giovedì 18 luglio 2024

ARTE E OGGETTI Graham Harman

 


ARTE E OGGETTI

Graham Harman

Recensione

[...] cosa significa per l’estetica fungere da base per l’intera filosofia e perché si dovrebbe accettare una tesi così apertamente deviante? Elaborare tali questioni è appunto lo scopo di questo libro.[...]

Graham Harman, esponente di primo piano della "Ontologia orientata agli oggetti", con questo saggio non ci illustra tanto l’applicazione della sua teoria a una categoria particolare di oggetti, bensì ci conduce negli importanti snodi del suo pensiero.  Come è spesso accaduto, il confronto tra filosofia e arte si rivela fecondo e permette a Graham Harman di sviluppare quello che chiama «formalismo strano», proposta che salvaguarda l’autonomia dell’opera d’arte senza obliterare lo spettatore.

L’autore si occupa  dei principali interessi che animano la sua riflessione, ovvero gli oggetti in generale e quelli artistici in particolare. Nella storia del pensiero filosofico, l’indagine sulla percezione e la filosofia dell’arte sono stati considerati talvolta separati, ma tale distinzione, sebbene abbia la sua ragion d’essere, non può,  per Harman,  essere netta. Occuparsi della dimensione sensibile degli oggetti, che costituisce il loro “biglietto da visita”, il modo in cui essi si presentano a noi, è il primo passo da compiere per entrare nel campo dell’estetica. 

Per quel che riguarda i contenuti, richiamo solo   quello che giudico il contributo più prezioso di Harman: l’ontologia piatta (flat ontology) Herman recupera, rielabora e approfondisce un’intuizione di José Ortega y Gasset, che cita nel testo: “la stessa differenza che esiste fra un dolore di cui mi si parla e un dolore che provo, esiste tra il rosso da me visto e l’essere rossa di questa scatola. Per lei, l’essere rossa è come per me il dolore. Come esiste un io-Tal dei Tali, esiste un io‐rosso, un io‐acqua e un io‐stella. Tutto, guardato dall’interno di sé stesso, è un io”. È questo l’inizio dell’ontologia piatta, i cui semi si trovano già nel prospettivismo di Nietzsche, che, in "Su verità e menzogna in senso extramorale", (pag. 19, ed Adelphi 2015, digitale) scrive: “[All’uomo] costa molta fatica l’ammettere che l’insetto o l’uccello percepiscono un mondo del tutto differente da quello umano, e che la questione di determinare quale delle due percezioni del mondo sia più giusta è del tutto priva di senso, poiché una misura in proposito dovrebbe essere stabilita in base al criterio della percezione esatta, cioè in base a un criterio che non esiste” 

ARTE E OGGETTI

NOTA PRELIMINARE

È ben noto che il modernismo nelle arti visive affonda le sue radici intellettuali nella Critica del Giudizio (1790) di Kant e, più di recente, nell’opera di due importanti critici americani, Clement Greenberg e Michael Fried. Kant è spesso definito “formalista” nel suo approccio all’arte, malgrado non utilizzi tale termine in questo contesto. Tuttavia, egli parla di formalismo nella sua teoria etica e vedremo che le ragioni che motivano la comparsa di questo termine in un caso si applicano anche all’altro. L’uso della parola “formalista” per descrivere Greenberg e Fried incontra maggiori resistenze, almeno nei circoli in cui questi autori sono visti favorevolmente, tanto che si impiegano particolari sforzi per esentare Fried da questa definizione. Stephen Melville, per esempio, deplora “ciò che è ancora troppo spesso presentato come il formalismo kantiano di Greenberg e Fried”, mentre Richard Moran obietta che il formalismo “pare un termine inadatto a caratterizzare le brillanti letture [operate da Fried] della pittura francese”73. Nonostante ciò, il presente libro considererà Greenberg e Fried come dei formalisti kantiani, per quanto io sia più solidale con questi autori rispetto a molti altri che li definiscono tali; in effetti, considero entrambi i pensatori come classici, la cui importanza si estende decisamente al di là della sfera artistica. Sebbene io sia consapevole che Greenberg accoglieva freddamente la parola “formalismo”, e che lo stesso valeva per Fried, il termine si adatta perfettamente al senso che verrà sviluppato in questo libro. Lo affermo con l’obiettivo non di imporre una terminologia indesiderata, ma di conferire nuova attenzione a ciò che è vivo e ciò che è morto dell’approccio kantiano all’arte e, più in generale, della sua posizione filosofica. Nessuna figura intellettuale è riuscita a dominare gli ultimi due secoli e mezzo come Kant e qualsiasi tentativo di superarlo non è mai riuscito ad andare al cuore della questione – malgrado gli sforzi titanici dell’Idealismo tedesco. E così siamo ancora perseguitati dai punti di forza e dai limiti del pensiero kantiano.

A partire dagli anni ’60 del Novecento, il prestigio del formalismo nel mondo dell’arte è stato contrastato e poi oscurato da un generale atteggiamento anti-formalista che, in mancanza di un termine migliore, può essere definito “postmoderno”. È accaduto attraverso diverse pratiche che hanno calpestato i principi dell’arte modernista, in particolare il credo formalista nell’autonomia e integrità dell’opera d’arte, riflesso nell’epigrafe di Proust sopra citata. Eppure, la nuova generazione di critici che hanno conferito autorità al distacco dall’alto modernismo si è sganciata troppo presto dal formalismo, senza salvaguardarne le intuizioni più importanti. Le arti sono state lasciate – proprio come la filosofia di ambito continentale – in un deserto, che si è definito in filosofia attraverso una fuorviante opposizione al realismo e nell’arte tramite una dedizione ormai superata all’antico spirito Dada. L’ontologia orientata agli oggetti (abbreviata con OOO, da pronunciare “tripla O”) si trova nella posizione adatta per salvare il tesoro dal presunto naufragio del formalismo, poiché ha il dovere di farlo. Trattandosi di una filosofia impegnata ad affermare l’esistenza autonoma degli oggetti rispetto alle loro diverse relazioni, la OOO sostiene il principio basilare formalista dell’oggetto indipendente, mentre rifiuta categoricamente l’affermazione che a due determinati tipi di ente – soggetto umano e oggetto non umano – non debba mai essere permesso di contaminarsi. Questa rigida segregazione tassonomica degli umani da tutto ciò che non è umano si trova al centro della rivoluzione filosofica di Kant, più in negativo che in positivo. L’intento di questo libro è sfidare sia la filosofia post-kantiana, sia l’arte post-formalista, in base all’assunto comune che entrambe le correnti hanno rifiutato la dottrina del loro predecessore per ragioni errate. La OOO rimane fedele al divieto formalista del letteralismo, seppur in un senso differente rispetto a Fried, un senso che chiamerò anche “relazionismo”. Con letteralismo intendo la dottrina, o più spesso la tacita affermazione, che un’opera d’arte o un oggetto possa essere adeguatamente parafrasato descrivendo le qualità da esso possedute, il che significa, in ultima analisi, descrivere la relazione in cui esso si trova con noi o con qualcos’altro. Nondimeno, la OOO abbraccia la teatralità, malgrado gli intensi – seppur intricati in modo disarmante – sentimenti anti-teatrali di Fried. Altrimenti detto, argomenterò a favore di un senso non relazionale del teatrale. Rifiuterò altresì la piatta tela unificata di Greenberg in favore di un modello in cui ciascun elemento di un’opera d’arte genera il suo sfondo discreto.

Accade spesso che i libri filosofici sull’arte inizino con estesi scrupoli riguardanti i significati di parole come “arte”, “estetica” e “autonomia”. A volte questo avviene con accuratezza informativa, come nel recente testo di Peter Osborne Anywhere or Not at All (ANA, pp. 38-46). Se raccontare la storia di un termine non è mai sufficiente a giustificare il purismo etimologico, può certamente aiutare a gettare luce su ciò che si perde negli slittamenti di significato. La parola greca aisthesis si riferisce di certo alla percezione e c’è stato uno specifico processo storico attraverso cui l’“estetica” è giunta a riferirsi alla filosofia dell’arte, e poi un ulteriore processo specifico attraverso cui diversi artisti del XX secolo hanno deciso di rifiutare l’identificazione tra arte ed estetica. Osborne prende posizione in questa storia, così come molti altri: “La nuova ontologia artistica post-concettuale che è stata stabilita – ‘oltre l’estetica’ – è giunta a definire l’ambito a cui l’espressione ‘arte contemporanea’ si riferisce nel modo più opportuno, nel suo più profondo significato concettuale” (ANA, p. 37). Allo stesso tempo, egli accusa i suoi avversari di “confusione riguardo all’autonomia” (ANA, p. 37), che può essere chiarita solo attraverso una spiegazione storica della relazione tra Kant e il romanticismo di Jena. Questa raccomandazione non è filosoficamente neutrale, visto che Osborne si ispira a Hegel – mediato da Adorno – diversamente dal presente libro. In particolare, rifiuto l’affermazione di Osborne che solo i romantici, e non Kant, siano riusciti a dimostrare l’autonomia dell’arte, e lo faccio perché l’operazione kantiana di separare l’arte dalla parafrasi concettuale, dalla piacevolezza individuale e dall’utilità funzionale (come la sua freddezza verso l’architettura) è sufficiente a proteggere l’arte dall’asserzione di Osborne che “gran parte di ciò che è sempre stato e continua a essere significativo nell’arte […] [sono] le sue funzioni metafisiche, cognitive e politico-ideologiche” (ANA, pp. 42-43). L’evidente aspetto negativo dell’approccio di Osborne è che tende a sommergere ciò che è più caratteristico dell’arte – e della filosofia – in una palude di articolate disquisizioni sui mass media e sulla forma-merce. L’arte è autonoma come qualunque altra cosa e per la stessa ragione: per quanto siano significative le relazioni tra un ambito o un oggetto e un altro, molte cose non influiscono minimamente l’una sull’altra. Qualsiasi tentativo di spiegare l’arte in termini di capitale o di cultura popolare porta con sé un pesante fardello di prove in grado di spiegare perché questi fattori esterni debbano prevalere su ciò che appartiene all’opera d’arte in sé. Non basta asserire semplicemente che “tutte queste relazioni [sono] interne alla struttura critica dell’arte” (ANA, p. 46). Tali affermazioni affrontano il destino di ciò che Arthur Danto definisce “sabbie mobili metafisiche” (TC, p. 102), come si vedrà nel capitolo 6.

Nondimeno, per evitare confusioni successive, permettetemi di definire brevemente cosa intendo con i termini “autonomia”, “estetica” e “arte”. Con autonomia intendo il fatto che, per quanto tutti gli oggetti abbiano sia un retroscena causale/compositivo, sia numerose interazioni con l’ambiente, nessuno di questi fattori è identico all’oggetto stesso, di cui gran parte del retroscena e dell’ambiente si può tranquillamente sostituire oppure farne a meno. Con estetica intendo qualcosa di ancora più lontano rispetto all’originale radice greca, ovvero lo studio della relazione sorprendentemente libera tra gli oggetti e le loro qualità. Questo verrà analizzato successivamente. Con arte intendo la costruzione di entità o situazioni efficacemente attrezzate per produrre bellezza, ovvero una tensione esplicita tra i nascosti oggetti reali e le loro palpabili qualità sensuali.

Questo libro è stato sul punto di essere completato diversi mesi prima che io riuscissi ad aggiungere gli ultimi capitoli; sentivo che c’era qualcosa di sbagliato nell’argomentazione per motivi difficili da identificare e l’editore ha atteso con pazienza il conseguente ritardo. Sono stato finalmente in grado di concludere grazie a una fortunata coincidenza, che richiede un riferimento alla mia storia personale. Alla fine degli anni ’80 ero studente universitario al St. John College di Annapolis, nel Maryland, una classica istituzione di arti liberali che il venerdì sera ospita una serie stimolante di lezioni. Una di quelle sere, durante il mio primo o ultimo anno, un cinquantenne Michael Fried fece un breve viaggio da Baltimora per offrirci una frizzante anteprima di ciò che presto sarebbe diventato il suo libro Courbet’s Realism (1990). Anche se ricordo di essere stato rapito dall’esposizione di Fried, allora non avevo la minima cognizione della sua reputazione o rilevanza e non avrei mai potuto prevedere che la sua opera di critico e storico dell’arte sarebbe diventata così importante per la mia formazione filosofica. Essendomi a lungo pentito della mia giovanile mancanza di preparazione per sondare le profondità della sua lezione su Courbet, mi sono assicurato di invitare Fried come ospite a una serie di lezioni al Southern California Institute of Architecture (SCI-Arc) a Los Angeles, in seguito alla mia assunzione avvenuta nel 2016. Meno di due anni dopo, l’amministrazione dello SCI-Arc ha soddisfatto la mia richiesta: Fried è arrivato al campus all’inizio di febbraio del 2018 per tenere due lezioni e un’instancabile masterclass di sabato, culminata con un meraviglioso intervento domenicale su Caravaggio al Getty Museum. È stato un raro privilegio veder lavorare questo maestro vivente durante la parte migliore della settimana. Più concretamente, aver ascoltato quanto Fried ha detto e avergli posto una serie di domande strategiche mi ha reso possibile capire quale fosse la strada giusta per finire questo libro. Egli non sarà d’accordo con gran parte di quanto ho scritto, ma spero che possa apprezzare quanto il suo corpus di opere abbia stimolato un’ulteriore linea parallela di pensiero in filosofia. Come testimonia la recente pubblicazione del volume edito da Mathew Abbott, Michael Fried and Philosophy, non sono il primo ad avere un debito di pensiero filosofico nei confronti di Fried, e certamente non sarò l’ultimo.

S. Melville, Becoming Medium, in M. Abbott (a cura di), Michael Fried and Philosophy: Modernism, Intention, and Theatricality, Routledge, London 2018, edizione Kindle, p. 104; R. Moran, Formalism and the Appearance of Nature, in M. Abbott (a cura di), op. cit., p. 117.

INTRODUZIONE


IL FORMALISMO E LA LEZIONE DI DANTE


Questo è il primo libro che si riferisce dettagliatamente alla relazione tra arte e ontologia orientata agli oggetti (da qui in poi OOO), sulla scia di pubblicazioni precedenti sull’argomento74. Per gli scopi di questo libro, “arte” si riferisce all’arte visiva, nonostante i principi qui elaborati possano essere applicati – mutatis mutandis – a qualunque altro filone artistico. Ciò che dovrebbe particolarmente interessare il lettore riguardo alla relazione tra OOO e arte è che questa nuova filosofia tratta l’arte non come un sottocampo marginale, ma come il cuore della nostra disciplina, come testimonia il noto appello da parte della OOO a un’“estetica come filosofia prima”75. Ma cosa significa per l’estetica fungere da base per l’intera filosofia e perché si dovrebbe accettare una tesi così apertamente deviante? Elaborare tali questioni è appunto lo scopo di questo libro.


Il titolo Arte e oggetti è stato suggerito a Polity da un redattore e non potevo certo rifiutare un’indicazione così diretta. Nondimeno, essa potrebbe condurre a due possibili fraintendimenti. Il primo è la somiglianza verbale dell’espressione “arte e oggetti” con i titoli di altri due testi, che conducono in direzioni diverse dalla mia. Uno è il saggio del 1968 di Richard Wollheim, intitolato L’arte e i suoi oggetti [Art and Its Objects], un lucido testo di filosofia analitica non direttamente discusso nelle pagine che seguiranno. L’altro titolo, certamente più noto ai lettori di questo libro, appartiene a un articolo provocatorio di Michael Fried del 1967, intitolato Arte e oggettualità [Art and Objecthood]. Quest’ultima coincidenza è più importante, poiché, a differenza di Wollheim, Fried ha avuto un impatto significativo sul mio pensiero riguardo alle opere d’arte. Nondimeno, i nostri rispettivi usi della parola “oggetto” hanno significati diametralmente opposti. Per Fried “oggetto” indica un ostacolo fisico letteralmente presente sul nostro cammino, cosa che egli notoriamente critica nel caso della scultura minimalista. Per la OOO, di contro, gli oggetti sono sempre più assenti che presenti. Agli oggetti reali della OOO – diversamente da quelli che chiamiamo oggetti sensuali – si può solo alludere indirettamente; non assumono mai la forma letterale e non è nemmeno necessario che siano fisici.


Questo conduce al secondo e più ampio fraintendimento a cui il titolo di questo libro potrebbe condurre. Un discorso positivo sugli “oggetti” in un contesto artistico è spesso considerato un elogio di entità durevoli di medie dimensioni (sculture, statue, vetrate, pitture da cavalletto) a spese dei media artistici che sembrano avere una forma più libera (performance, happening, installazioni temporanee, opere concettuali). Nell’impostazione della OOO, tuttavia, “oggetto” ha un significato molto più ampio rispetto alle cose solide e materiali. Per il pensatore orientato agli oggetti, qualsiasi cosa – incluso un evento o una performance – può essere considerato un oggetto se soddisfa due semplici criteri: (a) irriducibilità verso il basso ai suoi componenti e (b) irriducibilità verso l’alto ai suoi effetti. Questi due tipi di riduzione sono noti nella OOO come “minare dal basso” (undermining) e “minare dall’alto” (overmining), mentre la loro combinazione – che si verifica più spesso – è chiamata “minare doppiamente” (duomining)76. La OOO afferma che il pensiero umano implica quasi interamente una certa forma di duomining e prova a contrastarla prestando attenzione all’oggetto in quanto tale, a prescindere dai suoi componenti interni e dai suoi effetti esterni. Si tratta effettivamente di un compito difficile, in quanto undermining e overmining sono le due forme basilari di conoscenza che abbiamo. Quando ci viene chiesto cos’è qualcosa, possiamo rispondere dicendo che è ciò di cui qualcosa è fatto (undermining), ciò che fa (overmining), o entrambi (duomining). Considerato che questi sono gli unici tipi di conoscenza esistenti, sono dei preziosi strumenti di sopravvivenza per l’uomo e dobbiamo stare attenti a non condannare queste tre forme di mining o a fingere di potercela fare senza di loro. Eppure, la mia speranza è che il lettore arrivi a riconoscere l’esistenza parallela di forme di cognizione senza conoscenza che, in qualche modo, mettano a fuoco gli oggetti, senza ridurli a nessuna delle due direzioni di mining.


L’arte è proprio un tale genere di cognizione, un altro è la filosofia, nel senso socratico di philosophia, piuttosto che in quello moderno di matematica o scienza naturale manqué. Come ho scritto in The Third Table, l’arte non ha nulla a che vedere con i famosi “due tavoli” del fisico inglese Sir Arthur Stanley Eddington: uno di essi è il tavolo fisico composto da particelle e spazio vuoto (undermining), l’altro il tavolo pratico con distinte qualità sensibili e la capacità di essere spostato a nostro piacimento (overmining)77. Per lo stesso identico motivo, la celebre distinzione del filosofo Wilfrid Sellars tra l’“immagine scientifica” (undermining) e l’“immagine manifesta” (overmining) non ci aiuta in alcun modo produttivo78. Al contrario, l’arte, proprio come la filosofia, ha la missione di alludere a un “terzo tavolo”, che si trova tra i due estremi della cognizione individuati da Eddington e Sellars. Inoltre, chi conosce Fried vedrà che l’arte nel senso della OOO implica l’esatto opposto del letteralismo, che egli associa all’oggettualità, sebbene si tratti di una mera differenza terminologica, che non entra tuttavia in contrasto con i principi cardine di Fried.


È ben noto che il programma della OOO enfatizza gli oggetti, considerandoli separati dalle loro relazioni, operando un taglio netto nei confronti dell’attuale moda relazionale presente in filosofia, nelle arti e pressoché in qualunque altro campo. Per “relazionale” intendo l’idea che un’opera d’arte (o qualunque oggetto) sia intrinsecamente definito da una sorta di relazione con il suo contesto. In filosofia queste sono definite “relazioni interne” e la OOO sostiene la contro-tradizione che considera le relazioni come esterne ai loro termini: in questo modo, tranne in alcuni casi eccezionali, una mela rimane sempre la stessa mela, qualunque sia il contesto in cui si colloca. Ora, considerare un oggetto separato dalle sue relazioni ovviamente somiglia al ben noto “formalismo” della critica artistica e letteraria, che sminuisce la cornice biografica, culturale o socio-politica delle opere d’arte, trattando piuttosto queste opere come totalità autonome. A questo proposito, ho scritto parole di ammirazione per Greenberg, ormai da molto tempo fuori moda, che merita il titolo di “formalista”, nonostante la sua resistenza nei confronti di questo appellativo79. Vedremo che lo stesso vale per Fried, il quale è pure un formalista nel senso in cui lo intendo io, malgrado il suo attuale rifiuto del termine. La protesta di Robert Pippin, secondo cui “persiste il mito che il lavoro di Fried sia ‘formalista’, indifferente al ‘contenuto’”, certamente colpisce nel segno, ma solo se accettiamo la definizione data da Fried e Pippin di formalismo come qualcosa che indica l’indifferenza verso il contenuto80. È vero che nessuno dovrebbe accusare Fried di sopprimere il contenuto dei quadri nel modo in cui solitamente lo fa Greenberg, ma affermerò che esiste un significato ancora più basilare di formalismo.


Considerata l’enfasi della OOO sull’autonomia non relazionale o chiusura degli oggetti rispetto ai loro contesti, non sorprende che ci sia stata una certa diffidenza nei confronti del pensiero orientato agli oggetti in quegli ambiti estetici in cui il formalismo gode di scarsa reputazione, anche tra coloro che sono solidali con noi per altri motivi. Claire Colebrook, la celebre deleuziana, si preoccupa apertamente del fatto che la critica letteraria della OOO corrisponda semplicemente a una continuazione di quella formalista81. La mia amica Melissa Ragona dell’università Carnegie-Mellon ha reagito così quando ho pubblicato per la prima volta la copertina di questo libro sui social media: “Un’eccellente mossa vecchio stile quella di mettere a confronto Clement Greenberg e Joseph Beuys!”82. Qualche mese prima, l’artista Hasan Veseli, residente a Monaco, aveva interrotto un’email altrimenti positiva per esprimere le seguenti riserve riguardo ai miei scritti precedenti sull’arte:


Io e i miei amici artisti non riusciamo a capire perché continui a parlare di Greenberg, anche se intuiamo cosa intendi (il contesto, la piattezza). A posteriori sembra che ai suoi scritti sia già stata assegnata una data di scadenza nel momento stesso in cui li ha composti (forse per i problemi con la tematica trattata, che rende l’arte un semplice esercizio formalista). Notevoli critici dalla prospettiva odierna sono per esempio Rosalind Krauss, David Joselit, Hal Foster, Arthur Danto…83


La mia persistente predilezione per Greenberg mi colloca in inferiorità numerica nel mondo dell’arte rispetto ai suoi detrattori. Nondimeno, risponderò dicendo che ci sono delle ragioni perfettamente valide per “continuare a parlare” di lui, anche se le sue teorie sembrano legarsi a un tipo di arte che ha perso il suo prestigio avanguardistico mezzo secolo fa, e alcune di esse possono rivelarsi errate. Il problema, per come lo concepisco io, è che il formalismo è stato, a un certo punto, semplicemente condannato e abbandonato, piuttosto che assimilato e superato, come alcuni critici letterari hanno dimostrato nel loro ambito84. Qualcosa di simile è successo in filosofia a un’altra teoria che ha evidenziato l’isolamento delle cose autonome: l’odiata dottrina della cosa in sé oltre qualsiasi accesso umano. Qui abbiamo attraversato la lunga ombra del filosofo tedesco Immanuel Kant, le cui tre grandi Critiche sembravano rispettivamente le note dominanti della metafisica, dell’etica e dell’estetica. Vedremo che il formalismo kantiano, giustamente centrato sul termine ricorrente “autonomia”, consiste in una combinazione intrigante di innovazioni e carenze. Finché tali carenze non saranno trattate e assimilate, piuttosto che aggirate con mezzi improvvisati, come la vacua pretesa che l’autonomia sia intrinsecamente “borghese” o “feticista”, c’è il rischio che la filosofia e le arti – visto che i loro destini sono legati più strettamente di quanto comunemente si creda – continuino a essere poco più di un ironico spregio delle pretese formaliste85. Ritengo che questo sia esattamente ciò che è accaduto con la prima filosofia post-formalista (meglio nota come Idealismo tedesco) e, un secolo e mezzo dopo, con l’arte post-formalista. In entrambi i casi, si sono aperte possibilità nuove e importanti, che erano state precluse al formalismo, ma si è rinunciato a un’innovazione ancora più cruciale. Una delle più ampie rivendicazioni di questo libro è che non ci sarà nessun ulteriore progresso nella filosofia o nell’arte senza un’esplicita accettazione dell’autonoma cosa in sé. Oltre a ciò, bisogna trarre le sorprendenti conseguenze teatrali di questo aspetto, nonostante il comprensibile desiderio di Fried di bandire la teatralità dall’arte. David Wellbery ribadisce la posizione di Fried con una retorica meravigliosa e sfavillante:


L’istigazione (essenzialmente ‘teatrale’) di un anelito frustrato, di un vertiginoso senso del trasporto verso l’irraggiungibile completamento di una serie aggiuntiva, suscita una forma di coscienza che è essenzialmente non artistica. Il pensiero, la differenziazione interna all’opera, la lucidità e la conquista autonoma sono sacrificati in nome del frisson di una vacuità misteriosamente agitata e portentosa.86


Schieriamoci tutti contro la “vacuità misteriosamente agitata e portentosa” – per quanto io riscontri ancora un grande valore estetico nelle opere di Richard Wagner, che Wellbery sembra detestare. L’idea di teatralità difesa in questo libro non è quella del melodramma istrionico.


Nel 2016 ho trattato questi temi nel libro Dante’s Broken Hammer, la cui prima parte è dedicata alla Divina Commedia di Dante Alighieri, mentre la seconda mette in discussione il pensiero di una figura poco dantesca, Kant87. Com’è stato affermato in precedenza, autonomia è forse il termine più importante utilizzato da Kant, in quanto unifica le principali intuizioni di tutte e tre le Critiche. La sua metafisica presenta l’inconoscibile cosa in sé, irraggiungibile in modo diretto; opposto alla cosa noumenica è il pensiero umano, strutturato secondo le nostre intuizioni pure di spazio e tempo e le dodici categorie dell’intelletto88. Ognuno di questi ambiti è autonomo, anche se Kant parla in maniera contraddittoria della cosa in sé come causa del mondo dell’apparenza, un’inconsistenza su cui il maestro è stato fustigato dalla sua prima generazione di proseliti89. In campo etico, Kant dichiara apertamente la sua aderenza al formalismo90. Un’azione non è etica se è motivata da qualunque genere di premio o punizione dall’esterno, sia esso la paura dell’Inferno, il desiderio di una buona reputazione o il desiderio di evitare la cattiva coscienza. Un’azione è etica solo se è compiuta per se stessa, in accordo con un dovere che accomuna tutti gli enti razionali. In termini tecnici, l’etica deve essere “autonoma” piuttosto che “eteronoma”. Le sottigliezze contestuali non hanno alcun ruolo nell’etica kantiana: secondo il suo più famoso esempio, mentire non è mai giustificabile, anche se è fatto con le migliori intenzioni e ottiene i migliori risultati. Infatti, il contesto deve essere rigorosamente escluso, affinché un’azione sia considerata davvero etica.


Ciò conduce alla filosofia kantiana dell’arte, un altro trionfo del formalismo, sebbene l’autore non utilizzi tale parola in questo ambito del suo pensiero91. Il bello deve essere autonomo esattamente come le azioni etiche, indipendentemente da qualsiasi piacevolezza individuale. Qui come nell’etica, per Kant non è in gioco l’oggetto artistico, che non può essere colto direttamente più di quanto non avvenga con la cosa in sé, e non può essere spiegato affatto in termini di criteri o descrizioni in prosa letterale. Di contro, il bello riguarda la facoltà trascendentale del Giudizio comune a tutti gli esseri umani, che garantisce che chiunque abbia un gusto sufficientemente sviluppato debba essere d’accordo su ciò che bello. Lo stesso vale per la nostra esperienza del sublime, sia che essa provenga dalla versione “matematica” di qualcosa di infinitamente grande (il cielo notturno, la vastità del mare) o dalla versione “dinamica” di qualcosa di infinitamente potente (il frangersi dello tsunami, l’esplosione di un’arma nucleare). Ancora una volta, qui Kant afferma che il sublime riguarda noi piuttosto che l’ente apparentemente sublime, poiché la caratteristica cruciale del sublime è che sovrasta i nostri sé finiti con un’esperienza di portata infinita.


Nondimeno, Kant mescola due significati molto diversi di formalismo in maniera fatale, in senso negativo, per la filosofia e la teoria dell’arte moderne. Il nocciolo essenziale di verità nella sua etica dovrebbe essere abbastanza chiaro: un’azione il cui scopo è guadagnare premi o evitare punizioni non è veramente etica, anche se non possiamo mai essere del tutto certi che ogni dato atto sia libero da ulteriori motivi. Da qui basta un piccolo passo per riconoscere la verità sostanziale della sua estetica: un’opera d’arte non è bella solo perché ci piace o ci lusinga nella maniera in cui, per esempio, Cesare Augusto legge la lode stucchevole della sua dinastia nell’Eneide di Virgilio92. Nondimeno, ammetto che Kant è eccessivamente specifico nell’affermare cosa deve essere separato da cosa, allo scopo di stabilirne l’autonomia. Per lui, come per gran parte dei pensatori occidentali moderni, i due elementi primari della realtà sono il pensiero umano, da un lato, e tutto il resto (ovvero “il mondo”), dall’altro, ed è tra queste due dimensioni in particolare che bisogna evitare qualsiasi contaminazione. Nell’oppormi a questo sentimento, seguo l’interpretazione della modernità del filosofo francese Bruno Latour in Non siamo mai stati moderni, secondo cui essa consiste nel tentativo di isolare e purificare due zone distinte, chiamate uomo e mondo93.


In ogni caso, se il problema principale di Kant è l’ossessione formalista di separare gli esseri umani da qualunque altra cosa, sappiamo quale figura nella storia intellettuale gli somiglia di meno: si tratta di Dante, che non vuole separare gli umani dal mondo, ma fonderli il più strettamente possibile94. Il cosmo di Dante è notoriamente composto da amore, nel senso della passione di qualcuno per qualcosa, sia essa buona, cattiva o decisamente malvagia. Le unità basilari della realtà per Dante non sono soggetti liberi e autonomi, ma agenti amorosi fusi con o separati dagli oggetti delle loro svariate passioni, e giudicati di conseguenza da Dio. In questo senso, Kant è il perfetto anti-Dante: egli promuove un freddo disinteresse nell’etica come nell’arte, poiché altrimenti il pensiero si fonderebbe con il mondo, visto che, secondo Kant, questi ultimi devono essere tenuti separati a ogni costo.


Nella sua mirabile critica all’etica kantiana, il vivace filosofo tedesco Max Scheler sembra quasi un Dante della filosofia del ventesimo secolo. Scheler ribadisce che Kant ha ragione sul fatto che l’etica debba essere autonoma e non solo uno strumento per conseguire certi “beni e scopi”, tuttavia rimane scettico riguardo a ciò che egli definisce la “sublime vacuità” della chiamata kantiana al dovere universale95. Il modello alternativo di Scheler mostra la mancanza di almeno due caratteristiche salienti nella teoria di Kant. In primo luogo, l’etica non è tanto una questione di dovere interno al pensiero umano, quanto una valutazione delle cose che si amano e si odiano, propriamente o impropriamente: un ordo amoris o gerarchia delle passioni96. In secondo luogo, Scheler considera l’etica di Kant troppo radicalmente universale, visto che una determinata persona, nazione o periodo storico ha una specifica chiamata etica di appartenenza. Più in generale, la teoria di Scheler implica che l’unità basilare dell’etica non è l’uomo pensante isolato dal mondo; l’unità dell’etica è, piuttosto, un composto o ibrido (l’ultimo termine è di Latour), formato dall’agente etico umano e da qualunque cosa questo agente ami oppure odi con sufficiente serietà. L’autonomia etica acquisisce così un nuovo significato: non più una netta separazione tra uomo e mondo, ma tra qualsiasi combinazione specifica uomo-mondo e ciò che la circonda. Bisogna notare che questo non corrisponde a una regressione verso ciò che il filosofo francese Quentin Meillassoux ha sinteticamente definito “correlazionismo”: un tipo di filosofia moderna che si focalizza sulla relazione correlativa tra pensiero e mondo, negandoci il diritto di parlare o altro in maniera isolata. Innanzitutto, sia gli esseri umani che gli oggetti amati rimangono indipendenti dalle loro relazioni, poiché nessuno è pienamente esaurito da queste. E, soprattutto, la relazione etica tra uomo e oggetto è, di per sé, un nuovo oggetto autonomo, la cui realtà non può essere afferrata da nessuno di questi elementi o da un osservatore esterno. Il reale ci comprende dall’alto tanto quanto ci sfugge dal basso.


La rilevanza dell’arte in questa digressione etica sarà forse chiara adesso. Mi pareva che in ambito artistico, fino a poco tempo fa, non vi fosse nessuna figura simile a Scheler in grado di criticare l’estetica di Kant su basi analoghe. Eppure, adesso sembra chiaro che Fried è la persona adatta a questo compito. In effetti, il suo concetto di “assorbimento” sembra mettere in atto il lavoro fondamentalmente kantiano di tenerci a distanza dall’opera d’arte attraverso la cura reciproca dei suoi elementi, risultante in una “chiusura” che garantisce la loro invisibilità allo spettatore. Tuttavia, perfino nel caso di Fried, questo è vero solo per la tradizione anti-teatrale di un certo numero di pittori francesi del diciottesimo e del primo diciannovesimo secolo – come teorizzato dal filosofo Denis Diderot – oltre che per certi precursori dell’avanguardia come Caravaggio97. È stato Fried stesso a mostrare che, dopo l’opera di Jacques-Louis David, diventa sempre più difficile leggere qualsiasi quadro come nettamente teatrale o anti-teatrale – e che, nella carriera cruciale di Edouard Manet, diventa inequivocabile il bisogno da parte di un quadro di affrontare e riconoscere lo spettatore, piuttosto che rinnegarlo e isolarsi98.


Tanto nell’estetica quanto nell’etica, Kant ribadisce la separazione tra gli spettatori disinteressati e gli oggetti da loro contemplati. È interessante notare che Greenberg e Fried lo fanno in maniera opposta rispetto a Kant, chiedendoci di focalizzarci sugli oggetti artistici, sottraendo la parte umana all’equazione. Questo si può vedere nel rifiuto da parte di Greenberg dell’approccio trascendentale kantiano all’arte in favore di qualcosa di più vicino all’empirismo humeano e certamente nell’avversione veemente, seppur condizionata, di Fried per la teatralità99. Kant condivide con Greenberg e Fried il presupposto che il termine “autonomia” debba indicare un tipo specifico di autonomia: quella degli umani rispetto al mondo. Questo probabilmente spiega il disagio provato da Fried nei confronti di alcune recenti tendenze come la teoria latouriana dell’attore-rete, il materialismo vitale di Jane Bennett e la stessa OOO, tutti impegnati in modi diversi ad appiattire il divario kantiano uomo-mondo100. L’analogo estetico dell’etica anti-kantiana di Scheler sarebbe la concezione secondo cui l’unità basilare dell’estetica non è né l’oggetto artistico, né il suo spettatore, ma piuttosto la combinazione tra i due in un nuovo oggetto unico. Malgrado la probabile ostilità di Fried verso questo concetto su basi anti-teatrali, vedremo che egli si avvicina sorprendentemente all’adottarla nel suo lavoro storico. Anche se finirò con il sostenere qualcosa di molto simile alla teatralità, che Fried condanna, questo senza dubbio non distrugge l’autonomia dell’opera d’arte, in quanto l’entità composta da opera e spettatore è un’unità indipendente non subordinata ad alcuno scopo pratico o socio-politico. Questo risultato palesemente insolito ci richiederà di disfarci di una certa quantità di principi tipicamente formalisti in estetica, sebbene non si tratti prevalentemente di quelli che l’arte post-formalista ha ritenuto opportuno abbandonare. Allo stesso tempo, saremo condotti a delle considerazioni nuove e importanti per la filosofia.


Il capitolo 1 (“OOO e arte. Alcune anticipazioni”) presenta una visione d’insieme della teoria estetica della OOO, che concepisce l’arte come attivazione di una frattura tra ciò che chiamiamo oggetti reali (OR) e le loro qualità sensuali (QS). Questo ci condurrà al fenomeno, ritenuto sempre fuori moda, del bello, che noi cogliamo in contrasto con il suo eterno nemico: non il brutto, ma il letterale. Un’analisi della metafora è la via più facile per capire qual è il problema del letteralismo, sebbene anche la metafora risulti avere una struttura teatrale particolarmente chiara, e questo ha implicazioni importanti tanto per la sfera dell’arte visiva quanto per la letteratura.


Il capitolo 2 (“Il formalismo e i suoi difetti”) offre un percorso più dettagliato all’interno della Critica del Giudizio di Kant. L’obiettivo di questo capitolo è rintracciare i punti di forza e di debolezza di questo testo fondativo dell’estetica, che, per molti aspetti, rimane insuperato. Sosterrò che, nonostante l’abbondante dibattito su questo libro, il principio basilare della teoria estetica kantiana è stato ignorato, non superato; per questa ragione, continua a risucchiarci, come un buco nero che cattura i satelliti in fuga. Tra l’altro, affermerò che la distinzione kantiana tra bello e sublime è insostenibile. Non c’è, infatti, nessun sublime, anche ipotizzando di seguire la definizione kantiana di quest’ultimo come ciò che è assolutamente grande o potente. Come ha dimostrato Timothy Morton in Iperoggetti, c’è qualcosa di profondamente antropocentrico negli assoluti e negli infiniti, cosa che Kant potrebbe essere il primo ad ammettere, data la sua interpretazione incredibilmente antropocentrica del sublime101. L’infinito è recentemente tornato in filosofia nelle opere di Alain Badiou e del suo allievo Meillassoux, grazie all’affascinante debito che entrambi hanno con il matematico del transfinito Georg Cantor102. Eppure, sono incline a concordare con Morton sul fatto che numeri finiti molto ampi suscitino maggiore interesse rispetto all’infinito. Certi tipi di bellezza possono offrire un’esperienza di finitudini gigantesche senza realizzare un passaggio, in fin dei conti impossibile, verso l’inesistente sublime, che viene sostituito dalla OOO con il concetto di “iperoggettivo”.


Il capitolo 3 (“Teatrale, non letterale”) analizza l’opera di Fried, la figura più significativa della tradizione formalista, nonostante il suo continuo rigetto del termine. Sosterrò che la critica di Fried al letteralismo è inevitabile, sebbene egli usi il termine “letterale” in senso più ristretto rispetto alla OOO. Qualsiasi arte che si avventura troppo vicino all’orlo del baratro letteralista deve trovare il modo di evitarlo, altrimenti rischia di dissolversi in quanto arte: questo è il più grande problema affrontato dal Dada, anche se non – come dimostrerò – dal suo presunto fratello, il surrealismo. Tuttavia, mentre Fried abbina il letteralismo alla teatralità, io ritengo che i due si trovino ai poli opposti. In effetti, evitiamo la distruzione letteralista dell’arte proprio attraverso la teatralità, in quanto essa sola conduce l’arte alla vita. Vi è l’ulteriore complicazione che, per Fried, la teatralità non è qualcosa che può semplicemente essere evitato, considerato che non vi è arte senza spettatore. Nondimeno, quando parla da critico d’arte contemporanea, “teatrale” è l’aggettivo a cui Fried ricorre per le opere che non riescono a stupirlo, e non concordo con questo utilizzo.


Nel capitolo 4 (“La tela è il messaggio”) ci volgiamo a Greenberg, focalizzandoci sulle limitazioni tipiche del suo efficace modo di pensare. Allontanandosi da una tradizione sempre più accademica di pittura illusionistica tridimensionale, l’avanguardia modernista è scesa a patti con l’essenziale piattezza del suo medium: quella della tela di sfondo. Questa svolta verso lo sfondo piatto ha almeno due conseguenze. La prima è la consistente denigrazione di Greenberg del contenuto pittorico, che egli tende a respingere come mero aneddoto letterario in grado di suggerire un’illusione di profondità. Il secondo, notato raramente o addirittura mai, è che la piattezza del medium di sfondo della tela è considerata un’unità priva di parti. Riguardo a quest’ultimo punto, Greenberg ha molto in comune con Martin Heidegger, filosofo corrotto ma cruciale, che spesso ridicolizza la superficie del mondo e i suoi svariati enti visibili in quanto “ontici” e non ontologici. Heidegger mostra inoltre una fastidiosa riluttanza nel concepire l’Essere come pre-disperso in numerosi enti singolari, la cui molteplicità egli tende a ritrarre come correlato dell’esperienza umana. È l’adozione di questo pregiudizio a impedire a Greenberg di cogliere l’importanza del contenuto pittorico.


Il capitolo 5 (“Dopo l’alto modernismo”) esamina alcune tra le modalità più note con cui l’alto modernismo sostenuto da Greenberg e Fried è stato rifiutato. Mi focalizzerò qui su quelle che non assumono un ruolo significativo negli altri capitoli di questo libro. Bisognerebbe, innanzitutto, dire qualcosa su Harold Rosenberg e Leo Steinberg, due contemporanei di Greenberg, spesso ritratti come suoi rivali. Mi volgerò quindi alle figure più recenti di T.J. Clark, Rosalind Krauss e Jacques Rancière, anche se il modo in cui tratterò ciascuna di queste figure potrà dare necessariamente solo un’indicazione approssimativa di come le mie prospettive differiscono dalle loro.


Nel capitolo 6 (“Dada, surrealismo e letteralismo”) ci volgiamo all’enigmatica affermazione di Greenberg, secondo cui sia il Dada sia il surrealismo sono forme di arte “accademica”. Il problema di trattare allo stesso modo entrambi i movimenti è che, sebbene essi, nella storia della cultura, siano ampiamente collegati in quanto correnti sovrapposte di opposizione irriverente, secondo i principi di Greenberg conducono in direzioni opposte. Mentre i surrealisti mantengono il tradizionale medium della pittura illusionistica del diciannovesimo secolo, allo scopo di attirare la nostra attenzione sul suo contenuto straordinario, il Dada di Duchamp offre il contenuto più banale che si possa immaginare (una ruota di bicicletta, un collo di bottiglia) nel tentativo di mettere in discussione ciò che per noi conta come oggetto artisticamente valido. Utilizzando un’analogia proveniente dalla filosofia heideggeriana, affermo che il Dada e il surrealismo sono diametralmente opposti nel modo in cui vanno a smantellare il letteralismo, dimostrando successivamente che non si tratta di allontanamenti radicali dalla storia dell’arte occidentale.


Il capitolo 7 (“Uno strano formalismo”) conclude il libro. Innanzitutto, consideriamo il presente stato dell’arte come sorvegliato da un osservatore ben informato: Hal Foster. In secondo luogo, data l’affermazione molto insolita dei primi sei capitoli, secondo cui lo spettatore e l’opera costituiscono teatralmente un nuovo oggetto, un oggetto terzo, questo capitolo si chiede cosa possa implicare questa concezione. Riguardo al termine “strano”, non si tratta di pura provocazione, ma di un termine tecnico che la OOO trae dai romanzi di H.P. Lovecraft. Lo strano formalismo è tale da non riguardare né l’oggetto, né il soggetto, ma l’inesplorata interiorità della loro unione.


A questo proposito, si vedano G. Harman, Aesthetics as First Philosophy: Levinas and the Non-Human, in “Naked Punch”, vol. 9, 2007, pp. 21-30; Id., The Third Table, in C. Christov-Bakargiev (a cura di), The Book of Books, Hatje Cantz, Ostfildern 2012, pp. 540-542; Id., Art Without Relations, in “ArtReview”, vol. 66, n. 66, 2014, pp. 144-147; Id., Greenberg, Duchamp, and the Next Avant-Garde, in “Speculations”, vol. 5, 2014, pp. 251-274; Id., The Revenge of the Surface: Heidegger, McLuhan, Greenberg, in “Paletten”, voll. 291-292, 2013, pp. 66-73; Id., Materialism is Not the Solution: On Matter, Form, and Mimesis, in “Nordic Journal of Aesthetics”, vol. 47, 2014, pp. 94-110. Si veda anche T. Morton, Realist Magic: Objects, Ontology, Causality, Open Humanities Press, Ann Arbor (MI), 2013.


Si veda G. Harman, Aesthetics as First Philosophy, cit.


Si vedano Id., On the Undermining of Objects: Grant, Bruno, and Radical Philosophy, in L. Bryant, N. Srnicek, G. Harman (a cura di), The Speculative Turn: Continental Materialism and Realism, re.press, Melbourne 2011, pp. 21-40; Id., Undermining, Overmining, and Duomining: A Critique, in J. Sutela (a cura di), ADD Metaphysics, Aalto University Design Research Laboratory, Aalto 2013, pp. 40-51.


Si vedano Id., The Third Table, cit.; A.S. Eddington, The Nature of the Physical World, Macmillan, New York 1929; tr. it. di C. Cortese De Bosis, L. Gialanella (a cura di), La natura del mondo fisico, Laterza, Bari 1935.


Si veda W. Sellars, Philosophy and the Scientific Image of Man, in The Space of Reasons, Harvard University Press, Cambridge (MA) 2007, pp. 369-408; tr. it. di A. Gatti (a cura di), La filosofia e l’immagine scientifica dell’uomo, Armando, Roma 2007.


Si vedano G. Harman, Greenberg, Duchamp, and the Next Avant-Garde, cit.; Id., Dante’s Broken Hammer: The Ethics, Aesthetics, and Metaphysics of Love, Repeater Books, London 2016. Cfr. C. Greenberg, Late Writings, University of Minnesota Press, Minneapolis 2003, pp. 45-49.


Cfr. R. Pippin, Why Does Photography Matter as Art Now, as Never Before? On Fried and Intention, in M. Abbott (a cura di), op. cit., p. 60, nota 6.


Cfr. C. Colebrook, No Kant, Not Now: Another Sublime, in “Speculations”, vol. 5, p. 145.


M. Ragona, Comunicazione personale, 5 agosto 2017. Citata con il permesso dell’autrice.


H. Veseli, Comunicazione personale, 4 dicembre 2016. Citata con il permesso dell’autore.


Si veda soprattutto lo splendido Forms di Caroline Levine: C. Levine, Forms: Whole, Rythm, Hierarchy, Network, Oxford University Press, Oxford 2015.


Persino una figura come Hal Foster scivola nel tropo “feticista”. Cfr. H. Foster, The Return of the Real: The Avant-Garde at the End of the Century, MIT Press, Cambridge (MA) 1996, pp. 108-109; B. Carneglia (a cura di), Il ritorno del reale. L’avanguardia alla fine del Novecento, Postmedia Books, Milano 2007. Cfr. anche i suoi relativi attacchi agli alleati della OOO Jane Bennett e Bruno Latour in Id., Bad New Days: Art, Criticism, Emergency, MIT Press, Cambridge (MA) 1996, cap. 5; G. Romano (a cura di), Bad New Days. Arte, critica, emergenza, Postmedia Books, Milano 2019. Si può trovare un altro esempio recente in J.J. Charlesworth, J. Heartfield, Subjects v. Objects, in “Art Monthly”, vol. 374, 2014, pp. 1-4. Per una risposta generale all’affermazione secondo cui il realismo degli oggetti è una forma di feticismo, si veda G. Harman, Object-Oriented Ontology and Commodity Fetishism; Kant, Marx, Heidegger, and Things, in “Eidos”, vol. 2, 2017, pp. 28-36, http://eidos.uw.edu.pl/filed/pdf/eidos/2017-02/eidos_2_harman.pdf.


D.E. Wellbery, Schiller, Schopenhauer, Fried, in M. Abbott (a cura di), op. cit., p. 84.


Si veda D. Alighieri, Commedia. Opera completa, a cura di G. Inglese, Carocci, Roma 2016.


Si vedano I. Kant, Kritik der reinen Vernuft, Hartknock, Riga 1781; tr. it. di G. Gentile, G. Lombardo-Radice (a cura di), Critica della Ragion Pura, Laterza, Roma-Bari 2000; Id., Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können, Hartknock, Riga 1783; tr. it. di P. Carabellese, R. Assunto, H. Hohenegger (a cura di), Prolegomeni ad ogni futura metafisica che potrà presentarsi come scienza, Laterza, Roma-Bari 2006.


Un classico esempio è costituito da S. Maimon, Versüch uber die Transcendentalphilosophie, Voss und Sohn, Berlin 1790; tr. it. di S. Volpato (a cura di), Saggio sulla filosofia trascendentale, Aracne, Roma 2019.


Si vedano I. Kant, Kritik der praktischen Vernuft, Hartknock, Riga 1788; tr. it. di F. Capra, S. Landucci (a cura di), Critica della Ragion Pratica, Laterza, Roma-Bari 2003; Id., Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, Hartknock, Riga 1785; tr. it. di F. Gonnelli (a cura di), Fondazione della metafisica dei costumi, Laterza, Roma-Bari 1997.


Si veda Id., Kritik der Urteilskraft, Kerlbach, Leipzig 1790; tr. it. di A. Gargiulo, P. D’Angelo, V. Verra (a cura di), Critica del Giudizio, Laterza, Roma-Bari 1997.


Si veda Virgilio, Eneide, a cura di M. Ramous, Marsilio, Venezia 2018.


Si veda B. Latour, Nous n’avons jamais été modernes. Essai d’anthropologie symétrique, La Découverte, Paris 1991; tr. it. di G. Lagomarsino, C. Milani (a cura di), Non siamo mai stati moderni, Elèuthera, Milano 2018. Vi è un’altra interpretazione della modernità – o almeno delle sue forme degenerate – che la legge in maniera opposta, come un’impropria mescolanza tra pensiero e mondo. Ciò si riscontra nell’apprezzabile polemica contro il “correlazionismo” da parte di Quentin Meillassoux in Dopo la finitudine, che nondimeno concorda con la posizione di Latour sul fatto che pensiero e mondo costituiscono per i moderni i due componenti basilari della realtà. In questo libro mi focalizzerò sull’interpretazione latouriana della “purezza” della modernità invece che sulla versione “impura” di Meillassoux, visto che la posizione di Latour è più pertinente all’estetica kantiana e al formalismo nelle arti.


Si vedano D. Alighieri, Commedia, cit.; Id., Vita nova, a cura di S. Carrai, Rizzoli, Milano 2009.


Si veda M. Scheler, Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik, Niemeyer, Halle 1916; tr. it. di R. Guccinelli (a cura di), Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, Bompiani, Milano 2013.


Si veda Id., Ordo amoris, in Schriften aus dem Nachlass, vol. 1, Der Neue Geist, Berlin 1933; tr. it. di L. Iannascoli (a cura di), Ordo amoris, Aracne, Roma 2010.


Si vedano D. Diderot, Salons des 1765 et 1767, in Oeuvres, a cura di J.-A. Naigeon, Deterville, Paris 1800, voll. 13, 14, 15; tr. it. di M. Mazzocut-Mis, M. Modica (a cura di), I salons, Bompiani, Milano 2021; M. Fried, The Moment of Caravaggio, Princeton University Press, Princeton 2010.


Si vedano M. Fried, Absorption and Theatricality: Painting and Beholder in the Age of Diderot, University of Chicago Press, Chicago 1988; Id., Manet’s Modernism: or, The Face of Painting in the 1860’s, University of Chicago Press, Chicago 1996.


Si vedano C. Greenberg, Homemade Esthetics: Observations on Art and Taste, Oxford University Press, Oxford 2000; M. Fried, Art and Objecthood: Essays and Reviews, University of Chicago Press, Chicago 1998.


Si vedano B. Latour, Reassembling the Social: An Introduction to Actor-Network Theory, Oxford University Press, Oxford 2005; J. Bennett, Vibrant Matter: A Political Ecology of Things, Duke University Press, Durham 2010. Ho avuto l’opportunità di sollevare questo problema con Fried di persona il 10 febbraio 2018 durante la sua visita a Los Angeles, e nel rispondere egli è stato molto gentile e diretto.


Cfr. T. Morton, Hyperobjects: Philosophy and Ecology After the End of the World, University of Minnesota Press, Minneapolis 2013; tr. it. di V. Santarcangelo (a cura di), Iperoggetti, Produzioni Nero, Roma 2018, p. 85.

Si vedano A. Badiou, L’Être et l’Événement, Seuil, Paris 1988; tr. it. di P. Cesaroni, M. Ferrari, G. Minozzi (a cura di), L’essere e l’evento, Mimesis, Milano-Udine 2018; Q. Meillassoux, Après la finitude. Essai sur la nécessité de la contingence, Seuil, Paris 2006; tr. it. di M. Sandri (a cura di), Dopo la finitudine. Saggio sulla necessità della contingenza, Mimesis, Milano-Udine 2012.

1

OOO E ARTE


ALCUNE ANTICIPAZIONI


Iniziamo con una panoramica dei principi basilari della OOO, visto che non si può dare per scontato che tutti i lettori di questo libro abbiano familiarità con tali questioni. La filosofia orientata agli oggetti fa perno su due assi principali di ripartizione, uno dei quali è solitamente ignorato dai nostri critici e, talvolta, anche dai nostri sostenitori. Il primo e più noto asse riguarda la differenza concernente ciò che la OOO definisce come ritrarsi o nascondersi degli oggetti. Un martello o una candela è presente a noi e, tuttavia, è anche di più di ciò che è presente a noi. Sebbene possa sembrare che si tratti di una semplice ripetizione dell’impopolare frattura kantiana tra noumeno e fenomeno, ovvero tra cosa in sé e apparenza, la OOO attua la svolta cruciale secondo cui la cosa in sé non turba solo la conoscenza umana del mondo, ma si trova anche nelle relazioni causali che intercorrono tra le cose non umane. Se è vero che parecchi pensatori a partire da Kant hanno fatto spazio a un eccesso, a un surplus, o a un’alterità del mondo al di là della nostra percezione o teorizzazione di esso – specialmente Heidegger – nessuno, per quanto ne sappia, ha notato che questo residuo non formattato esiste anche nelle relazioni che non riguardano gli umani. Il secondo asse, spesso dimenticato, riguarda la connessione tra gli oggetti e le loro qualità, che la OOO considera insolitamente libera. Questo è in contrasto con la diffusa tendenza empiristica a trattare gli oggetti come nient’altro che un mucchio di qualità, come se la “mela” fosse semplicemente un nomignolo che accomuna una serie di caratteristiche tangibili, tenute insieme dall’abitudine, come nella filosofia di David Hume103. Questi due assi congiunti formano una struttura quadruplice che la OOO impiega come quadro complessivo per chiarire tutto ciò che accade nel cosmo, sia nell’arte che altrove. Il modo migliore per esplicitare questi punti è iniziare con due tra i più grandi e recenti filosofi europei: il fenomenologo Edmund Husserl e il suo deviante erede Heidegger.


L’intuizione di Heidegger: velamento e svelamento


Kant ha iniziato la sua rivoluzione filosofica con tre grandi opere pubblicate in meno di dieci anni: Critica della Ragion Pura (1781), Critica della Ragion Pratica (1788) e Critica del Giudizio (1790). I temi di questi libri si possono rispettivamente sintetizzare in metafisica, etica e arte, sebbene la terza opera tratti anche argomenti di biologia. Per il momento, focalizziamoci sulla Critica della Ragion Pura. La concezione principale di Kant è la sua distinzione tra fenomeno e noumeno, noti anche come apparenza e cosa in sé, sebbene alcuni studiosi trovino delle sottili distinzioni tra queste coppie di termini. Kant ritiene che i suoi predecessori siano dediti alla filosofia “dogmatica”, termine con cui indica il tentativo di offrire risposte definitive sulla realtà attraverso argomenti razionali. Per esempio, questo potrebbe comprendere i tentativi di dimostrare che la libertà umana esiste o non esiste, che la materia fisica è o non è fatta di particelle invisibili, che lo spazio e il tempo hanno o non hanno un inizio e una fine, oppure che Dio deve esistere o non è necessario che esista. Kant racchiude questi quattro argomenti nel titolo comprensivo di “antinomie” e conclude che è inutile cercare prove filosofiche per ognuna di esse, in quanto la loro soluzione ricade, in un modo o nell’altro, oltre i limiti della diretta conoscenza umana.


Le accuse di Kant al dogmatismo fanno perno sull’affermazione che la cognizione umana è finita. Qualsiasi accesso umano al mondo sembra avvenire nelle tre dimensioni dello spazio e del tempo irreversibile, e in una struttura di dodici “categorie” fondamentali che definiscono l’esperienza umana della realtà: causa ed effetto al posto di eventi casuali, la distinzione tra uno e molti, e altre simili caratteristiche rudimentali del mondo come lo conosciamo. Tuttavia, dato che siamo umani, e che dunque incontriamo il mondo in una maniera specificamente umana, non abbiamo modo di sapere se le condizioni della nostra esperienza si applicano al mondo a prescindere dalla nostra modalità di accedervi. Forse Dio e gli angeli fanno esperienza di un mondo senza spazio e tempo, o relazioni causali. Andando oltre le osservazioni di Kant, forse lo stesso vale per gli alieni iper-intelligenti o per diverse specie animali. Il fatto di essere reclusi nella finitudine umana indica che dobbiamo limitare le pretese della ragione; la filosofia non può più occuparsi della realtà a prescindere da noi o del “trascendente”. La filosofia deve, invece, limitarsi a determinare le condizioni basilari valide per qualsiasi accesso umano al mondo. In maniera alquanto confusa, Kant chiama queste condizioni “trascendentali”, una parola che purtroppo è molto vicina a “trascendente”, che, come abbiamo visto, ha un significato completamente diverso. Mentre i filosofi dogmatici pretendevano di volgersi direttamente alla realtà trascendente, Kant ribadisce che il nostro accesso si limita soltanto al trascendentale.


È ironico che, malgrado la carriera di tutti i più grandi filosofi occidentali dagli anni ’80 del Settecento fosse potenzialmente determinata dal modo in cui assimilavano Kant, la sua concezione fondamentale della cosa in sé sia stata quasi universalmente rigettata. L’inconoscibile noumeno è stato spesso disprezzato come una forma residua di platonismo o cristianesimo, che ingiuria il mondo dei corpi, dei piaceri e delle forze di affermazione della vita che invece dovremmo esaltare, come nella filosofia di Friedrich Nietzsche. Eppure, gli eredi diretti di Kant, i cosiddetti idealisti tedeschi da Fichte a Hegel, pongono dall’interno un’importante obiezione al quadro concettuale kantiano. Nello specifico, se pretendiamo di pensare una cosa in sé al di fuori del pensiero, questa è essa stessa un pensiero; da questo punto di vista, Kant sembra commettere ciò che successivamente sarà definita come “contraddizione performativa”104. Visto che pensare una cosa al di fuori dal pensiero è comunque un pensiero, la distinzione tra apparenza e cosa in sé risulta interamente contenuta nella sfera del pensiero. Questa linea argomentativa è ciò che consente a Hegel di affermare una nuova sorta di “infinito” per la filosofia, sostituendo la finitudine di Kant con un’assoluta conciliazione tra soggetto e oggetto attraverso un movimento dialettico di posizione e negazione. L’idealismo tedesco ha influenzato parecchi filosofi contemporanei e oggi è molto presente, all’interno del pensiero europeo, in quella linea che va da Slavoj Žižek e Badiou fino a Meillassoux, celebre discepolo di quest’ultimo. Nessuno di questi autori manifesta simpatia per la cosa in sé kantiana: affermano tutti, ciascuno in maniera differente, che il soggetto umano può avere accesso all’assoluto. Possiamo notare che la OOO si oppone attivamente a questa tendenza – che essa definisce “neo-modernismo” o “epistemicismo” – e ritiene che la riaffermazione della cosa in sé sia la chiave per il futuro progresso della filosofia, anche se in modo differente rispetto a come lo immaginava Kant. Per quanto riguarda il presente libro, è importante sottolineare che la OOO ritiene altresì che l’eliminazione della cosa in sé vanifichi qualsiasi sforzo di individuare la natura delle opere d’arte, in quanto ci priva della possibilità di disarmare il letteralismo.


Un altro modo di rifiutare la cosa in sé e affermare l’accesso diretto all’assoluto si trova nella fenomenologia di Husserl. Nato in Moravia in quello che allora era l’Impero austro-ungarico, la svolta di Husserl dalla matematica alla filosofia ebbe luogo a Vienna sotto la tutela del carismatico ex sacerdote Franz Brentano, che era anche il maestro dello psicanalista Sigmund Freud. Il contributo più celebre di Brentano alla filosofia è stato quello di rilanciare il concetto medievale di intenzionalità, che non si riferisce all’“intento” di un’azione umana, come il termine spesso suggerisce erroneamente ai principianti. La preoccupazione di Brentano, invece, era chiedersi in che modo la psicologia differisse dalle altre scienze105. Egli affermava che la principale caratteristica del dominio mentale è che ogni atto è diretto a un oggetto. Se percepiamo, giudichiamo, oppure amiamo e odiamo, allora percepiamo qualcosa, giudichiamo qualcosa, amiamo oppure odiamo qualcosa. Si potrà immediatamente obiettare che a volte percepiamo cose che non ci sono realmente: abbiamo allucinazioni, formuliamo confusi errori di giudizio, o andiamo eticamente fuori strada amando e odiando cose immaginarie. Qual è, allora, la relazione tra gli oggetti dei miei atti mentali e gli oggetti “reali” che possono esistere al di là di essi? Brentano non dà indicazioni sufficienti sulla questione. Egli dice che l’intenzionalità mira agli oggetti immanenti, ovvero agli oggetti che si presentano direttamente alla mente, e non – come sostengono frequenti letture errate – agli oggetti situati oltre. Malgrado l’eredità aristotelica dovuta alla formazione cattolica e la volubile avversione per l’idealismo tedesco, la sua filosofia mostra un persistente atteggiamento idealistico, o perlomeno agnostico, verso il mondo esterno.


I numerosi e talentuosi allievi di Brentano si sono occupati di precisare questo aspetto nebuloso del suo insegnamento106. Uno degli sforzi migliori in questa direzione è stato compiuto dal brillante discepolo polacco Kazimierz Twardowski, in una tesi provocatoria del 1894, intitolata Sulla dottrina del contenuto e dell’oggetto delle presentazioni107. L’affermazione più importante di quest’opera è che gli atti intenzionali sono doppi, diretti sia all’oggetto esterno alla mente, sia a un contenuto specifico interno alla mente. Sebbene Twardowski fosse di sette anni più giovane di Husserl, era inizialmente a un livello più avanzato, considerato che Husserl era passato dalla matematica alla filosofia relativamente tardi nella sua carriera studentesca. Infatti, una buona parte delle opere giovanili di Husserl si può considerare uno scontro prolungato con il raddoppiamento di Twardowski tra oggetto e contenuto. Ciò che preoccupava Husserl era che, seguendo quel modello, non ci fosse modo di riconciliare le due dimensioni per rendere possibile la conoscenza in atto: era una variante della questione che turbava la lettura kantiana degli idealisti tedeschi. Secondo quanto affermava Husserl al tempo, come potrebbero esserci due Berlino, una come contenuto interno alla mente e l’altra come oggetto esterno? In quel caso, le due Berlino non potrebbero entrare in contatto e la conoscenza di Berlino sarebbe impossibile108. Tale questione condusse Husserl alla sua svolta filosofica, che corrispondeva a un idealismo radicale, nonostante le ripetute smentite da parte persino dei suoi attuali sostenitori. La soluzione, nello specifico, era che la stessa Berlino fosse puramente immanente: non perché esista soltanto nella mente, ma perché non c’è nessuna differenza di rilievo tra ciò che è nella mente e ciò che è nella realtà. La cosa in sé al di fuori del pensiero è per Husserl un concetto assurdo; non vi sono oggetti che non possano essere, almeno in linea di principio, oggetti di un atto intenzionale da parte di una mente. Parlare di Berlino è parlare di Berlino in sé, non solo di una Berlino interna alla mia mente. Essere la Berlino reale non è essere una Berlino in sé oltre la possibilità di accesso del pensiero, ed essere la Berlino per la coscienza non è essere una pura finzione mentale priva di correlato oggettivo. Al contrario, la Berlino reale e la Berlino mentale sono la medesima cosa e occupano entrambe lo stesso spazio ontologico. In breve, Husserl rifiuta la distinzione kantiana tra mondo fenomenico e mondo noumenico. La più grande differenza tra Husserl e Hegel (un altro celebre critico della cosa in sé) è che Husserl è molto più interessato agli oggetti, i quali – sebbene siano immanenti al pensiero razionale – nondimeno hanno contorni poco nitidi e profili elusivi che devono essere attentamente analizzati. Per questa ragione, Husserl si sente spesso un realista alla deriva in un mondo di oggetti indipendenti, cosa che non si può dire di Hegel, anche se Husserl rifiuta i noumeni in maniera altrettanto decisa. La filosofia per Husserl deve essere fenomenologia: non perché – come nel caso di Hegel – abbiamo bisogno di descrivere i vari stadi che il soggetto pensante attraversa nel rendersi consapevole più concretamente del mondo, ma perché la dimensione fenomenica è piena di oggetti traslucidi che possono essere illuminati solo attraverso una descrizione minuziosa. Il mondo è già lì davanti a noi per essere esaminato razionalmente, senza nessun noumeno “assurdo” che si trovi oltre ogni possibile accesso mentale. Come Hegel, Husserl è idealista e razionalista; a differenza di Hegel, è affascinato da tutti i tipi di enti specifici – cassette della posta, merli, battaglie immaginarie tra centauri – che possono essere compresi solo quando i loro concreti profili sensuali vengono analizzati e le loro proprietà essenziali sono separate da quelle inessenziali. Vedremo presto che Husserl è molto più di questo, ma prima dobbiamo parlare dello sforzo compiuto dal suo allievo Heidegger nello sfidare e radicalizzare la fenomenologia.


Il giovane Heidegger sentì la chiamata della filosofia dopo aver letto la tesi giovanile di Brentano sui differenti significati di “essere” in Aristotele109. Imparò presto che Husserl era considerato uno dei più importanti discepoli di Brentano e, per puro caso, Husserl venne chiamato a ricoprire una cattedra all’Università di Friburgo, in Germania, dove Heidegger era già iscritto. Tra i due si instaurò una forte collaborazione, nonostante i trent’anni di differenza, e Husserl giunse a considerare Heidegger come suo erede intellettuale. Tuttavia, le aspettative di Husserl vennero deluse, in quanto, nel giro di poco tempo, Heidegger diede un’interpretazione indipendente della fenomenologia. Abbiamo visto che il metodo fenomenologico implica la descrizione delle cose come appaiono a noi, separando attentamente il grano dalla pula, in modo da scoprire, attraverso le capacità dell’intelletto, le caratteristiche essenziali di tutti gli oggetti mondani, invece dei loro profili transeunti percepiti dai sensi. Tuttavia, nel corso di lezioni giovanili tenuto a Friburgo quando Heidegger aveva ventinove anni, intitolato Verso la definizione di filosofia, è già visibile la sua decisa rottura con Husserl110.


Il nostro modo originario di rapportarci al mondo, dice Heidegger ai suoi studenti, non ha luogo attraverso una coscienza diretta di esso, come sostiene la fenomenologia. Ci rapportiamo perlopiù alle cose in quanto utilizzabili, nel senso che le diamo inconsciamente per scontate invece di incontrarle sensualmente o intellettualmente. Per esempio, il leggio nella sala conferenze è qualcosa a cui solitamente il professore non pensa in modo esplicito. Potremmo ribadire lo stesso concetto riguardo all’ossigeno nella stanza o agli organi corporei del professore e degli studenti, tutti solitamente invisibili, a meno che un disastro ambientale o sanitario non ci conduca a notarli. In breve, il mondo fenomenico, che per Husserl è originario, per Heidegger sorge inizialmente da un sistema invisibile di enti di sfondo. In molti casi questi non sono direttamente osservati dalla mente, ma ci si avvale di essi o li si usa pre-teoreticamente. Il nostro mondo della vita è ricco di utilizzabili, tutti tacitamente intesi come finalizzati agli scopi umani. Questo passo segna il rifiuto del presupposto basilare della fenomenologia: non è proprio il caso, ritiene Heidegger, che l’apparenza intra-mentale sia la modalità originaria del nostro incontro con il mondo.


Nel decennio successivo egli continuò a sviluppare questo modello, che culminò nel suo capolavoro del 1927, Essere e tempo, considerato da molti – me compreso – l’opera filosofica più importante del ventesimo secolo111. Qui Heidegger offre una versione ancora più dettagliata della sua analisi dei mezzi. Un martello solitamente non viene notato, ma silenziosamente vi si fa affidamento, in quanto ci aiuta a ottenere un altro scopo più consapevole. Ci aiuta a costruire una casa e la casa, a sua volta, sostiene la nostra aspirazione a restare al riparo e al caldo, che a sua volta fornisce supporto per una più complessa vita familiare e per la salute individuale. Tutti gli utilizzabili nel nostro ambiente sono legati in un sistema olistico, cosicché, per un certo verso, non c’è nessun utilizzabile in senso singolare. Questa situazione di olismo inconscio può essere turbata in diversi modi, di cui i più noti hanno luogo quando gli utilizzabili si rompono o falliscono. Se il martello si frantuma in pezzi, è troppo pesante, oppure è inefficace, e la nostra attenzione viene immediatamente catturata da questo singolo utensile. Solo a questo livello tardo e derivativo il martello diviene finalmente un fenomeno singolare, visualizzato direttamente dalla mente nel senso inteso da Husserl.


Nei decenni successivi Heidegger ha ottenuto una grande influenza e attualmente viene preso sul serio anche nei circoli di filosofia analitica, che tendono a essere allergici ai filosofi della tradizione continentale di impostazione franco-tedesca. Sfortunatamente, l’interpretazione dominante di Heidegger ne limita l’importanza, riducendo la sua intuizione a una banale forma di pragmatismo. Si dice che la principale lezione di Heidegger sia la seguente: prima di qualsiasi accesso teoretico o percettivo alle cose, ci rapportiamo a esse attraverso un insieme di pratiche inconsce di sottofondo, olisticamente determinato dal contesto socio-ambientale complessivo112. Tuttavia, tale interpretazione è molto problematica e la OOO è sorta negli anni ’90 proprio in contrapposizione a questa. Innanzitutto, dovrebbe essere chiaro che il nostro contatto pratico con le cose non è più esauriente della nostra consapevolezza teoretica o percettiva di esse. Percepire qualcosa direttamente con la mente non significa catturare la sua realtà per intero: nessuna somma complessiva delle vedute di una montagna, per esempio, potrà mai sostituire l’esistenza di quella montagna, proprio come l’insieme di tutte le sostanze chimiche organiche non esaurisce l’esistenza del loro componente chiave, il carbonio. Anche se Dio potesse cogliere tutti i fianchi di una montagna simultaneamente da ogni possibile punto di vista, non sarebbe sufficiente: la montagna non è semplicemente una somma di vedute, come affermato tacitamente dal filosofo idealista George Berkeley ed esplicitamente dal fenomenologo Maurice Merleau-Ponty113. Al contrario, la montagna è la realtà che rende possibili, in primo luogo, tutte le vedute. In linguaggio heideggeriano, potremmo dire che l’essere della sostanza chimica o della montagna non si può commensurare a nessuna conoscenza o percezione di essa; la montagna è sempre un surplus che non è mai dominato dai nostri sforzi di coglierne le proprietà. E ancora, non è forse egualmente vero per qualsiasi rapporto pratico che abbiamo con un oggetto? Quando usiamo una sostanza chimica per preparare una medicina o un veleno, o quando scaliamo una montagna per il nostro spirito di avventura, anche in questi casi astraiamo certe caratteristiche da questi oggetti, che esistono nella loro pienezza completa e inesausta a prescindere dagli incontri teoretici, percettivi o pratici che abbiamo con essi.


Un modo un po’ più rude di dirlo è che la celebre differenza tra la teoria cosciente, o percezione di una cosa, e il suo uso inconscio è troppo superficiale per essere considerata un’autentica intuizione filosofica. Molto più importante è il divario incolmabile tra l’essere di un ente e qualsiasi rapporto umano, teoretico o pratico, con esso. Un altro modo di considerare la questione è che Heidegger, a differenza di Husserl, involontariamente ravviva il senso della cosa in sé kantiana. Se è vero che Heidegger non si esprime in questo modo, c’è un passaggio, spesso sottovalutato, in cui egli invita direttamente a questa interpretazione. Nel suo notevole libro Kant e il problema della metafisica, pubblicato poco dopo Essere e tempo, egli scrive: “Qual è il significato della lotta, iniziata nell’idealismo tedesco, contro la cosa in sé, se non un crescente oblio di ciò che Kant ha conquistato, ovvero […] l’originale sviluppo e lo studio approfondito del problema della finitudine umana?”114.


In definitiva, però, non sono le affermazioni di Heidegger ad autorizzarci a interpretare la sua analisi dei mezzi come rinviante al noumeno kantiano. Gli esperimenti di pensiero spesso vengono capiti meglio da figure successive ai loro autori originari, come dimostra la storia della scienza: viene subito in mente la re-interpretazione ingegnosa da parte di Einstein dell’esperimento di Michelson e Morley sul trascinamento dell’etere. Nel momento in cui ci rendiamo conto che le pratiche inconsce non riescono a cogliere la realtà delle cose, proprio come avviene con la teoria e la percezione, giungiamo a capire che l’analisi dei mezzi non è semplicemente una nuova teoria della ragion pratica, ma la dimostrazione di un surplus noumenico al di là tanto della prassi quanto della teoria. Inoltre, dobbiamo rifiutare l’asserzione heideggeriana che il sistema degli strumenti è olistico, tale che tutti gli strumenti sono collegati in una totalità determinata dagli scopi di un ente umano. Non dobbiamo, infatti, dimenticare che per Heidegger una delle principali caratteristiche degli strumenti è che si possono rompere e che nulla li romperebbe se fossero perfettamente allineati ad altri strumenti nel medesimo ambiente. Un martello può rompersi solo perché ha più caratteristiche – come la debolezza o fragilità – rispetto a quelle che l’attuale sistema pratico può tenere in considerazione. Mentre Kant sembrava porre i noumeni in un mondo diverso e lontano dalla vita quotidiana dell’uomo, Heidegger mostra che la cosa in sé irrompe e sconvolge tutti i pensieri e le azioni in questo mondo. Noi ci limitiamo semplicemente ad accarezzare la superficie delle cose, consapevoli solo in parte che sono molto di più di quanto, a ogni istante, vengono considerati dalla nostra teoria o prassi. In breve, ciò che Heidegger lascia in eredità alla filosofia è un modello di ente individuale impenetrabile ai sensi e all’intelletto umano, ed egualmente opaco all’uso quotidiano. Sebbene egli abbia posto un’attenzione eccessiva al dramma interno all’uomo per poter leggere in questo modo la sua analisi dei mezzi, credo che, se fosse ancora vivo, sarebbe possibile convincerlo di questa interpretazione.


Questa è stata l’originale intuizione motivante della OOO, risalente ai primi anni ’90. La successiva, giunta cinque anni dopo, riguarda un aspetto su cui non vi sarebbe alcuna speranza di convincere Heidegger115. Se è vero che nessun incontro teoretico, percettivo o pratico dell’uomo con gli oggetti può mai esaurire il surplus di realtà delle cose, lo stesso vale anche per gli oggetti non umani nelle loro relazioni reciproche. In definitiva, la frattura tra le cose e il nostro incontro con esse non è il prodotto contingente di una “mente” umana, aliena o animale, ma si verifica automaticamente in qualsiasi relazione. Quando un sasso urta la superficie di uno stagno, il sasso è reale, proprio come lo stagno. Attraverso la loro interazione, essi hanno effetti unilaterali o bilaterali l’uno sull’altro. Tuttavia, è chiaro che il sasso non esaurisce la realtà dello stagno, né lo stagno incontra la piena realtà del sasso. In altri termini, non sono solo gli umani a essere finiti, ma gli oggetti in generale. Il sasso incontra lo stagno in modo “sassoso”, anche se non vi è traccia di coscienza in esso, e similmente lo stagno incontra il sasso in modo “stagnoso”. Lo stesso vale per qualsiasi relazione. I critici della OOO sono spesso turbati da questo aspetto specifico, poiché qui si verifica la rottura con il quadro concettuale kantiano della filosofia moderna, ed è il punto in cui i nostri critici ritengono – erratamente – che ci allontaniamo verso una forma di dubbio panpsichismo. A questo livello parliamo semplicemente della finitezza di tutte le relazioni, senza affermare che ciò richieda un qualsivoglia ricorso alla vita mentale.


Nondimeno, la OOO ha una certa autorità morale derivante da un aspetto ampiamente trascurato nel panorama post-kantiano. L’idealismo tedesco continua a ricevere elogi sontuosi per aver demolito la cosa in sé, tuttavia si nota raramente che il noumeno non è l’unico principio fondamentale di Kant, dunque non è l’unico a essere stato rovesciato. L’altro elemento, più claustrofobico, del pensiero kantiano è l’affermazione che le uniche relazioni di cui possiamo parlare debbano riguardare un ente umano. Vale a dire, per Kant e i suoi successori non c’è modo di parlare della relazione tra il fuoco e il cotone, ma solo della cognizione di entrambi, ovvero di come il primo brucia il secondo. Si tratta del pregiudizio kantiano che l’idealismo tedesco notoriamente preserva, nonostante l’auto-celebrato assassinio del noumeno. La OOO sostiene, di contro, che la radicalizzazione di Kant da parte dell’idealismo tedesco non era solo contingente, ma errata. Sarebbe invece dovuto accadere, dal 1790 in poi, che i concetti kantiani di finitudine e di cosa in sé venissero mantenuti, rimuovendo semplicemente la loro limitazione a casi riguardanti gli esseri umani. In effetti, l’intero cosmo è una drammatica lotta tra gli oggetti e le loro relazioni. Adesso è in ballo il primo principio della OOO, l’unico che gran parte dei critici ha difficoltà a tenere in considerazione: il ritrarsi degli oggetti reali da qualsiasi relazione. Per scoprire il secondo, dobbiamo lasciare Heidegger e tornare a Husserl, questa volta facendo giustizia alla sua eredità fraintesa.


L’intuizione di Husserl: oggetti e qualità


L’ultima volta in cui abbiamo incontrato Husserl, la sua enfasi sulla diretta consapevolezza mentale degli oggetti era stata rovesciata dall’appello di Heidegger ai rapporti prevalentemente taciti con gli enti mondani (che la OOO ha poi sviluppato attraverso una teoria degli oggetti e del loro ritrarsi dalle relazioni con gli umani o altro). Molti ragionamenti riguardanti la differenza tra Husserl e Heidegger si arenano proprio su questo punto: una parte afferma trionfalmente la manovra di Heidegger, l’altra sostiene che Husserl già conoscesse l’essere nascosto delle cose. Quest’ultima affermazione è semplicemente errata, poiché Husserl rifiuta in maniera chiarissima qualunque cosa in sé oltre l’accesso diretto della mente, sebbene questo sia ciò che promuove Heidegger, se viene letto con attenzione. Nondimeno, c’è un importante aspetto del pensiero di Husserl che Heidegger sembra cogliere solo in modo confuso: non la frattura tra l’ente accessibile e il suo essere nascosto, ma la spaccatura tra l’ente medesimo e le sue qualità mutevoli.


Gli empiristi, che ci esortano a limitare l’attenzione a ciò di cui facciamo esperienza diretta, sono generalmente scettici riguardo a qualsiasi concetto di “oggetto”, inteso come qualcosa che va al di là delle qualità tangibili. Per esempio, Hume, predecessore ammirato da Kant, considera notoriamente l’oggetto come un semplice mucchio di qualità: non c’è nessuna testimonianza di un “cavallo” al di là delle sue innumerevoli manifestazioni visive, del suono che produce e dei vari modi in cui può essere cavalcato, addomesticato o nutrito116. Il più grande contributo di Husserl alla filosofia, nonostante il suo idealismo, è stato l’aver mostrato quanta tensione vi è già dentro la dimensione fenomenica tra un oggetto e le sue qualità117. Restiamo all’esempio del cavallo: non lo vediamo mai nella stessa identica maniera per più di un istante tremulo e sfuggente. Vediamo il cavallo ora dal lato sinistro, ora da dietro, ora da un angolo obliquo, talvolta anche dall’alto. È sempre a una specifica distanza da noi quando è in piedi, cammina o corre, e lo troviamo sempre tranquillo, agitato o in un altro stato d’animo. Se assumiamo l’ottica empiristica, non si tratta mai dello “stesso” cavallo in ognuno di questi esempi. Vi è soltanto una sorta di somiglianza di famiglia che intercorre tra i vari momenti specifici del cavallo: dopotutto, gli empiristi sostengono che, a ogni istante, incontriamo soltanto un insieme di qualità, mai un’unità durevole chiamata “cavallo” oltre queste qualità. La prospettiva di Husserl, e dell’intera tradizione fenomenologica dopo di lui, è esattamente opposta. Qualunque cosa faccia il cavallo da un istante all’altro, per quanto sia vicino o lontano, e per quanto sottilmente differenti diventino i suoi colori mentre il sole tramonta all’orizzonte, ciò che incontro è sempre il cavallo. Tutte queste qualità mutevoli sono inessenziali e semplicemente cambiano da un istante all’altro in maniera caleidoscopica. Per l’empirismo le qualità sono fondamentali e non c’è nessuna unità-cavallo a prescindere da esse; per la fenomenologia c’è solo l’unità-cavallo, e tutte le sue qualità mutevoli (che Husserl chiama “adombramenti”, Abschattungen) sono semplicemente decorazioni transitorie sulla superficie. In breve, Husserl ci offre una nuova frattura – vagamente presente in Heidegger, eccetto poche tracce di rilievo – tra l’oggetto intenzionale e le sue qualità mutevoli e accidentali.


C’è ancora altro da dire al riguardo, poiché Husserl ha, in realtà, scoperto che l’oggetto intenzionale ha due tipi di qualità. Oltre a quelle che cambiano velocemente da un istante all’altro, vi sono delle qualità essenziali di cui il cavallo ha bisogno perché lo consideriamo questo cavallo, invece di decidere che in realtà è qualcos’altro. Infatti, per Husserl è proprio questo il compito principale della fenomenologia: variando i nostri pensieri e percezioni, dovremmo arrivare infine a capire quali caratteristiche del cavallo sono essenziali e non accidentali118. Purtroppo, egli sostiene pure che l’intelletto coglie le qualità essenziali di un oggetto mentre i sensi colgono quelle accidentali, anche se Heidegger in seguito mostrerà che la differenza tra intelletto e sensi è semplicemente irrilevante, in quanto entrambi riducono gli enti alla loro presenza mentale. Eppure, non bisogna sottovalutare la complessità della scoperta di Husserl. Anche se dobbiamo rifiutare la limitazione husserliana degli oggetti alla sfera della coscienza, in quanto troppo idealistica per riferirsi alla cosa in sé, qui c’è molto più del mero idealismo. Ciò che sorge in Husserl è una doppia tensione, in cui l’oggetto intenzionale – come il cavallo che percepisco nella prateria – ha qualità accidentali, sebbene sia diverso da esse, e ha anche qualità essenziali, sebbene sia diverso da esse, dato che un oggetto è un’unità al di là delle sue caratteristiche essenziali non meno che di quelle accidentali.


È giunto il momento di riaffermare tutto nella terminologia tipica della OOO, che verrà occasionalmente usata in questo libro. Per indicare oggetti e qualità, facciamo ricorso alle semplici abbreviazioni O e Q. Per la dimensione heideggeriana degli oggetti reali, ritratti da ogni relazione e discendenti in definitiva dai noumeni kantiani, usiamo la R. Per la dimensione husserliana delle apparenze, che non si ritraggono, ma sono sempre presenti direttamente, non utilizziamo lo sgradevole e ambiguo termine “intenzionale”, ma “sensuale”, abbreviato con la S – benché esso includa dei casi in cui è l’intelletto ad accedere alle cose e non i sensi. Come la genetica analizza il DNA attraverso le abbreviazioni chimiche G, C, A e T119, la OOO ha un alfabeto basilare di O, Q, R e S, con due tipi di oggetti (R e S) e due di qualità (sempre R e S), con la differenza che consentiamo sia a R che a S di abbinarsi a O o Q, consentendoci di raddoppiare il numero di possibilità rispetto alla genetica. Gli oggetti possono essere sia presenti (OS, da Husserl) o irrimediabilmente assenti (OR, da Heidegger, a condizione che gli oggetti si nascondano reciprocamente non meno di quanto fanno con noi). Lo stesso vale per le qualità degli oggetti, che possono essere presenti ai sensi (QS, gli “adombramenti” di Husserl) o ritrarsi da un accesso diretto (QR, come le “qualità essenziali” di Husserl, sebbene quest’ultimo sbagli nel pensare che l’intelletto possa coglierle direttamente).


Oltre a ciò, visto che non ci sono oggetti privi di qualità, né qualità fluttuanti senza oggetti, nessuna di queste quattro abbreviazioni può esistere in maniera isolata, ma deve essere abbinata a una del genere opposto. Torniamo di nuovo a Husserl. Anche se rifiutiamo la sua idea che le qualità reali delle cose possano essere conosciute dall’intelletto, concordiamo sull’esistenza delle qualità reali: la sua analisi è perfettamente convincente quando mostra che qualsiasi oggetto sensuale (come un cavallo) ha qualità sia essenziali che inessenziali. Nella terminologia della OOO, Husserl mostra che, quando ci rapportiamo agli oggetti sensuali, abbiamo sia OS-QS (qualità inessenziali) che OS-QR (qualità essenziali). Tornando al caso di Heidegger, in cui lo strumento rotto annuncia le sue qualità pur rimanendo per sempre ritratto, abbiamo l’interessante forma ibrida OR-QS, che si dimostra per l’arte la tensione più importante delle quattro. Dico quattro invece di tre, poiché dobbiamo anche riferirci alla tensione OR-QR, di cui è chiaramente difficile parlare, poiché entrambi i suoi termini si ritraggono a un esame diretto. Eppure, senza OR-QR gli oggetti ritratti sarebbero sempre gli stessi: sostrati intercambiabili che differirebbero solo nella misura in cui ognuno manifestasse a un osservatore qualità sensuali diverse in momenti diversi. Visto che questo precluderebbe una differenza intrinseca tra martello in sé, cavallo in sé e pianeta in sé, non ci sarebbe modo di rendere conto del carattere specifico di ciascun oggetto ritratto. Così bisogna affermare anche l’esistenza di una tensione OR-QR. Leibniz lo aveva già notato nel § 8 della Monadologia, in cui ribadisce il fatto che ognuna delle sue monadi è unica, ma deve anche avere una pluralità di tratti120.


La metafora e le sue implicazioni


Ora siamo pronti a volgerci all’arte. Sebbene questo libro tratti principalmente di arti visive, ci sono buone ragioni per iniziare da una discussione sulla metafora, capace di mostrarci più in generale le opere d’arte in forma lucida. Per quale motivo? Perché la metafora è facile da porre esplicitamente in contrasto con il linguaggio letterale e risulta che, qualunque cosa sia l’arte, non può avere rapporti con una qualsivoglia forma di letteralismo. È su questo aspetto che la teoria dell’arte della OOO si avvicina maggiormente a quella di Fried, come si discuterà nel capitolo 3. Ciò non esclude il fatto di considerare arte, per esempio, i ready-made di Duchamp, ma, se devono essere qualificati come tali, bisogna semplicemente trovarvi un elemento non letterale.


Con estetica la OOO intende la teoria generale di come gli oggetti differiscono dalle loro qualità. Dato che ci sono due tipi di oggetti e due di qualità, ci sono quattro classi separate di fenomeni estetici: OR-QR, OR-QS, OS-QS e OS-QR. In generale, OR-QR è la tensione riguardante qualsiasi tipo di causazione; l’antica questione filosofica del rapporto causa-effetto è condotta qui per la prima volta sotto il vessillo dell’estetica, a cui giustamente appartiene121. La tensione OS-QS è sorprendentemente meno estetica e riguarda la nostra percezione degli oggetti in base ad apparenze e condizioni costantemente cangianti, del genere che intendeva Husserl quando parlava degli adombramenti; vedremo presto che questa tensione era stata notata anche da Kant nella Critica del Giudizio e indicata con il nome di “attrattiva”. OS-QR, che deve pure molto a Husserl, riguarda la tensione tra gli oggetti che appaiono a noi e le qualità reali che li rendono ciò che sono; è qui che troviamo la “teoria” nel senso dell’intelletto conoscitivo. È solo nella tensione OR-QS che troviamo la bellezza, che considero senza esitazione l’ambito dell’arte, anche se molti artisti oggi non vogliono avere nulla a che fare con la bellezza, ma piuttosto aggirano la questione in favore di questioni socio-politiche o altro, dato che la politica emancipatoria è la grande fede intellettuale della nostra epoca. A tal proposito, la situazione descritta da Dave Hickey in The Invisible Dragon non è particolarmente mutata, nonostante il suo fuorviante riferimento alla politica: “Affrontare la questione della bellezza, nel mondo dell’arte americano del 1988, non è detto che fomentasse una conversazione sulla retorica – o sull’efficacia – o sul piacere – o sulla politica – o anche su Bellini. Si innescava, piuttosto, una questione di mercato”122. Per la OOO, il senso della bellezza non è un vago appello a un estetismo indefinito, ma è esplicitamente definito come la scomparsa di un oggetto reale dietro le sue qualità sensuali. Per ragioni che verranno presto spiegate, ciò ha sempre un effetto teatrale, dunque la bellezza è inseparabile dalla teatralità – nonostante Fried insista comprensibilmente nel sostenere il contrario.


In ogni caso, la teoria della metafora della OOO deve molto a un saggio importante ma trascurato, scritto sull’argomento dal filosofo spagnolo José Ortega y Gasset, che è stato letto molto di più durante l’epoca d’oro dell’esistenzialismo123. Qui non ripeterò la mia interpretazione del saggio di Ortega, ma presenterò semplicemente la rielaborazione della OOO che ne deriva124. In passato, ho sempre usato metafore di poeti rinomati; questa volta sceglierò un esempio semplice e anonimo trovato casualmente durante una ricerca su Google. Viene da una poesia che molti intellettuali disprezzerebbero, considerandola un insieme di versi sentimentali da biglietto d’auguri, sebbene sia perfettamente adatta al nostro scopo:


Una candela è come una docente


Che per prima accende la scintilla


Che alimenta l’amore del sapere


Nelle menti e nei cuori dei bambini.125


Se può essere d’aiuto per far sì che il lettore la consideri con più serietà, possiamo fingere che si tratti semplicemente della prima strofa di una macabra poesia dell’espressionista austriaco Georg Trakl, in grado di prendere subito una piega cupa verso la cocaina, l’incesto e l’estinzione. Semplifichiamo altresì l’esercizio limitandoci al primo verso: “una candela è come una docente”. Poi dobbiamo contrastare questa proposizione con la definizione di “candela” presente nel dizionario. Quando digito “definizione di candela” su Google, ecco cosa trovo in cima alla lista: “un cilindro o blocco di cera o sego con uno stoppino al centro, acceso per produrre luce mentre brucia”. Per sicurezza, chiediamo a Google di cercare anche la definizione di “docente”. Ecco il primo risultato: “una persona che insegna, soprattutto a scuola”. Se combiniamo le due definizioni per sostituire la metafora originaria, il risultato è chiaramente ridicolo. Infatti, “Una candela è come una docente” diventa:


Un cilindro o blocco di cera o sego con uno stoppino al centro, acceso per produrre luce mentre brucia, è come una persona che insegna, soprattutto a scuola.


Per quanto divertente, la seconda proposizione non è solo macchinosa, ma decisamente assurda. Certo, potremmo immaginare un esperto poeta del Dada, in grado di inserire questo verso in una poesia e, quindi, esitiamo a bandirlo dall’arte per l’eternità. Eppure, escludendo la rara apparizione di un tale maestro, non c’è null’altro che pura letteralità quando leggiamo “Un cilindro o blocco di cera o sego con uno stoppino al centro, acceso per produrre luce mentre brucia, è come una persona che insegna, soprattutto a scuola”. Al pari di qualunque definizione isolata, questa definizione congiunta è strutturata come un’identità letterale. Tuttavia, poiché in circostanze normali l’identità combinata è palesemente falsa, non siamo sicuri di cosa farcene di quella proposizione. Anche se mentalmente rifiutiamo la seconda proposizione, proprio come teniamo a distanza il nonsenso, non facciamo lo stesso con la poesia originale, per quanto la si possa considerare stucchevole e kitsch. “Una candela è come una docente” è, in qualche modo, capace di trascinarci nella sua atmosfera, tanto da farcela considerare con serietà, perlomeno provvisoriamente. Vediamo subito che non si tratta di quel tipo di proposizione letterale che ci aspettiamo dalla conoscenza scientifica o di altro genere. Cosa rende diversi i due casi?


Una proposizione letterale tratta gli oggetti, esplicitamente o no, come scambiabili con un elenco di qualità possedute126. Immaginiamo di parlare con qualcuno che è, in qualche modo, riuscito a trascorrere la propria vita senza mai sentire la parola “candela”, nonostante possieda un vocabolario relativamente ampio. In tal caso, potremmo ripetere la definizione del dizionario e spiegare a questa persona che una candela è un cilindro o un blocco di cera o sego con uno stoppino al centro, acceso per produrre luce mentre brucia. Questa definizione offre la conoscenza di ciò che è una candela, sviando la nostra attenzione dalla candela in due direzioni opposte. Innanzitutto, sottovaluta la candela, dicendoci di cosa è fatta: “un cilindro o un blocco di cera o sego con uno stoppino al centro”. Inoltre, sopravvaluta la candela dicendoci cosa fa: “[è] acceso per produrre luce mentre brucia”. Nello sforzo di istruire il nostro conoscente ignorante, la candela è considerata qualcosa di semplicemente equivalente alla somma della sua composizione fisica e dei suoi effetti esterni sul mondo in generale. Lo stesso vale per la definizione di docente. Se per caso il nostro amico non sapesse nemmeno cosa significa “docente”, potremmo offrirgli questa conoscenza muovendoci nella stessa direzione di prima. Guardando in basso (undermining), troviamo che una docente è “una persona”, poiché gli enti umani sono il materiale grezzo di cui tutti i docenti finora sono fatti. Possiamo anche guardare in alto (overmining) per imparare che la docente è qualcuno che “insegna, soprattutto a scuola”. Qui otteniamo nuovamente conoscenza e la conoscenza implica sempre che un oggetto è sostituito da un’accurata descrizione dei suoi componenti, proprietà visibili o relazioni. Non ha luogo alcun effetto estetico, dunque non vi è bellezza. Non abbiamo altro che una parafrasi, nient’altro che letteralismo. Non c’è il senso di un surplus nella candela o nella docente che vada oltre ciò che otteniamo dalle loro definizioni adeguate. Anche se queste definizioni lasciano fuori numerosi dettagli aggiuntivi su candele e docenti, siamo già sulla strada giusta e smettiamo di definirli ulteriormente, solo perché abbiamo già raccolto informazioni sufficienti perché l’altra persona capisca ciò che intendiamo.


Di certo le descrizioni letterali a volte falliscono. È possibile definire una candela o una docente scorrettamente, per quanto ciò accada di rado con oggetti così comuni. Eppure, ricordo un momento della mia giovinezza in cui qualcuno mi chiese il significato di “concierge” e io gli diedi una definizione scorretta: non si trattò di un malizioso dispetto, perché a quell’età fraintendevo il significato della parola. Quando questo accade, abbiamo semplicemente ascritto qualità errate all’oggetto nominato. Lo abbiamo visto succedere in maniera bizzarra quando le definizioni di candela e di docente erano combinate in modo assurdo: “Un cilindro o blocco di cera o sego con uno stoppino al centro, acceso per produrre luce mentre brucia, è come una persona che insegna, soprattutto a scuola”. Si fallisce anche quando sostituiamo solo una delle definizioni e diciamo o “una candela è come una persona che insegna, soprattutto a scuola” oppure “un cilindro o blocco di cera o sego con uno stoppino al centro, acceso per produrre luce mentre brucia, è come una docente”. Combinazioni del genere falliscono, perché la somiglianza letterale delle candele con i docenti non è particolarmente convincente. Eppure, questo è precisamente ciò che rende possibile la loro unione metaforica, che conduce ad alcune importanti intuizioni.


Consideriamo le tre seguenti proposizioni: (1) “Una professoressa è come una docente”. (2) “Una candela è come una docente”. (3) “La condizione demografica di Los Angeles nel periodo del censimento del 2010 è come una docente”. Quale di queste si può candidare a fungere da metafora? La numero 1 è fuori questione in gran parte dei casi, poiché è semplicemente una proposizione letterale che evidenzia molte proprietà banali condivise tra docenti e professoresse. Con la numero 3 si pone il problema opposto. I due termini sembrano così privi di relazioni che non ha luogo nessun effetto estetico quanto ascoltiamo la frase, anche se, probabilmente, un poeta o un comico geniale potrebbe farla funzionare con il giusto allestimento. La numero 2 pare più vicina a una felice via di mezzo, in cui candela e docente hanno una connessione, sebbene non sia del tutto chiaro quale essa sia. Forse ha qualcosa a che vedere con il fatto che entrambe “portano la luce” secondo due diverse accezioni del termine. Tuttavia, una volta che questo è stato reso troppo esplicito, siamo nuovamente entrati nell’ambito della comparazione letterale delle qualità e la metafora crolla immediatamente a pezzi. Immaginate i seguenti versi di una poetessa, che avrebbe dovuto smettere il prima possibile: “Una candela è come una docente, perché le candele letteralmente portano la luce in una stanza e le docenti figurativamente portano la luce nelle menti degli studenti”. Non differisce molto da una fastidiosa banalità. Affinché abbia luogo una metafora, deve esserci una connessione tra due termini, ma non deve essere letterale, né resa troppo esplicita.


Per apprendere un’ulteriore proprietà di rilievo della metafora, possiamo semplicemente invertire ciascuna delle tre proposizioni del paragrafo precedente e vedere cosa accade. (1) “Una docente è come una professoressa”. (2) “Una docente è come una candela”. (3) “Una docente è come la condizione demografica di Los Angeles nel periodo del censimento del 2010”. Nel caso della numero 1 non vi è nessun cambiamento rispetto alla versione precedente. Una professoressa è come una docente e una docente è come una professoressa; invertire l’ordine dei termini non fa differenza per la verità palpabile, se non tediosa, della proposizione. Visto che i due oggetti condividono proprietà simili, ha poca importanza quale dei due è menzionato per primo. Anche nella numero 3 non vi è nessuna differenza autentica se i termini vengono invertiti: una descrizione già poco plausibile è stata capovolta e non è né meno, né più plausibile rispetto alla sua forma originaria. È ancora difficile vedere connessioni tra una docente e la condizione demografica di Los Angeles nel 2010; questa risulta semplicemente una descrizione letterale fallita, in cui le proprietà dei due termini non corrispondono. Notate, però, le differenze individuabili nella numero 2: “Una candela è come una docente” e “una docente è come una candela” fungono entrambe da metafore, anche se non particolarmente brillanti. Nella prima, vi è una candela che sembra impartire saggezza e prudenza, tipiche dei docenti, mentre siamo seduti a vegliare con essa durante la notte, o altro su questa linea. Nella seconda, vi è una sorta di docente che, in qualche modo, illumina le giovani menti o le infiamma, per quanto nessuna parafrasi letterale possa mai esaurire la metafora, proprio come avviene con la riproduzione di un globo su una mappa bi-dimensionale, che non può avere luogo senza operare distorsioni. Nel primo caso, la candela è il soggetto e acquisisce dei vaghi predicati-docente; nel secondo, è vero l’inverso. La descrizione o parafrasi letterale mette semplicemente a confronto le qualità dei due oggetti considerati in parallelo, dunque l’ordine è facilmente reversibile. Nella metafora, invece, si traducono delle qualità da un oggetto all’altro, per cui vi è o una docente con qualità-candela o una candela con qualità-docente, completamente diverse le une dalle altre.


Questo ha importanza a livello filosofico. Immaginiamo una proposizione letterale come la seguente: “una docente gestisce la classe, prepara lezioni ogni giorno, assegna i compiti, valuta le prestazioni degli studenti e mette a conoscenza i genitori di come i figli procedono accademicamente”. Non dobbiamo interpretare questa proposizione alla maniera empiristica, come un mero mucchio di qualità. Possiamo essere ben consapevoli – come lo era Husserl – che le docenti fanno molte altre cose rispetto a queste e che una docente rimane una docente, a prescindere dalle cose limitate che compie in questo istante. Se è questo il caso, siamo già consapevoli di una certa tensione tra la docente e le sue qualità attualmente manifeste. Nei termini della OOO, ci stiamo rapportando alla docente come OS-QS, un accessibile oggetto sensuale con numerose e mutevoli qualità sensuali. Eppure, avviene qualcosa di diverso con “una docente è come una candela”. Qui la docente assume le qualità-candela invece che le attese qualità-docente. Non abbiamo una chiara idea di come sarebbe una docente con qualità-candela e, per questa ragione, non si tratta più di una docente OS presentata direttamente alle nostre menti, ma di una docente OR: un oggetto ritratto, una sorta di buco nero attorno a cui orbitano misteriosamente delle qualità-candela. Qui abbiamo una tensione (heideggeriana) OR-QS, che è alla base dell’arte. Anche se sappiamo che la docente sensuale è diversa dalle sue qualità sensuali, in principio può essere descritta nei termini di un’accurata descrizione qualitativa. Tuttavia, nessuna parafrasi è possibile quando la docente diventa un oggetto reale, che misteriosamente si ritrae dietro le sensuali qualità-candela che si ritiene possegga in quel momento. Elaine Scarry condivide la stessa posizione nell’affermare che la metafora ha luogo “quando un termine cessa di essere visibile (perché non è presente o perché è disperso oltre il nostro campo sensuale), allora l’analogia cessa di essere inerte: il termine presente diventa pressante, attivo, insistente, poiché richiede la nostra attenzione e la dirige verso ciò che è assente” (BBJ, p. 96).


Eppure, questo solleva un’altra interessante questione: in che senso dirigiamo la nostra attenzione verso ciò che è assente nella metafora? Ciò che è assente è considerato inaccessibile direttamente alla cognizione umana, come la kantiana cosa in sé o l’heideggeriano essere-mezzo. Allo stesso modo, non ha senso pensare che un oggetto possa ritrarsi e lasciare dietro di sé soltanto delle qualità separate, dato che abbiamo accettato l’assioma fenomenologico che gli oggetti e le qualità sono sempre in coppia. Nella metafora “la docente è come una candela”, la docente diventa un OR ritratto che lascia dietro di sé persistenti qualità-candela. E, visto che queste qualità-candela non si applicano a una docente ritratta, e non possono riapplicarsi all’originale candela senza collassare in una proposizione puramente letterale, resta una sola opzione. Vale a dire, sono io, il lettore, l’oggetto reale che esibisce e così sostiene le qualità-candela, una volta che vengono rimosse dal loro solito oggetto-candela. Per quanto possa sembrare strano, esprime semplicemente il fatto ovvio che, se il lettore non è realmente assorto nella poesia, nessun effetto estetico può verificarsi al cuore del tedio letteralizzante. Altrimenti detto, ogni estetica è teatrale, come vedremo nel capitolo 3 a proposito del nostro parziale disaccordo con Fried. Nondimeno, la docente ritratta non perde qualsiasi ruolo nella metafora, poiché guida o indirizza il modo in cui esibiamo le qualità-candela che lascia dietro di sé al suo passaggio. Ciò diviene chiaro se consideriamo metafore alternative come “un poliziotto è come una candela” o “un giudice è come una candela”. Se fosse semplicemente una questione di come il lettore esibisce le qualità-candela al posto del soggetto assente, allora tutte queste metafore “come una candela” sarebbero le stesse, mentre è chiaro che non lo sono. Una metafora ci chiede di esibire le qualità-candela nel modo dell’insegnante, un’altra in quello del poliziotto e la terza in quello del giudice. Cosa significa esattamente questo? Suggerisco che, in questi casi, l’oggetto mancante esibisce lo stesso ruolo guida del titolo nel caso di quadri, poesie o brani musicali. Tratterò, tuttavia, questo tema in un’altra occasione.


In ogni caso, questo è il momento in cui gli avversari della OOO generalmente si lamentano della “teologia negativa”, con cui indicano il fatto di porre gratuitamente un misterioso oggetto nascosto a cui non è possibile alcun accesso. Tuttavia, noi non sosteniamo che nessun accesso è possibile all’oscura docente con qualità-candela. Ribadiamo, invece, che si può alludere a questo personaggio: parlando indirettamente oppure obliquamente di lei, invece che attraverso una parafrasi letterale in termini di qualità. È vero che non possiamo mai ottenere una conoscenza della docente come-una-candela, poiché la conoscenza è sempre una padronanza letterale di ciò di cui qualcosa è fatto o che fa, e non abbiamo idea di come parafrasare una docente come-una-candela; infatti, non sappiamo altro che il suo nome. Qui ampliamo la nostra osservazione oltre la metafora e la espandiamo alla considerazione dell’arte in generale. La minima condizione negativa affinché qualcosa sia considerata un’opera d’arte è che non possa essere principalmente una forma di conoscenza, di tipo sottovalutante o sopravvalutante. Questo non esclude la possibilità che le opere d’arte possano anche comunicare certe verità letterali, ma implica il fatto che qualunque cosa comunichi soltanto tali verità non sia un’opera d’arte. Otteniamo ben poco dal descrivere di cosa è fatta fisicamente un’opera d’arte (undermining) e non capiamo proprio come accade, se sostituiamo l’opera con una descrizione di come essa influisce su o è influenzata dal suo contesto socio-politico (overmining). Se è veramente un’opera d’arte, allora deve essere un surplus capace di molti altri effetti possibili oppure di nessuno. Un’opera d’arte, di qualsiasi genere sia, è imparafrasabile.


L’arte, dunque, è un’attività cognitiva senza essere una forma di conoscenza, che, ripetiamo, non esclude la possibilità che gli artisti e gli spettatori possano ottenere conoscenza dalle opere d’arte come effetto collaterale127. Quando Socrate, e forse qualche antica figura pitagorica, parlavano di philosophia, di amore della sapienza, intendevano che la vera conoscenza poteva ottenerla solo un dio e non un uomo. Non c’è nessun passaggio nei dialoghi platonici in cui Socrate sostiene di aver ottenuto la conoscenza, sebbene ve ne siano diversi in cui egli dichiara apertamente di non sapere nulla. La sua famosa ricerca delle definizioni di giustizia, amore, amicizia e virtù non raggiunge mai l’obiettivo desiderato. Socrate non è soltanto ironico quando dice che non è mai stato il docente di nessuno o che l’unica cosa che sa è di non sapere. Questo punto è stato ampiamente dimenticato a causa dell’emulazione gelosa, da parte della filosofia, della fisica matematica, l’attuale modello di conoscenza per eccellenza. La filosofia ha aspirato a ottenere la conoscenza come la scienza o la geometria deduttiva, per quanto la sua missione sia esattamente opposta. Dopotutto, conoscenza significa parafrasi letterale di una cosa in base alle sue qualità e la filosofia si occupa degli oggetti più che delle qualità. In questo senso persistente, la filosofia è più vicina alle arti che alle scienze, contrariamente a quanto afferma il principio centrale e fallace della filosofia analitica, con tutta la sua chiarezza e il suo rigore.


L’estetica è filosofia prima perché si basa sul carattere non letterale dei suoi oggetti, con cui intendo dire che sono imparafrasabili in termini di qualità. La conoscenza corrisponde sempre a una parafrasi verso il basso o verso l’alto, ma l’arte – come la filosofia socratica – non è una forma di conoscenza. Si spiega così perché la relazione tra la OOO e le arti è così forte, e perché artisti e architetti l’hanno accolta forse in maniera più calorosa rispetto ad altre discipline. In entrambi i casi, è una questione di oggetti ritratti o imperscrutabili da approcciare lateralmente piuttosto che frontalmente. Il lettore adesso ha basi sufficienti di ontologia orientata agli oggetti per poter seguire la sua teoria dell’arte. Data l’importanza del dibattito tra formalismo e anti-formalismo, dobbiamo volgerci al padrino del formalismo nell’estetica e in qualunque altro ambito: Immanuel Kant.


Si veda D. Hume, A Treatise of Human Nature, Noon and Longman, London 1739-1740; tr. it. di P. Guglielmoni (a cura di), Trattato della natura umana, Bompiani, Milano 2001.


Si veda J. Hintikka, Cogito ergo sum: Inference or Performance?, in “The Philosophical Review”, vol. 71, n. 1, 1962, pp. 3-32.


Si veda F. Brentano, Psychologie vom empirischen Standpunkt, Duncker & Humblot, Leipzig 1874; tr. it. di L. Albertazzi (a cura di), La psicologia dal punto di vista empirico, Laterza, Roma-Bari 1997.


Una buona sintesi si trova in B. Smith, Austrian Philosophy: The Legacy of Brentano, Open Court, Chicago 1995.


Si veda K. Twardowski, Zur Lehre vom Inhalt und Gegenstand der Vorstellungen. Eine Psychologische Untersuchung, Hölder, Wien 1894.


Si veda E. Husserl, Intentionale Gegenstände, Philosophia Verlag, München 1894; tr. it. di S. Besoli, V. De Palma (a cura di), Logica, psicologia e fenomenologia: Gli “Oggetti intenzionali” e altri scritti, Il Melangolo, Genova 1999, pp. 87-124.


Si veda F. Brentano, Von der mannigfachen Bedeutung des Seienden nach Aristoteles, Herder, Freiburg 1862; tr. it. di G. Reale (a cura di), Sui molteplici significati dell’essere secondo Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1995.


Si veda M. Heidegger, Zur Bestimmung der Philosophie, in Gesamtausgabe, voll. 56-57, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 1987; tr. it. di G. Cantillo (a cura di), Per la determinazione della filosofia, Guida, Napoli 1993.


Si veda Id., Sein und Zeit, Gesamtausgabe, cit., vol. 2, 1977; tr. it. di F. Volpi (a cura di), Essere e tempo, Longanesi, Milano 2005.


La trattazione più letta di questo genere è H.L. Dreyfus, Being-in-the-World: A Commentary on Heidegger’s Being and Time, Division 1, MIT Press, Cambridge (MA) 1990.


Si veda G. Berkeley, Treatise Concerning the Principles of Human Knowledge, A. Rhames, Dublin 1710; tr. it. di M.M. Rossi (a cura di), Trattato sui principi della conoscenza umana, Laterza, Roma-Bari 19843. Cfr. anche M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945; tr. it. di A. Bonomi (a cura di), Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2018, p. 115.


M. Heidegger, Kant und das Problem der Metaphysik, in Gesamtausgabe, cit., vol. 3, 1973, p. 237; M.E. Reina (a cura di), Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma-Bari 20068.


Si vedano G. Harman, Tool-Being: Heidegger and the Metaphysics of Objects, Open Court, Chicago 2002; Id., Heidegger Explained: From Phenomenon to Thing, Open Court, Chicago 2007.


Si veda D. Hume, Trattato sulla natura umana, cit.


Si veda E. Husserl, Logische Untersuchungen, 2 voll., Niemeyer, Halle 1900-1901; tr. it. di G. Piana (a cura di), Ricerche logiche, Il Saggiatore, Milano 2015.


N.d.T.: Harman si riferisce qui al metodo della variazione eidetica.


N.d.T.: Si tratta, rispettivamente, delle sigle di guanina, citosina, adenina e timina.


Cfr. G.W. Leibniz, Monadologie (1714), Erdmann, Berlin 1840; tr. it. di S. Cariati (a cura di), Monadologia, Bompiani, Milano 2001, § 8.


Per un’ulteriore discussione sull’estetica della causazione, si veda T. Morton, Realist Magic, cit.


D. Hickey, The Invisible Dragon: Essays on Beauty, University of Chicago Press, Chicago 20122, edizione Kindle, p. 163 su 1418.


Si veda J. Ortega y Gasset, Ensayo de estética a manera de prólogo, in Obras completas, vol. 6, Alianza, Madrid 1983, pp. 247-264; tr. it. di B. Arpaia (a cura di), Saggio di estetica a mo’ di prologo, in Meditazioni del Chisciotte, Guida, Napoli 1986, pp. 281-301.


Cfr. G. Harman, Guerrilla Metaphysics. Phenomenology and the Carpentry of Things, Open Court, Chicago 2005, pp. 102-110; Id., Object-Oriented Ontology, cit., cap. 2.


La poesia, il cui autore è riportato come “ignoto”, si può trovare sul popolare sito di Pinterest https://www.pinterest.com/pin/5079920329402574/?lp=true. N.d.T.: Si è scelto il femminile per indicare il non specificato “teacher”, poiché metricamente più adeguato rispetto al maschile.


Si tratta di un’altra maniera di considerare la differenza tra la teoria kripkiana dei nomi (non letteralista) e quelle di Frege, Russel e altri (letteraliste). Si veda S. Kripke, Naming and Necessity, Harvard University Press, Cambridge (MA) 1980; tr. it. di M. Santambrogio (a cura di), Nome e necessità, Boringhieri, Torino, 19992.


Per una meditazione insolitamente ammaliante sullo scarto tra arte e conoscenza, si veda E. Levinas, La realité et son ombre, in “Les Temps Modernes”, vol. 38, 1948, pp. 771-789; tr. it. di F.P. Ciglia (a cura di), La realtà e la sua ombra, in Nomi propri, Marietti, Genova 1984, pp. 174-190.

2

IL FORMALISMO E I SUOI DIFETTI


Dato che la OOO enfatizza l’autonomia degli oggetti rispetto a qualsiasi relazione, vi è una palese affinità con ciò che viene definito formalismo estetico, sebbene questo risulti molto più complesso di quanto sembri. Visto che “formalismo” può avere significati differenti o addirittura opposti a seconda dei contesti intellettuali, è bene spiegare cosa intendiamo qui con questo termine. Talvolta il formalismo si riferisce a un’enfasi della “forma” a spese del “contenuto”. In questi casi, il formalismo si riferisce a una teoria che tenta di “formalizzare” le strutture di un sistema o di una situazione, che vale a prescindere dai contenuti presenti in ogni istante in queste forme; un buon esempio è la corrente teorica nota come strutturalismo. In architettura, il termine “forma” è generalmente opposto a “funzione” o “programma”, cosicché il formalismo architettonico spesso dà la priorità all’apparenza di un edificio, minimizzandone gli scopi sociali, come negli scritti e nei progetti di Peter Eisenman128. Tuttavia, il formalismo nell’arte implica sempre, come minimo, che l’opera sia considerata un’unità indipendente e autosufficiente, ampiamente autonoma rispetto al suo contesto biografico, economico, culturale e socio-politico. Per questa ragione, molti critici del formalismo partono da una base politica e provengono generalmente dalla sinistra, che ama incorporare l’estetica e, in generale, la cultura in un antagonismo sociale presumibilmente più essenziale. Si afferma spesso, per esempio, che solo chi ricopre delle posizioni sociali sicure o privilegiate può permettersi di giocare con le arti in maniera formalista; altri, più a rischio, devono prestare particolare attenzione alle opere che invocano giustizia sociale, o che sono state create da chi si trova ai margini demografici della società. Dal punto di vista della OOO, non c’è ragione di escludere a priori il contenuto sociale o politico dalle opere d’arte, dunque, da questo punto di vista, non si tratta di una dottrina formalista in senso tradizionale. Siamo d’accordo con il formalismo sul fatto di considerare l’opera d’arte, come qualsiasi oggetto, in larga misura come un’unità autonoma, isolata dal suo ambiente. Non è in dilagante contatto con tutti gli aspetti del suo contesto, ma permette l’accesso ad alcuni, mentre ne esclude rigorosamente altri. Se così non fosse, risiederemmo in un cosmo olistico in cui tutto si rispecchia e tutto si compenetra. Più concretamente, sarebbe impossibile per le opere d’arte viaggiare tra diversi secoli, nazioni o gallerie, o anche passare da un minuto all’altro senza essere totalmente scosse nel profondo. Non vedo nessuna ragione per adottare un’ontologia così cataclismica, a prescindere da quanto giuste possano sembrare attualmente ed erroneamente le sue implicazioni politiche.


Ciò che la OOO contesta al formalismo è un aspetto specifico della dottrina a cui è legato Kant, e dopo di lui Greenberg e Fried. Mi riferisco all’enfasi formalista su un tipo di autonomia in particolare: quella dell’uomo dal mondo, o del mondo dall’uomo. Qui la OOO segue la teoria latouriana dell’attore-rete (actor-network theory, ANT) nel sostenere che un gran numero di oggetti sono in realtà ibridi impuri tra uomo e mondo. Il buco nell’ozono, gli animali muniti di dispositivi di tracciamento, o anche il fiume Mississippi – una volta che è stato dragato e aperto al commercio nella sua interezza – sono difficili da classificare come unicamente naturali o culturali. La differenza significativa tra noi e la ANT riguarda la sua tendenza ad assumere implicitamente che tutti gli oggetti siano ibridi, implicando quindi l’uomo come uno dei suoi elementi. Questo a volte conduce la ANT a conclusioni insopportabilmente anti-realiste, come la famigerata affermazione che il faraone Ramsete II non può essere morto di tubercolosi, poiché nell’antico Egitto questa malattia non era ancora stata scoperta129. Nondimeno, Latour ha ragione nel dire che ci sono innumerevoli oggetti ibridi nel mondo, anche se non tutti gli oggetti corrispondono a questa descrizione, e dimostrerò che l’arte stessa è un tale ibrido. Questo aspetto ritornerà in seguito, quando analizzeremo come l’estetica di Kant – al pari di tutta la sua filosofia – richieda una separazione artificiosa tra esseri umani e oggetti, e come questo pregiudizio infici il formalismo estetico della critica alto-modernista.


La bellezza


Di questi tempi è raro sentire gli artisti parlare di bellezza, il che allude al fatto che le intuizioni del formalismo sono state dimenticate insieme ai suoi eccessi. Perdere il “senso della bellezza”, come afferma il filosofo George Santayana nel suo omonimo libro, significa generare una confusione riguardante i confini tra l’arte e tutto il resto: di solito o l’emancipazione politica o l’impegnarsi in beffarde acrobazie intellettuali130. Scarry lamenta giustamente il fatto che, negli ultimi decenni, la bellezza sia stata quasi bandita dalle discipline umanistiche (BBJ, p. 57). Žižek, in una delle sue più perspicaci considerazioni culturali, osserva che i ruoli tradizionali dell’arte e della scienza sono stati invertiti:


Si suppone di dover godere dell’arte tradizionale, ci si aspetta che questa generi piacere estetico, al contrario dell’arte contemporanea, che causa dispiacere – l’arte contemporanea, per definizione, fa male […]. Al contrario, la bellezza, l’equilibrio armonioso sembrano appartenere sempre di più all’ambito scientifico: già la teoria einsteiniana della relatività, paradigma della scienza contemporanea, è lodata per la sua sobria eleganza – non c’è da stupirsi che il titolo dell’introduzione di successo di Brian Greene alla teoria delle stringhe sia L’universo elegante.131


Secondo la OOO, a differenza del formalismo tradizionale, non è necessario escludere dalla sfera artistica tutte le considerazioni socio-politiche, le facezie o gli incontri bruti con il reale. Eppure, affinché questi riescano ad accedere alle opere d’arte, devono superare un determinato ostacolo per appartenere al mondo dell’arte e non a quello dei pamphlet politici, degli spettacoli comici o degli scenari di puro shock e repulsione. Non dobbiamo vergognarci di definire questo ostacolo “bellezza”, un termine antico ma ancora brillante. Mentre il significato di bellezza è spesso lasciato a un’irrimediabile vaghezza, la OOO lo definisce con molta precisione: si tratta della scissione OR-QS, dell’aprirsi di una spaccatura tra la cosa reale e le sue qualità sensuali. Visto che questa frattura è il tema centrale di tutti i testi sull’arte della OOO, il lettore può aspettarsi di vederla comparire nella restante parte del libro.


Torniamo adesso a Kant. I suoi fondamentali testi di etica – la Critica della Ragion Pratica e i Fondamenti della metafisica dei costumi – sono apertamente formalisti nella loro enfasi sull’autonomia. In un contesto etico, ciò significa che un’azione non deve essere guidata principalmente da preoccupazioni non etiche, come premi, punizioni o altre conseguenze, in grado di rendere l’etica eteronoma invece che autonoma. Come abbiamo visto, il desiderio di evitare l’Inferno dopo la morte può sembrare ammirevole nella vita religiosa e condurre a degli effetti civili positivi, ma non si tratta di una motivazione etica in senso stretto. Sebbene “autonomia” non sia un termine chiave nella Critica della Ragion Pura, si ritrova chiaramente anche in questo magnum opus, indicando l’autonomia dell’uomo finito dalla cosa stessa e viceversa. Lo stesso vale per la Critica del Giudizio, che non si occupa solo dell’arte, ma della nostra capacità di giudicare, più in generale, la finalità della natura. È quindi divisa in due parti, la prima riguardante il giudizio estetico (dunque l’arte) e la seconda il giudizio teleologico (dunque soprattutto la biologia). Secondo le parole di Kant, “[si comprende] nella prima la facoltà di giudicare la finalità formale (detta anche altrimenti soggettiva) per via del sentimento di piacere o dispiacere, e nella seconda la facoltà di giudicare la finalità reale (oggettiva) della natura, mediante l’intelletto e la ragione” (CdG, p. 57). Tuttavia, le opere d’arte per Kant non hanno in realtà uno scopo e ci presentano soltanto la forma della finalità. Visto che il presente libro si occupa di arte e non di biologia, non ci preoccuperemo della distinzione tra finalità soggettiva e oggettiva. Porremo, invece, particolare attenzione a una più celebre distinzione all’interno dell’estetica: quella tra il bello e il sublime. È ben noto che per Kant il sublime, a differenza del bello, riguarda ciò che è “assolutamente grande” (sublime matematico) o “assolutamente potente” (sublime dinamico). Per ora dobbiamo solo sapere che “il giudizio estetico non si deve riferire soltanto, in quanto giudizio di gusto al bello, ma anche, in quanto proviene da un sentimento spirituale, al sublime” (CdG, p. 55).


Uno degli aspetti più noti della teoria dell’arte kantiana è il ruolo essenziale attribuito alla contemplazione disinteressata, che da sola preserva l’autonomia dell’esperienza estetica da particolari motivi esterni. Non importa se il contenuto di una data opera d’arte è per noi individualmente piacevole oppure no. Riguardo al bello, invece, ci preoccupiamo solo di “come lo giudichiamo contemplandolo semplicemente” (CdG, p. 73)132. Se mi viene chiesto se un certo palazzo è bello e io continuo a “biasimare, da buon seguace di [Jean-Jacques] Rousseau, la vanità dei grandi, che spendono i sudori del popolo in cose tanto superflue” (CdG, p. 75), allora mi è sfuggita del tutto la questione. Quando si arrivano a formulare giudizi di gusto, “non bisogna essere minimamente preoccupati dell’esistenza della cosa, ma del tutto indifferenti sotto questo riguardo” (CdG, p. 75). Forse Kant lo riassume meglio quando dice che “il gusto è la facoltà di giudicare un oggetto o un tipo di rappresentazione mediante un piacere, o un dispiacere, senza alcun interesse. L’oggetto di un piacere simile si dice bello” (CdG, p. 87). Sebbene la OOO concordi con Kant sul fatto che gli interessi individuali di ogni tipo debbano essere esclusi dal giudizio estetico, nondimeno occorre un interesse cruciale: un interesse nella frattura OR-QS tra l’oggetto estetico e le sue qualità sensuali, che rende impossibile considerare la contemplazione disinteressata come l’atteggiamento estetico per eccellenza. Ciò è dovuto a quanto abbiamo visto nel precedente capitolo riguardo alla metafora: il bisogno per lo spettatore estetico di intervenire e sostituire l’oggetto reale scomparso. In altri casi, tuttavia, concordiamo con Kant che “ogni interesse corrompe il giudizio di gusto e toglie a esso la sua imparzialità” (CdG, p. 113).


In particolare, è importante distinguere il gusto da ciò che Kant definisce piacevole, indicando “ciò che piace ai sensi nella sensazione” (CdG, p. 75). Abbiamo già familiarità con il bisogno di distinguerlo dal buono. Per esempio, quando “di una vivanda che eccita il nostro gusto per mezzo di aromi ed altri ingredienti si dice senza esitare che essa è piacevole, e si confessa nello stesso tempo che non è buona [per la salute]” (CdG, p. 81). Visto che possiamo già operare distinzioni come questa, siamo nella posizione di cogliere la differenza tra il piacevole e il bello. Come Kant mostra in alcuni esempi meravigliosamente chiari: “Per uno il colore della violetta è dolce ed amabile, per l’altro è cupo e smorto. Ad uno piace il suono degli strumenti a fiato, all’altro quello degli strumenti a corda” (CdG, p. 91). Solo un cafone dogmatico condannerebbe i suoi simili perché amano il colore della violetta o gli strumenti a fiato: quando si tratta del piacevole, ognuno si riferisce a se stesso. In materia di bellezza, invece, non siamo così tolleranti: “noi non permettiamo a nessuno di essere di altro parere, senza fondare tuttavia il nostro giudizio [riguardante il bello] sui concetti, ma soltanto sul nostro sentimento, di cui così facciamo un principio, non però in quanto sentimento individuale, ma in quanto sentimento comune” (CdG, pp. 145-147). Mentre un prato verde o il suono dei violini (CdG, p. 115) possono essere considerati piacevoli, quindi riferiti a una sorta di preferenza puramente individuale, il gusto per il bello esclude un interesse simile e a esso deve “unirsi l’esigenza della validità per ognuno, […] deve pretendere all’universalità soggettiva” (CdG, p. 89). Kant arriva al punto di dire che “sarebbe […] ridicolo, se uno che si rappresenta qualcosa secondo il proprio gusto, pensasse di giustificarsi in questo modo: questo oggetto (l’edificio che vediamo, l’abito che quegli indossa, il concerto che sentiamo, la poesia che si deve giudicare) è bello per me” (CdG, p. 91). Laddove il piacevole riguarda il privato, il bello è universale e intrinsecamente pubblico (CdG, pp. 93-97).


Arriviamo adesso a un punto in cui la terminologia della OOO differisce da quella di Kant, pur accettandone l’intuizione di fondo: “il giudizio di gusto non è dunque un giudizio cognitivo” (CdG, p. 71). Kant vuole dire che il bello non è qualcosa da poter determinare secondo le regole o i criteri che dominano le altre sfere preminenti della vita mentale. Mentre Kant usa “cognitivo” per riferirsi soltanto alle procedure della conoscenza e della razionalità concettuale, la OOO utilizza il termine in un senso più ampio, includendo sia l’estetica, sia ciò che consideriamo la cugina delle arti, ovvero la filosofia. Nondimeno, la OOO concorda con Kant sul fatto che l’estetica non riguarda il concettuale, con cui si intende sempre il letterale, quindi ciò che è direttamente accessibile. Le differenze tra l’estetico e il concettuale sono numerose e importanti, inoltre prevengono i tentativi dei razionalisti fanatici – che sono ancora oggi tra noi – di separare l’estetica dall’esistenza come tema centrale della filosofia. Per esempio, Kant dice che il bello può solo essere un sentimento (CdG, p. 77). Mentre è ovvio che il piacevole è senza concetto, essendo puramente individuale, il bello è universale, ma è comunque senza concetto (CdG, p. 93). Non ci sono definizioni, criteri e regole per il bello: “Se si tratta di giudicare bello un abito, una casa, un fiore, non ci lasceremo imporre il giudizio da ragioni o principi. Si vuol sottoporre l’oggetto ai propri occhi” (CdG, p. 97). Mentre i puri giudizi logici possono essere enunciati in un batter d’occhio, “noi indugiamo nella contemplazione del bello, perché essa si rinforza e si riproduce da sé” (CdG, p. 113). Contro l’affermazione spesso robotica che “fare una scienza” di un qualsiasi oggetto significa migliorarlo, Kant giustamente nota che “non vi è una scienza del bello […] e non vi sono belle scienze, ma soltanto belle arti” (CdG, p. 287). Mentre il Kant della prima Critica derideva la necessità di esempi, considerandola tipica di una mente teoreticamente debole, in campo estetico sottolinea invece la loro importanza: “tra tutte le facoltà e i talenti il gusto, poiché il suo giudizio non è determinabile da concetti o precetti, è quello che più ha bisogno di esempi riguardo a ciò che nel progresso della cultura ha ottenuto il più durevole consenso, per non ridiventare incolto e ricadere nella rozzezza dei primi tentativi” (CdG, p. 243). Potremmo anche dire qualcosa sui rispettivi vizi e virtù di arti e scienze. Spesso si incontra un presuntuoso trionfalismo riguardo la precisione e l’affidabilità delle scienze contro la confusa auto-indulgenza delle arti. Kant risponde anticipatamente a questo sentimento, notando che i giudizi logici possono fallire non meno di quelli estetici (CdG, pp. 261-263).


Abbiamo già visto che Kant considera il bello – a differenza del piacevole – come universalmente vincolante. Questo non lo rende “oggettivo”, come se la bellezza fosse una proprietà degli oggetti che contempliamo. Si “parlerà così del bello come se la bellezza fosse una qualità dell’oggetto, e il suo giudizio fosse logico […], sebbene sia soltanto estetico e non implichi che un rapporto della rappresentazione dell’oggetto col soggetto” (CdG, p. 89). In altre parole, il bello è sia universale, sia soggettivo. L’ambito che si occupa degli oggetti per Kant (ma non per la OOO) è la logica (CdG, p. 73). Di contro, l’estetica “non lega il predicato della bellezza col concetto dell’oggetto considerato nella sua intera sfera logica, e tuttavia lo estende all’intera sfera dei giudicanti” (CdG, p. 97). Possiamo formularlo nei termini del vecchio detto secondo cui la bellezza sta negli occhi dello spettatore, se aggiungiamo che Kant ritiene che tutti gli spettatori debbano accordarsi per principio. Dobbiamo anche notare che Kant si riferisce a uno spettatore umano. Portando avanti la generale mancanza di finezza, da parte della moderna filosofia europea, nel trattare gli animali, Kant ignora un’enorme quantità di prove aneddotiche ed empiriche riguardanti le prodezze estetiche di uccelli, belve e insetti: “Il piacevole vale anche per gli animali irrazionali; la bellezza solo per gli uomini, nella loro qualità di essere animali, ma razionali” (CdG, p. 85). Avendo affermato che la bellezza appartiene solo e soltanto a tutti gli animali razionali, egli richiede nondimeno che ognuno sia responsabile dei propri giudizi di gusto: “Il gusto non esige altro che l’autonomia. Fare dei giudizi altrui il motivo dei propri, sarebbe eteronomia” (CdG, p. 241).


C’è un ulteriore punto in cui Kant parla della bellezza, separandola decisamente da tutto ciò che è concettuale: il bello, infatti, appartiene sempre a un’esperienza individuale piuttosto che a una classe di esperienze. Dopo un sufficiente numero di anni su questo pianeta, molti di noi concludono che tutte le rose sono belle. Eppure, “il giudizio che corrisponde al paragone di molti giudizi singolari – le rose in generale sono belle – non esprime più un semplice giudizio estetico, ma un giudizio logico fondato su di un giudizio estetico” (CdG, p. 97). Kant ritorna successivamente su questo punto, cambiando solamente la tipologia di fiore: “il giudizio, invece, con il quale trovo bello un singolo tulipano […] è un giudizio di gusto” (CdG, p. 247).


Un’altra questione in sospeso riguarda l’intrigante discussione sulla differenza tra la bellezza libera e quella puramente aderente. La bellezza libera è slegata da qualsiasi concetto di scopo. Egli ne offre alcuni esempi spiazzanti: fiori, pappagalli, colibrì, crostacei, ornamenti di tappezzerie e fantasie musicali (CdG, pp. 125-127). Eppure, la bellezza di altre cose importanti non è libera per una ragione interessante: “la bellezza di un essere umano […], la bellezza di un cavallo, di un edificio […] presuppone un concetto di scopo, che determina ciò che la cosa deve essere, e quindi un concetto della sua perfezione; ed è perciò una bellezza aderente” (CdG, p. 127). Richiamo l’attenzione soprattutto sul caso degli edifici, dato che, negli ultimi anni, la OOO si è particolarmente intrecciata all’architettura133. È difficile immaginare che Kant dia a questo campo il rispetto che merita: egli sembra interpretare la funzione dell’architettura come un contaminarsi dell’estetica con ulteriori motivi. Secondo quanto scrive: “[L’architettura] è l’arte di esibire concetti di cose che sono possibili solo nell’arte e la cui forma non ha il suo principio determinante nella natura, ma in un fine dell’arbitrio, – nel perseguire il quale l’arte deve però raggiungere anche una finalità estetica” (CdG, p. 321). Sebbene Kant non si proclami apertamente fedele a un particolare stile architettonico, lascia un certo numero di indizi riguardanti il suo gusto. La sua maggiore preoccupazione sembra che gli architetti debbano evitare gli estremi dell’ordine e del disordine eccessivo. Riguardo al primo, Kant rifiuta la diffusa credenza che le figure geometriche regolari siano intrinsecamente belle (CdG, pp. 151-153). In effetti, “tutto ciò che è rigidamente regolare (che si avvicina alla regola matematica) ha in sé qualcosa che ripugna al gusto: perché non permette d’intrattenersi a lungo nella sua contemplazione, e se non ha espressamente per scopo la conoscenza o un determinato fine pratico, produce noia” (CdG, p. 155). Riguardo al secondo, sebbene egli preferisca la maggiore libertà esposta nei giardini inglesi e nei mobili barocchi, ammette che questi generi “spingono spesso la libertà della fantasia fino ai limiti del grottesco” (CdG, p. 155).


Parliamo, in conclusione, del concetto kantiano di attrattiva, il cui senso è molto diverso da quello attribuitovi dalla OOO, come descritto nel mio libro Guerrilla Metaphysics, in cui “attrattiva” è stato considerato molto vicino all’ancor più rilevante “fascino” (allure)134. Il concetto di attrattiva sostenuto da Kant è di grande interesse per noi, sia perché dimostra un sorprendente acume riguardo ai piaceri del mondo sensibile, sia perché accenna a un tema filosofico di chiara importanza per la OOO. Kant dice che l’attrattiva è in questione, per esempio, quando ci occupiamo non degli oggetti belli, ma semplicemente delle belle vedute di essi. Ricordo che abbiamo già incontrato questa distinzione tra gli oggetti e i loro vari profili, quando ci siamo focalizzati sul mondo sensuale teorizzato da Husserl. La versione kantiana di questa concezione è la seguente:


[Nelle] belle vedute di oggetti […] il gusto pare che si applichi non tanto a ciò che l’immaginazione abbraccia in quel campo, ma piuttosto a ciò che le dà motivo di finzione, alle sue proprie fantasie, da cui l’animo è intrattenuto, continuamente eccitato dalla varietà di cose che cadono sotto la vista; tale è, per esempio, la visione delle mutevoli figure del fuoco di un camino, o di un ruscello mormorante; che non sono affatto due oggetti belli, ma hanno un’attrattiva per l’immaginazione, perché intrattengono il suo libero gioco (CdG, p. 157; corsivo aggiunto).


Qui Kant anticipa la scoperta della distinzione husserliana tra gli oggetti intenzionali e i loro mutevoli adombramenti, definiti dalla OOO come tensione OS-QS tra un oggetto sensuale e le sue qualità sensuali. Kant vi si era già avvicinato nella Critica della Ragion Pura con la concezione dell’“oggetto trascendentale=x” come distinto dalla cosa in sé, per quanto, in definitiva, il suo “oggetto trascendentale” sia troppo vicino al “mucchio” di Hume per essere considerato l’oggetto sensuale nel senso della OOO. Tuttavia, nella citazione appena riportata, Kant non sbaglia: il sorgere costante di una differenza tra l’oggetto fenomenico e le sue qualità si avvicina molto alla bellezza, senza tuttavia eliminarne l’ostacolo. Egli mantiene la sua posizione anche su questo punto con una certa insistenza: “è un errore comune però, e molto nocivo alla purezza, integrità e solidità del gusto, il credere che la bellezza, la quale consiste nella forma, possa essere aumentata dall’attrattiva” (CdG, p. 117). Ora che abbiamo compreso abbastanza chiaramente ciò che Kant intende con bello, volgiamoci brevemente alla sua teoria del sublime, che in anni recenti ha ricevuto una più che consistente attenzione.


Il sublime


Dopo aver parlato delle perspicaci osservazioni di Kant sulla differenza tra attrattiva e bellezza, ci volgiamo ora alla sua efficace, se non ovvia, idea che l’attrattiva non abbia nulla a che vedere con il sublime. Come egli stesso scrive: “il sublime non si può unire ad attrattive; e […] il piacere del sublime non è tanto una gioia positiva, ma piuttosto contiene meraviglia e stima, cioè merita di essere chiamato un piacere negativo” (CdG, p. 161). Nei termini della OOO, poiché l’attrattiva è puramente un fenomeno sensuale OS-QS, mentre il sublime ha un legame inequivocabile con l’inafferrabile profondità del reale, gli ondeggianti piaceri dell’attrattiva non hanno il benché minimo legame con la minacciosa sirena da nebbia del sublime. In effetti, è quasi comico provare a immaginare le svariate attrattive di un tornado o di una frana, viste da punti di osservazione sicuri e separati.


Trattiamo adesso il sublime in maniera più generale. Kant ci dice inizialmente che “il bello si accorda con il sublime” (CdG, p. 159). Entrambi sono slegati da qualsiasi forma di interesse, dunque piacciono “per se stessi” (CdG, p. 159). Entrambi devono, inoltre, essere singolari, nel senso che “il cielo stellato è sempre sublime” sarebbe un puro giudizio logico, proprio come “tutte le rose/tutti i tulipani sono belli”. Il sublime si può sentire soltanto riguardo a un’esperienza specifica del cielo stellato, non rispetto all’intera classe di esperienze astronomiche a priori. Dovrebbe altresì essere ovvio che nessuna esperienza del sublime può essere sostituita da una descrizione letterale, più di quanto non possa esserlo il bello. Eppure, ci sono anche delle differenze tra i due. Ecco la più importante per noi: “il bello della natura riguarda la forma dell’oggetto, la quale consiste nella limitazione [dell’oggetto stesso]; il sublime, invece, si può trovare anche in un oggetto privo di forma, in quanto implichi o provochi la rappresentazione dell’illimitatezza” (CdG, p. 159). È strano che Kant dica che il sublime si può trovare “anche” in un oggetto privo di forma, come se fosse possibile trovarlo altrove. Laddove, “[nel caso del bello] il piacere è quindi legato con la rappresentazione della qualità […], [nel caso del sublime] invece con quella della quantità” (CdG, p. 159). Il sublime per Kant è sempre ciò che ci supera assolutamente e incommensurabilmente, e che quindi non può essere limitato senza cessare immediatamente di essere sublime. Come egli afferma, “il sublime della natura […] può essere considerato come informe o senza figura” (CdG, p. 235). In effetti, deve essere considerato così.


Un’altra differenza importante è che, mentre il bello è positivo, il sublime è sempre negativo, poiché restringe la nostra libertà, dandoci la sensazione di essere sopraffatti:


Lo stupore che confina con lo spavento, il raccapriccio e il sacro orrore che prova lo spettatore alla vista di montagne che si elevano fino al cielo, di profondi abissi in cui le acque si precipitano furiose, di una profonda e ombrosa solitudine che ispira tristi meditazioni, etc., quando egli si senta al sicuro, non costituiscono un timore effettivo (CdG, p. 213).


Una conseguenza dello stupore scaturito dal sublime è che, mentre il bello conduce a una serena contemplazione, il sublime si accompagna a una mente agitata (CdG, p. 165). “Tale commozione (specialmente al suo principio) può essere paragonata a uno scuotimento, vale a dire ad un alternarsi rapido di ripulse e di attrazioni dell’oggetto stesso” (CdG, pp. 187-188). Kant sostiene che l’alternanza di piacere e dispiacere provocata dal sublime deriva dalla medesima causa. Il dispiacere “nasce dall’insufficienza dell’immaginazione” (CdG, p. 187) in relazione a esso, mentre il piacere nasce dalla simultanea consapevolezza dell’“insufficienza del massimo potere sensibile rispetto alle idee della ragione” (CdG, p. 187). Un’altra differenza fondamentale è che la nostra esperienza del sublime non è universalmente vincolante a quella altrui come lo è quella del bello. Secondo le parole di Kant, “vi è un’infinità di cose della bella natura, per le quali esigiamo l’accordo del nostro giudizio con quello di ciascun altro […], ma dal nostro giudizio sul sublime della natura non ci possiamo ripromettere così facilmente il consenso altrui” (CdG, p. 201). Una curiosa conseguenza di ciò è che la capacità di rispondere al sublime dipende dalla nostra formazione culturale molto più che il senso del bello. In generale, quando una persona incolta si confronta con il sublime nella natura, lui o lei “non vedrà che il disagio, il pericolo, l’affanno che colpirebbe l’uomo che vi sarebbe esposto. Così, quel buono e peraltro intelligente contadino savoiardo […] chiamava pazzi senz’altro tutti gli amatori delle alte montagne” (CdG, p. 203). Paradossalmente, quindi, mentre il sublime sembra qualcosa di enorme o possente e completamente al di là di ogni misura umana, il senso con cui riconosciamo il sublime in una situazione è, per Kant, prevalentemente un artefatto o una costruzione sociale.


Siamo infine giunti alla celebre distinzione tra sublime matematico e dinamico. La tipologia matematica pertiene a una vastità che ci trascende completamente: “Noi chiamiamo sublime ciò che è assolutamente grande […], ciò che è grande al di là di ogni comparazione” (CdG, p. 167). Altrimenti detto, “sublime è ciò al cui confronto ogni altra cosa è piccola” (CdG, p. 171). Abbiamo visto che ci sono diversi modi in cui il sublime differisce dal bello, tuttavia qui incontriamo un sorprendente punto in comune. Dato che Kant ritiene il sublime qualcosa di informe e immenso, totalmente al di là della nostra capacità di coglierlo, potremmo aspettarci che consideri il sublime oggettivo, laddove il bello è presentato come soggettivo. Tuttavia, ci rendiamo subito conto che con il sublime, così come con il bello, l’oggetto non gioca alcun ruolo ­– come dovremmo aver già capito dall’affermazione di Kant che i turisti amano l’alta montagna, mentre i contadini della Savoia la disprezzano e basta. “[È] da chiamarsi sublime non l’oggetto, ma la disposizione d’animo che risulta da una certa rappresentazione che occupa il Giudizio riflettente” (CdG, p. 173). E ancora, “la vera sublimità non deve essere cercata se non nell’animo di colui che giudica, e non nell’oggetto naturale, il cui giudizio dà luogo a quello stato d’animo” (CdG, p. 183). Questo è vero anche quando ci confrontiamo con oggetti “mostruosi” o “colossali” (CdG, pp. 161-163), come “masse montuose informi, poste l’una sull’altra in un selvaggio disordine, con le loro piramidi di ghiaccio, oppure il mare cupo e tempestoso” (CdG, p. 183). Eppure, a prescindere da quanto ci avventuriamo verso l’infinito, Kant ci assicura che l’infinito stesso riguarda la nostra capacità mentale di volgerci a esso. Egli si espone così alla forza critica dell’osservazione di Morton, secondo cui i numeri ampiamente finiti sono in realtà più minacciosi di quelli infiniti. Secondo Morton, “c’è un senso molto profondo per cui è più facile concepire il ‘per sempre’ piuttosto che una finitudine molto grande. Il per sempre ti fa sentire importante. Centomila anni è un tempo che ti obbliga a chiederti se sei in grado di immaginare un centomila di qualsiasi cosa”135.


Con il sublime dinamico, passiamo dall’assoluta grandezza all’assoluta potenza. Chiaramente, non possiamo farne esperienza se l’assoluta potenza non costituisce per noi una minaccia reale; in quel caso, l’attenzione viene inglobata dal terrore e dall’interesse per la nostra sicurezza personale, senza lasciare spazio alla sublimità. Secondo le parole di Kant, “la natura, considerata nel giudizio estetico come una potenza che non ha alcun potere su di noi, è dinamicamente sublime” (CdG, p. 193). E ancora, “si può considerare un oggetto come temibile senza avere timore davanti ad esso, quando cioè lo giudichiamo tale pensando semplicemente il caso in cui volessimo fare resistenza, e vedendo che allora qualunque resistenza sarebbe vana” (CdG, p. 193). Tuttavia, nel momento in cui consideriamo qualcosa come minacciosa per noi, abbandoniamo la dimensione del sublime. Come il bello deve escludere qualsiasi interesse individuale, così il sublime deve escludere qualsiasi timore individuale (CdG, pp. 193-195).


La OOO e il formalismo kantiano


Nel condurre questo capitolo alla conclusione, sintetizziamo i punti più rilevanti di accordo e disaccordo tra la OOO e la Critica del Giudizio di Kant, testo fondante del formalismo estetico. Il primo punto di accordo – anche se abbiamo già fatto cenno a una significativa qualificazione – è che la bellezza non ha nulla a che vedere con l’interesse individuale. Questo significa che il nostro giudizio di qualità non dovrebbe essere influenzato da considerazioni su ciò che per noi è semplicemente piacevole. In relazione a ciò, la OOO concorda con l’affermazione di Kant – come dimostra il suo rifiuto del disgusto politico rousseauiano verso un palazzo – che le opere d’arte non possono essere giudicate principalmente in termini di effetti socio-politici positivi o negativi. Molti artisti di rilievo hanno assunto modi di pensare reazionari, razzisti o criminali. In alcuni casi, questo ha apportato dei danni permanenti alla loro eredità, mentre, in altri casi, gli effetti sulla loro reputazione sono stati più limitati. Il formalismo avrà sempre la tendenza a minimizzare le credenziali morali o politiche delle opere e dei loro autori. La differenza principale con la OOO è che quest’ultima non esclude a priori i fattori politici o esterni dai giudizi su un’opera d’arte, e dimostra che solo l’opera stessa agisce in modo tale da ammettere o escludere forze esterne di vario tipo.


La OOO concorda altresì con Kant sul fatto che i giudizi estetici non abbiano principalmente carattere intellettuale. L’unica differenza su questo aspetto è terminologica: mentre Kant dice che i giudizi estetici non sono “cognitivi”, la OOO afferma che l’arte è cognitiva senza essere concettuale. Malgrado la differenza terminologica, il significato è lo stesso: non può esserci nessuna scienza della bellezza. In altre parole, non c’è nessun principio della bellezza che possa essere affermato in termini chiaramente prosaici; se così fosse, ci sarebbero dei docenti infallibili di estetica, in grado di rendere gli studenti dei giganti in campo artistico a loro piacimento: si tratta di un aspetto che Socrate, nel Menone di Platone, rifiuta per ragioni simili, quando nega l’esistenza di insegnanti di virtù136. Non si può, per esempio, dire che la grande arte debba essere simmetrica o asimmetrica o un perfetto insieme di queste due caratteristiche. Non possiamo nemmeno concordare con l’asserzione aristotelica che la grande tragedia debba presentare un’unità di tempo, luogo e azione, poiché ci sono troppi controesempi di rilievo che ignorano queste regole137. Non possiamo neanche dire che la grande arte debba esemplificare le virtù morali, per quanto lo stesso Kant sembri imbattersi in tale affermazione nella sua terza Critica (CdG, pp. 393-394). Non c’è nulla di morale negli scritti di de Sade o nei quadri di Picasso. Se molti continuano a considerare Lovecraft uno scrittore dilettante horror pulp, questo è valido o no sulla base del suo intrinseco merito estetico, non su una qualsiasi valutazione delle sue repellenti vedute razziste138.


La ragione principale per cui ci distacchiamo dal formalismo kantiano è la seguente. Kant afferma chiaramente che la bellezza non ha nulla a che vedere con l’oggetto, ma solo con la facoltà trascendentale del giudizio, condivisa da tutti gli esseri umani. Qui il lato “soggettivo” del mondo è chiaramente separato dal lato “oggettivo”, in accordo con la basilare distinzione tassonomica della filosofia moderna, che considera entrambi come due animali pericolosi l’uno per l’altro e che non devono mai essere posti nella stessa gabbia. In un certo senso, è vero che Kant è un “correlazionista” – per utilizzare un termine di Meillassoux ­–, il quale sostiene che non possiamo mai parlare di umani senza mondo o di mondo senza umani, ma solo di una correlazione primordiale tra i due139. Concordo sul fatto che questa affermazione rimanga un ostacolo per il progresso filosofico. Nondimeno, il problema del correlazionismo non è – come sostiene Meillassoux – che le due cose sono combinate in modo tale da non trovarne mai nessuna nella sua forma pura. Il problema è, invece, ritenere che la correlazione primaria alla base della filosofia consista di due e due sole entità, una la mente, l’altra il mondo: con quest’ultima categoria si indicano, in maniera spiccia, miliardi di tipologie di entità non umane. È assurdo che solo in questo caso non sia permessa alcuna combinazione: come se gli umani e il mondo fossero di tipologia radicalmente diversa rispetto a ogni altro composto, come l’idrogeno e l’ossigeno, o l’incontro tra le placche tettoniche di Eurasia e Nord America. Questo è l’aspetto del pensiero kantiano criticato giustamente da Latour per la ragione opposta: un’eccessiva purificazione del pensiero dal mondo, non una loro inammissibile mescolanza140.


Notate che il problema non è semplicemente il fatto che Kant veda l’estetica come “soggettiva” invece che “oggettiva”, come se avessimo semplicemente bisogno di invertire le polarità per mettere a posto la situazione. Risulta, infatti, che Fried e Greenberg operino già questa inversione senza andare alla radice del problema: Greenberg lo fa prediligendo l’approccio “empirico” di Hume su quello “trascendentale” di Kant, Fried chiedendo di bandire il più possibile dall’arte qualsiasi forma di teatralità umana. Rimane così la medesima difficoltà: si afferma ancora che questa particolare mescolanza tra polo soggettivo e oggettivo basti a rovinare l’esperienza estetica. Il diverso approccio della OOO prevede di considerare l’opera d’arte come un composto, che contiene sempre l’essere umano come sua parte essenziale. Come può allora la OOO affermare di essere formalista, dato che ribadiamo che l’opera d’arte non può essere autonoma dagli umani141? Ci lascia forse con un’altra teoria post-formalista e relazionale dell’arte, come sostenuto da Nicolas Bourriaud142? La risposta è che noi tracciamo un’importante distinzione tra l’uomo inteso come componente dell’arte e come suo spettatore privilegiato. L’autonomia delle opere d’arte non implica che esse rimarrebbero tali anche se tutti gli umani venissero sterminati, non più di quanto si potrebbe considerare acqua il solo idrogeno, se tutto l’ossigeno venisse risucchiato via dal cosmo. Questo significa che, per quanto sia un componente necessario di ogni opera d’arte, lo spettatore umano non può cogliere in maniera esaustiva l’opera a cui partecipa. Si pensi alla seguente preoccupazione espressa da Moran:


a differenza della matematica o della moralità, l’opera d’arte è definita da requisiti interni che includono di per sé una relazione con uno spettatore […] [e] questa inclusione minaccia di compromettere l’idea stessa di autonomia estetica, come se l’autonomia e l’indipendenza estetica includessero, di per sé, una dipendenza fatale e come se, tra i requisiti interni all’arte, vi fosse una relazione necessaria con qualcosa di esterno.143


La mia risposta è che l’opera d’arte è, in realtà, un composto formato da me e dall’oggetto indipendente fuori di me che, in base al senso comune, viene considerato opera d’arte. Questo composto eccede singolarmente entrambe le parti e non è conoscibile in maniera esaustiva dallo spettatore umano che lo costituisce parzialmente. La Ronda di notte di Rembrandt non è un quadro se nessuno ne fa esperienza, eppure ciò non implica che la Ronda di notte non sia nulla di più del pensiero mio o di qualcun altro; questo basta per assicurarne l’autonomia, nonostante il bisogno di uno spettatore. Il fatto che vi sia un componente umano nell’arte implica che la teatralità non debba essere esclusa dall’estetica, ma sia una delle sue condizioni necessarie. Tra l’altro, ciò comporta che la OOO non condivida la solita ostilità a priori del formalismo verso la performance art, l’arte concettuale e ambientale, gli happening, le installazioni interattive o altri generi ibridi che si sono sviluppati a partire dagli anni ’60 a spese di media molto più tradizionali. Ci possono certamente essere performance spazzatura e forme banali di arte concettuale e ambientale, proprio come ci sono la pittura e la scultura kitsch. Tuttavia, questo deve essere determinato caso per caso, senza mai respingere interi generi artistici, come gli stessi Greenberg e Fried enfatizzano in linea di principio, se non addirittura nella loro pratica critica.


Rimane da esaminare la questione della distinzione kantiana tra bello e sublime. Una rilevante obiezione posta su questo punto alla OOO proviene da Steven Shaviro, da sempre il critico più corretto e stimolante del pensiero orientato agli oggetti. L’obiezione viene presentata in un meraviglioso articolo, intitolato “The Actual Volcano”, in cui egli difende il suo filosofo preferito, Whitehead, dalla OOO; a suo tempo, ho risposto alle critiche in un testo apposito144. L’aspetto su cui le due filosofie sono in contrasto non potrebbe essere più ovvio: mentre la OOO sostiene un modello non relazionale degli oggetti, Whitehead asserisce che un oggetto non relazionale sarebbe una mera “realtà vuota”145. Egli afferma che le entità reali devono essere analizzate nelle loro relazioni, che egli definisce “prensioni”. Gran parte del disaccordo riguarda l’ontologia e non l’estetica, dunque può essere messo temporaneamente da parte. Ciò che rende l’argomentazione di Shaviro rilevante per l’arte è il fatto di difendere l’enfasi posta da Whitehead sul bello contro quella che egli ritiene un’ossessione della OOO per il sublime. Innanzitutto, trovo la trattazione di Whitehead sul bello di per sé insoddisfacente. Infatti, egli definisce la bellezza come una questione di “contrasti disposti secondo un modello”, uno sparo nella notte che colpisce un insieme di obiettivi meritevoli e non. La teoria della bellezza-come-contrasti-disposti-secondo-un-modello si trova ad affrontare delle immediate difficoltà, poiché implica senza riserve che (a) tutti i contrasti disposti secondo un modello sono belli e (b) solo i contrasti disposti secondo un modello sono belli. La prima affermazione è chiaramente errata: non c’è niente di intrinsecamente bello in un contrasto disposto secondo un modello tra quartieri ricchi e poveri lungo un’estesa area urbana, o in una mappa raffigurante i danni dei bombardamenti in un Paese in guerra. Whitehead dovrebbe aggiungere una condizione qualificante per dirci esattamente quali contrasti disposti secondo un modello conducono alla bellezza. Tuttavia, sono scettico anche riguardo alla seconda affermazione, secondo cui solo i contrasti disposti secondo un modello possono essere belli, poiché questo esclude a priori la scultura minimalista o un quadrato nero di Ad Reinhardt (quello più famoso di Kasimir Malevich mostra almeno un contrasto minimo tra il quadrato e il suo contorno bianco). Laddove è certamente possibile criticare tali opere per la loro assenza di diversità interna, non è chiaro se e perché esse falliscano per la loro assenza di modelli o contrasti.


Risulta più interessante per noi il modo in cui Shaviro lega la teoria di Whitehead al bello, identificando invece la OOO con il sublime. Questo passaggio chiave di Shaviro merita di essere citato per esteso:


La differenza tra Whitehead e Harman, secondo me, si può comprendere meglio come differenza tra estetica del bello ed estetica del sublime. Whitehead definisce la bellezza come una questione di differenze conciliate, adattate l’una all’altra, e “intrecciate in contrasti secondo un modello”, in modo da garantire un’“esperienza intensa”. Harman, dal canto suo, si rifà al concetto di sublime: eppure egli non utilizza mai questo termine, riferendosi invece a ciò che egli chiama allure. Si tratta dell’attrazione esercitata da qualcosa che si è ritratto nei suoi recessi più profondi. Un oggetto è affascinante quando non si limita a mostrare delle qualità particolari, ma allude altresì all’esistenza di qualcosa di più profondo, qualcosa di nascosto e inaccessibile, qualcosa che non può essere mai realmente mostrato. L’allure è quindi un’autentica esperienza del sublime, poiché costringe l’osservatore a raggiungere i limiti delle sue capacità, laddove la sua apprensione crolla. Essere affascinati significa essere ammaliati da una dimensione irraggiungibile.


Dovrebbe essere evidente che il bello appartiene a un mondo di relazioni, in cui le entità continuamente si influenzano, si toccano e si interpenetrano, mentre il sublime appartiene a un mondo di sostanze, in cui le entità si richiamano lungo immense distanze e possono interagire solo in maniera vicaria.146


Shaviro continua ad affermare che il sublime è già stato accuratamente sfruttato dal modernismo estetico e che il nuovo panorama del ventunesimo secolo trarrebbe vantaggio, invece, da un ritorno all’estetica del bello. La mia prima critica è che egli non offre nessuna dimostrazione del supposto legame tra sublime e modernismo, dunque è incapace di provare che la OOO lavora su un giacimento già esaurito. Tuttavia, vi è un aspetto ancora più rilevante. Infatti, anche se concedessimo a Shaviro la considerazione storica che il modernismo si occupi eccessivamente del sublime, cosa lo renderebbe certo che la OOO abbia a che vedere con questo? È certamente vero che nella OOO l’allure si presenta quando un oggetto “non si limita a mostrare delle qualità particolari, ma allude altresì all’esistenza di qualcosa di più profondo, qualcosa di nascosto e inaccessibile, qualcosa che non può essere mai realmente mostrato”. Potrebbe anche sembrare che ciò valga per il sublime kantiano, la cui assoluta grandezza o potenza implica un’assenza di forma, che non mostra qualità particolari e a cui non si può accedere direttamente. Eppure, la trattazione di Shaviro omette una differenza cruciale tra le due filosofie. Sebbene l’oggetto della OOO sia profondo e nascosto e non possa essere mostrato, esso non è mai quantitativamente o qualitativamente “assoluto”, come si nota dall’accordo tra me e Morton sul fatto che riteniamo la finitudine degli iperoggetti più pertinente rispetto agli assoluti.


In effetti, la OOO non distingue affatto il bello dal sublime. Si può dire, invece, che l’oggetto reale affascinante presenti caratteristiche di entrambi. Per la OOO, così come per Kant, il bello appare sempre in una cosa specifica, malgrado l’affermazione successiva di Kant – qui rifiutata – che la bellezza risiede nel nostro giudizio invece che nell’oggetto stesso. Sia per la OOO che per Kant, il mondo ha un’inesauribile profondità, che non assume mai una forma pienamente palpabile. Neghiamo che vi siano due differenti tipologie di esperienza, una del bello, l’altra del sublime. Dal punto di vista della OOO, l’estetica deve considerare le mele di una natura morta e l’impressionante potenza di uno tsunami esattamente allo stesso modo.


A questo proposito, si vedano P. Eisenman, Eisenman Inside Out: Selected Writings, 1963-1988, Yale University Press, New Haven 2004; tr. it. di M. Baiocchi, A. Tagliavini (a cura di), Inside Out. Scritti 1963-1988, Quodlibet, Macerata 2014; Id., Written Into the Void: Selected Writings, 1990-2004, Yale University Press, New Haven 2007.


Si veda B. Latour, On the Partial Existence of Existing and Non-existing Objects, in L. Daston (a cura di), Biographies of Scientific Objects, University of Chicago Press, Chicago 2000, pp. 247-269.


Si veda G. Santayana, The Sense of Beauty: Being the Outline of Aesthetic Theory, Scribner’s, New York 1896; tr. it. di G. Patella (a cura di), Il senso della bellezza, Aesthetica, Palermo 1997.


S. Žižek, Burned by the Sun, in S. Žižek (a cura di), Lacan: The Silent Partners, Verso, London 2006, p. 217.


N.d.T.: Qui e altrove la traduzione è stata leggermente modificata per adeguarsi alla lingua italiana contemporanea e al testo di Harman.


Tra i testi più dettagliati apparsi finora sulla teoria dell’architettura influenzata dalla OOO, vi sono i seguenti: M.F. Gage, Killing Simplicity: Object-Oriented Philosophy in Architecture, in “Log”, vol. 33, 2015, pp. 65-106; T. Wiscombe, Discreteness, or Towards a Flat Ontology of Architecture, in “Project”, vol. 3, pp. 34-43.


Cfr. G. Harman, Guerrilla Metaphysics, cit., pp. 134-141.


T. Morton, Iperoggetti, cit., p. 85.


Si veda Platone, Menone, a cura di M. Bonazzi, Einaudi, Torino 2010.


Si veda Aristotele, Poetica, a cura di P. Donini, Einaudi, Torino 2008.


Si veda G. Harman, Weird Realism: Lovecraft and Philosophy, Zero Books, Winchester 2012.


Si veda Q. Meillassoux, Dopo la finitudine, cit.


Si veda B. Latour, Non siamo mai stati moderni, cit.


La stessa domanda viene posta e successivamente le viene data una risposta in M. DeLanda, A New Philosophy of Society: Assemblage Theory and Social Complexity, Continuum, London 2006.

Si veda N. Bourriaud, Esthétique relationelle, Les Presses du réel, Dijon 1998; tr. it. di M.E. Giacomelli (a cura di), Estetica relazionale, Postmedia Books, Milano 2010.

R. Moran, Formalism and the Appearance of Nature, cit., pp. 126-127.

Si vedano S. Shaviro, The Actual Volcano: Whitehead, Harman, and the Problem of Relations, in L. Bryant, N. Srnicek, G. Harman (a cura di), The Speculative Turn, cit., pp. 279-290; G. Harman, Response to Shaviro, in L. Bryant, N. Srnicek, G. Harman (a cura di), op. cit., pp. 291-303.

A.N. Whitehead, Process and Reality, Macmillan, New York 1929, p. 29; tr. it. di M.R. Brioschi (a cura di), Processo e realtà, Bompiani, Milano 2019.

S. Shaviro, The Actual Volcano, cit., pp. 288-289. Il secondo paragrafo si riferisce a G. Harman, Sulla causazione vicaria, cit.