e accolsero con un inchino mano nella mano il grande applauso, dalle quinte sbucò il ragazzino con l’aria da topo, che consegnò un’unica rosa rossa a Miriam e una grossa tavoletta di cioccolato al latte a Roland. Ah! Gioventú!

Capitolo quinto

Come erano entrati nella sua vita Berlino e l’illustre Alissa Eberhardt? In condizioni di solido buon umore, a Roland capitava di riflettere su fatti e incidenti di portata personale cosí come globale, eventi irrisori o cruciali, che avevano costruito e determinato la sua esistenza. Non era un caso straordinario, il suo: i destini si somigliano tutti, a livello di composizione. Non c’è niente come una guerra per imporre il corso degli avvenimenti pubblici su quello delle vite private. Se Hitler non avesse invaso la Polonia spostando il previsto periodo di servizio della Scottish Division dall’Egitto alla Francia e a Dunkerque, con le conseguenti gravi ferite alla gamba per il soldato Baines, non sarebbe mai stato dichiarato inidoneo a combattere e neppure spedito ad Aldershot a incontrare Rosalind nel 1945, e Roland non sarebbe mai nato. Se la giovane Jane Farmer avesse fatto ciò che le era stato chiesto e cioè avesse valicato le Alpi per conto di Cyril Connolly nel tentativo di migliorare il regime dietetico della nazione in fase postbellica, Alissa non sarebbe mai nata. Ovvio e portentoso allo stesso tempo. Se all’inizio degli anni Trenta il soldato Baines non avesse cominciato a suonare l’armonica a bocca, forse non sarebbe stato tanto fissato con la storia che suo figlio doveva prendere lezioni di piano per garantirsi un maggiore successo personale. E infine, se Chruščëv non avesse piazzato le testate nucleari a Cuba e Kennedy non avesse ordinato un blocco navale all’isola, quel sabato mattina Roland non sarebbe andato in bicicletta a Erwarton, al cottage di Miriam Cornell; l’unicorno sarebbe rimasto chiuso nel recinto e Roland avrebbe passato gli esami di Stato per l’accesso all’università dove avrebbe studiato lingue e letteratura. E non avrebbe impiegato piú di un decennio per levarsi Miriam Cornell dalla testa e diventare, ormai quasi trentenne, un appassionato autodidatta. Nel 1977 non avrebbe preso lezioni di conversazione al Goethe-Institut di South Kensington da Alissa Eberhardt. E quindi Lawrence non sarebbe mai nato.


Roland arrivò tardi alla prima lezione, quando la conversazione era già iniziata. C’erano altre cinque persone nel gruppo, due donne e tre uomini, disposte a ferro di cavallo su sedie pieghevoli di fronte ad Alissa che accolse Roland con un breve cenno del capo, mentre lui prendeva posto. Il tedesco imparato a scuola gli aveva garantito l’accesso a una classe di primo livello intermedio. L’inglese della docente era perfetto. Quasi privo di accento. Il metodo di insegnamento accurato, fiscale, non troppo impaziente. Si assicurava che tutti prendessero la parola a turno. Era forte e robusta, insolitamente chiara di carnagione e con occhi scurissimi, senza trucco. Aveva l’abitudine curiosa di spostare lo sguardo a destra e in alto ogni volta che raccoglieva le idee. C’era qualcosa di temibile e riottoso nei suoi modi, a giudizio di Roland. Sin dal primo momento, si sentí in competizione con gli altri tre maschi. L’argomento della conversazione erano i bambini in vacanza. Ecco, ora si stava rivolgendo a lui con uno sguardo carico di attesa. Roland non aveva ascoltato attentamente, ma capí che doveva dire qualcosa tipo, tocca a me, giusto?


Disse: – Ich bin dran.


– Sehr gut. Aber, – scorse l’elenco dei nomi, – Roland, con i giocattoli nuovi.


Quella parte gli era sfuggita. Ebbe un attimo di esitazione. Aveva registrato una piccola fitta di piacere sentendole dire «molto bene». Era lí per imparare, ma ci teneva a esibire ciò che già sapeva. Voleva fare una buona impressione, dimostrarsi migliore degli altri, perciò procedette con cautela.


– Ich bin… an die Reihe mit den neue Spielzeug.


Lo corresse con calma, esagerando nello scandire le parole, come se fosse un idiota. Ich bin an der Reihe mit dem neuen Spielzeug.


– Ah. Certo.


– Genau.


– Genau.


Passò ad altro. I giocattoli non erano divertenti, era una giornata di sole, i bambini avevano fame, volevano della frutta. Volevano anche andare a nuotare, specie se pioveva. Quando toccò di nuovo a lui, Roland fece tre errori madornali in una sola frase. Lo corresse bruscamente e l’ora si concluse.


Due settimane dopo, alla fine della terza lezione qualcuno, in un tedesco esitante, le chiese di raccontare qualcosa di sé. Roland ascoltò con interesse. Parlava lentamente per mostrarsi gentile. Scoprirono che aveva ventinove anni e che era nata in Baviera da madre inglese e padre tedesco. Ma era cresciuta al Nord, non lontano da Hannover. Aveva appena concluso un master al King’s College di Londra. Amava camminare, andare al cinema, cucinare – e qualcos’altro che Roland non afferrò. In primavera si sarebbe sposata. Il suo fidanzato era un trombettista. Tutta la classe, a parte Roland, mormorò di approvazione. Poi, una delle allieve chiese alla maestra quale fosse la sua grande ambizione. Avevano appena imparato la parola. Der Ehrgeiz. Miss Eberhardt rispose senza esitare che la sua ambizione era diventare la piú grande romanziera del suo tempo. Accompagnò le sue parole con un sorriso ironico.


Il matrimonio imminente rese le cose piú facili. Roland poté concedersi di subire il suo fascino e basta. Del resto, negli ultimi sei mesi, si era trovato bene con Diana, una studentessa di medicina originaria di Grenada, alle prese con l’anno di tirocinio presso il St Thomas. C’era l’ostacolo delle sue sessanta ore settimanali di turno, se non di piú. Ma era splendida, spiritosa, suonava la chitarra e cantava, intendeva specializzarsi in chirurgia oculistica – e diceva di amarlo. In certi momenti, gli pareva di ricambiare. Ma lei si spinse oltre. Non le sarebbe spiaciuto sposarlo. La pensavano cosí anche i suoi genitori, entrambi insegnanti. Lo accolsero in famiglia e gli promisero di mostrargli un giorno l’isola meravigliosa che si erano lasciati alle spalle. Lo invitavano nella loro casa, nei pressi dell’Oval. Anche i fratelli e le sorelle minori di Diana volevano che si sposassero e non facevano che ripeterlo. Tra sorrisi e cenni di assenso Roland diede inizio alla sua inevitabile ritirata. Ed ecco un’altra batteria di se. Se il colonnello Nasser non avesse nazionalizzato il Canale di Suez, e se la classe dirigente britannica non avesse nutrito tardivi sogni imperialistici e non fosse stata decisa a riprendersi la propria scorciatoia verso l’Estremo Oriente, allora Roland non avrebbe trascorso quella settimana entusiasmante a giocare in un accampamento militare. Sebbene i suoi romantici vagabondaggi si fossero conclusi, l’idea della libertà e di avventure ineguagliabili continuava a fargli rincorrere un presente al quale chiedere quasi ogni soddisfazione. Ormai era un’abitudine mentale. La sua vita vera, quella inesauribile, era altrove. Negli ultimi anni dell’adolescenza e per tutta la giovinezza aveva cacciato Miriam dal ricordo e la sua passione era diventata la musica rock. Per qualche tempo suonò occasionalmente come tastierista con i Peter Mount Posse. Alternava lavori manuali e umili in Inghilterra a viaggi con amici, corredati di avventure lisergiche ad alta quota meticolosamente organizzate in luoghi come le Montagne Rocciose, la Catena delle Cascate, la costa dalmata, il deserto montuoso a sud della provincia di Kandahar, le Alpi. La Sierra de Tramontana, Big Sur. Tempo sprecato per posti bellissimi, sostando piacevolmente appena al di qua dei cancelli del paradiso con il mondo in un incendio di colori, sempre rimpiangendo il tramonto e la telefonata e casa, l’espulsione edenica e la caduta nell’indomani con tutti i suoi soliti guai.


Nonostante quelle generose peregrinazioni su creste e cime spettacolari, Roland non era ancora libero. Naomi, un’amica che lavorava in libreria e lo portò un giorno a sentire Robert Lowell alla Poetry Society, accolse la notizia che Roland intendeva chiudere la loro storia con sconforto prima, e livore poi. Gli parlò chiaro, con durezza. C’era una parte ferita dentro di lui, qualcosa che non andava. – Non sei mai riuscito a dirmi che cos’era, ma almeno questo lo so. Non sarai mai soddisfatto.


Secondo Roland, tutto ciò che faceva nel mondo reale – le varie attività freelance, gli amici, i passatempi, l’autoformazione – erano giusto degli svaghi, momentanei sollievi. Evitava la trappola dell’impiego fisso per rimanere disponibile. Doveva mantenersi nomade, per non cascarci. Il solo traguardo, l’unica felicità e decoroso paradiso erano garantiti dal sesso. Un sogno inguaribile lo adescava da un rapporto all’altro. Se si era avverato una volta, allora poteva, doveva avverarsi ancora. Sapeva che, al meglio di sé, la vita è un’esperienza ricca e plurale, che alle responsabilità non si sfugge, e che è impossibile vivere al solo scopo di permanere nell’estasi. Il fatto di doverlo ricordare a se stesso gli dimostrava il livello del suo smarrimento. Ma conoscere una verità non gli impediva di aspettarsi che potesse essere smentita. Era piú forte di lui. Un basso continuo, ostinato, un bordone di rammarico invincibile. Lo deluse Diana, e cosí pure Naomi, e una serie di altre. La sua angoscia nasceva dalla consapevolezza che lo strano era lui. Se non il folle, non meno pazzo furioso di Robert Lowell la cui poesia arrivò a ossessionarlo. Piú tardi, la paternità, con la sua doppia elica di amore e di fatica, avrebbe dovuto liberarlo definitivamente. E nel mondo reale lo fece in effetti. Per anni, il suo impegno di genitore fu innegabile. Ormai la speranza doveva essere morta. Eppure non riusciva a reprimere quei pensieri fiduciosi. Doveva tornare ad avere ciò che aveva avuto un tempo.


Il mosaico dei ricordi contribuiva a tratteggiare la visione semifantastica che Roland evocava spesso: pedalate a perdifiato sulle piccole strade di un Suffolk invernale, scartando le pozzanghere sugli sterrati, tagliando le curve in derapata, buttando la bici a terra sul prato, prima dei sette passi sul vialetto del giardino, o dei colpi alla porta come avevano convenuto – semiminima, terzina, semiminima, semiminima – perché lei non gli aveva mai voluto dare le chiavi. La sagoma di Miriam che si stagliava netta contro la luce gialla del minuscolo ingresso, il cottage che gli alitava in faccia il suo calore. Era sempre pieno inverno, sempre il fine settimana. Non si abbracciavano. Lei lo precedeva su per le ripide scale e lo trascinava con sé, dentro l’oblio. E poi di nuovo e, dopo cena, ancora.


A scuola andava bene, giocava a rugby, faceva corsa campestre, cazzeggiava con gli amici, imparava un pezzo nuovo. Ma certe occupazioni come memorizzare, ascoltare in classe, scrivere la prima riga di un tema, e soprattutto leggere un libro obbligatorio lo inducevano a fantasticare, a ripensare all’ultima volta, ad anticipare la prossima. Prima di aver finito un capoverso, il turgore dolente di un’erezione gli ottundeva i pensieri. Si imbatteva in una parola sconosciuta in francese o in tedesco, cercava il dizionario. Cinque minuti dopo se lo ritrovava tra le mani, ancora chiuso. A fine scuola non era andato oltre una decina di pagine dei Trois Aveugles o di Aus dem Leben eines Taugenichts – dal confacente titolo Vita di un perdigiorno – o i primi due libri del Paradiso Perduto. Mandare a memoria dieci nuovi vocaboli tedeschi poteva richiedergli tutta una sera. Di solito non gli importava. Gli insegnanti lo misero in guardia. Neil Clayton, il docente di letteratura che era un suo sostenitore, lo mandò a chiamare tre volte in un semestre per ricordargli che era un ragazzo in gamba, che gli esami si avvicinavano e che non sarebbe mai stato promosso al sest’anno senza almeno cinque sufficienze.


Aveva dei rimpianti al tempo, Roland? sarebbe stato meglio non avere mai preso una lezione di piano, non aver mai sentito nominare Erwarton? La domanda non si poneva. Quella era la sua nuova splendida vita. Ne era lusingato, si sentiva l’orgoglioso depositario di un privilegio. Mentre i suoi amici si facevano bastare sogni e battute, lui li lasciava indietro, superava la linea dell’orizzonte, poi l’invisibile soglia successiva, e il successivo orizzonte. Era convinto di aver raggiunto una condizione trascendente che la maggior parte di loro non avrebbe mai conosciuto. La questione della scuola poteva risolverla in seguito. Era convinto di essere innamorato. Portava piccoli regali a Miriam – qualche fiore preso da una composizione in aula magna, il suo cioccolato preferito comprato al chiosco dei dolciumi. Si era risvegliato in lui un istinto rettiliano, ostinato e vorace. Se gli avessero detto che aveva una dipendenza patologica dal sesso, come altri l’avevano dalle droghe, l’avrebbe ammesso allegramente. Se era drogato, doveva essere adulto.


Molti anni dopo, quando finalmente fu in grado di parlare della propria adolescenza e prima giovinezza, gli capitò una volta di essere in trekking lungo un remoto fiordo norvegese con Joe Coppinger che lavorava per una associazione ambientalista impegnata nel controllo delle acque pulite. Procedevano fianco a fianco su una dorsale scoscesa, ciascuno con un bicchiere di vino in mano, una gradevolissima abitudine inaugurata molto tempo prima.


– Se fossi venuto a chiederti consiglio, quando ti occupavi ancora dei casi clinici, che cosa avresti detto?


– Qualcosa tipo: vorresti fare l’amore giorno e notte? Beh, lo vorremmo tutti. Ma non si può. È il prezzo da pagare per avere ordine nelle strade. Freud lo sapeva. Perciò, vedi di crescere.


Giustissimo, ed erano scoppiati a ridere insieme. Ma il Roland adolescente aveva già letto Il disagio della civiltà. E non ne aveva tratto alcun beneficio.


I danni che il passato poteva avergli procurato si manifestavano in maniera indiretta. Non era il tipo che segue le donne per la strada o che le molesta con proposte oscene o palpeggiamenti in metropolitana – comportamenti di una scandalosa frequenza negli anni Settanta. Non si mostrava aggressivo alle feste. Cosa insolita per l’epoca, era serialmente monogamo in tutte le sue relazioni. Il suo era un sogno fatto di insensata fedeltà, devozione reciproca assoluta e impegno al raggiungimento comune dell’estasi sessuale e sentimentale. Lo scenario delle sue fantasie, il suo panorama onirico, aveva un che di trito, di stereotipato: una camera d’albergo a Parigi, a Roma, a Madrid. Mai e poi mai un cottage nel Suffolk alla foce del fiume e nel cuore dell’inverno. Era sempre piena estate, con il ronzio quieto del traffico proveniente da fuori, oltre gli scuri accostati, strisce di violenta luce bianca sulle piastrelle del pavimento. E, sempre a terra, lenzuola e coperte. I postumi di una sudata; una doccia fresca, richiesta al servizio in camera di acqua fredda, vino e qualcosa da mangiare. Negli interludi, passeggiate sul lungofiume, un ristorante mentre qualcuno cambiava le lenzuola, riordinava la stanza, sistemava i fiori freschi, la macchina del caffè. Poi di nuovo. E chi avrebbe pagato tutto questo? Un lavoro non era previsto? Irrilevante. Il classico sogno a occhi aperti di un weekend lungo. Il lato meraviglioso o imbecille della faccenda era che Roland voleva durasse per sempre. Nessuna via di fuga, nessun desiderio di trovarne una. Murati vivi, travolti, confusi l’uno nell’altra, intrappolati nella beatitudine. Instancabili abitatori di una perenne vita monastica nella quale è per sempre agosto nella città semideserta e tutto ciò che si possiede è questo: la presenza dell’altro.


I primi giorni di ogni sua storia amorosa evocavano il fantasma di una vita cosí. Il portone del monastero si schiudeva di qualche centimetro. Presto tuttavia il suo atteggiamento, le sue voglie cominciavano a farsi noiose. Lei poteva averla già vista in altri, la consueta insistenza nel pretendere di trascorrere insieme piú tempo di quanto le andasse a genio. A lui non passava la smania e, alla fine, le cose potevano prendere solo una piega o l’altra. Se non tutt’e due contemporaneamente. Lei si ritirava, sorpresa, irritata, soffocata forse, oppure lui passava oltre, vittima ancora una volta della delusione e di una crescente vergogna che si sforzava di nascondere.


Il corso di Alissa Eberhardt al Goethe-Institut durò dodici settimane. Quando finí, Roland avrebbe voluto iscriversi di nuovo ma lei se n’era andata. Dovevano passare quattro anni prima che la rivedesse.


Si iscrisse anche ad alcuni corsi del City Lit su incoraggiamento di Daphne la quale pensava che Roland dovesse intraprendere un piano di studi quinquennale. Lo aiutò a elaborarlo. Letteratura inglese, filosofia, storia contemporanea e lingua francese. Quando iniziò a frequentare il Goethe-Institut, ormai da sei mesi suonava il piano nel centro di Londra; «musica per tutti i palati», l’aveva definita il vicedirettore, vecchie glorie del passato eseguite con discrezione per non disturbare le quiete chiacchiere su una tazza di Earl Grey e qualche tramezzino morbido. L’orario era buono – gli lasciava un mucchio di tempo per le sue letture. Due turni da novanta minuti, nel tardo pomeriggio e in prima serata, sette giorni a settimana. Guadagnava abbastanza. A metà degli anni Settanta, nonostante il fermento politico o forse a causa del medesimo, si poteva vivere con poco a Londra. E se suonava Misty con sufficiente languore, capitava che qualcuno si avvicinasse al pianoforte per lasciargli una sterlina di mancia. Una signora americana, facendolo, gli disse che somigliava a Clint Eastwood.


Aveva già fatto il fotografo. Presto avrebbe lasciato l’hotel per diventare, secondo i suoi piani, allenatore capo di tennis per una catena di coraggiose scuole aconfessionali. Il viaggio in Irlanda del Nord non portò a nulla, come pure altri progetti nell’area di Londra. Finí per fare l’istruttore sui campi pubblici del Regent’s Park. I suoi allievi erano perlopiú principianti adulti. Una vasta minoranza dei quali trovava esasperante cercare di congiungere la racchetta alla palla. Spedirla un paio di volte al di là della rete rappresentava un risultato. Alcuni avevano superato gli ottanta ed erano decisi a imparare qualcosa di nuovo. Venti ore di lezione in campo la settimana. Una faticaccia, essere gentile e incoraggiante per tutto il giorno.


Mollò dopo due anni. Aveva letto e schedato 338 libri, stando al suo taccuino. Molti di piú di quelli che avrebbe finito se fosse andato all’università. Da Platone a Max Weber passando per David Hume, come disse a Daphne all’inizio del percorso. Lei gli aveva cucinato una cena per festeggiare il suo «stupendo» articolo su John Locke. Una serata memorabile. Peter era a una riunione scolastica dalla quale tornò ubriaco e accusò Roland di volergli portare via Daphne. Non del tutto fuori strada.


Ora, Roland aveva altri modi per riassumere il proprio modo di procedere. Da Robert Herrick a Elizabeth Bishop passando per George Crabbe. Dall’ascesa di Sun Yat-sen al blocco di Berlino. Era venuto il momento di ritirare la tuta e le scarpe da ginnastica. Riusciva a leggere lo stesso libro per novanta minuti senza perdersi in fantasticherie. Maturità. Era un individuo plausibile, il travestimento reggeva. Il tempo aveva fatto il suo lavoro. Roland era pronto a trasformarsi in un intellettuale o, quanto meno, in un giornalista. Ma non era facile. Nessuno l’aveva mai sentito nominare; non gli avrebbero mai dato un incarico. Alla fine, tramite il figlio di un allievo di tennis, gli chiesero di recensire uno spettacolo sperimentale – pieno di sangue, nudi e urla – per il settimanale sugli eventi londinesi «Time Out». Un trafiletto sull’anteprima, 120 parole di elogi asciutti e disonesti che gli guadagnarono altre commesse. Ma in capo a due mesi si era stancato degli autobus notturni semivuoti che lo riportavano a casa da Morden e da Ponders End. Compose il breve profilo della leader dell’opposizione per un periodico di estrema sinistra. Ricevette dall’ufficio della donna una garbata lettera firmata di suo pugno con la quale si rifiutava di rilasciare un’intervista. Il pezzo di Roland mostrava scetticismo ma si concludeva con l’osservazione che, se Margaret Thatcher fosse diventata capo del governo, eventualità che si cominciava a prendere come inevitabile, non era escluso che potesse promuovere l’emancipazione della donna. Beh, se non altro era riuscito a fare rumore. Le lettere furibonde sull’edizione successiva occupavano un intero paginone. Sarà pure una donna, si diceva, ma non è una di noi.


Roland era iscritto al Partito laburista dal 1970. Poco per volta, incidente dopo incidente, essere tesserato divenne sempre piú scomodo. Nel giugno di quell’anno, il 1979, cominciò a frequentare Mireille Lavaud, una giornalista francese residente a Camden. Suo padre era un diplomatico da poco inviato a Berlino. Mireille desiderava andare a trovare lui, la matrigna e la giovane sorellastra nel loro nuovo appartamento e propose a Roland di accompagnarla. Lui esitò. Non c’era ancora traccia delle consuete incrinature, ma si conoscevano soltanto da due mesi. Lei trovò la sua riluttanza divertente.


– Non è che ti stia presentando ai miei, se è questo che temi. Non staremmo da loro, l’appartamento è troppo piccolo. Un p’tit dîner, c’est tout! Ho amici a Berlino Est. Dici sempre di voler migliorare il tuo tedesco. Oui ou non?


– Ja.


Affittarono le biciclette e per due giorni costeggiarono l’intera lunghezza del Muro, e poi le recinzioni del perimetro che isolava Berlino Ovest dal resto della Germania Est. Ai giovani tedeschi dell’Ovest che risiedevano a Berlino era concessa l’esenzione dal servizio di leva. Gli anticonformisti – aspiranti poeti, pittori, romanzieri, cineasti, musicisti e rappresentanti della controcultura in genere – vi si raccolsero in massa. La città sembrava vuota, sperduta. Lontano dal centro si trovavano appartamenti dai soffitti vertiginosi affittati a poco o niente. I peraltro disprezzati americani difendevano la sicurezza e la libertà del settore occidentale dalle mire espansionistiche dell’Unione Sovietica. Il Muro, fonte di imbarazzo per tanti artisti con simpatie di sinistra, era meglio ignorarlo. Vent’anni lo avevano trasformato in un trascurabile dato di fatto. Mireille, che aveva studiato per un anno postlaurea alla Università libera, aveva ancora molti amici in città. Portò Roland in giro. Le serate in francese, inglese e tedesco erano interessanti e litigiose, ricche di concerti improvvisati in vari salotti, e perfino di qualche reading poetico.


Un pomeriggio uscirono a piedi dall’albergo sulla Friedrichstraße per mettersi in coda al Checkpoint Charlie. Mireille aveva un permesso speciale come parente di un diplomatico, ma non fece alcuna differenza. Ci volle un’ora e mezza per transitare. Quando mostrò il sacchetto di caffè che portava di là, la guardia si limitò a scrollare le spalle. Fecero un giro in taxi per strade silenziose e fatiscenti fino a un complesso di palazzoni a otto piani nel distretto di Pankow. Gli amici di Mireille, Florian e Ruth Heise, stavano al settimo piano. Il piccolo alloggio era pieno di persone che li aspettavano sedute a due tavoli di formica uno accostato all’altro. Grida di benvenuto accolsero l’arrivo degli occidentali. L’aria era grigia di fumo. Cinque o sei bambini scorrazzavano da una stanza all’altra. Si alzarono in parecchi per offrire una sedia agli ospiti. Florian andò alla finestra per guardare in strada e accertarsi che non fossero stati seguiti. Altre grida di giubilo si levarono quando Mireille estrasse il sacchetto del suo caffè colombiano. Ruth procedette alle presentazioni facendo il giro del tavolo. Stefanie, Heinrich, Christine, Philipp… il tedesco di Roland era piú scarso del suo francese. Sarebbe stata dura. Fu un sollievo fare la conoscenza di Dave, originario di Dundee.


La conversazione era ripartita. Avevano chiesto a Dave di sintetizzare lo stato delle cose nel suo paese. Philipp forniva la traduzione consecutiva.


– Come dicevo. In Gran Bretagna abbiamo raggiunto il punto di rottura. Disoccupazione di massa, inflazione, razzismo, un governo apertamente antisocialista appena insediato…


Qualcuno disse: – Gut Idee –. Ci fu una risata sommessa.


Dave proseguí. – La gente nel Regno Unito si sta organizzando. C’è fermento. Guardano a voi.


Florian disse in inglese: – Non a me. Grazie tante.


– Dico sul serio. Lo so che avete i vostri guai anche voi. Ma è un fatto: questo è l’unico Stato socialista davvero possibile al mondo.


Silenzio.


Dave aggiunse: – Rifletteteci. La vita quotidiana può impedirvi di riconoscere i vostri autentici risultati.


I berlinesi dell’Est, tutti sotto i quaranta, erano troppo educati per dire quel che pensavano. Piú tardi, Roland scoprí che tre mesi prima una vicina dello stesso palazzo era stata ferita a una gamba nel corso di un maldestro tentativo di fuga. Attualmente era ricoverata all’ospedale del carcere.


Fu Ruth, la padrona di casa, a toglierli dall’imbarazzo. Parlava inglese con un forte accento. – Lo dicono tutti, se vuoi vedere qualcuno che prova a realizzare l’unico Stato socialista possibile, chiedi ai tedeschi –. Philipp tradusse.


Qualcuno sospirò. La battuta si era logorata da un pezzo. Ma serví a distogliere l’attenzione dall’invito di Dave a riflettere. O no? Non è escluso che il gesto di tirar fuori due volantini ciclostilati fosse da interpretare come un rimprovero. Quei fogli erano entrati illegalmente, e contenevano la traduzione tedesca di una poesia di Edvard Kocbek, scrittore sloveno perseguitato dalle autorità comuniste. La prima parte faceva riferimento all’allunaggio, la seconda evocava il ricordo di Jan Palach, lo studente che nel 1969 si era dato fuoco sulla piazza Venceslao di Praga per protestare contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Un razzo in fiamme di nome Palach | Ha misurato la storia | Dal principio alla fine. | Anche gli occhiali neri hanno letto | Il suo messaggio di fumo. Mentre quelle parole venivano pronunciate e tradotte, Roland osservava Dave. Ecco la faccia onesta ed energica di una persona perbene. Alla fine disse sommessamente: – Occhiali neri?


Imbarazzato per lui, Roland intervenne rapidamente: – Quelli degli agenti di sicurezza.


– Capito.


Roland non ne era sicuro e lo evitò per il resto della serata.


Il momento cruciale arrivò mentre Mireille era tutta presa da un discorso con Ruth, e Florian portò Roland in camera. I bambini avevano costruito una tenda con le coperte. Dopo averli spediti fuori, Florian estrasse da sotto il letto una valigia frusta che aprí per mostrargli orgogliosamente la sua collezione di dischi. Dylan, i Velvet Underground, gli Stones, i Grateful Dead, i Jefferson Airplane. Roland li passò in rassegna. Avrebbero quasi potuto essere i suoi. Domandò che cosa sarebbe successo se le autorità li avessero trovati.


– Non molto, in principio. Li sequestrerebbero, probabilmente, per venderli. Ma potrebbe finire sul mio fascicolo. Crescerebbe l’interesse nei miei riguardi. La cosa potrebbe essere usata contro di me in seguito. Comunque li ascoltiamo a volume basso –. E aggiunse in tono dolente: – È sempre un cristiano rinato?


– Chi, Dylan? Ancora non l’ha superata.


Florian stava adesso in ginocchio, per ritirare la valigetta.


– In un’altra scatola ce li ho tutti tranne l’ultimo. Con Mark Knopfler.


– Slow Train Coming.


– Quello. E anche tutti i Velvet Underground tranne il terzo.


Mentre Florian si alzava, spolverandosi le mani, Roland senza pensarci disse: – Fammi una lista.


Il giovane tedesco lo fissò: – Pensi di tornare?


– Credo di sí.


Due mesi piú tardi, dopo un caffè all’Adler, si ritrovò in coda al Checkpoint Charlie, in attesa di entrare a Berlino Est. Nel borsone aveva due LP pronti per il controllo: Slow Train Coming e il terzo album dei Velvet Underground, ma travestiti. Le copertine erano autentiche e di seconda mano – Baršaj che dirige Šostakovič – ma le etichette sui dischi nuovi non era stato possibile staccarle nemmeno con il vapore. Roland aveva deciso di contraffarle affinché sembrassero piú vecchie. Nel borsone aveva anche un’edizione tascabile della Fattoria degli animali in inglese, con copertina falsa: Tempi difficili di Dickens. Tanta prudenza non sarebbe stata necessaria. Aveva chiesto in giro. Ben due giornalisti, entrambi al corrente di come andavano le cose a Berlino, gli avevano assicurato che non era difficile far entrare romanzi e dischi. Alla peggio, potevano essere confiscati, o potevano mandare lui indietro dicendogli di tornare pulito. Meglio però, gli era stato detto, non portare libri in tedesco. Le sue copertine false erano inutili.


Si sarebbe dovuto rilassare, mentre la coda avanzava con esasperante lentezza. E invece aveva occhi e cuore che gli pulsavano all’unisono. La sera prima di partire da Londra Mireille era venuta a trovarlo e avevano litigato. Ora cominciava a pensare che forse aveva ragione lei. Aveva solo quattro persone davanti ormai. Ma non intendeva lasciare la coda.


Roland aveva cucinato la cena per due. Prima di sedersi a tavola le aveva mostrato la sua merce di contrabbando.


– Orwell? Ma sei matto! Se ti fanno passare sarà solo per pedinarti dopo.


– Sono a piedi. Starò in guardia.


– L’indirizzo ce l’hai?


– L’ho memorizzato.


Mireille estrasse un disco. Non si lasciò impressionare dalla polvere di cui Roland aveva cosparso il vinile.


– Sette tracce su ogni lato. Pensi che funzioni cosí per una sinfonia di Šostakovič?


– Basta cosí. Mangiamo.


– Che cosa pensi di raccontare. Che la Ddr deve conoscere Šostakovič?


– Mireille, ho parlato con gente che ha attraversato decine di volte portando libri.


– Ci ho vissuto anch’io. Possono trattenerti.


– Non mi interessa.


Lui era irritato, ma lei dominava la scena dall’alto della sua furia gallica. Se solo il suo inglese non fosse stato cosí preciso. Risentiva la sua voce adesso, mentre stava per avanzare e presentarsi all’agente di frontiera.


– Metti a rischio i miei amici.


– Stupidaggini.


– Potrebbero perdere il lavoro.


– Siediti. C’è lo spezzatino.


– Solo per sentirti un eroe. Per poter dire al mondo che hai fatto qualcosa anche tu –. Si era alzata decisa a lasciare la stanza e la casa, furibonda, bellissima. – Quelle connerie!


La guardia prese il passaporto aperto. Poteva avere l’età di Roland, la stessa di Florian e Ruth, una trentina d’anni, piú o meno. La divisa attillata sembrava di cattiva qualità, una messinscena, come i suoi modi severi, in ossequio al regolamento. Sembrava il corista di un’opera a budget ridotto, in costumi moderni. Roland attese, e intanto lo osservava. Faccia pallida, affusolata, un neo sullo zigomo, labbra sottili, delicate. Roland meditava sull’abisso, sul muro tra lui e quest’uomo che, in circostanze diverse, avrebbe potuto essere un partner a tennis, un vicino di casa, un lontano cugino. Ciò che li separava era un’immensa rete invisibile – di cui perlopiú si era dimenticata l’origine – fatta di invenzioni e credenze, sconfitte militari, occupazioni e casualità storica. Il passaporto tornò indietro. Seguito da un cenno in direzione della borsa. Roland l’aprí. Ora che stava succedendo non provava quasi nulla. Le possibilità parevano irrilevanti. Un periodo di detenzione e relativa privazione del sonno presso Hohenschönhausen, il penitenziario della Stasi. Correva voce che vi praticassero la tortura della goccia cinese. Si sapeva dell’esistenza di una cella circolare foderata di gomma nera e mantenuta in totale oscurità per disorientare i detenuti. Non me ne importa. La guardia sollevò i due dischi, li rimise a posto, prese in mano Tempi difficili e delle confezioni di calzini, li mise giú, tirò fuori una bottiglia di Valpolicella e la risistemò con delicatezza. Poi gli fece segno di passare. Mentre richiudeva la borsa, Roland resistette per ragioni di principio all’impulso di ringraziarlo. Se ne pentí, quando ormai era tardi.


Dunque, se aveva ragione Mireille, ora lo stavano seguendo. Non ci credeva, ma non riusciva a levarselo dalla testa. La voce di lei lo pedinava lungo tranquille strade laterali, in un andirivieni goffo e melodrammatico. Se a un certo punto credette di essersi confuso e di non sapere piú dov’era, gli bastò lo scorcio del Muro sbiadito e anonimo alla sua sinistra. Alla fine, emerse sulla Unter den Linden e trovò un taxi per farsi portare a Pankow.


Il fatto che Florian e Ruth non lo aspettassero rese il suo arrivo ancora piú festoso. Si presentarono i vicini, portando cibo per una cena improvvisata. Bevvero il vino che aveva portato lui, e molto altro, ascoltarono l’album dei Velvet Underground infinite volte a un volume temerario. – Com’è diverso, questo, – ripeteva Florian. – Cosí intimo! – A fine serata la compagnia volle sentire piú e piú volte Moe Tucker cantare After Hours. – È stupendo quanto è stonata, – disse qualcuno. E quando furono tutti sbronzi, si unirono in coro a Pale Blue Eyes: If I could make the world as pure… Ormai avevano imparato le parole. Cingendosi le spalle, si alzavano energicamente per il ritornello: Linger on… your pale blue eyes, trasformandolo in un’ode alla gioia.


In tutto Roland fece nove viaggi in quindici mesi tra l’80 e l’81. Mireille aveva torto, non fu mai un pericolo. Le sue missioni non avevano certo la serietà e lo slancio della rete fondata dalla Jan Hus Educational Foundation, che operava in Cecoslovacchia. Lui si limitava a fare acquisti per i suoi nuovi amici. Al secondo viaggio, sentendosi ringalluzzito, portò le copertine degli album con dentro le sinfonie di Šostakovič. Florian ci teneva a ricongiungere i suoi nuovi Dylan e Velvet Underground con le cover autentiche. Dopo quella volta, si trattò sempre e solo di libri: la solita lista. Nessuna traduzione in tedesco. Buio a mezzogiorno, La mente prigioniera, I bastardi e, ripetutamente, 1984. Spesso si fermava qualche giorno e dormiva sul divano di plastica nera. Fece amicizia con le bambine, la piccola Hanna, di cinque anni, e sua sorella Charlotte, di sette. Si divertivano da matti a correggere il suo tedesco. Erano bambine allegre e fiduciose. Adorava quando gli mettevano la mano a coppa sull’orecchio per bisbigliargli fortissimo ein erstaunliches Geheimnis, un segreto speciale. Si sedevano tutti e tre in fila sul divano per impartirsi a vicenda lezioni di lingua. Roland portava da Londra avvincenti libri illustrati che non avevano nessun intento didascalico.


La madre insegnava matematica in un Gymnasium. Florian era un modesto burocrate presso un dipartimento statale per la pianificazione agricola. Gli era preclusa ogni possibilità di carriera in conseguenza della sua partecipazione a un chiassoso spettacolo di teatro dell’assurdo al tempo in cui frequentava il secondo anno di medicina. Di pomeriggio la oma Marie andava a prendere le bambine a scuola e si occupava di loro fino all’arrivo di uno dei genitori. Qualche volta, se Marie aveva un appuntamento in ospedale, andava Roland a prenderle e giocava con loro in casa. Altrimenti vagava per la città, visitava musei, faceva la spesa per la cena, oppure restava da solo nell’appartamento a leggere o rileggere i libri che aveva portato. Seppe da Ruth che una loro conoscente prestava un servizio illegale per la comunità realizzando veloci traduzioni in tedesco da distribuire clandestinamente. Scriveva a mano. Poi qualcuno copiava a macchina. C’era una macchina da scrivere tenuta in un luogo segreto lontano dall’appartamento. Una volta Florian mostrò a Roland una copia carbone tutta sbavata della Farm der Tiere di Orwell, prima di farla circolare.


Quello era il mondo alternativo di Roland, distante dalla sua esistenza londinese come un pianeta remoto. Trovava le vite di Florian e Ruth pressoché indescrivibili. Economicamente strozzate, generalmente piene di limitazioni, guardinghe se non impaurite, ma ricche di calore domestico e determinate nella cura dell’amicizia e della lealtà. Quando hai dei figli, gli disse Ruth un giorno, sei incatenato al sistema. Un passo falso da parte dei genitori, un attimo di ribellione incontrollata e i figli si possono ritrovare con la via agli studi universitari o a una carriera dignitosa sbarrata. Una loro amica, madre single, aveva richiesto numerose volte un visto di uscita dal paese, benché tutti gliel’avessero sconsigliato. Il risultato fu che il governo minacciò di portarle via il figlio tredicenne, un ragazzino timidissimo, e di affidarlo ai servizi sociali. Le istituzioni statali avevano fama di essere luoghi violenti, ragione per cui la madre smise di richiedere il visto. E ragione per cui Ruth e Florian vivevano «secondo le regole». Sí, c’erano la musica e i libri, ma si trattava di rischi necessari e tollerabili. Ruth gli disse che faceva in modo di tenere corti i capelli del marito, malgrado le sue proteste. Un aspetto da hippy – quello che in termini ufficiali veniva definito una «devianza dalla norma» – poteva attirare l’attenzione. Se il rapporto di un informatore avesse lasciato intendere che Florian «conduceva una vita da asociale», o che frequentava «compagnie riprovevoli», o che era soggetto a un eccessivo «egocentrismo», sarebbero cominciati i guai. Ne aveva già avuti abbastanza. Ci aveva messo parecchio tempo ad accettare il fatto che non sarebbe mai diventato un medico.


Le serate con la cerchia di amici di Mireille nella Berlino Ovest finirono per sembrargli insulse. In quell’ambiente a nessuno si chiedeva mai di descrivere le «condizioni» del paese d’origine. Non sarebbe stato elegante. Gli anticonformisti di Berlino Ovest si dichiaravano oppressi dal sistema, ma era pur sempre un sistema che permetteva loro di pensare, dire e scrivere quel che volevano, di ascoltare la musica che preferivano e di comporre poesie in qualunque forma. Tolleranza repressiva, cosí la definivano. Ma alle riunioni di Ruth e Florian, al settimo piano di un misero condominio, il sistema diventava un nemico attivo. Misurarne le condizioni, discutere come sopravvivere al suo interno senza ammattire o essere schiacciati era all’ordine del giorno di ogni conversazione, un tema urgente, significativo, reale. Spassoso, anche. Le doppiezze e le mostruose invadenze da parte dello Stato dovevano essere commentate con l’umorismo piú nero. Che in altri paesi del Patto di Varsavia la gente se la passasse ancora peggio era una spiritosa consolazione.


Ogni ritorno a Londra da Berlino portava con sé penosi scontri. Roland litigava ormai con troppi suoi amici e con l’ala sinistra del Partito laburista. I rapporti si erano fatti difficili. Roland era un membro rispettabile del partito, aveva volantinato e promosso Harold Wilson porta a porta nel ’70 e nel ’74 e si era fatto perfino prestare un’auto per accompagnare un anziano disabile al seggio a votare Callaghan nella primavera del ’79. Ora, di ritorno da Berlino, continuava a frequentare le riunioni di partito nelle sedi locali. Nel corso del dibattito generale Roland parlò dei madornali abusi nella Ddr e riferí quanto aveva saputo sulle violazioni dei fondamentali diritti umani perpetrate in tutto l’impero sovietico. Ricordò al pubblico in sala il «trattamento» psichiatrico cui venivano sottoposti i dissidenti russi. Lo fischiarono e lo zittirono. Qualcuno urlò: «E del Vietnam, che ne dici?» Ci furono molte serate all’insegna della rabbia. Una coppia che conosceva da anni venne da lui a cena. Al tempo abitava a Brixton. I due erano rimasti iscritti al Partito comunista britannico per una questione di consolidata lealtà. Dopo due ore di discussione a proposito dell’invasione della Cecoslovacchia (con loro due che continuavano a sostenere che l’esercito sovietico era entrato nel paese per «volere» della classe operaia cecoslovacca), Roland li invitò stancamente ad andarsene. Li mise alla porta, in effetti. Lasciarono una bottiglia intonsa di vino ungherese, Sangue di Toro, che Roland non ebbe la forza di stappare.


Anche amici non iscritti ad alcun partito non gli mostravano alcuna solidarietà. Ma in che modo le atrocità del Vietnam potevano far apparire il comunismo sovietico piú accettabile? continuava a domandare. La risposta era chiara. Nel bipolarismo della Guerra fredda, al comunismo spettava il ruolo del male minore. Attaccarlo significava stare dalla parte del bieco capitalismo e dell’imperialismo americano. Insistere sulle violenze a Budapest e a Varsavia, ricordare i processi farsa di Mosca o la carestia imposta all’Ucraina voleva dire allinearsi con i nemici politici, con la Cia e, in ultima analisi, con il fascismo.


– Stai scivolando a destra, – gli disse un amico. – Deve essere l’età.


Per qualche tempo Roland si rifugiò in un piccolo gruppo di intellettuali borghesi che, all’interno del partito, sostenevano il diritto all’opposizione democratica nei paesi dell’Europa orientale. Scrisse due articoli per la loro rivista, il «Labour Focus», frequentò le conferenze dello storico E. P. Thompson e si uní alla battaglia dello European Nuclear Disarmament. Il movimento avversava le presunte intenzioni delle due superpotenze di collocare limitate basi nucleari a est e a ovest sul territorio europeo. L’Europa sarebbe diventata il campo di battaglia di una guerra nucleare per procura.


Un pomeriggio Roland ricevette una telefonata da Mireille e ogni cosa cambiò. A quel punto non erano piú amanti ma avevano conservato un rapporto di stretta amicizia. La voce di lei era spenta. L’aveva chiamata suo padre da Berlino per informarla. Sei settimane prima, la Stasi si era presentata in ufficio da Florian e l’aveva arrestato mentre lavorava alla sua scrivania. Un collega del ministero dell’Agricoltura aveva sporto denuncia per un commento che Florian aveva fatto. Quattro giorni dopo erano andati a prendere Ruth. Sotto lo sguardo atterrito delle bambine, gli agenti della Stasi avevano perquisito e devastato l’appartamento. Non trovarono nulla di significativo, ma si portarono via la collezione di dischi. Hanna e Charlotte furono affidate alle cure della nonna, Marie, che cercò invano di scoprire dove avessero portato Florian e Ruth. Non osava indagare con troppa insistenza. Ora però – qui a Mireille mancò la voce e Roland fu costretto ad attendere – era possibile che le bambine fossero state trasferite presso l’Istituto per la salute dell’infanzia di Ludwigsfelde. Il tribunale poteva aver decretato che i genitori non erano «in grado di crescere le bambine come cittadine responsabili». Hanna e Charlotte dovevano essere affidate ai servizi. Come se non bastasse, era possibile che fossero state separate e mandate in istituti diversi. Monsieur Lavaud si era dichiarato un po’ scettico e si riprometteva di indagare.


Roland si organizzò per raggiungere Berlino l’indomani. L’alternativa sarebbe stata un’angoscia insostenibile a casa. Nel viaggio verso Heathrow fece sosta alla sua banca per concordare un leggero aumento sul suo limite di scoperto. A Berlino prese un autobus e attraversò al Checkpoint Charlie. Questa volta, la guardia che gli controllò il contenuto del borsone era l’aguzzino dei suoi amici. Roland lo detestava. Quando suonò il solito campanello dell’appartamento di Pankow venne alla porta una giovane donna dal trucco pesante, con un neonato in braccio. Si mostrò cordiale ma disse di non conoscere nessuno di nome Heise. Alle sue spalle, Roland riuscí a vedere i mobili di Ruth e Florian. Le loro vite erano state annientate, le loro cose assegnate ad altri.


Ci volevano dieci minuti a piedi per raggiungere casa di Marie, in un condominio a sei piani costruito prima della guerra. Non venne nessuno ad aprire. Scendendo le scale, Roland incrociò una vicina che saliva. Gli disse che Marie era in ospedale, ma non seppe dirgli quale.


Lui non voleva allontanarsi dal quartiere, rinunciare alla famiglia. Ma non aveva scelta. Quel silenzio soffocante e il buio tipici di Berlino Est stavano calando sui condomini che lo circondavano. Prese un autobus diretto in centro e d’impulso scese a Prenzlauer Berg. Si sentiva accaldato, madido di sudore intorno al collo e indifferente a quello che poteva capitargli, quindi percorse a piedi i venti minuti fino alla Normannenstraße, e al ministero della Sicurezza di Stato. Non avrebbe dovuto sorprendersi quando gli agenti armati di guardia gli impedirono di entrare.


Tornato a Ovest mangiò qualcosa in strada – salsiccia, patate e cetrioli serviti su un vassoio di cartone. Inutile chiamare Monsieur Lavaud per saperne di piú. Mireille gli aveva detto che il padre era a Parigi quella settimana. Con qualche titubanza, Roland prese la camera piú economica nel suo solito albergo sulla Friedrichstraße. Uno sgabuzzino con soffitto alto e finestra a oblò. Quella notte non dormí piú di un’ora. Singhiozzò al pensiero delle dolci e fantasiose Hanna e Charlotte, cosí vulnerabili, sconvolte e sole, strappate al loro piccolo mondo amorevole e abbandonate nelle mani di un regime incomprensibile. Singhiozzò al pensiero dei loro genitori in celle separate, tormentati dalla disperazione e dall’ansia per le loro bambine e l’uno per l’altra. Si odiava. I libri e i dischi che aveva portato loro avrebbero contribuito a condannarli. Colpa del suo narcisistico esercizio di buone intenzioni. Mireille aveva ragione. Avrebbe dovuto starla a sentire. Anziché cercare di sfuggire ai suoi demoni privati. Anche quella di oggi era stata una missione futile, una mera distrazione. Cosa si aspettava, che Erik Mielke, il temuto ministro per la Sicurezza di Stato, lo accogliesse nel suo ufficio per poi fare una telefonata in carcere e una in orfanotrofio e ricongiungere la famiglia a beneficio di tale Herr Baines, un indignato illustre sconosciuto dell’Ovest alle prese con la propria personale vergogna?


Ma il mattino dopo, tornò comunque in Normannenstraße. Questa volta altri agenti di guardia lo cacciarono fornendogli una rapida spiegazione. Non aveva una lettera, né un appuntamento e non era cittadino tedesco. Roland svoltò un angolo della piazza per levarsi dalla vista. Aveva bisogno di riflettere. Inizialmente si era dato un ultimo obiettivo inutile: raggiungere l’Istituto per la salute dell’infanzia a Ludwigsfwelde. Ma quella mattina in albergo aveva scoperto che non si trattava di un quartiere di Berlino come aveva pensato, bensí di una cittadina parecchie miglia piú a sud. Per andarci era necessario un visto. Le sue opzioni finivano lí. Tornò a piedi verso il Checkpoint Charlie, mangiò un panino al Café Adler e prese un autobus per l’aeroporto.


Tornato a casa si mise a scrivere lettere. Doveva tenersi a galla. Non sapeva piú come si facesse a dormire. La mattina si rizzava a sedere sul bordo del letto, confuso, mezzo svestito, senza pensare a niente. O almeno provando a non farlo. Mireille, non la vedeva. Era certo che desse la colpa a lui, pur non avendogli mosso nessuna accusa. Roland scrisse lettere sulla famiglia Heise ad Amnesty International, al ministro degli Esteri, all’ambasciatore britannico a Berlino, alla Croce Rossa internazionale. Ne scrisse una personale addirittura a Mielke, invocando clemenza per la famiglia. Dichiarò mentendo di aver sentito spesso Florian e Ruth esprimere amore per il partito e per la nazione. Raccontò il dramma degli Heise in un articolo che spedí al «New Statesman». Lo respinsero lí, come altrove. Alla fine, il «Daily Telegraph» ne pubblicò una versione ridotta. Restituí la tessera al Partito laburista. Evitava gli amici con cui aveva litigato. Non riusciva nemmeno a incontrare i redattori del «Labour Focus». Una sera, mentre cercava di stordirsi a furia di tv, sfortuna volle che incappasse in un documentario della Bbc la tesi del quale era che la Ddr aveva ormai superato il Regno Unito per qualità della vita. Non un accenno ai 200 000 prigionieri politici – secondo le stime di Amnesty.


Mireille lo chiamò per dargli la notizia un mese dopo. Suo padre aveva un contatto al ministero della Giustizia che gli aveva passato alcune informazioni. Niente di sicuro, lo avvertí Mireille. Il crimine contestato a Florian era di aver scritto per una pubblicazione illegale. Il precedente nel teatro dell’assurdo peggiorava le cose. Il crimine di Ruth consisteva nel non aver denunciato il marito, pur avendo letto il suo scritto. La possibile buona notizia era che non si trattava di un articolo di natura politica, non conteneva elementi di critica al partito. Parlava di Andy Warhol e della scena musicale newyorchese. Ma non si sapeva nulla di ufficiale sulle bambine.


Dunque, Florian non era finito nei guai per il possesso di certi lp o di libri. Al telefono Roland mascherò il proprio sollievo. Due settimane piú tardi Mireille richiamò, fuori di sé dalla gioia per le buone notizie. La condanna era stata di due mesi soltanto perciò erano già fuori, e riuniti ad Hanna e Charlotte! Le bambine non erano finite ai servizi sociali. Quando la nonna era dovuta entrare in ospedale, si era presa cura di loro una zia che stava nella vicina Rüdersdorf. La Germania, dopotutto, non era la Cecoslovacchia e nemmeno la Polonia, aveva detto il padre a Mireille. La minaccia dell’allontanamento dei figli era pratica comune con i dissidenti della Ddr, ma non veniva quasi mai attuata ultimamente. A quel punto, Mireille scoppiò a piangere al telefono. Roland aveva un nodo in gola, non riusciva a parlare. Quando recuperarono la calma tutti e due, gli disse il resto. Agli Heise era proibito abitare a Berlino o nelle vicinanze. Erano stati assegnati alla cittadina di Schwedt nel Nord-Est, vicino al confine polacco, a distanza di sicurezza dalle depravazioni dell’Ovest.


– Come? Sweat?


Mireille precisò come si scriveva.


Ruth non aveva il permesso di insegnare. Faceva la donna delle pulizie. Florian lavorava in una cartiera. Dovevano presentarsi mensilmente al funzionario del partito locale per riferire sulle proprie vite. Comunque… comunque, continuarono a ripetersi Mireille e Roland, erano fuori. Monsieur Lavaud era stato a Schwedt un paio d’anni prima, per via di un incidente nel quale un pullman carico di turisti francesi era finito nel fiume Oder. Un vero postaccio. Una gigantesca raffineria di petrolio in arrivo dalla Russia, cartiere, fabbriche, aria cattiva, blocchi di prefabbricati scadenti: Plattenbau. Comunque… comunque erano con le bambine. Potevano amarle e proteggerle. Hanna e Charlotte non avrebbero avuto accesso all’università. Ma era meno importante. Gli Heise erano insieme. Gli agenti della Stasi e gli informatori di zona li avrebbero tenuti sotto stretta sorveglianza. Ma erano insieme.


Verso la fine, quando Mireille e Roland si erano quasi detti tutto, una cosa dovettero ammetterla: lo Stato rimaneva comunque l’aguzzino della famiglia. E questo non era bello. Ma era molto meno brutto di prima. Dopo la telefonata, Roland consultò la sua enciclopedia in quattro volumi. La cittadina non compariva. La trovò sull’atlante e rimase a fissare quel puntolino nero fino a quando non cominciò a pulsare. Nel corso di una conversazione durata venticinque minuti avevano misurato la circonferenza morale della Repubblica democratica tedesca seguendo l’odissea di una famiglia. Dalla catastrofe al semplice squallore. Schwedt.


Il mutamento di umore lo portò a una decisione trascurabile che avrebbe tuttavia trasformato la sua vita attuale per inaugurarne un’altra. Il mattino seguente, per tirarsi su di morale – sorseggiando caffè nel suo studio di Brixton (cosí si chiamavano adesso i monolocali) – concentrò il pensiero sulle bambine. Scampate all’inferno. D’ora in poi si sarebbero sentite al sicuro. A loro sarebbe importato meno che a mamma e papà se la casa era piú piccola, e il posto piú brutto. Con il permesso delle autorità, la nonna forse poteva venire a trovarle. Roland si disse che avrebbe potuto spedire loro qualche bel libro colorato. Charlotte e Hanna erano di nuovo insieme. Le ferite potevano cominciare a rimarginarsi. Sollevò lo sguardo e gli capitò di trovarsi di fronte la rivista di eventi «Time Out», aperta sulla mezza pagina che annunciava un concerto. Bob Dylan a Earls Court. L’aveva già visto prima ma non ci aveva fatto caso. Aveva altro per la testa. Andarci, però, sarebbe stato rendere omaggio a Florian e Ruth. Un gesto simbolico di solidarietà. Come se li avesse portati con sé. E poi, non vedeva Bob Dylan su un palco dal ’69, all’Isola di Wight.


Passò un’intera mattina in coda davanti a un’agenzia di Leicester Square e riuscí fortunosamente ad accaparrarsi due resi. Gli amici gli avevano detto, qualcosa come un anno fa, quando erano state aperte le vendite, che la gente aveva passato la notte sul marciapiede fuori da Chappel’s in Bond Street. A svegliarli nei loro sacchi a pelo era stata una banda domenicale della Salvation Army. Invitò un vecchio amico, Mick Silver, giornalista rock, fotografo e fanatico di Bob Dylan. Quella sera di fine giugno 1981 si ritrovarono lontani dal palco quanto era fisicamente possibile. Su consiglio di Mick si erano portati il binocolo. Prima che il concerto iniziasse, Roland si accorse della presenza di due file di membri della Jesus Army seduti davanti a lui. Un altro esercito. Roland non era venuto per sentir parlare di Gesú e non gli piacque sentire Dylan aprire il concerto con Gotta Serve Somebody. Davvero doveva servire qualcuno? Dovrei anch’io? continuava a chiedersi Roland. Le teste dei soldati di Gesú annuivano a tempo. Le cose peggiorarono con il brano successivo: I Believe in You. Poi, di colpo, andò meglio. Dylan riprese le vecchie canzoni, allegre, amare, certe attraversate dal tono nasale di un sarcasmo ferito. Like a Rolling Stone, Maggie’s Farm. Là dove le vecchie linee melodiche erano state piú belle, ora lui le strappava, le tirava via finché non restavano che i giri armonici. Non concedeva niente a nessuno. Le teste dei soldati smisero di ondeggiare. Anche Mick era immobile, a occhi chiusi, in ascolto assoluto. Simple Twist of Fate attaccò e fu come se parlasse direttamente a Roland e lo guidasse dentro una visione: la famiglia Heise di nuovo, Florian questa volta, esiliato dalla sua cerchia di amici letterati e musicisti, dalla sua innocua collezione di dischi, dai suoi sogni di fuga, dalle sue idee romantiche su New York, per finire sepolto in una vita di lavoro e fatica. Un semplice scherzo del destino, essere venuto al mondo nella Ddr. Che gioia se Florian avesse potuto teletrasportarsi lí, anche solo per un’ora.


Dopo il prolungato applauso per il terzo bis, quando si furono spente le speranze che potesse essercene un quarto, Roland e Mick si trascinarono fuori dall’arena insieme a una lunga fila di gente soddisfatta. Una volta in strada, dove la folla cominciava ad assottigliarsi, si avviarono verso la metro a passo pressoché normale. Mick stava ricordando il concerto del giugno 1978 e confrontando la chitarra di Billy Cross e Fred Tackett. All’improvviso si trovarono davanti un tale. Gli ci volle un attimo per metterlo a fuoco. Sulla ventina, faccia rosa carico, allampanato, giubbotto di pelle. Forse voleva dei soldi. Piegò il corpo all’indietro, come se stesse per dire qualcosa, poi calò la fronte diretta in faccia a Mick. Un movimento improvviso, uno scatto muto. Mentre Mick si sbilanciava sui talloni, Roland riuscí ad afferrarlo per un gomito. L’uomo lanciò un’occhiata alla sua sinistra, forse per assicurarsi che gli amici avessero visto la scena. Dopodiché corse via in mezzo alla folla. Roland aiutò Mick a tirarsi su e rimasero seduti uno accanto all’altro, con Mick che si copriva la faccia. La gente gli si raccolse attorno.


– Sei svenuto?


La risposta arrivò attutita. – Per un secondo.


– Andiamo al pronto soccorso.


– No.


Sentirono la voce di una donna. – Ho visto tutto. Poveretto. È stato tremendo.


Lo conosceva piuttosto bene, quel vago accento tedesco. Confuso com’era, pensò a Ruth, come se si fosse materializzata lí per suo volere. Alzò lo sguardo e rintracciò il viso in mezzo a cinque o sei che li sovrastavano. Ebbe un momento di incertezza. Era l’insegnante di conversazione del Goethe-Institut. Non ricordava piú il nome. Quattro anni, dopo tutto. Lei però ricordava il suo.


– Mr Baines!


I passanti solerti se n’erano andati ormai. Mick era grande, grosso, e stoico. Nel giro di qualche minuto era in piedi e diceva senza malanimo: – Ne avrei fatto volentieri a meno –. Era sicuro di non avere il naso rotto. Quando Roland gli chiese il nome del primo ministro, rispose immediatamente: – Spencer Perceval.


Quello assassinato. Dunque Mick stava bene. Roland lo presentò alla giovane tedesca che fu tanto delicata da dire il proprio nome. Lei a sua volta presentò loro il suo amico svedese, Karl, mentre si avviavano alla metropolitana. Alissa disse che ora lavorava come aiutoinsegnante presso la Holland Park School. I ragazzi erano fantastici. Ma da quelle parti c’era «una manifestazione nuova ogni giorno».


– Da noi in Germania non se ne vedono. Nemmeno di gente festante.


– E il romanzo?


La domanda le fece piacere. – Continua a crescere. Ma ci siamo quasi!


Karl, ben oltre il metro e ottantacinque, coda di cavallo bionda, abbronzatissimo, era istruttore di vela con base a Stoccolma. Roland disse ad Alissa che lui faceva il giornalista freelance. Non aggiunse che stava valutando l’ipotesi di darsi alla poesia. Con gente come quella, istruttore di tennis poteva suonare meglio. Alla stazione scoprirono che avevano binari diversi. Roland e Alissa si scambiarono numeri di telefono e indirizzi nell’atrio della biglietteria, come da protocollo. Lei lo sorprese, baciandolo su entrambe le guance al momento dei saluti. Mentre osservavano la coppia allontanarsi, Mick disse che secondo lui Roland non aveva chances, contro lo svedese.


Commento perspicace. Per qualche settimana Alissa si presentò occasionalmente nei suoi pensieri. Quel viso pallido e tondo, gli occhi enormi che questa volta gli erano sembrati di un nero violaceo, il corpo compatto che pareva lottare per trattenere slanci di impazienza. O di malizia. Il fidanzato trombettista sostituito dal marinaio. E da chissà quanti altri, di sicuro. Roland ricordò quanto avesse subito il suo fascino, un tempo. E adesso, fino a che l’incontro a Earls Court non cominciò a sbiadire dalla memoria, Alissa gli passò per la mente di quando in quando, prima di finire di nuovo e del tutto nel dimenticatoio.


Passarono due anni; la Guerra delle Falkland fu combattuta e vinta, in qualche luogo remoto, oltre l’orizzonte di consapevolezza della maggior parte della gente; si gettarono le basi per la nascita di internet, Mrs Thatcher e il suo partito ottennero una maggioranza di 144 seggi in Parlamento. Roland compí trentacinque anni. Era riuscito a farsi pubblicare una poesia sul «Wisconsin Review» e guadagnava discretamente scrivendo articoli per riviste di bordo delle compagnie aeree. La sua vita di tranquillo monogamo seriale procedeva. Intanto custodiva in cuor suo l’ossessione per un’esistenza che sapeva irrealizzabile.


Quando finalmente gliene si presentò una versione, non ebbe bisogno di fare niente: nessun progetto, nessuno sforzo da parte sua. La dea della felicità levò una mano, e subito il portone del monastero si spalancò. Il campanello del suo appartamento di Brixton suonò un sabato mattina tardi. Era inizio settembre, faceva caldo. Una musicassetta della J. Geils Band suonava a tutto volume. Aveva passato un’ora a riordinare il suo spazioso monolocale con servizi, al secondo piano. Scese a piedi scalzi, e lei era lí, in una chiazza di luce accecante, e gli sorrideva. Jeans attillati, maglietta bianca, sandali. Una grossa borsa di tela in mano.


Questa volta gli bastarono due secondi. – Alissa!


– Passavo di qua, avevo ancora il tuo indirizzo, perciò…


Le tenne aperta la porta, lei salí, le fece un caffè. Era andata a fare la spesa al mercato di Brixton.


– Non molto tedesco.


– No, anzi. Ho a lungo osservato un barilotto pieno di zampe di porco. Molto tedesco. Una tentazione.


Passarono una mezz’ora a parlare dei rispettivi lavori, di come tiravano avanti. Confrontarono gli affitti delle case. Si ricordò di chiederle del suo romanzo. Sempre in lavorazione. Sempre piú lungo. Due giorni prima, Roland aveva saputo che la «Dundee Review» avrebbe pubblicato una sua seconda poesia. Si trattenne dal dirlo, ma si sentiva ancora al settimo cielo.


Durante una pausa, chiese: – Dimmi la verità. Come mai sei venuta fin qui da Kentish Town?


– Quando ci siamo incontrati l’anno scorso…


– Due anni fa.


– Giusto… Mi era sembrato di interessarti.


I loro sguardi si incrociarono e Alissa reclinò il capo rivolgendo a Roland l’accenno di un sorriso. Voilà.


– Ma tu non stavi con il marinaio?


– Sí. Non ha… Una storia triste.


– Mi spiace. Quando…


– Tre mesi fa. Comunque. Ora eccoci qui –. Scoppiò a ridere. – E tu a me interessi.


Roland lasciò che il silenzio si depositasse, mentre tornava a incrociare il suo sguardo. Si schiarí la voce. – Fa un certo effetto sentirtelo dire.


– Sei contento?


– Sí.


– Anch’io. Prima però… – Infilò la mano nella borsa ed estrasse una bottiglia di vino.


Roland si alzò a prendere due bicchieri e le passò il cavatappi. – Avevi già tutto pronto.


– Certo. E qui dentro ho il necessario per cucinare il pranzo. Per dopo.


Dopo. Una parola innocua non gli era mai sembrata piú carica di allusioni.


– E se non mi avessi trovato?


– Sarei tornata a casa a mangiare da sola.


– Grazie a Dio ci sono.


– Gott sei dank – concordò lei, levando il bicchiere a toccare il suo.


Cominciò cosí: a casa di lui, a casa di lei, giornate intere, albe turbolente, un delirio di ripetitività e rinnovamento, smania, ossessione, sfinimento. Era amore? Nessuno dei due ci credeva, all’inizio. Non poteva durare, pensarono e ammisero in seguito, quel grado di dipendenza insensata. Finché non finiva, dovevano averne sempre di piú. Perché sprecarlo sapendo che presto sarebbe iniziato il lento declino, o scoppiato il vulcano, o l’uragano di un litigio che avrebbe distrutto ogni cosa? A volte si allontanavano, quasi nauseati dalla vista e dal tocco dell’altro, spinti dal bisogno assoluto di stare da soli, fuori, dovunque. Durava magari qualche ora. E poi c’erano i fattori considerati troppo banali e scomodi per riuscire a incorporarli nella dimensione fantastica, vale a dire il lavoro, gli obblighi verso gli altri, le piccole incombenze burocratiche. Ma tutto veniva subito accantonato.


Tornò a Brixton un pomeriggio per fare i preparativi di un trasferimento permanente a Kentish Town. Lei aveva due stanze, lui una sola. Roland si osservava meravigliato. Questa volta, faceva sul serio, una delle componenti del suo sogno: raccogliere calzini e camicie, spazzolino, rasoio e un paio di libri che probabilmente non avrebbe letto. Un gesto di fiducioso abbandono erotico. Gli piaceva pensare di non avere altra scelta. Stava buttando via tutto. Magnifico. Chiuse casa, prese la valigia e fece di corsa il mezzo miglio fino alla metropolitana. Era pura follia. Perfino la scritta VICTORIA LINE emanava un che di voluttuoso. No, non poteva durare.


Ogni volta che tornava nel monolocale per consegnare un articolo o prendere qualcosa, sentiva che lo spazio, che ogni singolo oggetto lo accusava di diserzione. Gli stava bene. Perfino il senso di colpa risultava eccitante. La poltroncina antica comprata dal rigattiere e rimessa a posto, le foto anni Trenta dei bambini nelle strade di Glasgow, il lettore di cassette stereo che si era portato via da Tottenham Court Road: era stata questa, la sua vita. Indipendente e immutabile. La dipendenza fisica gliel’aveva portata via. Non ci poteva fare niente. Non era stata l’indifferenza ad alienarlo. Era l’ebbrezza dell’irrefrenabilità.


Le settimane diventarono un mese, poi nove mesi, e ancora la cosa non accennava a finire. Non vedevano piú gli amici, cenavano in postacci economici, si costringevano una volta ogni tanto a ripulire l’appartamento al primo piano di Lady Margaret Road. Cominciarono a farsi un’idea dei rispettivi background. Roland sentí per la prima volta il nome del suo villaggio di origine, Liebenau, e della Rosa Bianca e del ruolo di suo padre nella vicenda. Lei si interessò alla sua storia sulla famiglia Heise – di cui ancora non arrivavano notizie, né a lui né a Mireille. Lo sorprese constatare quanto poco Alissa sapesse del settore orientale della Germania, e quanto poco le importasse informarsi. Secondo lei gli Heise erano un caso sfortunato e atipico. A Roland era capitato di sentire opinioni analoghe, durante i giorni di Berlino: a differenza della Repubblica federale, la Ddr aveva espulso i nazisti dalla vita pubblica, lo Stato provvedeva degnamente ai suoi cittadini, aveva saldi ideali in materia di giustizia sociale e promuoveva la sostenibilità ambientale. A differenza dell’Occidente.


I loro discorsi, perfino questo, si configuravano come intermezzi piú che come veri percorsi di conoscenza. Il fatto che il legame emotivo tra loro restasse fragile faceva parte dell’eccitazione. Era entusiasmante essere estranei o, come ormai poco per volta accadeva, fingere di esserlo. Ma il mondo fuori dalle loro finestre a ghigliottina, i cui telai deformati ne impedivano l’apertura, cominciava a premere per entrare. A negare loro il permesso di sprecare altro tempo a letto. (A Roland quel letto nemmeno piaceva, con la testiera di pino chiaro e il materasso rigido e sottile come un cracker). Le vacanze scolastiche finirono e Alissa dovette tornare ad alzarsi presto la mattina dei giorni feriali, per essere alla Haverstock School entro le otto e un quarto. I sabati e le domeniche erano divini. Anche Roland ebbe qualche impegno, una promozione di breve durata (sostituire un redattore ammalato), qualche viaggio per Air France e British Airways in Dominica, a Lione e a Trondheim per scrivere rassicuranti articoli di viaggio. Anche ritrovarsi era divino. Ma cominciarono a lasciar entrare un po’ d’aria. Si presentarono reciprocamente ad alcuni amici. Andarono a vedere un film. I discorsi si fecero piú intensi. Lei gli disse che il suo tedesco stava migliorando. Presero una stanza d’albergo sulla costa del Northumberland, anche se quasi non misero piede fuori. Alla fine, tornati a Londra, ci fu una lite, non proprio un uragano, ma abbastanza violenta e spiacevole. Un riassunto di tutto ciò che avevano evitato di dirsi fino a quel momento. Roland fu strabiliato dalla veemenza della propria rabbia e dalla durezza della reazione di lei. Era un osso duro quando discuteva. Come c’era da aspettarsi, la disputa riguardava la Ddr. Roland cercò di dirle quello che sapeva sulla Stasi, sulle intrusioni del partito nelle vite private, su che cosa volesse dire non essere liberi di viaggiare, di leggere questo o quel libro o ascoltare certa musica, su come coloro che osavano criticare il partito rischiassero di vedersi portare via i figli e perdere il diritto a scegliersi un’occupazione. Lei gli ricordò il Berufsverbot, la legge della Germania Ovest che escludeva presunti oppositori radicali dello Stato ed estremisti dall’impiego nel settore pubblico, compreso l’insegnamento. Parlò del razzismo in America, del sostegno degli Usa a certi dittatori fascisti, del vasto arsenale della Nato, della disoccupazione, della povertà e dei fiumi avvelenati in tutto l’Occidente. Roland disse che stava cambiando argomento. Lei rispose che lui non la stava ascoltando. Lui disse che il problema erano i diritti umani. Lei disse che la povertà era una violazione dei diritti umani. Finirono quasi per alzare la voce. Roland se ne andò furibondo e rimase tutto il pomeriggio in casa sua. La riconciliazione quella sera fu una festa.


Passarono otto mesi prima che si arrendessero all’evidenza e ammettessero di essere innamorati. Non molto tempo dopo, durante un trekking sul delta del Danubio, fecero l’amore all’aperto – tre volte in un solo pomeriggio di escursione – dietro un fienile, su un pontile nascosto in un canneto, e in un bosco di querce. In occasione del primo anniversario di quel mattino in cui Alissa era andata a Brixton e, per dirla con Roland, «aveva cotto me a puntino, prima di cucinare il pranzo», presero un treno da Euston a Fort William per proseguire a nord su un’auto a noleggio. Trovarono un alberghetto scomodo fuori Lochinver, completamente isolato al fondo di un sentiero, con una bella vista sul maestoso monte Suilven. Qui si rifugiarono nella loro gelida stanza, al riparo da una burrasca di vento settembrina, con raffiche di pioggia pressoché orizzontale. Si coricarono sul copriletto di ciniglia rosa mentre lui le leggeva un elogio del paesaggio e della montagna che potevano quasi intravedere, scritto da un poeta di nome Norman MacCaig. La bufera imperversò fino al tardo pomeriggio. La cosa sensata da fare era spogliarsi e infilarsi sotto le coperte. E fu lí che, complice l’estasi, decisero di sposarsi. Un’altra splendida pagina del suo antico testo sacro: vincolarsi a lei per sempre, senza possibilità di ritorno, un impegno emozionante al punto da fare quasi male. Alla fine, Roland si vestí e scese ad affrontare il proprietario dell’albergo, uomo di un mutismo poco cordiale, per chiedergli una bottiglia di champagne in un secchiello di ghiaccio. Che importanza poteva avere venirsene via invece con un litro di vino bianco a temperatura ambiente? Del resto era abbastanza bassa pure quella. Sciacquarono bene due bicchieri portaspazzolino da denti e sedettero alla finestra a guardare la bufera allontanarsi poco per volta. Erano quasi le nove di sera, ma ancora chiaro come a mezzogiorno. Presero bottiglia e bicchieri e se li portarono fino al corso d’acqua dove sedettero sopra un masso brindando ancora a loro stessi.


Stabilirono che dovevano essersi innamorati sin dal primo momento senza averne avuto consapevolezza. Era stato geniale da parte di Alissa presentarsi con la borsa della spesa quando non si vedevano da due anni e perfino allora per pochissimo tempo. Ma anche perspicace da parte di lui accoglierla subito, senza fare domande. Quell’incontro diceva molto del loro futuro, della disinvoltura incantevole con cui avevano fatto l’amore seduta stante.


Il cammino della loro storia verso un debutto nella vita pubblica era cominciato all’inizio di quell’estate, quando Alissa aveva portato Roland a Liebenau e Jane gli aveva mostrato i suoi diari. Era poi proseguito in autunno quando Roland portò Alissa a conoscere i suoi nella villetta moderna bifamiliare nei pressi di Aldershot. Mentre Rosalind preparava uno dei suoi elaboratissimi arrosti, il Maggiore, già reso socievole dalle tre pinte di birra chiara, offrí le sue storie su Dunkerque all’ospite tedesca. Si trattava di aneddoti triti e vagamente comici. Alissa ascoltava con un sorriso stampato in faccia senza capire se la si stesse punendo per le colpe dei padri. Roland cercò di informare il suo circa la Rosa Bianca e il ruolo che vi aveva avuto Heinrich Eberhardt. Ma il Maggiore, anche un po’ sordo, era di umore troppo euforico per stare ad ascoltare, specie racconti nuovi. Voleva parlare e voleva che tutti si ubriacassero. Piú volte incoraggiò Alissa a finire il secondo bicchiere di bianco e a versarsene un terzo. Lei rifiutava con educate scrollatine di spalle. Rosalind si alzava regolarmente dal divano a fiori tra un sospiro e un’espressione impensierita per andare a controllare la cottura della carne, la salsa, lo Yorkshire pudding, le patate arrosto, le tre verdure di contorno, piatti e salsiera al caldo, il coltello da carne, il servizio da tavola. Roland osservava le antiche tensioni che avevano dominato la sua vita con loro. Perfino adesso riuscivano a turbarlo, ancora avevano il potere di ripristinare il senso di oppressione che gli era diventato insopportabile negli anni dell’adolescenza. Ah, uscire in giardino, vedere il cielo notturno, chiamare un taxi e andarsene. Seguí sua madre in cucina. L’agitazione per la cena era solo la maschera della sua paura. Il Maggiore, esaltato dall’annuncio del loro matrimonio, era già parecchio avanti nella tabella di marcia della sua sbronza serale. Rosalind era troppo leale per farglielo notare. Le cose potevano mettersi male. Bene che andasse, occorreva essere pronti a gestirle. Poteva esserci dell’imbarazzo in arrivo – in presenza di un’ospite che stava per diventare un membro della famiglia. Secondo la sorella di Roland, la madre avrebbe dovuto separarsi venticinque anni prima, quando avevano messo lui in collegio. – Non ci stavi bene là dentro, – gli aveva detto Susan una volta, – ma almeno eri al sicuro. Giú a Tripoli, lui la picchiava, ma lei non ha voluto lasciarlo.


Quando chiese a sua madre se avesse bisogno di aiuto, lei lo liquidò dicendo: – Torna di là e rimani con tuo padre.


Il tavolo da pranzo, apparecchiato con il servizio buono e i bicchieri dal lungo stelo verde, stava in fondo alla sala, di fronte al passavivande. Quella era l’immagine di sua madre anziana che Roland non poté mai piú levarsi dalla mente: lei in cucina chinata a farsi incorniciare la faccia dai contorni dello sportello mentre passava i piatti pronti. E Alissa che, assumendo il ruolo di nuora, li prendeva per distribuirli. Il Maggiore intanto si alzava per scolarsi la quarta pinta di birra e stappare il vino. Il pasto iniziò quasi in silenzio. Giusto l’acciottolio di cucchiai sulla porcellana, dei grazie pronunciati a mezza voce, il gorgogliare del vino nei bicchieri. Roland lanciò un argomento che sapeva non essere pericoloso. Chiese a sua madre del giardinetto sul retro della casa. In primavera aveva comprato qualche rosa nuova. Come procedevano? Rosalind cominciò a rispondere ma il padre le diede sulla voce. Comunicò ad Alissa che lui, nel giardino, era responsabile del prato. Si era dovuto procurare un nuovo tosaerba. Roland colse uno sguardo rassegnato sul viso di sua madre. Il Maggiore Baines aveva visto l’annuncio di una macchina di seconda mano. L’indirizzo fornito era a pochi isolati da lí. La proprietaria era una donna il cui marito, un sergente addetto alle comunicazioni, era morto. Il tosaerba per lei era troppo pesante, non riusciva a manovrarlo. Chiedeva quindici sterline. Lo aveva accompagnato nel capanno degli attrezzi dove lo teneva.


A quel punto il Maggiore rivolse il racconto al figlio. Come se fosse qualcosa che soltanto un uomo sarebbe stato in grado di seguire. – Lei aspettava fuori. Cosí mi sono inginocchiato, figliolo, e ho trovato la valvola dell’alimentatore e l’ho stretta un paio di volte. Poi ho provato a mettere in moto. Naturalmente non partiva. Lei intanto guardava. Ci ho provato qualche altra volta. Ho controllato, provato di nuovo. Le ho detto che c’era bisogno di parecchie riparazioni. Le ho offerto cinque sterline. E lei fa: – «Oh, in effetti è un po’ che non lo usiamo». Capito, figliolo? Me lo sono portato a casa praticamente nuovo. Va che è una meraviglia. Cinque sterline!


Silenzio. Roland non osava guardare in direzione di Alissa. Appoggiò coltello e forchetta, prese il tovagliolo che aveva in grembo e si asciugò le mani sudate. – No, fammi capire bene.


– Che c’è? – disse brusco suo padre.


Roland alzò la voce. – Voglio capire bene. L’hai truffata. Hai truffato una donna che aveva perso il marito. La vedova di un militare, sempre che faccia una differenza. E te ne vanti pure, tu…


Sentí una mano leggera sul braccio. Rosalind mormorò: – Per favore.


Capí. Sarebbe scattata la lite e, quando lui e Alissa se ne fossero andati, lei ne avrebbe subito le conseguenze.


– Quante storie, figliolo, – diceva il Maggiore nel tono di voce che riservava alle battute di spirito. – Oggi va cosí. Ognun per sé. Dico bene, cocca? – Stava cercando di finire l’avanzo di vino versandoglielo nel bicchiere e riempiendolo tanto da farlo traboccare. Lei non disse niente.


Dopo cena, il Maggiore andò a prendere l’armonica ed eseguí il suo repertorio per Alissa. I Belong to Glasgow. Bye Bye Blackbird. Le canzoni che avevano condotto Roland verso le lezioni di piano. Nessuno aveva voglia di cantare. Rosalind se ne andò in cucina a lavare i piatti. Alissa la seguí. L’armonica era tornata nell’astuccio. Calò un silenzio pesante tra padre e figlio. Di quando in quando, tra lunghe sorsate della sua birra del dopo pasto, il Maggiore ripeteva: – Quante storie, figliolo –. Avrebbe voluto passare oltre, come niente fosse.


Sul treno di ritorno a Londra, l’indomani, Roland non parlava.


Alissa gli prese una mano. – Lo odi?


Fu la sola domanda. Lui rispose: – Non lo so proprio.


Dopo un po’ e dopo un altro silenzio, Alissa aggiunse: – Non odiarlo. Ti renderà infelice.


A gennaio dell’anno nuovo, il 1985, camminavano costeggiando il fiume Aue su un sentiero coperto da una ventina di centimetri di neve compatta. Il sole basso invernale non ce l’aveva fatta a salire oltre le cime degli ontani lungo la riva e ormai stava calando. Faceva un freddo immobile, terso. C’erano ghiaccioli appesi ai bidoni della spazzatura, troppo poco distanziati l’uno dall’altro, alle recinzioni e alle grondaie delle case vicine. Superarono bimbetti dall’aria solenne rimorchiati su troni di lana di pecora montati sulle slitte, e scartarono i colpi di una battaglia a palle di neve tra fazioni urlanti di bambine con le trecce. La neve si era ammorbidita verso mezzogiorno e adesso, alle tre, ricominciava a ghiacciare e a scrocchiare sotto le scarpe. Parlavano dei genitori, di nuovo. Di che altro quando, nel corso del primo giorno completo della loro visita, Alissa aveva battibeccato e poi decisamente litigato con sua madre, mentre Roland restava a guardare, proprio come era successo ad Alissa al pranzo di novembre, quello in cui il Maggiore si era involontariamente tradito?


– È invidiosa di me. A lei è toccata Londra in tempo di guerra, poi il matrimonio e i figli da crescere. Io ho avuto il boom economico tedesco, due università, la pillola, gli anni Sessanta. L’hai sentita, no? L’insegnamento non è un lavoro degno. E quando tu non c’eri, ha anche detto che il matrimonio mi avrebbe annientata.


– Te e anche me, mi auguro.


Si fermarono e lei lo baciò. – C’è mai stato un tempo in cui non pensavi al sesso?


– Me ne ricordo perfettamente. È stato prima di compiere nove anni. Mi ero…


– Genug!


Ma l’accoglienza nella bella casa degli Eberhardt era stata cordiale. Non avevano ancora appoggiato a terra i bagagli che già si ritrovavano un calice di Sekt in mano. Roland ora sapeva qualcosa di piú sull’«Horizon», la rivista di Cyril Connolly, perciò trascorse un’ora a conversare piacevolmente con Jane sulla scena letteraria anni Quaranta. Aveva fatto i compiti: si era letto Elizabeth Bowen, Denton Welch e Keith Douglas. Quando le disse quanto avesse ammirato i suoi diari che aveva letto due volte l’estate precedente, Jane non sembrò molto propensa a parlarne. Fino a quel momento, quasi tutto il tempo del soggiorno l’aveva passato da solo con Heinrich, cercando di tenere il passo con le sue birre scolate insieme ad altrettanti cicchetti di schnapps. Le donne si allontanavano dalla portata d’orecchie per litigiose passeggiate lungo le vie residenziali del quartiere, dalle quali rientravano rosse in faccia e silenziose. Nemmeno dopo il terzo schnapps era facile stanare il padre di Alissa sul tema della Rosa Bianca. Due settimane prima aveva rilasciato una dichiarazione spontanea di novanta minuti davanti alle telecamere. C’era fame di salvifiche testimonianze da parte di tedeschi «buoni» in tempo di guerra. Si faceva a gara per acciuffarli prima che morissero.


Parlava lentamente per rispetto dell’ospite. – Mi sento a disagio, Roland. Io ero ai margini del movimento. Ci ero arrivato tardi. Anzi, neppure. È peggio di cosí. Mi vergogno proprio. C’erano tanti altri, mi spiego? Eroi nelle fabbriche. Quelle di armi, mezzi militari, carri armati. Piccoli atti di sabotaggio. Granate che non sarebbero esplose, fasce elastiche che si rompevano, viti spanate. Piccole cose. Cose che potevano significare la tortura e la fucilazione. Migliaia di eroi. Non ci sono rimasti i loro nomi. Non esiste documentazione. Nessuna memoria storica. Ho cercato di dirlo a quelli della televisione, ma non hanno voluto ascoltare. Vogliono solo sentire della Rosa Bianca.


I modi e le idee di Heinrich erano lontani da quelli di Roland ma lo commuoveva quel vecchio eternamente incravattato che si sedeva dritto anche sulle poltrone piú morbide. Era un militante dell’Unione cristiano-democratica, lettore laico nella chiesa locale, e aveva dedicato la vita alla legge e a come questa impattava sugli agricoltori delle campagne circostanti. Forte sostenitore di Ronald Reagan, era convinto che alla Germania avrebbe giovato una figura come quella di Margaret Thatcher. Ciononostante credeva che il rock and roll favorisse quello che con una certa magniloquenza definiva «il piano per la felicità universale». Non ce l’aveva con gli uomini coi capelli lunghi né con gli hippy a condizione che non danneggiassero altri, e pensava che uomini e donne omosessuali dovessero essere lasciati in pace a vivere la vita che volevano.


Aveva buon cuore, a giudizio di Roland. Perciò quando Heinrich parlò di un riscatto nazionale fondato sulla costruzione di una catena di sabotaggi antinazisti, il suo potenziale genero non gli disse quello che pensava, e cioè che nemmeno decine di movimenti della Rosa Bianca, un milione di sabotatori, mille miliardi di viti spanate sarebbero bastati a redimere la barbarie su scala industriale del Terzo Reich e le decine di milioni di cittadini che erano al corrente e avevano guardato altrove. Roland sapeva che il solo progetto salvifico consisteva nel conoscere fino in fondo quanto era successo e perché. E per questo poteva volerci un secolo. Ma non lo disse. Non ne aveva neanche voglia. Era ospite di Heinrich, e da tre sere ormai si sbronzava cordialmente davanti al fuoco del camino acceso, mentre fuori al freddo, chissà dove, la sua futura moglie ingaggiava battaglia con sua madre.


Ora, sulle rive del fiume, Alissa disse: – Sai, ho ripensato al tosaerba di tuo padre.


Non stava cambiando discorso. Madre di lei, padre di lui, padre di lei, madre di lui. A trentacinque anni suonati avrebbero dovuto superare tutto questo, no? Nient’affatto. La maturità appena raggiunta dispensava inedite intuizioni.


Alissa proseguí: – Inconsciamente raccontava quella storia contro se stesso, perché voleva che lo perdonassi.


Si fermarono. Roland le appoggiò le mani sulle spalle e la guardò negli occhi, nerissimi sullo sfondo dello scenario accecante. – Sei di animo generoso, tu. A me è venuta in mente una cosa diversa. Per i miei primi dieci anni, a Singapore, in Inghilterra tra un incarico e l’altro, poi a Tripoli, ho cambiato quattro o cinque scuole elementari e altrettante case in paesi diversi, sempre con la stessa roba passata dall’esercito, dai divani e le tende fino alle posate e i tappeti. Poi il collegio, che non era una casa. Poi ho lasciato la scuola prima del tempo e ho fatto decine di lavori. Io sono senza radici. In casa nostra non c’era nessun credo, nessun principio, nessuna idea ritenuta importante. Perché mio padre non ne aveva. Esercitazioni militari e ordini continui, regolamenti al posto di leggi morali. Adesso lo capisco. E dal momento che mia madre era terrorizzata, anche lei non aveva idee, o non le manifestava. Mia sorella Susan lo detesta, odia il suo patrigno. Come pure mio fratello Henry. Non ne parlano mai e non lo danno a vedere. Devo essere stato plasmato da tutto questo.

Si scostarono dal sentiero per lasciar passare una donna con un grappolo di cani al guinzaglio. Proseguirono sul prato fino a un boschetto ma era cintato e non videro un modo per inoltrarsi tra gli alberi. Perciò tornarono al sentiero.

Alissa disse: – Dobbiamo perdonare i padri se non vogliamo impazzire. Prima però dobbiamo ricordare che cosa hanno fatto –. Si era fermata per dire questo. – Non siamo andati lontano. C’erano famiglie ebree nei villaggi qui attorno, adesso non ce ne sono piú. Ci sono i loro fantasmi che si aggirano per le strade. Ci viviamo in mezzo e fingiamo che non esistano. Chi non preferirebbe pensare all’acquisto di un nuovo televisore?


Stavano percorrendo a piedi i quattro chilometri di ritorno a casa Eberhardt. In preda a una intensa sensazione di amore e di fiducia, Roland cominciò a raccontarle quello che pensava non avrebbe mai detto a nessuno. Pestando nella neve con i piedi sempre piú intirizziti, le descrisse il tempo trascorso con Miriam Cornell. L’attrazione, l’ossessione, e come allora gli fosse sembrata una vita intera. Gli ci volle quasi un’ora per definire i contorni della relazione, se cosí la si poteva definire, e la scuola, il cottage, i due fiumi. Il modo stranissimo in cui era finita. Come non gli fosse mai passato per la testa che il comportamento di lei fosse una depravazione, una cosa spregevole. Anche dopo, per anni. Non aveva strumenti per giudicarla, nessun parametro. Nessun metro di misura. Quando ebbe finito, tacquero per un po’.


Si fermarono davanti al cancelletto di legno del giardino degli Eberhardt. Roland disse: – Cerca di non litigare con lei stasera. Non importa che cosa pensa. Sarai tu a decidere per te stessa comunque.

Lo prese per mano. – È cosí facile perdonare i genitori degli altri.

La sua mano tiepida senza guanto era un conforto. Il grande prato sotto la neve era liscio nella luce giallo-aranciata del tardo pomeriggio. Si baciarono e si accarezzarono, ma di entrare in casa non avevano voglia. Avevano voglia di far l’amore ma non era facile, nella camera degli ospiti. Dopo un po’ lei disse meravigliata: – Quattordici anni… e continui a volerlo, sempre, sempre.

Roland attese.

– Questa maestra di piano… – Alissa si interruppe prima di pronunciare il verdetto. – Ti ha riprogrammato il cervello.

E proprio perché la cosa non era affatto divertente, anzi, era terribile, attraversarono il giardino ridendo e abbandonarono il sentiero per calpestare la neve immacolata. Stavano ancora ridendo quando si pulirono le scarpe nel vestibolo prima di entrare nel calore profumato dell’ingresso perfettamente lucido.

Un paio di mesi piú tardi, subito dopo essersi sposati, Roland e Alissa si apprestarono a compiere un passo definitivo verso un’esistenza sociale con l’acquisto di una logora villetta edoardiana a due piani che Daphne aveva trovato per loro nel centro storico di Clapham. L’anno prima lei e Peter avevano comprato casa nella stessa zona. Poco dopo il trasloco, Alissa diede a Roland la fatidica notizia. Non c’era niente di sorprendente, in effetti. Ricalcolarono le settimane a ritroso. Avevano fatto l’amore solo una volta nei cinque giorni passati a Liebenau. Il silenzio dentro e fuori la casa, il letto che cigolava a ogni movimento, la tosse roca di Heinrich che arrivava forte e chiara attraverso il muro divisorio – era davvero troppo perfino per Roland. Perciò era stato sicuramente quella notte, dopo la passeggiata lungo il fiume. A settembre di quell’anno, il 1985, nell’ospedale londinese di St Thomas, Alissa diede alla luce Lawrence Heinrich Baines.