BREVE STORIA DI (QUASI) TUTTO
Bill Bryson
GUANDA
Viviamo in un pianeta di cui si sa poco o addirittura quasi nulla. Quanto è grande? Quali leggi ne governano il moto, la natura, i fenomeni? È per questo che Bryson si è convinto che, prima di lasciarlo, sia giusto provare a conoscerlo un po' meglio, usare la propria intelligenza e curiosità per scoprirne le regole e i segreti. E allora parte per un viaggio molto diverso da quelli che ha raccontato negli ultimi anni, un viaggio che lo conduce nel mondo delle scoperte e delle conoscenze scientifiche, narrando la storia dell'universo come se fosse un romanzo, facendo comprendere, senza difficoltà inutili, la teoria della relatività, i segreti chimici del big bang, le leggi dell'evoluzionismo, con una prosa ironica e divertente
A Meghan e Chris. Benvenuti
«Il fisico Leo Szilard un giorno rivelò all'amico Hans Bethe l'intenzione di tenere un diario: "Non intendo affatto pubblicarlo. Voglio solo tenere un registro dei fatti per poter informare Dio". "Non credi che Dio lo sappia già, come sono andati i fatti?" gli chiese Bethe. "Certo che lo sa' disse Szilard. Però non conosce ancora la mia versione? »
Hans Christian von Baeyer, Taming the Atom
Introduzione
Benvenuti. E congratulazioni. Sono molto contento che ce l'abbiate fatta. Arrivare fin qui non è stato facile, lo so. Anzi, sospetto che sia stata più dura di quanto voi stessi pensiate. Tanto per cominciare, per consentire a me e a voi di essere qui in questo momento, trilioni di atomi, che vagavano ognuno per conto proprio, hanno avuto la gentilezza di assemblarsi in una combinazione molto complicata, e questo appositamente per creare noi. Si tratta di una configurazione molto particolare, mai sperimentata prima e che non potrà mai più ripetersi. Per i prossimi anni (ci auguriamo che siano ancora molti) queste minuscole particelle si impegneranno a cooperare senza mai lamentarsi in una serie di sforzi che richiederanno tutta la loro abilità, e questo al solo scopo di mantenerci integri e darci la possibilità di provare in prima persona quella particolare condizione, estremamente gradevole anche se spesso poco apprezzata, nota con il nome di esistenza. Perché gli atomi si prendano questo disturbo resta ancora un enigma. Dal loro punto di vista, essere me o voi non è un'esperienza molto gratificante. In fondo, per quanto ci concedano la loro più devota attenzione, agli atomi non importa nulla di noi, anzi, non sanno neanche che esistiamo. Per la verità, non sanno di esistere nemmeno loro. Dopotutto, sono solo delle stupide particelle e non sono neanche vive. (È curioso notare che, se potessimo usare una pinzetta per scomporre il nostro corpo atomo per atomo, non otterremmo altro che un mucchietto di polvere - un mucchietto di atomi - i cui singoli granelli non sono mai stati vivi, ma, presi nel loro insieme, costituivano il nostro corpo.) Eppure, per l'intera durata della nostra esistenza, non faranno altro che rispondere, in qualche maniera, a un unico rigido impulso: fare in modo che noi continuiamo a essere noi.
Il brutto è che gli atomi sono creature volubili e la loro devozione è da ritenersi transitoria, molto transitoria. Una vita umana, per quanto lunga, raggiunge appena le 650.000 ore. E quando si trovano a sfrecciare nei pressi di quella modesta soglia, o in qualsiasi altro punto lì intorno, per ragioni assolutamente sconosciute, i nostri atomi decidono di spegnerci. Poi, silenziosamente, si slegano e se ne vanno ognuno per conto proprio, a diventare qualcos'altro. E per noi tutto finisce lì.
Eppure dovremmo essere contenti che ciò accada. In linea di massima, e per quanto ne sappiamo, è una cosa che non si verifica altrove, nell'universo. E questo è davvero un fatto strano, giacché gli atomi che qui sulla Terra si aggregano fra loro in modo spontaneo e naturale formando gli esseri viventi sono esattamente gli stessi che si rifiutano di farlo altrove. A prescindere da cosa altro possa essere, a livello chimico la vita è estremamente banale: carbonio, idrogeno, ossigeno e azoto, un po' di calcio, un goccetto di zolfo e una spolverata di altri elementi molto comuni. Nulla che non si possa trovare nella farmacia sotto casa. Tutto qui, non serve altro. L'unica particolarità degli atomi che costituiscono il nostro corpo è appunto il fatto che costituiscono noi. E questo, ovviamente, è il miracolo della vita.
Indipendentemente dal fatto che gli atomi diano luogo alla vita anche in angoli dell'universo diversi dal nostro, è pur vero che fanno moltissime cose: anzi, per la verità, fanno tutto il resto. Senza di loro non ci sarebbero né acqua né aria, né rocce né stelle. E nemmeno pianeti, lontane nubi gassose, o nebulose a spirale: nessuna di quelle cose, insomma, che rendono l'universo un luogo così gradevolmente concreto. Gli atomi sono talmente numerosi e necessari da indurci facilmente a dimenticare che in realtà potrebbero benissimo non esistere. Nessuna legge costringe l'universo a riempirsi di particelle di materia o a produrre luce, gravità e tutte quelle altre caratteristiche fondamentali per la nostra esistenza. Non è che l'universo debba esistere per forza. E infatti per un tempo lunghissimo non c'è stato. Non esistevano atomi e non esisteva nemmeno un universo in cui essi potessero fluttuare. Non c'era niente, niente di niente, da nessuna parte. Sarà quindi il caso di rallegrarci per l'esistenza degli atomi. D'altra parte, il fatto che noi abbiamo i nostri atomi e che essi siano tanto determinati ad assemblarsi è solo una parte del processo che ci ha portati fin qui. Trovarci qui adesso, vivi, nel ventunesimo secolo, e così intelligenti da esserne consapevoli, significa essere stati i beneficiari di una straordinaria dose di fortuna biologica. Sopravvivere sulla Terra è una faccenda sorprendentemente complicata. La maggior parte (qualcuno sostiene il 99,9 per cento) dei miliardi e miliardi di specie viventi esistite dall'alba dei tempi, oggi non esiste più. La vita sulla Terra, come si vede, non è soltanto breve, ma anche terribilmente precaria. Una curiosa caratteristica della nostra esistenza è che veniamo da un pianeta adattissimo a promuovere la vita, e ancor più efficiente a portarla all'estinzione.
In genere, le specie presenti sulla Terra durano all'incirca solo quattro milioni di anni. Quindi, se uno ha intenzione di rimanere in circolazione per miliardi di anni, dev'essere mutevole tanto quanto gli atomi che lo compongono. Occorre essere pronti a modificare tutto di se stessi: forma, taglia, colore, specie di appartenenza. Tutto insomma. Ed essere pronti a farlo ripetutamente. Tutto questo è più facile a dirsi che a farsi, poiché il processo di trasformazione è assolutamente casuale. Per evolvere da « primordiale globulo atomico protoplasmico » (come dice la canzone di Gilbert e Sullivan) a esseri umani moderni, eretti e senzienti, abbiamo dovuto mutare, escogitando caratteristiche nuove, e abbiamo dovuto farlo in una sequenza temporale precisa e per un tempo estremamente lungo. In momenti diversi, negli ultimi 3,8 miliardi di anni dapprima abbiamo aborrito l'ossigeno e poi l'abbiamo amato alla follia; ci siamo fatti spuntare ali, pinne ed eleganti vele dorsali; abbiamo depositato uova e falciato l'aria con lingue biforcute; siamo stati lisci o pelosi, abbiamo vissuto sottoterra e sugli alberi; siamo stati grandi come cervi e piccoli come topi, e milioni di altre cose ancora. Una minima deviazione da ciascuno di questi processi evolutivi e adesso ci ritroveremmo a leccare alghe dalle pareti di una grotta, a ciondolare su una riva rocciosa alla maniera dei trichechi o ancora a sfiatare da un'apertura sopra la testa prima di immergerci a diciotto metri di profondità per concederci un boccone di quei deliziosi vermi che vivono affondati nella sabbia.
La nostra fortuna, d'altra parte, non si è limitata al fatto di essere inclusi fin dai primordi in una linea evolutiva favorita dalla selezione: siamo stati anche estremamente, diciamo pure miracolosamente, fortunati per quanto riguarda il nostro albero genealogico personale. Consideriamo che per 3 miliardi e 800 milioni di anni - un periodo di tempo superiore all'età delle montagne, dei fiumi e degli
oceani - ognuno dei nostri avi, per parte di padre e di madre, è stato abbastanza attraente da riuscire a trovarsi un compagno; abbastanza sano da essere in grado di riprodursi; e a tal punto benedetto dal fato e dalle circostanze da vivere abbastanza per farlo. Nessuno dei nostri diretti progenitori è stato schiacciato o divorato; nessuno è morto affogato, di fame, trafitto a tradimento, ferito anzitempo, o in qualsiasi altro modo distolto dal fondamentale compito della sua vita: quello di consegnare, al partner giusto e al momento giusto, quella minuscola quantità di materiale genetico necessaria a perpetuare l'unica possibile sequenza di combinazioni ereditarie che alla fine, incredibilmente, e per un tempo così breve, avrebbe prodotto ciascuno di noi.
Questo libro racconta com'è successo tutto questo. In particolare racconta come si sia passati dal nulla assoluto all'esistenza di qualcosa, e poi di come un pizzico di quel qualcosa si sia trasformato in noi, narrando anche un po' di quello che è accaduto nel frattempo - e anche dopo. È un periodo alquanto lungo da coprire, ovviamente, il che spiega come mai il libro si intitoli Breve storia di (quasi) tutto, anche se in realtà non lo è. E non potrebbe esserlo. Ma se la fortuna ci assiste, arrivati alla fine, sarà come se lo fosse stato.
Il mio punto di partenza, per quello che può valere, è stato un libro di scienze che avevo alle elementari. Era un comunissimo libro scolastico degli anni Cinquanta, logoro, poco amato e orribilmente voluminoso, ma aveva in copertina un'illustrazione intrigante: un disegno in sezione che mostrava l'interno della Terra come se qualcuno ne avesse tagliato, con un grosso coltello, uno spicchio pari a circa un quarto della sua massa.
È difficile pensare che io non avessi mai avuto occasione di vedere un'immagine come quella prima di allora, ma a quanto pare era proprio così, perché mi ricordo con chiarezza di esserne rimasto estasiato. In tutta onestà, ho il sospetto che il mio interesse iniziale poggiasse su un'immagine tutta personale: sciami di motociclisti inconsapevoli che attraversavano le grandi pianure americane diretti a est e proiettati oltre il bordo del precipizio alto 6.500 chilometri ed esteso dal Centro America al Polo Nord. Poi, a poco a poco, mi concentrai sul significato scientifico del
disegno. Venni così a scoprire che, come recitava la didascalia, la Terra è composta di strati separati terminanti al centro in una sfera rovente di ferro e nichel, calda quanto la superficie del Sole. Mi ricordo allora di aver pensato con vero stupore: «Ma come fanno a saperlo? »
Non dubitai nemmeno per un istante della correttezza dell'informazione - sono uno ancora incline a credere alle affermazioni degli scienziati e a fidarmi di chirurghi, idraulici e altri privilegiati possessori di conoscenze arcane -, però proprio non riuscivo a concepire come avesse fatto una mente umana a stabilire l'aspetto e la composizione di spazi che si estendono a centinaia di chilometri sotto di noi, che nessun occhio umano ha mai visto e che nessun raggio X potrà mai penetrare. Per me era un vero miracolo. E tale è rimasta la mia posizione nei confronti della scienza.
Quella sera, tutto eccitato, mi portai il libro a casa, e prima di cena cominciai a leggerlo dalla prima pagina, cosa che credo abbia spinto mia madre a posarmi una mano sulla fronte e chiedermi se stavo bene.
Non ci crederete, ma non era affatto una lettura entusiasmante. Anzi, non era nemmeno sempre comprensibile. Prima di tutto, non rispondeva a nessuna delle domande che il disegno poteva far balenare nella mente di un bambino dotato di una normale curiosità: com'è che ci siamo ritrovati con un sole al centro del pianeta? E come fanno a sapere quanto è caldo? E se là sotto brucia tutto, come mai il suolo sotto i nostri piedi non scotta? E perché il resto dell'interno non si scioglie? O forse invece si sta sciogliendo? E quando il centro si sarà consumato, una parte della Terra finirà per precipitare nel vuoto così formato lasciando un gigantesco buco in superficie? E come si fa a saperlo? Come si fa a immaginarlo?
Ma su questi e altri dettagli l'autore rimaneva stranamente silenzioso. Per la verità manteneva il silenzio su tutto tranne che su anticlinale, sinclinale, faglie assiali e simili. Era come se, con sobrietà, volesse mantenere il segreto su tutte le cose interessanti rendendole incomprensibili. Con il passare degli anni cominciai a sospettare che non si trattasse di una prerogativa dell'autore di quel libro. Sembrava che tutti gli autori di testi scolastici cospirassero per rendere misteriosa la loro materia, mantenendola sempre a una certa distanza dal suscitare un vago interesse, e a un'enorme distanza dal suscitare un interesse profondo.
Adesso so che per fortuna ci sono moltissimi divulgatori scientifici capaci di usare una prosa più chiara e avvincente: prendendo a caso una lettera dell'alfabeto, i primi che vengono in mente sono Timothy Ferris, Richard Fortey e Tim Flannery (per non menzionare il compianto Richard Feynman, una sorta di divinità). Purtroppo, nessuno dei libri su cui ho studiato io era stato scritto da loro. Invece, i loro autori erano uomini (sempre uomini) sostenitori dell'interessante teoria secondo la quale tutto risulta chiaro non appena viene espresso in una formula, e purtroppo convinti che i bambini americani si sarebbero senz'altro divertiti a rimuginare su tutte quelle domande poste in fondo a ciascun capitolo. Così sono cresciuto nella convinzione che la scienza fosse di un'ottusità suprema, sia pure sospettando che non dovesse esserlo necessariamente, e comunque cercando di occuparmene il meno possibile. E questa è un'altra di quelle posizioni che ho mantenuto a lungo.
Poi, molto tempo dopo - circa quattro o cinque anni fa, credo -, mentre ero in volo sul Pacifico e guardavo pigramente dal finestrino l'oceano illuminato dalla luna, mi si presentò alla mente, con una forza piuttosto inquietante, la consapevolezza di non sapere nulla dell'unico pianeta sul quale mi sarebbe mai capitato di vivere. Non avevo idea, per esempio, del perché gli oceani siano salati e i Grandi Laghi no. Non ne avevo la più pallida idea. Non sapevo se gli oceani diventano, con il tempo, più o meno salati, né se i livelli di salinità siano qualcosa di cui preoccuparsi o meno (mi riempie di gioia poter dire che fino alla fine degli anni Settanta nemmeno gli scienziati sapevano rispondere a queste domande: si limitavano a non parlarne in modo esplicito).
E la salinità dell'oceano era solo la punta dell'iceberg della mia ignoranza. Non sapevo che cosa fossero un protone o una proteina, non distinguevo un quark da un quasar, non riuscivo a capire come facessero i geologi a guardare uno strato di roccia sulla parete di un canyon e stabilirne l'età: insomma, non sapevo proprio niente. Fui sopraffatto da una strana, ostinata smania di sapere qualcosa di più su questi argomenti e, soprattutto, di scoprire come facciano gli scienziati a capirne qualcosa. E in effetti, proprio questo - come facciano gli scienziati a scoprire le cose - è rimasto per me il motivo di maggiore meraviglia. Come si fa a sapere qual è il peso della Terra o quanto sono antiche le rocce o che cosa c'è veramente là sotto, al centro? Come si fa a sapere come e quando è cominciato
l'universo e che aspetto avesse all'inizio? Come si fa a sapere che cosa succede dentro un atomo? E come mai, diciamocelo, questi scienziati che sembrano sapere quasi tutto non sono ancora in grado di prevedere un terremoto e neanche di dirci se per andare alle corse di mercoledì prossimo dovremo portarci l'ombrello?
Fu così che decisi di dedicare una parte della mia vita - quelli che si sono poi rivelati tre anni - a leggere libri e riviste e a trovare esperti dotati di una pazienza da santi, disposti a rispondere a un sacco di domande straordinariamente ottuse. L'idea era quella di verificare se esistesse la possibilità di comprendere e apprezzare i miracoli e le conquiste della scienza (magari addirittura di meravigliarsi di fronte a essi o di divertirsi) procedendo a un livello non troppo tecnico o impegnativo, ma neanche troppo superficiale.
Questa era la mia idea e la mia speranza, e questo è ciò che il libro che avete fra le mani intende fare. Comunque sia, abbiamo un'enorme quantità di argomenti da coprire e molto meno di 650.000 ore per farlo, perciò non perdiamo tempo e cominciamo.
PRIMA PARTE. Persi nel cosmo
« Sono tutti sullo stesso piano. Si muovono tutti nella stessa direzione... è perfetto, capisci. E magnifico. È quasi inspiegabile. »
L'astronomo Geoffrey Marcy descrive il sistema solare
1. Come costruire un universo
Non serve accanircisi più di tanto: non riusciremo mai a comprendere quanto un protone possa essere minuscolo e insignificante dal punto di vista dimensionale. È troppo piccolo e basta.
Il protone è una porzione infinitesima di atomo, che ovviamente è già di per se stesso un oggetto minuscolo. I protoni sono così piccoli, che un puntino di inchiostro come quello che sta su una «i» può contenerne qualcosa come 500.000.000.000, ossia un numero superiore a quello dei secondi contenuti in mezzo milione di anni.1 Insomma, i protoni sono microscopici all'eccesso, ed è ancora dir poco.
Immaginiamo di poter ridurre un protone fino a un miliardesimo delle sue normali dimensioni (ovviamente non si può) e costringerlo in uno spazio così piccolo da far sembrare enormi le sue precedenti dimensioni. Adesso, proviamo ad ammassare in quel minuscolo spazio trenta grammi scarsi di materia.2 Fatto? Benissimo. Ora siamo pronti a costruire un universo.
Sto dando per scontato che vogliamo costruire un universo di tipo inflazionario. Se invece preferissimo fabbricarne uno vecchio stile, del classico tipo Big Bang, allora occorrerebbero altri materiali. Per la verità, bisognerebbe raccogliere tutto quello che c'è in giro, ogni granello e particella di materia dalla creazione ai giorni nostri, e comprimerlo fino a ridurlo a un punto così infinitesimale e compatto da non avere dimensioni: quello che si dice una singolarità.
In entrambi i casi, prepariamoci a un'immensa esplosione. Ovviamente, per godersi lo spettacolo, sarebbe meglio mettersi al riparo in un posto sicuro. Peccato però che questo posto sicuro non esista, dato che oltre alla singolarità non c'è nient'altro. Quando l'universo comincia a espandersi, non si va dilatando per andare a riempire un vuoto preesistente più vasto. L'unico spazio esistente è, di fatto, quello che l'universo stesso crea espandendosi.
Viene spontaneo - ma non è corretto - raffigurarsi la singolarità come una specie di punto fecondo che fluttua nel buio di uno spazio vuoto e illimitato. Invece, non esiste spazio, e non esiste il buio. Attorno a sé, la singolarità non ha dintorni. Non c'è uno spazio che possa occupare, non ha un posto dove stare. Non siamo neanche in grado di chiederle da quanto tempo se ne sta lì; se si sia affacciata all'esistenza come un'idea che si affaccia nella mente, o se è sempre esistita nella silenziosa attesa del momento giusto. Il tempo non esiste. Non esiste un passato dal quale essa possa emergere.
E così, dal nulla, ecco che prende forma il nostro universo.
Un'unica pulsazione abbagliante, un momento di gloria troppo rapido e grandioso per poterlo tradurre in parole: la singolarità assume dimensioni celesti. Uno spazio inimmaginabile. Il primo secondo di vita (un secondo a cui molti cosmologi dedicheranno la carriera, sezionandolo in ostie sempre più sottili) produce la gravità e le altre forze che governano la fisica. In meno di un minuto il diametro dell'universo ha già superato il milione di miliardi di chilometri e cresce a grande velocità. C'è un calore enorme adesso, dieci miliardi di gradi, abbastanza per innescare le reazioni nucleari che generano gli elementi più leggeri, soprattutto elio e idrogeno, con un poco di litio (circa un atomo su un cento milioni). In tre minuti è stato prodotto il 98 per cento di tutta la materia esistente o che mai esisterà. Abbiamo un universo. È un posto dalle meravigliose e gratificanti potenzialità. Ed è anche bello. Costruito all'incirca nel tempo che occorre per preparare un panino.
Quando sia accaduto tutto questo è ancora oggetto di dibattito. I cosmologi hanno molto discusso attorno al fatto che il momento della creazione possa risalire a dieci miliardi di anni or sono, oppure a venti o a un'epoca intermedia fra questi due estremi. Un certo grado di consenso sembra convergere intorno a circa 13,7 miliardi di anni fa, ma si sa che queste cose sono difficili da calcolare, come avremo modo di vedere più avanti.3 Tutto quello che si può affermare con certezza è che, in un punto non specificato di un passato molto remoto, per ragioni sconosciute, si arrivò al momento noto alla scienza come t = 0.4 Ci eravamo messi in cammino.
Ovviamente ci sono moltissime cose che non sappiamo, e gran parte di quello che pensiamo di sapere lo sappiamo, o pensiamo di saperlo, da non molto tempo. Anche il concetto di Big Bang è
abbastanza recente. L'idea cominciò a circolare negli anni Venti, quando il belga Georges Lemaìtre, sacerdote e studioso, la propose come ipotesi provvisoria. Si dovette tuttavia aspettare la metà degli anni Sessanta, quando due giovani radioastronomi si imbatterono in una scoperta tanto straordinaria quanto casuale, perché quell'ipotesi divenisse un'idea vitale della cosmologia.
I due giovani studiosi si chiamavano Arno Penzias e Robert Wilson. Nel 1965 stavano cercando di usare una grande antenna per le comunicazioni, di proprietà dei Bell Laboratories di Holm-del (New Jersey), ma erano costantemente disturbati da un persistente rumore di fondo - un sibilo incessante e fastidioso che rendeva impossibile ogni esperimento. Il rumore era continuo e impossibile da localizzare. Arrivava da tutti i punti del cielo, giorno e notte, in tutte le stagioni. Per un anno intero, i giovani astronomi fecero il possibile per rintracciarne la fonte ed eliminarlo. Controllarono tutto il sistema elettrico. Riassemblarono gli strumenti, controllarono i circuiti, agitarono i cavi, spolverarono le prese elettriche. Si arrampicarono sull'antenna satellitare, e coprirono rivetti e giunture con nastro isolante. Tornarono ad arrampicarsi sulla parabolica, armati di scope e spazzoloni, e la ripulirono a fondo di quello che un articolo, uscito qualche tempo dopo, definì «materiale bianco dielettrico», a noi meglio noto come cacca di uccello.5 Ma non ci fu niente da fare.
A loro insaputa, e a soli cinquanta chilometri di distanza, presso la Princeton University, il gruppo di ricerca scientifica guidato da Robert Dicke stava studiando lo stesso fenomeno del quale a Holmdel stavano cercando di liberarsi con tanto accanimento. I ricercatori di Princeton seguivano un'ipotesi suggerita negli anni Quaranta dall'astrofisico di origine russa George Gamow, secondo il quale, se si fosse scrutato abbastanza in profondità nello spazio, si sarebbe rintracciata parte della radiazione cosmica di fondo lasciata dal Big Bang. Gamow aveva calcolato che, una volta attraversata la vastità del cosmo, le radiazioni avrebbero raggiunto la Terra ormai in forma di microonde. In un articolo di più recente pubblicazione aveva inoltre suggerito uno strumento adatto a ricevere quel segnale: l'antenna dei Bell Laboratories che si trovava a Holmdel.6 Peccato che né Penzias, né Wilson, né i ricercatori di Princeton avessero letto l'articolo di Gamow.
Infatti, il rumore che tormentava Penzias e Wilson era proprio quello postulato da Gamow. Avevano scoperto il bordo dell'universo, o almeno della sua parte visibile, a 90 miliardi di trilioni di chilometri di distanza.7 Stavano « vedendo » i primi fotoni - la luce più antica dell'universo - sebbene il tempo e la distanza li avessero trasformati in microonde, proprio come previsto da Gamow. Nel suo libro, The Inflationary Universe, Alan Guth fornisce un'analogia che ci aiuta a mettere queste scoperte nella giusta prospettiva. Se paragonassimo il nostro scrutare nelle profondità dell'universo a uno sguardo giù dal centesimo piano dell'Empire State Building (dove il centesimo piano rappresenta il presente e il livello stradale il Big Bang), al tempo della scoperta di Wilson e Penzias le galassie più distanti mai localizzate si trovavano all'incirca al sessantesimo piano, e le cose più distanti - i quasar - all'altezza del ventesimo. La scoperta di Penzias e Wilson spinse la nostra conoscenza dell'universo visibile a mezzo millimetro dal piano terra.8
Ancora ignari della fonte del rumore, Wilson e Penzias telefonarono a Princeton e descrissero a Dicke il problema, nella speranza che potesse suggerir loro una soluzione. Dicke si rese subito conto di quello che i due giovanotti avevano scoperto. «Bene ragazzi » disse ai suoi colleghi mentre riagganciava, « ci hanno battuto sul tempo. »
Subito dopo, l'Astrophysical Journal pubblicò due articoli: uno di Penzias e Wilson che descriveva la loro esperienza con il rumore di fondo, e l'altro del gruppo di Dicke che ne spiegava la natura. Quando si imbatterono nella radiazione cosmica di fondo, Penzias e Wilson non la stavano cercando; una volta trovatala, poi, non sapevano che cosa fosse e non ne descrissero o interpretarono mai la natura; ciò nondimeno, nel 1978 ricevettero il premio Nobel per la fisica. Ai ricercatori di Princeton toccò soltanto solidarietà. In Cuori solitari del cosmo, Dennis Overbye afferma che né Penzias né Wilson compresero appieno il significato di ciò che avevano scoperto fino a che non lo lessero sul New York Times.
Per inciso, il disturbo derivante dalla radiazione cosmica di fondo è qualcosa che, in qualche occasione, abbiamo sperimentato tutti. Basta sintonizzare il televisore su un qualsiasi canale che esso non riceva bene: l'un per cento circa dei disturbi elettrostatici è dovuto a questo antico residuo del Big Bang.9 La prossima volta
che non vedete niente sullo schermo, invece di lamentarvi, ricordate che state assistendo alla nascita dell'universo.
Nonostante tutti lo chiamino Big Bang, molti testi ci avvertono di non pensare a esso come a un'esplosione in senso tradizionale. Piuttosto, si trattò di un'espansione improvvisa e su scala immensa. Ma che cosa fu a provocarla?
Un'ipotesi è che la singolarità fosse il residuo di un precedente universo collassato, e che quindi il nostro sia parte di un eterno ciclo di espansioni e collassi, come la sacca di un respiratore artificiale. Altri attribuiscono il Big Bang a quel che viene definito «falso vuoto», «campo scalare» o ancora «energia del vuoto»: un qualcosa che introdusse nel nulla preesistente una certa dose di instabilità. Sembra impossibile che si possa ottenere qualcosa dal nulla; d'altra parte, il fatto che un tempo non ci fosse nulla e che adesso esiste invece un universo è la prova evidente che è possibile. Può darsi che il nostro sia solo una parte di molti universi più grandi - alcuni esistenti in altre dimensioni - e che i Big Bang avvengano di continuo in tutto lo spazio. Ma può anche essere che spazio e tempo avessero forme completamente differenti prima del Big Bang - forme troppo strane per poterle immaginare - e che il Big Bang rappresenti una fase di transizione attraverso la quale l'universo è passato da una forma a noi incomprensibile a un'altra che riusciamo quasi a capire. « Queste sono domande che si spingono molto vicino alla religione» dichiarò nel 2001 al New York Times il dottor Andrei Linde, un cosmologo della Stanford University.10
La teoria del Big Bang non riguarda l'esplosione in se stessa, ma quello che successe dopo. Non molto dopo, attenzione. Sobbarcandosi un sacco di calcoli e osservando attentamente che cosa succede negli acceleratori di particelle, gli scienziati sono ormai convinti di poter risalire fino a 10^43 secondi dopo la creazione, quando l'universo era ancora così piccolo che per trovarlo sarebbe stato necessario un microscopio. Non dobbiamo andare in estasi di fronte a ogni numero eccezionale che ci si presenta, questo no; forse però vale la pena di esaminarne uno di tanto in tanto, solo per farci un'idea di tutta la loro straordinaria e incomprensibile enormità. Questo 10^43 corrisponde a 0,0000000000000000000000000000000000000000001;"
oppure, se preferite, a un decimilionesimo di trilionesimo di trilionesimo di trilionesimo di secondo.*
La maggior parte di quello che sappiamo, o crediamo di sapere, dei primi momenti di vita dell'universo lo si deve a un'idea chiamata teoria dell'inflazione, proposta per la prima volta nel 1979 da Alan Guth, un fisico delle particelle appena assunto alla Stanford University, ora docente al MIT. All'epoca Guth aveva 32 anni e, per sua stessa ammissione, non aveva ancora combinato un gran che.12 E se non gli fosse capitato di seguire una conferenza sul Big Bang tenuta, guarda caso, da Robert Dicke, non gli sarebbe mai venuta una simile illuminazione teorica. Quella conferenza ispirò in Guth un forte interesse per la cosmologia in generale, e per la nascita dell'universo in particolare.13
Risultato finale fu la teoria dell'inflazione, secondo la quale nella frazione di istante successiva all'alba della creazione, l'universo subì una improvvisa e strabiliante espansione. Si gonfiò - in effetti fu come se fuggisse con se stesso da se stesso, raddoppiando le proprie dimensioni ogni 10^34 secondi.14 L'intero evento non sarà durato più di 10^30 secondi - cioè un milionesimo di milionesimo di milionesimo di milionesimo di milionesimo di secondo - ma trasformò l'universo da un oggetto che stava tutto in una mano,
* Un cenno sulla notazione scientifica: dal momento che i numeri molto grandi sono complicati da scrivere e quasi impossibili da leggere, gli scienziati usano una notazione abbreviata che fa uso di potenze (o multipli) di dieci; in questo sistema, per esempio, 10.000.000.000 si scrive 10^10 e 6.500.000 diventa 6,5x 10 06. Il principio si basa, molto semplicemente, sui multipli di dieci: 10x10 (ossia 100) diventa 10^2, 10x10x10 (ossia 1000) è 10^3; e così via all'infinito. Il piccolo numero in alto, ossia l'esponente, sta a indicare quanti zeri seguono il numero scritto in caratteri più grandi. Le notazioni negative forniscono essenzialmente un'immagine speculare, in cui l'esponente indica il numero di posizioni a destra della virgola decimale (10^4, per esempio, significa 0,0001). Per quanto apprezzi molto il principio, rimango, comunque, sorpreso dal fatto che qualcuno, leggendo 1,4x10 km3, capisca immediatamente che si sta parlando di 1,4 miliardi di chilometri cubici. E ancora di più mi stupisce che gli editori preferiscano il primo metodo al secondo (soprattutto quando il libro che pubblicano è destinato a un lettore comune, come in effetti è quello da cui ho tratto questo esempio). Dando per scontato che molti dei miei lettori siano digiuni di matematica come lo sono io, userò le notazioni abbreviate con parsimonia, sebbene esse a volte siano inevitabili, soprattutto in un capitolo dedicato a oggetti su scala cosmica.
a qualcosa che era almeno 10.000.000.000.000.000.000.000.000 di volte più grande.15 La teoria dell'inflazione spiega tutte le increspature e i vortici che rendono possibile l'universo. Senza inflazione non ci sarebbero ammassi di materia: quindi niente stelle. Soltanto gas fluttuanti e buio infinito.
Secondo la teoria di Guth, la gravità emerse a un decimilionesimo di trilionesimo di trilionesimo di trilionesimo di secondo dall'inizio, e venne poi raggiunta, dopo un intervallo di tempo altrettanto irrisorio, dall'elettromagnetismo, dall'interazione nucleare debole e dall'interazione nucleare forte - le fondamentali componenti della fisica. A queste si aggiunsero, un istante più tardi, nugoli di particelle elementari - le fondamentali componenti della materia. Dal nulla assoluto emersero improvvisamente sciami di fotoni, protoni, elettroni, neutroni e molte altre particelle, ognuna delle quali, sempre secondo la teoria del Big Bang, in una quantità compresa fra 10^79 e 10^89.
È chiaro che quantità del genere sono incomprensibili. A noi basta sapere che nel volgere di un solo istante siamo stati dotati di un universo enorme - stando alla teoria, con un diametro di almeno un centinaio di miliardi di anni luce, ma forse di una qualsiasi dimensione fino all'infinito - e perfettamente adatto alla formazione di stelle, galassie e altri sistemi complessi.16
Per quanto ci riguarda, la cosa più straordinaria dell'universo è che si sia rivelato così meravigliosamente adatto a noi. Se fosse stato appena un poco diverso - se la gravità fosse stata più forte o più debole, anche solo di una minima quantità, o se il processo di espansione fosse stato appena un po' più lento o più veloce -non si sarebbero mai potuti formare quegli elementi stabili che compongono me, voi e il terreno su cui poggiamo i piedi. Se la forza di gravità fosse stata un filo più intensa, l'universo sarebbe anche potuto collassare, come una tenda montata male, in assenza dei valori adatti a conferirgli le dimensioni, la densità e le componenti necessarie. E d'altra parte, se la gravità fosse stata più debole, avrebbe impedito qualsiasi unione di particelle. L'universo sarebbe rimasto per sempre un vuoto apatico e frammentato.
Questa è una delle ragioni per cui, secondo alcuni esperti, ci sarebbero stati molti altri big bang, forse trilioni e trilioni, in tutte le possibili regioni dell'infinito; il motivo per cui esistiamo proprio in
questo universo è che questo è l'unico in cui potremmo esistere. Per dirla con le parole di Edward P. Tryon della Columbia University: « Se mi si chiede perché ciò sia accaduto, posso solo avanzare la modesta ipotesi che il nostro universo è semplicemente una di quelle cose che capitano di tanto in tanto». E, come aggiunge Guth: « Sebbene la creazione di un universo possa essere un evento assai improbabile, Tryon ha giustamente fatto notare che nessuno ha mai potuto contare i tentativi falliti».17
Martin Rees, che si fregia del titolo di Britain's Astronomer Royal, è convinto che esistano numerosi universi (forse infiniti) ciascuno con attributi propri, in differenti combinazioni; noi, semplicemente, viviamo in uno di tali universi, le cui condizioni sono tali da consentirci di esistere. Un po' come in un grande magazzino: «Dove c'è'un vasto assortimento di vestiti» scrive Rees «non è difficile trovarne uno della nostra misura. Se esistono molti universi, ognuno dei quali governato da una diversa combinazione di numeri, ce ne sarà pure uno in cui quella combinazione è adatta alla vita. Noi ci troviamo in quello ».18
Rees ritiene che a governare il nostro universo siano, in particolare, sei numeri e che se solo uno di questi venisse modificato - sia pure in minima parte - le cose non potrebbero più essere come sono. Affinché l'universo esista nella forma in cui lo conosciamo, per esempio, occorre che l'idrogeno sia convertito in elio con molta precisione e in quantità imponenti - così da trasformare in energia sette millesimi della sua massa. Se questo valore fosse un poco più basso - sei millesimi invece di sette, per esempio - non potrebbe verificarsi alcuna trasformazione: l'universo consisterebbe esclusivamente di idrogeno e niente altro. Se alzassimo impercettibilmente il valore - portandolo a otto millesimi - la combinazione sarebbe così feconda che l'idrogeno si sarebbe già esaurito da tempo. In entrambi i casi, basterebbe una minima modifica dei valori e l'universo, così come lo conosciamo e come ci serve, non sarebbe più qui.19
Fin qui tutto bene. A lungo andare, però, la gravità potrebbe diventare un po' troppo intensa.20 Un giorno potrebbe fermare l'espansione dell'universo e portarlo a collassare su se stesso, fino al punto da comprimersi in un'altra singolarità, magari per ricominciare daccapo l'intero processo.
All'estremo opposto, la gravità potrebbe diventare troppo debole, nel qual caso la fuga dell'universo continuerebbe all'infinito, fino a quando ogni cosa sarebbe così lontana dall'altra da rendere impossibile ogni tipo di interazione fra la materia: l'universo diventerebbe un luogo molto spazioso, ma inerte e morto. La terza possibilità, infine, è che la gravità sia perfettamente calibrata - « densità critica» è il termine usato dai cosmologi per definirla - e tenga assieme l'universo nella giusta misura, consentendone il perpetuarsi a tempo indefinito. Nei loro momenti di maggior frivolezza, i cosmologi lo definiscono «effetto Riccioli d'Oro», a significare che tutto è perfetto. (Per la cronaca, questi tre universi possibili sono conosciuti rispettivamente come universo chiuso, aperto e piatto.)
Ora, la domanda che a un certo punto è venuta in mente a tutti noi è: che cosa succederebbe se qualcuno si spingesse fino al limite dell'universo e, per così dire, mettesse la testa fuori dal sipario? A quel punto, dove sarebbe la testa di questo qualcuno? Fuori dall'universo? Che cosa troverebbe al di là? La risposta, per quanto deludente, è che non potrebbe mai raggiungere il confine dell'universo. Questo non perché impiegherebbe troppo tempo ad arrivarci - anche se ovviamente ce ne vorrebbe davvero tanto - ma perché, quand'anche procedesse in linea retta verso l'esterno, all'infinito e con tenacia, non arriverebbe mai a un confine. Si ritroverebbe invece al punto di partenza (e con ogni probabilità, a quel punto, si scoraggerebbe e rinuncerebbe all'impresa). Motivo di tutto ciò è che l'universo curva in una maniera che non riusciamo bene a figurarci, conformemente alla teoria della relatività di Einstein (che affronteremo a tempo debito). Per il momento ci basta sapere che non siamo alla deriva in una specie di bolla in continua espansione. Piuttosto, lo spazio curva in un modo che gli consente di essere finito, ma senza limiti. Lo spazio non può essere propriamente detto in espansione perché, come fa notare il premio Nobel per la fisica Steven Weinberg: «Le galassie e i sistemi solari non sono in espansione, e neanche lo spazio stesso lo è ». In realtà le galassie si stanno allontanando.21 È un'autentica sfida per il nostro intuito. O meglio, come osservò il famoso biologo J.B.S. Haldane: «L'universo non è solo più strano di quanto immaginiamo, è più strano di quanto possiamo immaginare».
L'esempio al quale si ricorre di solito per spiegare la curvatura dello spazio consiste nel cercare di immaginare che cosa succederebbe se si portasse sulla Terra un essere proveniente da un universo fatto di superfici piatte, una creatura che non sappia che cos'è una sfera. Per quanto possa percorrere la superficie del pianeta, in lungo e in largo, costui non troverà mai un bordo. Alla fine si ritroverà nel punto da cui era partito, e si sentirà così confuso da non riuscire a spiegare come ciò sia potuto accadere. Ora, rispetto allo spazio, noi ci troviamo nella stessa posizione di questo sconcertato abitante di Piattolandia, solo che la nostra perplessità scaturisce da una situazione in cui vi è una dimensione in più.
Proprio come non esiste alcun luogo dove cercare il confine dell'universo, così non esiste un luogo in cui uno possa dire: « Ecco, da qui è cominciato tutto. Questo è il centro assoluto di tutto ». Siamo tutti al centro di tutto. In realtà, non lo sappiamo con certezza. Non possiamo dimostrarlo in termini matematici. Gli scienziati si limitano ad-assumere che non possiamo trovarci davvero al centro dell'universo - pensate a che cosa comporterebbe - ma che il fenomeno debba essere lo stesso per tutti, a prescindere dal punto di osservazione.22 E tuttavia, in realtà non lo sappiamo.
Per noi, l'universo arriva solo fino a dove si è spinta la luce nei miliardi di anni trascorsi a partire dall'inizio. Questo universo visibile - l'universo che conosciamo e di cui possiamo parlare - si estende per oltre 1,5 milioni di milioni di milioni di milioni (cioè 1.500.000.000.000.000.000.000.000) di chilometri.23 Secondo la maggior parte delle teorie, però, l'universo nella sua totalità - il meta-universo, come viene a volte chiamato - è ancora più vasto. Stando a Rees, il numero di anni luce per indicare la distanza dal confine di questo universo più ampio e sconosciuto, andrebbe scritto non « con dieci zeri, e nemmeno con cento, ma con milioni di zeri».24 Per farla breve, esiste già più spazio di quanto se ne possa immaginare, senza che ci sia bisogno di raffigurarsene dell'altro.
Per molto tempo la teoria del Big Bang ha avuto una lacuna così profonda da destare la preoccupazione di molti: non riusciva proprio a spiegare come abbiamo fatto ad arrivare fin qui. Sebbene il Big Bang abbia creato il 98 per cento di tutta la materia esistente, essa consisteva esclusivamente di gas leggeri come l'elio, l'idrogeno e il litio che abbiamo citato prima. Dal crogiolo di gas della creazione non era emersa nemmeno una particella di quella materia più pesante tanto essenziale alla nostra vita (elementi come il carbonio, l'azoto, l'ossigeno e altri ancora). Eppure, e qui sta l'inghippo, per
forgiare questi elementi pesanti occorreva il tipo di calore e di energia che si producono in un Big Bang. Ora, noi sappiamo che c'è stato un solo Big Bang, il quale non li ha prodotti: ma allora da dove sono saltati fuori? Paradossalmente, l'uomo che trovò la risposta a questa domanda fu un cosmologo che nutriva un gran disprezzo per la teoria del Big Bang: egli infatti coniò il termine Big Bang con intento sarcastico e canzonatorio.
Parleremo di lui tra poco, ma prima di chiederci come abbiamo fatto ad arrivare fin qui, è forse il caso di riflettere qualche minuto su dove sia, esattamente, questo «qui».
2. Benvenuti nel sistema solare
Di questi tempi gli astronomi riescono a fare le cose più incredibili. Se qualcuno accendesse un fiammifero sulla Luna, loro sarebbero in grado di localizzare la fiamma. Da minuscole pulsazioni e oscillazioni di stelle lontane riescono a inferire la grandezza, la natura e perfino la potenziale abitabilità di pianeti decisamente troppo lontani per essere visti - così remoti che per raggiungerli bisognerebbe starsene chiusi in una navicella spaziale per mezzo milione di anni.1 Armati di radiotelescopi, possono catturare quantità straordinariamente piccole di radiazioni - talmente flebili che, dal 1951, anno in cui è cominciata la ricerca, la somma totale dell'energia raccolta al di fuori del sistema solare risulta, come ha detto Cari Sagan, « inferiore a quella con cui un singolo fiocco di neve colpisce il suolo ».2
Insomma, ben poco di ciò che accade nell'universo riesce a sfuggire allo sguardo degli astronomi, soprattutto se si sono messi in mente di dargli la caccia. Ecco perché è tanto straordinario che fino al 1978 nessuno avesse notato che Plutone possiede una luna. Nell'estate di quell'anno, presso l'Osservatorio Navale di Flagstaff in Arizona, un giovane astronomo di nome James Christy,3 intento al normale controllo delle immagini fotografiche di Plutone, si accorse a un tratto della presenza di qualcosa: qualcosa di incerto e indistinto, ma di decisamente diverso da Plutone. Consultato il collega Robert Harrington, giunse alla conclusione di essersi imbattuto in una luna. E non era una luna qualsiasi. Rispetto al suo pianeta, quella era la più grande luna del sistema solare.
Fu davvero un brutto colpo per lo status di Plutone in quanto pianeta. Status che comunque non era mai stato particolarmente solido. Se in precedenza gli spazi occupati da Plutone e dalla sua luna erano stati considerati tutt'uno, ciò significava che in realtà Plutone era molto più piccolo di quanto si supponesse: addirittura più piccolo di Mercurio.4 Insomma: sette lune del sistema solare, compresa la nostra, sono più grandi di lui.
Sorge allora spontanea la domanda: come mai ci è voluto tanto tempo per accorgersi di una luna all'interno del nostro stesso sistema solare? La risposta è che dipende in parte da dove gli astronomi puntano gli strumenti, in parte dal tipo di osservazione per cui questi strumenti sono stati progettati, e in parte dalle stravaganze dello stesso Plutone. Più che altro, però, è questione di dove vengono puntati gli strumenti. Come dice l'astronomo Clark Chap-man: «La maggior parte della gente pensa che gli astronomi la notte escano e se ne vadano a scrutare il cielo nei loro osservatori. Non è affatto vero. Quasi tutti i telescopi del mondo sono stati concepiti per scrutare piccolissime porzioni di cielo a distanza, in modo da consentire l'osservazione dei quasar, la caccia ai buchi neri e la ricerca di galassie lontane. L'unica rete di telescopi capace di scrutare il cielo nella sua interezza è stata progettata e costruita a scopi militari».5
Le libere interpretazioni degli artisti ci hanno viziati, abituandoci a una nitidezza d'immagine che in astronomia non esiste. Nelle fotografie di Christy, Plutone appare sbiadito e confuso - un fiocco di lanugine cosmica - e la sua luna non è affatto la compagna dai contorni ben delineati, romanticamente in controluce, mostrata dalle illustrazioni del National Geographic. Piuttosto, è un minuscolo e assai vago indizio della presenza di un altro oggetto indeterminato. E in effetti fu proprio questa vaghezza a rendere necessari sette anni di ricerche prima che qualcuno riuscisse a localizzare la luna una seconda volta confermandone così in modo indipendente l'esistenza.6
Altro fatto curioso della scoperta di Christy è che avvenne a Flagstaff, cioè proprio dove, nel 1930, fu individuato Plutone la prima volta. Quell'evento, che tanta importanza ebbe per l'astronomia, è da attribuire in massima parte all'astronomo Percival Lowell. Lowell proveniva da una delle più antiche e facoltose famiglie bostoniane (quella dei famosi versi in cui si dice che a Boston «i Lowell parlano solo con i Cabots e i Cabots solo con Dio») e fu lui a finanziare l'osservatorio che porta il suo nome. La storia, tuttavia, lo ricorderà sempre per la sua convinzione che Marte fosse coperto di canali costruiti da marziani industriosi con l'intento di convogliare l'acqua dalle regioni polari del pianeta a quelle aride - ma fertili - più vicine all'equatore.
Altra tenace convinzione di Lowell era che da qualche parte,
oltre l'orbita di Nettuno, esistesse un nono pianeta non ancora scoperto, che nominò Pianeta X. Lowell basava il proprio convincimento sulle irregolarità che aveva personalmente riscontrato nelle orbite di Urano e Nettuno; e dedicò gli ultimi anni della sua vita alla ricerca di quel gigante gassoso che era certo dovesse trovarsi proprio da quelle parti. Purtroppo, Lowell morì all'improvviso nel 1916, almeno in parte sfinito dalla lunga ricerca. Ricerca che, mentre gli eredi di Lowell si contendevano le sue proprietà, restò in sospeso. A ogni modo, nel 1929, i responsabili del Lowell Obser-vatory decisero di riprenderla, forse per distogliere l'attenzione dalla saga dei canali di Marte (diventata ormai per loro fonte di serio imbarazzo). A questo scopo, assunsero un giovane del Kansas di nome Clyde Tombaugh.
Pur non avendo la formazione canonica dell'astronomo, Tombaugh era diligente e perspicace, e dopo un anno di pazienti ricerche, in un modo o nell'altro, riuscì a individuare Plutone, flebile punto di luce nello scintillio del firmamento.7 Fu una scoperta miracolosa, ma a renderla ancora più sensazionale fu che le osservazioni in base alle quali Lowell aveva predetto l'esistenza di un pianeta oltre l'orbita di Nettuno si dimostrarono in larga misura sbagliate. Tombaugh si rese subito conto che il nuovo pianeta non era affatto l'enorme sfera gassosa postulata da Lowell. A ogni modo, qualsiasi riserva lui o altri avessero nutrito sulla natura del nuovo pianeta fu subito spazzata via dall'esaltazione che in quell'epoca di facili entusiasmi accompagnava tutte le grosse novità. Era il primo pianeta scoperto in America, e quindi nessuno era disposto a contemplare l'idea che fosse solo un lontano puntino ghiacciato. Il pianeta fu battezzato Plutone, almeno in parte perché le prime due lettere corrispondevano alle iniziali di Lowell, ormai celebrato ovunque come un genio di prim'ordine. Tombaugh fu invece dimenticato da tutti, salvo che dagli astronomi planetari i quali tendono invece a nutrire per lui una stima profonda.
Qualche astronomo continua a pensare che da qualche parte possa comunque esistere un Pianeta X,8 un oggetto enorme, forse dieci volte più grande di Giove, ma così lontano da sfuggire ai nostri strumenti. (Riceverebbe così poca luce solare da emettere, a sua volta, una quantità di radiazioni quasi nulla.) L'idea è che non si tratti di un pianeta convenzionale come Giove o Saturno: è troppo lontano (stiamo parlando di circa 4,5 trilioni di chilometri)
per essere un oggetto di quel tipo; sarebbe invece più simile a un sole mai nato. La maggior parte dei sistemi stellari esistenti nel cosmo è binaria (ha cioè due soli) il che conferisce una leggera nota di eccentricità alla nostra stella solitaria.
Riguardo a Plutone, nessuno sa bene quanto sia grande, di che cosa sia fatto, che tipo di atmosfera abbia e neanche che cosa sia veramente. Molti astronomi pensano che non si tratti affatto di un pianeta, ma del più grande oggetto mai scoperto in quella zona di detriti galattici nota come Fascia di Kuiper. Teorizzata dall'astronomo F.C. Léonard nel 1930,9 la Fascia di Kuiper prende il nome da Gerard Kuiper, scienziato olandese che lavorava in America e che sviluppò l'ipotesi di Léonard. La Fascia di Kuiper è una fonte di comete cosiddette « a breve periodo » - quelle, per intenderci, che passano con una certa regolarità - fra le quali c'è la famosissima cometa di Halley. Le comete a lungo periodo si fanno vedere di meno e provengono dalla remota nube di Oort, della quale parleremo più avanti; tra di esse annoveriamo due delle nostre più recenti visitatrici: Hale-Bopp e Hyakutake.
Di sicuro Plutone non si comporta come tutti gli altri pianeti. Non solo è piccolo e oscuro: i suoi movimenti sono talmente variabili che nessuno può sapere con certezza dove si troverà da qui a un secolo. Mentre gli altri pianeti orbitano all'incirca tutti sullo stesso piano, Plutone si muove su un'orbita inclinata rispetto alle altre di circa diciassette gradi, un po' come la tesa di un cappello piegato sulle ventitré. La sua orbita è talmente irregolare che durante le sue solitarie rivoluzioni intorno al Sole, per lunghi periodi Plutone finisce per trovarsi più vicino a noi di quanto lo sia Nettuno. In effetti, quest'ultimo si trovò a essere il pianeta più esterno del sistema solare per quasi tutti gli anni Ottanta e Novanta. Fu soltanto nel febbraio del 1999 che Plutone se ne tornò nella sua carreggiata esterna, dove dovrebbe rimanere per i prossimi 228 anni.10
Pertanto, se Plutone è davvero un pianeta, deve essere proprio uno di quelli strani. È piccolissimo, appena lo 0,25 per cento della massa terrestre. Se lo tiraste giù per posarlo sugli Stati Uniti, non riuscirebbe a coprire nemmeno metà dei 48 stati continentali. Già questo basta a renderlo molto anomalo: significa che il nostro sistema planetario è formato da quattro pianeti rocciosi più interni, quattro giganti gassosi nelle orbite più esterne e una pallina di
ghiaccio solitaria. Inoltre, ci sono ottime ragioni per credere che presto potremmo cominciare a scoprire, sempre in quella stessa regione dello spazio, altre sfere ghiacciate, anche più grandi. Allora sì che sarebbero guai. Da quando Christy ha individuato la luna di Plutone, gli astronomi hanno cominciato a esplorare quella sezione del cosmo con maggiore attenzione, e nel dicembre del 2002 hanno rintracciato più di seicento Oggetti Trans-Nettuniani, detti anche Plutini.11 Uno di questi, battezzato Varuna, è grande quasi quanto la luna di Plutone. Ormai gli astronomi sono convinti che di questi oggetti potrebbero essercene miliardi. Il problema è che molti di essi sono terribilmente scuri: la loro albedo, cioè la loro riflettività, è di appena il 4 per cento, all'incirca quella di un pezzo di carbone, per di più distante oltre sei miliardi di chilometri.12
Ma che significa questa distanza? È qualcosa che va oltre ogni immaginazione. Lo spazio è immenso - semplicemente immenso. Tanto per fare un esempio e divertirci un poco, immaginiamo di imbarcarci su una nave spaziale. Senza andare troppo lontano, ci basterà arrivare ai confini del nostro sistema solare, tanto per farci un'idea di quanto è grande lo spazio e quanto è piccola la parte che ne occupiamo.
Be', mi spiace dirvelo, ma temo che non saremo a casa per l'ora di cena. Anche viaggiando alla velocità della luce (300.000 chilometri al secondo) ci vorrebbero più di cinque ore per raggiungere Plutone. Ed è chiaro che non siamo affatto in grado di viaggiare a quella velocità. Dobbiamo accontentarci di una navicella spaziale, che è molto più lenta. Le velocità più alte mai raggiunte da una macchina costruita dall'uomo sono quelle delle sonde Voyager 1 e 2, che attualmente si allontanano da noi a circa 56.000 chilometri all'ora.13
Il motivo per cui le due Voyager furono lanciate nello spazio nell'agosto e nel settembre 1977 era che in quel momento Giove, Saturno, Urano e Nettuno si trovavano allineati in una posizione in cui tornano soltanto una volta ogni 175 anni, circostanza che consentì alle due Voyager di avvalersi della tecnica della «gravità assistita», grazie alla quale furono lanciate da un gigante gassoso all'altro, in quella che è una sorta di versione cosmica del volano. Anche così, occorsero nove anni perché le due sonde raggiungessero Urano e una dozzina perché incrociassero l'orbita di Plutone. Di buono c'è che a partire dal gennaio del 2006 (data della partenza della New Horizon alla volta di Plutone) potremmo avvantaggiarci della posizione favorevole di Giove, oltre che di qualche progresso tecnologico, e riuscire a essere lì più o meno in una decina d'anni, anche se temo che per tornare a casa ci vorrà molto più tempo. A ogni modo, sarà di sicuro un viaggio lungo.
Ora, con ogni probabilità, la prima cosa di cui ci si renderà conto è che, per quanto lo spazio sia un luogo molto alla moda, è anche un posto molto tranquillo - tranquillo al punto da essere deludente. Il nostro sistema solare è forse la cosa più viva nel raggio di trilioni di chilometri, ma tutti gli oggetti visibili che esso contiene - il Sole, i pianeti con le loro lune, i miliardi di rocce che precipitano dalla fascia degli asteroidi, le comete e i vari detriti che vanno alla deriva - riempiono meno di un trilionesimo dello spazio a disposizione.14 Ci si renderà subito conto anche di un altro fatto, e cioè che non avete mai visto una mappa del sistema solare disegnata neppure lontanamente in scala. La maggior parte delle carte scolastiche mostrano i pianeti che si susseguono uno dietro l'altro a intervalli ravvicinati - in molte illustrazioni i giganti esterni si fanno addirittura ombra a vicenda - ma questo non è che uno stratagemma necessario a farli entrare tutti nello stesso pezzo di carta. In realtà, Nettuno non si trova affatto immediatamente dietro Giove, ma è molto lontano da lui: la distanza fra Nettuno e Giove è cinque volte quella fra Giove stesso e la Terra. In altre parole, Nettuno è così lontano che riceve dal Sole solo il 3 per cento della luce che arriva invece su Giove.
In effetti, le distanze sono talmente enormi che in pratica disegnare il sistema solare in scala è impossibile. Anche inserendo nei libri scolastici moltissime pagine ripiegate oppure usando un formato poster enorme, non ci si avvicinerebbe all'obiettivo. In un diagramma del sistema solare in scala, con la Terra ridotta al diametro di un pisello, Giove dovrebbe essere posto a oltre 300 metri dal nostro pianeta, e Plutone sarebbe a due chilometri e mezzo (per giunta sarebbe all'incirca delle dimensioni di un batterio, quindi comunque impossibile da vedere). Sempre usando la stessa scala, Proxima Centauri, la stella a noi più vicina, andrebbe collocata a 16.000 chilometri. Anche se si riducesse Giove alle dimensioni di
un punto come quello che si trova alla fine di questa frase, e Plutone a quelle di una molecola, quest'ultimo si troverebbe comunque a oltre 10 metri dalla Terra.
Il sistema solare è dunque davvero enorme. Nel tempo impiegato a raggiungere Plutone, ci siamo allontanati così tanto dal Sole - il nostro caro, caldo Sole che ci abbronza la pelle e ci regala la vita - che esso ci appare ormai ridotto alle dimensioni di una capocchia di spillo. È poco più di una stella luminosa. Dispersi in questo nulla, si comincia a capire come mai anche oggetti decisamente significativi - la luna di Plutone, per esempio - siano potuti sfuggire alla nostra attenzione. Da questo punto di vista, Plutone non è certo stato un caso isolato. Fino alle spedizioni Voyager, si pensava che Nettuno avesse due lune. Le Voyager ne scoprirono altre sei. Quando ero ragazzo, si riteneva che nel sistema solare esistessero trenta lune. Adesso il totale è di almeno novanta, di cui un terzo scoperte solo negli ultimi dieci anni.15 Nel prendere in considerazione la totalità dell'universo, bisogna quindi tenere bene a mente che non sappiamo neanche che cosa c'è nel nostro sistema solare.
Ora, l'altra cosa da notare mentre oltrepassiamo Plutone è appunto questa: stiamo oltrepassando Plutone. Se controlliamo il nostro itinerario, vedremo che eravamo partiti alla volta di questo pianeta convinti di arrivare ai confini del sistema solare; temo invece che non sia affatto così. Plutone sarà pure l'ultimo oggetto segnato sulle carte scolastiche, ma il sistema solare non finisce sulla sua orbita. Quest'ultima, anzi, non è nemmeno vicina ai suoi confini. Per raggiungerli, dobbiamo prima attraversare la nube di Oort, un'impresa per la quale occorrono - mi dispiace dovervi dare quest'altra brutta notizia - altri diecimila anni.16 Lungi dal segnare l'estremo limite del sistema solare, come disinvoltamente indicano le mappe scolastiche, Plutone si trova appena a un cinquantamillesimo di quella distanza.
Ormai è chiaro che non abbiamo alcuna prospettiva di intraprendere un simile viaggio. Una missione sulla Luna, distante appena 386.000 chilometri, già rappresenta per noi una bella impresa. Il progetto di una spedizione umana su Marte, richiesta da Bush padre in un momento di transitoria euforia, fu ben presto abbandonato, con buona pace di tutti, quando qualcuno calcolò che avrebbe comportato un costo di 450 miliardi di dollari e che probabilmente l'intero equipaggio sarebbe morto (era impossibile schermare gli astronauti dalle particelle solari ad alta energia, e il loro dna ne sarebbe uscito a pezzi).17
Sulla base di ciò che sappiamo e di quello che possiamo ragionevolmente immaginare, non c'è alcuna possibilità che un essere umano visiti i confini del sistema solare. Mai. Sono troppo, troppo lontani. Allo stato attuale delle cose, non riusciamo a guardare dentro la nube di Oort nemmeno con il telescopio Hubble, e quindi non sappiamo neppure se la nube si trova davvero lì. La sua esistenza è probabile, ma del tutto ipotetica.*
Tutto ciò che si può dire con certezza della nube di Oort è che comincia da qualche parte oltre Plutone e si estende nel cosmo per una distanza di due anni luce. L'unità di misura fondamentale del sistema solare è l'Unità Astronomica, o UÀ, che rappresenta la distanza tra il Sole e la Terra. Plutone si trova a circa 40 UÀ da noi, mentre il centro della nube di Oort a circa 50.000 uà. In una parola, è lontanissimo.
Supponiamo tuttavia di esserci arrivati. La prima cosa che noteremo è la grande pace che vi regna. Ormai siamo distanti da tutto: il Sole è così lontano da non essere più nemmeno la stella più luminosa del cielo. È proprio impressionante pensare che quel piccolo scintillio lontano abbia una forza di gravità capace di tenere in orbita tutte queste comete. Qui l'attrazione non è così forte, e le comete fluttuano maestosamente alla velocità di circa 350 chilometri orari.18 Di tanto in tanto, qualche leggera perturbazione gravitazionale - forse indotta da una stella di passaggio - sospinge una di queste comete solitarie fuori dalla sua orbita normale. A volte questi oggetti vengono catapultati nel vuoto dello spazio e spariscono per sempre; altre volte, invece, finiscono su una lunga orbita attorno al Sole. Circa quattro o cinque di queste, note come comete a lungo periodo, passano attraverso la regione interna del sistema solare ogni anno. Sporadicamente queste visitatrici randage finiscono per cozzare contro qualcosa di solido - la Terra, per esempio. Ecco perché ci troviamo qui: perché la cometa che siamo venuti a vedere ha appena iniziato una lunga caduta verso il centro
* Il nome corretto è nube di Opik-Oort. Essa prende il nome dall'astronomo estone Ernst Ópik che ne ipotizzò l'esistenza nel 1932, e dall'astronomo olandese Jan Oort che, diciotto anni dopo, perfezionò i calcoli
del sistema solare. E, fra tanti posti, ha scelto di dirigersi verso Manson, nell'Iowa. Impiegherà moltissimo tempo ad arrivare -almeno tre o quattro milioni di anni - quindi per ora la lasciamo perdere. Torneremo a trovarla più tardi.
E dunque, ecco qua il sistema solare. E che cos'altro c'è al di là di esso? Be', niente; oppure moltissime cose, dipende dai punti di vista.
In una parola sola, c'è il nulla. Il vuoto più perfetto mai creato dall'uomo non è niente di fronte a quello dello spazio interstellare.19 E prima di raggiungere il primo accenno di qualcosa, c'è davvero moltissimo di questo nulla. Il nostro vicino più a portata di mano, nello spaziose Proxima Centauri: parte del sistema di tre stelle noto come Alpha Centauri, essa dista da noi 4,3 anni luce, in termini galattici l'equivalente di quattro passi, ma comunque cento milioni di volte più lontana della Luna.20 Per raggiungere Proxima Centauri a bordo di una nave spaziale occorrerebbero almeno venticinquemila anni, e una volta finito il viaggio gli astronauti si ritroverebbero in un solitario sistema stellare nel bel mezzo di un vasto nulla. Per raggiungere Sirio, successivo punto di riferimento di qualche rilievo, bisognerebbe programmare altri 4,6 anni luce di viaggio. E così via, saltando nel cosmo di stella in stella. Già raggiungere il centro della nostra stessa galassia richiederebbe più tempo di quello che gli esseri umani hanno impiegato a diventare tali.
Lo spazio, lo ripeterò ancora una volta, è enorme. La distanza media tra le stelle supera i trenta milioni di milioni di chilometri.21 Anche procedendo a velocità simili a quelle della luce, restano comunque distanze incredibilmente impegnative per qualsiasi viaggiatore. Naturalmente è possibile, che gli alieni percorrano miliardi di chilometri solo per divertirsi a tracciare cerchi misteriosi nei campi dello Wiltshire o a spaventare a morte qualche povero diavolo alla guida di un camioncino su una strada solitaria dell'Arizona (dopotutto anche fra gli extraterrestri ci saranno ragazzini in vena di scherzi); è possibile, certo, ma sembra davvero improbabile.
Eppure, dal punto di vista statistico ci sono buone probabilità che esistano, da qualche parte nel cosmo, altri esseri pensanti. Nessuno sa quante stelle vi siano nella Via Lattea - le stime variano dai cento ai forse quattrocento miliardi - e la Via Lattea è soltanto
una in mezzo a circa centoquaranta miliardi di altre galassie, molte delle quali anche più grandi della nostra. Negli anni Sessanta, Frank Drake, un professore della Cornell University, esaltato da numeri tanto spropositati, elaborò una famosa equazione per calcolare le probabilità dell'esistenza, nel cosmo, di forme di vita avanzate, basandosi su una serie di probabilità che vanno riducendosi a ogni successivo passaggio.
Nell'equazione di Drake il numero di stelle presenti in una determinata porzione di universo viene diviso per il numero di stelle che probabilmente hanno un sistema planetario. Il risultato va poi ulteriormente diviso per il numero di sistemi che teoricamente potrebbero ospitare la vita e poi ancora per il numero di quei sistemi dove, una volta comparsa, la vita potrebbe raggiungere uno stato di intelligenza; e così via. A ogni divisione il numero si riduce enormemente; eppure, anche utilizzando i dati più prudenti, nella sola Via Lattea, il numero di civiltà avanzate emergente dall'equazione è sempre nell'ordine dei milioni.
Che idea interessante ed eccitante...! Potremmo non esser altro che una civiltà evoluta in mezzo a milioni di altre. Purtroppo però, poiché il cosmo è un luogo tanto spazioso, si calcola che la distanza media tra due di queste civiltà sia di almeno duecento anni luce, un abisso che nella realtà è molto più vasto di quanto sembri a parole. Tanto per cominciare, significa che anche se questi esseri sapessero che noi siamo qui e riuscissero a vederci con i loro telescopi, starebbero comunque osservando una luce che ha abbandonato la Terra duecento anni fa. Perciò non vedrebbero me e voi. Guarderebbero la Rivoluzione francese, Thomas Jefferson e gente in calzamaglia con la parrucca incipriata: gente che non ha idea di che cosa sia un atomo o un gene; gente che produce energia elettrica sfregando l'ambra con un pezzo di lana, convinta che si tratti di un gioco di prestigio. Qualsiasi messaggio dovessimo ricevere da questi osservatori comincerebbe quasi di sicuro con « Vostra Maestà » e conterrebbe elogi per la bellezza dei nostri cavalli e la nostra ottima conoscenza dell'olio di balena. Duecento anni luce sono una distanza a tal punto inarrivabile per noi che... be', proprio non possiamo arrivarci.
Pertanto, quand'anche in realtà non fossimo soli, a tutti gli effetti pratici lo siamo. Cari Sagan calcolò che probabilmente il numero di pianeti esistenti nell'universo corrisponde alla bella cifra
di dieci miliardi di trilioni - un numero molto al di là dell'immaginazione. Altrettanto al di là di qualsiasi sforzo di immaginazione, d'altra parte, è la vastità dello spazio nella quale essi sono disseminati. «Se fossimo catapultati in un punto qualsiasi dell'universo», scrisse Sagan, «le probabilità di trovarsi su un pianeta, o nelle sue vicinanze, sarebbero meno di una su un miliardo di trilioni di trilioni.» (Cioè 1 su 10-33, dove 10-33 è un 1 seguito da 33 zeri.) «I mondi sono preziosi. »22
Forse è proprio per questo che l'attribuzione ufficiale dello status di pianeta a Plutone, decretata nel febbraio del 1999 dalla International Astronomica! Union, ci sembra una buona cosa.
Se l'universo è un luogo così immenso e solitario, sarà meglio approfittare di tutti i vicini che riusciamo a trovare.
3. L'universo del reverendo Evans
Quando il cielo è terso e la Luna non troppo luminosa, il reverendo Robert Evans, un uomo gioviale e tranquillo, trascina un grosso telescopio sulla veranda che dà sul retro della sua casa nelle Blue Mountains australiane, 80 chilometri circa a ovest di Sydney, e fa una cosa decisamente fuori dall'ordinario. Guarda nelle profondità del passato e rintraccia stelle morenti.
Ovviamente, scrutare il passato è la parte più facile. Un'occhiata al cielo stellato e quello che si vede è storia, moltissima storia. Noi non vediamo le stelle nella loro forma attuale ma così come erano quando fu emessa la luce che oggi arriva a noi. Per quello che ne sappiamo, la Stella Polare, nostra fedele compagna, potrebbe di fatto essersi esaurita lo scorso gennaio, nel 1854 o in qualunque altro momento, dal quattordicesimo secolo in poi, senza che a noi ne sia ancora giunta notizia. Il massimo che possiamo dire - che potremo mai dire - è che fino a 680 anni fa brillava ancora. Le stelle muoiono di continuo. Quello che Bob Evans fa è proprio individuare questi momenti di addio siderale, e lo fa meglio di chiunque altro ci abbia mai provato.
Uomo dai modi gentili che sta ormai riducendo i propri impegni di lavoro, di giorno Evans è un ministro della Uniting Church australiana e conduce ricerche storiche sui movimenti religiosi del diciannovesimo secolo. Ma di notte, con quella sua aria modesta, si trasforma in un titano dei cieli. A caccia di supernove.
Una supernova è quel fenomeno che si verifica quando una stella gigante, molto più grande del nostro stesso Sole, collassa per poi esplodere in modo spettacolare, liberando in un istante l'energia di un centinaio di miliardi di soli e bruciando, per qualche tempo, più luminosa di tutte le stelle della sua galassia.1 « È come se un trilione di bombe all'idrogeno esplodessero tutte insieme» dice Evans.2 Se l'esplosione di una supernova si verificasse nel raggio di cinquecento anni luce da noi, secondo Evans saremmo spacciati,
« ci rovinerebbe lo spettacolo » scherza lui Ma l'universo è vasto e in genere le supernove sono troppo lontane per poterci fare del male. Di fatto, la maggior parte di esse si trova a una distanza così inimmaginabile che la loro luce ci raggiunge sotto forma di un debolissimo sfavillio. Nell'arco dei mesi in cui sono visibili, tutto ciò che le distingue dalle altre stelle del firmamento è che occupano un punto dello spazio prima libero. Sono questi i bersagli, molto inconsueti e anomali, a cui il reverendo Evans cerca di mirare nell'affollata volta del cielo notturno.
Per capire la portata di una simile impresa, possiamo immaginare di coprire un normale tavolo da pranzo con una tovaglia nera e di spargerci sopra una manciata di sale. I granelli sparsi rappresentano una galassia. Adesso immaginiamo altri millecinquecento tavoli come il primo - abbastanza da comporre una fila lunga tre chilometri - su ciascuno dei quali sia stato sparso un pugno di sale. Ora, aggiungiamo un granello di sale su uno qualsiasi dei tavoli e poi invitiamo Bob Evans a dare un'occhiata passeggiando fra i tavoli. Troverà quel granello a colpo d'occhio. Quel granello è la supernova.
Evans ha un talento così eccezionale che Oliver Sacks, in Un antropologo su Marte, gli dedica una nota nel capitolo sugli autistici savant, affrettandosi tuttavia ad aggiungere che non vi è alcuna indicazione che Evans sia autistico.3 Il reverendo, che non ha mai conosciuto Sacks, ride sia all'idea di poter essere considerato autistico, sia al pensiero di essere un savant, ma non è in grado di spiegare da dove venga questa sua abilità.
« Sembra che io abbia una particolare attitudine a memorizzare i campi stellari» mi disse con l'aria di uno che stia sinceramente scusandosi, quando andai a trovare lui e sua moglie Elaine nel loro bungalow da cartolina nei tranquilli dintorni di Hazelbrook, dove Sydney finisce e comincia la sconfinata Australia selvaggia. «Non sono particolarmente bravo a fare altre cose » aggiunse, « per esempio i nomi non me li ricordo mai bene. »
«E neanche dove mette le cose» aggiunse Elaine dalla cucina.
Annuì di nuovo con franchezza e sorrise, poi mi chiese se volevo dare un'occhiata al suo telescopio. Mi ero fatto l'idea che Evans avesse un vero e proprio osservatorio nel cortile dietro casa - una versione in scala ridotta di Mount Wilson o di Palomar, con un tetto a volta scorrevole e una poltrona meccanica regolabile che
sarebbe stata divertentissima da manovrare. In realtà però non mi accompagnò all'esterno, ma in un ripostiglio stipatissimo, fuori dalla cucina, dove tiene mappe e libri e dove il telescopio - un cilindro bianco della grandezza e della forma di uno scaldabagno domestico - riposa su un rialzo di compensato girevole fatto in casa. Quando ha voglia di osservare il cielo, li trascina entrambi, facendo due viaggi, nella piccola veranda fuori dalla cucina. Lo spiovente del tetto e le cime piumate degli eucalipti che crescono sul sentiero sottostante gli consentono una visuale del cielo non più grande della fessura di una buca delle lettere, ma lui sostiene che per i suoi scopi è più che sufficiente. E lì, quando il cielo è terso e la Luna non troppo luminosa, Evans trova le sue supernove.
Il termine supernova fu coniato negli anni Trenta da Fritz Zwicky, un astrofisico indimenticabilmente eccentrico. Nato in Bulgaria e cresciuto in Svizzera, Zwicky arrivò al California Institute of Technology negli anni Venti, e vi si distinse subito per la personalità caustica e gli imprevedibili talenti. Non sembrava tuttavia straordinariamente brillante e molti suoi colleghi lo consideravano poco più che un «irritante buffone».4 Fanatico della fitness, spesso si gettava sul pavimento della sala da pranzo del Caltech, o di qualche altro spazio pubblico, e si metteva a fare flessioni su un braccio solo per dimostrare la sua virilità a chiunque sembrasse incline a dubitarne. Notoriamente aggressivo, alla fine i suoi modi divennero così minacciosi che il suo più stretto collaboratore, un uomo garbato di nome Walter Baade, si rifiutava di rimanere solo con lui.5 Fra l'altro, Zwicky accusò Baade, che era tedesco, di essere un nazista, il che non era affatto vero. Almeno in un'occasione, Zwicky minacciò di uccidere Baade, che lavorava sulla collina del Mount Wilson Observatory, se solo si fosse azzardato a farsi vedere nel campus del Caltech.6
Zwicky però era anche capace di intuizioni straordinariamente geniali. Nei primi anni Trenta, rivolse la propria attenzione su un problema che da tempo angustiava gli astronomi: l'apparire nel cielo di occasionali e inspiegabili punti di luce, nuove stelle. Per quanto sembrasse improbabile, Zwicky si domandò se il neutrone -la particella subatomica appena scoperta in Inghilterra da James Chadwick, al tempo stesso una cosa nuova e molto di moda - non
potesse costituire la spiegazione di tutto. Gli venne in mente che se le stelle fossero collassate in corrispondenza di densità simili a quelle riscontrate nel nucleo dell'atomo, anche il loro nucleo avrebbe potuto rivelarsi di una compattezza inimmaginabile. Gli atomi si sarebbero schiacciati l'uno sull'altro, con gli elettroni forzati dentro i nuclei, formando così i neutroni.7 Ne sarebbe scaturita una stella a neutroni. Immaginate un milione di pesantissime palle di cannone compresse fino alla dimensione di una biglia: non sareste ancora neanche lontanamente vicini alla sua densità. Il nucleo di una stella a neutroni è così denso che una sola cucchiaiata della sua materia peserebbe 90 miliardi di chilogrammi. Una cucchiaiata! Ma c'era dell'altro. Zwicky capì che il collasso di una di queste stelle avrebbe reso disponibile un'enorme quantità di energia, abbastanza per le grandissime esplosioni dell'universo.8 Chiamò queste esplosioni supernove. Esse sarebbero - anzi sono - i più grandiosi eventi nel creato.
Il 15 gennaio 1934 la Physical Review pubblicò un abstract molto conciso della conferenza che Zwicky e Baade avevano tenuto il mese prima alla Stanford University. A dispetto dell'estrema brevità - un paragrafo di ventiquattro righe - l'abstract conteneva un'enorme quantità di nuova scienza: vi si legge il primo riferimento alle supernove e alle stelle a neutroni; spiega in modo convincente come si formano; calcola con esattezza la scala della loro esplosività e, a titolo di conclusione, mette le esplosioni delle supernove in relazione alla produzione di un nuovo, misterioso fenomeno, i raggi cosmici, la cui presenza all'interno dell'universo era stata osservata poco tempo prima. Erano idee a dir poco rivoluzionarie. L'esistenza delle stelle a neutroni sarebbe stata confermata soltanto dopo trentaquattro anni; quanto alla teoria dei raggi cosmici, sebbene sia considerata plausibile, attende ancora una verifica.9 Nel complesso, per usare le parole dell'astrofisico del Caltech Kip S. Thorne, quell'abstract fu « uno dei documenti più profetici di tutta la storia della fisica e dell'astronomia».10
È interessante notare che Zwicky non aveva praticamente la minima idea del perché tutto questo si verificasse. Sempre secondo Thorne: «Non padroneggiava le leggi della fisica abbastanza da poter fornire basi solide alle sue idee».11 Zwicky aveva talento per concepire grandi idee. Agli altri, soprattutto a Baade, toccava poi sporcarsi le mani con la matematica.
Zwicky fu anche il primo a rendersi conto che nell'universo non c'era assolutamente una massa visibile sufficiente a tenere assieme le galassie, e che quindi doveva esserci una qualche altra influenza gravitazionale, quella che oggi chiamiamo materia oscura. Gli sfuggì però che quando una stella a neutroni è sufficientemente contratta, diventa così densa che perfino la luce rimane imprigionata nella sua immensa attrazione gravitazionale. Si ha cioè un buco nero. Purtroppo, i colleghi di Zwicky lo stimavano così poco che prestarono scarsa attenzione alle sue idee. Cinque anni dopo, in un articolo sulle stelle a neutroni che fece epoca, il grande Robert Oppenheimer non fece alcun riferimento al lavoro di Zwicky, sebbene questi avesse studiato lo stesso problema per anni in un ufficio che si apriva sullo stesso corridoio. Le deduzioni di Zwicky a proposito della materia oscura non furono considerate seriamente per almeno altri quaranta anni.12 Presumibilmente, in quel periodo Zwicky ebbe tutto il tempo per fare moltissime flessioni.
Quando alziamo gli occhi al cielo, riusciamo a vedere una porzione sorprendentemente esigua dell'universo. Dalla Terra, a occhio nudo, sono visibili solo seimila stelle, e da un singolo punto di osservazione soltanto duemila circa.13 Con l'ausilio di un binocolo, il numero di stelle osservabili da una singola postazione sale a circa cinquantamila, mentre con un piccolo telescopio da due pollici il numero schizza a trecentomila. Con un telescopio da sedici pollici, come quello che usa Evans, si comincia a contare non più in termini di stelle, ma di galassie. Dal suo osservatorio, Evans suppone di poter vedere tra le cinquantamila e le centomila galassie, ognuna contenente decine di miliardi di stelle. Sono ovviamente cifre di tutto rispetto, eppure le supernove restano estremamente rare. Una stella può bruciare per miliardi di anni, ma muore una volta sola, e lo fa rapidamente. Come se non bastasse, non tutte le stelle morenti esplodono. La maggior parte di esse va estinguendosi lentamente, come falò all'alba. In una galassia tipica, contenente cioè un centinaio di miliardi di stelle, Implosione di una supernova si verificherà in media ogni due o trecento anni. Andare in cerca di supernove è quindi, in un certo senso, come starsene sulla terrazza panoramica dell'Empire State Building col telescopio in mano, scrutando tutte le finestre di Manhattan nella speranza di trovare qualcuno nell'atto di spegnere le candeline sulla torta del suo ventunesimo compleanno.
Per questo motivo, quando Evans contattò la comunità astronomica per sapere se fossero disponibili mappe per la ricerca delle supernove, i suoi interlocutori pensarono che quel ministro di Dio pieno di entusiasmo e dal tono di voce pacato dovesse essere un po' fuori di testa. All'epoca, Evans aveva un telescopio da dieci pollici-misura assolutamente rispettabile per un dilettante, ma di certo non un arnese con cui fare della cosmologia seria - e si riproponeva di usarlo per osservare uno dei fenomeni più rari nell'universo. Prima del 1980, anno in cui Evans cominciò a dedicarsi all'osservazione, in tutta la storia dell'astronomia erano state individuate meno di sessanta supernove. (Quando lo incontrai io, nell'agosto del 2001, aveva appena registrato la sua trentaquattresima scoperta che fu seguita, tre mesi dopo, dalla trentacinquesima e dalla tren-taseiesima, entrambe all'inizio del 2003.)
Evans, comunque, aveva qualche vantaggio. La maggior parte degli osservatori (come del resto la maggior parte degli abitanti del mondo) vive nell'emisfero settentrionale e quindi lui, soprattutto all'inizio, potè disporre di una gran porzione di cielo tutta per sé. Poteva contare anche sulla velocità e su quella sua straordinaria memoria. I grandi telescopi sono strumenti lenti, e la maggior parte del loro tempo operativo viene impiegato nelle manovre di posizionamento. Evans poteva far girare il suo piccolo sedici pollici come un mitragliere di coda su un aereo da combattimento, perdendo al massimo un paio di secondi per ogni punto del cielo. Di conseguenza, riusciva a osservare forse quattrocento galassie nella stessa notte, mentre con un grande telescopio professionale sarebbe stata una fortuna individuarne cinquanta o sessanta.
Andare alla ricerca di supernove significa principalmente restare a bocca asciutta. Dal 1980 al 1996 Evans mantenne una media di due scoperte all'anno - una gratificazione esigua rispetto alle centinaia di notti passate a scrutare. Una volta gli capitò di individuarne tre in soli quindici giorni. Poi, però, stette tre anni senza trovarne nessuna.
«In fondo, anche il non trovare niente ha un certo valore» commentò Evans, « aiuta i cosmologi a calcolare la velocità di evoluzione delle galassie. È uno di quei rari settori in cui l'assenza di prove costituisce una prova. »
Su un tavolo, accanto al telescopio, c'erano pile di foto e documenti inerenti alle sue ricerche. Me ne mostrò qualcuna. Se avete mai dato un'occhiata a una rivista di divulgazione astronomica, e vi sarà certo capitato di farlo, saprete che di solito sono piene di foto di nebulose lontane e altri oggetti simili, tutte in colori luminosissimi: nubi iridescenti, illuminate di una luce celestiale, d'uno splendore così squisito da toccarti l'anima. Le immagini su cui lavora Evans non sono affatto così. Sono foto indistinte e basta, in bianco e nero, con piccoli punti luminosi e sfocati. Una di quelle che mi mostrò raffigurava un gruppo di stelle nel quale si celava un chiarore insignificante, e dovetti guardare la foto da vicino per riuscire a distinguerlo. Come mi disse Evans, era una stella della Fornace, costellazione che fa parte di una galassia nota agli astronomi come NGC1365 (ngc sta per New General Catalogue, il catalogo dove vengono registrati questi oggetti; una volta era un librone pesante poggiato su una scrivania di Dublino, adesso, inutile dirlo, è un data base). Per sessanta milioni di anni la luce proveniente dalla morte spettacolare di questa stella viaggiò incessantemente attraverso lo spazio, fino a quando, in una notte d'agosto del 2001, giunse sulla Terra sotto forma di un lievissimo fulgore, un fievolissimo bagliore nel cielo notturno. E naturalmente a individuarla fu Robert Evans, dalla sua collina immersa nella fragranza degli eucalipti.
«Si prova una grande soddisfazione» mi confidò Evans «a pensare che una luce viaggia per milioni di anni nello spazio e, nel preciso istante in cui raggiunge la Terra, c'è qualcuno che sta osservando proprio quel pezzetto di cielo e la vede. Mi sembra una cosa molto giusta che un evento così significativo abbia dei testimoni. »
Le supernove non si limitano a infondere un senso di meraviglia. Ce ne sono diversi tipi (uno dei quali scoperto dallo stesso Evans); uno di essi, in particolare, noto come supernova Ia, è molto importante per gli astronomi perché esplode sempre nello stesso modo, in corrispondenza della stessa massa critica. Proprio per questa ragione queste supernove possono essere usate come « candele standard », unità di riferimento per misurare la luminosità (e quindi la distanza relativa) di altre stelle, così da poter calcolare la velocità di espansione dell'universo.
Nel 1987 Saul Perlmutter del Lawrence Berkeley Laboratory, in
California, stava eseguendo ricerche che richiedevano un numero di supernove la maggiore di quelle visibili nel corso delle consuete osservazioni; egli si accinse quindi a sviluppare un metodo di ricerca più sistematico.14 Perlmutter mise a punto un sistema efficace che comportava l'uso di computer sofisticati e dispositivi ad accoppiamento di carica - in parole povere, fotocamere digitali di qualità.
In pratica, automatizzò la caccia alle supernove. I telescopi ora potevano scattare migliaia di fotografie, lasciando poi al computer il compito di esaminarle per trovare le macchie luminose rivelatrici dell'esplosione di una supernova. In cinque anni, con questa nuova tecnica, Perlmutter e i suoi colleghi di Berkeley hanno individuato quarantadue supernove. Oggi, con i dispositivi ad accoppiamento di carica, i CCD, anche i dilettanti sono in grado di trovare le supernove. « Con i CCD puoi puntare il telescopio e andartene a guardare la televisione » mi disse Evans con un pizzico di amarezza. « Non c'è più poesia. »
Gli chiesi se non fosse mai stato tentato dall'idea di adottare le nuove tecnologie. « Oh, no, mi diverto troppo col mio sistema. E poi » mi disse indicandomi con un sorriso la foto della sua ultima supernova, « a volte riesco ancora a batterli. »
La domanda che sorge spontanea è allora: che cosa succederebbe se una stella dovesse esplodere qui vicino? Il nostro vicino stellare più prossimo, come abbiamo già visto, è Alpha Centauri, a una distanza di 4,3 anni luce. Pensavo che se da quelle parti si fosse verificata un'esplosione, avremmo avuto 4,3 anni per osservare la luce di questo grandioso evento diffondersi nel cielo, quasi che traboccasse da una gigantesca lattina. Come sarebbe aspettare questa inevitabile sventura per quattro anni e quattro mesi sapendo che una volta arrivata ci incenerirebbe? La gente andrebbe a lavorare lo stesso? I contadini seminerebbero i campi? E ci sarebbe qualcuno disposto a prendersi il disturbo di portare il raccolto al mercato?
Qualche settimana dopo, tornato nella città del New Hampshire dove vivo, posi questi interrogativi a John Thorstensen, un astronomo del Dartmouth College. «Oh, no» mi rispose ridendo. «È vero che la notizia di un simile evento viaggia alla velocità della luce, ma così pure la sua distruttività, e quindi moriremmo nello
stesso istante in cui lo venissimo a sapere. Ma non si preoccupi, comunque, perché non capiterà. »15
Perché l'onda d'urto dell'esplosione di una supernova possa ucciderci, mi spiegò, dovremmo essere « assurdamente vicini » -probabilmente nel raggio di dieci anni luce, più o meno. « Il pericolo sarebbe costituito da vari tipi di radiazioni - raggi cosmici e simili. » Questi darebbero luogo ad aurore favolose, tremule cortine di luce spettrale che riempirebbero il cielo intero. Non sarebbe affatto una cosa positiva, però. Un fenomeno così potente da produrre uno spettacolo simile potrebbe benissimo spazzare via la magnetosfera, ossia la zona magnetica intorno alla Terra che normalmente ci protegge dai raggi ultravioletti e da altre aggressioni cosmiche. In assenza della magnetosfera, chiunque avesse la sfortuna di esporsi alla luce solare assumerebbe velocemente l'aspetto... diciamo di una pizza rimasta troppo a lungo nel forno.
Se possiamo essere ragionevolmente sicuri che un evento del genere non si verificherà nel nostro angolo di galassia, mi disse Thorstensen, è in primo luogo perché per fare una supernova occorre un particolare tipo di stella. Per essere adatta allo scopo, una stella dovrebbe avere una massa dalle dieci alle venti volte più grande di quella del nostro Sole e « nelle nostre vicinanze non esiste alcuna stella di grandezza simile: l'universo è misericordiosamente grande». La più vicina delle possibili candidate, aggiunse Thorstensen, è Betelgeuse: da anni vari scoppiettìi indicano che sta attraversando una fase molto instabile. Ma Betelgeuse è lontana cinquantamila anni luce.
Nella storia, le supernove sono state abbastanza vicine da essere visibili a occhio nudo soltanto cinque o sei volte.16 Una fu l'esplosione del 1054 dalla quale nacque la Nebulosa del Granchio. Un'altra avvenne nel 1604: la stella divenne talmente luminosa che rimase visibile per tre settimane anche durante il giorno. La più recente è stata nel 1987, quando una supernova deflagrò in una zona del cosmo nota come la Grande Nube di Magellano, ma fu visibile solo a stento e comunque nell'emisfero meridionale; a ogni modo, si trovava alla rassicurante distanza di 169.000 anni luce.
Le supernove sono molto importanti per noi anche per un altro motivo fondamentale. Senza di esse non saremmo qui. Ricordate
l'enigma cosmologico con il quale ci siamo accomiatati dal primo capitolo? Il Big Bang aveva creato grandissime quantità di gas leggeri ma nessun elemento pesante. Questi ultimi comparvero in seguito, ma per moltissimo tempo nessuno riuscì a spiegarsi in che modo. Il problema era che, per formare carbonio, ferro e tutti gli altri elementi senza i quali saremmo penosamente immateriali, occorreva qualcosa di davvero caldo - addirittura più caldo del nucleo delle stelle più calde. Le supernove fornirono la spiegazione e a scoprirla fu un cosmologo inglese eccentrico quasi quanto Fritz Zwicky. Si chiamava Fred Hoyle e veniva dallo Yorkshire. Morto nel 2001, in un articolo commemorativo apparso su Nature Hoyle fu descritto come « cosmologo e polemista » e certamente fu entrambe le cose. Stando sempre a Nature «passò la vita immerso nelle controversie» e «legò il suo nome a molte stupidaggini».17 Per esempio, asserì senza alcuna prova che il fossile di un archeop-terix conservato presso il Natural History Museum era un falso simile a quello di Piltdown, provocando l'esasperazione dei paleontologi del museo, che dovettero passare intere giornate a rispondere alle telefonate di giornalisti di tutto il mondo. Hoyle era anche convinto che dallo spazio non arrivasse sulla Terra solo la vita ma anche molte delle malattie che ci affliggono, come l'influenza e la peste bubbonica, e a un certo punto suggerì che gli umani avessero sviluppato nasi sporgenti per schermare le narici ed evitare così che i patogeni cosmici potessero finirci dentro.18
Fu lui, in un momento faceto, a coniare il termine Big Bang, in occasione di una trasmissione radiofonica del 1952. Fece notare che nella fisica non c'era nulla che potesse spiegare perché tutta la materia, ammassata in un unico punto, avrebbe poi cominciato a espandersi, all'improvviso e in modo così drammatico. Hoyle propendeva per una teoria dello stato stazionario, nella quale l'universo era perennemente in espansione e continuava a creare materia.19 Si rese anche conto che se le stelle fossero implose avrebbero potuto liberare quantità esorbitanti di calore, 100 milioni di gradi o più, abbastanza per cominciare a generare gli elementi più pesanti tramite un processo conosciuto come nucleosintesi.20 Nel 1957, insieme ad altri, Hoyle dimostrò come gli elementi più pesanti si formino nelle esplosioni delle supernove. Fu per questo lavoro che uno dei suoi collaboratori, W.A. Fowler, ricevette il
premio Nobel. Ed è una vergogna che a Hoyle non sia mai stato assegnato.
Secondo la sua teoria, una stella che esplode genererebbe calore sufficiente a creare tutti i nuovi elementi e diffonderli nel cosmo, dove essi vanno a costituire nubi gassose (il cosiddetto mezzo interstellare), le quali possono infine unirsi dando luogo a nuovi sistemi solari. Quanto meno, con le nuove teorie divenne possibile disegnare scenari plausibili per spiegare in che modo siamo arrivati dove siamo. Oggi presumiamo di sapere quanto segue.
Più o meno 4,6 miliardi di anni fa, un grande vortice di gas e polvere del diametro di circa 24 miliardi di chilometri andò accumulandosi nella regione dello spazio in cui ci troviamo oggi e cominciò ad aggregarsi. La sua quasi totalità - 99,9 per cento della massa del sistema solare - andò a formare il Sole.21 Dal materiale fluttuante residuo, due microscopici granelli furono trasportati abbastanza vicini l'uno all'altro da poter essere uniti da forze elettrostatiche. Quello fu il momento in cui venne concepito il nostro pianeta. Nel sistema solare appena nato, stava accadendo ovunque la stessa cosa. Granelli di polvere entravano in collisione formando ammassi sempre più grandi. Questi ultimi divennero infine abbastanza grandi da essere definiti planetesimi. Mentre si urtavano e collidevano all'infinito, i planetesimi si andavano spaccando, dividendo o ricombinando in infinite permutazioni casuali; a ogni scontro, però, c'era un vincitore, e alcuni dei vincitori divennero abbastanza grandi da dominare l'orbita sulla quale viaggiavano.
Tutto accadde con notevole rapidità. Per evolvere da minuscolo ammasso di granelli a pianeta neonato con un diametro di qualche centinaio di chilometri, si pensa siano occorse solo alcune decine di migliaia di anni. In soli duecento milioni di anni, forse meno, la Terra era praticamente già formata, nonostante fosse ancora fusa e soggetta a un costante bombardamento da parte dei detriti rimasti a vagarle intorno.22
A questo punto, circa 4,4 miliardi di anni fa, un oggetto della grandezza di Marte si schiantò sulla Terra, strappandole via materiale sufficiente a formare una sfera compagna, la Luna. Si ipotizza che, nello spazio di qualche settimana, il materiale si fosse già riassemblato in un unico ammasso, e di lì a un anno avesse assunto la forma di quella sfera rocciosa che ci accompagna ancora oggi. Sembra che la maggior parte del materiale lunare provenga dalla
crosta terrestre, e non dal centro del pianeta: questo spiega come mai la Luna sia povera di ferro mentre noi ne abbiamo in abbondanza.23 Per inciso, questa teoria viene quasi sempre presentata come uno sviluppo recente, ma in realtà fu avanzata per la prima volta negli anni Quaranta da Reginald Daly della Harvard University.24 L'unica cosa recente è l'attenzione che adesso le prestiamo.
Quando la Terra aveva all'incirca un terzo delle sue dimensioni attuali, probabilmente stava già cominciando a formarsi un'atmosfera, composta in massima parte da anidride carbonica, azoto, metano e zolfo. Un cocktail che difficilmente assoceremmo alla vita: eppure fu proprio da questa micidiale miscela che emerse il nostro pianeta. L'anidride carbonica è un potente gas serra, il che si rivelò un bene, perché a quel tempo la radiazione solare era molto meno intensa di oggi. Se non avessimo avuto il beneficio dell'effetto serra, la Terra avrebbe potuto benissimo ghiacciarsi per sempre, e la vita non avrebbe mai avuto il minimo appiglio per svilupparsi.25 Invece, in qualche modo, se la cavò.
Per i successivi cinquecento milioni di anni la giovane Terra continuò a essere bersagliata senza sosta da comete, meteoriti e altri detriti galattici, bombardamenti che riempirono d'acqua gli oceani e portarono i componenti essenziali alla formazione della vita. Era un ambiente molto ostile, eppure, in un modo o nell'altro, la vita si mise in moto. Un fremito, e una minuscola goccia di sostanze chimiche si animò. Stava cominciando la nostra storia.
Quattro miliardi di anni dopo, qualcuno cominciò a chiedersi come fosse successo. Ed è proprio lì che ci porterà la prossima parte della nostra storia.
SECONDA PARTE. Le dimensioni della Terra
« La natura e le sue leggi erano sepolte nella notte; Dio disse: che Newton sia! E fu luce ovunque.»
Alexander Pope, Epitaffio per Sir Isaac Newton
4. La misura delle cose
Se si dovesse indicare quale sia stata la spedizione scientifica meno piacevole di tutti i tempi, difficilmente si riuscirebbe a trovarne una peggiore di quella inviata in Perù nel 1735 dall'Académie Royale des Sciences. Il gruppo, guidato dall'idrologo Pierre Bouguer e da un matematico militare di nome Charles Marie de La Condamine, era composto da scienziati e avventurieri, e si prefìggeva di triangolare alcune distanze attraversando le Ande.
All'epoca, la gente era stata contagiata dal fortissimo desiderio di comprendere la Terra: voleva determinarne l'età, le dimensioni, la posizione nell'universo, e stabilire le modalità con cui era venuta in essere. Obiettivo della spedizione era quello di contribuire a dirimere la questione della circonferenza del pianeta misurando la lunghezza di un grado di meridiano (ossia di un trecentosessantesimo della circonferenza terrestre). Per farlo, i francesi avevano deciso di seguire la linea che andava da Yarouqui (vicino a Quito) fino a poco dopo Cuenca, nell'attuale Ecuador - una distanza di circa 320 chilometri.*
* La triangolazione, il metodo scelto per effettuare le misure, era una tecnica molto diffusa basata sul concetto geometrico secondo il quale, conoscendo la lunghezza di un lato di un triangolo e la misura degli angoli ai vertici adiacenti, è possibile ricavare tutte le altre dimensioni senza neanche alzarsi dalla sedia. Supponiamo, per esempio, che due amici, A e B, vogliano conoscere la distanza fra la Terra e la Luna. Se vogliono usare la triangolazione, la prima cosa che dovranno fare è allontanarsi un poco l'uno dall'altro. Immaginiamo quindi che A stia a Parigi e B a Mosca e che entrambi si mettano a osservare la Luna nello stesso momento. Ora, se immaginiamo una linea che colleghi i tre punti principali di questo esercizio - vale a dire A, B e la Luna - si otterrà necessariamente un triangolo. Misuriamo quindi la lunghezza della linea che va da A a B e gli angoli in corrispondenza dei vertici dove si trovano A e B: a questo punto tutto il resto sarà una semplice questione di calcolo. (Poiché la somma degli angoli interni di un triangolo è sempre pari a 180 gradi, se si conosce la somma di due angoli, è possibile ricavare subito il terzo; conoscendo la forma precisa del triangolo e la lunghezza di uno dei suoi lati si ricava quella degli altri due.) Questo metodo fu inventato da un astronomo greco, Ipparco di Nicea, nel 150 a.C. per calcolare la distanza della Luna dalla Terra. I principi della triangolazione rimangono gli stessi anche a livello del suolo, con la sola differenza che in tal caso i triangoli non si elevano nello spazio ma piuttosto si stendono, per così dire fianco a fianco, su una mappa. Nel misurare un grado di meridiano, i geometri crearono una sorta di catena di triangoli che avanzava sulla superficie terrestre.
Quasi all'improvviso le cose cominciarono a mettersi male, a volte in maniera addirittura spettacolare. A Quito, gli esploratori dovettero in qualche modo urtare la suscettibilità degli indigeni e furono cacciati dalla città da una folla inferocita e armata di pietre. Subito dopo, il medico della spedizione fu ucciso per un malinteso sorto a causa di una donna. Il botanico impazzì. Altri membri del gruppo morirono per le febbri o in seguito a cadute. Uno degli uomini più anziani della spedizione, un tal Pierre Godin, fuggì con una tredicenne e non fu possibile convincerlo a tornare.
A un certo punto, il gruppo dovette interrompere i lavori per ben otto mesi, in attesa che La Condamine andasse a Lima, a cavallo, per risolvere un problema di permessi. Lui e Bouguer finirono col non rivolgersi più la parola, rifiutandosi di lavorare insieme. Da qualsiasi parte andasse, la spedizione, così decimata, destava profondi sospetti nelle autorità locali, poco propense a credere che un gruppo di scienziati francesi si fosse sobbarcato un viaggio fino all'altro capo del mondo solo per effettuare qualche misurazione: non aveva alcun senso. A distanza di due secoli e mezzo la domanda sembra ancora legittima: perché i francesi non eseguirono le misurazioni a casa loro risparmiandosi tutti i fastidi e le scomodità di un'avventura sulle Ande?
La risposta risiede in parte nel fatto che gli scienziati del diciottesimo secolo - e quelli francesi in particolare - ben di rado imboccavano la via più semplice se ne avevano a disposizione una più difficile. In parte si trattò invece di un problema pratico, presentatosi la prima volta molti anni addietro all'astronomo inglese Ed-mond Halley - molto prima che Bouguer e La Condamine anche solo sognassero di andare in Sud America, e molto prima che trovassero un pretesto per farlo.
Halley era un personaggio fuori dal comune. Nel corso della sua lunga e proficua carriera, fu capitano di lungo corso, cartografo, professore di geometria alla Oxford University, vice direttore della Zecca Reale, Britain's Astronomer Royal e inventore della campana per le immersioni in profondità.1 Scrisse con autorevolezza sul magnetismo, sulle maree e sul moto dei pianeti, e parlò con entusiasmo degli effetti dell'oppio. Inventò le mappe meteorologiche e le tavole attuariali, propose metodi per calcolare l'età della Terra e la sua distanza dal Sole, e arrivò perfino a escogitare un sistema pratico per conservare il pesce fresco fuori stagione. La sola cosa che proprio non fece fu quella di scoprire la cometa che oggi porta il suo nome: ebbe solo il merito di accorgersi che la cometa da lui osservata nel 1682 era la stessa vista da altri nel 1456, nel 1531 e nel 1607. Essa infatti divenne la cometa di Halley soltanto nel 1758, sedici anni dopo la sua morte.
A ogni modo, tra i suoi tanti contributi alle umane conoscenze, il più grande potrebbe anche essere stato, semplicemente, l'avere preso parte a una modesta scommessa scientifica con altre due autorità dell'epoca: Robert Hooke, oggi noto per essere stato il primo a descrivere una cellula, e il grande e nobile Sir Christopher Wren - il quale, in realtà, prima ancora che architetto era un astronomo (cosa che oggi sfugge a molti). Nel 1683, Halley, Hooke e Wren stavano cenando insieme a Londra, quando la conversazione cadde sul moto dei corpi celesti. Già si sapeva che i pianeti tendono a percorrere un'orbita dalla forma particolare, una curva ovale detta ellisse - «precisa e ben definita», come scrive Richard Feynman -, ma non se ne conosceva ancora la ragione.2 Wren mise generosamente in palio un premio di 40 scellini (equivalente allo stipendio di due settimane) destinato a quello, fra loro, che fosse riuscito a trovare una soluzione.
Hooke, noto per la propensione ad attribuirsi il merito di idee non sempre sue, sostenne di aver già risolto il problema, ma si rifiutò di mettere gli altri a parte della soluzione, adducendo il pretesto, interessante e fantasioso, di non voler togliere loro la soddisfazione di scoprire la risposta per conto proprio.3 Anzi: l'avrebbe «tenuta celata ancora per qualche tempo, in modo che gli altri potessero capire quale valore darle». Per quanto ci è dato sapere, pare che in realtà non si sia mai più occupato della faccenda. Halley invece si consumò nel tentativo di trovare una soluzione, al punto che l'anno successivo andò fino alla Cambridge University e trovò il coraggio di farsi ricevere da Isaac Newton, professore lucasiano di matematica, nella speranza che questi potesse aiutarlo. Newton era un personaggio decisamente bizzarro: di un'intelligenza smisurata, ma solitario, cupo, permaloso fino alla paranoia, famoso per quanto si lasciava distrarre dai pensieri che lo assorbivano (si racconta che, nel tirare i piedi fuori dal letto, al mattino, gli capitava a volte di restarsene a sedere così per ore, immobilizzato dall'improvvisa folla di pensieri che si precipitava nella sua mente) e capace delle più sorprendenti stranezze. Si era costruito da solo il proprio laboratorio - il primo a Cambridge - per potervi effettuare gli esperimenti più bizzarri. Una volta si infilò nell'orbita un lungo ago, di quelli usati per cucire i pellami, e se lo rigirò tutto intorno «tra l'occhio e l'osso, il più vicino possibile alla parte posteriore dell'occhio*» solo per vedere che succedeva.4 Miracolosamente, non successe nulla - quanto meno, nulla di duraturo. In un'altra occasione, fissò il Sole finché riuscì a resistere, per scoprire che effetto avrebbe prodotto sulla vista. Anche in questo caso, non ne riportò danni permanenti, ma fu comunque costretto a passare qualche giorno chiuso in una stanza al buio, prima che gli occhi gli perdonassero l'esperimento.
A far da contrappeso a tante bizzarrie c'era l'intelletto di un genio grandissimo, che mostrava spesso la tendenza alla peculiarità anche quando lavorava in ambiti convenzionali. Da studente, per esempio, frustrato dai limiti della matematica tradizionale, inventò uno strumento completamente nuovo, il calcolo infinitesimale, ma lo tenne per sé per ben ventisette anni.5 Anche nel campo dell'ottica, le sue ricerche trasformarono la nostra conoscenza della luce e gettarono le basi della spettroscopia; e tuttavia, ancora una volta, per trent'anni si rifiutò di condividere con chicchessia i risultati ottenuti. Il suo ingegno era multiforme, e la scienza - la scienza vera e propria - fu solo uno dei suoi tanti interessi. Per quasi metà della sua vita di ricerca, Newton si dedicò all'alchimia e a studi ispirati a una religiosità fuori dagli schemi. Non si trattava di semplici distrazioni, ma di passioni incondizionate. Era un adepto dell'arianesimo, una setta eretica il cui fondamentale principio negava la Santa Trinità (cosa vagamente paradossale, se si pensa che a Cambridge Newton studiava e lavorava al Trinity College). Passò ore e ore immerso nello studio della pianta del tempio di Salomone di Gerusalemme (imparando nel frattempo l'ebraico da autodidatta, per esaminare meglio i testi originali) nella convinzione che esso nascondesse dei riferimenti matematici alle date della seconda venuta di Cristo e della fine del mondo. La sua passione per l'alchimia non fu meno ardente. Nel 1936, l'economista John Maynard Keynes acquistò all'asta un baule contenente carte appartenute a Newton e scoprì, con grande meraviglia, che da esse traspariva un interesse travolgente non tanto per l'ottica o i moti planetari, ma per metodi di trasmutazione dei metalli vili in metalli preziosi. Analisi condotte negli anni Settanta su una ciocca di capelli di Newton rivelarono una concentrazione di mercurio circa quaranta volte superiore al normale (il mercurio era un elemento maneggiato quasi esclusivamente dagli alchimisti, dai cappellai e dai fabbricanti di termometri). In fondo, forse, non è così sorprendente se al mattino avesse qualche problema a ricordarsi di alzarsi dal letto.
Che cosa esattamente Halley si aspettasse da lui quando, ospite inatteso, andò a trovarlo nell'agosto del 1684, possiamo solo immaginarlo. Tuttavia, grazie al resoconto di Abraham de Moivre, confidente di Newton, disponiamo di un documento contemporaneo relativo a uno degli incontri più importanti nella storia della scienza:
Nel 1684 ricevette a Cambridge la visita del dottor Halley, [e] dopo aver passato un po' di tempo insieme, questi ebbe a chiedergli quale pensava potesse essere la curva descritta dai pianeti, supponendo che la forza di attrazione verso il Sole fosse [proporzionale al] reciproc[o] del quadrato della loro distanza da esso. Nel resoconto si fa dunque riferimento a una legge matematica, quella della proporzionalità quadratica inversa, che secondo Halley era la chiave per giungere alla soluzione, sebbene non sapesse esattamente come.
Sir Isaac rispose immediatamente che era un'[ellisse]. Il dottore fu piacevolmente colpito e meravigliato, e gli chiese come lo sapesse. «Ma perché» rispose lui «l'ho calcolato»; al che il dottor Halley gli chiese di mostrargli i suoi calcoli [...] Sir Isaac cercò tra le sue carte, ma non riuscì a trovarli. Una cosa pazzesca: come se qualcuno sostenesse di aver scoperto una cura per il cancro ma non riuscisse più a ricordare dove ha messo la formula. Pressato da Halley, Newton accettò di rifare i calcoli e di trarne uno scritto. Mantenne la promessa e si spinse anche oltre. Si ritirò per due anni di intensa riflessione e scarabocchi, e alla fine emerse col suo capolavoro: Philosnphiae naturalis principia mathematica, ossia i Principi matematici della filosofia naturale, meglio noto come i Principia.
Nella storia accade alcune volte (per la verità molto raramente) che una mente umana produca un'osservazione talmente acuta e inattesa da rendere difficile decidere se sia più sorprendente l'osservazione in sé o il fatto che qualcuno ci sia arrivato. La pubblicazione dei Principia fu uno di quei rarissimi casi: rese celebre Newton in un solo istante. Per il resto della sua vita sarebbe stato coperto di onori e riconoscimenti; fra le tante altre cose, fu il primo, in Inghilterra, a essere nominato cavaliere per meriti scientifici. Perfino il grande matematico tedesco Gottfried Leibniz, con il quale Newton ebbe una lunga e amara contesa circa la priorità nell'invenzione del calcolo infinitesimale, considerò il suo contributo alle scienze matematiche equivalente a tutto il lavoro accumulato prima di lui.6 «Prossimo agli dei, inaccessibile ai mortali» scrisse di lui Halley esprimendo un sentimento condiviso da tutti i suoi contemporanei e anche da gran parte dei posteri. Nonostante i Principia siano stati definiti «uno dei libri più inaccessibili mai scritti» (Newton lo rese difficile di proposito per non essere infastidito dai matematici « da quattro-soldi», come li chiamava lui) furono come un faro per tutti coloro che invece riuscirono a comprenderli.7 Non solo descrivevano in termini matematici le orbite dei corpi celesti, ma identificavano anche la forza di attrazione responsabile del loro movimento: la gravità. D'improvviso, ogni moto dell'universo divenne spiegabile. Al cuore dei Principia stavano le tre leggi del moto e la legge di gravitazione universale. Le leggi del moto, in parole povere, dicono che un oggetto si muove nella direzione verso la quale è spinto; che continuerà a muoversi in quella direzione e in linea retta fino a quando qualche altra forza non agirà in modo da rallentarlo o deviarlo; e che a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Quanto alla legge di gravitazione, essa afferma che nell'universo ogni oggetto esercita una forza di attrazione sugli altri.
Potrà anche sembrare assurdo, ma mentre ve ne state seduti a leggere, state attraendo con il vostro piccolo (piccolissimo) campo gravitazionale tutto quello che vi circonda (pareti, soffitto, lampadario, gatto di casa); tutto il resto, a sua volta, attrae voi. Fu Newton a scoprire che l'attrazione di due oggetti qualsiasi, per citare ancora Feynman, è « proporzionale alla massa di ciascuno di essi e varia in proporzione inversa al quadrato della distanza che esiste tra loro ».8 In altre parole, se si raddoppia la distanza tra due oggetti, la forza con la quale essi si attraggono diventa quattro volte più debole. Tutto questo si può esprimere con la seguente formula:
F = G (mm'/r2)
Sebbene per la maggior parte di noi essa non abbia un'utilità pratica, tutti possiamo apprezzarne l'elegante concisione. Un paio di piccole moltiplicazioni, una semplice divisione ed ecco: ovunque ci si trovi è possibile conoscere la propria posizione gravitazionale. Questa è stata la prima vera legge della natura con un carattere universale mai proposta da una mente umana, ed è per questo che il genio di Newton è ovunque considerato con profonda ammirazione.
Quella della pubblicazione dei Principia fu una vicenda burrascosa. Il lavoro era quasi giunto a termine quando, con grande costernazione di Halley, Newton e Hooke si scontrarono per la priorità sulla legge della proporzionalità quadratica inversa e Newton si rifiutò di dare alle stampe il terzo volume dei Principia, quello cruciale, senza il quale i primi due avevano poco senso. Fu solo con un frenetico lavoro diplomatico su entrambi i fronti, e con un generosissimo uso dell'adulazione, che Halley riuscì finalmente a estorcere il volume conclusivo al lunatico professore.
Ma le tribolazioni di Halley non erano assolutamente finite. La Royal Society, che a suo tempo gli aveva promesso di pubblicare il lavoro, ora si tirò indietro, parlando di difficoltà finanziarie. L'anno prima, infatti, la Royal Society aveva sostenuto le spese per la pubblicazione di quello che si era poi rivelato un costoso fiasco, un libro intitolato De Historia Piscium, e sospettava che un trattato sui principi matematici non avrebbe avuto un mercato molto più ampio. Halley, che non disponeva di grandi mezzi, pagò di tasca propria la pubblicazione del libro. Newton, com'era sua abitudine, non contribuì minimamente all'operazione.9 A peggiorare le cose, Halley, che all'epoca aveva appena accettato un impiego presso la Royal Society, fu informato che presto non gli sarebbe più stato corrisposto il salario annuo di 50 sterline promessogli in precedenza. Sarebbe stato invece pagato con il valore equivalente in copie del De Historia Piscium.10
Le leggi di Newton spiegavano un così gran numero di fenomeni (il crescere e decrescere delle maree, il movimento dei pianeti, la traiettoria delle palle di cannone prima che cadano a terra, il fatto che non veniamo scaraventati nello spazio nonostante il pianeta ruoti a centinaia di chilometri orari*) che occorse un poco di tempo prima che ci si rendesse conto di tutte le loro implicazioni. Una di esse divenne quasi subito fonte di polemiche.
Si trattava dell'ipotesi che la Terra non fosse perfettamente rotonda. Secondo la teoria di Newton, la forza centrifuga della rotazione terrestre produrrebbe un leggero appiattimento dei poli e una protuberanza dell'equatore: la forma del pianeta sarebbe quindi quella di una sfera schiacciata ai poli. Ciò significa che la lunghezza di un grado di meridiano misurata in Italia non sarebbe identica a quella misurata in Scozia. Più precisamente, allontanandosi dai poli, la lunghezza andrebbe diminuendo. Per coloro che basavano le proprie misurazioni del pianeta sul presupposto che la Terra fosse una sfera perfetta (cioè per tutti) non fu affatto una buona notizia.
Era mezzo secolo che si cercava di calcolare le dimensioni della Terra, e quasi sempre lo si faceva tramite misurazioni molto impegnative. Uno dei primi tentativi fu quello di un matematico inglese di nome Richard Norwood. Da giovane, Norwood era andato alle Bermuda per immergersi con una campana sottomarina simile a quella ideata da Halley, con l'intenzione di fare fortuna raccogliendo perle sul fondo marino. Il piano fallì: in primo luogo perché non c'erano perle e in secondo luogo perché comunque la campana non funzionava. Norwood però non era certo il tipo da sprecare un'esperienza.
* La velocità di rotazione dipende da dove ci si trova. Essa è poco più di 1600 chilometri all'ora all'equatore, mentre si annulla ai poli. A Londra la velocità di rotazione è pari a 998 chilometri all'ora.
Agli inizi del diciassettesimo secolo le Bermuda erano ben note ai capitani delle navi per la difficoltà che si incontrava a localizzarle. Il problema dipendeva dal fatto che l'oceano era immenso, le Bermuda piccole e gli strumenti di navigazione che avrebbero dovuto ovviare a questa disparità irrimediabilmente inadeguati. Come se non bastasse, all'epoca non c'era ancora accordo sulla lunghezza del miglio nautico. Nell'immensità dell'oceano il più piccolo errore di calcolo poteva amplificarsi al punto che spesso le navi mancavano in modo sconcertante obiettivi delle dimensioni delle Bermuda. Norwood, il cui primo amore erano gli angoli e la trigonometria, decise di portare un poco di rigore matematico nella navigazione, e a tale scopo decise di calcolare la lunghezza di un grado di meridiano. Dando le spalle alla Torre di Londra, Norwood trascorse due interi anni camminando per oltre trecento chilometri a nord, fino a York, svolgendo di continuo una catena, misurandola e aggiustando i calcoli con estrema meticolosità per tener conto dell'inclinazione del terreno: discese, salite, e tortuosità della strada. Il passo finale fu la misurazione dell'angolo del sole a York, nella stessa ora e nello stesso giorno dell'anno in cui lo aveva misurato a Londra. Da questo dedusse la lunghezza di un grado del meridiano terrestre, per poi calcolare la circonferenza del pianeta. L'impresa era così ambiziosa da rasentare l'assurdo: un errore, anche di una minima frazione di grado, avrebbe spostato il totale di chilometri e chilometri; tuttavia, come proclamò orgogliosamente lui stesso, Norwood fu accurato « al granello » o, per essere più precisi, con un margine di circa 550 metri.11 I suoi risultati davano 110,72 chilometri per grado d'arco.
Nel 1637 Norwood diede alle stampe il suo capolavoro, The Seaman's Practice, un trattato sull'arte della navigazione che riscosse un successo immediato. Ne furono pubblicate diciassette edizioni e a venticinque anni dalla morte dell'autore era ancora in stampa. Norwood tornò alle Bermuda e vi si stabilì con la famiglia. Divenne proprietario terriero e dedicò il tempo libero al suo primo amore, la trigonometria. Visse alle Bermuda altri trentotto anni, e sarebbe bello poter affermare che trascorse quei suoi ultimi anni felice e riverito. Le cose, però, andarono diversamente. Nella traversata dall'Inghilterra, i suoi due figli alloggiarono nella stessa cabina del reverendo Nathaniel White; in qualche modo i due marmocchi riuscirono a traumatizzare il giovane vicario a tal punto che quello dedicò poi buona parte della sua restante carriera a perseguitare Norwood in tutti i modi possibili e immaginabili. Quanto alle due figlie di Norwood, aggravarono ulteriormente le sofferenze paterne, contraendo pessimi matrimoni. Uno dei mariti, forse sobillato dal vicario, continuò a citare Norwood in tribunale con piccole accuse, esasperandolo e costringendolo a numerosi e ripetuti spostamenti sulle isole per potersi difendere. Infine, intorno alla metà del secolo, i processi per stregoneria arrivarono fino alle Bermuda e Norwood passò gli ultimi anni della sua vita in grandi ambasce, preoccupato che i suoi studi di trigonometria, con tutti i loro simboli arcani, potessero essere scambiati per comunicazioni con il demonio, e che gli toccasse una morte orribile per. mano del boia. Si sa così poco di Norwood che forse potrebbe anche aver meritato quegli ultimi anni infelici. Quello che sappiamo con certezza è che essi furono effettivamente tali.
Nel frattempo, in Francia l'interesse per la determinazione della circonferenza della Terra acquistò nuovo slancio. L'astronomo Jean Picard ideò un complicatissimo metodo di triangolazione che comprendeva quadranti, orologi a pendolo, sestanti e telescopi zenitali (per l'osservazione delle lune di Giove). Dopo due anni spesi a triangolare muovendosi lentamente in territorio francese, nel 1699 Picard annunciò una misura del grado d'arco ancora più accurata, pari a 110,46 chilometri. Questo fu per la Francia un motivo di grande orgoglio, ma dipendeva essenzialmente dall'ipotesi che la Terra fosse una sfera perfetta - e adesso Newton sosteneva che non era così. A complicare le cose, dopo la morte di Picard, una squadra composta da Giovanni e Giacomo Cassini, padre e figlio, ripetè gli esperimenti di Picard su scala più ampia e ottenne risultati che indicavano come invece la Terra fosse più grossa ai poli, e non all'equatore: se così fosse stato, Newton si sarebbe completamente sbagliato. Fu proprio questo che spinse l'Académie des Sciences a spedire Bouguer e La Condamine in Sud America per fare nuovi rilevamenti.
Scelsero le Ande perché, per determinare se veramente vi fosse una differenza nella sfericità era meglio effettuare le misurazioni all'equatore, e poi perché pensavano che le montagne avrebbero consentito una buona visione panoramica. In realtà le montagne peruviane erano costantemente immerse nelle nuvole e i membri della spedizione furono spesso costretti ad aspettare settimane intere per poter godere di un'ora di visibilità nitida. Come se non bastasse, avevano scelto uno dei territori più difficili del pianeta. I peruviani lo definiscono muy accidentado e di sicuro non esagerano. I francesi dovettero scalare alcune delle cime più difficili del mondo (montagne che misero per così dire in ginocchio anche i loro muli), senza contare che per raggiungerle dovettero guadare fiumi impetuosi, aprirsi varchi nella giungla e attraversare chilometri di deserto roccioso, in quota, quasi del tutto inesplorato e lontano da ogni fonte di rifornimento. Bouguer e La Condamine, però, erano tipi davvero tenaci e si dedicarono all'impresa per nove anni e mezzo durissimi, scanditi da dolorose ustioni solari. Poco prima della conclusione della spedizione, giunse loro voce che un altro gruppo francese stava effettuando misurazioni analoghe nel nord della Scandinavia (affrontando anch'esso grandi difficoltà, dalle paludi fangose a pericolosi lastroni di ghiaccio) e aveva scoperto che, vicino al polo, un grado risultava in effetti più lungo, proprio come aveva assicurato Newton. La circonferenza della Terra, se misurata lungo l'equatore, risultava più lunga di 43 chilometri rispetto a quando era misurata passando da un polo all'altro.12
Bouguer e La Condamine avevano quindi lavorato quasi dieci anni non solo per trovare un risultato contrario alle loro tesi, ma per scoprire di non esserci nemmeno arrivati per primi. Con pochissimo entusiasmo, i due francesi portarono a termine i loro rilevamenti, confermando l'esattezza dei riscontri dei connazionali che li avevano preceduti. Poi, sempre senza rivolgersi la parola, ridiscesero verso la costa, si imbarcarono su navi separate, e se ne tornarono a casa.
Un'altra supposizione avanzata da Newton nei suoi Principia era che, se si sospende un filo a piombo accanto a una montagna, questo tende a inclinarsi leggermente verso di essa, influenzato non solo dalla massa gravitazionale della Terra, ma anche da quella della montagna. Si tratta di qualcosa di più di una curiosità. Misurando accuratamente la deflessione dalla verticale e calcolando la massa della montagna, si potrebbe ottenere la costante gravitazionale universale - ossia il fondamentale valore della gravità, noto come G - e insieme a quello, la massa della Terra.
Bouguer e La Condamine avevano provato a farlo in Perù, sul monte Chimborazo, ma le difficoltà tecniche e i loro continui bisticci gliel'avevano impedito. Quell'idea rimase quindi inerte per altri trent'anni fino a che non venne resuscitata in Inghilterra da Nevil Maskelyne, Astronomer Royal. In Longitudine, il libro di Dava Sobel, Maskelyne è dipinto come uno stupido degno di disprezzo per non aver saputo apprezzare il genio di John Harrison, il fabbricante di orologi. Sarà anche così, comunque gli siamo debitori di molte altre cose non menzionate in quel libro, in particolare il suo piano per stabilire il peso della Terra.
Maskelyne comprese che il nocciolo del problema stava nel trovare una montagna con una forma abbastanza regolare perché se ne potesse valutare la massa. Dietro sue pressioni, la Royal Society accettò di ingaggiare una persona autorevole, affinché girasse le isole britanniche alla ricerca di una montagna con quelle caratteristiche. Maskelyne conosceva proprio la persona adatta: l'astronomo e agrimensore Charles Mason. Maskelyne e Mason erano diventati amici undici anni prima, mentre erano impegnati a misurare un evento astronomico di grande importanza: il passaggio del pianeta Venere davanti al disco solare. Anni prima, l'instancabile Edmond Halley aveva suggerito che se si fossero prese opportune misurazioni di uno di questi passaggi da determinati punti della Terra, sarebbe stato possibile usare il principio di triangolazione per calcolare la distanza fra il nostro pianeta e il Sole, e per misurare quindi con precisione la nostra distanza da tutti gli altri corpi del sistema solare. Purtroppo, com'è noto, i transiti di Venere sono avvenimenti irregolari. Si verificano in coppia, a distanza di otto anni uno dall'altro, e poi non si ripetono più almeno per un secolo; in particolare, nel periodo in cui visse Halley non ve ne fu nessuno.* L'idea era quindi rimasta a covare sotto la cenere e nel 1761 - quando si verificò il transito successivo, quasi vent'anni dopo la morte di Halley - il mondo scientifico era pronto. Molto più pronto, in
* L'ultimo transito ha avuto luogo l'8 giugno 2004, e il prossimo sarà nel 2012. Nel ventesimo secolo non ce ne sono stati.
verità, di quanto lo fosse mai stato rispetto a qualsiasi evento astronomico precedente. Animati dall'istinto, tipico dell'epoca, che li attirava verso imprese dure e difficili, gli scienziati si misero in cammino alla volta di oltre cento località sparse in tutto il globo: in Siberia, in Cina, in Sudafrica, in Indonesia e nei boschi del Wisconsin, tanto per citarne alcune. La Francia inviò trentadue osservatori, la Gran Bretagna diciotto di più e altri partirono anche dalla Svezia, dalla Russia, dall'Italia, dalla Germania, dall'Irlanda e da altri luoghi ancora.
Fu la prima spedizione scientifica a cooperazione internazionale della storia, e incontrò problemi quasi ovunque. Molti osservatori vennero sorpresi da guerre, malattie o naufragi. Altri giunsero a destinazione ma quando aprirono i bagagli vi trovarono solo strumenti rotti o deformati dal calore tropicale. Ancora una volta, i partecipanti più sfortunati sembrarono essere tra i francesi. Jean Chappe viaggiò per mesi e mesi alla volta della Siberia, muovendosi in carrozza, nave e slitta e proteggendo la sua delicata strumentazione da ogni pericolo, per ritrovarsi poi, nell'ultimo tratto fondamentale, bloccato dalle ondate di piena causate da piogge primaverili insolitamente abbondanti, eventi dei quali le popolazioni locali gli attribuirono la colpa dopo averlo visto puntare i suoi strani apparecchi verso il cielo. Chappe riuscì a mettere in salvo la pelle, ma non gli fu possibile portare a casa misure utili.
Ancora più sfortunato fu Guillaume Le Gentil, le cui esperienze sono splendidamente riassunte da Timothy Ferris nel suo L'avventura dell'universo: da Aristotele alla teoria dei quanti e oltre: una storia senza fineP Le Gentil partì dalla Francia con un anno di anticipo per osservare il transito in India, ma vari contrattempi fecero sì che il giorno dell'evento lui si trovasse ancora per mare: proprio il posto peggiore, giacché è impossibile effettuare una misurazione ripetibile su una nave che beccheggia. Per nulla scoraggiato, Le Gentil continuò il viaggio verso l'India per attendere il transito successivo del 1769. Avendo davanti a sé otto anni per prepararsi, allestì una stazione di osservazione di prim'ordine, controllò e ricontrollò i suoi strumenti e tenne tutto pronto e in perfette condizioni. Il giorno del secondo transito, il 4 giugno 1769, era una bella giornata. Ma non appena Venere cominciò il suo passaggio, una nuvola scivolò davanti al Sole e vi rimase quasi esattamente per tutta la durata del transito: tre ore, quattordici minuti e sette secondi.
Imperturbabile, Le Gentil impacchettò i suoi strumenti e si mise in viaggio per il porto più vicino, ma per strada si ammalò di dissenteria e fu costretto al riposo per quasi un anno. Ancora debole, riuscì infine a imbarcarsi. Fu sul punto di rischiare il naufragio a causa di un ciclone al largo della costa africana. Quando finalmente, dopo undici anni e mezzo, riuscì a tornare a casa senza stringere fra le mani alcun risultato, scoprì che in sua assenza i parenti l'avevano fatto dichiarare morto e si erano poi dati all'entusiastica dilapidazione del suo patrimonio. In confronto, le disavventure sperimentate dai diciotto scienziati britannici dispersi ai quattro capi del globo furono più lievi. Mason si trovò a lavorare insieme a un giovane topografo di nome Jeremiah Dixon; almeno in apparenza, i due andarono d'accordo visto che il loro sodalizio fu duraturo. Avevano ricevuto istruzioni di viaggiare verso Sumatra per osservare il transito da lì; dopo una sola notte di mare, però, la loro nave fu assalita da una fregata francese. (Sebbene gli scienziati fossero inclini alla cooperazione internazionale, le nazioni non lo erano affatto.) Mason e Dixon inviarono un messaggio alla Royal Society: visti i terribili pericoli che si correvano per mare, si chiedevano se non fosse meglio lasciar perdere la cosa.14 In risposta ricevettero un immediato e gelido rimprovero, in cui si sottolineava che erano già stati pagati, che la nazione e la comunità scientifica facevano affidamento su di loro e che se non fossero andati avanti nell'impresa avrebbero perso irrimediabilmente la reputazione. Così rimbrottati, i due proseguirono la navigazione; in viaggio, però, furono raggiunti dalla notizia che Sumatra era caduta nelle mani dei francesi. Osservarono perciò il transito, peraltro in modo inconclusivo, dal Capo di Buona Speranza. Sulla via del ritorno, fecero sosta presso il solitario scoglio atlantico di Sant'Elena, dove incontrarono Maskelyne, le cui osservazioni erano state intralciate dalle nuvole. Fra Mason e Maskelyne nacque una profonda amicizia ed essi trascorsero diverse settimane felicemente, e forse anche ottenendo risultati di una qualche utilità, intenti a registrare i flussi delle maree.
Subito dopo Maskelyne se ne tornò in Inghilterra, dove divenne Astronomer Royal, mentre Mason e Dixon, ormai evidentemente più esperti, partirono per quattro lunghi anni, spesso perigliosi, nel corso dei quali effettuarono rilevazioni su 224 miglia di territorio americano, allo scopo di risolvere una disputa di confine sorta tra le proprietà di William Penn e Lord Baltimore e le loro rispettive colonie della Pennsylvania e del Maryland. Il risultato fu la famosa linea Mason-Dixon, in seguito divenuta simbolo della linea di divisione tra stati schiavisti e abolizionisti. Sebbene quella di tracciare la linea fosse la loro principale occupazione, i due contribuirono anche a molti rilievi astronomici, compresa una delle misurazioni più accurate di un grado di meridiano terrestre eseguite in quel secolo. In Inghilterra, tale risultato garantì loro sicuramente maggior plauso di quanto ne potesse venire dalla risoluzione di una disputa fra aristocratici viziati.
Di ritorno in Europa, Maskelyne e i suoi colleghi tedeschi e francesi furono costretti ad ammettere che le misurazioni del transito del 1761 erano state essenzialmente un fallimento. Paradossalmente, uno dei problemi era da ricondurre all'eccessivo numero di osservazioni le quali, una volta messe a confronto, si dimostrarono spesso contraddittorie e inconciliabili. La registrazione di un transito venusiano riuscì invece al capitano James Cook, un uomo quasi sconosciuto, nato nello Yorkshire, che osservò il transito del 1769 da una soleggiata collina di Tahiti, e poi continuò a mappare l'Australia, rivendicando su di essa la sovranità della Corona britannica. Al suo ritorno, c'erano ormai informazioni sufficienti perché l'astronomo francese Joseph Lalande potesse calcolare che la distanza media tra la Terra e il Sole era di poco superiore ai 150 milioni di chilometri. (Due ulteriori transiti, nel corso del diciannovesimo secolo, consentirono agli astronomi di aggiustare il calcolo a 149,59 milioni di chilometri, un risultato rimasto da allora immodificato. La distanza precisa stimata oggi è di 149,597870691 milioni di chilometri.) Finalmente, la Terra aveva una posizione precisa nello spazio.
Quanto a Mason e Dixon, tornarono in Inghilterra come eroi della scienza e, per ragioni a noi ignote, ruppero il loro sodalizio. Considerata la frequenza con cui entrambi appaiono coinvolti nei fondamentali eventi della scienza del diciottesimo secolo, di loro si sa veramente poco. Non esistono ritratti, e i documenti scritti sono pochi. A proposito di Dixon, il Dictionary of National Biography fa curiosamente menzione del fatto che « si diceva fosse nato in una miniera di carbone »; poi però lascia all'immaginazione del lettore il compito di trovare una spiegazione plausibile della circostanza, e aggiunge che morì a Durham nel 1777.15 A parte il nome e il lungo legame con Mason, di Dixon non sappiamo nient'altro. La figura di Mason è un po' meno sfocata, ma solo di poco. Sappiamo che nel 1772, su commissione di Maskelyne, si assunse il compito di trovare una montagna adatta all'esperimento sulla deflessione gravitazionale, stabilendo alla fine che la cima che cercavano si trovava al centro delle Scottish Highlands, proprio sopra Loch Tay, e si chiamava Schiehallion.16 Niente comunque lo avrebbe indotto a passare un'estate intera a effettuare rilievi su di essa, e non vi ritornò mai più. Il successivo spostamento di Mason di cui si abbia notizia risale al 1786 quando, tutto d'un tratto e in modo misterioso, se ne andò a Filadelfia con moglie e otto figli, a quanto pare sull'orlo dell'indigenza. Da quando aveva completato i suoi rilievi, diciotto anni prima, non era più tornato in America e, per quanto se ne sa, non aveva alcuna ragione per farlo ora: nessun amico o benefattore ad accoglierlo. Qualche settimana dopo morì. Poiché Mason si era rifiutato di eseguirlo, il lavoro di misurazione della montagna ricadde su Maskelyne. Nell'estate del 1774, quindi, per quattro mesi, Maskelyne visse sotto una tenda in una remota valle scozzese, passando le giornate a dirigere una squadra di topografi che effettuò centinaia di misurazioni da ogni possibile angolazione. Calcolare la massa della montagna a partire da tutti quei numeri, richiedeva moltissimi calcoli noiosi, per eseguire i quali fu ingaggiato un matematico di nome Charles Hutton. I topografi avevano riempito una mappa con decine e decine di cifre, ognuna indicante un innalzamento del livello del terreno in un punto della montagna o dei suoi immediati dintorni. Si trattava, essenzialmente, di una massa confusa di numeri, ma Hutton notò che se usava una matita per connettere tutti i punti di uguale altezza, il quadro che se ne ricavava era molto più ordinato. In pratica, se ne poteva trarre un'idea immediata della forma generale e della pendenza della montagna. Hutton aveva inventato le curve di livello isoipse. Estrapolandola dalle misurazioni effettuate a Schiehallion, Hutton calcolò che la massa della Terra fosse pari a 5000 milioni di milioni di tonnellate; da qui riuscì poi a dedurre ragionevolmente la massa di tutti i principali corpi presenti nel sistema solare, Sole compreso. Da quest'unico esperimento abbiamo quindi appreso la massa della Terra, del Sole, della Luna, degli altri pianeti e delle loro lune; come se non bastasse, nel pacchetto dei risultati ci siamo ritrovati anche le curve di livello: niente male per un lavoretto estivo.
Non tutti, comunque, furono soddisfatti. Il punto debole dell'esperimento di Schiehallion stava nel fatto che era impossibile ottenere dati veramente accurati senza conoscere la reale densità della montagna. Per convenienza, Hutton aveva assunto che la sua densità fosse quella della pietra comune, circa 2,5 volte quella dell'acqua; si trattava comunque di poco più di un'ipotesi realistica.17
Un personaggio alquanto improbabile rivolse a questo punto la sua attenzione alla questione: si trattava di un parroco di campagna di nome John Micheli, che risiedeva nel solitario villaggio di Thorn-hill, nello Yorkshire. A dispetto della posizione remota e relativamente umile, Micheli fu uno dei grandi pensatori scientifici del diciottesimo secolo e godeva per questo di grande considerazione.
Tra le tante altre cose, compresa la natura ondulatoria dei terremoti, condusse molte ricerche originali sul magnetismo e sulla gravità e - cosa questa davvero straordinaria - ipotizzò la possibile esistenza dei buchi neri duecento anni prima di chiunque altro: un salto in avanti che non era riuscito nemmeno al genio di Newton. Quando il musicista di origine tedesca William Herschel decise che il suo vero interesse nella vita era l'astronomia, fu a Micheli che si rivolse, chiedendogli istruzioni su come costruire un telescopio,18 una gentilezza per la quale la scienza planetaria gli è stata fin da allora debitrice.*
Di tutte le imprese che Micheli portò a termine, però, nessuna fu più ingegnosa, né ebbe un impatto maggiore, di uno strumento da lui progettato e costruito per misurare la massa della Terra. Purtroppo egli morì prima di poterlo usare: sia il progetto, sia l'attrezzatura passarono quindi nelle mani di Henry Cavendish, uno scienziato londinese di grande intelligenza, ma estremamente schivo.
Cavendish, da solo, costituirebbe materia per un libro intero.
* Nel 1781, Herschel fu il primo, nell'era moderna, a scoprire un pianeta. Lui avrebbe voluto chiamarlo George, dal nome del monarca britannico, ma alla line il pianeta fu chiamato Urano.
Destinato per nascita a una vita da grande privilegiato (i suoi nonni erano duchi, rispettivamente di Devonshire e di Kent), Cavendish fu uno degli scienziati inglesi più talentosi del suo tempo, ma anche uno fra i più stravaganti. Soffriva, stando a quanto riferisce uno dei suoi pochi biografi, di una timidezza «che rasentava la patologia».19 Ogni contatto umano lo metteva profondamente a disagio.
Una volta aprì la porta di casa e si trovò davanti un ammiratore austriaco appena arrivato da Vienna. L'austriaco cominciò a balbettare le sue lodi, e per qualche istante Cavendish se ne stette immobile a incassare i complimenti come fossero stati colpi inferti con un oggetto contundente. Poi, incapace di reggere oltre, fuggì lungo il viale e uscì dal cancello, lasciando il portone spalancato. Occorsero alcune ore prima che si riuscisse a convincerlo a tornare a casa. Perfino la sua domestica comunicava con lui per lettera.
Sebbene qualche volta si avventurasse in società (in particolare, era assiduo frequentatore delle soirées scientifiche settimanali organizzate dal grande naturalista Sir Joseph Banks), gli altri ospiti venivano sempre esplicitamente edotti del fatto che Cavendish non doveva essere in nessun caso avvicinato e nemmeno guardato. A coloro che anelavano una sua opinione veniva consigliato di provare ad aggirarsi nelle sue vicinanze come per caso e di « fare come se parlassero al vuoto ».20 Se le loro osservazioni avevano un qualche valore scientifico, poteva darsi che ricevessero una risposta borbottata; più spesso, però, accadeva loro di udire uno squittio infastidito (sembra che avesse una voce dai toni alti) e voltandosi non trovavano più nessuno, a parte la sagoma di Cavendish in fuga verso un angolo più tranquillo.
I mezzi economici e le inclinazioni solitarie gli consentirono di trasformare la sua casa di Clapham in un grande laboratorio dove poter spaziare indisturbato visitando ogni angolo delle scienze fisiche: l'elettricità, il calore, la gravità, i gas, qualsiasi cosa avesse a che fare con la composizione della materia. La seconda metà del diciottesimo secolo fu un'epoca in cui chi aveva inclinazione per la scienza mostrava grande interesse per le proprietà fisiche di oggetti e fenomeni elementari (gas ed elettricità in particolare) e cominciava a sperimentare che cosa se ne potesse fare, spesso animato più dall'entusiasmo che dal giudizio. In America, com'è noto, Benjamin Franklin rischiò la vita facendo volare un aquilone nel mezzo di una tempesta elettrica. In Francia, un chimico di nome Pilatre de Rozier verificò l'infiammabilità dell'idrogeno riempiendosene la bocca e soffiando su una fiamma viva (dimostrando così, in un colpo solo, che l'idrogeno è davvero un combustibile esplosivo e che le sopracciglia non sono necessariamente un elemento permanente sul volto di una persona). Cavendish, dal canto suo, condusse esperimenti in cui si sottopose a scariche elettriche di intensità crescente, annotando con diligenza l'aumento del livello di sofferenza fino a che non gli riusciva più di tener salda in mano la sua penna d'oca e, a volte, fino alla perdita della coscienza.
Nel corso della sua lunga vita, Cavendish fece una serie di scoperte importantissime: tra le molte altre, fu il primo a isolare l'idrogeno e a combinare idrogeno e ossigeno per formare l'acqua. Quasi nulla di quello che fece, d'altra parte, fu del tutto scevro da stranezze. Gettando i suoi colleghi scienziati in uno stato di continua esasperazione, alludeva spesso, nelle sue pubblicazioni, a risultati di esperimenti di cui non aveva mai fatto parola a nessuno. In quanto a discrezione, non si limitava a somigliare a Newton, ma lo superava nettamente. I suoi esperimenti con la conduttività elettrica erano in anticipo di un secolo sui tempi, ma purtroppo rimasero ignoti fino alla fine del secolo. In pratica, gran parte del suo lavoro venne alla luce solo verso la fine dell'Ottocento, quando il grande fisico di Cambridge, James Clerk Maxwell, si assunse il compito di pubblicare le sue carte; nel frattempo, però, i meriti delle scoperte di Cavendish erano stati quasi sempre attribuiti ad altri.
Tra le molte altre cose, senza farne parola con nessuno, Cavendish scoprì o anticipò la legge della conservazione dell'energia, la legge di Ohm, la legge delle pressioni parziali di Dalton, la legge delle proporzioni reciproche di Richter, la legge dei gas di Charles e i principi della conduttività elettrica. E questi sono solo alcuni esempi. Secondo lo storico della scienza J.G. Crowther, Cavendish anticipò «il lavoro di Kelvin e G.H. Darwin sull'effetto rallentante dell'attrito marcale sulla rotazione terrestre, e la scoperta di Lar-rrior, pubblicata nel 1915, sull'effetto del raffreddamento atmosferico locale [...] il lavoro di Pickering sulle miscele congelanti, e parte del lavoro di Rooseboom sugli equilibri eterogenei ».21 Lasciò infine indicazioni che portarono direttamente alla scoperta del gruppo di elementi conosciuti come gas nobili, alcuni dei quali sono così elusivi che l'ultimo fu scoperto solo nel 1962. Qui, però, a noi interessa l'ultimo esperimento conosciuto di Cavendish quando, verso la fine dell'estate del 1797, a sessantasette anni, concentrò la sua attenzione sulle casse contenenti l'attrezzatura lasciategli (evidentemente per pura stima scientifica) da John Micheli.
Una volta assemblato, l'apparecchio di Micheli sembrava una versione settecentesca di una macchina per esercitarsi nel sollevamento pesi. C'erano pesi, contrappesi, pendoli, aste e cavi di torsione. Cuore della macchina erano due sfere di piombo da 158 chili l'una, sospese accanto a due sfere più piccole.22 L'idea era quella di misurare la deflessione gravitazionale delle sfere più piccole indotta su di esse da quelle più grandi: ciò avrebbe consentito la prima misurazione di quella forza elusiva nota come costante gravitazionale, dalla quale poteva poi essere dedotto il peso (in senso stretto, la massa*) della Terra.
Poiché è la gravità a mantenere i pianeti in orbita e a far cadere gli oggetti a terra con uno schianto, noi tendiamo a immaginarla come una forza molto potente, ma di fatto non lo è. La gravità è intensa solo in quella che è una sorta di accezione collettiva, per esempio quando consideriamo che un oggetto dotato di una grande massa come il Sole trattiene un altro oggetto dotato di grande massa come la Terra. Ma a un livello più elementare la gravità è straordinariamente debole. Ogni volta che solleviamo un libro da un tavolo o una moneta dal pavimento non facciamo altro che contrastare, senza nessuno sforzo, la forza gravitazionale di un intero pianeta. Quel che Cavendish stava cercando di fare era proprio di misurare la gravità a questo livello così debole.
La parola chiave era delicatezza: nella stanza che conteneva la macchina, anche il più piccolo sussurro poteva essere di disturbo e quindi Cavendish prese posto in una stanza attigua e condusse le sue osservazioni tramite un telescopio che veniva puntato attraverso un foro. Il lavoro fu molto impegnativo: consisteva
* Per un fisico massa e peso sono due cose completamente differenti. La vostra massa resta la stessa dovunque andiate, ma il vostro peso varia a seconda di quanto vi allontanate dal centro di qualche altro oggetto a sua volta dotato di massa, per esempio un pianeta. Se doveste recarvi sulla Luna, sareste più leggeri, ma la vostra massa sarebbe sempre quella. Sulla Terra, a tutti i fini pratici, massa e peso sono la stessa cosa e quindi i due termini possono essere trattati come sinonimi, purché ci si tenga lontani dalle aule scolastiche.
di diciassette delicate misurazioni interconnesse fra loro, il cui completamento, nell'insieme, richiese quasi un anno. Quando finalmente ebbe concluso i suoi calcoli, Cavendish annunciò che la Terra pesava poco più di 13.000.000.000.000.000.000.000 di libbre oppure, per usare il sistema di misura moderno, sei miliardi di trilioni di tonnellate.23
Oggi gli scienziati hanno a disposizione macchine così precise da riuscire a determinare il peso di un singolo batterio, e così sensibili che le letture degli strumenti possono essere disturbate da qualcuno che sbadiglia a più di venti metri di distanza: eppure, non hanno apportato significativi miglioramenti alle misurazioni effettuate da Cavendish nel 1797. Attualmente, la stima più accurata del peso della Terra ammonta a 5,9725 miliardi di trilioni di tonnellate, una differenza di appena l'uno per cento rispetto al risultato di Cavendish. Vale la pena di osservare come tutto questo non faccia che confermare le stime eseguite da Newton 110 anni prima di Cavendish, in mancanza di qualsiasi prova sperimentale.
A ogni modo, alla fine del diciottesimo secolo gli scienziati conoscevano già con grande precisione la forma e le dimensioni della Terra, la sua distanza dal Sole e dagli altri pianeti; adesso, poi, senza nemmeno allontanarsi da casa, Cavendish le aveva anche attribuito un peso. A questo punto, si potrebbe pensare che la determinazione dell'età della Terra fosse un compito relativamente semplice. Dopotutto, il materiale necessario era, letteralmente, ai piedi degli scienziati. E invece, no: non andò così. Gli esseri umani avrebbero scisso l'atomo e inventato la televisione, il nylon e il caffè solubile, prima di riuscire a calcolare l'età del loro pianeta.
Se vogliamo capire perché, dobbiamo spostarci verso il nord della Scozia, e cominciare a interessarci di un uomo brillante e geniale, del quale pochi hanno sentito parlare, ma che aveva appena inventato una scienza nuova: la geologia.
5. Gli spaccapietre
Proprio mentre Cavendish stava per concludere i suoi esperimenti a Londra, a quattrocento chilometri di distanza, a Edimburgo, un'altra vicenda stava per chiudersi, con la morte di James Hutton. La dipartita dello scienziato fu ovviamente una pessima notizia per i suoi familiari, ma per la scienza rappresentò un evento positivo, in quanto diede mano libera a un uomo di nome John Playfair, che potè così riscrivere il lavoro di Hutton senza tema di imbarazzo.
Senza dubbio, Hutton era stato un uomo dalle profonde intuizioni, un tipo dalla conversazione brillante e di piacevole compagnia; per quanto riguardava la comprensione di quei processi lenti e misteriosi che diedero forma alla Terra, poi, fu proprio senza rivali.1 Purtroppo, non aveva il dono di saper esporre le proprie idee in una forma che fosse anche solo vagamente comprensibile a qualcuno. Come ebbe a osservare uno dei suoi biografi con un mesto sospiro, « quanto a talento retorico [Hutton] ne era quasi del tutto privo».2 All'atto pratico, ogni riga dei suoi scritti è un invito al sonno. Eccolo nel suo capolavoro del 1795, A Theory of the Earth with Proofs and Illustrations, che illustra... be', qualcosa illustrerà pure...
Il mondo che abitiamo è composto dai materiali, non della terra che ha immediatamente preceduto la presente, ma della terra che, a partire dal presente, consideriamo come la terza e che aveva preceduto il terreno che si trovava sulla superficie del mare, quando la nostra terra presente si trovava ancora sotto l'acqua dell'oceano.
Eppure, quasi da solo, e in modo assolutamente geniale, Hutton
inventò la geologia e trasformò la nostra comprensione della Terra.
Hutton nacque nel 1726 da una prospera famiglia scozzese, e
godette di un benessere materiale che gli consentì di dedicare gran
parte dell'esistenza a una piacevole routine di lavoro non troppo pesante e di perfezionamento intellettuale. Studiò medicina, ma non la trovò di suo gradimento e così si rivolse all'agricoltura, che seguì in modo scientifico e rilassato nel Berwickshire, nella proprietà di famiglia. Stanco di greggi e di campi, nel 1768 si trasferì a Edimburgo dove avviò un'azienda redditizia che produceva cloruro di ammonio dalla fuliggine di carbone e si tenne impegnato con una serie di ricerche scientifiche. All'epoca, Edimburgo era un centro di grande fermento intellettuale e Hutton beneficiò delle possibilità di arricchimento offertegli dalla città. Divenne esponente di primo piano all'interno di un'associazione denominata Oyster Club, dove trascorreva le sue serate in compagnia di uomini quali l'economista Adam Smith, il chimico Joseph Black e il filosofo David Hume. Oppure di tipi elettrici come Benjamin Franklin e James Watt.3
Fedele alla tradizione dell'epoca, Hutton si interessò quasi a tutto, dalla mineralogia alla metafisica. Tra le molte altre cose, condusse esperimenti con sostanze chimiche, indagò sui metodi di estrazione del carbone e di costruzione dei canali, visitò miniere di sale, studiò i meccanismi dell'ereditarietà, collezionò fossili e propose teorie sulla pioggia, la composizione dell'aria e le leggi del moto. Il suo interesse principale, però, fu la geologia.
Tra le questioni che attraevano l'interesse di quell'epoca così fanaticamente curiosa ce n'era una su cui molti si lambiccavano da molto tempo: come mai in cima alle montagne si trovavano tanto spesso conchiglie di antichi molluschi e altri fossili marini? Come accidenti erano arrivati fin lassù? Coloro che pensavano di avere la risposta erano divisi in due opposte fazioni. Una, cosiddetta dei nettunisti, era convinta che ogni cosa sulla terra - comprese le conchiglie marine rinvenute ad altezze tanto improbabili - potesse essere spiegata dall'innalzamento e dall'abbassamento del livello dei mari. Secondo costoro, montagne, colline e tutte le altre caratteristiche del territorio erano antiche quanto la Terra stessa, e si erano modificate solo quando un'alluvione globale le aveva completamente sommerse.
Fieri avversari dei nettunisti erano i plutonisti, secondo i quali il volto del pianeta era stato invece modificato da vulcani, terremoti e altri eventi capaci di animarlo. In più, come c'era da aspettarsi, negavano che i capricci del mare avessero dato il loro contributo alle modifiche. I plutonisti ponevano inoltre agli avversari alcune
domande imbarazzanti: dove sarebbe andata a finire tutta quell'acqua, una volta finita la piena? Se ce n'era stata così tanta da sommergere le Alpi, di grazia, dove si trovava nei periodi di tranquilla normalità, come quello attuale? Era ferma convinzione dei plutonisti che la Terra fosse soggetta, oltre alle forze di superficie, anche a forze interne molto profonde. Comunque, non sapevano spiegare con altrettanta convinzione come avessero fatto tutte quelle conchiglie a finire in cima alle montagne.
Fu proprio mentre rifletteva su questi argomenti che Hutton ebbe una serie di straordinarie intuizioni. Osservando i terreni di sua proprietà, si accorse che quel suolo era stato creato dall'erosione delle rocce, e che i suoi frammenti erano continuamente trascinati via dalla corrente dei fiumi per essere ridepositati altrove. Capì che se un processo del genere fosse stato portato alle sue naturali conclusioni, la Terra avrebbe finito per essere completamente pianeggiante. Invece, tutto intorno a lui, c'erano colline. Era chiaro che doveva esserci stato un ulteriore processo, una forma di rinnovamento e di innalzamento, che creava nuovi rilievi perpetuando il ciclo. Quanto ai fossili marini sulle cime delle montagne, decise che non si erano depositati durante le inondazioni, ma si erano sollevati insieme alle montagne. Dedusse anche che era il calore all'interno della Terra a creare nuove rocce e continenti e a spingere verso l'alto le catene montuose. Non è esagerato dire che i geologi avrebbero compreso appieno le implicazioni del pensiero di Hutton solo duecento anni dopo, quando infine adottarono il concetto di tettonica a placche. Soprattutto, le teorie di Hutton suggerivano che i processi di formazione della Terra avessero richiesto moltissimo tempo, molto più di quanto si fosse mai immaginato. Insomma, in tutto questo c'erano intuizioni sufficienti a trasformare totalmente la nostra comprensione del pianeta.
Nel 1785 Hutton trascrisse le sue idee in un lungo articolo, che lesse in una serie di riunioni tenute presso la Royal Society di Edimburgo. Il suo lavoro passò quasi del tutto inosservato. Non è difficile capire perché. Ecco un esempio di ciò che Hutton presentò al suo uditorio:
In un caso, la causa della formazione sta nel corpo che è separato; poiché, dopo che il corpo è stato attivato dal calore, è per la
reazione della materia propria del corpo, che viene formata la fenditura che costituisce la vena. Nell'altro caso ancora, la causa è estrinseca in relazione al corpo nel quale si forma la fenditura. Ci sono state le più violente fratture e spaccature, ma la causa è ancora da individuare, e non sembra risiedere nella vena, poiché i minerali, o le sostanze proprie delle vene mineralifere non si trovano in tutte le fratture e le faglie del corpo solido della nostra Terra.
Inutile dire che quasi nessuno degli ascoltatori aveva la più pallida idea di cosa stesse dicendo. Gli amici nutrivano la commovente speranza che avvalendosi di un modello più esteso avrebbe potuto raggiungere una maggior chiarezza, e lo incoraggiarono a espandere la sua teoria. Hutton passò i successivi dieci anni a preparare il suo opus magnum, che fu poi pubblicato in due volumi nel 1795.
Insieme, i due volumi arrivavano quasi a un migliaio di pagine ed erano - il che è straordinario - peggiori di quanto i più pessimisti fra i suoi amici avessero temuto. A parte tutto il resto, quasi metà del lavoro consisteva in citazioni da fonti francesi lasciate in lingua originale.4 Un terzo volume risultò così poco avvincente da essere pubblicato solo nel 1899, quando ormai Hutton era morto da più di un secolo; infine, il quarto e ultimo volume dell'opera non fu mai dato alle stampe.5 Theory of the Earth, l'opera di Hutton, è un eccellente candidato al titolo di testo scientifico importante meno letto (lo sarebbe sicuramente se non ve ne fossero molti altri). Perfino Charles Lyell, il più grande geologo del secolo successivo, un uomo capace di leggere qualsiasi cosa, confessò di non essere riuscito ad arrivare in fondo.6
Per fortuna Hutton ebbe il suo Boswell nella persona di John Playfair, professore di matematica presso la Edinburgh University e suo caro amico; soprattutto, oltre a esser dotato di una prosa piana, Playfair aveva la capacità, il più delle volte, di comprendere quello che Hutton voleva dire, grazie ai molti anni passati al suo fianco. Nel 1802, cinque anni dopo la morte dell'amico, Playfair pubblicò un'esposizione semplificata dei principi di Hutton, intitolata lllustration of the Huttonian Theory of the Earth. Il libro fu accolto con sincera gratitudine da coloro che avevano interesse per
la geologia, un pubblico non particolarmente numeroso nel 1802. Il dato, tuttavia, si apprestava a cambiare. E di molto.
Nell'inverno del 1807, a Londra, tredici personaggi animati da un unico scopo si riunirono presso la Freemasons Tavern di Long Acre, a Covent Garden, per istituire un club che avrebbe avuto il nome di Geologica! Society.7 L'idea era quella di riunirsi una volta al mese per scambiarsi conoscenze geologiche in occasione di una cena conviviale, fra un bicchiere di Madeira e l'altro. Il prezzo del pasto venne fissato a 15 scellini, una cifra volutamente esosa, mirata a scoraggiare tutti coloro le cui qualifiche fossero meramente intellettuali. Ben presto però divenne chiaro che occorreva una sistemazione più istituzionale, con un quartier generale dove riunirsi per illustrare e discutere le nuove scoperte. In meno di dieci anni, la Geological Society arrivò a quattrocento iscritti - sempre tutti gentleman, ovviamente - e minacciò di eclissare la Royal Society come associazione scientifica più importante del paese.
I membri si incontravano due volte al mese da novembre a giugno, dopo di che praticamente tutti loro si apprestavano a trascorrere l'estate facendo ricerche sul campo.8 Non erano tutte persone spinte da un interesse economico per i minerali, né si trattava in massima parte di accademici, ma semplicemente di gentleman con tempo e denaro sufficienti per dedicarsi a un hobby a livello più o meno professionale. Nel 1830 erano già diventati settecentoquarantacinque, e il mondo non avrebbe più assistito a nulla di simile.
Per quanto oggi una cosa del genere sia difficile da immaginare, nel diciannovesimo secolo la geologia esaltò il mondo intero - lo ammaliò - come nessuna scienza era mai riuscita (né sarebbe più riuscita) a fare. Nel 1839, Roderick Murchison pubblicò The Silu-rian System, un ponderoso studio su un particolare tipo di roccia, la grovacca: il libro fu subito un best seller e sebbene costasse 8 ghinee a copia e fosse, in puro stile huttoniano, illeggibile, ne uscirono quattro edizioni. (Come ammise persino uno dei sostenitori di Murchison, «mancava di una qualsiasi attrattiva letteraria».)9 Nel 1841, quando il grande Charles Lyell andò in America per tenere una serie di conferenze a Boston, fece il tutto esaurito
stipando ogni volta tremila persone nel Lowell Institute, tutte desiderose di ascoltare le sue rassicuranti descrizioni delle zeoliti marine e delle perturbazioni sismiche in Campania.
In tutto il mondo moderno e civilizzato, ma soprattutto in Gran Bretagna, gli uomini colti si avventuravano in campagna a «spaccare pietre», come dicevano loro stessi. Si trattava di un'attività presa molto seriamente; a parte il reverendo William Buckland di Oxford, che era solito uscire per le ricerche sul campo indossando la toga accademica, tutti gli altri tendevano a vestirsi con appropriata severità, presentandosi in cilindro e abito scuro.
La nuova disciplina attrasse molti personaggi straordinari, non ultimo il già citato Murchison, che passò i suoi primi trent'anni a cavalcare sulle tracce delle volpi e a trasformare - a colpi di pallettoni - bellissimi uccelli in poveri sbuffi di piume, senza esibire nessuna particolare agilità mentale se non quella necessaria a leggere il Times o a giocare una partita a carte. In seguito Murchison scoprì di avere un interesse per le rocce e divenne, con una rapidità sorprendente, un gigante del pensiero geologico.
Poi c'era il dottor James Parkinson, socialista della prima ora e autore di numerosi pamphlet provocatori con titoli come «Rivoluzione senza spargimento di sangue ». Nel 1794 Parkinson si trovò implicato in una cospirazione alquanto folle detta « popgun plot », ossia il « complotto della pistola a salve », giacché si prefiggeva di colpire re Giorgio III alla nuca, mentre sedeva nel suo palco a teatro, sparandogli una freccia avvelenata con un'arma a salve.10 Parkinson fu trascinato davanti al Consiglio della Corona per essere interrogato; poco mancò che fosse spedito in catene in Australia, prima che le accuse a suo carico cadessero nel silenzio. Passato a un più prudente approccio alla vita, Parkinson non si mise più nei guai: sviluppò invece un interesse per la geologia e fu uno dei membri fondatori della Geological Society, nonché autore di un importante trattato: Organic Remains ofa Former World, che continuò a essere ristampato per mezzo secolo. Oggi però, lo ricordiamo per il suo studio fondamentale sulla malattia allora conosciuta come « paralisi agitante », ma in seguito rinominata appunto « morbo di Parkinson».11 (Parkinson ha anche un altro piccolo motivo per essere famoso: nel 1785 divenne forse l'unica persona a cui sia capitato di vincere all'asta un museo di storia naturale. Si trattava
del museo londinese di Leicester Square, fondato da Sir Ashton Lever, poi trascinato alla bancarotta dalla sfrenata mania di collezionare meraviglie naturali. Parkinson tenne il museo fino al 1805, quando non fu più in grado di sostenerne i costi; la collezione fu allora smembrata e venduta.)
Con un carattere decisamente meno interessante, ma destinato a esercitare un'influenza più incisiva di tutti gli altri messi assieme, fu Charles Lyell. Lyell nacque nel piccolo paese di Kinnordy nello stesso anno in cui, a poco più di un centinaio di chilometri di distanza, moriva Hutton. Sebbene scozzese di nascita, crebbe nel profondo sud dell'Inghilterra, nella New Forest of Hampshire, giacché sua madre era convinta che gli scozzesi fossero tutti ubriaconi inconcludenti.12 Secondo la più classica tradizione degli scienziati gentiluomini del diciannovesimo secolo, Lyell proveniva da un ambiente caratterizzato da un confortevole benessere materiale e dal vigore intellettuale. Suo padre, che di nome faceva anche lui Charles, si distingueva, in modo alquanto insolito, per essere un'autorità su Dante e sui muschi. (Un muschio sul quale la maggior parte dei gitanti nella campagna inglese si sarà seduta almeno qualche volta, Orthotricium lyelli, prende il nome da lui.) Lyell ereditò dal padre l'interesse per la storia naturale. Ma fu a Oxford, dove subì il fascino del reverendo William Buckland - quello che usciva a spaccar pietre indossando la toga -, che il giovane Lyell diede inizio alla sua infinita devozione per la geologia.
Buckland era un tipo che, nella sua eccentricità, doveva risultare affascinante. Sebbene avesse ottenuto qualche risultato importante, deve almeno altrettanta fama alle sue bizzarie. In particolare, era risaputo che aveva un serraglio di bestie selvatiche, alcune grosse e pericolose, che circolavano liberamente in casa e in giardino. Era noto anche per la sua mania di assaggiare qualsiasi animale del creato. A seconda del capriccio e della disponibilità, gli ospiti di Buckland potevano vedersi servire porcellini d'India al forno, topi in pastella, arrosto di riccio o un bel lesso di oloturie del Sudest Asiatico. Buckland riusciva a trovare qualche virtù gastronomica in tutte queste creature, tranne che nelle comuni talpe da giardino, che trovava disgustose. Era quasi inevitabile, quindi, che divenisse il massimo esperto di coproliti - feci fossili - e che la sua scrivania fosse completamente ingombra dei pezzi della sua collezione.
Anche quando conduceva serie ricerche scientifiche, il suo comportamento era in genere singolare. In un'occasione, la signora Buckland fu bruscamente svegliata nel cuore della notte dal marito che, al colmo dell'eccitazione, le gridava: «Mia cara, credo che le tracce di Cheirotherium appartengano indubbiamente a un testudinato».13 In vestaglia, si precipitarono insieme in cucina. La signora Buckland fece della pasta con la farina e la stese sul tavolo, mentre il reverendo Buckland andò a prendere la tartaruga di casa. La misero sulla pasta, la costrinsero a camminare, e scoprirono con grande soddisfazione che le orme corrispondevano davvero a quelle del fossile che Buckland stava studiando. Charles Darwin pensava che Buckland fosse un buffone - fu proprio questa la parola che usò -ma sembra che Lyell lo considerasse un ispiratore, e ci si trovava abbastanza bene da andare in viaggio con lui per tutta la Scozia, nel 1824. Fu subito dopo quest'esperienza che Lyell decise di abbandonare la sua carriera giuridica per diventare geologo a tempo pieno.
Lyell era estremamente miope e stava quasi sempre con gli occhi strizzati per vederci meglio - il che gli conferiva un'aria preoccupata. (Negli ultimi anni della sua vita divenne completamente cieco.) Un'altra sua piccola stranezza era l'abitudine di assumere, quand'era assorto nei suoi pensieri, curiose posizioni appoggiandosi ai mobili: per esempio, giaceva su due sedie; oppure, per citare il suo amico Darwin, « posava il capo su una sedia mentre era in piedi».14 Spesso, quando era perso nei suoi pensieri, scivolava talmente in basso nella sedia che il suo didietro finiva per toccare il pavimento.15 L'unico vero lavoro che Lyell ebbe in tutta la sua vita fu quello di professore al King's College di Londra, dal 1831 al 1833. Fu proprio in questo periodo che scrisse The Principles of Geology, pubblicato in tre volumi tra il 1830 e il 1833, un'opera che per molti versi consolidava ed elaborava alcune intuizioni già espresse da Hutton, una generazione prima. (Sebbene non avesse mai letto Hutton in originale, Lyell fu un attento studioso della versione di Playfair.)
Nel tempo intercorso tra l'epoca di Hutton e quella di Lyell sorse una nuova controversia geologica, che in larga misura andò a sostituire la vecchia disputa tra nettunisti e plutonisti (e che spesso viene confusa con questa). La nuova battaglia fu uno scontro tra catastrofismo e uniformismo (o attualismo): termini poco felici per indicare una disputa molto importante che si trascinò a lungo. I catastrofisti, come lascia intuire il loro stesso nome, credevano che la Terra si fosse formata in seguito a improvvisi cataclismi, soprattutto in seguito a inondazioni, e questo spiega perché catastrofismo e nettunismo siano spesso erroneamente associati. Il catastrofismo era particolarmente rassicurante per uomini di chiesa come Buckland, giacché consentiva loro di includere il diluvio biblico di Noè in serie discussioni scientifiche. Gli uniformisti, per contro, credevano che i cambiamenti avvenuti sulla Terra fossero stati graduali, e che tutti i processi geologici si svolgessero lentamente nel corso di periodi immensamente lunghi. La paternità di questa idea va ricondotta ad Hutton molto più che a Lyell; tuttavia, allora come oggi, sono in molti a considerare Lyell il padre del pensiero geologico moderno, e questo perché la gente lesse i suoi scritti, molto più di quelli di Hutton.16
Lyell era convinto che i cambiamenti della Terra fossero uniformi e costanti e che tutto quanto era successo in passato potesse essere spiegato attraverso fenomeni ancora attivi nel presente. Lyell e i suoi seguaci non solo disdegnavano il catastrofismo, lo detestavano proprio. Secondo i catastrofisti le estinzioni erano parte di una serie di eventi nel corso dei quali gli animali erano ripetutamente spazzati via e rimpiazzati da una nuova fauna - una convinzione che il naturalista T.H. Huxley paragonò, non senza sarcasmo, a «una serie di partite a carte, al termine di ciascuna delle quali i giocatori ribaltassero il tavolo e chiedessero un altro mazzo di carte».17 Un modo un po' troppo comodo per spiegare l'ignoto. « Mai fu ideato un dogma più adatto ad alimentare l'ignoranza e a ottundere la forza incisiva della curiosità» affermò Lyell con sdegno.18
Gli errori di Lyell non furono sviste di poco conto. Non riuscì a spiegare in modo convincente la formazione delle catene montuose e ignorò i ghiacciai come agenti di cambiamento geologico.19 Rifiutò di accettare l'idea di Agassiz delle ere glaciali - la definì in termini sprezzanti l'idea della « refrigerazione del globo » - ed era convinto che i mammiferi « sarebbero stati ritrovati nei giacimenti fossili più antichi ».20 Respinse l'idea che animali e piante avessero subito improvvisi annientamenti ed era convinto che tutti i principali gruppi di animali - mammiferi, rettili, pesci eccetera - fossero sempre coesistiti fin dalla notte dei tempi.21 Alla fine, tutte queste sue posizioni si sarebbero rivelate sbagliate.
Eppure sarebbe quasi impossibile sopravvalutare l'influenza di Lyell. Lui vivente, The Frinciples ofGeology fu ristampato in dodici
edizioni, e i concetti in esso contenuti permeavano il pensiero geologico ancora nel ventesimo secolo. Darwin portò con sé una copia della prima edizione nel suo viaggio a bordo della Beagle, e successivamente scrisse che « Il grande merito dei Principles era che modificavano l'intera disposizione di una mente, così che anche osservando una cosa che Lyell non aveva mai visto, la si osservava comunque almeno in parte con i suoi occhi».22 Per farla breve, Darwin, come molti della sua generazione, lo venerava quasi come un dio. Una prova della fortissima influenza esercitata da Lyell è che quando i geologi dovettero modificare in parte la sua teoria per fare posto a quella dell'impatto, negli scorsi anni Ottanta, lo shock per poco non li uccise. Ma questo è un altro capitolo.
Nel frattempo, la geologia ebbe da fare moltissimo lavoro di classificazione, lavoro nel corso del quale non tutto filò liscio. Fin dal principio, i geologi cercarono di classificare le rocce a seconda del periodo in cui si erano stratificate, ma vi furono spesso aspre dispute sull'esatta posizione in cui collocare le linee di divisione - e nessuna fu più aspra del lunghissimo dibattito noto come la grande controversia devoniana. Il problema sorse quando il reverendo Adam Sedgwick di Cambridge dichiarò di essere convinto che una roccia, attribuita da Roderick Murchison al periodo Siluriano, appartenesse invece al Cambriano. La polemica infuriò per anni e si fece rovente. «De la Beche è un cane rognoso» scrisse Murchison a un amico, in preda a un caratteristico accesso di collera.23
Ci si può fare un'idea della passione riversata in queste controversie scorrendo i titoli dei capitoli del libro di Martin J.S. Rudwick The Great Devonian Controversy: un eccellente, sobrio resoconto di quella vicenda. I primi titoli sono pressoché innocui: « Arena di un dibattito tra gentiluomini» e «Svelare il mistero della grovacca »; poi però assumono altri toni: « La grovacca: difesa e attacco », «Biasimo e riprovazione», «La divulgazione di spregevoli dicerie», «Weaver abiura la sua eresia», «Mettere a posto un provinciale » e (nel caso permanesse qualche dubbio sul fatto che questa fu davvero una guerra) « Murchison apre la campagna di Renania». La battaglia ebbe finalmente termine nel 1879, grazie a un semplice espediente: escogitare un nuovo periodo, l'Ordoviciano, da inserire tra il Cambriano e il Siluriano.
Poiché i geologi di nazionalità britannica furono i più attivi quando la geologia muoveva i primi passi, nel lessico di questa
disciplina predominano nomi britannici. Devoniano viene infatti dalla contea inglese del Devon. Cambriano deriva dal nome latino del Galles, mentre Ordoviciano e Siluriano fanno riferimento ad antiche tribù gallesi, gli ordovici e i siluri. Con il diffondersi dell'attività di prospezione geologica anche altrove, però, cominciarono a insinuarsi nel lessico nomi riferiti a località diverse. Giurassico deriva dal massiccio del Giura al confine tra Francia e Svizzera. Permiano ricorda la ex provincia russa di Perm negli Urali. Per la denominazione Cretaceo (da un vocabolo latino che indica il gesso) siamo debitori a un geologo belga, che risponde all'esuberante nome di J.J. d'Omalius d'Halloy.24
In origine, la storia geologica fu divisa in quattro intervalli di tempo: Primario, Secondario, Terziario e Quaternario. Il sistema era troppo comprensibile per poter durare: ben presto i geologi cominciarono ad aggiungere divisioni ed eliminarne altre. Primario e Secondario caddero del tutto in disuso, mentre il Quaternario fu abbandonato da alcuni e mantenuto da altri. Oggi, solo il Terziario rimane ovunque come definizione comune, sebbene non rappresenti più il terzo periodo di niente.
Nei suoi Principles, Lyell introdusse ulteriori suddivisioni, dette epoche o serie, per coprire il periodo che inizia a partire dall'età dei dinosauri: fra queste il Pleistocene («recentissimo»), il Pliocene («più recente»), il Miocene («moderatamente recente») e il più vago e accattivante Oligocene (« alquanto recente»). Inizialmente, Lyell intendeva impiegare come suffisso « -sincrono », infliggendoci termini-scioglilingua come Meiosincrono e Pleiosincrono.25 Il reverendo William Whewell, uomo influente, sollevò in proposito obiezioni etimologicamente fondate, e suggerì invece una desinenza in « -eo», che avrebbe generato termini come Meioneo, Pleio-neo e così via. La terminazione in « -cene » fu quindi una sorta di compromesso.
Oggi, in termini molto generali, il tempo geologico si divide anzitutto in quattro grandi blocchi detti ere: Precambriano, Paleozoico (dal greco «vita antica»), Mesozoico («vita di mezzo») e Cenozoico («vita recente»). Queste quattro ere sono ulteriormente divise in un numero di sottogruppi che, a seconda dei casi, varia da poco più di una decina a venti; di solito sono denominati periodi, anche se qualche volta prendono il nome di sistemi. Per la
maggior parte si tratta di termini abbastanza noti: Cretaceo, Giurassico, Triassico, Siluriano eccetera.*
Seguono quindi le epoche di Lyell - Pleistocene, Miocene e così via - che si riferiscono solo agli ultimi sessantacinque milioni di anni, paleontologicamente ricchissimi di eventi; alla fine, poi, troviamo numerose suddivisioni dettagliate, dette piani o età. Il loro nome viene modellato, quasi sempre in modo maldestro, da località geografiche: Illinoiano, Desmoinesiano, Croixiano, Kimmeridgiano e così via, su questa falsariga. Tutte insieme ammontano, secondo John McPhee, a « decine di dozzine ».26 Per fortuna, a meno che non intraprendiate la carriera del geologo, con ogni probabilità non li sentirete più nominare.
A confondere ulteriormente le cose c'è il fatto che in Nord America i piani, o età, hanno nomi differenti da quelli in vigore in Europa, e spesso i tempi coincidono solo in modo approssimativo. Lo stadio Cincinnatiano del Nord America, per esempio, corrisponde in massima parte allo stadio Ashgilliano europeo, ma comprende anche una piccola parte del Caradociano, leggermente più antico.
Come se non bastasse, tutto questo varia da testo a testo e da persona a persona, così che alcune fonti parlano di sette epoche recenti, mentre altre si accontentano di quattro. In alcuni libri, poi, scoprirete che Terziario e Quaternario sono stati eliminati e rimpiazzati da periodi di lunghezza diversa detti Paleogene e Neogene. Altri ancora dividono il Precambriano in due ere, il remotissimo Archeano e il più recente Proterozoico. A volte, potrà capitare di imbattersi nel termine Fanerozoico, usato per descrivere il lasso di tempo comprendente le ere cenozoica, mesozoica e paleozoica.
In massima parte, tutto questo si applica solo alle unità di tempo. Le rocce vengono invece suddivise in unità alquanto differenti dette sistemi, serie e piani.27 Un'ulteriore distinzione è quella fra tardo e primo (riferiti al tempo) e superiore e inferiore (riferiti alle stratificazioni rocciose). Ai non specialisti, tutto questo può sembrare una terribile confusione, ma in un geologo può accendere
* Qui non faremo esami, ma se mai doveste imparare a memoria questi nomi 'potrebbe esservi utile il prezioso consiglio di John Wilford: pensate alle ere precambriano, Paleozoico, Mesozoico e Cenozoico) come alle quattro stagioni ell'anno, e ai periodi (Permiano, Triassico, Giurassico ecc.) come ai mesi.
grandi passioni. «Ho visto uomini adulti infiammarsi di rabbia a causa di quello che con una metafora si potrebbe definire un millesimo di secondo nella storia della vita» ha scritto il paleontologo inglese Richard Fortey riferendosi a una lunghissima disputa sorta nel ventesimo secolo a proposito del confine tra Cambriano e Ordoviciano.28
Oggi, almeno per quanto riguarda le datazioni, abbiamo la possibilità di giocare una carta tecnologica. Per gran parte del diciannovesimo secolo, i geologi poterono contare su poco più che ipotesi sorrette dalla speranza di vederle verificarsi. La cosa frustrante, per loro, era che sebbene fossero in grado di classificare rocce e fossili in ordine di età, non avevano idea di quanto queste età fossero durate. Quando Buckland cercava di stimare l'antichità di uno scheletro di ittiosauro, non poteva spingersi oltre l'ipotesi che fosse vissuto in un periodo compreso fra « diecimila [e] più di diecimila volte diecimila anni prima ».29
Sebbene non esistesse un metodo attendibile per datare i periodi, non mancarono certo persone disposte a provare. Il primo celebre tentativo risale al 1650 quando James Ussher, arcivescovo della Chiesa d'Irlanda, eseguì uno studio meticoloso della Bibbia e di altre fonti storiche e concluse, in un ponderoso tomo intitolato Annals of the Old Testament, che la Terra era stata creata a mezzogiorno del 23 ottobre del 4004 a.C.,30 asserzione che da allora in poi non ha più smesso di divertire storici e autori di trattati.*
Detto per inciso, esiste un mito persistente - riproposto in molti libri seri - secondo il quale le convinzioni di Ussher avrebbero dominato il pensiero scientifico ancora durante il diciannovesimo secolo, e che sarebbe stato Lyell a rimettere tutto a posto. Stephen Jay Gould, in La freccia del tempo, cita come classico esempio di tale tendenza questa frase tratta da un libro molto letto negli anni
* Sebbene quasi tutti i testi gli dedichino un certo spazio, c'è un'impressionante variabilità nei dettagli forniti su Ussher. Secondo alcuni la sua asserzione risale al 1650, secondo altri al 1654, e secondo altri ancora al 1664. Molti citano come data della presunta nascita della Terra il 26 ottobre. Un libro autorevole scrive il suo nome « Usher» anziché Ussher. il lettore può trovare un'interessante analisi della questione nel libro di Stephen Jay Gould, Otto piccoli porcellini: riflessioni di storia naturale.
Ottanta: «Fino a che Lyell non pubblicò il suo trattato, la maggior parte degli uomini di cultura accettava l'idea che la Terra fosse giovane».31 In realtà non era così. Come afferma Martin J.S. Rud-wick: « a prescindere dalla nazionalità, mai nessun geologo il cui lavoro venisse preso sul serio dagli altri geologi, aveva mai perorato una cronologia confinata nei limiti di un'esegesi letterale della Genesi».32 Persino il reverendo Buckland, l'anima più devota che il diciannovesimo secolo abbia prodotto, sottolineò come in nessun punto la Bibbia suggerisse che Dio aveva creato i cieli e la terra il primo giorno, ma soltanto «in principio». Quel principio, argomentava Buckland, poteva essere durato «milioni di milioni di anni».33 Tutti concordavano sul fatto che la Terra fosse antica. La domanda era, semplicemente, antica quanto?
Una delle prime buone idee in materia di datazione del pianeta venne dal sempre autorevole Edmond Halley, il quale nel 1715 suggerì che dividendo la quantità totale del sale presente in tutti i mari del mondo per la quantità che vi si va aggiungendo di anno in anno, si sarebbe ottenuto il numero di anni di esistenza degli oceani, il che avrebbe a sua volta fornito un'idea approssimativa dell'età della Terra. La logica era intrigante, purtroppo però nessuno conosceva la quantità di sale presente nel mare né di quanto essa aumentasse ogni anno, il che rendeva l'esperimento impraticabile.
Il primo tentativo di misurazione che si potrebbe definire vagamente scientifico fu effettuato negli anni Settanta del diciottesimo secolo dal francese Georges-Louis Ledere, conte di Buffon. Già da tempo si sapeva che la Terra irradia un'apprezzabile quantità di calore, cosa che era chiarissima a chiunque si fosse calato in una miniera di carbone; tuttavia, non vi era modo di stimare il tasso di dissipazione. L'esperimento di Buffon consisteva nel riscaldare delle sfere fino al calor bianco, per poi determinare la velocità con cui dissipavano il calore toccandole (presumibilmente con molta circospezione, almeno all'inizio) mentre si andavano raffreddando. Usando questo metodo egli dedusse che l'età della Terra fosse da collocarsi tra i 75.000 e i 168.000 anni.34 È ovvio che si trattava di un valore spaventosamente sottostimato; ciò nondimeno era un'idea radicale, e Buffon si ritrovò minacciato di scomunica per averla formulata. Uomo dotato di grande senso pratico, si scusò immediatamente per la sua sconclusionata eresia, salvo poi ribadirla allegramente in tutti i suoi scritti successivi.
A metà del diciannovesimo secolo la maggior parte delle persone istruite riteneva ormai che la Terra avesse almeno qualche milione di anni, forse anche qualche decina di milioni, ma certo non molti di più. Fu proprio una sorpresa, perciò, quando Charles Darwin annunciò nell'Origine delle specie (1859) che i processi geologici che avevano dato luogo al Weald - un'area dell'Inghilterra meridionale estesa tra Kent, Surrey e Sussex - erano giunti a compimento impiegando, secondo i suoi calcoli, 306.662.400 anni.35 Si trattava di un'asserzione notevole, in parte perché era così incredibilmente precisa, ma più ancora perché smentiva le comuni opinioni riguardo all'età della Terra.* L'idea suscitò un così gran numero di controversie che Darwin eliminò il passo dalla terza edizione del libro. Il problema però rimase comunque. Darwin e i suoi amici geologi avevano bisogno che la Terra fosse antica, ma nessuno riusciva a trovare il modo per dimostrarlo.
Purtroppo per Darwin e per il progresso, il problema suscitò l'interesse del grande Lord Kelvin (che sebbene di sicuro fosse grande già allora, all'epoca era ancora soltanto William Thomson. Sarebbe stato elevato alla nobiltà britannica solo nel 1892, quando, ormai sessantottenne, era alla fine della sua carriera scientifica. Ma qui corre l'obbligo di attenersi alla consuetudine di usare il titolo nobiliare anche retroattivamente). Kelvin fu uno dei personaggi più straordinari di tutto il diciannovesimo secolo, anzi di tutti i secoli. Lo scienziato tedesco Hermann von Helmholtz, lui stesso certo non un intelletto da poco, scrisse che Kelvin possedeva di gran lunga «l'intelligenza, la lucidità e l'agilità di pensiero» più grandi « da me mai riscontrate in un uomo. A volte, vicino a lui, mi sono sentito un testone» aggiunse un po' abbattuto.36
Sentimento comprensibile, visto che Kelvin fu davvero una specie di superuomo vittoriano. Nacque a Belfast nel 1824, figlio di un professore di matematica della Royal Academical Institution, che subito dopo si trasferì a Glasgow. Lì Kelvin si dimostrò un tale prodigio che fu ammesso all'università di Glasgow all'età, straordinariamente acerba, di dieci anni. Poco più che ventenne, aveva
* Darwin amava i numeri esatti. In un lavoro successivo, annunciò che il numero di vermi presenti in media in un acro di terreno della campagna inglese era di 53.767.
ormai già studiato negli atenei di Londra e Parigi, si era laureato a Cambridge (dove vinse i più alti premi universitari per il canottaggio e la matematica, e dove trovò anche il tempo di fondare una società musicale), era stato eletto fellow di Peterhouse e aveva scritto (in francese e in inglese) una decina di articoli di matematica pura e applicata di un'originalità così sfolgorante da ritrovarsi costretto a pubblicarli anonimo per non mettere in imbarazzo i suoi superiori.37 A ventidue anni tornò all'università di Glasgow per coprire la cattedra di filosofia naturale, una posizione che avrebbe mantenuto per i successivi cinquantatre anni.
Nel corso di una lunga carriera (morì ottantatreenne, nel 1907) scrisse 661 articoli, collezionò 69 brevetti (che gli assicurarono una posizione economica molto agiata) e si guadagnò la fama in quasi tutte le branche delle scienze fisiche. Tra le tante altre cose, suggerì il metodo che portò all'invenzione della tecnologia della refrigerazione; ideò la scala delle temperature assolute che ancora oggi porta il suo nome; inventò il galvanometro a specchio che consentiva l'invio di telegrammi oltreoceano; apportò innumerevoli migliorie ai trasporti marittimi e alla navigazione, dall'invenzione di una bussola largamente usata sulle navi alla realizzazione del primo scandaglio di profondità. E questi non sono che i suoi risultati in ambito tecnologico.
Il suo lavoro teorico, nei campi dell'elettromagnetismo, della termodinamica e della teoria ondulatoria della luce, fu altrettanto rivoluzionario.* In pratica ebbe un solo difetto: quello di non
* In particolare, elaborò la seconda legge della termodinamica. Una disamina di queste leggi richiederebbe un libro a parte, ma qui voglio proporre il riassunto conciso fattone dal chimico P.W. Atkins, solo per darne un'idea: «Esistono quattro leggi, la terza delle quali, la Seconda Legge, fu individuata per prima. La prima, la Legge Zero, fu formulata per ultima. La Prima Legge fu la seconda, la Terza Legge potrebbe anche non essere una legge nello stesso senso delle altre». In sintesi, la seconda legge afferma che una piccola quota di energia viene sempre dissipata. Non può esistere un meccanismo per il moto perpetuo, perché, a prescindere dalla sua efficienza, perderebbe comunque energia e alla fine si fermerebbe. La prima legge dice che non si può creare energia e la terza che non si può portare la temperatura allo zero assoluto: ci sarà sempre del calore residuo. Come sottolinea Dennis Overbye, le tre leggi sono talvolta espresse in modo spiritoso come: 1) non puoi vincere; 2) non puoi nemmeno infrangere le regole; 3) non puoi uscire dal gioco.
essere riuscito a calcolare la corretta età della Terra. Il problema lo tenne occupato gran parte della seconda metà della sua carriera, ma egli non giunse mai (nemmeno vicino) alla soluzione. In un primo tentativo, fatto nel 1862 in un articolo pubblicato sulla popolare rivista Macmillan 's, ipotizzò che la Terra avesse 98 milioni di anni, ma avvertì che la cifra avrebbe potuto ridursi a 20 milioni di anni o lievitare a 400 milioni. Con notevole prudenza, riconobbe che i suoi calcoli sarebbero potuti risultare sbagliati nel caso in cui «il grande magazzino della creazione [avesse avuto] in serbo fonti [di calore] a noi attualmente sconosciute»; è chiaro, però, che ritenesse improbabile quell'eventualità.
Con il passare del tempo, Kelvin sarebbe diventato più esplicito e meno corretto nelle proprie asserzioni. Continuò ad aggiustare le stime verso il basso, portando l'estremo superiore dell'intervallo da 400 a 100 milioni di anni, poi a 50 e infine, nel 1897, a soli 24 milioni di anni. Non che lo facesse per spirito di contraddizione. Il problema era che la fisica di allora non aveva strumenti per spiegare in che modo un corpo della grandezza del Sole potesse bruciare continuamente per più di qualche decina di milioni di anni (al massimo) senza esaurire il combustibile. Ne conseguiva che il Sole e i pianeti dovessero essere relativamente - ma necessariamente -giovani.
Il problema stava però nel fatto che quasi tutti i reperti fossili contraddicevano questa asserzione - e nel diciannovesimo secolo, all'improvviso, si resero disponibili moltissimi reperti fossili.
6. Scienza, rosso il dente e l'artiglio
Nel 1787, in una località del New Jersey chiamata Woodbury Creek, qualcuno - la sua esatta identità sembra sia stata dimenticata - trovò un enorme femore che spuntava dall'argine di un torrente. Era chiaro che l'osso non apparteneva a nessuna specie vivente, di sicuro non nel New Jersey. Da quel poco che sappiamo oggi, pare sia appartenuto a un adrosauro, un grande dinosauro dal becco d'anatra. All'epoca però, i dinosauri erano del tutto sconosciuti.
L'osso fu inviato a Caspar Wistar, il più famoso anatomista del paese, che in quello stesso autunno ne presentò una descrizione al convegno dell'American Philosophical Society di Filadelfia.1 Purtroppo, però, non essendosi affatto reso conto dell'importanza del reperto, Wistar fece solo qualche osservazione, tanto cauta quanto banale, sul fatto che si trattava davvero di una cosa enorme. Fu così che perse l'occasione di diventare lo scopritore dei dinosauri con mezzo secolo di anticipo su chiunque altro. In effetti, l'osso sollevò così poco interesse che dapprima finì in un ripostiglio e poi andò definitivamente perduto. Il primo osso di dinosauro mai rinvenuto fu quindi anche il primo a essere perso.
Lo scarso interesse suscitato da quell'osso risulta davvero molto strano, soprattutto se si pensa che la vicenda si verificò in un'epoca in cui in America c'era un grande entusiasmo per i resti di grandi animali vissuti in epoche remote. Motivo di tutto quell'interesse era stata la bizzarra asserzione del grande naturalista francese Buffon -quello delle sfere arroventate di cui dicevamo nel capitolo precedente - secondo cui gli esseri viventi del Nuovo Mondo erano inferiori, quasi sotto ogni profilo, a quelli del Vecchio Mondo. L'America - egli scrisse nella sua Histoire naturelle, un vasto trattato tenuto in grandissima considerazione - era una terra dove l'acqua stagnava, il suolo era improduttivo e gli animali mancavano di statura e vigore, indeboliti com'erano, nella loro costituzione, dai
«vapori venefici » che esalavano dalle paludi putride e dalle foreste senza sole. In un ambiente simile, anche gli indigeni mancavano di virilità: «Non hanno né barba né peli sul corpo» rivelava il perspicace Buffon, « e nessuna passione per la femmina »; quanto ai loro organi riproduttivi erano «piccoli e delicati».2
Cosa sorprendente, le osservazioni di Buffon trovarono l'entusiastico sostegno di altri scrittori, soprattutto di quelli le cui conclusioni non erano in alcun modo intralciate da una conoscenza di prima mano del paese di cui si parlava. In un'opera dal titolo Recherches philosophiques sur les Américains, che conobbe ampia diffusione, l'olandese Corneille de Pauw asseriva che i nativi americani maschi non solo erano insignificanti dal punto di vista riproduttivo, ma addirittura «così carenti di virilità da avere latte in seno».3 Tali convinzioni sopravvissero incredibilmente a lungo ed è possibile ritrovarle, ripetute o riecheggiate, in trattati pubblicati in Europa fin quasi alla fine del diciannovesimo secolo.
Certo non sorprende che in America simili calunnie fossero recepite con indignazione. Thomas Jefferson, nel suo Notes on the State of Virginia, si lanciò in una furiosa contestazione (abbastanza sconcertante, se se ne ignora il contesto) e chiese a un suo amico del New Hampshire, il generale John Sullivan, di inviare nelle foreste del nord una ventina di soldati alla ricerca di un maschio di alce da mostrare a Buffon come prova della statura e della maestà dei quadrupedi americani. Ci vollero due settimane prima che gli uomini riuscissero a trovare un esemplare adatto allo scopo. Una volta abbattuto, però, l'alce si rivelò sprovvisto delle corna imponenti che Jefferson aveva espressamente richiesto; Sullivan ebbe comunque la premura di accludere un altro palco di corna di alce o di cervo, suggerendo di incollarle al posto di quelle originali. Dopotutto, in Francia, chi mai se ne sarebbe accorto?
Nel frattempo, a Filadelfia, la città di Wistar, i naturalisti avevano cominciato a raccogliere le ossa di una creatura gigantesca, simile a un elefante. Inizialmente nota come « il grande incognitum americano », più tardi fu identificata non del tutto correttamente come un mammut. Le prime di queste ossa erano state rinvenute nel Kentucky, in una località chiamata Big Bone Lick, ma presto se ne cominciarono a scoprire altre dappertutto. Sembrava che un tempo l'America fosse stata la patria di una creatura davvero imponente, che avrebbe senz'altro smentito le stupide asserzioni del francese Buffon.
A quanto pare, l'ansia di dimostrare la mole e la ferocia dell'incognitum prese un po' la mano ai naturalisti americani, che ne sovrastimarono la grandezza di sei volte e gli attribuirono degli artigli spaventosi ritrovati lì vicino, ma in realtà appartenenti a un Megalonyx, un bradipo terricolo gigante. Si erano persuasi, il che è decisamente degno di nota, che l'animale avesse la stessa «agilità e ferocia della tigre», e nei disegni lo illustrarono mentre, dall'alto di una roccia, balzava sulla preda con eleganza felina. Quando trovarono le zanne, si ingegnarono a posizionarle sulla testa dell'animale in una miriade di modi fantasiosi. Uno degli studiosi impegnati in questo lavoro di ricostruzione sistemò le zanne al contrario, articolandole alla mascella e rivolte verso il basso, come i canini della tigre dai denti a sciabola, conferendo all'incognitum una gratificante aggressività. Un altro sistemò le zanne in modo che curvassero all'indietro, in base a una teoria piuttosto complicata che vedeva la creatura come una bestia acquatica che adoperava le zanne per ancorarsi agli alberi quando schiacciava un sonnellino. La considerazione più pertinente circa l'incognitum fu che era palesemente estinto - constatazione sulla quale Buffon fu ben felice di lanciarsi, brandendola come prova della sua natura senza dubbio degenerata.
Buffon morì nel 1788, ma la polemica non si fermò. Nel 1795 fu spedita a Parigi una serie di ossa affinché fosse esaminata dall'astro nascente della paleontologia, il giovane aristocratico Georges Cu-vier, che già aveva suscitato l'ammirazione della gente con il suo talento nell'ottenere forme armoniose da un mucchio di ossa disarticolate. Si diceva che fosse in grado di descrivere l'aspetto e la natura di un animale deducendolo da un solo dente o da un frammento di mandibola, e che spesso l'operazione includeva anche la definizione della specie e del genere. Resosi conto che in America nessuno aveva ancora pensato a mettere nero su bianco una descrizione formale di quella bestia i cui pezzi erano ammucchiati alla rinfusa, Cuvier si fece avanti, divenendone in tal modo lo scopritore ufficiale. La battezzò mastodonte (che, abbastanza paradossalmente, significa «dente di latte»).
Ispirato dalla controversia, nel 1796 Cuvier scrisse un saggio fondamentale intitolato Note on the Species of Living and Fossi!
Elephants, in cui per la prima volta si avanzava una teoria formale dell'estinzione.4 Era sua convinzione che di tanto in tanto la Terra avesse subito catastrofi globali nel corso delle quali interi gruppi di creature erano stati cancellati. Per i credenti, compreso lo stesso Cuvier, l'idea comportava delle implicazioni sgradevoli, giacché insinuava la possibilità di un inspiegabile disinteresse da parte della Provvidenza. A quale scopo Dio avrebbe creato le specie viventi, se poi le eliminava? Quell'idea era in contrasto con la fede nella Grande Catena dell'Essere, secondo la quale il mondo era stato ordinato meticolosamente e tutti gli esseri viventi avevano una collocazione e uno scopo ben precisi, li avevano sempre avuti e sempre li avrebbero avuti. Jefferson, tanto per fare un nome, non riusciva proprio a tollerare il pensiero che si potesse consentire a intere specie di scomparire (o, il che è lo stesso, di evolvere).5 Così, quando gli fu prospettato che l'invio di un gruppo di esplorazione nelle zone interne dell'America, oltre il Mississippi, avrebbe potuto avere un valore scientifico e politico, fece salti di gioia nella speranza che, in quelle pianure rigogliose, gli intrepidi avventurieri potessero trovare branchi di mastodonti pieni di salute e altre gigantesche creature al pascolo. Meriwether Lewis, segretario personale di Jefferson e suo amico fidato, fu scelto come leader del gruppo insieme a William Clark, e fu nominato anche naturalista capo. Al suo fianco, a consigliarlo nella ricerca di animali vivi e morti, c'era, niente di meno, che Caspar Wistar.
Nello stesso anno - anzi nello stesso mese - in cui a Parigi l'aristocratico e celebrato Cuvier andava diffondendo le proprie teorie sull'estinzione, dall'altra parte della Manica, un inglese decisamente meno noto stava maturando alcune intuizioni sul valore dei fossili, che avrebbero anch'esse avuto implicazioni durature. William Smith era un giovane supervisore dei lavori di costruzione del Somerset Coal Canal. La sera del 5 gennaio 1796, mentre se ne stava seduto in una confortevole locanda del Somerset, gli venne l'idea che avrebbe decretato la sua fama.6 Per interpretare le rocce occorreva uno strumento di correlazione: una base sulla quale sostenere, per esempio, che quelle rocce carbonifere del Devon erano più recenti di queste altre, provenienti dal Cambriano del Galles. L'intuizione di Smith fu che la risposta si trovava nei fossili. A ogni modifica nella stratificazione rocciosa, alcune specie di fossili sparivano mentre altre sopravvivevano raggiungendo lo strato successivo. Scoprendo quali specie fossero presenti nei vari strati si potevano calcolare le età relative delle rocce, ovunque esse si trovassero. Attingendo alla sua esperienza di supervisore, Smith cominciò subito a redigere la mappa degli strati rocciosi della Gran Bretagna, mappa che, dopo vari tentativi, sarebbe stata pubblicata nel 1815, diventando presto una pietra miliare della moderna geologia. Il libro di Winchester, La mappa che cambiò il mondo, racconta queste vicende con dovizia di particolari.
Purtroppo, dopo aver avuto questa intuizione, Smith stranamente non mostrò alcun interesse a comprendere come mai le rocce si fossero depositate in un modo piuttosto che in un altro. «Ho smesso di preoccuparmi delle cause della stratificazione: mi accontento di sapere che le cose stanno così» annotò. «I perché e i percome esulano dalle competenze di un supervisore minerario. »7
Le rivelazioni di Smith in materia di stratificazione aumentarono il disagio morale rispetto alle estinzioni. Tanto per cominciare, confermavano che Dio aveva eliminato alcune delle sue creature non solo sporadicamente, ma a più riprese. E questo, più che indifferente, lo faceva apparire particolarmente ostile. Senza contare che, stando così le cose, diventava scomodamente necessario spiegare perché alcune specie fossero state eliminate mentre altre avevano continuato a esistere indisturbate per lunghissimi periodi di tempo. È chiaro che nelle estinzioni c'era molto più di quanto si potesse spiegare ricorrendo al solo diluvio di Noè, il diluvio universale della Bibbia. Non senza compiacimento, Cuvier risolse la faccenda suggerendo che la Genesi si riferisse solo all'inondazione più recente.8 Sembrava che Dio non avesse voluto distrarre o allarmare Mosè facendo accenno alle irrilevanti estinzioni precedenti.
Nei primi anni del diciannovesimo secolo, i fossili avevano quindi raggiunto una certa importanza, il che mette in una luce ancor più incresciosa il fatto che Wistar si fosse lasciato sfuggire il valore del suo osso di dinosauro. A ogni modo, cominciarono a spuntare ossa da tutte le parti. Gli americani ebbero molte altre occasioni di attribuirsi la scoperta dei dinosauri, ma le sprecarono tutte. Nel 1806, la spedizione di Lewis e Clark attraversò la formazione di Hell Creek, nel Montana (un'area dove in seguito i cacciatori di fossili sarebbero andati letteralmente inciampando nelle ossa di dinosauro) ed esaminò persino quello che era palesemente un osso di dinosauro incluso nella roccia senza cavarne un ragno dal buco.9
Altre ossa e impronte fossili furono ritrovate nella valle del fiume Connecticut, nel New England, dopo che un ragazzo di nome Plinus Moody aveva scoperto delle antiche tracce su una sporgenza rocciosa, a South Hadley, nel Massachusetts. Almeno alcuni di questi reperti sono arrivati fino a noi - in particolare le ossa di un anchisauro, oggi custodite nella collezione del Peabody Mu-seum di Yale. Scoperte nel 1818, furono le prime ossa di dinosauro a essere esaminate e conservate, ma purtroppo furono riconosciute per quel che erano solo nel 1855. Sempre nel 1818, Caspar Wistar morì, guadagnandosi comunque un'inaspettata immortalità grazie a un botanico di nome Thomas Nuttall che diede il suo nome a un grazioso rampicante, il glicine (Wistaria sinensis). Sebbene prevalga la grafia Wisteria, alcuni botanici puristi insistono nel chiamarlo Wistaria.
A quell'epoca, comunque, l'entusiasmo per la paleontologia si era ormai propagato in Inghilterra. Nel 1812, a Lyme Regis, sulla costa del Dorset, una bambina straordinaria di nome Mary Anning - che all'epoca aveva undici, dodici o tredici anni a seconda di quale resoconto leggiate - trovò incluso nella roccia delle ripide e pericolose scogliere del Canale della Manica il fossile di uno strano mostro marino lungo cinque metri abbondanti, oggi noto col nome di ittiosauro.
Fu l'inizio di una ragguardevole carriera. Mary avrebbe passato i successivi trentacinque anni impegnata nella ricerca di fossili che poi vendeva ai visitatori (è opinione comune che sia stata lei a ispirare il famoso scioglilingua inglese «She sells/sea-shells/on the sea shore»10). Fu sempre lei a ritrovare il primo plesiosauro, altro mostro marino, e anche uno dei primi esemplari, oltre che dei meglio conservati, di pterodattilo. Sebbene nessuna di queste creature fosse tecnicamente un dinosauro, all'epoca nessuno ci fece caso, poiché nessuno sapeva ancora che cosa fosse un dinosauro. Quei reperti comunque bastavano per comprendere che un tempo il mondo aveva ospitato creature molto diverse da qualsiasi cosa vi si possa trovare oggi.
Non era solo brava a rintracciare i fossili: sebbene in questo fosse proprio imbattibile, Mary riusciva anche a estrarli con grandissima delicatezza senza danneggiarli nell'operazione. Se mai aveste l'occasione di visitare la sala degli antichi rettili marini al Natural History Museum di Londra, vi prego di approfittarne: non esiste altro modo, infatti, per apprezzare l'entità e la bellezza di ciò che questa donna fu capace di scoprire, lavorando in pratica da sola, con gli strumenti più elementari e in condizioni quasi impossibili. Il plesiosauro, da solo, le richiese dieci anni di scavi pazienti.11 Sebbene non avesse una preparazione specifica, Mary Anning era anche in grado di fornire agli studiosi disegni e descrizioni adeguate. Nonostante tutta la sua abilità, però, i ritrovamenti degni di nota erano pur sempre rari ed ella trascorse la maggior parte della sua vita in condizioni di notevole indigenza.
Sebbene sia difficile pensare a una persona più sottovalutata di Mary Anning nella storia della paleontologia, di fatto ce ne fu una che andò tristemente vicino al suo primato. Si tratta di Gideon Algernon Mantell, medico condotto nel Sussex.
Mantell era un allampanato campionario di difetti - fatuo, egocentrico, presuntuoso, incurante della propria famiglia - ma non vi fu mai un paleontologo dilettante così fedele ai suoi studi. Ebbe inoltre la fortuna di avere una moglie devota e buona osservatrice. Nel 1822, mentre lui era fuori casa per una visita a domicilio nella campagna del Sussex, la signora Mantell uscì a fare quattro passi in un viottolo non lontano dalla loro abitazione, e in mezzo a un mucchio di pietrisco lasciato lì per riempire le buche della strada, rinvenne uno strano oggetto: una pietra marrone ricurva, grande all'incirca quanto una piccola noce. Conoscendo l'interesse di suo marito per i fossili, e pensando che quello ne fosse un esemplare, glielo portò. Mantell capì all'istante che si trattava di un dente fossile e dopo averlo brevemente esaminato, ebbe la certezza che fosse appartenuto a un animale erbivoro: un rettile molto grande, lungo diversi metri, vissuto nel periodo Cretaceo.12 Aveva ragione su tutto. Ciò non toglie che fossero conclusioni ardite, giacché in precedenza non era mai stato visto nulla di simile, e nemmeno immaginato.
Consapevole che la sua scoperta avrebbe completamente capovolto quello che si sapeva sul passato, e incoraggiato dal suo amico - il reverendo William Buckìand (il gastronomo sperimentale in toga accademica) - a procedere con cautela, Mantell dedicò tre anni all'accurata ricerca di prove che suffragassero le sue conclusioni. Inviò il dente a Parigi per avere l'opinione di Cuvier, ma il
grande francese lo liquidò attribuendolo a un ippopotamo. (In seguito, dando prova di liberalità, Cuvier si scusò di questo inconsueto errore.) Un giorno, mentre stava effettuando delle ricerche all'Hunterian Museum di Londra, Mantell si ritrovò a conversare con un altro studioso, il quale gli disse che il dente somigliava molto a quelli di alcuni animali dei quali lui stesso si era occupato in passato: le iguane sudamericane. Un frettoloso confronto confermò la rassomiglianza, e fu così che la creatura di Mantell venne battezzata iguanodonte, prendendo il nome di un rettile tropicale, simile alle lucertole, che passa il suo tempo crogiolandosi al sole e che non è in alcun modo imparentato con lei.
Mantell scrisse un articolo da presentare alla Royal Society. Purtroppo però, si venne a sapere che in una cava dell'Oxfordshire era stato scoperto un altro dinosauro, del quale il reverendo Buck-land aveva appena fornito la descrizione ufficiale. Sì, lo stesso Buckland che gli aveva consigliato di non avere fretta. Si trattava del megalosauro; il nome, in effetti, fu suggerito a Buckland da un suo amico, James Parkinson, l'aspirante radicale eponimo del morbo di Parkinson.13 Buckland, va ricordato, era soprattutto un geologo, e lo dimostrò con il lavoro sul megalosauro. Nel suo resoconto per la rivista Transactions ofthe Geological Society of London, osservava che i denti della creatura non erano attaccati direttamente alle ossa mascellari, come nelle lucertole, ma alloggiati in alveoli, come accade nei coccodrilli. Pur avendo notato tutto questo, Buckland non riuscì a comprenderne il significato, e cioè che il megalosauro era un tipo di creatura completamente nuovo. Nonostante la sua relazione dimostrasse scarso acume e poca intuizione, fu comunque la prima descrizione di un dinosauro mai pubblicata; pertanto è a Buckland - e non al più meritevole Mantell - che si attribuisce il merito della scoperta di queste antiche creature.
Ignaro del fatto che la delusione sarebbe stata una costante della sua vita, Mantell continuò ad andare a caccia di fossili (trovò un altro gigante, l'ileosauro, nel 1833) e ad acquistarne da contadini e minatori, fino a mettere insieme quella che probabilmente era la più grande collezione di fossili della Gran Bretagna. Mantell era un medico eccellente e un cercatore di fossili altrettanto dotato, ma non riuscì a gestire entrambi i talenti. Con il crescere delle smanie di collezionista, trascurò la pratica medica. Presto i fossili riempirono quasi tutta la sua casa di Brighton e dilapidarono la maggior
parte delle sue entrate. Il resto finì in buona parte a finanziare la pubblicazione di libri che pochi volevano acquistare. lllustrations of the Geology ofSussex, pubblicato nel 1827, vendette solo cinquanta copie e gli sfilò dalle tasche ben trecento sterline, una cifra che per quei tempi era spiacevolmente sostanziosa.
Preso dalla disperazione, Mantell pensò di trasformare la sua casa in un museo con ingresso a pagamento. Poi, in ritardo, si rese conto che un simile atto mercenario avrebbe rovinato la sua reputazione di gentiluomo, per non parlare di quella di scienziato. Così acconsentì a far visitare la sua casa gratis. E i visitatori vennero a centinaia, settimana dopo settimana, scompigliando il suo lavoro e la sua vita familiare. Alla fine, per far fronte ai debiti, fu costretto a vendere la maggior parte della collezione.14 Subito dopo la moglie lo lasciò, portando con sé i quattro figli.
Sembra impossibile, ma per Mantell i problemi erano appena cominciati.
A sud di Londra, nel distretto di Sydenham, un luogo chiamato Crystal Palace Park offre ai visitatori uno spettacolo curioso sebbene ormai trascurato: i primi modelli a grandezza naturale di dinosauri. Oggi non sono molte le persone che si spingono fin laggiù, ma una volta si trattava di una delle attrazioni più popolari di Londra, anzi, come ha osservato Richard Fortey, fu il primo parco a tema del mondo.15 A voler essere pignoli, in quei modelli molti dettagli sono inesatti. Il pollice dell'iguanodonte è stato piazzato sul suo naso come una sorta di sperone, e l'animale si regge su quattro gambe tarchiate che lo fanno sembrare un enorme cane corpulento e sgraziato (da vivo, l'iguanodonte non si appoggiava a tutte e quattro le zampe, ma era bipede). Guardandolo adesso, è difficile immaginare che queste bestie lente e bizzarre abbiano potuto essere fonte di tanti rancori e amarezze, eppure andò proprio così. Forse nulla, nel campo della storia naturale, è stato al centro di odi così accesi e duraturi come il gruppo di antiche creature che chiamiamo dinosauri.
All'epoca della ricostruzione dei dinosauri, Sydenham sorgeva ai confini di Londra e si ritenne che il suo ampio parco fosse il luogo ideale per ricostruire il famoso Crystal Palace, la struttura in vetro e ghisa che era stata il pezzo forte della Great Exhibition del 1851, e
da cui il nuovo parco prese naturalmente il nome. I dinosauri, realizzati in cemento, erano una sorta di attrazione extra. Il 31 dicembre 1853, all'interno dell'iguanodonte non ancora finito, si tenne una famosa cena per ventuno illustri scienziati. Gideon Mantell, l'uomo che aveva scoperto e identificato l'iguanodonte, non era fra loro. L'uomo a capotavola era l'astro più luminoso nel firmamento della paleontologia, una scienza giovane. Il suo nome era Richard Owen, e all'epoca aveva già dedicato molti anni di lavoro a fare della vita di Gideon Mantell un inferno in terra.
Owen era cresciuto a Lancaster, nel nord dell'Inghilterra, dove aveva studiato medicina. Era un anatomista nato e si era a tal punto consacrato ai suoi studi che a volte prendeva illegalmente a prestito arti, organi e altre parti di cadaveri e se li portava a casa per sezionarli con comodo.16 Una volta, mentre se ne andava in giro con una testa appena tranciata dal corpo di un marinaio africano infilata in un sacco, scivolò su un ciottolo bagnato. Restò quindi a guardare con orrore la testa che rimbalzava lungo la strada, per poi infilare la porta aperta di una casa fermandosi nel bel mezzo dell'ingresso. Quel che gli abitanti della casa dovettero dire nel veder rotolare ai propri piedi una testa mozzata possiamo solo immaginarlo. È lecito supporre che non avessero fatto ancora in tempo a formulare una conclusione particolarmente articolata, quando videro un giovanotto terrorizzato precipitarsi in casa, recuperare la testa senza proferir parola e darsela di nuovo a gambe.
Nel 1815, appena ventunenne, Owen si trasferì a Londra e fu subito assunto dal Royal College of Surgeons per aiutare a riorganizzare una vasta quanto disordinata collezione di reperti medici e anatomici. La maggior parte di essi era stata donata da John Hun-ter, illustre chirurgo e infaticabile collezionista di curiosità mediche, ma non era mai stata classificata e catalogata soprattutto perché le carte che spiegavano il significato di ciascun reperto erano andate perdute subito dopo la morte dello stesso Hunter.
Owen si distinse ben presto per le capacità deduttive e organizzative. Allo stesso tempo, dimostrò di essere un impareggiabile anatomista con un talento per la ricostruzione quasi pari a quello di Gdvier a Parigi. Divenne un tale esperto di anatomia comparata da garantirsi il diritto di prelazione su tutte le carcasse degli animali che morivano al giardino zoologico di Londra - carcasse che immancabilmente si faceva recapitare a domicilio, e che poi procedeva a esaminare. Una volta sua moglie, tornando a casa, trovò un rinoceronte appena morto che ingombrava l'ingresso.17 Ben presto divenne esperto su qualsiasi specie di animale vivente o estinto -dagli ornitorinchi e le echidne ai marsupiali di recente scoperta, fino allo sfortunato dodo e ai moa, uccelli giganteschi che scorrazzavano per la Nuova Zelanda prima che i maori ne provocassero l'estinzione con una caccia spietata. Dopo la scoperta avvenuta in Baviera nel 1861, fu il primo a descrivere l'archeopterix, oltre che il primo a scrivere un epitaffio formale per il dronte. Scrisse in totale qualcosa come seicento articoli di anatomia, una produzione straordinariamente abbondante.
Ma è per il suo lavoro sui dinosauri che Owen è ricordato. Fu lui, nel 1841, a coniare il termine dinosauria, lucertole terribili: un nome singolarmente improprio. I dinosauri, come oggi sappiamo, non erano affatto terribili (alcuni non erano più grandi di un coniglio, e con ogni probabilità si trattava di creature molto schive);18 senza contare che se c'era una categoria alla quale proprio non appartenevano, era quella delle lucertole, riconducibili in realtà a una linea filetica più antica di almeno trenta milioni di anni.19 Owen sapeva bene che quelle creature erano rettili, e aveva anche a disposizione una parola greca molto appropriata, herpeton. Ma per qualche ragione decise di non usarla. Un altro errore più veniale (vista la scarsità di esemplari disponibili a quell'epoca) fu la sua incapacità di comprendere che i dinosauri costituivano non uno ma due ordini di rettili: gli omitischi, con una conformazione dell'anca simile a quella degli uccelli, e i saurischi, anatomicamente più simili alle lucertole.20
Owen non era una persona attraente, né per aspetto né per temperamento. Una fotografia che lo ritrae in età matura ce lo mostra scarno e sinistro quanto una canaglia da melodramma vittoriano, con i capelli lunghi e lisci, e gli occhi sporgenti. Insomma, una faccia da terrorizzare i bambini. Nei modi era freddo e imperioso, e perseguiva le sue ambizioni senza farsi scrupoli. Per quanto ci è dato sapere, fu la sola persona che Charles Darwin abbia mai odiato.21 Perfino suo figlio (poco prima di uccidersi) fece riferimento alla «deplorevole freddezza di cuore» del padre.22
Il suo indiscutibile talento di anatomista gli consentì di farla franca anche quando si comportò in modo sfrontatamente disonesto. Nel 1857 il naturalista T.H. Huxley stava sfogliando una nuova
edizione del Churchill's Medical Directory quando notò che Owen vi era indicato come professore di fisiologia e anatomia comparata presso la Government School of Mines, il che lo sorprese alquanto, visto che quella era la posizione che occupava lui. Indagando come mai il Churchill's fosse incappato in una simile cantonata, si sentì rispondere che l'informazione era stata fornita direttamente dallo stesso Owen.23 Nel frattempo, un collega naturalista di nome Hugh Falconer scoprì che Owen si era attribuito una delle sue scoperte. Altri ancora lo accusarono di avere preso in prestito degli esemplari per poi negare di averlo fatto. Owen finì addirittura per polemizzare aspramente con il dentista della regina sulla paternità di una teoria relativa alla fisiologia dei denti.
Non esitava a perseguitare quelli che gli erano antipatici. All'inizio della carriera usò la sua influenza presso la Zoological Society per bocciare l'ammissione di un giovane di nome Robert Grant, il cui unico crimine era quello di essersi dimostrato un anatomista di belle speranze. Grant rimase meravigliato nel vedersi negare l'accesso ai campioni anatomici di cui aveva bisogno per condurre la sua ricerca. Impossibilitato a proseguire il suo lavoro, sprofondò in un comprensibile abbattimento.
Nessun altro, però, ebbe a soffrire delle malevole attenzioni di Owen più di Gideon Mantell, figura sfortunata dai connotati sempre più tragici. Dopo aver perso moglie, figli, il suo lavoro di medico e gran parte della collezione di fossili, Mantell si trasferì a Londra. Lì, nel 1841 (l'anno fatidico in cui Owen raggiunse il culmine della gloria per aver identificato e dato un nome ai dinosauri) Mantell fu coinvolto in un terribile incidente. Mentre attraversava in carrozza Clapham Common, cadde - non si sa bene come - dal sedile, si impigliò nelle redini e fu trascinato lungo la strada accidentata dai cavalli in preda al panico. Riemerse dall'incidente curvo, storpio e afflitto da dolori cronici, con danni irreparabili alla colonna vertebrale.
Approfittando dello stato di debilitazione di Mantell, Owen si diede a cancellare sistematicamente i suoi contributi da tutti i documenti ufficiali, rinominando specie a cui Mantell aveva già assegnato un nome anni prima e attribuendosene la scoperta. Mantell continuò a condurre delle ricerche interessanti, ma Owen esercitò tutta la propria influenza presso la Royal Society per assicurarsi che i suoi lavori venissero respinti, senza eccezioni. Nel 1852, incapace
di sopportare ulteriori pene e vessazioni, Mantell si tolse la vita. La sua colonna vertebrale, deformata dall'incidente, fu prelevata e inviata al Royal College of Surgeons dove (ed ecco a voi un tocco di tragica ironia) fu affidata alle cure di Richard Owen, direttore delTHunterian Museum del college.24
Ma gli affronti non erano ancora cessati. Subito dopo la morte di Mantell, la Ldterary Gazette pubblicò un necrologio sorprendente nella sua durezza. Mantell vi veniva descritto come un mediocre anatomista, i cui modesti contributi alla paleontologia erano limitati dalla «mancanza di esatte conoscenze». Il necrologio gli sottraeva anche la scoperta dell'iguanodonte, per attribuirla, tra gli altri, a Cuvier e Owen. Nonostante il pezzo non fosse firmato, lo stile era quello di Owen, e nell'ambiente delle scienze naturali nessuno ebbe il minimo dubbio su chi fosse l'autore.
A questo punto, comunque, Owen cominciò a pagare per i propri comportamenti scorretti. Il suo declino ebbe inizio quando una commissione della Royal Society (commissione presieduta, guarda caso, da lui) decise di conferirgli il massimo degli onori, la Royal Medal, per un suo articolo su certi molluschi estinti chiamati belemniti. « Tuttavia » osserva Deborah Cadbury nel suo Ter-rible Lizard, eccellente storia di quel periodo, « quel lavoro non era affatto originale come sembrava. »25 Emerse che i molluschi in questione erano stati scoperti quattro anni prima da un naturalista dilettante di nome Chaning Pearce, e che la scoperta era stata resa pubblica durante un incontro della Geological Society. Owen era stato presente all'evento, ma non ne fece parola quando presentò il suo lavoro alla Royal Society, non a caso ribattezzando la creatura come Belemnites owenii in suo stesso onore. Owen fu autorizzato a tenere comunque la Royal Medal; l'episodio lasciò tuttavia sulla sua reputazione una macchia indelebile, anche tra i pochi sostenitori che gli erano rimasti.
Alla fine Huxley riuscì a fare a Owen quello che Owen aveva fatto a tanti altri, e fece votare la sua esclusione dai consigli della Zoological Society e della Royal Society. E per ripagarlo fino in fondo, Huxley divenne il nuovo Hunterian Professor del Royal College of Surgeons.
Owen non avrebbe più condotto ricerche importanti, ma l'ultima parte della sua carriera fu dedicata a uno scopo ineccepibile, di cui dobbiamo rendergli merito. Nel 1856, divenne direttore della
sezione di storia naturale del British Museum, e in questo ruolo agì da forza trainante per la creazione del Natural History Museum di Londra.26 L'imponente e amatissima sede gotica di South Kensington, che aprì i battenti nel 1880, è quasi per intero una dimostrazione della sua lungimiranza.
Prima di Owen, i musei erano progettati soprattutto come esperienze edificanti per le élites, e anch'esse faticavano ad accedervi.27 In origine, chi desiderava visitare il British Museum doveva presentare una richiesta scritta e sottoporsi a un breve colloquio, finalizzato a stabilirne l'idoneità. Poi, nell'eventualità che avesse superato il colloquio, l'aspirante visitatore doveva tornare una seconda volta per ritirare il biglietto e infine ripresentarsi una terza volta per ammirare i tesori del museo. Con tutto ciò, i visitatori venivano comunque fatti entrare in gruppo e dovevano avanzare velocemente, senza potersi soffermare. Il progetto di Owen prevedeva invece di accogliere chiunque, e si spingeva al punto di incoraggiare i lavoratori a visitare il museo di sera, e di destinare gran parte della superficie del museo stesso a mostre destinate al pubblico. Egli giunse anche a proporre, assumendo una posizione decisamente radicale, di apporre etichette informative su ogni oggetto esposto, in modo che la gente potesse capire ciò che stava vedendo.28 In questo suo progetto, Owen fu inaspettatamente osteggiato da T.H. Huxley, convinto che i musei dovessero essere prima di tutto istituzioni di ricerca. Facendo del Natural History Museum un'istituzione aperta a tutti, Owen trasformò la nozione stessa di museo.
Comunque, il suo altruismo verso il genere umano non lo distolse da rivalità più personali. Uno dei suoi ultimi atti ufficiali fu quello di fare pressione contro la proposta di erigere una statua in memoria di Charles Darwin. In questo fallì - anche se poi, sia pure un po' in ritardo, si prese un'inaspettata rivincita. Oggi, infatti, è la sua statua a godere di una magnifica vista dall'alto della scalinata della sala principale del Natural History Museum, mentre quelle di Darwin e T.H. Huxley se ne stanno confinate nella caffetteria del museo, dove osservano con gravità la gente che fa merenda con tè e frittelle.
Sarebbe ragionevole supporre che le meschine rivalità di Richard Owen segnino il punto più basso della paleontologia del diciannovesimo secolo. Invece il peggio doveva ancora venire, questa volta da oltreoceano. Negli ultimi decenni del secolo, infatti, in America sorse una rivalità ancora più ignobile, forse altrettanto distruttiva. Scoppiò tra due uomini eccentrici e spietati: Edward Drinker Cope e Othniel Charles Marsh.
I due avevano molte cose in comune. Erano entrambi viziati, ostinati, egocentrici, litigiosi, invidiosi, diffidenti e sempre infelici. Insieme, cambiarono il mondo della paleontologia.
Inizialmente il loro rapporto fu improntato all'amicizia e all'ammirazione reciproca, al punto che ciascuno dei due aveva dedicato all'altro qualche specie fossile e i due avevano trascorso insieme una piacevole settimana nel 1868. A quel punto, qualcosa tra loro (nessuno sa dire cosa) dovette andare storto, perché l'anno successivo avevano già sviluppato una forte inimicizia, che nei trent'anni che seguirono si sarebbe trasformata in odio bruciante. Si può anzi affermare con una certa sicurezza che nel mondo delle scienze naturali due uomini non si siano mai disprezzati a tal punto.
Marsh, più anziano di otto anni, era un tipo schivo tutto dedito ai libri, dalla barba curata e le maniere affabili, che andava di rado a fare ricerca sul campo e - quando poi ci andava - difficilmente trovava qualcosa. Durante un sopralluogo a Como Bluff nel Wyoming, una località famosa per i resti di dinosauri, non riuscì a notare le ossa che, come disse uno storico, « erano sparse dappertutto come tronchi d'albero».29 Aveva però mezzi sufficienti a comprare tutto ciò che desiderava. Sebbene di modeste origini (suo padre faceva l'agricoltore nella parte settentrionale dello stato di New York), suo zio era George Peabody, ricchissimo finanziere, per giunta molto benevolo. Quando Marsh manifestò interesse per la storia naturale, Peabody gli fece costruire un museo a Yale e gli fornì fondi sufficienti a riempirlo con qualsiasi cosa gli venisse in mente.
Cope, invece, era privilegiato già per nascita (suo padre era un ricco uomo d'affari di Filadelfia) ed era di gran lunga il più avventuroso tra i due. Nell'estate del 1876, mentre George Armstrong Custer e il suo esercito venivano massacrati a Little Big Horn nel Montana, Cope si trovava nei paraggi a caccia di ossa. Quando gli fu fatto notare che forse quello non era il momento migliore per sottrarre tesori alle terre degli indiani, Cope ci rifletté qualche minuto e poi decise di proseguire comunque. Era un momento
troppo propizio. A un certo punto si imbatté in un gruppo di sospettosi indiani crow, ma riuscì ad ammansirli togliendosi e rimettendosi più volte la dentiera.30
Per circa dieci anni, il mutuo disprezzo fra Marsh e Cope trovò espressione prevalentemente in qualche sporadica scaramuccia. Nel 1877, però, esplose assumendo proporzioni grandiose. Quello stesso anno, Arthur Lakes, un maestro del Colorado, scoprì alcune ossa nei pressi di Morrison mentre faceva un'escursione in compagnia di un amico. Avendo capito che dovevano appartenere a un « sauro gigantesco », Lakes ne inviò premurosamente qualche campione sia a Marsh sia a Cope. Un felicissimo Cope inviò a Lakes cento dollari per il disturbo, chiedendogli di non parlare a nessuno della sua scoperta, soprattutto a Marsh. Imbarazzato, Lakes chiese a Marsh di inviare le ossa ricevute a Cope. Marsh lo fece, ma non avrebbe mai dimenticato l'affronto.31
L'episodio segnò l'inizio di una lunga guerra tra i due, guerra che andò facendosi sempre più aspra, subdola e spesso ridicola, a volte degenerata al punto che gli operai delle due squadre si prendevano reciprocamente a sassate. Una volta, Cope fu sorpreso a forzare delle casse che appartenevano a Marsh. Si insultarono sulla stampa e gettarono discredito sui rispettivi risultati. Raramente, forse mai, la scienza procedette così spedita e vittoriosa sospinta dall'animosità. Nel corso degli anni successivi, i due uomini portarono il numero delle specie di dinosauri conosciute in America da nove a quasi centocinquanta.32 La quasi totalità dei dinosauri il cui nome è noto ai profani - stegosauro, brontosauro, diplodoco, triceratopo - fu scoperta dall'uno o dall'altro dei due.*33 Purtroppo, lavoravano con una fretta talmente sconsiderata da non accorgersi, spesso, che una loro nuova scoperta era in realtà cosa già nota. Fra tutti e due, riuscirono a « scoprire » una specie chiamata Uintathe-res anceps non meno di ventidue volte.34 Ci vollero anni per portare un po' d'ordine nei pasticci di cui avevano seminato le loro classificazioni. Alcuni di essi aspettano ancora di essere sistemati.
Dal punto di vista scientifico, l'eredità lasciataci da Cope fu di gran lunga la più cospicua. Nel corso di una carriera così operosa
* L'eccezione più rilevante è rappresentata da Tyrannosaurus rex, scoperto da Barnum Brown nel 1902.
da levare il fiato, scrisse qualcosa come centoquattordici articoli specialistici e descrisse quasi mille e trecento nuove specie di fossili (di tutti i tipi, non solo dinosauri): su entrambi i fronti, dunque, una produzione più che doppia di quella di Marsh. Cope avrebbe potuto fare anche molto di più, ma negli ultimi anni andò incontro a un declino precipitoso. Avendo ereditato una fortuna nel 1875, investì sconsideratamente in argento e perse tutto. Si ridusse a vivere in una sola stanza, in una pensione di Filadelfia, circondato da libri, documenti e ossa. Marsh, dal canto suo, finì i suoi giorni in una splendida dimora a New Haven. Cope morì nel 1897, Marsh due anni dopo.
Negli ultimi anni di vita, Cope sviluppò un'altra interessante ossessione. Il suo più vivo desiderio diventò quello di essere dichiarato « esemplare tipo » di Homo sapiens - in altre parole, voleva che le sue ossa fossero quelle ufficialmente designate a rappresentare la razza umana. Di solito, si considerano esemplare tipo di una specie le prime ossa rinvenute, ma poiché non esisteva nessun primo campione di ossa di Homo sapiens, restava un posto vacante che Cope desiderava ricoprire. Era un desiderio frivolo e bizzarro, ma nessuno trovò un motivo per opporvisi. A quello scopo, Cope lasciò in eredità le sue ossa al Wistar Institute, un'istituzione culturale di Filadelfia finanziata dai discendenti di Ca-spar Wistar, un personaggio che a quanto pare è impossibile schivare. Purtroppo, dopo che le sue ossa erano già state preparate e assemblate, si scoprì che mostravano tracce di incipiente sifilide, una caratteristica che certamente non si vuole preservare nell'esemplare tipo della propria specie. Fu così che la richiesta di Cope venne archiviata assieme alle sue ossa, e il posto di esemplare tipo dell'uomo moderno è tuttora vacante.
Quanto agli altri attori di questo dramma, Owen morì nel 1892, pochi anni prima di Marsh e Cope. Buckland finì col perdere la ragione e, divenuto ormai un relitto farfugliante, trascorse i suoi ultimi giorni in un manicomio di Clapham, non lontano dal luogo del catastrofico incidente capitato a Mantell. La colonna vertebrale deforme di Mantell rimase esposta all'Hunterian Museum per quasi un secolo, prima di essere pietosamente distrutta da una bomba tedesca nel 1940.35 Dopo la morte di Mantell, ciò che rimaneva della sua collezione passò ai suoi eredi, e in massima parte fu portato in Nuova Zelanda dal figlio Walter, che vi emigrò nel
1840.36 Walter diventò un neozelandese illustre, arrivando infine a coprire la carica di Minister of Native Affairs. Nel 1865 donò i pezzi migliori della collezione paterna, compreso il famoso dente di iguanodonte, al Colonial Museum (oggi Museum of New Zealand) di Wellington, dove sono rimasti. Il dente di iguanodonte da cui tutto ebbe origine, forse il dente più importante di tutta la paleontologia, non è più esposto.
È chiaro che la caccia ai dinosauri non si esaurì con la morte dei grandi cacciatori di fossili del diciannovesimo secolo. In realtà, sebbene ciò possa sorprendere, era appena cominciata. Nel 1898, anno che cade tra la morte di Cope e quella di Marsh, fu scoperto (ma forse scoprire non è il verbo adatto: sarebbe meglio dire notato) un tesoro di gran lunga più prezioso di tutto quello che era stato trovato in precedenza in un luogo denominato Bone Cabin Quarry, a pochi chilometri dal principale territorio di caccia di Marsh a Como Bluff, nel Wyoming. Lì sarebbero state trovate centinaia e centinaia di ossa fossili, che andavano consumandosi, esposte alle intemperie, sulla collina. Ce n'erano così tante che qualcuno le aveva usate per costruirci una capanna, da cui il nome Bone Cabin.37 Solo nelle prime due campagne di scavi furono estratte dal suolo ben quarantacinque tonnellate di reperti ossei, e parecchie altre tonnellate vennero alla luce in ciascuno dei cinque-sei anni successivi.
Il risultato fu che al volgere del secolo i paleontologi avevano letteralmente tonnellate di vecchie ossa fra le quali scegliere. Il problema era che non avevano ancora idea di quanto fossero vecchie. Peggio ancora, le ere geologiche ufficialmente codificate non riuscivano a contenere il gran numero di divisioni - eoni, epoche ed età - del passato. Se la Terra aveva davvero solo venti milioni di anni, come continuava a insistere il grande Lord Kelvin, allora interi ordini di antiche creature avrebbero dovuto venire in essere e scomparire praticamente nello stesso istante geologico. La cosa non aveva alcun senso.
A parte Kelvin, altri scienziati studiarono il problema, producendo risultati che resero più profonda l'incertezza. Samuel Haughton, stimato geologo del Trinity College di Dublino, annunciò di aver calcolato l'età della Terra, ottenendo due miliardi e
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trecento milioni di anni, una cifra ben superiore a quella che tutti gli altri andavano suggerendo. Quando la cosa gli fu fatta notare, Haughton rifece i calcoli, usando sempre gli stessi dati, e fissò il risultato a 153 milioni di anni. John Joly, anche lui del Trinity, decise di fare un tentativo utilizzando l'idea del sale marino di Edmond Halley, ma il suo metodo si fondava su tali e tanti presupposti errati da lasciarlo andare senza speranza alla deriva. Calcolò per la Terra un'età di 89 milioni di anni, un risultato che corrispondeva abbastanza bene alle ipotesi di Kelvin, ma purtroppo non alla realtà.38
Tale era la confusione che alla fine del diciannovesimo secolo, a seconda del testo che si consultava, si poteva leggere che il numero di anni a separarci dagli esordi della vita complessa, nel Cambriano, ammontava a 3,18,600,794 milioni, 2,4 miliardi o un qualsiasi altro numero compreso in questo intervallo.39 Ancora nel 1910, una delle stime ritenute più attendibili - quella fatta dall'americano George Becker - fissava l'età della Terra ad appena 55 milioni di anni.
Proprio quando la questione sembrava ormai così confusa da risultare ingestibile, fece la sua comparsa un'altra figura straordinaria, proponendo un approccio nuovo. Si trattava di Ernest Ruther-ford, un neozelandese di campagna, schietto e brillante, che riuscì a produrre la prova quasi inconfutabile che la Terra aveva molte centinaia di milioni di anni e probabilmente di più.
È curioso che la sua dimostrazione si basasse sull'alchimia: naturale, spontanea, scientificamente credibile e assolutamente non occulta, ma era pur sempre alchimia. Ci si accorse che dopotutto Newton non si era sbagliato di tanto. Ma come si giunse ad averne prova è, naturalmente, un'altra storia.
7. Questioni... elementari
Si dice spesso che la chimica intesa come scienza seria e rispettabile risalga al 1661, quando Robert Boyle di Oxford pubblicò The Sceptical Chymist, il primo trattato a operare una distinzione tra chimica e alchimia. In realtà si trattò di una transizione lenta e tutt'altro che lineare. Nel diciottesimo secolo gli studiosi si sentivano a proprio agio in tutti e due i campi; basti pensare al tedesco Johann Becher, che produsse un lavoro sobrio ed eccellente sulla mineralogia, intitolato Physica Subterranea, ma era anche convinto che, se solo avesse avuto a disposizione le sostanze giuste, avrebbe potuto rendersi invisibile.1
Per dare un esempio del carattere strano e spesso fortuito della chimica al tempo dei suoi esordi, probabilmente nulla è meglio di una scoperta compiuta nel 1675 dal tedesco Hennig Brand. Brand si convinse che l'oro potesse essere distillato, in qualche modo, dall'urina umana (la somiglianza di colore sembra avere avuto il suo peso nel fargli trarre questa conclusione). Egli raccolse ben cinquanta secchi di urina umana e li conservò in cantina per mesi. Attraverso vari e misteriosi processi, la trasformò dapprima in una pasta disgustosa, e poi in una sostanza translucida simile alla cera. Nessuna delle due si trasformò in oro, ovviamente, però successe effettivamente una cosa strana e interessante. Dopo un po' di tempo, la sostanza cominciò a luccicare. In più, quando era esposta all'aria, spesso prendeva spontaneamente fuoco.
Le potenzialità commerciali di questa sostanza (che presto divenne nota come fosforo, dal greco phosphóros ossia « portatore di luce ») non sfuggì agli avidi uomini d'affari; le difficoltà insite nella produzione ne rendevano tuttavia troppo costoso lo sfruttamento. Un'oncia di fosforo valeva anche sei ghinee più dell'oro (circa quattrocentocinquanta euro di oggi).
All'inizio, fornire la materia prima toccò ai soldati, ma un tale
sistema non facilitava di certo la produzione su vasta scala. Intorno alla metà del Settecento, un chimico svedese di nome Karl (o Cari) Scheele escogitò un metodo per produrre grandi quantità di fosforo evitando il tanfo schifoso delle urine. Fu proprio grazie a questa padronanza del fosforo che la Svezia divenne, e rimane anche oggi, un leader nella produzione di fiammiferi.
Scheele era un tipo straordinario - ma anche straordinariamente sfortunato. Modesto farmacista, senza poter contare su attrezzature all'avanguardia, scoprì otto elementi (cloro, fluoro, manganese, bario, molibdeno, tungsteno, azoto e ossigeno) senza che nessuno gliene abbia mai attribuito il merito.3 Ogni volta, le sue scoperte furono ignorate oppure vennero pubblicate solo dopo che qualcun altro le aveva ripetute, indipendentemente. Scheele identificò anche molti composti utili, tra cui l'ammoniaca, la glicerina e l'acido tannico, e fu il primo a comprendere la potenziale importanza commerciale del cloro come candeggiante: tutte scoperte che fecero sempre arricchire qualcun altro.
Uno dei difetti più grandi di Scheele era la curiosa fissazione di voler assaggiare un po' di tutte le sostanze con cui lavorava, comprese alcune notoriamente sgradevoli come il mercurio, l'acido prussico (un'altra delle sue scoperte) e l'acido cianidrico, un composto così velenoso che 150 anni più tardi Erwin Schròdinger lo scelse come tossina elettiva per un famoso esperimento immaginario (vedi p. 165). Fu proprio l'avventatezza di Scheele a tradirlo: nel 1786, a soli quarantatre anni, lo trovarono morto al tavolo da lavoro, circondato da una serie di sostanze chimiche tossiche, ciascuna delle quali avrebbe potuto benissimo essere la causa di quell'ultima espressione incredula che aveva stampata sul volto.
Se il mondo fosse un luogo giusto (e se all'epoca avesse parlato svedese) Scheele avrebbe goduto di un plauso universale. Invece, le congratulazioni andarono sempre a chimici già affermati, e per lo più di lingua inglese. Scheele scoprì l'ossigeno nel 1772, ma per una serie di ragioni - complicate e strazianti - non riuscì a pubblicare in tempo utile il suo lavoro. Il merito andò quindi a Joseph Priesdey, che scoprì lo stesso elemento in modo del tutto indipendente ma un po' più tardi, nell'estate del 1774. Ancor più incredibile fu il mancato riconoscimento della sua scoperta del cloro. Quasi tutti i libri di testo attribuiscono questa scoperta a Humphry Davy, che effettivamente lo scoprì, ma trentasei anni dopo Scheele.
Sebbene la chimica avesse fatto passi da gigante nel secolo che separava Newton e Boyle da Schede, Priestley e Henry Cavendish, restava ancora molta strada da fare. Negli ultimi anni del diciottesimo secolo (e, nel caso di Priestley, anche qualche tempo dopo) gli scienziati di tutto il mondo andavano in cerca di cose che non esistevano proprio (pensando a volte di averle trovate davvero): aria viziata, acidi marini deflogisticati, residui calcinati, esalazioni terracquee e, soprattutto, il flogisto, la sostanza che si riteneva essere l'agente attivo nel processo di combustione. Nascosto da qualche parte, si pensava dovesse esserci anche un misterioso élan vital, la forza che dava vita agli oggetti inanimati. Nessuno sapeva dove risiedesse questa sostanza eterea, ma due cose sembravano probabili: che si potesse ravvivarla con una scarica elettrica (un concetto che Mary Shelley sfruttò appieno nel suo romanzo Frankenstein); e che fosse presente in alcune sostanze ma non in altre, che è in fondo il motivo per cui ci ritroviamo con due branche della chimica: quella organica, per le sostanze che si pensava la possedessero, e quella inorganica per le sostanze che invece ne erano prive.4
Per lanciare la chimica nell'era moderna occorreva un uomo di grande intuito, e furono i francesi a fornirlo. Il suo nome era Antoine-Laurent Lavoisier. Nato nel 1743, Lavoisier era membro della nobiltà minore (in altre parole, suo padre aveva comprato il titolo di famiglia). Nel 1768, rilevò una quota di un'istituzione fortemente disprezzata, la Ferme Generale, che riscuoteva gabelle per conto dello stato. Sebbene Lavoisier fosse per sua natura una persona mite e onesta, l'associazione di esattori per la quale lavorava non era nessuna delle due cose, basti pensare che non tassava i ricchi ma solo i poveri, e spesso in maniera arbitraria. Per Lavoisier, l'attrattiva di quell'istituzione consisteva nel fatto che poteva garantirgli l'agiatezza necessaria a perseguire la sua vera passione: la scienza. All'apice della sua carriera, i suoi guadagni personali raggiunsero le centocinquantamila livres l'anno, pari a circa diciotto milioni di euro odierni.5
Tre anni dopo essersi imbarcato in questa carriera redditizia, sposò la figlia quattordicenne di uno dei suoi superiori.6 Il loro matrimonio fu un incontro di cuori e menti. M.me Lavoisier era dotata di un'intelligenza acuta e ben presto si mise al lavoro a fianco del marito. A dispetto degli impegni di lavoro e di un'intensa
vita sociale, la coppia riusciva quasi sempre a dedicare alla scienza ben cinque ore al giorno (due al mattino presto e tre alla sera) e l'intera giornata della domenica, che essi definivano il loro jour de bonheur? Lavoisier riuscì in qualche modo a trovare il tempo per diventare ispettore per la produzione delle polveri da sparo, dirigere i lavori di costruzione di un muro di cinta attorno a Parigi che scoraggiasse i contrabbandieri, contribuire alla messa a punto del sistema metrico, e partecipare come coautore alla stesura del manuale Méthode de nomenclature chimique, poi divenuto la bibbia dell'intesa in merito alla denominazione degli elementi.
In qualità di membro insigne della Académie Royale des Sciences, aveva anche il compito di interessarsi e approfondire svariati argomenti di attualità: ipnotismo, riforma carceraria, respirazione degli insetti, rifornimento idrico di Parigi. Fu proprio in questa veste che, nel 1780, Lavoisier mosse alcune critiche negative a una nuova teoria sulla combustione, sottoposta all'accademia da un giovane scienziato di belle speranze. In effetti, la teoria era sbagliata: quello scienziato, però, non gliela perdonò mai. Il suo nome era Jean-Paul Marat.8
L'unica cosa che Lavoisier non fece mai fu scoprire un elemento. In un'epoca in cui sembrava che chiunque disponesse di qualche vetro da laboratorio, di una fiamma e di qualche polvere interessante potesse scoprire qualcosa di nuovo (in un'epoca in cui, effettivamente, circa due terzi degli elementi erano ancora da scoprire), Lavoisier non riuscì a trovarne nemmeno uno.9 Di sicuro non fu per carenza di vetreria: possedeva infatti tredicimila recipienti in vetro da laboratorio in quello che era, a un livello quasi assurdo, il miglior laboratorio privato dell'epoca.
Lavoisier, più che altro, prendeva le scoperte altrui e dava loro un senso. Scartò l'esistenza del flogisto e dell'aria mefitica; identificò ossigeno e idrogeno per quello che erano, e attribuì a entrambi il loro nome moderno. In breve, aiutò a portare rigore, chiarezza e metodo nel campo della chimica.
In effetti, la sua straordinaria attrezzatura si rivelò molto utile. Per anni, lui e la moglie si tennero occupati con studi estremamente impegnativi, che richiedevano eccellenti misurazioni. Scoprirono, per esempio, che un oggetto non diminuisce di peso quando arrugginisce, come invece si presumeva da sempre, ma anzi aumenta: una scoperta straordinaria. Nel processo, l'oggetto attraeva in qualche modo particelle elementari dell'aria. Fu la prima intuizione del fatto che la materia poteva essere trasformata, ma non eliminata. Se adesso bruciaste il libro che avete fra le mani, esso si trasformerebbe in cenere e fumo, ma la quantità totale netta di materia presente nell'universo resterebbe la stessa. Questo concetto divenne noto come legge di conservazione della massa, e fu un'autentica rivoluzione. Purtroppo, andò a coincidere con un'altra rivoluzione: quella francese. E in questa, Lavoisier si trovò dalla parte sbagliata.
Non soltanto era membro dell'odiata Ferme Generale, ma aveva entusiasticamente costruito il muro intorno a Parigi: opera così detestata dalla cittadinanza che fu la prima a essere attaccata dai rivoltosi. Facendo leva su tutto questo, nel 1791 Marat - nel frattempo diventato un leader dell'Assemblea Nazionale - denunciò Lavoisier e suggerì che fosse arrivata l'ora di giustiziarlo. Subito dopo, la Ferme Generale fu chiusa. Non passò molto tempo, e Marat venne ucciso nel bagno da una giovane donna di nome Charlotte Corday. Per Lavoisier, però, era ormai troppo tardi.
Nel 1793 il Terrore, già intenso, prese a girare con una marcia in più. In ottobre, Maria Antonietta fu mandata alla ghigliottina. Il mese dopo, mentre Lavoisier e sua moglie pianificavano, decisamente in ritardo, di riparare in Scozia, lui fu arrestato. E a maggio, assieme a trentuno colleghi appaltatori generali delle gabelle, fu condotto davanti al Tribunale Rivoluzionario (in un'aula sulla quale dominava un busto di Marat). A otto di loro fu concessa l'assoluzione, ma Lavoisier e gli altri furono portati subito nella Place de la Revolution (oggi Place de la Concorde), sede delle più attive ghigliottine di Francia. Lavoisier assistette alla decapitazione del suocero, poi salì sul patibolo andando incontro al proprio destino. Meno di tre mesi dopo, il 27 luglio, anche Robespierre fu eliminato con lo stesso sistema e nello stesso luogo, e il Regno del Terrore andò velocemente approssimandosi alla conclusione.
A circa cento anni dalla sua morte, a Parigi fu eretta una statua di Lavoisier che fu molto ammirata finché qualcuno non fece notare che non gli somigliava affatto. Interrogato, lo scultore ammise di avere usato la testa del matematico e filosofo marchese di Con-dorcet (a quanto pare, ne aveva un doppione) nella speranza che nessuno se ne accorgesse o che comunque non si desse la pena di divulgare la cosa. Sul secondo punto aveva ragione. La statua di Lavoisier-cum-Condorcet rimase al suo posto per altri cinquant'anni, fino alla Seconda guerra mondiale, quando un bel mattino fu trascinata via e fusa come rottame.10
Agli inizi del diciannovesimo secolo, in Inghilterra si diffuse la moda di inalare protossido di azoto, ovvero il gas esilarante: si era scoperto che il suo uso «era seguito da un'eccitazione molto piacevole».11 Per i cinquant'anni che seguirono, fu la droga preferita dai giovani. Per un certo periodo ci fu un'associazione culturale, la Askesian Society, che non si occupò di altro. I teatri organizzavano « serate con il gas esilarante », durante le quali i volontari potevano rinfrancarsi con robuste inalazioni e poi intrattenere il pubblico con il loro comico barcollare.12
Fu solo nel 1846 che qualcuno riuscì a trovare un uso più utile per il protossido di azoto, come anestetico. Dio solo sa quante decine di migliaia di persone abbiano sofferto inutilmente atroci sofferenze sotto i ferri del chirurgo perché nessuno aveva pensato alla più ovvia applicazione pratica del gas.
Lo dico per sottolineare il fatto che la chimica, sebbene nel diciottesimo secolo avesse fatto molti progressi, nei primi decenni del secolo successivo fu sul punto di perdere l'orientamento, in modo molto simile a quanto sarebbe accaduto alla geologia nei primi anni del ventesimo. Questo dipese in parte dalla limitazione delle attrezzature (fino alla seconda metà del secolo, per esempio, non furono disponibili centrifughe, il che limitò molti tipi di esperimenti) e in parte da cause di ordine sociale. In linea di massima, la chimica era una scienza per gli industriali, gente che si sporcava le mani col carbone, la potassa e i coloranti, e non per i gentleman, più inclini alla geologia, alla storia naturale e alla fisica. (Questo era un po' meno vero nell'Europa continentale, ma solo un poco.) Probabilmente è indicativo il fatto che una delle più importanti osservazioni del secolo, quella del moto browniano (che stabilì la natura attiva delle molecole), non fu effettuata da un chimico ma da un botanico scozzese: Robert Brown. Nel 1827 Brown osservò che minuscoli granuli di polline sospesi nell'acqua rimanevano indefinitamente in moto, a prescindere dalla quantità di tempo che si lasciava loro per depositarsi.13 La causa di questo moto incessante (o meglio, dell'attività di molecole invisibili) rimase a lungo un mistero.
Le cose sarebbero anche potute andare peggio, se non fosse giunto sulla scena il conte von Rumford: personaggio magnifico quanto improbabile che, a dispetto del titolo altisonante, era venuto alla luce a Woburn (Massachusetts), nel 1753, col semplice nome Benjamin Thompson. Thompson era un tipo focoso e ambizioso, « piacevole nei modi e nella figura », all'occasione coraggioso e di un'intelligenza straordinaria, mai sfiorato, tuttavia, da qualcosa di sconveniente come l'ombra di uno scrupolo. A diciannove anni sposò una ricca vedova trentatreenne, ma allo scoppiare della rivoluzione nelle colonie si schierò, poco saggiamente, dalla parte dei lealisti, facendo per qualche tempo la spia al loro servizio. Nel fatidico 1776, trovandosi a fronteggiare l'arresto « per scarso entusiasmo verso la causa della libertà », abbandonò moglie e figlio e si diede alla fuga*, inseguito da una folla di antirealisti armati di secchi di catrame bollente, sacchi di piume e un gran desiderio di adornarlo servendosi di entrambi.14
Thompson se la svignò prima in Inghilterra e poi in Germania, dove prestò servizio come consigliere militare per il governo di Baviera; qui fece un'ottima impressione alle autorità, al punto che nel 1791 fu nominato conte von Rumford del Sacro Romano Impero. Mentre era a Monaco, progettò e allestì il famoso Giardino Inglese.
Fra un'impresa e l'altra, riuscì anche a trovare il tempo per fare un bel po' di solida scienza. Divenne la principale autorità mondiale nel campo della termodinamica, e fu il primo a chiarire i principi della convezione dei fluidi e la circolazione delle correnti oceaniche. Inventò pure diversi oggetti utili, compresi una caffettiera, biancheria termica e un tipo di focolare ancora oggi noto come caminetto di Rumford. Nel 1805, durante un soggiorno in Francia, corteggiò e sposò M.me Lavoisier, vedova di Antoine-Laurent. Il matrimonio non ebbe successo e presto i due si separarono. Rumford rimase in Francia, dove morì nel 1814, stimato da tutti con la sola eccezione delle sue ex mogli.
Se lo menzioniamo in questo contesto è perché nel 1799, durante un periodo relativamente breve trascorso a Londra, Thompson fondò la Royal Institution, una delle tante società di studiosi che fiorirono un po' ovunque in Gran Bretagna a cavallo fra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo. Per un certo periodo, la Royal Institution fu la sola istituzione di rilievo a promuovere la
nuova scienza della chimica, e questo grazie a un giovane brillante di nome Humphry Davy, nominato professore di chimica subito dopo la fondazione della società, il quale divenne ben presto celebre come straordinario didatta e oratore, oltre che per la sua cospicua produzione sperimentale.
Subito dopo aver accettato l'incarico, Davy cominciò a isolare, con il rumoroso accompagnamento di qualche esplosione, un nuovo elemento chimico dopo l'altro: potassio, sodio, magnesio, calcio, stronzio e alluminio.* Ne scoprì così tanti, non perché avesse avuto una lunga serie di idee perspicaci, quanto perché sviluppò l'ingegnosa tecnica dell'elettrolisi, applicando l'elettricità alle sostanze disciolte in soluzione. In tutto, scoprì una decina di elementi: un quinto di tutti quelli conosciuti al suo tempo. Davy avrebbe potuto fare molto di più, ma purtroppo da giovane aveva sviluppato un forte attaccamento ai piaceri del protossido di azoto. Si trattava di una passione così grande da fargli aspirare il gas tre o quattro volte al giorno. Si pensa che sia stato proprio questo a ucciderlo, nel 1829.
Per fortuna, altrove c'erano al lavoro tipi più sobri. Nel 1808 un austero quacchero di nome John Dalton fu il primo a suggerire la natura dell'atomo (un progresso del quale parleremo meglio più avanti), e nel 1811 un italiano con uno splendido nome da melodramma, Lorenzo Romano Amedeo Carlo Avogadro, conte di Quaregna e Cerreto, fece una scoperta che a lungo termine si sarebbe dimostrata molto significativa: Avogadro comprese che due volumi uguali di qualsiasi gas, se tenuti nelle stesse condizioni di pressione e temperatura, contengono lo stesso identico numero di molecole.
Nell'affascinante semplicità del principio di Avogadro (come divenne poi noto) c'erano due cose molto rilevanti. In primo luogo,
* La confusione tra aluminum e aluminium sorse a causa di una strana indecisione da parte di Davy. Quando isolò l'elemento, nel 1808, lo chiamò aluminium. Non si sa perché, quattro anni dopo ci ripensò e cambiò il nome in aluminum. Gli americani adottarono diligentemente il nuovo termine, ma a molti inglesi aluminum non piaceva, poiché non rispettava la convenzione del suffisso -ium adottato per il sodio, il calcio e lo stronzio, e quindi vi aggiunsero una vocale. Tra le altre cose, Davy fu anche l'inventore di una lampada di sicurezza per i minatori.
esso fornì una base per una più accurata misurazione delle dimensioni e del peso degli atomi. Con le formule di Avogadro, i chimici alla fine riuscirono a calcolare, per esempio, che un atomo ha un diametro di 0,00000008 centimetri, davvero molto piccolo.15 In secondo luogo, vale la pena di osservare che nessuno ne seppe nulla per almeno cinquant'anni.*
In parte ciò dipese dal fatto che lo stesso Avogadro era un tipo schivo: lavorava da solo, intratteneva una scarsa corrispondenza con i suoi colleghi scienziati, pubblicò pochi articoli e non frequentò mai i convegni; in parte anche dal fatto che all'epoca non c'erano convegni da frequentare, e le riviste di chimica su cui pubblicare erano poche. Questo è abbastanza straordinario: la Rivoluzione industriale fu guidata in massima parte dallo sviluppo della chimica, eppure, in quanto scienza organizzata, la chimica continuò quasi a non esistere ancora per decenni.
La Chemical Society di Londra fu fondata solo nel 1841, e cominciò a pubblicare regolarmente una sua rivista solo nel 1848, quando la maggior parte delle altre associazioni scientifiche inglesi - di geologia, geografia, zoologia, orticoltura e linneana (per naturalisti e botanici) - avevano ormai almeno vent'anni, in certi casi molti di più. Il rivale Institute of Chemistry entrò in essere solo nel 1877, un anno dopo la fondazione dell'American Chemical Society. Poiché la chimica era tanto lenta a organizzarsi, la notizia dell'importante scoperta di Avogadro (datata 1811) cominciò a diventare di dominio pubblico solo con il primo congresso internazionale di chimica, tenutosi a Karlsruhe nel 1860.
* Molto più tardi, questo principio condusse all'adozione del numero di Avogadro, un'unità di base per le misurazioni chimiche, dedicato ad Avogadro molto tempo dopo la sua morte. Si tratta del numero di molecole riscontrato in 2,016 grammi di gas idrogeno. Il suo valore corrisponde a 6,0221367 x1023, un numero enorme. Gli studenti di chimica si sono a lungo divertiti a calcolare la dimensione di questo numero, e quindi sappiamo che esso equivale al numero di popcorn necessari a ricoprire tutti gli Stati Uniti con uno strato spesso quattordici chilometri e mezzo, o al numero di tazze colme di acqua contenute nell'oceano Pacifico, o ancora al numero di lattine che, impilate in modo regolare, coprirebbero la Terra formando uno strato spesso trecentoventi chilometri. Un numero equivalente di monetine da un centesimo di dollaro sarebbe sufficiente a rendere miliardari tutti gli abitanti della Terra. Insomma, è davvero un numero enorme.
Visto che i chimici avevano lavorato così a lungo nell'isolamento, le convenzioni furono lente a emergere. Fino a oltre la seconda metà del secolo, la formula H2o2 poteva indicare per un chimico l'acqua e per un suo collega l'acqua ossigenata o perossido di idrogeno. C2IL, allo stesso modo, poteva indicare l'etilene o il metano. Praticamente non c'era una sola molecola che fosse rappresentata dappertutto allo stesso modo.
I chimici usavano pure un'impressionante varietà di simboli e abbreviazioni, spesso di propria invenzione. Lo svedese JJ. Berze-lius impartì alla disciplina l'ordine di cui aveva un immenso bisogno, e stabilì che le abbreviazioni per designare gli elementi fossero fissate sulla base del nome greco e latino: ecco perché l'abbreviazione del ferro è Fé (dal latino ferrum) e dell'argento Ag (dal latino argentum). Il fatto che molte altre abbreviazioni coincidano con i nomi inglesi degli elementi (per esempio l'azoto si indica con N [nitrogeni, l'ossigeno con O [oxygen], l'idrogeno con H [hydrogen]) rispecchia il fatto che alcune parole dell'inglese derivano dal latino, e non lo status dell'inglese di per sé. Per indicare il numero di atomi di una molecola, Berzelius impiegò una notazione posta come esponente: H20. In seguito, per nessuna ragione specifica, divenne di moda porre il numero come deponente: H20.16
Nonostante qualche saltuario riordinamento, nella seconda metà del diciannovesimo secolo la chimica si trovava ancora in uno stato di grande confusione. Ecco perché nel 1869 tutti i chimici si rallegrarono dell'importanza assunta da Dmitri Ivanovich Mendeleyev, uno strano professore dall'aria un po' folle proveniente dall'università di San Pietroburgo.
Mendeleyev (il cui nome viene a volte translitterato Mendeleev o Mendeléef) nacque nel 1834 a Tobolsk, nell'estremo ovest della Siberia, da una famiglia molto numerosa, colta e abbastanza prospera. La famiglia era così numerosa, che la storia ha perso il conto di quanti fossero davvero i Mendeleyev. Alcuni dicono che i figli fossero quattordici, altri diciassette. Tutti concordano, comunque, sul fatto che Dmitri fosse il più giovane. La fortuna non fu sempre dalla loro parte.17 Quando Dmitri era piccolo, suo padre, direttore di una scuola locale, perse la vista, e la madre fu costretta a lavorare. Di sicuro era una donna eccezionale, visto che alla fine diventò dirigente di una fiorente fabbrica di vetro. Tutto andò bene fino al 1848, quando la fabbrica venne distrutta da un incendio e la
famiglia si ridusse in miseria. Determinata a dare un'istruzione al suo ultimogenito, l'indomita signora Mendeleyev, accompagnata dal giovane Dmitri, viaggiò con mezzi di fortuna per quasi seimila e cinquecento chilometri fino a San Pietroburgo (l'equivalente di un viaggio da Londra alla Guinea equatoriale) per lasciarlo all'istituto di pedagogia e poi spirare, stremata dallo sforzo.
Mendeleyev completò diligentemente i suoi studi e, alla fine, ottenne un incarico presso l'università. Era un chimico molto competente, anche se non eccelso, più famoso per la barba e i capelli incolti, che si faceva tagliare solo una volta all'anno, che per il talento dimostrato in laboratorio.18
A ogni modo, nel 1869, ormai trentacinquenne, cominciò a trastullarsi nella ricerca di un sistema per ordinare gli elementi. All'epoca, gli elementi di solito venivano raggruppati in due modi: o in base al peso atomico (secondo il principio di Avogadro) o in base alle loro comuni proprietà (per esempio in base al fatto che fossero metalli o gas). La rivoluzionaria scoperta di Mendeleyev consistette nell'accorgersi che i due criteri potevano essere combinati in un'unica tavola.
Come spesso accade nel mondo della scienza, il principio era già stato anticipato tre anni prima, in Inghilterra, da John Newlands, un chimico dilettante. Questi aveva suggerito che quando gli elementi venivano ordinati in base al peso, alcune proprietà sembravano ripetersi in scala (in un certo senso sembravano armonizzarsi) ogni otto posizioni. Con una certa audacia, visto che i tempi non erano ancora maturi per accoglierla, Newlands la chiamò legge delle ottave, e paragonò questa forma di organizzazione a quella delle ottave sulla tastiera di un pianoforte.19 Chissà, forse Newlands non trovò la maniera giusta di presentarla: fatto sta che l'idea fu considerata insensata e in larga misura fu oggetto di scherno. A volte, durante i convegni, i membri più faceti dell'uditorio gli chiedevano se i suoi elementi non fossero in grado di suonare una piccola melodia. Scoraggiato, Newlands smise di sostenere la sua idea che ben presto fu del tutto dimenticata.
Mendeleyev usò un approccio leggermente diverso, organizzando gli elementi in gruppi di sette, ma basandosi di fatto sulle stesse premesse. All'improvviso, l'idea apparve a tutti brillante, meravigliosamente perspicace. Visto che le proprietà degli elementi si
ripetevano periodicamente, l'invenzione divenne nota come tavola periodica.
Si disse che Mendeleyev si fosse ispirato a un solitario in cui le carte vengono ordinate in orizzontale in base al seme, e in verticale in base al numero. Attraverso un meccanismo molto simile, Mendeleyev dispose gli elementi in file orizzontali, dette periodi, e in colonne verticali, dette gruppi. La tavola mostrava istantaneamente una serie di correlazioni quando la si leggeva dall'alto in basso, e un'altra se la si leggeva da un lato all'altro. Le colonne verticali, in particolare, raggruppavano le sostanze chimiche in base alla somiglianza delle loro proprietà. Per questo motivo, il rame veniva a trovarsi sopra l'argento e l'argento sopra l'oro, data la loro affinità come metalli; mentre l'elio, il neon e l'argon si trovavano nella colonna dei gas (formalmente il vero fattore determinante l'ordine degli elementi è rappresentato dalla loro valenza elettronica; a questo punto, se volete capirci qualcosa di più, vi conviene iscrivervi a un corso serale). Nelle file orizzontali, invece, gli elementi si sistemavano in ordine ascendente in base al numero dei protoni presenti nel nucleo, ossia quello che viene chiamato numero atomico.
La struttura degli atomi e l'importanza dei protoni sarà materia di un capitolo successivo. Per il momento, ci accontenteremo di apprezzare il principio organizzativo. L'idrogeno ha solo un protone, quindi ha numero atomico pari a 1, sulla tavola è il primo di tutti; l'uranio ha 92 protoni, e quindi ha numero atomico pari a 92 e si trova alla fine. In questo senso, come ha sottolineato Philip Ball, la chimica implica semplicemente il saper contare (il numero atomico non va confuso con il peso atomico, che è la somma del numero di protoni e di quello di neutroni contenuti nel nucleo di un dato elemento).20
Restavano ancora moltissime cose da scoprire e da comprendere. L'idrogeno è l'elemento più comune dell'universo, eppure nessuno l'avrebbe immaginato per almeno altri trent'anni. L'elio, il secondo elemento per abbondanza, era stato scoperto solo l'anno prima (non se ne sospettava nemmeno l'esistenza) e oltretutto non sulla Terra ma sul Sole, dove fu individuato utilizzando uno spettroscopio nel corso di un'eclissi solare. Il suo nome, infatti, è un tributo alla divinità greca del Sole, Helios. Sarebbe stato isolato soltanto
nel 1895. Eppure, grazie all'invenzione di Mendeleyev, adesso la chimica aveva solide fondamenta.
Per la maggior parte di noi la tavola periodica è una cosa elegante ma astratta; per i chimici, invece, essa stabilì un ordine e una chiarezza immediati che difficilmente potrebbero essere sopravvalutati. « Senza dubbio, la tavola periodica degli elementi chimici è
lo schema organizzativo più elegante mai concepito» scrisse Robert E. Krebs nel suo The History and Use ofour Earth's Chemical Elements, e apprezzamenti simili si trovano in quasi tutti i testi di storia della chimica.21
Oggi abbiamo «circa centoventi» elementi conosciuti (novantadue naturali più una ventina creati in laboratorio).22 Il numero effettivo è un po' controverso, visto che gli elementi pesanti sintetizzati in laboratorio esistono solo per qualche milionesimo di secondo, e a volte i chimici discutono se siano stati davvero individuati. Al tempo di Mendeleyev, erano noti soltanto sessantatré elementi, ma parte della sua intelligenza fu proprio nell'accorgersi che essi non costituivano il quadro completo, che mancavano insomma ancora molti pezzi. La tavola lasciava prevedere, con notevole accuratezza, dove sarebbero andati a inserirsi i nuovi elementi una volta scoperti.
Detto per inciso, nessuno sa dire a quanto potrà ammontare il numero totale degli elementi (sebbene qualsiasi elemento superi il peso atomico di 168 sia considerato « puramente speculativo »).23 Possiamo tuttavia essere certi che qualsiasi elemento scopriremo troverà una collocazione perfetta nel grande schema di Mendeleyev.
Il diciannovesimo secolo aveva in serbo per i chimici una sorpresa molto importante. Tutto ebbe inizio nel 1896, a Parigi, quando Henri Becquerel lasciò per sbaglio un pacchetto di sali di uranio posato su una lastra fotografica incartata dentro a un cassetto. Qualche tempo dopo, quando tirò fuori la lastra ebbe la sorpresa di scoprire che i sali l'avevano bruciata, impressionandola come se fosse stata esposta alla luce. I sali, quindi, emettevano un qualche tipo di raggi.
Considerata l'importanza di quello che aveva scoperto, Becquerel fece una cosa ben strana: sottopose la questione a una sua
allieva perché la studiasse. Per fortuna la sua giovane assistente -una polacca da poco emigrata in Francia - era Marie Curie. Lavorando assieme al marito, Pierre Curie, la studentessa scoprì che certi tipi di rocce rilasciavano quantità di energia costanti e straordinarie, senza per questo subire diminuzioni nelle dimensioni o in qualsiasi altro parametro rilevabile. Quello che Marie e Pierre non potevano sapere (quello che nessuno poteva sapere, fino a che Einstein non chiarì le cose nel decennio successivo) era che le rocce convertivano la massa in energia in modo straordinariamente efficace. Marie Curie battezzò il fenomeno «radioattività».24 Nel corso delle loro ricerche, i coniugi Curie scoprirono anche due nuovi elementi: il polonio, che chiamarono così in onore del loro paese di origine, e il radio. Nel 1903 i Curie e Becquerel ricevettero insieme il premio Nobel per la fisica (Marie Curie avrebbe poi vinto un secondo premio per la chimica nel 1911, ed è rimasta l'unica ad aver avuto questo riconoscimento sia per la chimica sia per la fisica).
Alla McGill University di Montreal, il giovane Ernest Ruther-ford, nato in Nuova Zelanda, cominciò a interessarsi ai nuovi materiali radioattivi. Insieme al collega Frederick Soddy, scoprì che dentro queste piccole quantità di materia erano stipate immense riserve di energia, e che la maggior parte del calore della Terra poteva essere attribuita proprio al decadimento di queste riserve. I due scoprirono anche che gli elementi radioattivi decadevano in altri elementi (un giorno c'era un atomo di uranio, per dire, e il giorno dopo ci si ritrovava con un atomo di piombo). Tutto questo era davvero straordinario. Si trattava di alchimia, pura e semplice. Nessuno avrebbe mai immaginato che una cosa del genere potesse accadere in modo naturale e spontaneo.
Sempre pragmatico, fu Rutherford ad accorgersi per primo che tutto questo poteva avere una preziosa applicazione pratica. Notò che, a prescindere dalla sua natura, qualsiasi campione di materiale radioattivo impiegava sempre la stessa quantità di tempo - la famosa emivita* - per decadere della metà, e che questa velocità di
* Se vi siete mai domandati come facciano gli atomi a decidere quale sarà il cinquanta per cento destinato al decadimento e quale il cinquanta per cento che dovrà sopravvivere per la successiva sessione, la risposta è che in realtà l'emivita è solo una convenzione statistica, una sorta di tavola attuariale riferita agli elemen-
decadimento, così costante e attendibile, poteva essere usata come un orologio. Conoscendo la quantità di radioattività presente in un dato materiale e la sua velocità di decadimento, calcolando a ritroso, se ne poteva ottenere l'età. Rutherford analizzò un pezzo di pecblenda, il principale minerale contenente uranio, e riscontrò che aveva settecento milioni di anni: molti di più dell'età che la maggior parte degli scienziati era disposta ad attribuire alla Terra.
Nella primavera del 1904 Rutherford andò a Londra per tenere una conferenza alla Royal Institution, l'augusta organizzazione fondata dal conte von Rumford soltanto 105 anni prima (eppure, quel periodo polveroso e parruccone ormai sembrava lontano un'eternità rispetto all'energico atteggiamento dell'epoca tardovittoriana, caratterizzato dal « rimboccarsi le maniche »). Rutherford si trovava lì per parlare della sua nuova teoria della radioattività, e per parlarne aveva portato con sé il pezzo di pecblenda. Con molta diplomazia - visto che il vecchio Kelvin, sebbene non sempre sveglio, era comunque lì presente - Rutherford fece notare che era stato lo stesso Kelvin a suggerire che l'eventuale scoperta di qualche altra fonte di calore avrebbe reso inservibili i suoi calcoli. Rutherford aveva scoperto quest'altra fonte: grazie alla radioattività la Terra poteva essere (e chiaramente era) molto più antica dei ventiquattro milioni di anni stabiliti da Kelvin nei suoi ultimi calcoli.
Kelvin accolse la rispettosa presentazione di Rutherford con un sorriso radioso, ma fu irremovibile. Non accettò mai la revisione dei calcoli, e fino all'ultimo giorno di vita considerò il proprio lavoro sull'età della Terra come il contributo più perspicace e importante da lui fornito alla scienza, di gran lunga superiore al suo lavoro sulla termodinamica.25
ti. Immaginate di avere un campione di materiale con un'emivita di 30 secondi Non è che ogni atomo del campione esisterà per esattamente 30 secondi o 60 secondi o 90 o qualche altro periodo prestabilito. Ogni atomo sopravviverà per un periodo di tempo del tutto casuale, che non ha niente a che vedere con i multipli di 30; può durare 2 secondi a partire da adesso, oppure può oscillare per gli anni, i decenni o i secoli a venire. Nessuno può saperlo: quello che possiamo dire è che per il campione preso nel suo complesso la velocità di decadimento sarà tale che metà dei suoi atomi decadrà in 30 secondi. In altre parole, si tratta di una velocità media, e la si può applicare a qualsiasi grande campione. Qualcuno ha calcolato, per esempio, che la moneta da 10 centesimi di dollaro ha un'emivita di circa 30 anni.
Come accade nel caso della maggior parte delle rivoluzioni scientifiche, le nuove scoperte di Rutherford non furono accolte favorevolmente da tutti. John Joly, da Dublino, continuò a insistere fino agli anni Trenta che la Terra non avesse più di ottantanove milioni di anni, e solo la morte potè chiudergli la bocca. Altri cominciarono a preoccuparsi del fatto che i tempi proposti da Rutherford fossero effettivamente troppo lunghi. Ma anche con la datazione radiometrica, termine con cui divennero poi note le misurazioni del decadimento, sarebbero occorsi decenni prima di giungere al miliardo di anni, cioè a una stima dell'età della Terra nell'ordine di grandezza di quella che le viene oggi attribuita. La scienza era sulla strada giusta, ma la meta era ancora molto lontana.
Kelvin morì nel 1907, anno che vide anche la morte di Dmitri Mendeleyev. Come Kelvin, anche Mendeleyev si era ormai lasciato alle spalle da tempo il lavoro più proficuo, ma i suoi ultimi anni di vita furono molto meno sereni. Invecchiando, divenne sempre più eccentrico e difficile (si rifiutò di accettare l'esistenza delle radiazioni, dell'elettrone e di ogni altra novità). Passò gli ultimi tempi tuonando irato in tutti i laboratori e le sale di conferenze d'Europa. Nel 1955 l'elemento 101 fu chiamato mendelevio in suo onore. «E giustamente » fa notare Paul Strathern « si tratta di un elemento instabile. »26
La storia della radiazione proseguì, in modi che nessuno si sarebbe aspettato. Agli inizi del secolo scorso, Pierre Curie cominciò ad avvertire chiaramente i primi segni della malattia da raggi (in particolare, dolori sordi alle ossa e una sensazione di malessere cronico) che senza dubbio sarebbe andata peggiorando. Non ne avremo mai la certezza, perché nel 1906 Pierre fu investito e ucciso da un'autovettura mentre attraversava una strada di Parigi.
Marie Curie passò il resto della vita distinguendosi per il lavoro sperimentale e contribuendo alla fondazione, nel 1914, del famoso Institut du Radium dell'università di Parigi. Nonostante i due premi Nobel, non fu mai eletta membro dell'Académie des Sciences. Ciò fu dovuto, soprattutto, al fatto che dopo la morte di Pierre ebbe una relazione con un fisico sposato, relazione che gestì in modo sufficientemente indiscreto da scandalizzare perfino i francesi, o almeno gli anziani che presiedevano l'Académie, il che forse è diverso.
Per lungo tempo, si continuò a pensare che un fenomeno come
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la radioattività, così miracolosamente associato all'energia, dovesse per forza essere benefico. Per anni, i fabbricanti di dentifrici e lassativi misero torio radioattivo nei loro prodotti, e almeno fino alla fine degli anni Venti, il Glen Spring Hotel, nella regione dei Finger Lakes di New York, reclamizzò con orgoglio gli effetti terapeutici delle sue «fonti minerali radioattive» (e senza dubbio il suo esempio fu seguito anche da altri alberghi).27 La presenza di materiali radioattivi fu bandita dai prodotti di consumo soltanto nel 1938.28 Per M.me Curie era ormai troppo tardi: morì di leucemia nel 1934. La radioattività in effetti è talmente pericolosa e resistente che ancora oggi tutti gli appunti presi da M.me Curie a partire dal 1890 in poi, e perfino i suoi ricettari di cucina, sono troppo pericolosi per essere maneggiati. I suoi appunti di laboratorio sono conservati in scatole piombate, e chi desidera consultarli deve indossare abiti protettivi.29
Grazie al lavoro devoto dei primi scienziati atomici, e ai rischi che essi corsero inconsapevolmente, agli inizi del ventesimo secolo l'idea che il nostro pianeta avesse senza dubbio un'età veneranda si stava affermando sempre più chiaramente. Affinché qualcuno potesse quantificare con una certa sicurezza quanto essa fosse veneranda, sarebbero tuttavia occorsi altri cinquantanni di scienza. Nel frattempo, la scienza stessa stava per entrare in un'altra era: quella atomica.
TERZA PARTE. Sorge una nuova era
«Un fisico è il modo che ha l'atomo di sapere qualche cosa sugli atomi. »
Anonimo
8. L'universo di Einstein
Mentre il diciannovesimo secolo volgeva al termine, gli scienziati potevano pensare con soddisfazione di aver chiarito quasi tutti i misteri del mondo fisico: elettricità, magnetismo, gas, ottica, acustica, cinetica e meccanica statistica, solo per citarne alcuni, erano tutti in ordine davanti ai loro occhi. Avevano scoperto i raggi X, il raggio catodico, l'elettrone, la radioattività; avevano istituito l'ohm, il watt, il kelvin, il joule, l'ampere e il piccolo ergon.
Se una cosa poteva esser fatta oscillare, oppure poteva essere accelerata, perturbata, distillata, combinata, pesata o trasformata in gas, loro l'avevano fatto, e nel farlo avevano prodotto un corpus di leggi universali di un'imponenza così magnifica che ancora oggi tendiamo a scriverle con la lettera maiuscola: il Campo Elettromagnetico, la Teoria della Luce, la Legge delle Proporzioni di Richter, le Leggi dei Gas di Charles, la Legge dei Volumi di Combinazione, la Legge Zero della Termodinamica, il Concetto di Valenza, la Legge di Azione di Massa e moltissime altre ancora. Il mondo intero sbuffava e sferragliava, pieno delle macchine e degli strumenti prodotti dal loro ingegno. Molte persone assennate erano convinte che alla scienza non restasse nient'altro da scoprire.
Nel 1875, quando Max Planck, un giovane tedesco di Kiel, stava decidendo se dedicare la sua vita alla matematica o alla fisica, gli fu consigliato caldamente di non scegliere la fisica perché in quel campo le scoperte importanti erano già state fatte tutte. Il secolo a venire, gli fu assicurato, sarebbe stato un periodo di consolidamento e perfezionamento, ma non di rivoluzione. Planck non diede ascolto a queste voci: si mise a studiare fisica teorica e si gettò anima e corpo nel lavoro sull'entropia, un concetto fondamentale della termodinamica, che sembrava avere in serbo molte promesse per
un giovane ambizioso.* Nel 1891 Planck divulgò i risultati delle proprie ricerche e apprese, con costernazione, che il lavoro più importante sull'entropia era già stato fatto da uno studioso della Yale University ormai prossimo alla pensione: J. Willard Gibbs.
Gibbs è forse la persona più geniale di cui molti abbiano sentito parlare. Modesto quasi al punto di rendersi invisibile, passò tutta la vita - a parte i tre anni di studio in Europa - entro i confini di un'area di tre isolati compresa fra casa sua e il campus di Yale a New Haven (Connecticut). Nei primi dieci anni trascorsi a Yale, non si preoccupò neanche di chiedere uno stipendio (poteva contare su mezzi suoi). Dal 1871 al 1903 - cioè da quando fu assunto come professore fino a quando morì - i suoi corsi attirarono una media di poco superiore a uno studente per semestre.21 I suoi scritti erano difficili da seguire e utilizzavano una forma di notazione personale che molti trovavano incomprensibile. Eppure, sepolte tra le sue formulazioni arcane, si trovavano intuizioni di somma genialità.
Tra il 1875 e il 1878 Gibbs scrisse una serie di articoli pubblicati in una raccolta intitolata On the Equìlibrium of Heterogeneous Substances e che spiegavano in maniera stupefacente i principi termodinamici... di quasi tutto: «gas, miscele, superfici, solidi, cambiamenti di fase [...] reazioni chimiche, celle elettrochimiche, sedimentazione e osmosi», per citare William H. Cropper.3 In sintesi, quel che fece Gibbs fu mostrare che la termodinamica non si applica solo al calore e all'energia, né solo sulla grande e rumorosa scala del motore a vapore, ma è presente e importante anche su scala atomica nelle reazioni chimiche.4 l'Equilibrium di Gibbs è stato definito «i Principia della termodinamica»;5 per ragioni che sfuggono a qualsiasi spiegazione, però, Gibbs decise
* Più specificamente, l'entropia è una misura della casualità o del disordine di un sistema. Darrell Ebbing, nel manuale Chimica generale, suggerisce, in modo molto utile, di pensare a un mazzo di carte. Si può dire che un mazzo appena estratto dalla confezione, in cui le carte sono ordinate per seme e dall'asso al re, si trovi in uno stato ordinato. Se si mescolano le carte, lo si mette in uno stato di disordine. L'entropia è un modo per misurare l'esatto grado di disordine di quello stato e per calcolare la probabilità di particolari risultati in seguito a rimescolamenti successivi. Per comprenderla appieno, è necessario comprendere concetti quali la non uniformità termica, le distanze reticolari e i rapporti stechiometrici. Ma l'idea generale è questa.
di pubblicare le sue osservazioni fondamentali su Transactions of the Connecticut Academy o/Arts and Sciences, una rivista sconosciuta persino nel Connecticut. Ecco perché Planck non sentì parlare di lui se non quando ormai era troppo tardi.
Senza scoraggiarsi - certo, forse un po' scoraggiato lo era -Planck si dedicò ad altre questioni.* Ce ne occuperemo tra poco: prima, però, dobbiamo fare una piccola (ma importante!) deviazione a Cleveland (Ohio) per visitare un'istituzione allora conosciuta come Case School of Applied Science. Lì, negli anni Ottanta, un fisico di mezza età di nome Albert Michelson, assistito dal suo amico Edward Morley, che era un chimico, si imbarcò in una serie di esperimenti che produssero risultati curiosi e inquietanti, risultati che avrebbero avuto enormi conseguenze su gran parte di ciò che avvenne in seguito.
Pur senza averne l'intenzione, Michelson e Morley minarono una convinzione consolidata da tempo, che postulava l'esistenza di un qualcosa denominato « etere luminifero »: un mezzo stabile, invisibile, senza peso, senza attrito - e purtroppo del tutto immaginario - che si pensava permeasse l'universo.
Concepito da Cartesio, abbracciato da Newton, e da allora venerato quasi da tutti, l'etere, quale spiegazione del modo in cui la luce viaggiava nel vuoto dello spazio, occupò una posizione di assoluta centralità nella fisica del diciannovesimo secolo. Esso si rivelò particolarmente necessario al principio dell'Ottocento, giacché allora luce ed elettromagnetismo erano immaginati come onde, ossia come tipi di vibrazioni. E le vibrazioni dovevano per forza aver luogo all'interno di qualcosa. Da qui la necessità del concetto di etere e la lunga devozione che gli fu tributata. Ancora nel 1909, il grande fisico inglese JJ. Thomson insisteva: « L'etere non è una creazione fantastica nata dalle speculazioni di un filosofo; esso ci è
* Nella vita, Planck fu spesso sfortunato. La sua prima moglie, amatissima, morì prematuramente nel 1909, e il figlio più giovane rimase ucciso nel corso della Prima guerra mondiale. Aveva anche due figlie gemelle, che adorava. Una delle due morì di parto. L'altra andò a occuparsi del bambino della sorella e si innamorò del cognato. Si sposarono e due anni dopo anche lei morì dando alla luce un bambino. Nel 1944, quando Planck aveva ottantacinque anni, una bomba alleata cadde sulla sua casa distruggendo tutto - documenti, diari, il lavoro di una vita. L'anno seguente l'unico figlio sopravvissuto fu giustiziato perché coinvolto in una cospirazione per assassinare Hitler.
necessario come l'aria che respiriamo». Questo fu asserito a distanza di oltre quattro anni dalla quasi incontestabile dimostrazione della sua non esistenza. Per farla breve, la gente si era davvero affezionata all'etere.
Se doveste spiegare l'idea dell'America come terra di grandi opportunità, tanto cara al diciannovesimo secolo, difficilmente potreste trovare un esempio più calzante della vita di Albert Michelson. Nato nel 1852 al confine fra Germania e Polonia da una famiglia di modestissimi commercianti ebrei, giunse negli Stati Uniti da bambino insieme alla sua famiglia, e crebbe in California, in un campo di minatori - erano i tempi della corsa all'oro - dove suo padre gestiva una merceria.6 Troppo povero per pagarsi il college, Albert se ne andò a Washington e prese l'abitudine di bighellonare davanti all'ingresso della Casa Bianca, in modo da imbattersi in Ulysses S. Grant quando il presidente usciva a fare la sua salutare passeggiata quotidiana (era senza dubbio un'epoca più innocente). Fu proprio nel corso di queste passeggiate che Michelson riuscì a ingraziarsi il presidente al punto che questi acconsentì a garantirgli un posto gratuito all'accademia navale. E fu lì che Michelson studiò fisica.
Dieci anni dopo, ormai professore alla Case School di Cleveland, Michelson si interessò alla misurazione di un fenomeno denominato «vento d'etere»: una sorta di vento di prua prodotto dagli oggetti in movimento mentre solcano lo spazio. Secondo una delle ipotesi della fisica newtoniana, la velocità della luce che viaggia nell'etere doveva variare, rispetto a un osservatore, a seconda che questi si muovesse in direzione della fonte di luce o se ne allontanasse. Ma nessuno era mai riuscito a escogitare un metodo per misurare questo fenomeno. A Michelson venne in mente che per metà dell'anno la Terra viaggia verso il Sole e per l'altra metà dell'anno se ne allontana; pensò quindi che effettuando misurazioni sufficientemente attente in stagioni opposte, e confrontando la velocità della luce nei due diversi periodi, sarebbe stato possibile ottenere la soluzione.
Michelson persuase Alexander Graham Bell - l'inventore che aveva appena fatto fortuna col telefono - a finanziare la costruzione di uno strumento ingegnoso e sensibile, da lui stesso progettato, in grado di misurare la velocità della luce con grande precisione. Poi,
assistito da Morley, l'amico affabile ma ombroso, Michelson si imbarcò in anni di puntigliose misurazioni. Il lavoro era delicato e faticoso e dovette essere sospeso per un po' di tempo, in modo da permettere a Michelson di farsi un esaurimento nervoso, breve ma serio; a ogni modo, nel 1887 Michelson e Morley avevano i loro risultati. E non erano affatto quelli che i due scienziati si aspettavano.
Come ha scritto l'astrofisico del Caltech, Kip S. Thorne: «La velocità della luce si rivelò la stessa in tutte le direzioni e in tutte le stagioni».7 In duecento anni - duecento anni esatti - quello fu il primo indizio che le leggi di Newton probabilmente non si applicavano sempre e dappertutto. Il risultato di Michelson-Morley divenne, come disse William H. Cropper, «probabilmente il più celebre risultato negativo nella storia della fisica».8 Per questo lavoro, Michelson ottenne un premio Nobel per la fisica - il primo americano al quale fu conferito - ma solo dopo vent'anni. Nel frattempo gli esperimenti di Michelson e Morley rimasero a incombere, come un odore di stantio, sullo sfondo del pensiero scientifico.
È straordinario constatare che, nonostante le sue scoperte, all'alba del ventesimo secolo Michelson fosse fra quelli che ritenevano il lavoro della scienza ormai vicino alla fine: fra quelli che, come qualcuno scrisse su Nature, pensavano rimanesse ormai solo « da aggiungere qualche torretta e qualche pinnacolo e da scolpire qualche altro ornamento sui tetti».9
In realtà, il mondo stava per entrare in un secolo di scienza in cui molti non avrebbero capito nulla e in cui più nessuno sarebbe riuscito a comprendere tutto. Ben presto, gli scienziati si sarebbero trovati alla deriva in uno sconcertante regno di particelle e antiparticelle, dove gli oggetti entravano e uscivano dall'esistenza in tempi così brevi da far sembrare lento e tranquillo, al confronto, lo scorrere dei nanosecondi; un luogo in cui tutto è molto strano. La scienza si stava trasformando, passando dal mondo della macrofisica - dove gli oggetti possono essere visti, tenuti in mano e pesati -a quello della microfisica, dove gli eventi hanno luogo con inconcepibile rapidità, su una scala dimensionale che è molto oltre i limiti della nostra immaginazione. Stavamo per entrare nell'era dei quanti, e la prima persona ad aprire quella porta fu Max Planck, l'uomo che fino a quel momento era stato tanto sfortunato.
Nel 1900, ormai fisico teorico presso l'università di Berlino, e
all'età non più verdissima di quarantadue anni, Planck inaugurò la nuova teoria dei quanti, postulando che l'energia non avesse un carattere continuo, come l'acqua che scorre, ma viaggiasse invece in pacchetti distinti, che egli chiamò, appunto, quanti. Questo era davvero un concetto nuovo, e di quelli buoni. A breve termine, avrebbe aiutato a risolvere il dilemma degli esperimenti di Michelson e Morley, dimostrando che dopotutto la luce non doveva necessariamente essere un'onda. A lungo termine, avrebbe invece gettato le fondamenta dell'intera fisica moderna. A ogni modo, fu la prima avvisaglia che il mondo stava per cambiare.
L'evento fondamentale, però, l'alba di una nuova era, si verificò nel 1905, quando sulla rivista tedesca Annalen der Physik apparve una serie di articoli scritti da un giovane funzionario svizzero; l'autore di quei lavori si presentava senza alcuna affiliazione universitaria, non aveva accesso a un laboratorio né poteva appoggiarsi regolarmente a una biblioteca più fornita di quella interna all'ufficio nazionale brevetti di Berna, dove era impiegato come esaminatore tecnico di terzo livello (la sua richiesta di promozione a esaminatore tecnico di secondo livello era stata appena rifiutata).
Costui era Albert Einstein, e in quel solo anno ricco di avvenimenti sottopose agli Annalen der Physik cinque articoli, tre dei quali, secondo C.P. Snow «erano tra i più grandi [scritti] nella storia della fisica».10 Uno di essi prendeva in esame l'effetto fotoelettrico servendosi della nuova teoria dei quanti di Planck, un altro verteva sul comportamento di piccole particelle in sospensione (i moti browniani), e un altro delineava una teoria della relatività speciale.
Il primo valse al suo autore un premio Nobel e chiarì la natura della luce (e, fra l'altro, contribuì a rendere possibile la televisione).* Il secondo fornì la prova definitiva dell'esistenza degli atomi -
* Einstein fu premiato con una motivazione vaga, ossia « per i servizi resi alla fisica teorica». Dovette attendere sedici anni, fino al 1921, per ricevere il premio, tutto considerato un tempo molto lungo; nulla, però, in confronto a Frederick Reines, che rilevò l'esistenza del neutrino nel 1957 ma ricevette il Nobel solo nel 1995, trentotto anni più tardi; o al tedesco Ernst Ruska, che inventò il microscopio elettronico nel 1932 e ricevette il Nobel nel 1986, a più di mezzo secolo di distanza. Poiché i premi Nobel non sono mai conferiti postumi, per assicurarsene uno la longevità può essere un fattore non meno importante della genialità.
esistenza che, sorprendentemente, era stata oggetto di qualche controversia. Il terzo, più semplicemente, cambiò il mondo.
Einstein nacque nel 1879 a Ulm, nel sud della Germania, ma crebbe a Monaco. Nei suoi primi anni di vita nulla lasciò intravedere la grandezza a venire. È noto che imparò a parlare solo verso i tre anni. Negli anni Novanta, l'azienda elettrica del padre fallì e la famiglia si trasferì a Milano, anche se Albert, allora adolescente, si recò in Svizzera per proseguire gli studi - tuttavia non superò gli esami di ammissione al primo tentativo. Nel 1896 rinunciò alla cittadinanza tedesca per evitare la leva militare e si iscrisse a un corso dell'istituto politecnico di Zurigo, mirato a formare insegnanti di scienze delle scuole superiori. Fu uno studente brillante, ma non eccezionale.
Si laureò nel 1900, e nel giro di qualche mese cominciò a collaborare agli Annalen der Physik. Il suo primissimo articolo, sulla fisica dei fluidi nelle cannucce per le bibite (fra tutte le cose possibili!) apparve nello stesso numero in cui fu pubblicata la teoria dei quanti di Planck.11 Dal 1902 al 1904 scrisse una serie di articoli di meccanica statistica, solo per scoprire che nel Connecticut un uomo schivo quanto solerte di nome J. Willard Gibbs aveva già trattato gli stessi argomenti nel suo Elementary Principles of Sta-tistical Mechanics, pubblicato nel 1901.12
Albert si era innamorato di una sua compagna d'università, una ragazza ungherese di nome Mileva Marie; nel 1901, senza essere ancora sposati, i due ebbero una figlia che, con molta discrezione, venne data in adozione. Einstein non la vide mai. Due anni dopo, lui e la Marie erano sposati. Nel frattempo, nel 1902, Einstein aveva cominciato a lavorare presso l'ufficio brevetti svizzero, dove rimase per i successivi sette anni. Il lavoro gli piaceva: era abbastanza stimolante da tenergli impegnata la mente, ma non al punto da distoglierlo dalla sua fisica. Questi furono dunque gli avvenimenti che fecero da sfondo alla produzione, nel 1905, della sua teoria della relatività speciale (o ristretta).
«Sull'elettrodinamica dei corpi in moto» è uno dei più straordinari articoli scientifici mai pubblicati: sia per come venne presentato, sia per ciò che diceva.13 L'articolo non aveva note né citazioni, conteneva pochissima matematica, non faceva menzione alcuna di lavori che lo avessero influenzato o preceduto, e ringraziava per l'aiuto una sola persona, Michele Besso, suo collega all'ufficio brevetti. Secondo C.P. Snow, fu come se Einstein « avesse raggiunto quelle conclusioni attraverso il pensiero puro, senza aiuto, senza ascoltare le opinioni di altri. Ed effettivamente, in larghissima misura, fu proprio così che ci arrivò».14
La sua famosa equazione E = me2 non compariva nell'articolo, ma fu presentata in un breve supplemento qualche mese più tardi. Come ricorderete dai tempi della scuola, la E sta per energia, la m per massa e e2 indica il quadrato della velocità della luce.
In termini molto semplici, l'equazione sostiene che tra massa ed energia esiste un'equivalenza. In altre parole, sono due forme della stessa cosa: l'energia è materia liberata, la materia è energia in attesa di divenire. Poiché e2 (la velocità della luce moltiplicata per se stessa) è un numero davvero enorme, l'equazione sostiene che, costretta all'interno di ogni oggetto materiale, si trova una quantità enorme - veramente enorme - di energia.*
Forse non vi sentite particolarmente robusti, ma se siete adulti di taglia media, il vostro corpo, pur nelle sue modeste dimensioni, non contiene meno di 7xl018 joule di energia potenziale - abbastanza per esplodere con la forza di trenta grandissime bombe all'idrogeno, dando per scontato che uno sappia come liberarla e sia davvero intenzionato a farlo.15 Tutti hanno, intrappolato dentro di sé, questo tipo di energia. Il fatto è che non siamo molto bravi a tirarlo fuori. Persino una bomba all'uranio - la cosa che sprigiona il maggior quantitativo di energia mai prodotto finora - libera meno dell'1 per cento dell'energia che potrebbe liberare se solo noi fossimo un po' più abili.16
Tra le tante altre cose, la teoria di Einstein spiega come funziona la radiazione: come fa un pezzo di uranio a rilasciare un flusso costante di energia ad alto livello senza sciogliersi come un cubetto di ghiaccio? (Lo fa convertendo massa in energia in modo molto
* Perché c sia diventato il simbolo della velocità della luce è quasi un mistero; David Bodanis ipotizza che esso probabilmente derivi dal latino celeritas, che significa appunto «velocità». Il volume rilevante dell''OxfordEnglish Dictìonary, redatto dieci anni prima della pubblicazione della teoria di Einstein, indica c come il simbolo di molte cose, dal carbone al cricket, ma non ne fa alcuna menzione come simbolo della luce o della velocità.
efficiente, à la E = me2.) Spiega come mai le stelle bruciano per miliardi di anni senza restare a corto di carburante (un problema al quale abbiamo accennato in precedenza). D'un colpo, con una semplice formula, Einstein concesse a geologi e astronomi il lusso di miliardi di anni. Soprattutto, la teoria della relatività speciale dimostrò che la velocità della luce era costante ed elevatissima. Nulla poteva superarla. Chiarì il cuore stesso delle nostre conoscenze sulla natura dell'universo. E non a caso risolse anche il problema dell'etere luminifero, dimostrando che non esisteva. L'universo di Einstein non ne aveva alcun bisogno.
Di regola i fisici non prestano eccessivo ascolto ai pronunciamenti teorici degli impiegati degli uffici di brevetti svizzeri e così, nonostante la dovizia di spunti utili in essi contenuti, gli articoli di Einstein suscitarono scarso interesse. Subito dopo aver risolto alcuni fra i più profondi misteri dell'universo, Einstein fece domanda per un incarico sia all'università, sia alle scuole superiori, ed entrambe le richieste furono respinte. Così se ne tornò al suo lavoro di esaminatore di terzo livello - anche se naturalmente continuò a pensare. Non aveva ancora assolutamente finito.
Una volta Paul Valéry chiese ad Einstein se usasse un taccuino per annotare le sue idee. Einstein lo guardò con un'aria di vaga ma autentica sorpresa. « Oh no, non mi serve » rispose. « È raro che mi venga un'idea.»17 Inutile sottolineare che quando gliene veniva una, di solito era di quelle buone. L'idea successiva di Einstein fu una delle più grandi che mai sfiorarono una mente umana -anzi, stando ad alcuni, fu la più grande di tutti i tempi (Boorse, Motz e Weaver, in particolare, nella loro accurata storia della fisica atomica scrivono: «in quanto creazione di una singola mente, si tratta senza dubbio della più alta realizzazione intellettuale dell'umanità»18). Il che è decisamente il miglior complimento che si possa ricevere.
A volte si è raccontato che nel 1907 Albert Einstein, avendo visto un operaio precipitare da un tetto, cominciò a ragionare sulla gravità. Come molte altre belle storielle, però, anche questa ha tutta l'aria di essere apocrifa. Secondo lo stesso Einstein, invece, il problema della gravità gli si era presentato mentre se ne stava semplicemente seduto su una sedia.19
In realtà, quello che venne in mente ad Einstein fu già qualcosa di simile all'inizio di una soluzione dei problemi posti dalla gravità: fin da subito, infatti, per lui era stato evidente che l'unica cosa che ancora mancava alla sua teoria della relatività speciale era proprio la gravità. Quel che c'era di «speciale» o di «ristretto» nella teoria, era che trattava oggetti che si muovevano in una fondamentale assenza di impedimenti. Ma cosa accadeva quando un oggetto in moto - e soprattutto la luce - incontrava un ostacolo come la gravità? Questa domanda avrebbe occupato i suoi pensieri per gran parte del decennio successivo, e avrebbe portato alla pubblicazione, agli inizi del 1917, di un articolo intitolato « Considerazioni cosmologiche sulla teoria della relatività generale ».20 La teoria della relatività speciale del 1905 era un lavoro profondo e importante, certo; d'altra parte, come ebbe a osservare una volta C.P. Snow, se non l'avesse pensata Einstein, lo avrebbe fatto qualcun altro, con ogni probabilità nei successivi cinque anni. Era insomma un'idea che aspettava di essere pensata. Ma la teoria generale era tutta un'altra cosa. « Se non l'avesse formulata lui » scrisse Snow nel 1979, «oggi la staremmo ancora aspettando.»21
Con la pipa, i capelli arruffati e quei suoi modi schivi, Einstein era un personaggio troppo splendido per rimanere nell'oscurità, e nel 1919, finita la guerra, tutto a un tratto il mondo si accorse di lui. Quasi immediatamente, le sue teorie della relatività si guadagnarono la reputazione di concetti inarrivabili per una persona normale. Come fa notare David Bodanis nel suo superbo libro E = me2, il New York Times di certo non semplificò le cose quando, avendo deciso di dedicare un servizio alla teoria della relatività, affidò l'intervista - per ragioni che non cesseranno mai di suscitare meraviglia - a Henry Crouch, un giornalista sportivo che si occupava di golf.
Il compito era sicuramente molto al di là della portata del povero Crouch, che infatti fraintese quasi tutto.22 Tra gli errori presenti nel suo articolo e destinati a esercitare un'influenza più duratura, c'era l'asserzione secondo cui Einstein avrebbe trovato un editore abbastanza audace da pubblicare un libro che solo dodici uomini « al mondo sarebbero stati in grado di comprendere ». Il libro, l'editore, e il circolo elitario dei dodici eruditi non esistevano, ma il concetto passò. Ben presto, nell'immaginazione della gente comune, il numero di persone capaci di comprendere la relatività
venne ulteriormente ridotto, e l'establishment scientifico fece ben poco, va detto, per smentire la leggenda.
Quando un giornalista chiese all'astronomo inglese Sir Arthur Eddington se davvero egli fosse una delle tre sole persone in grado di comprendere le teorie di Einstein, Eddington, dopo essersi soffermato un istante a riflettere, replicò: « Sto cercando di immaginare chi sia la terza ».23 In realtà, Il problema nel capire la relatività non stava tanto nel fatto che comportava moltissime equazioni differenziali, trasformazioni di Lorentz e altra matematica complicata (e comunque comportava effettivamente tutto questo, al punto che in alcuni casi lo stesso Einstein ebbe bisogno di aiuto), quanto piuttosto nel fatto che era spaventosamente contraria all'intuito.
In sostanza, la teoria della relatività afferma che spazio e tempo non sono assoluti ma relativi, sia rispetto all'osservatore, sia alle cose osservate, e più velocemente ci si muove, più questi effetti diventano pronunciati.24 Non potremo mai raggiungere la velocità della luce; quanto più ci proviamo e ci muoviamo velocemente, tanto più andiamo distorcendoci rispetto a un osservatore esterno.
Quasi immediatamente, i divulgatori scientifici cominciarono a cercare il modo di rendere accessibili questi concetti a un pubblico di profani. Uno dei tentativi più riusciti - almeno a livello commerciale - fu The abc of Relativity, scritto da Bertrand Russell, filosofo e matematico, il quale fece ricorso a un'immagine che poi fu ripresa molte volte. Russell chiedeva al lettore di immaginare un treno lungo novanta metri che si muovesse al sessanta per cento della velocità della luce. A chi si fosse trovato fermo sul binario, il treno sarebbe apparso lungo solo settantatré metri, e tutto quello che vi si trovava a bordo sarebbe sembrato altrettanto compresso. Se avessimo potuto ascoltare le discussioni dei passeggeri, le loro voci ci sarebbero sembrate lentissime e smozzicate, come un disco suonato a velocità troppo ridotta, e i loro movimenti sarebbero apparsi altrettanto pesanti. Persino gli orologi presenti sul treno avrebbero mostrato una velocità ridotta a quattro quinti di quella normale.
Invece, e qui sta il punto, i viaggiatori a bordo del treno non avrebbero avuto alcun sentore di queste distorsioni. A loro, tutto ciò che si trovava su quel treno sarebbe sembrato normalissimo. Saremmo stati noi, fermi sul marciapiede, ad apparirgli compressi e
rallentati in modo bizzarro. Dipende tutto dalla posizione dell'osservatore in relazione all'oggetto che si muove.
In realtà quest'effetto si verifica ogni volta che ci muoviamo. Se attraversiamo in volo gli Stati Uniti, scendiamo dall'aereo un quindicesimo di milionesimo di secondo (o qualcosa del genere) più giovani di quando ci siamo imbarcati. Si può alterare, di poco, la propria esperienza del tempo e dello spazio perfino limitandosi ad attraversare una stanza. È stato calcolato che nella sua traiettoria verso la base, una palla da baseball lanciata alla velocità di 160 chilometri orari, acquista 0,000000000002 grammi di massa.25 Gli effetti della relatività sono dunque reali e sono stati anche misurati. Il problema è che queste modificazioni sono di gran lunga troppo esigue per comportare una seppur minima differenza che sia direttamente percepibile da noi. Ma per altri oggetti presenti nell'universo - la luce, la gravità, l'universo stesso - sono invece rilevanti.
Quindi, se l'idea della relatività sembra bizzarra, è solo perché nella nostra vita quotidiana noi non sperimentiamo questi tipi di interazione. E comunque, tanto per ritornare a Bodanis, noi tutti ci imbattiamo comunemente in altri tipi di relatività, per esempio quella del suono.26 Se siamo al parco e sentiamo una musica fastidiosa, sappiamo che spostandoci in un punto più lontano la musica ci sembrerà più bassa. Questo non perché la musica si abbassa, è chiaro, ma semplicemente perché la nostra posizione in relazione a essa è cambiata. A qualcuno più piccolo e lento di noi - una chiocciola, tanto per dire - l'idea che un grosso stereo portatile possa apparire, a due osservatori in due punti diversi, come qualcosa che produce due differenti volumi dì musica simultaneamente potrebbe sembrare incredibile.
Il più impegnativo, e anche il meno immediatamente comprensibile, di tutti i concetti della teoria della relatività generale è l'idea che il tempo sia parte dello spazio. Per istinto, noi tendiamo a guardare al tempo come qualcosa di eterno, assoluto e immutabile: tendiamo a credere che niente possa alterarne il costante ticchettio. In realtà, secondo Einstein, il tempo è variabile e in continuo cambiamento. Come se non bastasse, possiede anche una forma. È legato - « inestricabilmente interconnesso » per usare le parole di Stephen Hawking - alle tre dimensioni dello spazio, attraverso una strana dimensione conosciuta come spazio-tempo.
Di solito, per spiegare lo spazio-tempo si chiede al lettore di immaginare qualcosa di piatto ma deformabile - per esempio un materassino o un foglio di gomma - sul quale sia stato posizionato un pesante oggetto rotondo, come una palla di ferro. Il peso della palla di ferro provoca una tensione del materiale su cui poggia, causandone l'avvallamento. A grandi linee, questo effetto è analogo a quello prodotto da un oggetto dotato di grande massa come il Sole (la palla di ferro) sullo spazio-tempo (il foglio di gomma): lo tende, lo curva e lo deforma. Ora, se fate rotolare lungo il tappeto una palla più piccola, questa tenderà a procedere in linea retta, come previsto dalle leggi del moto di Newton. Ma non appena raggiunte le vicinanze dell'oggetto voluminoso e l'avvallamento presente nel materiale su cui esso poggia, la palla più piccola rotolerà verso il basso inevitabilmente attratta dall'oggetto più massiccio. Ecco dunque la gravità: un prodotto della curvatura dello spazio-tempo.
Ogni oggetto dotato di massa produce una piccola depressione nel tessuto del cosmo. Come ha detto Dennis Overbye, l'universo è «la manifestazione ultima dei materassi infossati».27 Sotto questo punto di vista, la gravità non è tanto una cosa quanto piuttosto un risultato, « non una 'forza' ma un effetto collaterale della deformazione dello spazio-tempo», come ha affermato il fisico Michio Kaku, che poi prosegue: «in un certo senso la gravità non esiste; ciò che muove le stelle e i pianeti è la distorsione del tempo e dello spazio».28
Naturalmente, l'analogia con il materassino deformato non può portarci molto oltre perché non include l'effetto del tempo. D'altra parte, a questo punto è il nostro cervello a non poterci portare molto più lontano giacché è quasi assolutamente impossibile figurarsi una dimensione che comprenda tre direzioni per lo spazio e una per il tempo, tutte intrecciate come fili nel tessuto di un plaid. A ogni modo, penso che possiamo accordarci sul fatto che questo era un pensiero di profondità terribile per un giovane che guardava fuori dalla finestra di un ufficio brevetti nella capitale svizzera.
Tra le molte altre cose, la teoria della relatività generale di Einstein suggeriva che l'universo dovesse essere in espansione o in contrazione. Einstein però non era un cosmologo e accettò l'opinione
allora prevalente, di un universo fisso ed eterno. Più o meno ponderatamente, egli infilò nelle sue equazioni un qualcosa, denominato «costante cosmologica», che controbilanciava arbitrariamente gli effetti della gravità, svolgendo la funzione di una sorta di pulsante matematico di «pausa». I libri di storia della scienza perdonano sempre ad Einstein questo errore, sebbene in effetti si trattasse di un pessimo modello di scienza, e lui lo sapeva benissimo. Fu lui stesso a definirlo « il più grande strafalcione della mia vita».
Per coincidenza, quasi nello stesso periodo in cui Einstein aggiungeva la costante cosmologica alla sua teoria, presso il Lowell Observatory, in Arizona, un astronomo originario dell'Indiana che rispondeva al nome intergalattico di Vesto Slipher, era intento ad alcune letture spettrografiche di stelle distanti, quando scoprì che esse sembravano allontanarsi da noi. L'universo non era statico. Le stelle osservate da Slipher mostravano i segni inconfondibili dell'effetto Doppler - lo stesso meccanismo alla base di quel caratteristico prolungamento del suono, quello yee-yuuum, che fanno le macchine quando sfrecciano su una pista automobilistica.* Il fenomeno si applica anche alla luce; nel caso delle galassie che si allontanano è conosciuto come spostamento nel rosso, o rea shift (perché la luce che si allontana da noi si sposta verso la parte rossa dello spettro, mentre quella che si avvicina tende al blu).
Slipher fu il primo ad accorgersi di questo effetto con la luce e a comprenderne la potenziale importanza ai fini della conoscenza dei movimenti del cosmo. Purtroppo, nessuno gli diede retta più di tanto. Come ricorderete, il Lowell Observatory era un luogo considerato un po' strano per via dell'ossessione di Percival Lowell per i canali marziani (che nei primi anni del ventesimo secolo ne fece, in tutti i sensi, un avamposto dell'astronomia). Slipher era all'oscuro
* L'effetto Doppler prende il nome da Johann Christian Doppler, un fisico austriaco, che fu il primo a notarlo nel 1842. Molto brevemente, ecco ciò che accade: quando un oggetto in movimento si avvicina a un oggetto stazionario le onde sonore che esso emette tendono ad avvicinarsi « affollandosi » contro il ricevitore (le vostre orecchie, per esempio), proprio come vi aspettereste per qualsiasi cosa sia sospinta da dietro verso un oggetto immobile. Questo comprimersi delle onde sonore viene percepito da chi ascolta come un suono acuto (yee). Una volta che la fonte del suono ha oltrepassato il ricevitore, le onde tornano a distanziarsi e ad allungarsi provocando una caduta improvvisa del tono (lo yuuum).
della teoria della relatività di Einstein, così come il mondo era all'oscuro dell'esistenza di Slipher. La sua scoperta non ebbe quindi alcun impatto.
Tutto il merito sarebbe invece andato ad alimentare l'ego ipertrofico di Edwin Hubble. Hubble era nato nel 1889, dieci anni dopo Einstein, in una cittadina del Missouri al confine con le Ozarks, ed era cresciuto un po' lì e un po' a Wheaton, nei dintorni di Chicago. Suo padre era un dirigente di successo che lavorava nel campo delle assicurazioni, e quindi la vita di Edwin fu sempre agiata. Come se non bastasse, egli godette anche dei vantaggi di una robusta costituzione fisica. Era un atleta forte e dotato, un tipo affascinante, intelligente e di una bellezza straordinaria: «bello quasi da fargliene una colpa» secondo la descrizione di William H. Cropper, e « un Adone » secondo un altro ammiratore.29 Stando a quanto lui stesso raccontava, riuscì a includere nella sua vita, più o meno costantemente, vari atti di valore, salvando nuotatori sul punto di annegare, portando in salvo soldati sotto shock attraverso campi di battaglia francesi, mettendo in imbarazzo campioni del mondo di boxe menando cazzotti da KO nel corso di incontri amichevoli. Tutto troppo bello per essere vero. Infatti... Fra le sue tante doti, Hubble era anche un bugiardo incallito.
Questa era molto di più di un'insignificante stranezza, visto che nella vita Hubble si distinse fin da subito in modo esagerato. Nel 1906, in occasione di una competizione sportiva fra studenti delle scuole superiori, vinse le gare di salto con l'asta, lancio del peso, lancio del disco, lancio del martello, salto in alto da fermo e salto in alto con rincorsa. Ed era tra i componenti della squadra vincitrice della staffetta di un miglio. Ciò significa che collezionò sette primi posti nel corso di un'unica manifestazione, oltre a risultare terzo classificato nel salto in lungo. Quello stesso anno stabilì il record di salto in alto dello stato dell'Illinois.30
Come studente fu altrettanto capace, e non ebbe problemi a guadagnarsi l'ammissione agli studi di fisica e astronomia presso la University of Chicago (dove, per inciso, capo del dipartimento era Albert Michelson). Vinse poi la selezione per una borsa di studio a Oxford, e fu uno dei primi studenti stranieri a beneficiarne. Tre anni di vita inglese a quanto pare gli cambiarono la testa, perché nel 1913 se ne tornò a Wheaton con una mantella addosso, la pipa in bocca, e una parlata dal tono particolarmente ampolloso
(non proprio inglese ma quasi) che gli sarebbe rimasta a vita. In seguito dichiarò di aver trascorso la maggior parte del secondo decennio del secolo esercitando la professione legale nel Kentucky; in realtà però lavorò come insegnante di scuola superiore e allenatore di basket a New Albany (Indiana) prima di conseguire, con un certo ritardo, il dottorato e avere trascorso un breve periodo nell'esercito (arrivò in Francia un mese prima dell'armistizio e quasi sicuramente non ebbe mai modo di udire un solo sparo esploso con cattiveria).
Nel 1919, ormai trentenne, si trasferì in California per occupare un posto presso il Mount Wilson Observatory, nelle vicinanze di Los Angeles. Molto rapidamente, e in modo quasi del tutto inaspettato, divenne il più eminente astronomo del ventesimo secolo.
Vale la pena di fermarsi un momento a considerare quanto poco si sapesse del cosmo a quel tempo. Oggi gli astronomi ritengono che, nell'universo visibile, vi siano forse 140 miliardi di galassie. È un numero davvero enorme, molto più grande di quanto si possa immaginare limitandosi a pronunciarlo. Se le galassie fossero piselli congelati, ce ne sarebbero abbastanza per riempire un grande auditorium - un luogo come il vecchio Boston Garden, tanto per dire, o la Royal Albert Hall (è stato un astrofisico di nome Bruce Gregory a fare questo calcolo). Nel 1919, quando Hubble avvicinò per la prima volta la testa all'oculare di un telescopio, il numero delle galassie conosciute ammontava per l'esattezza a uno: la Via Lattea. Tutto il resto era ritenuto parte della stessa Via Lattea o, tutt'al più, uno dei molti sbuffi di gas, lontani e periferici. Hubble avrebbe presto mostrato a tutti quanto si sbagliavano.
Nel decennio successivo affrontò due delle più fondamentali domande sull'universo: quella riguardante la sua età e quella riguardante le sue dimensioni. Per rispondere a entrambe è necessario sapere due cose: quanto sono lontane alcune galassie e a quale velocità si stanno allontanando da noi (la loro velocità di recessione). Lo spostamento nel rosso fornisce la velocità di allontanamento delle galassie, ma non ci dice a che distanza siano all'inizio. Per calcolarlo servono delle « candele standard » - stelle la cui luminosità possa essere calcolata in modo ripetibile, utilizzate come riferimenti per misurare la luminosità (e di conseguenza la distanza relativa) delle altre stelle.
La fortuna di Hubble fu di arrivare sulla scena subito dopo che
una donna geniale, Henrietta Swan Leavitt, aveva trovato un modo per rintracciare queste stelle. Leavitt lavorava all'Harvard College Observatory con le mansioni di calcolatore - computer - come venivano chiamati allora questi specialisti. I calcolatori passavano la vita a studiare le lastre fotografiche delle stelle e a fare calcoli, il che spiega il loro nome. A parte il fatto che era indicata in un altro modo, era poco più che un'ingrata, faticosa routine; a quei tempi, però, fra le posizioni a cui una donna potesse aspirare, ad Harvard come altrove, era quanto di più vicino alla vera astronomia. Il sistema, sebbene iniquo, produsse tuttavia qualche involontario effetto positivo: implicò infatti che metà delle più belle menti disponibili all'epoca venissero indirizzate a un lavoro che altrimenti non avrebbe attirato un'attenzione profonda, e pertanto assicurò alle donne una comprensione della struttura fine del cosmo che spesso sfuggiva ai loro colleghi uomini.
Uno di questi computer di Harvard, Annie Jump Cannon, sfruttò la propria assidua frequentazione degli astri per mettere a punto un sistema di classificazione stellare così pratico da essere ancora in uso ai giorni nostri.31 Il contributo di Leavitt fu addirittura più profondo: si accorse che un tipo di stella nota come Variabile Cefeide (dal nome della costellazione di Cefeo, dove venne identificata la prima) pulsava a un ritmo regolare - una specie di cuore pulsante nel cosmo. Le cefeidi sono abbastanza rare, ma almeno una di esse è nota a tutti noi: la stella polare, Polaris, è una cefeide.
Adesso sappiamo che le cefeidi palpitano a quel modo perché sono stelle anziane che, per usare il linguaggio degli astronomi, hanno superato la fase della «sequenza principale» e sono diventate giganti rosse.32 La chimica delle giganti rosse è un po' troppo gravosa per rientrare nella nostra trattazione (richiede, oltre a tutto il resto, una comprensione delle proprietà dell'elio ionizzato); semplificando le cose, possiamo dire che queste stelle bruciano il combustibile residuo in modo da produrre un'alternanza ritmica estremamente costante di intensificazione e attenuazione della propria luminosità. Leavitt si dimostrò geniale nel comprendere che, confrontando la magnitudo relativa delle cefeidi in punti differenti del cielo, si poteva calcolare la loro distanza relativa. Si poteva, cioè, usarle come « candele standard », un termine che lei stessa coniò e che è ancora di uso universale.33 Il metodo forniva solo le distanze relative, e non quelle assolute, ma anche così era la prima volta che
qualcuno escogitava un sistema di utilità pratica per misurare l'universo su vasta scala.
Tanto per inserire queste intuizioni nella giusta prospettiva, vale forse la pena di ricordare che all'epoca in cui Leavitt e Cannon deducevano proprietà fondamentali del cosmo a partire dalle deboli tracce lasciate impresse da stelle remote sulle lastre fotografiche, l'astronomo di Harvard William H. Pickering - che ovviamente poteva scrutare i cieli con un telescopio di prima qualità ogni volta che lo desiderava - andava sviluppando una sua epocale teoria sulle macchie lunari, causate, a suo parere, da sciami di insetti impegnati nelle loro migrazioni stagionali.34
Avvalendosi dello standard cosmico offertogli dalla Leavitt e dei pratici spostamenti verso il rosso scoperti da Vesto Slipher, Hubble cominciò'a misurare punti specifici dello spazio con sguardo nuovo. Nel 1923 dimostrò che uno sbuffo visibile nella costellazione di Andromeda, noto come M31, così remoto da parere quasi immateriale, non era affatto una nube gassosa ma un bagliore di stelle, anzi una vera e propria galassia, del diametro di centomila anni luce, lontana da noi almeno novecentomila anni luce.35 L'universo era più vasto - immensamente più vasto - di quanto si fosse mai immaginato. Nel 1924 Hubble scrisse un articolo fondamentale, «Cepheids in Spirai Nebulae» (nebulae, che in latino significa « nubi », era il termine che scelse per indicare le galassie), nel quale dimostrò che l'universo non era costituito dalla sola Via Lattea ma da molte galassie indipendenti - « universi isola » - molti dei quali più grandi e assai più distanti della Via Lattea.
Questo solo risultato, da solo, sarebbe stato sufficiente a garantirgli la fama, ma Hubble decise invece di dedicarsi al compito di scoprire quanto effettivamente grande fosse l'universo, e fece una scoperta ancora più incredibile. Cominciò con la misurazione degli spettri delle galassie distanti - l'impresa già avviata da Slipher in Arizona. Usando il nuovo telescopio in dotazione a Mount Wilson, un Hooker da 100 pollici, e aiutandosi con qualche brillante deduzione, all'inizio degli anni Trenta aveva già scoperto che tutte le galassie del cielo (con la sola eccezione della regione locale in cui ci troviamo) si stanno allontanando da noi. Come se non bastasse, la loro velocità e la loro distanza sono proporzionali: quanto più lontana è una galassia, tanto più aumenta la sua velocità.
Questo era davvero sorprendente. L'universo si espandeva velocemente e costantemente in tutte le direzioni. Non ci volle una grande immaginazione per leggere questo dato a ritroso e capire che tutto doveva per forza essersi originato da un punto centrale. Lungi dall'essere il vuoto stabile, fisso ed eterno che tutti avevano sempre ritenuto, questo era un universo che aveva avuto un inizio. Pertanto, avrebbe potuto anche avere una fine.
Come ha rilevato Stephen Hawking, la vera meraviglia sta nel fatto che l'idea di un universo in espansione non fosse venuta a nessuno prima di allora.36 Un universo statico - come sarebbe dovuto risultare ovvio a Newton e, dopo di lui, a qualsiasi astronomo ci riflettesse - finirebbe per collassare su se stesso. Senza contare il problema delle stelle, che se davvero avessero continuato a bruciare all'infinito in un universo statico, ne avrebbero fatto un luogo intollerabilmente caldo - di sicuro troppo caldo per creature come noi. In un sol colpo, il concetto di universo in espansione risolse gran parte di questi problemi.
Hubble era molto più brillante come osservatore che come teorico e non comprese subito tutte le implicazioni della sua scoperta. In parte questo avvenne perché, deplorevolmente, ignorava la teoria della relatività generale di Einstein. La cosa è alquanto sorprendente, in primo luogo perché all'epoca Einstein e la sua teoria erano ormai famosi in tutto il mondo. In secondo luogo perché nel 1929 Albert Michelson (ormai negli anni del tramonto, ma ancora uno dei più attenti e stimati scienziati del mondo) aveva accettato l'incarico di misurare la velocità della luce con il suo fido interferometro proprio a Mount Wilson, e dunque doveva avergli almeno accennato al fatto che la teoria di Einstein era applicabile ai suoi risultati.
A ogni modo, Hubble, pur avendone l'opportunità, non riuscì a trarne alcun vantaggio teorico. Toccò invece al sacerdote-scienziato belga Georges Lemaìtre (con un PhD conseguito al MIT) mettere insieme le due cose nella sua « teoria dei fuochi d'artificio », nella quale si sosteneva che l'universo avesse avuto inizio come punto geometrico, un «atomo primigenio» che, dopo una grandiosa esplosione, aveva dato inizio all'allontanamento centrifugo. Fu un'idea che anticipava di molto la moderna concezione del Big Bang, ma era così in anticipo sul suo tempo che di rado Lemaìtre si guadagna qualcosa in più di quelle due o tre righe che anche noi gli abbiamo appena dedicato in questo capitolo. Sarebbero occorsi
alcuni decenni e l'accidentale scoperta, grazie a un'antenna disturbata, delle radiazioni cosmiche di fondo da parte di Penzias e Wilson, perché il mondo fosse pronto a considerare il Big Bang non un'idea interessante ma una teoria fondata.
Né Hubble né Einstein avrebbero avuto un ruolo importante in quella grande storia. Anche se all'epoca nessuno l'avrebbe mai detto, entrambi avevano già quasi del tutto esaurito il proprio contributo alla scienza.
Nel 1936 Hubble scrisse un libro famoso, The Realm of the Nehulae, che illustrava con uno stile incensatorio i propri importanti risultati.37 Finalmente però, mostrò di aver familiarizzato con la teoria di Einstein - a ogni modo, solo fino a un certo punto, giacché le dedicò solo quattro pagine su duecento.
Hubble morì di infarto nel 1953. Lo attendeva un'altra piccola stranezza. Per ragioni ancora avvolte nel mistero, la moglie si rifiutò di fargli il funerale e non rivelò mai a nessuno cosa avesse fatto del corpo. A distanza di mezzo secolo, resta ancora ignoto il luogo dove si trova il più grande astronomo del Novecento.38 Per poter ammirare un monumento alla sua memoria, dovete alzare lo sguardo al cielo in cerca del telescopio spaziale Hubble, lanciato in orbita nel 1990 e a lui dedicato.
9. L'atomo possente
Mentre Einstein e Hubble erano impegnati a svelare la struttura del cosmo su larga scala, altri scienziati lottavano per arrivare a comprendere qualcosa che, sebbene fosse più a portata di mano, era altrettanto inaccessibile: l'atomo, minuscolo e sempre misterioso.
Richard Feynman, il grande fisico del Caltech, una volta disse che se tutta la storia della scienza dovesse essere ridotta a un'unica affermazione importante, si tratterebbe di questa: «Tutte le cose sono fatte di atomi».1 Gli atomi sono dappertutto e formano ogni cosa. Guardatevi intorno. Tutto è fatto di atomi. Non solo gli oggetti solidi come muri, tavoli e divani, ma anche l'aria in cui sono immersi. E sono in quantità tali da essere davvero inconcepibili.
Gli atomi si aggregano formando unità funzionali fondamentali, dette molecole (da un vocabolo latino che significa « piccola massa»). Una molecola è composta da due o più atomi che cooperano in modo più o meno stabile: se prendiamo due atomi di idrogeno e ne aggiungiamo uno di ossigeno, otteniamo la molecola dell'acqua. I chimici tendono a pensare in termini di molecole più che di elementi, proprio come gli scrittori tendono a pensare in termini di parole più che di singole lettere; essi contano quindi le molecole, anch'esse a dir poco numerose. Sul livello del mare, a una temperatura di zero gradi Celsius, un centimetro cubico di aria (ossia uno spazio grande quanto una zolletta di zucchero) contiene quarantacinque miliardi di miliardi di molecole.2 Ed esse sono in ogni centimetro cubico intorno a noi. Pensate quanti centimetri cubici esistono al mondo, fuori dalla vostra finestra, e immaginate quante zollette di zucchero occorrerebbero per chiudervi completamente la visuale. E ora pensate a quante ce ne vorrebbero per costruire un universo. Per farla breve, atomi e molecole abbondano.
E sono anche straordinariamente duraturi. Avendo una vita lunghissima, gli atomi non restano nello stesso posto: ogni atomo del vostro corpo, prima di diventare parte di voi, è quasi sicuramente
passato attraverso diverse stelle e milioni di altri organismi. il nostro corpo contiene un numero così elevato di atomi, e viene riciclato così efficacemente dopo la morte, che un numero significativo degli atomi che lo compongono - qualcuno ha ipotizzato anche un miliardo - probabilmente un tempo era parte del corpo di Shakespeare.3 Un altro miliardo potrebbe provenire da Budda, da Genghis Khan, da Beethoven o da qualsiasi altro personaggio storico a piacere (deve trattarsi però di un personaggio effettivamente storico, poiché sembra che gli atomi impieghino qualche decennio per essere perfettamente ridistribuiti. Per quanto lo si possa desiderare, quindi, nessuno di noi è ancora tutt'uno con Elvis Presley).
Siamo tutti delle reincarnazioni, sebbene alquanto effimere. Quando moriremo, gli atomi che compongono il nostro corpo si separeranno e seguiranno un nuovo destino: forse diventeranno parte di una foglia, di un altro essere umano o di una goccia di rugiada. Gli atomi, in quanto tali, comunque, hanno una vita praticamente illimitata.4 Allo stato attuale nessuno sa quanto tempo possa sopravvivere un atomo, ma secondo Martin Rees, con ogni probabilità, si tratta all'incirca di 10^35 anni, un numero così elevato che perfino io sono ben felice di poterlo esprimere servendomi della notazione matematica.
La cosa principale, però, è che gli atomi sono minuscoli, veramente minuscoli. Supponiamo di allinearne mezzo milione uno dietro l'altro: questo piccolo esercito riuscirebbe a nascondersi tutto dietro un capello umano. Su una scala simile, un singolo atomo è essenzialmente un oggetto impossibile da immaginare; naturalmente, però, possiamo provare.
Partiamo da un millimetro, che è una linea di queste dimensioni: -. Ora immaginiamo di suddividere questa linea in mille parti: ognuna di esse è un micron. Questa è la scala dei microrganismi. Un tipico paramecio - una minuscola creatura unicellulare d'acqua dolce - misura, per esempio, circa 2 micron, o se preferite 0,002 millimetri: una taglia davvero piccolissima. Se volessimo vedere a occhio nudo un paramecio mentre nuota in una goccia d'acqua, dovremmo ingrandire la goccia fino a portare il suo diametro a 12 metri. Ma se in quella stessa goccia volessimo vedere gli atomi, dovremmo portare il suo diametro a ben 24 chilometri.5
In altre parole, nella loro estrema piccolezza, gli atomi appartengono a una scala di tutt'altro ordine. Per raggiungerla, occorre
suddividere ciascun micron in altre diecimila parti più piccole. Questa è la scala dell'atomo: un decimilionesimo di millimetro. Si tratta di una piccolezza che va molto oltre le capacità della nostra immaginazione; per farcene un'idea possiamo pensare che l'atomo sta al millimetro come lo spessore di un foglio di carta sta all'altezza dell'Empire State Building.
Naturalmente, a renderli tanto utili sono caratteristiche come l'abbondanza e l'estrema durevolezza, mentre sono le esigue dimensioni a renderli difficilissimi da individuare e da comprendere. L'intuizione che gli atomi hanno queste tre qualità - piccoli, numerosi e praticamente indistruttibili - e che essi costituiscono tutte le cose esistenti, venne la prima volta non ad Antoine-Laurent Lavoisier, come forse vi sareste aspettati, e nemmeno a Henry Cavendish o Humphry Davy, quanto piuttosto a un uomo di cui abbiamo già fatto conoscenza nel capitolo 7: John Dalton, un frugale quacchero inglese che aveva ricevuto un'istruzione scolastica non troppo profonda.
Dalton nacque nel 1766 sul confine del Lake District, vicino a Cockermouth - la stessa Cockermouth dove quattro anni dopo si sarebbe trasferito anche il poeta William Wordsworth - da una famiglia di poveri tessitori, quaccheri ferventi. Dalton fu uno scolaro di eccezionale intelligenza, tanto intelligente che all'improbabile età di dieci anni gli venne affidata la scuola quacchera del villaggio. Questo forse la dice lunga più sulla scuola che sulla precocità del maestro. O forse no: sappiamo dai suoi diari che più o meno in quel periodo già leggeva i Principia di Newton nella versione originale in latino e altre opere ugualmente impegnative. A quindici anni, ancora a capo della scuola, accettò un lavoro nella vicina città di Kendal, e di lì a dieci anni si trasferì a Manchester, da dove praticamente non si mosse più per i restanti cinquantanni della sua vita. A Manchester Dalton divenne una sorta di vortice intellettuale, e continuò a sfornare libri e articoli su argomenti che spaziavano dalla meteorologia alla grammatica. Il daltonismo, condizione dalla quale lui stesso era affetto, si chiama così proprio a causa degli studi che gli dedicò. A decretare la fama di Dalton, però, fu il libro intitolato A New System of Chemical Philosophy, pubblicato nel 1808.
In un breve capitolo di appena cinque pagine (in un libro che ne contava quasi novecento), le persone colte dell'epoca si imbatterono per la prima volta negli atomi in una forma che si avvicina alla loro moderna concezione. La semplice intuizione di Dalton fu che alla base di tutta la materia ci fossero particelle estremamente piccole, indivisibili. « Siamo in grado di creare o distruggere una particella di idrogeno» scrisse «né più né meno di come possiamo tentare di introdurre un nuovo pianeta nel sistema solare o di distruggerne uno già esistente. »6
Né il concetto di atomo, né lo stesso termine, però, erano davvero nuovi, giacché entrambi erano stati sviluppati dagli antichi greci. Il contributo di Dalton sta nell'aver considerato le dimensioni relative e le caratteristiche di questi atomi e il modo in cui essi si legavano. Egli sapeva, per esempio, che l'idrogeno era l'elemento più leggero e quindi gli attribuì peso atomico 1. Dalton era anche convinto che l'acqua fosse formata da 7 parti di ossigeno e una di idrogeno, e quindi attribuì all'ossigeno peso atomico 7. Con questo sistema arrivò al peso relativo degli elementi conosciuti. Non che fosse sempre precisissimo: il vero peso atomico dell'ossigeno, tanto per fare un esempio, è 16 e non 7; il principio però era sensato e pose le basi di tutta la chimica e di una buona parte delle altre scienze moderne.
Quest'opera rese Dalton famoso, sebbene un po' in tono minore, come ben si addiceva a un quacchero inglese. Nel 1826, il chimico francese P J. Pelletier andò a Manchester per incontrare l'eroe degli atomi.7 Pelletier si aspettava di trovare un uomo di scienza affiliato a un'importante istituzione. Rimase quindi molto sorpreso quando scoprì che insegnava l'aritmetica elementare ai bambini di una piccola scuola, in una stradina secondaria. Secondo lo storico della scienza E.J. Holmyard, Pelletier, tutto confuso al cospetto del grande uomo, balbettò:
«Est-ce que fai l'honneur de m'addresser à Monsieur Dalton?» poiché stentava a credere ai suoi occhi. Era dunque questo il chimico di fama europea? Un signore che insegnava a un bambino le quattro operazioni? «Sì» rispose il quacchero, senza complimenti. « Si vuole accomodare mentre correggo i compiti a questo ragazzo? »8
Sebbene cercasse di evitare tutti gli onori, Dalton fu nominato suo malgrado membro della Royal Society, ricoperto di medaglie e
dotato di una sostanziosa pensione governativa. Nel 1844, quando morì, quarantamila persone resero omaggio al feretro e il corteo funebre si snodò per una lunghezza di tre chilometri.9 Il Dictionary of National Biography gli dedica una delle sue voci più lunghe: fra quelle relative agli scienziati del diciannovesimo secolo, hanno pari estensione solo le voci di Darwin e Lyell.
Per un secolo l'ipotesi di Dalton rimase puramente speculativa; ci furono alcuni eminenti scienziati, in particolare il fisico viennese Ernst Mach - quello che diede il nome alla velocità del suono -, che dubitavano dell'esistenza stessa degli atomi. Fu proprio Mach a scrivere: « Gli atomi non possono essere percepiti dai sensi [...] sono prodotti del pensiero».10 Specie nei paesi di lingua tedesca, lo scetticismo nei confronti dell'esistenza dell'atomo era tale che si dice abbia avuto un peso nel suicidio di Ludwig Boltzmann, grande fisico teorico entusiasta sostenitore dell'atomo, che si tolse la vita nel 1906.11
Fu Einstein, nel 1905, a fornire la prima dimostrazione incontrovertibile dell'esistenza dell'atomo con il suo articolo sul moto browniano. L'articolo, tuttavia, attirò ben poca attenzione e comunque Einstein fu ben presto assorbito dal suo lavoro sulla relatività generale. Così, il primo vero eroe dell'era atomica, se non proprio il primo personaggio a calcarne la scena, fu Ernest Rutherford.
Rutherford nacque nel 1871 nell'entroterra della Nuova Zelanda, da genitori emigrati dalla Scozia per far crescere, parafrasando Steven Weinberg, poco lino e molti figli.12 Divenuto adulto nella parte più remota di un paese remoto, il giovane Rutherford era più che mai lontano dalle correnti del pensiero scientifico: nel 1895, però, vinse una borsa di studio che lo portò al Cavendish Laboratory della Cambridge University, in altre parole, in quello che stava per diventare il laboratorio di fisica più importante del mondo.
E noto che i fisici disprezzano tutti gli altri scienziati. Quando sua moglie lo lasciò per mettersi con un chimico, il grande fisico austriaco Wolfgang Pauli restò a bocca aperta per la sorpresa. « Se si fosse presa un torero, avrei anche potuto capirla» disse a un amico con tutto lo stupore di cui era capace, «ma un chimico...»13 Era un sentimento che Rutherford avrebbe condiviso.14 «Tutta
la scienza » disse una volta « o è fisica o è collezione di francobolli »: una frase che da allora è stata citata molto spesso. C'è dunque qualcosa di ironico nel fatto che, quando nel 1908 gli venne assegnato il Nobel, non fu per la fisica, ma proprio per la chimica.
Rutherford fu un uomo fortunato. Fortunato perché era un genio, ma fortunato anche perché visse in un'epoca in cui la fisica e (suo malgrado) la chimica erano estremamente esaltanti e compatibili. Mai più i campi d'interesse delle due scienze si sarebbero sovrapposti con tanta naturalezza.
Nonostante il suo successo, Rutherford non era un uomo particolarmente brillante, anzi in matematica proprio non era un gran che: spesso, mentre faceva lezione, si smarriva a tal punto fra le equazioni da doverle lasciare a metà, e chiedeva agli studenti di risolverle da sé per esercizio.15 Secondo James Chadwick- lo scopritore del neutrone, che lavorò a lungo con lui - Rutherford non se la cavava benissimo nemmeno con gli esperimenti. Era semplicemente una persona tenace e di larghe vedute. Alla brillantezza del genio suppliva con un'intelligenza acuta e una certa audacia intellettuale. Secondo il suo biografo Wilson, la mente di Rutherford era « sempre rivolta alla frontiera, fin dove riusciva a spingersi il suo sguardo: e [Rutherford] vedeva molto più in là della maggior parte degli uomini».16 Posto di fronte a un problema molto difficile, era pronto a lavorare più intensamente e più a lungo di chiunque altro, ed era il più recettivo verso le spiegazioni meno ortodosse. La sua più grande scoperta fu possibile proprio perché fu disposto a trascorrere ore indescrivibilmente noiose seduto davanti a uno schermo a contare le scintillazioni delle particelle alfa, come le chiamano i fisici. Un tipo di lavoro che di solito si delega ad altri. Rutherford fu uno dei primi, anzi forse il primo in assoluto, a capire che, se opportunamente imbrigliato, il potere insito nell'atomo poteva fornire bombe tanto potenti da «mandare in fumo questo vecchio mondo».17
Fisicamente era un uomo grosso e poderoso, con una voce rimbombante di fronte alla quale i timidi si facevano piccolissimi. Una volta un collega, essendo venuto a sapere che Rutherford stava per tentare una trasmissione radio attraverso l'Atlantico, chiese sarcastico: «Perché usa la radio?»18 Rutherford era animato da una fiducia sconfinata quanto bonaria. Quando qualcuno gli fece notare che sembrava essere sempre sulla cresta dell'onda, lui rispose: « Be', dopotutto le onde le ho inventate io, no? » C.P. Snow ricordava come una volta, in una sartoria di Cambridge, avesse sentito Rutherford commentare: « Ogni giorno aumento di circonferenza. E di intelligenza».19
Circonferenza e fama erano ancora molto lontane da lui, però, quando nel 1895 arrivò al Cavendish.* Quello fu un periodo straordinariamente denso di eventi per la scienza. Nell'anno in cui Rutherford giunse a Cambridge, nell'università tedesca di Wiirzburg, Wilhelm Roentgen scoprì i raggi X. L'anno dopo Henri Becquerel scoprì la radioattività. Lo stesso Cavendish Laboratory stava per vivere un lungo periodo di gloria: nel 1897 JJ. Thomson e colleghi avrebbero scoperto l'elettrone. Nel 1911 C.T.R. Wilson avrebbe prodotto il primo rivelatore di particelle (come vedremo presto). E nel 1932 James Chadwick scoprì il neutrone e in un futuro molto più lontano, nel 1953, sempre al Cavendish, James Watson e Francis Crick avrebbero descritto la struttura del DNA.
All'inizio, Rutherford lavorò sulle onde radio con un discreto successo. Riuscì a trasmettere un segnale nitido a più di un miglio di distanza: un progresso più che dignitoso per l'epoca. Tuttavia, abbandonò quelle ricerche, essendo stato persuaso da un collega più anziano che la radio non aveva futuro.20 Nel complesso, però, lì al Cavendish Rutherford non riusciva proprio a decollare. Dopo esserci rimasto tre anni, sentendo che non stava andando da nessuna parte, accettò quindi un posto alla McGill University di Montreal, dove ebbe inizio la sua lunga e costante ascesa verso la grandezza. Quando ricevette il Nobel (per «le ricerche sulla disintegrazione degli elementi e la chimica delle sostanze radioattive», stando alla motivazione ufficiale) si era ormai trasferito alla Manchester University. E fu proprio lì che avrebbe svolto il suo lavoro più importante, scoprendo la struttura e la natura dell'atomo.
Agli inizi del ventesimo secolo, già si sapeva che gli atomi contenevano diversi componenti (lo aveva stabilito la scoperta dell'elettrone di Thomson) ma non si sapeva quanti essi fossero, né come
* Il nome del laboratorio viene dalla stessa famiglia Cavendish che aveva generato Henry. In particolare si trattava di William Cavendish, settimo duca di Devonshire, matematico dotato e magnate dell'acciaio nell'Inghilterra vittoriana, il quale nel 1870 donò all'università 6300 sterline per la costruzione di un laboratorio sperimentale.
riuscissero a stare insieme o che forma avessero. Alcuni fisici ritenevano che gli atomi avessero forma cubica, perché i cubi si prestano a essere assemblati senza alcuno spreco di spazio.21 La convinzione più diffusa, però, era che un atomo somigliasse a un dolce con l'uva passa: un oggetto denso e solido portatore di una carica positiva, contenente dispersi al proprio interno gli elettroni a carica negativa.
Nel 1910, Rutherford (assistito dal suo allievo Hans Geiger, che in seguito avrebbe inventato il rivelatore di radiazioni che porta il suo nome) sparò su una sottile lamina d'oro un fascio di particelle alfa (in pratica, atomi di elio ionizzati).* Con sua grande meraviglia, alcune particelle rimbalzarono all'indietro. Fu come se avesse sparato un proiettile da 15 pollici su un foglio di carta, commentò poi, e quello gli fosse rimbalzato in grembo. Era un fatto assolutamente non previsto. Dopo lunghe riflessioni, comprese che ci poteva essere una sola spiegazione possibile: le particelle deflesse erano evidentemente andate a colpire qualcosa di estremamente piccolo e denso, posto al cuore dell'atomo, mentre le altre attraversavano la lamina senza incontrare ostacoli. Rutherford comprese così che l'atomo era composto in massima parte da uno spazio vuoto, con un nucleo molto denso al centro. Fu una scoperta estremamente gratificante, che tuttavia sollevò un problema immediato: stando a tutte le leggi della fisica convenzionale, l'atomo non sarebbe potuto esistere.
Fermiamoci un momento a considerare la struttura di un atomo così come la conosciamo oggi. Ogni atomo è composto da tre tipi di particelle elementari: i protoni, dotati di una carica elettrica positiva; gli elettroni, che possiedono una carica negativa; e i neutroni, che sono privi di carica. Protoni e neutroni sono stipati nel nucleo, mentre gli elettroni ruotano intorno a esso. Il numero di protoni è quello che conferisce all'atomo la sua identità chimica.22 Un atomo con un protone è un atomo di idrogeno, uno con due protoni è elio, con tre protoni litio, e così via aumentando il numero
* In seguito Geiger sarebbe diventato anche un convinto nazista, tradendo senza esitazione i suoi colleghi ebrei, compresi molti di quelli che lo avevano aiutato.
di protoni. A me è stato spiegato che, mentre i protoni danno all'atomo la sua identità, gli elettroni gli conferiscono personalità.
I neutroni non influiscono sull'identità di un atomo ma contribuiscono alla sua massa. Il numero dei neutroni in genere è circa lo stesso dei protoni, ma può variare leggermente per eccesso o per difetto. Aggiungendo o sottraendo uno o due neutroni a un atomo si ottiene un isotopo.23 I termini che si sentono pronunciare a proposito delle tecniche di datazione archeologiche si riferiscono proprio agli isotopi: il carbonio-14, per esempio, è un atomo di carbonio con sei protoni e otto neutroni (il numero quattordici indica la somma dei due tipi di particelle).
Neutroni e protoni si trovano nel nucleo dell'atomo. Il nucleo è piccolissimo, giacché occupa solo un milionesimo di un miliardesimo dell'intero volume di un atomo, ma è incredibilmente denso, contenendo quasi tutta la sua massa.24 Secondo Cropper, se un atomo venisse espanso sino a fargli assumere le dimensioni di una cattedrale, il suo nucleo non supererebbe quelle di una mosca; si tratterebbe tuttavia di una mosca molte migliaia di volte più pesante della cattedrale.25 Era di fronte a questa immensa spaziosità, a questa insospettata e risonante ampiezza, che Rutherford rifletteva perplesso nel 1910.
Il pensiero che gli atomi siano costituiti in massima parte da uno spazio vuoto - e che la solidità che sperimentiamo tutto intorno a noi sia illusoria - è ancora un'idea sconcertante. Nel mondo reale, quando due oggetti si incontrano (le palle da biliardo sono l'esempio a cui si ricorre più spesso) non si colpiscono: «piuttosto» spiega Timothy Ferris, «i campi a carica negativa delle due palle si respingono [...] se non fosse per quella carica, anche loro, come le galassie, potrebbero passare l'una attraverso l'altra incolumi».26 Quando ve ne state seduti in poltrona, non siete veramente a contatto con essa, ma lievitate a un'altezza di un angstrom (un cento-millionesimo di centimetro) da essa, poiché i vostri elettroni e quelli della poltrona si oppongono con fermezza a qualsiasi ulteriore intimità.
L'immagine dell'atomo che quasi tutti hanno in mente è quella di uno o due elettroni che ruotano attorno a un nucleo come pianeti in orbita attorno a un sole. Questa immagine fu creata nel 1904, basandosi su poco più che un'ipotesi intelligente, da un fisico giapponese di nome Hantaro Nagaoka. È completamente
sbagliata; tanto sbagliata quanto dura a morire. Come amava sottolineare Isaac Asimov, ha ispirato intere generazioni di scrittori di fantascienza, inducendoli a creare storie di mondi contenuti in altri mondi, in cui gli atomi diventavano minuscoli sistemi solari abitati, oppure il nostro sistema solare si rivelava un semplice granello all'interno di un disegno assai più vasto. Ancora oggi il CERN, Centro Europeo per la Ricerca Nucleare, usa l'immagine di Na-gaoka come logo per il suo sito web. In realtà, come tutti i fisici avrebbero presto compreso, gli elettroni non somigliano affatto a pianeti orbitanti, quanto piuttosto alle pale di un ventilatore, che cercano di riempire ogni porzione dello spazio presente nella loro orbita simultaneamente (con l'unica differenza che, mentre le pale del ventilatore sembrano essere dappertutto nello stesso istante, gli elettroni lo sono davvero).
Inutile dire che nel 1910, e per molti anni ancora, di tutto questo si sapeva ben poco. La scoperta di Rutherford presentava alcuni problemi importanti e immediati, soprattutto il fatto che nessun elettrone potrebbe orbitare attorno a un nucleo senza collassare su di esso. In base alla teoria convenzionale dell'elettrodinamica l'elettrone orbitante sarebbe rimasto a corto di energia molto rapidamente (più o meno in un istante), dopo di che avrebbe cominciato ad avvolgersi a spirale attorno al nucleo, con conseguenze disastrose per entrambi. Un altro problema consisteva nel capire come facessero i protoni, con tutte le loro cariche positive, ad ammassarsi nel nucleo senza esplodere mandando in pezzi se stessi e il resto dell'atomo. Era chiaro che qualsiasi cosa accadesse nel mondo dell'infinitamente piccolo, non era governata dalle leggi che si applicano al mondo macroscopico cui si riferiscono le nostre aspettative.
A mano a mano che i fisici si addentravano in questo regno subatomico, si rendevano conto che non solo esso era diverso da tutto quanto si conoscesse, ma anche da tutto quanto fosse mai stato immaginato. « Il comportamento atomico, essendo lontanissimo dalle esperienze ordinarie » osservò Richard Feynman, « appare peculiare e misterioso a chiunque, a chi inizia appena a studiare la fisica, come a chi ha anni di esperienza, e farci l'abitudine non è per niente facile. »27 Quando Feynman fece questa osservazione, i fisici avevano già avuto a disposizione mezzo secolo per abituarsi alla stranezza del comportamento atomico. Pensate quindi come dovettero sentirsi Rutherford e i suoi colleghi nel 1910, quando questi concetti erano nuovi di zecca.
Una delle persone che lavoravano con Rutherford era un giovane danese mite e affabile di nome Niels Bohr. Nel 1913, mentre rifletteva sconcertato sul problema della struttura dell'atomo, Bohr ebbe un'idea così esaltante da rinviare il viaggio di nozze per scrivere un articolo che sarebbe diventato una pietra miliare della letteratura scientifica.
Poiché non potevano vedere direttamente nessun oggetto delle dimensioni di un atomo, i fisici dovevano cercare di dedurne la struttura dal modo in cui si comportava quando veniva sollecitato in un certo modo, come aveva fatto Rutherford sparando le particelle alfa sulla lamina d'oro. A volte i risultati di questi esperimenti erano sconcertanti, il che non sorprende. Uno dei misteri più difficili da risolvere fu quello relativo alle analisi spettrografiche dell'idrogeno. Da questi spettri si evinceva che gli atomi di idrogeno emettevano energia a determinate lunghezze d'onda, ma non in corrispondenza di altre. Era come avere un individuo sotto sorveglianza, il quale continuasse a mostrarsi in determinati luoghi senza che però fosse mai possibile osservarlo durante gli spostamenti da un luogo all'altro. Nessuno riusciva a spiegarsi come potesse succedere una cosa del genere.
Mentre si arrovellava su questo problema, Bohr ebbe una folgorazione e scrisse di getto il suo famoso articolo. Intitolato « On the Constitution of Atoms and Molecules », esso spiegava come gli elettroni riuscissero a evitare di precipitare sul nucleo, ipotizzando che essi potessero occupare solo determinate orbite ben definite. Secondo la nuova teoria, quando un elettrone si sposta da un'orbita all'altra, scompare da una per riapparire istantaneamente nell'altra senza passare per lo spazio che le separa. Quest'idea, il famoso « salto quantico », è ovviamente alquanto bizzarra, ma era anche troppo buona per non essere vera. Non solo impediva agli elettroni dì precipitare sul nucleo descrivendo una catastrofica spirale intorno a esso, ma spiegava anche gli sconcertanti spettri dell'idrogeno. Gli elettroni apparivano solo in determinate orbite perché effettivamente esistevano solo in determinate orbite. Era una splendida
intuizione, e nel 1922 - un anno dopo Einstein - valse a Bohr il premio Nobel per la fisica.
Nel frattempo l'infaticabile Rutherford (tornato a Cambridge per sostituire J.J. Thomson a capo del Cavendish Laboratory) escogitò un modello per spiegare come mai i nuclei non esplodessero. Rutherford fece notare che la carica positiva dei protoni doveva essere controbilanciata da un particolare tipo di particella neutralizzante a cui diede appunto il nome di neutrone. L'idea era semplice e affascinante, ma non facile da dimostrare. Il collega di Rutherford, James Chadwick, impiegò undici anni di intenso lavoro sulle tracce dei neutroni, prima di raggiungere finalmente lo scopo nel 1932. Anche Chadwick, nel 1935, vinse un premio Nobel per la fisica. Come hanno sottolineato Boorse e i suoi colleghi, il ritardo nella scoperta fu con ogni probabilità un'ottima cosa, visto che il controllo sui neutroni si rivelò essenziale per lo sviluppo della bomba atomica. (Poiché non hanno carica, i neutroni non vengono respinti dai campi elettrici che stanno al centro di un atomo, e quindi possono essere sparati come minuscoli siluri dentro al nucleo, innescando il processo distruttivo conosciuto con il nome di fissione.) Se il neutrone fosse stato isolato negli anni Venti, sottolineano Boorse e colleghi, « molto probabilmente la bomba atomica sarebbe stata inventata prima in Europa, senza dubbio dai tedeschi».28
Per fortuna le cose presero un'altra piega, e in quel periodo gli europei ebbero il loro buon daffare a capire lo strano comportamento dell'elettrone. Il problema principale che avevano di fronte era che l'elettrone a volte si comportava come una particella e a volte come un'onda. Questa assurda dualità fece quasi impazzire i fisici. Nei successivi dieci anni, in tutta Europa si continuò furiosamente a pensare e a scrivere offrendo ipotesi contrastanti. In Francia, il principe Louis-Victor de Broglie, rampollo di una nobile famiglia, scoprì che certe anomalie nel comportamento degli elettroni scomparivano quando li si considerava come onde. La scoperta attirò l'attenzione dell'austriaco Erwin Schròdinger, che le apportò alcuni abili perfezionamenti e mise a punto un sistema pratico detto meccanica ondulatoria. Quasi nello stesso momento, il fisico tedesco Werner Heisenberg emerse con una teoria rivale detta meccanica delle matrici. Questa era così complessa a livello matematico, da risultare difficilmente comprensibile per chiunque,
incluso lo stesso Heisenberg. « Nemmeno io so che cosa sia una matrice» si lamentò una volta Heisenberg con un amico.29 Malgrado ciò, essa sembrava risolvere alcuni problemi che le onde di Schròdinger non riuscivano a spiegare.
In definitiva, la fisica si ritrovò con due teorie che, seppur basate su premesse contrarie, producevano lo stesso risultato. Era una situazione impossibile.
Alla fine, nel 1926, Heisenberg trovò il celebre compromesso: una nuova disciplina che divenne poi nota col nome di meccanica quantistica. Al cuore di essa, c'era il principio di indeterminazione di Heisenberg, secondo il quale l'elettrone è sì una particella, ma una particella che può essere descritta in termini di onde. L'incertezza attorno alla quale è costruita la teoria risiede nel fatto che noi possiamo conoscere la traiettoria di un elettrone che si muove nello spazio, oppure possiamo sapere dove si trova in un preciso istante, ma non possiamo mai sapere entrambe le cose.* Qualsiasi tentativo di misurare uno dei due dati inevitabilmente disturberà l'altro. Non è una semplice questione determinata dal bisogno di strumenti più precisi: si tratta, piuttosto, di una proprietà immutabile dell'universo.30
In pratica, questo significa che non si può mai prevedere dove si trovi un elettrone in un dato istante. Si può solo valutare la probabilità che si trovi lì. Come ha detto Dennis Overbye, in un certo senso un elettrone non esiste finché qualcuno non lo osserva. Oppure, per dirlo in modo leggermente diverso, finché un elettrone non viene individuato, esso è « simultaneamente dappertutto e da nessuna parte».31
Se vi sembra che tutto questo generi una gran confusione, può darsi che troviate confortante apprendere che anche i fisici di allora si sentivano confusi. Come racconta Overbye: «Bohr una volta commentò che se una persona non si indignava nell'ascoltare per
* Vi è una piccola incertezza circa l'uso del termine uncertainty rispetto al principio di Heisenberg. Michael Frayn, in una postilla al suo lavoro teatrale Copenhagen, osserva che diversi traduttori verso il tedesco hanno usato molti termini - Unsicherheit, JJnschàrfe, Ungenauigkeit e Unbestimmtheit - ma che nessuno corrisponde esattamente all'inglese uncertainty, Frayn sostiene che inde-terminacy sarebbe più appropriato di uncertainty e che indeterminability sarebbe ancora meglio. Lo stesso Heisenberg di solito usava Unbestimmtheit.
la prima volta la teoria dei quanti, voleva dire che non aveva capito quello di cui si stava parlando ».32 Quando gli fu chiesto come ci si poteva immaginare un atomo, Heisenberg rispose: «Lasciate perdere».33
L'atomo risultò dunque abbastanza diverso dall'immagine che molti se ne erano fatta. L'elettrone non orbita intorno al nucleo come un pianeta attorno al Sole, ma ha invece l'aspetto più amorfo di una nuvola. Il «guscio» dell'atomo non è un involucro duro o lucente, come le illustrazioni talvolta ci incoraggiano a credere, ma semplicemente la più periferica di queste nuvole di elettroni dai contorni sfumati. La nuvola stessa è essenzialmente una regione di probabilità statistica che delimita i confini oltre i quali l'elettrone si spinge molto di rado.34 Pertanto, se lo si potesse vedere, apparirebbe più come una palla da tennis molto lanuginosa che come una compatta sfera metallica dai contorni netti (senza somigliare davvero, però, né all'una né all'altra, né in effetti a qualsiasi cosa mai vista da un essere umano: dopotutto, abbiamo a che fare con un mondo molto diverso da quello della nostra esperienza).
Sembrava che le stranezze non dovessero mai aver fine. Per la prima volta, come ha detto James Trefil, gli scienziati si erano imbattuti in « un settore dell'universo che il nostro cervello proprio non era attrezzato a comprendere».35 O per dirla con Feynman, « le cose, in scala così piccola, funzionano in modo del tutto diverso che su larga scala ».36 A mano a mano che i fisici indagavano più a fondo, compresero di aver scoperto un mondo dove non solo gli elettroni potevano saltare da un'orbita all'altra senza attraversare lo spazio intermedio, ma dove la materia poteva entrare in essere dal nulla assoluto - « a condizione però di sparire poi con sufficiente rapidità», come disse Alan Lightman del MIT.37
Forse la più sensazionale delle assurdità quantistiche è l'idea -derivante dal principio di esclusione proposto da Wolfgang Pauli nel 1925 - che certi tipi di particelle subatomiche, quand'anche siano separate dalle più considerevoli distanze, possano « sapere », a ogni istante, che cosa stia facendo l'altra. Le particelle hanno una qualità conosciuta come spin e, secondo la teoria dei quanti, nel momento in cui si determina lo spin di una particella, la sua particella sorella, a prescindere dalla distanza, comincerà immediatamente a ruotare in direzione opposta e alla stessa velocità.
Come ha detto lo scrittore scientifico Lawrence Joseph, è come
se uno avesse due palle da biliardo identiche, una nell'Ohio e l'altra alle Fiji, e nell'istante in cui ne facesse rotolare una, l'altra iniziasse a ruotare subito in direzione opposta e alla stessa identica velocità.38 È straordinario che nel 1997 si sia riusciti a dimostrare il fenomeno: i fisici dell'università di Ginevra inviarono dei fotoni a distanza di oltre undici chilometri e in direzioni opposte, e dimostrarono che l'interferenza con uno di essi provocava un'istantanea risposta dell'altro.39
Le cose giunsero a tal punto che, durante una conferenza, parlando della valutazione di una nuova teoria, Bohr affermò che non era questione di stabilire se essa fosse folle, ma se lo fosse abbastanza. Per illustrare la natura non consequenziale del mondo dei quanti, Schròdinger offrì un famoso esperimento immaginario: un ipotetico gatto veniva piazzato in una scatola insieme a un atomo di sostanza radioattiva collegato a una fiala di acido cianidrico. Se la particella fosse decaduta entro un'ora, avrebbe azionato un meccanismo che avrebbe rotto la fiala e avvelenato il gatto. In caso contrario, il gatto sarebbe sopravvissuto. Ma siccome non c'era modo di saperlo, scientificamente parlando, non restava altro che considerare il gatto vivo al cento per cento e nello stesso tempo morto al cento per cento. Il che significa, come ha fatto notare Stephen Hawking con un pizzico di comprensibile eccitamento, che «se non si riesce a misurare con precisione lo stato attuale dell'universo» non c'è neanche modo di «prevedere con esattezza gli eventi futuri! »40
Molti fisici - e soprattutto Einstein - disdegnarono la teoria dei quanti, o almeno certi suoi aspetti, a causa della sua stravaganza. La cosa è abbastanza paradossale, se si considera che fu proprio Einstein, nel suo annus mirabilis 1905, a spiegare in maniera tanto convincente che i fotoni di luce potevano comportarsi a volte come particelle e a volte come onde: il concetto che sta al cuore stesso della nuova fisica. «La teoria dei quanti è davvero degna di nota» osservò molto educatamente, sebbene a lui non piacesse per niente. «Dio non gioca a dadi» disse.*
* Quanto meno, è così che quasi sempre viene riportata questa frase. La citazione esatta è: «Sembra difficile dare una sbirciata alle carte di Dio. Ma che egli giochi a dadi e usi metodi 'telepatici' [...] è qualcosa a cui non posso credere nemmeno per un attimo ».
Einstein non poteva tollerare l'idea che Dio avesse creato un universo contenente alcune cose destinate a rimanere inconoscibili per sempre. Per di più l'azione a distanza (che una particella potesse istantaneamente influenzarne un'altra lontana trilioni di chilometri) era una totale violazione della teoria della relatività speciale. Nulla poteva superare la velocità della luce: eppure, ecco che alcuni fisici insistevano sul fatto che, in qualche modo, a livello subatomico, l'informazione poteva superarla. Guarda caso, nessuno aveva mai spiegato come facessero le particelle a compiere questa impresa. Stando al fisico Yakir Aharanov, gli scienziati si erano misurati con questo problema « evitando di pensarci e basta ».41
Il problema stava soprattutto nel fatto che la fisica quantistica introduceva un livello di disordine mai esistito in precedenza. Improvvisamente, occorrevano due serie di leggi per spiegare il comportamento dell'universo: la teoria dei quanti per il mondo dell'in-finitamente piccolo e la relatività per l'universo più vasto. La gravità, così come compare nella teoria della relatività, è geniale nello spiegare perché i pianeti orbitino intorno al Sole o perché le galassie tendano ad ammassarsi. Ma si rivelava del tutto priva di influenza a livello delle particelle. Per spiegare che cosa tenesse assieme gli atomi occorrevano altre forze, e intorno al 1930 se ne scoprirono due: l'interazione nucleare forte e l'interazione nucleare debole. La prima tiene assieme gli atomi (è quella che consente ai protoni di rimanere coesi nel nucleo). La seconda è impegnata in compiti più vari, la maggior parte dei quali ha a che fare con il controllo della velocità di alcuni tipi di decadimento radioattivo.
A dispetto del nome, l'interazione nucleare debole è dieci miliardi di miliardi di miliardi di volte più forte della gravità, e l'interazione nucleare forte è ancora più potente (immensamente più potente); l'influenza di queste due forze, però, si esercita solo sulle piccolissime distanze.42 L'interazione forte ha un raggio d'azione limitato a un centesimo di millesimo circa del diametro di un atomo.43 Ecco perché i nuclei degli atomi sono così densi e compatti, e perché gli elementi con grandi nuclei affollati di particelle tendono a essere tanto instabili: l'interazione nucleare forte, nel loro caso, non è in grado di tenere assieme tutti quei protoni.
In definitiva, quindi, la fisica si trovò con due insiemi di leggi che, per così dire, conducevano vite del tutto separate: uno valido nel mondo dell'infinitamente piccolo e l'altro nell'universo in generale. E anche questa era una cosa che ad Einstein non piaceva affatto, tant'è che dedicò il resto della sua vita alla ricerca di un modo per mettere insieme questi due estremi, tentando di trovare una Grande Teoria Unificata. Ma quei tentativi fallirono sempre. Di tanto in tanto pensava di avercela fatta, ma alla fine la cosa gli si disfaceva sempre tra le mani. Con il passare del tempo divenne sempre più emarginato, e anche un po' commiserato. Quasi senza eccezione, ha scritto Snow, « i suoi colleghi pensavano, e pensano ancora, che abbia sprecato la seconda metà della sua vita».44
Altrove, comunque, si facevano grandi progressi. A metà degli anni Quaranta, gli scienziati avevano raggiunto una conoscenza dell'atomo estremamente profonda, come dimostrarono fin troppo bene nell'agosto del 1945, facendo esplodere due bombe atomiche sul Giappone.
A questo punto possiamo perdonare ai fisici la presunzione di aver conquistato l'atomo. In realtà, nella fisica delle particelle tutto stava per diventare ancora più complesso. Ma prima di avventurarci in quella storia alquanto impegnativa, dobbiamo recuperare un altro filo del nostro racconto, occupandoci di alcune vicende che possono rappresentare un'importante e salutare lezione: ci aspetta una storia di avarizia, inganno, cattiva scienza, diverse morti inutili, coronata infine dalla determinazione dell'età della Terra.
10. Il piombo al bando
Verso la fine degli anni Quaranta, Qair Patterson (che nonostante il nome di battesimo era un ragazzo dell'Iowa di origini contadine), allora specializzando presso la University of Chicago, stava usando un nuovo metodo per la misurazione degli isotopi del piombo nel tentativo di dare alla Terra un'età definitiva. Purtroppo, si ritrovava sempre tutti i campioni di roccia contaminati, di solito in misura molto pesante. La maggior parte di essi presentava livelli di piombo circa duecento volte superiori a quelli che ci si sarebbe aspettati di riscontrare in condizioni normali. Sarebbero passati molti anni prima che Patterson scoprisse che la ragione di ciò era da ricondursi a Thomas Midgley Junior, un esecrabile inventore dell'Ohio.
Midgley aveva una formazione da ingegnere, e se avesse effettivamente fatto il suo lavoro, il mondo sarebbe rimasto senza dubbio un luogo più sicuro. Invece si appassionò alle applicazioni industriali della chimica. Nel 1921, mentre lavorava per la General Motors Research Corporation di Dayton, nell'Ohio, studiò le proprietà di un composto chiamato piombo tetraetile (noto anche, il che genera una certa confusione, come tetraetile di piombo) e scoprì che riduceva molto il cosiddetto fenomeno del «motore che batte in testa», caratterizzato da scosse e vibrazioni dei veicoli a benzina.
Sebbene si sapesse che era pericoloso, nei primi anni del ventesimo secolo il piombo era presente in una gran quantità di prodotti di largo consumo. Il cibo era conservato in lattine saldate con il piombo. L'acqua veniva spesso tenuta in cisterne rivestite di piombo. L'arseniato di piombo veniva spruzzato sulla frutta come pesticida. Il piombo si ritrovava persino nella composizione dei tubetti per il dentifricio. Praticamente non esisteva un prodotto che non immettesse un po' di piombo nella vita dei consumatori. A consentirgli una maggiore e più duratura intimità con noi, però, nulla contribuì più efficacemente della sua aggiunta ai carburanti.
Il piombo è una neurotossina. Un'esposizione eccessiva causa danni irreparabili al cervello e al sistema nervoso centrale. Tra i molti sintomi associati alla sovraesposizione al piombo possiamo annoverare cecità, insonnia, insufficienza renale, perdita dell'udito, cancro, paralisi e convulsioni.1 Nella sua forma più acuta, la sovraesposizione al piombo produce improvvise, spaventose allucinazioni - sconvolgenti sia per le vittime sia per chi vi assiste - che di solito portano al coma e alla morte. Davvero non è il caso di assumerne troppo.
D'altro canto, il piombo era facile da estrarre e da lavorare, e la sua produzione industriale era talmente rimunerativa da risultare quasi imbarazzante; a questo si aggiunga che indubbiamente il piombo tetraetile riduce il fastidio del motore che batte in testa. Fu così che nel 1923 tre delle più grandi società di capitali americane - la General Motors, la DuPont e la Standard Oil del New Jersey - formarono un'impresa in compartecipazione, chiamandola Ethyi Gasoline Corporation (più tardi abbreviata in Ethyl Corporation) con l'intenzione di produrre tutto il piombo tetraetile che il mondo fosse disposto ad acquistare, una quantità che si rivelò davvero enorme. Denominarono il loro additivo etile perché aveva un suono più rassicurante e meno tossico di piombo, e lo introdussero sul mercato (in modo molto più capillare di quanto i consumatori si resero conto) l'1 febbraio del 1923.
Quasi immediatamente, gli operai addetti alla produzione cominciarono a mostrare la tipica andatura barcollante e la confusione mentale caratteristica dei soggetti con avvelenamento recente. Quasi con pari subitaneità, la Ethyl Corporation avviò una politica di smentita, tanto compassata quanto inflessibile, che le avrebbe reso ottimi servigi per interi decenni a venire. Come racconta Sha-ron Bertsch McGrayne nella sua appassionante storia della chimica industriale, Vrometheans in the Lab, quando in un impianto gli operai caddero in uno stato di irreversibile delirio, un portavoce informò i giornalisti dichiarando con indifferenza che con ogni probabilità quelle persone erano impazzite «a causa del troppo lavoro».2 In totale, nei primi giorni di produzione della benzina addizionata con piombo, morirono almeno quindici lavoratori, e un numero imprecisato si ammalò, spesso molto gravemente. Le cifre esatte restano ignote perché l'azienda riuscì quasi sempre a mettere a tacere imbarazzanti notizie di perdite, fuoriuscite e avvelenamenti. A volte però soffocare le notizie diventava impossibile. Il caso più evidente si verificò nel 1924 quando, nel giro di pochi giorni, in un unico impianto mal ventilato, cinque operai addetti alla produzione morirono e altri trentacinque furono irreversibilmente ridotti a poveri relitti barcollanti.
Poiché le voci sui rischi associati al nuovo prodotto andavano diffondendosi, l'esuberante inventore del piombo tetraetile, Thomas Midgley, decise di tenere una dimostrazione pubblica per la stampa, al fine di placare ogni preoccupazione. Mentre cianciava a proposito dell'impegno della Ethyl Corporation per garantire la sicurezza, si versò del piombo tetraetile sulle mani, poi si avvicinò al naso un recipiente pieno della sostanza e ve lo tenne per sessanta secondi, dichiarando nel frattempo di poter ripetere quella procedura quotidianamente senza alcun danno. In realtà, Midgley conosceva benissimo i pericoli dell'avvelenamento da piombo.3 Lui stesso, a causa della sovraesposizione, si era gravemente ammalato pochi mesi prima, e ormai, se solo poteva evitarlo, non si avvicinava più alla sostanza (salvo che per rassicurare la stampa).
Incoraggiato dal successo del suo additivo per le benzine, Midgley si diede a risolvere un altro problema tecnologico dell'epoca. Negli anni Venti i frigoriferi erano spesso terribilmente pericolosi perché usavano gas insidiosi e nocivi che a volte fuoriuscivano. Nel 1929 la perdita verificatasi in un frigorifero nell'ospedale di Cleveland, in Ohio, uccise più di cento persone.4 Midgley provò allora a creare un gas che fosse stabile, non infiammabile, non corrosivo e sicuro da inalare. Con un istinto quasi inquietante per operazioni di cui dolersi in seguito, inventò i clorofluorocarburi, o CFC.
Di rado si è assistito a un'adozione così fulminea - e così infelice - di un prodotto industriale. I CFC entrarono in produzione all'inizio degli anni Trenta e trovarono migliaia di applicazioni dappertutto, dai condizionatori per le autovetture ai deodoranti spray, prima che si scoprisse - mezzo secolo dopo - che stavano divorando l'ozono della stratosfera: come ben sapete, questa non era affatto una cosa positiva.
L'ozono è una forma di ossigeno in cui ogni molecola contiene tre atomi anziché i soliti due. Per certi versi, si tratta di una stranezza chimica, infatti a livello del suolo è un inquinante, mentre in
quota, nella stratosfera, ha un effetto benefico, in quanto assorbe le pericolose radiazioni ultraviolette. L'ozono benefico, tuttavia, non è molto abbondante. Se lo si distribuisse uniformemente su tutta la stratosfera, formerebbe uno strato dell'esiguo spessore di circa 2 millimetri. Ecco perché viene disturbato così facilmente.
Se è per questo, nemmeno i clorofluorocarburi abbondano. Costituiscono infatti solo circa una parte su un miliardo dell'atmosfera totale: sono però terribilmente distruttivi. Un solo chilogrammo di CFC può catturare e annientare 70.000 chilogrammi di ozono atmosferico.5 Come se non bastasse, i CFC hanno un tempo di permanenza nell'atmosfera lunghissimo - in media circa un secolo - e nel frattempo fanno danni, Sono anche grandi spugne di calore. Nell'aggravare l'effetto serra, una singola molecola di CFC è circa diecimila volte più efficiente di una molecola di anidride carbonica (la quale, a sua volta, non scherza affatto).6 Per farla breve, i clorofluorocarburi potrebbero rivelarsi la peggiore invenzione del ventesimo secolo.
Midgley non lo seppe mai, perché morì molto prima che qualcuno si accorgesse di quanto i CFC fossero nocivi. Anche la sua morte fu di una stranezza memorabile. Paralizzato dalla poliomielite, Midgley inventò un marchingegno con una serie di pulegge azionate da un motore in grado di sollevarlo o girarlo nel letto automaticamente. Nel 1944, quando la macchina entrò in funzione, Midgley si impigliò nelle corde e morì strangolato.7
Per chi negli anni Quaranta fosse stato interessato a scoprire l'età delle cose, il luogo giusto in cui trovarsi sarebbe stato la University of Chicago. Willard Libby vi stava inventando la datazione al radio-carbonio, che avrebbe consentito agli scienziati di ottenere una stima accurata di ossa e altri resti organici, cosa che non erano mai stati in grado di fare prima. A quel tempo, le date attendibili più antiche risalivano a non oltre la prima dinastia d'Egitto, più o meno nel 3000 a.C.8 Nessuno poteva affermare con certezza, per esempio, quando si fossero ritirati gli ultimi ghiacci o quando le popolazioni umane di Cro-Magnon avessero decorato le grotte di Lascaux in Francia.
L'idea di Libby si rivelò talmente utile che, nel 1960, gli valse il premio Nobel. Si basava sulla scoperta che tutti gli esseri viventi
contengono un isotopo del carbonio, il carbonio-14, la cui proporzione rispetto all'isotopo stabile comincia a variare nell'istante della morte. Il carbonio-14 ha un'emivita (il tempo che occorre perché metà dell'isotopo contenuto in un qualsiasi campione scompaia) di circa 5600 anni. Perciò, calcolando la quantità di carbonio decaduta in un particolare campione, Libby poteva ottenere una buona stima dell'età di un oggetto; fino a un certo punto, però. Dopo otto emivite, nel campione rimane solo lo 0,39 per cento del carbonio radioattivo originale, una quantità troppo esigua per consentire misurazioni attendibili; la datazione con il radiocarbonio funziona quindi solo per oggetti la cui età non sia troppo superiore a circa quarantamila anni.9
Curiosamente, proprio quando l'uso della tecnica si andava diffondendo, divennero evidenti alcuni suoi difetti. Tanto per cominciare, si scoprì che uno degli elementi base della formula di Libby, noto come costante di decadimento, conteneva un errore di circa il 3 per cento. Ormai, però, erano già state fatte migliaia di misurazioni in tutto il mondo. Piuttosto che correggerle, gli scienziati decisero di tenere la costante inaccurata. « Pertanto » come osserva Tim Flannery, « ogni dato grezzo ottenuto con il radiocarbonio nel quale vi imbattete sottostima l'età reale di circa il 3 per cento. »10 Ma i problemi non si fermarono lì. Presto si scoprì che i campioni di carbonio-14 possono essere facilmente contaminati dal carbonio proveniente da altre fonti: basta, per esempio, un minuscolo frammento di materia vegetale raccolto inavvertitamente insieme al campione. Nel caso dei campioni più recenti, quelli di epoca inferiore a circa ventimila anni, una leggera contaminazione non fa sempre molta differenza, ma per quelli più antichi può rivelarsi un problema serio, giacché i restanti atomi di carbonio-14 da rilevare sono pochissimi. Nel primo caso, per usare l'esempio di Flannery, è come sbagliare di un dollaro quando se ne stanno contando mille; nel secondo, si sbaglia sempre di un dollaro, quando però se ne stanno contando solo due.11
Il metodo di Libby si basava anche sull'ipotesi che la quantità di carbonio-14 presente nell'atmosfera e la velocità con cui venne assorbito dagli esseri viventi fossero state costanti nel corso della storia. In realtà non fu così. Oggi sappiamo che il volume del carbonio-14 atmosferico varia a seconda dell'efficienza con cui il magnetismo terrestre riesce a deflettere i raggi cosmici, e tale efficienza può variare significativamente nel corso del tempo. Ciò implica che alcune datazioni al carbonio-14 sono più incerte di altre. Tra le più dubbie ci sono quelle relative all'epoca della prima comparsa degli uomini nelle Americhe, e questo è uno dei motivi per cui la questione è oggetto di perenni controversie.12
Infine, e questo forse non era prevedibile, le misurazioni possono essere alterate da fattori esterni apparentemente non correlati (per esempio la dieta degli individui le cui ossa sono oggi sottoposte a datazione). Un caso recente ha riguardato la questione - a lungo dibattuta - sul luogo di origine della sifilide, se nel Vecchio o nel Nuovo Mondo.13 Gli archeologi di Hull scoprirono che i monaci sepolti nel cimitero di un convento erano stati affetti da sifilide; la conclusione alla quale si era pervenuti inizialmente, però, e cioè che i monaci l'avessero contratta prima del viaggio di Colombo, fu messa in dubbio dalla scoperta che essi avevano mangiato grandi quantità di pesce, il che potrebbe far sembrare le loro ossa più antiche di quanto siano in realtà. Può darsi benissimo che i monaci avessero la sifilide: come e quando l'avessero contratta, però, per quanto intrigante, rimane un problema fonte di frustrazione.
Poiché la tecnica del carbonio-14 aveva mostrato un gran numero di punti deboli, gli scienziati misero a punto altri metodi per datare materiali antichi; fra di essi, la termoluminescenza misura gli elettroni rimasti intrappolati nelle terrecotte, e la risonanza di spin elettronico comporta il bombardamento di un campione con onde elettromagnetiche e la misurazione delle variazioni di energia degli elettroni così perturbati. Anche le tecniche migliori, però, non riuscivano a datare campioni di età superiore a circa duecentomila anni; inoltre non erano in grado di datare materiali inorganici come le rocce - e questa ovviamente è una misura essenziale se uno vuole determinare l'età del proprio pianeta.
I problemi legati alla datazione delle rocce erano tanti e tali che a un certo punto quasi tutti, nel mondo, avevano rinunciato a risolverli. Se non fosse stato per la determinazione di Arthur Holmes, un professore inglese, la ricerca sarebbe anche potuta cadere nel dimenticatoio.
Holmes fu eroico sia per gli ostacoli che superò, sia per i risultati che raggiunse. Intorno agli anni Venti, quando Holmes era nel pieno della carriera, la geologia stava ormai passando di moda (cedendo il passo alla fisica) e aveva risentito di una drastica riduzione di fondi in
particolare in Gran Bretagna, sua patria spirituale. Il dipartimento di geologia della Durham University fu costituito per molti anni esclusivamente da Holmes. Per poter portare a termine le sue datazioni radiometriche delle rocce, Holmes dovette spesso prendere in prestito le attrezzature necessarie, o assemblarle raccogliendo componenti di varia provenienza. A un certo punto, il suo lavoro rimase letteralmente bloccato per un anno, in attesa che l'università gli fornisse una semplice calcolatrice. In diverse occasioni, per mettere insieme uno stipendio sufficiente a mantenere la famiglia, Holmes dovette abbandonare del tutto la vita accademica, e per un certo periodo gestì un negozio di curiosità e oggetti rari a Newcastle Upon Tyne; a volte, non riuscì nemmeno a permettersi l'esborso delle 5 sterline per la quota associativa della Geologica! Society.
Dal punto di vista teorico, la tecnica usata da Holmes nel suo lavoro era semplice e derivava direttamente dal processo, osservato per la prima volta nel 1904 da Ernest Rutherford, attraverso il quale alcuni atomi di un elemento decadono in un altro elemento a una velocità abbastanza prevedibile da poter essere usata come un orologio. Se si conosce il tempo necessario affinché il potassio-40 decada ad argon-40, e si misura in quali quantità i due isotopi sono presenti nel campione, si può calcolare l'età di un materiale. Il contributo di Holmes fu quello di misurare la velocità di decadimento dell'uranio in piombo, in modo da poter calcolare l'età delle rocce, e quindi - egli sperava - della Terra.
Le difficoltà tecniche da superare, tuttavia, erano numerose. A Holmes occorrevano anche tutti quegli aggeggi sofisticati che permettono di ottenere misure molto fini su campioni piccolissimi: se non proprio indispensabili, gli avrebbero comunque fatto molto comodo. Come abbiamo visto, però, tutto quello che riuscì a spuntare fu una calcolatrice. Perciò, quando nel 1946 fu in grado di annunciare con una certa sicurezza che la Terra aveva almeno tre miliardi di anni, forse molti di più, fu davvero un grande risultato. Purtroppo Holmes si trovò di fronte a un altro formidabile impedimento: la prudenza dei suoi colleghi scienziati.14 Sebbene fossero ben lieti di elogiare la sua metodologia, molti sostennero che Holmes non avesse scoperto l'età della Terra, ma solo quella dei materiali dai quali la Terra era stata formata.
Fu proprio in questo periodo che Harrison Brown, della University of Chicago, mise a punto un nuovo metodo per rilevare e
misurare gli isotopi di piombo nelle rocce ignee (cioè nelle rocce che si erano formate per riscaldamento, contrapposte a quelle deposte per sedimentazione). Rendendosi conto che il lavoro sarebbe stato di una noia mortale, lo affidò al giovane Clair Patterson come argomento per la tesi. La promessa che fece a Patterson è poi diventata famosa: con il suo nuovo metodo, gli disse, determinare l'età della Terra sarebbe stato «un gioco da ragazzi». E infatti, occorsero anni.
Patterson cominciò a lavorare al progetto nel 1948. A confronto con i sensazionali contributi di Thomas Midgley alla marcia del progresso, la scoperta dell'età della Terra da parte di Patterson sembra decisamente un evento in tono minore. Per sette anni, prima alla University of Chicago e poi al California Institute of Technology (dove si trasferì nel 1952), Patterson lavorò in un laboratorio sterile, effettuando misurazioni estremamente precise dei rapporti tra piombo e uranio presenti in campioni di antiche rocce meticolosamente selezionati.
Per misurare l'età della Terra, il problema era che occorrevano rocce estremamente antiche contenenti cristalli di piombo e di uranio, all'incirca della stessa età del pianeta. La presenza di materiali più recenti avrebbe ovviamente fornito date fuorvianti. Sulla Terra, però, rocce così antiche sono una vera rarità. Verso la fine degli anni Quaranta nessuno riusciva a capire il motivo di ciò. Può forse destare meraviglia, ma fu solo in piena era spaziale che qualcuno riuscì a spiegare in modo plausibile dove fossero finite tutte le rocce più antiche del pianeta (la risposta stava nella tettonica a placche, argomento che tratteremo più avanti). Patterson, nel frattempo, fu lasciato ai suoi tentativi di dare un senso alle cose con gli esigui materiali di cui disponeva. Alla fine, con un colpo di genio, gli venne in mente che poteva ovviare alla mancanza di rocce terrestri usando materiali di altra provenienza. Si rivolse così ai meteoriti.
L'assunto di Patterson (un assunto non da poco, ma che si rivelò corretto) era che molti meteoriti potessero essere sostanzialmente considerati materiali da costruzione residui, avanzati dai tempi della formazione del sistema solare, e che quindi avessero conservato una composizione chimica interna più o meno primordiale. Misurando l'età di queste rocce vaganti, si avrà anche (con buona approssimazione) l'età della Terra.
Come sempre, però, le cose si dimostrarono ben più complesse di come potrebbe far credere il nostro racconto informale. I meteoriti non sono particolarmente abbondanti e la raccolta dei campioni non è facilissima. Oltretutto, la tecnica di misurazione di Brown si rivelò estremamente macchinosa e necessitò di numerosi perfezionamenti. Soprattutto, c'era il problema della contaminazione: ogni volta che erano esposti all'aria, i campioni di Patterson venivano inspiegabilmente contaminati da grandi dosi di piombo atmosferico. Fu proprio questo che alla fine lo spinse a creare un laboratorio sterile: il primo al mondo, almeno secondo il resoconto di James L. Powell.15
Ci vollero sette anni di paziente lavoro prima che Patterson riuscisse a trovare, e poi sottoporre a misurazione, campioni idonei all'esperimento finale. Nella primavera del 1953 portò i suoi campioni all'Argonne National Laboratory, nell'Illinois, dove gli fu concesso di lavorare con uno spettrografo di massa ultimo modello: un apparecchio capace di rilevare e quantificare le minime tracce di uranio e piombo incluse negli antichi cristalli. Quando finalmente ebbe i suoi risultati, Patterson era così eccitato che andò dritto nell'Iowa, a casa dei suoi, e si fece portare in ospedale da sua madre perché temeva che gli stesse venendo un infarto.
Subito dopo, a un convegno nel Wisconsin, Patterson annunciò che l'età definitiva della Terra era 4550 milioni di anni (± 70 milioni di anni): « cifra rimasta immutata a distanza di cinquantanni», come sottolinea ammirato McGrayne.16 Dopo duecento anni di tentativi, finalmente la Terra aveva un'età.
Quasi immediatamente, Patterson si concentrò sul problema di tutto quel piombo presente nell'atmosfera. Scoprì con stupore che quel poco che si sapeva circa l'effetto del piombo sugli esseri umani era quasi immancabilmente sbagliato o fuorviante. E non c'era di che meravigliarsi, giacché per quarant'anni gli studi sugli effetti del piombo erano stati finanziati esclusivamente dalle industrie produttrici di additivi al piombo.
In uno di questi studi, un medico senza alcuna specializzazione in patologia chimica aveva intrapreso un progetto della durata di cinque anni, nel quale si chiedeva ad alcuni volontari di inalare e ingerire dosi elevate di piombo.17 Successivamente si procedeva all'analisi di feci e urine. Purtroppo il dottore ignorava che il piombo non viene eliminato come prodotto di rifiuto, ma va ad accumularsi nelle ossa e nel sangue (proprio per questo è tanto pericoloso), e quindi né le ossa né il sangue dei volontari furono mai analizzati. Di conseguenza, il piombo fu certificato come sostanza non nociva.
Patterson stabilì rapidamente che l'atmosfera conteneva moltissimo piombo (e di fatto lo contiene ancora giacché il piombo non se ne va) e che circa il 90 per cento di esso sembrava provenire dai tubi di scarico delle automobili, ma non poteva dimostrarlo.18 Avrebbe avuto bisogno di un sistema per confrontare, nell'atmosfera, i livelli di piombo attuali con quelli antecedenti al 1923, anno dell'immissione sul mercato del piombo tetraetile. A quel punto gli venne in mente che la risposta poteva trovarsi nel cuore dei ghiacci.
Si sapeva che in luoghi come la Groenlandia la neve si accumula in strati annuali distinti, poiché le differenze stagionali di temperatura danno luogo a lievi variazioni nella colorazione della neve estiva e invernale. Contando a ritroso questi strati, e misurando la quantità di piombo presente in ognuno di essi, Patterson riuscì a calcolare le concentrazioni atmosferiche globali di piombo in qualsiasi momento della storia, risalendo di centinaia o anche migliaia di anni. Questa sua idea divenne poi la base degli studi di carotaggio dei ghiacciai, su cui si fonda gran parte della moderna ricerca climatologica.19
Patterson scoprì che prima del 1923 l'atmosfera era pressoché priva di piombo, e che a partire da allora i livelli del metallo erano costantemente aumentati in maniera pericolosa. Da quel momento, Patterson dedicò la sua vita all'eliminazione del piombo dalla benzina e a questo scopo divenne un critico assiduo ed esplicito dell'industria del piombo e dei suoi interessi.
Si sarebbe rivelata una battaglia infernale. La Ethyl Corporation era una potente multinazionale, con molti amici nelle alte sfere (tra i suoi amministratori c'erano il giudice Lewis Powell della Corte Suprema e Gilbert Grosvenor della National Geographic Society). Patterson si ritrovò improvvisamente con i fondi di ricerca tagliati, e con serie difficoltà a reperirli. L'American Petroleum Institute gli revocò un contratto di ricerca e lo stesso fece lo US Public Health Service, un organo governativo che si supporrebbe neutrale.
Patterson intanto diventava sempre più un peso per la stessa istituzione in cui lavorava, e i responsabili del Caltech furono più volte sottoposti a pressioni da parte dell'industria del piombo,
affinché lo zittissero o lo facessero andar via. Stando a quanto scrisse nel 2000 Jamie Lincon Kitman su The Natio», con ogni probabilità i dirigenti della Ethyl Corporation offrirono al Caltech il finanziamento di una cattedra, purché «Patterson fosse stato costretto a fare i bagagli».20 Nel 1971 fu clamorosamente escluso da un gruppo nominato dal National Research Council per indagare sui rischi dell'avvelenamento causato dal piombo presente nell'aria, sebbene all'epoca egli fosse incontestabilmente il massimo esperto americano in materia di piombo atmosferico.
A suo gran merito va detto che Patterson non vacillò mai. Alla fine, nel 1970, i suoi sforzi portarono all'introduzione del Clean Air Act e, nel 1986, al ritiro dal commercio di tutti i carburanti addizionati con piombo sul territorio statunitense. Quasi di colpo, i livelli di piombo nel sangue degli americani precipitarono dell'80 per cento.21 Tuttavia, poiché il piombo, ahimè, è per sempre, oggi gli americani hanno livelli ematici di piombo circa 625 volte superiori a quelli dei loro connazionali di un secolo fa.22 Come se non bastasse, la quantità di piombo presente nell'atmosfera continua illegalmente ad aumentare di circa centomila tonnellate all'anno, provenienti in massima parte dalle attività minerarie, dalle fonderie e dalle industrie.23 Gli Stati Uniti bandirono il piombo dalle vernici per interni «44 anni dopo la maggior parte degli stati europei», come fa notare McGrayne.24 Considerata la sua eccezionale tossicità, è davvero strano che le industrie americane abbiano continuato a saldare col piombo i contenitori per alimenti fino al 1993.
Quanto alla Ethyl Corporation, è ancora un'azienda prospera, sebbene la General Motors, la Standard Oil e la DuPont non possiedano più quote di partecipazione (vendettero tutto nel 1962 a una compagnia chiamata Albemarle Paper). Secondo McGrayne, ancora nel febbraio 2001, la Ethyl Corporation insisteva nell'affermare che «la ricerca non è riuscita a dimostrare che la benzina al piombo rappresenti una minaccia per la salute umana o per l'ambiente ».25 Sul suo sito web, un testo sulla storia della Ethyl non fa alcun accenno al piombo, e nemmeno a Thomas Midgley. Si riferisce semplicemente al prodotto originale come contenente «una particolare combinazione di sostanze chimiche».
La Ethyl Corporation non produce più benzina addizionata con piombo; ciò nondimeno, stando ai bilanci del 2001, il piombo tetraetile (o TEL come lo chiamano) rendeva ancora conto, nel
2000, di un fatturato pari a 25,1 milioni di dollari (su un totale di 795 milioni di dollari), in aumento rispetto ai 24,1 milioni di dollari del 1999, ma inferiore ai 117 milioni di dollari del 1998. Nella sua relazione annuale, la Ethyl Corporation dichiara l'intenzione di «massimizzare la liquidità generata dal TEL in quanto il suo uso tende gradatamente a diminuire a livello mondiale». La Ethyl commercializza il TEL in tutto il mondo attraverso un accordo con la Associated Octel Ltd of England.
Per quanto riguarda l'altro flagello lasciatoci in eredità da Thomas Midgley, i clorofluorocarburi, negli Stati Uniti essi furono messi al bando nel 1974; tuttavia, poiché sono dei tenaci mascalzoni, tutti i CFC rilasciati nell'atmosfera prima di quella data (provenienti, per esempio, dai deodoranti e dalle lacche spray) saranno certamente ancora in circolazione, intenti a divorare ozono, anche quando voi e io avremo tolto il disturbo da molto tempo.26 Ma c'è di peggio: ogni anno continuano a essere introdotte nell'atmosfera grandi quantità di CFC. Secondo Wayne Biddle, annualmente vengono ancora immessi sul mercato più di 27 milioni di chilogrammi di queste sostanze, per un valore di 15 miliardi di dollari. E chi continua a farlo? Noi. Molte grandi società ne producono ancora negli impianti oltreoceano. Nei paesi del terzo mondo i CFC saranno banditi solo nel 2010.27
Clair Patterson è morto nel 1995, senza aver ricevuto nessun Nobel. I geologi non ne ricevono mai. Cosa ancor più sorprendente, non divenne famoso, né ricevette molta attenzione per mezzo secolo di ricerche che non conobbero cedimenti e procedettero in modo sempre più disinteressato, producendo risultati importanti. Si potrebbe sostenere, a ragione, che Patterson sia stato il geologo più influente del ventesimo secolo. Eppure chi ha mai sentito parlare di lui? La maggior parte dei manuali di geologia non ne fa menzione. Due recenti libri di divulgazione, nei quali si tratta la storia della datazione della Terra, sono riusciti persino a storpiarne il nome.28 All'inizio del 2001, sulla rivista Nature, il recensore di uno di questi libri aggiunse un ulteriore sconcertante errore, pensando che Patterson fosse una donna.29
Grazie al lavoro di Clair Patterson, comunque, nel 1953 fu infine assegnata alla Terra un'età su cui tutti potevano dirsi d'accordo. Il problema, adesso, era che risultava più antica dell'universo che la conteneva.
11. I quark di Muster Mark
Lo scienziato inglese C.T.R. Wilson stava studiando la formazione delle nubi, e per farlo si arrampicava regolarmente sul Ben Nevis, una montagna scozzese famosa per la sua umidità, quando, nel 1911, gli venne in mente che doveva esistere un modo più semplice di condurre le sue ricerche.1 Tornato al Cavendish Laboratory di Cambridge, si costruì una camera - la camera a nebbia - nella quale produrre nubi artificiali: un semplice apparecchio con cui raffreddare e inumidire l'aria e creare così in laboratorio un modello di nube abbastanza attendibile.
L'apparecchio funzionò molto bene, e portò un ulteriore beneficio del tutto inatteso. Quando Wilson accelerò una particella alfa nella sua camera a nebbia, essa rilasciò nell'aria una traccia visibile, simile alla scia di condensazione degli aerei. Wilson aveva appena inventato il rilevatore di particelle: esso fornì la prova convincente che le particelle subatomiche esistevano davvero.
Alla fine, altri due scienziati del Cavendish inventarono un congegno ancora più potente, funzionante con raggi protonici, mentre a Berkeley, in California, Ernest Lawrence produceva il suo famoso e imponente ciclotrone, detto anche acceleratore di particelle o, come fu a lungo chiamato con entusiasmo, atom smasher, fracassa-atomi. Tutti questi aggeggi funzionavano (e in effetti funzionano tuttora) più o meno sulla base dello stesso principio: accelerare un protone o un altro tipo di particella carica facendogli raggiungere velocità estreme su una traiettoria a volte circolare, a volte lineare, mandandolo infine a collidere contro un'altra particella, per vedere che cosa emergesse dalla collisione stessa. Ecco perché li chiamavano atom smashers. Non era scienza particolarmente raffinata, ma in genere funzionava.
Non appena i fisici ebbero messo a punto macchine più grandi e ambiziose, cominciarono a scoprire o a ipotizzare l'esistenza di un numero apparentemente infinito di particelle o di famiglie di particelle: muoni, pioni, iperioni, mesoni, mesoni-K, bosoni di Higgs, bosoni vettori intermedi, barioni, tachioni. Gli stessi fisici cominciavano a sentirsi un po' a disagio: «Giovanotto» rispose Enrico Fermi a uno studente che gli chiedeva il nome di una particella, « se fossi capace di ricordare tutti quei nomi avrei fatto il botanico ».2
Oggi gli acceleratori hanno nomi che suonano come quelli delle armi di Flash Gordon: supersincrotrone a protoni, grande collisore per positroni ed elettroni, grande collisore per adroni, collisore relativistico per ioni pesanti. Usando enormi quantità di energia elettrica (alcune di queste macchine entrano in funzione solo di notte, in modo che gli abitanti delle città vicine non debbano assistere al calo di tensione provocato dalla loro accensione), questi acceleratori possono mandare le particelle in un tale stato di eccitazione da far sì che un singolo elettrone compia 47.000 giri in un tunnel lungo sette chilometri in meno di un secondo.3 Qualcuno ha espresso la preoccupazione che, in preda all'entusiasmo, gli scienziati possano creare per sbaglio un buco nero o addirittura un qualcosa denominato « quark strano », che potrebbe, in linea teorica, interagire con altre particelle subatomiche e propagarsi in modo incontrollabile. Se state leggendo questa pagina, vuol dire che non è ancora accaduto.
Cercare le particelle richiede un certo grado di concentrazione. Esse infatti non sono soltanto minuscole e veloci, ma spesso si dimostrano così evanescenti da finire per essere causa di frustrazione. Le particelle possono comparire e scomparire nello spazio esiguo di 0,000000000000000000000001 secondi (10^24 secondi). Anche la più pigra delle particelle instabili non rimane in circolazione più di 0,0000001 secondi (10^7 secondi).4
Alcune particelle sono sfuggenti in un modo che ha del paradossale. Ogni secondo, la Terra è visitata da diecimila trilioni di trilioni di minuscoli neutrini quasi privi di massa (in massima parte emessi dalle reazioni nucleari che hanno luogo nel Sole); quasi tutti questi neutrini attraversano il pianeta - e tutto quello che si trova su di esso, noi compresi - come se non esistesse. Per riuscire a catturarne qualcuno, occorrono cisterne in grado di contenere fino a 57.000 metri cubi di acqua pesante (ovvero acqua con una relativa abbondanza di deuterio), poste in bunker sotterranei (di solito vecchie miniere) dove sono al riparo da interferenze con altri tipi di radiazioni.
Molto sporadicamente, un neutrino di passaggio entra in collisione con uno dei nuclei degli atomi dell'acqua, dando luogo a un piccolo sbuffo di energia. Gli scienziati contano questi sbuffi e in tal modo andiamo avvicinandoci alla comprensione delle proprietà fondamentali dell'universo. Nel 1998, i ricercatori giapponesi hanno riferito che effettivamente i neutrini hanno una massa, ma in fondo piccolissima: circa un decimilionesimo di quella di un elettrone.5
Oggi, se c'è una cosa proprio indispensabile per la ricerca delle particelle, è il denaro - e per giunta ne serve moltissimo. Nella fisica moderna esiste una strana relazione inversa tra le dimensioni degli oggetti studiati e l'entità dei mezzi necessari alla ricerca. Il cern (Centro Europeo per la Ricerca Nucleare) è come una piccola città. Situato sul confine tra Francia e Svizzera, dà lavoro a tremila persone e occupa uno spazio nell'ordine dei chilometri quadrati. Vanta una serie di magneti che pesano più della Torre Eiffel e un tunnel circolare sotterraneo lungo 26 chilometri.
Come ha osservato James Trefil, rompere gli atomi è facile: lo facciamo ogni volta che accendiamo una lampada fluorescente.6 Rompere i nuclei atomici, invece, richiede una gran quantità di denaro e una generosa fornitura di elettricità. Se poi scendiamo a livello dei quark (le particelle che compongono le particelle), l'operazione è ancor più dispendiosa: trilioni di volt e fondi pari al budget di un piccolo stato dell'America Centrale. La costruzione del nuovo grande collisore per adroni del cern,7 che assorbe 14 trilioni di volt di energia, ha richiesto più di 1,5 miliardi di dollari.*
Queste cifre comunque non sono niente in confronto a quello che sarebbe costato in termini di soldi e consumi il grandissimo - e ormai purtroppo non più realizzabile - supercollisore superconduttivo, la cui costruzione cominciò negli anni Ottanta a Waxahachie, nel Texas, e che sperimentò ben presto una collisione tutta sua con il Congresso degli Stati Uniti. Il suo scopo doveva essere quello di permettere agli scienziati di sondare, come si dice, « la natura ultima della materia», ricreando il più fedelmente possibile le condizioni
* Tutte queste imprese tanto dispendiose producono comunque qualche ricaduta di utilità pratica. Il World Wide Web è una derivazione del CERN: fu infatti inventato nel 1989 da uno dei suoi scienziati, Tim Berners-Lee.
dell'universo all'epoca del suo primo decimillesimo di miliardesimo di secondo. Il progetto prevedeva di lanciare le particelle lungo un tunnel di 84 chilometri, raggiungendo la cifra davvero sbalorditiva di 99 trilioni di volt. Si trattava di un progetto imponente, ma solo la costruzione sarebbe venuta a costare otto miliardi di dollari (una cifra che alla fine lievitò a dieci) e avrebbe richiesto centinaia di milioni di dollari all'anno come costi di esercizio.
In quello che forse passerà alla storia quale migliore esempio di come gettare i soldi in un fosso, il Congresso investì nel progetto 2 miliardi di dollari per poi interrompere i finanziamenti nel 1993, dopo che erano già stati scavati 22 chilometri di tunnel. Così oggi il Texas può vantarsi di avere il fosso più costoso dell'universo. Il sito, a detta del mio amico Jeff Guinn del Fort Worth Star-Tele-gram, è « in sostanza una vasta area spoglia, punteggiata lungo tutta la circonferenza da una serie di piccole città deluse».8
Dopo la débàcle del supercollisore, i fisici delle particelle hanno un po' ridimensionato le proprie aspirazioni; tuttavia, anche progetti relativamente modesti possono avere costi impressionanti se confrontati a... quasi tutto. Costruire un osservatorio per neutrini nella vecchia miniera Homestake di Lead, nel South Dakota, avrebbe richiesto cinquecento milioni di dollari (e la miniera era già scavata), senza tener conto dei costi annuali di esercizio.9 Il preventivo parlava anche di duecentottantuno milioni di dollari per i «costi generali di conversione». Nel frattempo, un acceleratore di particelle al Fermilab dell'Illinois costò duecentosessanta milioni di dollari solo di riparazioni.10
Per farla breve, la fisica delle particelle è un'impresa immensamente costosa. Ma è anche produttiva. Oggi si contano più di 150 particelle, e si sospetta che possa essercene un altro centinaio, ma purtroppo, come dice Richard Feynman, « è molto difficile capire le relazioni fra tutte loro, e cosa se ne fa la natura di tante particelle, e come sono collegate ».11 E inevitabile: ogni volta che riusciamo ad aprire una scatola, scopriamo che dentro ce n'è un'altra, ben chiusa. Alcuni sono convinti che esistano i tachioni, particelle che potrebbero viaggiare a velocità superiori a quella della luce.12 Altri bramano la scoperta del gravitone, sede della gravità. Non è facile dire quando finalmente saremo arrivati in fondo. Riecheggiando i romanzi di fantascienza degli anni Cinquanta, Cari Sagan, nel suo Cosmo avanzò l'ipotesi che, se fosse possibile viaggiare dentro un
elettrone, si scoprirebbe un intero universo: «Al suo interno, organizzate nell'equivalente locale delle galassie e delle strutture più piccole, c'è un numero immenso di altre particelle elementari, ancora più minuscole, che sono esse stesse universi di livello successivo, e così via all'infinito. Un'infinita regressione verso il piccolo: universi all'interno di universi, senza fine. E procedendo nell'altra direzione, verso i livelli più grandi, è la stessa cosa».13
Per la maggior parte di noi si tratta di un mondo al di là della normale comprensione. Oggi, per leggere anche la più elementare introduzione alla fisica delle particelle, bisogna districarsi in gineprai terminologici come questo: «Il pione carico e l'antipione decadono rispettivamente in un muone più un antineutrino e in un antimuo'ne più un neutrino con una vita media di 2,603 x 10^8 secondi. Il pione neutro decade in due fotoni con una vita media di circa 0,8xl0~16 secondi; quanto al muone e all'antimuone, decadono rispettivamente in [...] » eccetera.14 E questo passo è tratto da un libro concepito per un lettore non specialista, scritto da un interprete (in genere) fra i più lucidi: Steven Weinberg.
Negli anni Sessanta, nel tentativo di semplificare un poco le cose, il fisico del Caltech Murray Geli-Mann inventò una nuova classe di particelle, più che altro, come disse Steven Weinberg, «per ripristinare un criterio di economia nell'uso degli adroni» (termine collettivo usato dai fisici per indicare protoni, neutroni e altre particelle governate dall'interazione nucleare forte).13 Secondo la teoria di Geli-Mann, tutti gli adroni sono formati da particelle ancora più piccole e ancora più elementari. Il suo collega, Richard Feynman, voleva chiamare queste nuove particelle partoni, proprio come la celebre Dolly Parton, ma la sua proposta fu bocciata ed esse divennero note con il nome di quark.16
Geli-Mann trovò quel nome ispirandosi a un passaggio di Fin-negans Wake: «Three quarks for Muster Mark! » (Sebbene i fisici più sofisticati facciano rimare quark con stork [cicogna] e non con lark [allodola] quasi certamente la pronuncia che Joyce aveva in mente è proprio quest'ultima). La fondamentale semplicità dei quark non durò a lungo. Più se ne sapeva e più diventava necessario introdurre delle suddivisioni. Sebbene i quark siano troppo piccoli per avere colore, sapore o qualsiasi altra caratteristica fisica che noi si possa riconoscere, furono raggruppati in sei categorie -up, down, strange, charm, top, bottoni - a cui i fisici si riferiscono
stranamente come ai loro «gusti». Questi sono a loro volta divisi nei colori rosso, verde e blu (viene il sospetto che non sia solo una coincidenza il fatto che questi termini siano stati usati per la prima volta in California, in piena epoca psichedelica).
Alla fine, da tutto questo emerse il cosiddetto Modello Standard: in sostanza una specie di scatola di montaggio del mondo subatomico.17 Il Modello Standard consiste di sei quark, sei leptoni, cinque bosoni noti più un sesto ipotetico (il bosone di Higgs, così chiamato dal nome dello scienziato scozzese Peter Higgs), più tre delle quattro forze fisiche: l'interazione nucleare forte, quella debole e l'elettromagnetismo.
Il sistema funziona essenzialmente così: tra i componenti fondamentali della materia ci sono i quark, tenuti uniti da particelle chiamate gluoni. Insieme, quark e gluoni formano protoni e neutroni, ovvero la materia costitutiva del nucleo atomico. I leptoni sono la fonte di elettroni e neutrini. Quark e leptoni insieme sono definiti fermioni. I bosoni (dal nome del fisico indiano S.N. Bose) sono particelle che producono e trasportano le forze, e comprendono fotoni e gluoni.18 Il bosone di Higgs può esistere o meno: è stato inventato come espediente per dotare di massa le particelle.
Come si vede, è tutto alquanto macchinoso, d'altra parte è il modello più semplice in grado di spiegare tutto ciò che accade nel mondo delle particelle. Come ha sottolineato Leon Lederman in un documentario televisivo del 1985, la maggior parte dei fisici ritiene che il Modello Standard manchi di eleganza e semplicità. « È troppo complicato e contiene troppi parametri arbitrari» affermò Lederman. «Proprio non riusciamo a immaginare il Creatore che armeggia con venti manopole per selezionare venti parametri e creare l'universo come noi lo conosciamo. »19 La fisica in realtà non è altro che la ricerca della semplicità ultima, ma tutto quello che abbiamo fino a questo momento è una specie di elegante confusione; oppure, per usare le parole di Lederman, « c'è la chiara sensazione che il quadro non sia bello ».
Il Modello Standard non è soltanto sgraziato, è anche incompleto. Fra l'altro, non ci dice nulla sulla gravità. Anche cercando dappertutto, nel Modello Standard non si troverà niente che spieghi perché un cappello poggiato su un tavolo non si metta a fluttuare verso il soffitto. Né, come abbiamo già visto, riesce a spiegare la massa: per dotare le particelle di massa occorre introdurre l'ipotesi del bosone di Higgs; se esso poi esista davvero è una domanda che lasciamo in eredità ai fisici del ventunesimo secolo.20 Come ha spiritosamente osservato Feynman: « Ci siamo arenati con una teoria, senza sapere se sia giusta o sbagliata, ma sappiamo che è almeno un po' sbagliata, o per lo meno incompleta».21
Nel tentativo di far quadrare tutto, i fisici sono emersi con una teoria detta «delle superstringhe». Essa postula che tutte quelle minuscole entità come i quark e i leptoni, alle quali abbiamo sempre pensato in termini di particelle, siano in realtà delle stringhe, corde di energia vibranti che oscillano in undici dimensioni: tre sono quelle che già conosciamo, la quarta è il tempo, e le altre sette sono... be', diciamo che per noi sono inconoscibili.22 Le stringhe sono molto piccole, così piccole da passare per particelle puntiformi.23
Attraverso l'introduzione di dimensioni extra, la teoria delle superstringhe consente ai fisici di far confluire le leggi quantistiche e quelle gravitazionali in un unico corpus relativamente ordinato; ma significa anche che le affermazioni degli scienziati a proposito della teoria tendono a somigliare in modo preoccupante a quelle riflessioni che, se a farcele fosse uno sconosciuto seduto accanto a noi sulla panchina di un parco, ci farebbero spostare un po' più in là. Ecco, tanto per fare un esempio, le parole con cui il fisico Michio Kaku spiega le strutture dell'universo dalla prospettiva delle superstringhe:
La stringa eterotica consiste in una stringa chiusa che ha due tipi di vibrazione, una in senso orario e l'altra in senso antiorario, che vengono trattate differentemente. Le vibrazioni in senso orario vivono in uno spazio 10-dimensionale. Quelle in senso antiorario vivono in uno spazio 26-dimensionale, 16 dimensioni del quale sono state compattificate (ricordiamo che nelle cinque dimensioni originarie di Kaluza, la quinta dimensione veniva compattificata racchiudendola in un cerchio).2,4
Il libro prosegue così per circa trecentocinquanta pagine.
La teoria delle superstringhe a sua volta ha generato la teoria M, che comprende superfici note come membrane, o più semplicemente brane, come dicono i fisici più aggiornati sulle ultime tendenze.23 Ora, temo che questa sia l'uscita che la maggior parte di
noi sarà costretta a imboccare percorrendo l'autostrada della conoscenza. Ecco qui di seguito un passo tratto dal New York Times che spiega la teoria M, nel modo più semplice possibile, a un pubblico generico:
Il processo ecpirotico ha inizio lontano, in un passato indefinito, con un paio di brane piatte e vuote, disposte parallelamente l'una all'altra, in uno spazio curvo pentadimensionale [...] Le due brane, che formano le pareti della quinta dimensione, sarebbero emerse dal nulla come una fluttuazione quantica in un passato ancora più lontano, per poi allontanarsi l'una dall'altra.26
Niente da eccepire. Tanto non abbiamo capito niente. Va detto però, incidentalmente, che ecpirotico deriva da una parola greca che significa «conflagrazione».
Le questioni di fisica hanno ormai raggiunto un livello che, come ha osservato Paul Davies su Nature, è «quasi impossibile per i non scienziati discriminare tra stranezza legittima e pura follia».27 Questo problema esplose in un caso molto interessante verificatosi nell'autunno del 2002, quando due fisici francesi, i gemelli Igor e Grichka Bogdanov, elaborarono una teoria di una complessità molto ambiziosa, piena di concetti quali «tempo immaginario » e « condizione di Kubo-Schwinger-Martin », e asserirono di poter descrivere, con quella, il grande nulla che era l'universo prima del Big Bang: un periodo che si era sempre ritenuto inconoscibile (poiché precedente alla nascita della fisica e delle sue proprietà).28
Quasi da subito, la teoria dei Bogdanov alimentò il dibattito tra i fisici, incerti tra il considerarla un pretestuoso cianciare senza senso, un colpo di genio o una frode. « Dal punto di vista scientifico è più o meno completamente priva di senso » dichiarò al New York Times Peter Woit, fisico della Columbia University; « d'altra parte, oggi questo non aiuta molto a distinguerla da moltissima altra letteratura scientifica».
Karl Popper, che Steven Weinberg ha definito «il decano dei moderni filosofi della scienza», una volta ipotizzò che in effetti potrebbe non esserci una teoria definitiva per la fisica, e che invece ogni spiegazione potrebbe richiederne un'altra, producendo così «una catena infinita di principi sempre più fondamentali».29 Una
possibilità contrapposta a questa è che, semplicemente, una tal conoscenza sia fuori dalla nostra portata. «Per fortuna» scrive Weinberg nel Sogno dell'unità dell'universo, « a quanto pare non siamo ancora giunti al limite delle nostre risorse intellettuali. »30
Quasi certamente questa è un'area che conoscerà ulteriori sviluppi di pensiero: ancora una volta, quasi certamente, quelle idee saranno ben al di là delle capacità di comprensione della maggior parte di noi.
A metà del ventesimo secolo, mentre i fisici guardavano con perplessità al mondo dell'infinitamente piccolo, gli astronomi stavano constatando una non meno sorprendente incompletezza di comprensione sulla scala dell'universo intero.
Abbiamo lasciato Edwin Hubble mentre stabiliva che quasi tutte le galassie presenti nel nostro campo visuale si allontanano da noi, e che in questa fuga, velocità e distanza sono direttamente proporzionali: più la galassia si allontana, più aumenta la sua velocità. Hubble comprese che tutto questo si poteva esprimere con una semplice equazione: Ho = v/d (dove Ho è una costante, v è la velocità di recessione di una galassia in fuga e d è la sua distanza da noi). Ho è stata sempre nota, da allora, come costante di Hubble, e tutta la formula è detta legge di Hubble. Attraverso questa formula, Hubble calcolò per l'universo un'età di circa due miliardi di anni, un risultato vagamente imbarazzante, giacché già alla fine degli anni Venti era evidente che molti oggetti all'interno di esso, compresa probabilmente la Terra stessa, erano più antichi.31 Perfezionare questo calcolo ha rappresentato una preoccupazione costante della cosmologia.
L'unico aspetto effettivamente quasi costante della costante di Hubble è stato l'entità del disaccordo fra i fisici a proposito del valore da attribuirle. Nel 1956 gli astronomi scoprirono che le Variabili delle cefeidi erano molto più variabili di quanto pensassero: si presentavano infatti non in una, ma in due varietà. Questo consentì loro di rifare i calcoli ottenendo una nuova età dell'universo: un valore compreso tra i sette e i venti miliardi di anni, non estremamente preciso, certo, ma almeno abbastanza venerando da poter includere la formazione della Terra.32
Negli anni che seguirono, tra Allan Sandage (successore di Hubble al Mount Wilson) e Gerard de Vaucouleurs (un astronomo nato in Francia che lavorava all'università del Texas) divampò una controversia che si sarebbe trascinata molto a lungo. Dopo anni di calcoli meticolosi, Sandage fissò a 50 il valore della costante di Hubble, ottenendo così per l'universo un'età di venti miliardi di anni. Da parte sua, de Vaucouleurs era certo che la costante di Hubble valesse 100,* il che avrebbe significato che l'universo aveva dimensioni ed età (dieci miliardi di anni) dimezzate rispetto a quelle attribuitegli da Sandage.33 La questione divenne ancor più incerta quando, nel 1994, alcuni studiosi dei Canergie Observatories (California) ipotizzarono, utilizzando misurazioni effettuate con il telescopio spaziale Hubble, che l'universo potesse avere solo otto miliardi di anni: un'età che essi stessi ammettevano essere inferiore a quella di alcune stelle presenti nell'universo. Nel febbraio del 2003, un'equipe della NASA e del Goddard Space Flight Center del Maryland, utilizzando un nuovo tipo di satellite chiamato Wilkinson Microwave Anisotropy Probe, annunciò con una certa sicurezza che l'età dell'universo è pari a 13,7 miliardi di anni, ± 100 milioni di anni.34 Questo è ciò a cui si è arrivati, almeno per il momento.
La difficoltà a raggiungere una determinazione definitiva è che spesso vi sono amplissimi margini di interpretazione. Immaginiamo di trovarci in un campo, di notte, e di voler stabilire quanto distano da noi due luci elettriche lontane. Utilizzando strumenti astronomici abbastanza semplici potremo stabilire con relativa facilità che
* È più che legittimo che vi chiediate che cosa si intende quando si dice « una costante di 50» o «una costante di 100». La risposta sta nelle unità di misura astronomiche. Salvo che nell'uso colloquiale, gli astronomi non si servono degli anni luce. Usano invece una distanza chiamata parsec (una contrazione di parallasse e secondo) basata su una misura universale detta parallasse stellare ed equivalente a 3,26 anni luce. Quando le misure si fanno davvero enormi, per esempio quando si parla della grandezza di un universo, vengono espresse in megaparsec: 1 megaparsec = 1 milione di parsec. La costante di Hubble è espressa in chilometri per secondo per megaparsec. Pertanto, quando gli astronomi ci parlano di una costante di 50, quello che in realtà intendono dire è «50 chilometri per secondo per megaparsec ». Per la maggior parte di noi, ovviamente, si tratta di una misura completamente priva di senso; d'altra parte, a livello di misure astronomiche, la maggior parte delle distanze è così enorme da sembrare assolutamente insensata.
le lampadine sono di uguale luminosità e che una delle due è più lontana da noi, rispetto all'altra, di circa il 50 per cento. Quello di cui non potremo essere sicuri, però, è se la luce più vicina sia prodotta da una lampadina da 58 watt distante 37 metri, oppure da una lampadina da 61 watt distante 36,5 metri. Come se non bastasse, occorrerà tener conto delle distorsioni causate dalle variazioni dell'atmosfera terrestre, dalla polvere intergalattica, dall'inquinamento luminoso causato dalle stelle in primo piano e da molti altri fattori. Il risultato è che i nostri calcoli si baseranno necessariamente su una serie di supposizioni, ciascuna delle quali dipendente da altre, e tutte potenzialmente fonte di disaccordo. A completare il quadro, c'è anche il problema dell'accesso ai telescopi, il cui tempo di utilizzo è prezioso, e il fatto che storicamente la misurazione degli spostamenti verso il rosso ha sempre richiesto tempi di osservazione lunghi. Per ottenere una sola esposizione può essere necessaria un'intera notte. Di conseguenza, a volte gli astronomi sono stati costretti a (o forse hanno preferito) basare le proprie conclusioni su prove molto esigue. In cosmologia, come suggerisce il giornalista Geoffrey Carr, abbiamo «una montagna di teorie costruite su un mucchietto di prove».35 Oppure, come ha detto Martin Rees: « La nostra attuale soddisfazione [per lo stato delle nostre conoscenze] potrebbe riflettere non tanto l'eccellenza della teoria, quanto la penuria di dati».36
Per inciso, questa incertezza si applica tanto a oggetti relativamente vicini, quanto ai margini più remoti dell'universo. Donald Goldsmith ha osservato che quando gli astronomi dicono che la galassia M87 è lontana sessanta milioni di anni luce, in realtà intendono dire (« ma generalmente evitano di farlo notare al pubblico») che essa si trova a una distanza compresa fra i quaranta e i novanta milioni di anni luce, il che non è esattamente la stessa cosa.37 Se poi ci si riferisce all'universo nel suo complesso, è naturale che il problema risulti amplificato. Per quanto le ultime scoperte abbiano avuto grande risonanza, siamo comunque ancora molto lontani dall'aver raggiunto una visione unanime.
Secondo un'interessante teoria avanzata di recente, l'universo non sarebbe assolutamente grande come pensavamo, e quando scrutiamo nelle profondità dello spazio, alcune galassie potrebbero essere in realtà semplici riflessi, immagini fantasma create dalla luce riflessa.
Il problema è che ci sono moltissime cose che non sappiamo, anche a un livello assolutamente fondamentale: una fra tutte, di quale materia sia fatto l'universo. Quando gli scienziati calcolano la quantità di materia necessaria per tenere coeso tutto l'insieme, si ritrovano ad averne sempre troppo poca, terribilmente poca. Sembra che almeno il 90 per cento dell'universo, forse addirittura il 99 per cento, sia composto dalla cosiddetta materia oscura di Fritz Zwicky, qualcosa che per sua natura ci è invisibile. È alquanto irritante pensare di vivere in un universo che in massima parte non possiamo nemmeno vedere, però è così. Almeno, i nomi dei due principali indiziati come possibili responsabili sono divertenti: si dice che la colpa sia delle WIMP (in inglese « smidollato», certo, ma anche Weakly Interacting Massive Particles, ossia particelle di materia invisibile, residui del Big Bang, dotate di massa e che interagiscono debolmente con il resto della materia) e dei MACHO (Massive Compact Halo Objects, oggetti massicci e compatti dell'alone) che è un altro modo di definire i buchi neri, le nane brune e altre stelle caratterizzate da una luminosità molto debole.
I fisici delle particelle propendevano per la spiegazione in termini di particelle fornita dalle wimp, gli astrofisici per quella stellare dei macho. Per un certo periodo i macho hanno avuto la meglio, ma poiché non ne sono stati assolutamente individuati a sufficienza, gli scienziati sono tornati a sorridere alle wimp. Peccato, però, che non ne sia mai stata individuata nessuna. Poiché, ammesso che esistano, interagiscono debolmente con il resto dell'universo, sono molto difficili da identificare. Probabilmente i raggi cosmici causano grosse interferenze, e per questo gli scienziati devono spingersi a fare le loro misurazioni sottoterra. A un chilometro di profondità, l'intensità del bombardamento cosmico è un milionesimo rispetto a quella rilevata in superficie. Ma aggiungendo tutto questo al calcolo della massa, « due terzi dell'universo mancano ancora al totale », come ha affermato un giornalista.38 Per il momento potremmo benissimo chiamare questi oggetti dunnos (Dark Unknown Nonreflective Nondetectable Objects Somewhere, ovvero oggetti oscuri sconosciuti, non riflettenti, non rilevabili, che stanno da qualche parte).
Dati di recente acquisizione indicano non solo che le galassie dell'universo si allontanano da noi, ma che la loro velocità di fuga aumenta. È un'ipotesi che va contro ogni aspettativa. Sembra che
l'universo sia pieno non solo di materia oscura, ma anche di energia oscura. Gli scienziati a volte la definiscono energia del vuoto o quintessenza. Qualsiasi cosa sia, sembra guidare un'espansione della quale nessuno sa rendere conto. Secondo la teoria, lo spazio vuoto non sarebbe vuoto affatto: esisterebbero particelle di materia e antimateria che si affacciano all'esistenza per poi uscirne immediatamente, e sarebbero proprio queste a far espandere l'universo a velocità crescente.39 Per quanto sia difficile da credere, l'unica cosa in grado di risolvere tutto questo è la costante cosmologica, quel dettaglio matematico che Einstein infilò nella teoria della relatività generale per impedire la presunta espansione dell'universo, dettaglio che lui stesso definì « il più grande strafalcione della mia vita».40 Oggi sembra che, dopotutto, avesse visto giusto anche in quel caso.
Il risultato di tutto ciò è che viviamo in un universo del quale non riusciamo assolutamente a calcolare l'età, circondati da stelle di cui non conosciamo né la distanza da noi né quella che le separa le une dalle altre: un universo pieno di una materia che non riusciamo a identificare e che opera secondo leggi fisiche di cui non comprendiamo davvero le proprietà.
Tenendo a mente questa osservazione alquanto inquietante, torniamo sul pianeta Terra e consideriamo qualcosa che effettivamente comprendiamo - anche se ormai forse non vi sorprenderete nell'apprendere che anche in questo caso non comprendiamo proprio tutto, e quello che sappiamo, lo sappiamo solo da poco.
12. Eppur si muove
In uno dei suoi ultimi interventi scientifici prima di morire, nel 1955, Albert Einstein scrisse una breve ma appassionata introduzione a Lo scorrimento della crosta terrestre, un libro scritto dal geologo Charles Hapgood. L'opera di Hapgood era una sistematica demolizione dell'idea che i continenti fossero in movimento. Con un tono che quasi invitava il lettore a unirsi a lui in un sorrisetto condiscendente, Hapgood osservava che alcune anime candide avevano rilevato « una apparente corrispondenza di forma fra certi continenti ». Sembrerebbe, proseguiva poi, « che il Sud America possa combaciare con l'Africa e così via [...] si è persino sostenuto che le formazioni rocciose sulle sponde opposte dell'Atlantico corrispondano».1
Il signor Hapgood liquidava sbrigativamente tutte queste idee, osservando che i geologi K.E. Caster e J.C. Mendes, dopo aver condotto un'estesa ricerca su entrambe le sponde dell'Atlantico, avevano stabilito, senza tema di smentita, che simili corrispondenze non esistevano affatto. Dio solo sa che genere di affioramenti avessero osservato Caster e Mendes, perché effettivamente molte delle formazioni rocciose su entrambi i lati dell'Atlantico sono uguali. Non soltanto simili: proprio uguali.
Questa non era però un'idea che il signor Hapgood e molti altri geologi del tempo potessero accettare. La teoria alla quale alludeva Hapgood fu proposta per la prima volta in America nel 1908 da un geologo dilettante di nome Frank Bursley Taylor. Taylor proveniva da una famiglia benestante; sia i mezzi economici sia la libertà da vincoli accademici gli consentivano di dedicarsi a linee di ricerca non convenzionali. Taylor fu tra coloro che rimasero colpiti dalla somiglianza delle linee costiere opposte dell'Africa e del Sud America e da questa osservazione sviluppò la teoria che i continenti fossero stati combacianti. Anticipando un'idea che si sarebbe poi dimostrata vera, ipotizzò che le catene montuose del pianeta fossero state sollevate dagli urti fra i continenti. Non riuscì però a produrre molte prove concrete, e la sua teoria fu considerata troppo stravagante per meritare seria attenzione.
In Germania, invece, un teorico di nome Wegener, meteorologo dell'università di Marburgo, raccolse l'idea di Taylor e la fece sua. Wegener studiò numerose anomalie, presenti nei fossili e nelle piante, che mal si conformavano al modello standard della storia della Terra, e si rese conto che avevano poco senso se interpretate in maniera convenzionale. Sulle sponde opposte degli oceani venivano continuamente rinvenuti fossili animali, a distanze chiaramente troppo grandi per essere percorse a nuoto. Come avevano fatto i marsupiali, si chiedeva Wegener, a spostarsi dal Sud America all'Australia? Come è possibile che in Scandinavia e nel New England si trovino gli stessi molluschi gasteropodi? E visto che ci siamo: come si spiegano i filoni carboniferi e altri resti di vita tropicale presenti in luoghi gelidi come Spitsbergen, più di 600 chilometri a nord della Norvegia, se non ammettendo che in qualche modo vi fossero migrati da climi più caldi?
Wegener sviluppò la teoria secondo la quale i continenti del pianeta erano un tempo esistiti sotto forma di un'unica massa di terre emerse da lui denominata Pangea - dove flora e fauna erano state messe in condizione di mescolarsi -, per poi dividersi e raggiungere, andando alla deriva, le loro attuali posizioni. Wegener espose la sua idea in un libro intitolato Die Entstellung der Kontinente und Ozeane, la formazione dei continenti e degli oceani, pubblicato in Germania nel 1912 e in Inghilterra tre anni dopo, nonostante nel frattempo fosse scoppiata la Prima guerra mondiale.
Proprio a causa della guerra, all'inizio la teoria di Wegener non attirò molta attenzione. Nel 1920, però, quando ne pubblicò un'edizione riveduta e ampliata, divenne subito oggetto di discussione. Tutti si mostrarono d'accordo sul fatto che i continenti si muovessero in senso verticale, elevandosi e abbassandosi; invece non si accettava il movimento in senso orizzontale, laterale. Il processo del movimento verticale, noto come isostasia, era un fondamento del pensiero geologico da generazioni, sebbene nessuno avesse prodotto teorie adeguate a spiegare come si verificasse e perché. Un'idea, che aveva resistito nei testi scolastici fino ai tempi in cui io andavo a scuola, era la cosiddetta «teoria della mela» proposta dall'austriaco Eduard Suess alla fine dell'Ottocento. Suggeriva che, raffreddandosi, la Terra fusa si fosse raggrinzita come una mela cotta al forno, dando origine ai bacini oceanici e alle catene montuose. Suess non si curò del fatto che James Hutton avesse dimostrato, molto tempo prima, che un simile assetto statico avrebbe prodotto, alla fine, uno sferoide senza alcuna configurazione geografica, poiché l'erosione avrebbe livellato i rilievi e riempito eventuali buche. Esisteva anche un altro problema, dimostrato da Rutherford e Soddy già all'inizio del Novecento: gli elementi terrestri trattengono enormi riserve di calore, davvero troppo elevate per consentire il raffreddamento e il raggrinzimento ipotizzato da Suess. Oltretutto, se la teoria di Suess fosse stata corretta, le montagne si sarebbero dovute trovare uniformemente distribuite sulla superficie della Terra, il che evidentemente non era, e avrebbero dovuto avere tutte più o meno la stessa età. Invece agli inizi del ventesimo secolo era già stato dimostrato che alcuni rilievi, come gli Urali e gli Appalachi, avevano centinaia di milioni di anni più di altri, per esempio le Alpi o le Montagne Rocciose. I tempi erano dunque maturi per una nuova teoria. Purtroppo, non fu Alfred Wegener l'uomo da cui i geologi vollero accettarla.
Tanto per cominciare, le sue idee radicali mettevano in discussione i fondamenti stessi della loro disciplina, un approccio che raramente si rivela il migliore per conquistare il calore di un pubblico. Sarebbe stato già abbastanza penoso se una sfida del genere fosse partita da un geologo, ma Wegener non aveva quel tipo di formazione. Peggio: era un meteorologo. Per l'amor del cielo... uno che faceva le previsioni del tempo! Un meteorologo tedesco. Queste erano pecche a cui era impossibile porre rimedio.
I geologi si diedero pertanto un gran daffare a liquidare le sue prove e sminuire i suoi suggerimenti. Per aggirare la questione della distribuzione dei fossili, ipotizzarono antichi «ponti di terra» dovunque ce ne fosse bisogno.2 Quando si scoprì che un antico equide, denominato Hipparion, era vissuto nello stesso periodo sia in Francia sia in Florida, fu subito disegnato un ponte di terra che attraversava l'Atlantico. E quando emerse che alcuni antichi tapiri erano esistiti contemporaneamente nel Sud America e nel Sudest Asiatico, ecco che anche quelle terre furono dotate del loro ponte. Ben presto, nelle mappe, i mari preistorici diventarono solidi, a forza di tracciarvi ipotetici ponti di terra: dal Nord America all'Europa, dal Brasile all'Africa, dal Sudest Asiatico all'Australia, dall'Australia all'Antartide. Queste propaggini di terra non si erano limitate ad apparire convenientemente ovunque si fosse reso necessario spostare un essere vivente da una massa terrestre a un'altra; in seguito, erano anche diligentemente scomparse senza lasciare traccia della loro precedente esistenza. Nulla di tutto questo, ovviamente, si fondava sulla benché minima prova - nulla di così assurdo poteva essere vero -, eppure, per i successivi cinquantanni, questa fu l'ortodossia geologica.
E comunque, perfino i ponti di terra non riuscivano a spiegare certe cose.3 Si scoprì, per esempio, che una specie di trilobite ben conosciuta in Europa, aveva vissuto anche sull'isola di Terranova, ma soltanto su un versante. Nessuno riusciva a spiegare in modo convincente come mai, dopo aver attraversato tremila chilometri di oceano ostile, questa creatura non fosse poi riuscita a trovare il modo per svoltare l'angolo di un'isola larga appena trecento chilometri. Ancora più imbarazzante e anomala era un'altra specie di trilobite, rinvenuta sia in Europa sia sulla sponda nordoccidentale del continente americano, senza che però se ne trovasse traccia in nessuna delle terre comprese fra queste due, il che avrebbe richiesto non tanto un ponte quanto una sopraelevata. Eppure, ancora nel 1964, quando l'Encyclopaedia Britannica discuteva le teorie rivali, era ancora quella di Wegener a essere ritenuta piena di «numerose e gravi difficoltà teoriche».4 Certo, Wegener commise qualche errore. Per esempio affermò che la Groenlandia si muove verso ovest avanzando di circa 1,6 chilometri all'anno, il che è chiaramente assurdo. (La distanza coperta si avvicina di più a un centimetro.) Soprattutto, però, Wegener non riuscì a fornire una spiegazione convincente di come si muovessero le masse terrestri. Per credere alla sua teoria, si sarebbe dovuto accettare che le masse continentali si facessero strada spingendosi nella crosta solida - un po' come fa un aratro nei campi, senza però lasciare alcun solco dietro di sé. Nulla di quanto si sapeva allora poteva spiegare in modo plausibile che cosa innescasse questi movimenti geologici.
Fu Arthur Holmes, lo stesso geologo inglese che si era tanto prodigato per determinare l'età della Terra, a proporre un'ipotesi. Holmes fu il primo scienziato a comprendere che il calore derivante dalla radioattività poteva produrre delle correnti convettive all'interno della Terra. In teoria, tali correnti erano abbastanza forti da far scivolare i continenti sulla superficie. Nel suo trattato Principi di geologia fisica - un autorevole manuale universitario che conobbe ampia diffusione e fu pubblicato per la prima volta nel 1944 - Holmes esponeva una teoria della deriva dei continenti che era, nelle sue linee fondamentali, la stessa oggi prevalente. Per quei tempi, d'altra parte, era una posizione ancora radicale, e fu molto criticata soprattutto negli Stati Uniti, dove la resistenza all'idea della deriva durò più a lungo che altrove. Senza cenno di ironia alcuna, un recensore statunitense manifestò la propria preoccupazione: Holmes presentava i suoi argomenti in modo così chiaro e convincente che gli studenti avrebbero potuto essere indotti a credergli.5 Altrove, comunque, la nuova teoria si guadagnò un costante, sebbene cauto, sostegno. Nel 1950 una votazione effettuata in occasione del congresso annuale della British Association for the Advancement of Science dimostrò che circa metà dei presenti abbracciava ormai la teoria della deriva dei continenti (Hapgood si affrettò poi a citare questa cifra per dimostrare come i geologi inglesi si fossero lasciati tragicamente fuorviare).6 Stranamente, lo stesso Holmes a volte vacillava nelle proprie convinzioni. Nel 1953 confessò: «Non sono mai riuscito a liberarmi da un fastidioso pregiudizio nei confronti della deriva dei continenti. Sento nelle viscere - le mie viscere geologiche, per così dire - che si tratta di un'ipotesi fantasiosa».7
Gli Stati Uniti, comunque, non negarono del tutto il proprio sostegno alla deriva dei continenti. Reginald Daly di Harvard si schierò a suo favore; come forse ricorderete, però, lo stesso Daly a suo tempo aveva suggerito che la Luna si fosse formata in seguito a un impatto cosmico: le sue idee tendevano quindi a essere considerate sì interessanti, a volte perfino meritevoli, ma un po' troppo esuberanti per guadagnarsi una seria considerazione. La maggior parte degli accademici americani rimase quindi ancorata alla convinzione che i continenti occupassero da sempre la loro attuale posizione, e che la loro configurazione superficiale potesse essere attribuita a qualcosa di diverso dallo spostamento laterale.
Vale la pena di riflettere sul fatto che i geologi delle compagnie petrolifere sapevano da anni che per trovare il petrolio occorre tener conto esattamente del tipo di movimenti superficiali descritti
dalla tettonica a placche.8 Ma i geologi petroliferi non scrivono articoli: cercano il petrolio e basta.
Le teorie sulla Terra sollevavano un altro problema fondamentale che nessuno si era mai neppure avvicinato a risolvere: dove finivano tutti i sedimenti? Ogni anno i fiumi della Terra trasportano verso il mare quantità enormi di materiali derivanti dai fenomeni di erosione (500 milioni di tonnellate di calcio, tanto per fare un esempio). Se si moltiplica il tasso di deposizione per il numero di anni durante il quale la deposizione stessa si è protratta, si ottiene una cifra allarmante. Dovrebbero esserci circa 20 chilometri di sedimenti sul fondo degli oceani; o meglio: il fondo degli oceani oggi dovrebbe trovarsi molto al di sopra del livello della superficie. Gli scienziati si misurarono con questo paradosso ricorrendo a una tecnica estremamente pratica: lo ignorarono. Alla fine, però, giunsero a un punto in cui non poterono più fare come se niente fosse.
Durante la Seconda guerra mondiale, Harry Hess, un mineralista della Princeton University, fu posto al comando di una nave per il trasporto di truppe e rifornimenti, la USS Cape Johnson. A bordo di quest'imbarcazione c'era uno strumento nuovissimo, uno scandaglio acustico progettato per facilitare le manovre nei pressi della costa durante gli sbarchi.9 Hess si rese conto che poteva essere utilizzato proficuamente anche per scopi scientifici. Perciò non lo spense mai, nemmeno quando si trovava molto al largo o nel cuore delle battaglie. Così scoprì una cosa del tutto inaspettata. Se il fondo degli oceani era antico come tutti ritenevano, avrebbe dovuto essere ricoperto da una spessa coltre di sedimenti, simile al fango sul fondo di un fiume o di un lago. I rilevamenti di Hess svelavano invece che i fondali oceanici non mostravano affatto la melmosa levigatezza degli antichi sedimenti. Erano invece solcati ovunque da canyon, trincee e crepacci, disseminati di vulcani sottomarini che denominò guyot in onore di Arnold Guyot, uno dei primi geologi di Princeton.10 Tutto questo era un vero e proprio mistero, ma Hess aveva una guerra da combattere, quindi accantonò questi pensieri in un angolo della mente.
Dopo la guerra, sebbene Hess fosse tornato a Princeton e alle preoccupazioni dell'insegnamento, i misteri dei fondali marini continuavano a riempire i suoi pensieri. Nel frattempo, per tutti gli
anni Cinquanta, gli oceanografi effettuarono rilevamenti sempre più sofisticati dei fondali, che riservarono loro una sorpresa ancora più grande: la più imponente ed estesa catena montuosa del pianeta si trovava in gran parte sott'acqua. Essa tracciava una linea continua sui fondali marini del globo, creando un disegno simile a quello impresso su una palla da tennis. Se si parte dall'Islanda e si viaggia verso sud, lo si può seguire fino al centro dell'oceano Atlantico, poi intorno all'Africa e lungo l'oceano Indiano e i mari del Sud, per arrivare nel Pacifico appena sotto l'Australia; qui la catena montuosa disegna un angolo attraverso il Pacifico, come per dirigersi verso la Baja California, prima di impennarsi verso la costa occidentale degli Stati Uniti in direzione dell'Alaska. Di tanto in tanto, le sue cime più alte affiorano in superficie sotto forma di isole o arcipelaghi (per esempio le Azzorre e le Canarie nell'Atlantico, e le Hawaii nel Pacifico) ma, in massima parte, questi rilievi se ne stanno sommersi sotto migliaia di metri di acqua salata, sconosciuti e insospettabili. Una volta sommata la lunghezza di tutte le sue diramazioni, l'intera rete risultò avere un'estensione di 75.000 chilometri.
Per qualche tempo, di tutto questo si seppe molto poco. Nel diciannovesimo secolo, gli addetti alla posa dei cavi sul fondo dell'oceano si erano accorti, dal modo in cui si comportavano i cavi stessi, che al centro dell'Atlantico doveva esserci una qualche sporgenza montuosa; la natura continua e le dimensioni globali di questa catena, però, rappresentarono una straordinaria sorpresa. Come se non bastasse, essa presentava inspiegabili anomalie fisiche. Giù in fondo, in mezzo alla cresta, al centro dell'oceano Atlantico, c'era un canyon - un rift - ampio oltre 20 chilometri, che si estendeva per tutti i suoi 19.000 chilometri di lunghezza. Ciò sembrava suggerire che la Terra si stesse rompendo a livello delle giunture, come una noce che esplodesse rompendo il guscio. Era un'idea assurda e inquietante, ma non si poteva negare l'evidenza.
Poi, nel 1960, campioni di carotaggio mostrarono che il fondo dell'oceano era abbastanza recente lungo la dorsale medioatlantica, ma diventava progressivamente più antico allontanandosi da essa sia verso ovest sia verso est. Harry Hess studiò il problema e comprese che il quadro osservato poteva significare solo una cosa: la nuova crosta oceanica si stava formando su entrambi i lati della spaccatura centrale, e veniva allontanata a mano a mano che la
nuova crosta si formava e avanzava. Il fondale atlantico appariva in realtà formato da due grandi nastri trasportatori: uno che spingeva la crosta verso il Nord America, l'altro che la spingeva verso l'Europa. Il processo divenne noto come espansione dei fondali oceanici.
Quando la crosta oceanica raggiunge la fine del suo viaggio, cioè il confine fra i continenti, sprofonda di nuovo in un processo noto come subduzione: questo sì che spiega dove vadano a finire tutti i sedimenti. Vengono restituiti alle viscere della Terra. Spiega anche perché i fondali oceanici siano dappertutto relativamente recenti. Il fatto che non ne fosse mai stato trovato uno che avesse più di 175 milioni di anni era un mistero, giacché spesso le rocce continentali hanno un'età di miliardi di anni. Ora Hess poteva comprendere il perché. Le rocce dei fondali oceanici durano solo il tempo che occorre loro per arrivare alle coste. Questa era una bellissima teoria, che spiegava davvero molte cose. Hess elaborò le sue argomentazioni in un importante articolo che fu quasi universalmente ignorato. Il fatto è che a volte il mondo proprio non è pronto per accogliere una nuova idea, per buona che sia.
Nel frattempo, due ricercatori che lavoravano indipendentemente stavano facendo alcune sensazionali scoperte a partire da un fatto curioso, relativo alla storia della Terra, venuto alla luce molti decenni prima. Nel 1906 un fisico francese di nome Bernard Brunhes aveva scoperto che il campo magnetico del pianeta di tanto in tanto si inverte, e che la traccia di queste inversioni si fissa in modo permanente su certe rocce, al momento della loro formazione. In particolare, dentro le rocce ci sono piccole quantità di minerale ferroso che indicano la direzione in cui i poli magnetici si trovavano all'epoca della loro formazione, e che poi, quando le rocce si raffreddano e si induriscono, restano puntati in quella direzione. Di fatto, le rocce «ricordano» la posizione dei poli magnetici al momento della loro nascita. Per anni questa fu considerata poco più che una curiosità, ma negli anni Cinquanta Patrick Blackett della London University e S.K. Runcorn della Newcastle University studiarono le antiche configurazioni magnetiche congelate nelle rocce della Gran Bretagna e rimasero a dir poco sbigottiti. Queste infatti indicavano che, in un momento del lontano passato, la Gran Bretagna aveva ruotato sul suo asse e si era mossa per un poco in direzione nord, un po'come se si fosse liberata degli ormeggi. Come se non bastasse, i due scienziati scoprirono anche che se si sovrapponeva una mappa della configurazione magnetica dell'Europa a una dell'America, entrambe relative allo stesso periodo, esse combaciavano come le due metà di una lettera strappata. Era straordinario. Anche le loro scoperte furono ignorate.
Alla fine toccò a due studiosi della Cambridge University -Drummond Matthews, un geofisico, e Fred Vine, un suo studente - il compito di ricongiungere tutti i fili. Nel 1963, usando gli studi magnetici del fondale dell'oceano Atlantico, essi dimostrarono in maniera definitiva che il fondale marino si espandeva proprio come aveva ipotizzato Hess, e che anche i continenti erano in movimento. Uno sfortunato geologo canadese, Lawrence Morley, giunse alla stessa conclusione proprio nello stesso periodo, ma non riuscì a trovare nessuno che pubblicasse il suo articolo. In quello che è ormai divenuto un famoso rifiuto, l'editore del Journal o/Geophyst-calResearch gli disse: «Tali speculazioni possono essere interessante materia di conversazione a un cocktail, ma non sono il tipo di materiale che merita di essere pubblicato sotto l'egida della scienza seria ». In seguito, un geologo lo definì « con ogni probabilità l'articolo più importante di scienze della Terra a cui sia mai stata negata la pubblicazione».11
A ogni modo, l'idea di una crosta mobile era ormai matura. Nel 1964, sotto gli auspici della Royal Society, fu convocato a Londra un simposio cui presero parte quasi tutte le figure più autorevoli del settore. All'improvviso, sembrava che tutti si fossero convertiti. La Terra, convenne l'assemblea, era un mosaico di segmenti interconnessi le cui immani spinte reciproche spiegavano gran parte del comportamento superficiale del pianeta.
L'espressione «deriva dei continenti» fu abbandonata abbastanza rapidamente quando si capì che in realtà era l'intera crosta a muoversi, e non soltanto i continenti. Invece occorse un po' di tempo perché gli scienziati si accordassero sul nome da dare ai singoli segmenti. All'inizio li chiamarono con vari appellativi, fra cui «blocchi di crosta». Fu solo verso la fine del 1968, quando sul Journal of Geophysical Research fu pubblicato l'articolo di tre sismologi americani, che i segmenti ricevettero il nome col quale li chiamiamo anche oggi: placche. Sempre lo stesso articolo definiva la nuova scienza: tettonica a placche.
Le vecchie idee sono dure a morire, e non tutti si precipitarono
ad abbracciare la nuova ed eccitante teoria. Fino a metà degli anni Settanta, uno dei più diffusi e influenti manuali di geologia, The Earth, scritto dall'autorevole Harold Jeffreys, insisteva strenuamente nell'affermare che la tettonica a placche era un'impossibilità fisica, esattamente come aveva fatto nella prima edizione, risalente al 1924.12 L'autore si mostrava poi altrettanto sprezzante verso l'idea della convezione e dell'espansione dei fondali oceanici. In Basin andRange, pubblicato nel 1980, John McPhee osservava che un geologo americano su otto stentava ancora a credere alla tettonica a placche.13
Oggi sappiamo che la superficie terrestre è costituita da otto-
dodici grandi placche (il numero dipende dal criterio con cui si definisce quel « grandi ») e da circa altre venti più piccole, che si muovono tutte in direzioni diverse e a diversa velocità.14 Alcune placche sono grandi e relativamente inattive, altre piccole ma più dinamiche. Esse hanno una relazione solo incidentale con le masse di terraferma che poggiano su di esse. La placca nordamericana, per esempio, è molto più grande del continente al quale è associata. Essa traccia, a grandi linee, il profilo della costa occidentale del continente (ed è per questo che quell'area è tanto attiva a livello sismico: l'attività è causata dall'urto e dalla collisione dei confini della placca), ma ignora del tutto la linea costiera orientale, per estendersi nell'Atlantico fino alla dorsale medio-oceanica. L'Islanda è divisa a metà, il che la rende, sotto il profilo tettonico, per metà americana e per metà europea. La Nuova Zelanda, invece, è parte dell'immensa placca dell'oceano Indiano, sebbene non si trovi affatto vicina a esso. E questo vale per la maggior parte delle placche.
I rapporti tra le masse continentali attuali e quelle del passato si rivelarono infinitamente più complessi di quanto si potesse immaginare.15 Emerse che il Kazakistan era un tempo attaccato alla Norvegia e al New England. Un angolo di Staten Island, ma solo un angolo, è europeo, e così pure parte di Terranova. Se si raccoglie un sasso su una spiaggia del Massachusetts, c'è da star certi che il suo parente più prossimo oggi si trova in Africa. Le Highlands scozzesi e gran parte della Scandinavia sono sostanzialmente americane. Parte della Shackleton Range, in Antartide, potrebbe essere appartenuta agli Appalachi degli Stati Uniti orientali. In poche parole, le rocce si muovono.
Il continuo rimescolarsi impedisce alle placche di fondersi in un'unica struttura immobile. Supponendo che le cose continuino a funzionare più o meno come adesso, l'oceano Atlantico si espanderà fino a diventare molto più grande del Pacifico. Gran parte della California si staccherà per dare vita a una sorta di Madagascar del Pacifico. L'Africa si spingerà verso nord penetrando in Europa, comprimendo il Mediterraneo sino a farlo scomparire e dando luogo alla formazione di una catena montuosa imponente quanto quella himalayana, che si estenderà da Parigi a Calcutta. L'Australia colonizzerà le isole che si trovano più a nord e si connetterà, per mezzo di un istmo - una sorta di cordone ombelicale - all'Asia. Tutti questi sono esiti futuri di eventi che tuttavia sono già in corso. Mentre ce ne stiamo seduti qui, i continenti sono alla deriva come foglie sulle acque di uno stagno. Grazie ai Global Positioning Systems possiamo vedere che Europa e Nord America si stanno separando all'incirca alla stessa velocità con cui crescono le nostre unghie: due metri circa nel corso di una vita umana.16 Se foste disposti ad aspettare abbastanza a lungo, potreste farvi portare da Los Angeles a San Francisco. E solo la brevità della vita umana che ci impedisce di apprezzare i cambiamenti. Dare un'occhiata al mappamondo è come vedere un'istantanea dei continenti, così come sono stati per appena lo 0,1 per cento della storia della Terra.17
La Terra è l'unico pianeta roccioso ad avere la tettonica: il motivo di ciò è alquanto misterioso. Non si tratta solo di una questione di dimensioni o di densità. Sotto questo aspetto, il pianeta Venere è quasi un gemello della Terra, eppure non ha attività tettonica. Forse è solo perché noi abbiamo i materiali giusti nella giusta quantità per mantenere il pianeta in uno stato di continuo fermento. Sebbene non sia altro che un'idea, si ritiene che la tettonica costituisca una parte importante del benessere organico della Terra. Come ha detto il fisico e scrittore James Trefil, « sarebbe dura credere che il continuo movimento delle placche tettoniche non abbia alcun effetto sullo sviluppo della vita terrestre». Trefil ipotizza che le stimolazioni prodotte dalla tettonica (per esempio le modificazioni climatiche) siano state importanti per lo sviluppo dell'intelligenza.18 Altri credono che la deriva dei continenti possa avere prodotto almeno alcuni dei vari eventi di estinzione verificatisi sulla Terra. Nel novembre del 2002 Tony Dickson della Cambridge University ha scritto un articolo pubblicato su Science, nel quale ipotizza con grande convinzione che possa esistere una relazione tra la storia delle rocce e la storia della vita.19 Dickson ha stabilito che nel corso dell'ultimo mezzo miliardo di anni la composizione chimica degli oceani si è alterata in maniera brusca e drammatica diverse volte, e che queste alterazioni sono spesso correlate a importanti eventi della storia della vita: la grande esplosione di minuscoli organismi che creò le scogliere di gesso della costa meridionale inglese; la moda improvvisa, diffusasi fra gli organismi marini del periodo Cambriano, di proteggersi con conchiglie e gusci duri, e così via. Nessuno può dire cosa induca, di tanto in tanto, la chimica degli oceani a cambiare così drasticamente, tuttavia i movimenti di chiusura e apertura delle dorsali oceaniche potrebbero essere i più ovvi indiziati.
A ogni modo, la tettonica a placche spiega non solo la dinamica di superficie della Terra (per esempio come mai Hipparion si spostò dalla Francia alla Florida) ma anche molti suoi movimenti interni. I terremoti, la formazione delle catene di isole, il ciclo del carbone, la posizione delle montagne, l'avvento delle ere glaciali, l'origine stessa della vita: non esiste praticamente nulla che non sia stato direttamente influenzato da questa straordinaria nuova teoria. I geologi, come ha osservato McPhee, si trovarono nella vertiginosa situazione in cui «tutto il pianeta, all'improvviso, acquistava un senso ».20
Solo fino a un certo punto, però. La distribuzione dei continenti nelle epoche precedenti la nostra è una questione risolta molto meno chiaramente di quanto pensa la maggior parte delle persone estranee alla geofisica. Sebbene i libri di testo forniscano rappresentazioni apparentemente sicure delle antiche masse terrestri, indicate con nomi quali Laurasia, Gondwana, Rodinia e Pangea, a volte tali rappresentazioni si basano su conclusioni che non stanno affatto in piedi. Come osserva George Gaylord Simpson in I fossili e la storia della vita, le specie vegetali e animali del mondo antico hanno l'abitudine inopportuna di apparire dove non dovrebbero e di non presentarsi dove ci aspetteremmo di trovarle.21
Il profilo di Gondwana, continente un tempo enorme che riuniva Australia, Africa, Antartide e Sud America, si basava in larga
parte sulla distribuzione di Glossopteris, un antico genere di felce che era stato ritrovato in tutti i posti « giusti». Molto tempo dopo, tuttavia, Glossopteris fu rinvenuto anche in luoghi del mondo che non avevano alcuna connessione nota con Gondwana. Questa preoccupante discrepanza era, e continua a essere, in larga parte ignorata. Allo stesso modo, un rettile del Triassico, denominato listro-sauro, è stato ritrovato dall'Antartide all'Asia, dimostrando così l'ipotesi di una precedente connessione tra questi continenti; tuttavia, non è mai comparso in Sud America e in Australia, che si ritiene facessero parte del medesimo continente nello stesso periodo.Ci sono anche molte caratteristiche della superficie terrestre che la tettonica non riesce a spiegare.22 Prendete Denver. Come tutti sanno, si trova a 1600 metri di altitudine, ma il sollevamento del territorio in cui essa sorge è relativamente recente. Quando i dinosauri vagavano per la Terra, l'area di Denver faceva parte di un fondale oceanico, molte centinaia di metri sotto il livello del mare. Eppure le rocce sulle quali adesso poggia Denver non sono fratturate o deformate come ci aspetteremmo di trovarle se fossero state spinte verso l'alto dalla collisione delle placche - e comunque, Denver era troppo lontana dai confini delle placche per essere soggetta alla loro azione. Sarebbe come spingere un tappeto nella speranza di formare una piega sul lato opposto. Misteriosamente, nel corso di milioni di anni, sembra che Denver abbia continuato a lievitare come il pane nel forno. La stessa cosa pare sia accaduta alla regione meridionale dell'Africa: una porzione di circa 1600 chilometri si è andata sollevando di circa un chilometro e mezzo nel corso di quasi 100 milioni di anni, senza che al fenomeno fosse associata alcuna attività tettonica nota. L'Australia, nel frattempo, è andata inclinandosi e sprofondando. Negli ultimi 100 milioni di anni, mentre andava alla deriva verso l'Asia, il suo fronte di avanzamento è sprofondato di circa 200 metri. Sembra che l'Indonesia stia sprofondando molto lentamente, trascinando con sé l'Australia. Nessun elemento della teoria della tettonica può spiegare qualcosa di tutto ciò.
Alfred "Wegener non visse abbastanza a lungo da poter vedere vendicate le sue idee. Nel 1930, nel corso di una spedizione in Groenlandia, si allontanò da solo, nel giorno del suo cinquantesimo compleanno, alla ricerca di rifornimenti paracadutati. Non fece più ritorno. Fu ritrovato qualche giorno dopo, morto assiderato sul
ghiaccio.23 Lo seppellirono sul posto e lì giace ancora - sebbene circa un metro più vicino al Nord America, rispetto al giorno in cui morì.
Anche Einstein non visse abbastanza a lungo per accorgersi di aver puntato sul cavallo sbagliato. Morì a Princeton nel 1955, prima che lo scritto in cui Charles Hapgood stroncava la teoria della deriva dei continenti fosse pubblicato.
All'epoca, anche Harry Hess, l'altro attore con un ruolo da protagonista nella nascita della teoria della tettonica, si trovava a Princeton dove avrebbe passato il resto della carriera. Uno dei suoi studenti era un giovane brillante di nome Walter Alvarez, che avrebbe finito per cambiare il mondo della scienza in maniera assai differente.24
Quanto alla geologia, i suoi cataclismi erano appena cominciati, e fu proprio il giovane Alvarez a dare inizio al processo.
QUARTA PARTE. Un pianeta pericoloso
«La storia di ogni singola parte della Terra, così come la vita di un soldato, è fatta di lunghi periodi di noia e brevi periodi di terrore. »
Derek V. Ager, geologo inglese
13. Bang!
Lo si sapeva da moltissimo tempo che nel sottosuolo di Manson, nell'Iowa, c'era qualcosa di strano. Nel 1912 un operaio che stava scavando un pozzo per il rifornimento idrico della città riferì di aver portato alla luce una gran quantità di rocce stranamente deformate: «breccia clastica cristallina con matrice fusa» e «materiale eiettato ridepositato e rovesciato » come furono descritti poi in una relazione ufficiale.1 Anche l'acqua era strana. Aveva caratteristiche quasi simili a quelle dell'acqua piovana. Mai prima di allora si era riscontrata nell'Iowa la presenza naturale di acqua con un indice di durezza tanto basso.
Sebbene le strane rocce e le acque lisce di Manson fossero motivo di curiosità, dovettero passare quarantuno anni prima che un gruppo di ricercatori della University of Iowa si decidesse a fare un giro da quelle parti. Proprio come oggi, la cittadina di Manson, situata nella parte nordoccidentale dello stato, contava circa duemila abitanti. Nel 1953, dopo aver praticato una serie di perforazioni sperimentali, i geologi erano concordi nel ritenere che il luogo fosse effettivamente anomalo e attribuirono la deformazione delle rocce a una qualche antica attività vulcanica non specificata. Tale conclusione era in armonia con le conoscenze del tempo, ma era anche la più sbagliata che si potesse trarre.
Il trauma riscontrato nella conformazione geologica di Manson non era stato infetto dall'interno della Terra, ma da qualcosa distante almeno centocinquanta milioni di chilometri. In un passato molto remoto, quando Manson si trovava sulla linea costiera di un mare poco profondo, una roccia del diametro di circa due chilometri e mezzo, pesante dieci miliardi di tonnellate, lanciata a una velocità di forse duecento volte superiore a quella del suono, attraversò come un lampo l'atmosfera e piombò sulla Terra con una violenza e una subitaneità difficili da immaginare. Il luogo in cui oggi sorge Manson divenne in un istante una buca profonda quasi
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cinque chilometri e larga più di trenta. Le formazioni calcaree, che in altre aree garantiscono all'Iowa la sua acqua dura ricca di minerali, furono cancellate e sostituite da rocce del basamento recanti chiari segnali di shock, le stesse che avevano gettato nello sconcerto l'uomo addetto alle perforazioni nel 1912.
L'impatto di Manson fu l'evento più importante mai verificatosi nel territorio degli Stati Uniti continentali. Sotto ogni profilo. In qualsiasi epoca. Il cratere che esso lasciò per ricordo era così gigantesco che, trovandosi su una sponda, quella opposta sarebbe stata visibile solo nei giorni di bel tempo. In confronto, il Grand Canyon sarebbe sembrato un'insignificante curiosità. Gli amanti degli scenari spettacolari, però, rimarranno delusi: il passaggio dei ghiacci, per i 2,5 milioni di anni successivi, riempì infatti il cratere di abbondanti detriti glaciali, finendo così per livellarlo, al punto che oggi - a Manson e nel raggio di diversi chilometri - il paesaggio è piatto come una tavola. Ed è esattamente per questo che nessuno ha mai sentito parlare di questo cratere.
Alla biblioteca di Manson sono tutti ben lieti di mostrare una raccolta di articoli di giornale e una scatola contenente i campioni prelevati nel corso di un programma di carotaggio effettuato nel 1991-92. In realtà, si mettono subito all'opera per mostrarle al visitatore, il quale tuttavia deve chiedere di poterle vedere. Non esiste una mostra permanente, né alcuna indicazione storica, in nessun punto della città.
Per la maggior parte degli abitanti di Manson, la cosa più sensazionale mai accaduta nella loro località fu un tornado che si abbatté su Main Street nel 1979, distruggendo la zona commerciale. Uno dei vantaggi, nell'esser circondati da tutto quel territorio pianeggiante, è che ci si accorge di un pericolo in avvicinamento quando esso è ancora molto distante. Quasi tutta la città, infatti, confluì verso un estremo di Main Street e per una buona mezz'ora se ne stette lì a guardare il tornado che avanzava verso la città, sperando che deviasse. Poi, prudentemente, se la diedero tutti a gambe.2 Quattro persone, ahimè, non si mossero con la dovuta rapidità e rimasero uccise. Ogni anno, a giugno, si tiene a Manson una manifestazione che dura un'intera settimana, chiamata Crater Days, ideata per aiutare la gente a dimenticare quel triste anniversario. Ma in realtà non ha niente a che fare con il cratere. Nessuno è
ancora riuscito a escogitare un modo per sfruttare il sito di un impatto invisibile.
«Molto sporadicamente si presenta qualcuno che vuol sapere dove andare per vedere il cratere. E comunque dobbiamo dirgli che non c'è proprio niente da vedere» spiega Anna Schlapkohl, la simpatica bibliotecaria della città. «A quel punto se ne vanno un po' delusi. »3 In massima parte, però, la gente non ha mai sentito parlare del cratere di Manson - e la maggioranza dei cittadini dell'Iowa non fa eccezione. Perfino per i geologi il sito non merita più di una nota a pie di pagina. Per un breve periodo, tuttavia, negli anni Ottanta, Manson fu considerato il luogo geologicamente più emozionante del pianeta.
La storia ha inizio al principio degli anni Cinquanta, quando Eugene Shoemaker, un geologo giovane e brillante, visitò il Meteor Crater in Arizona. Oggi il Meteor Crater è il sito di impatto più famoso della Terra, ed è una popolare attrazione turistica. A quei tempi invece non richiamava molti visitatori ed era spesso indicato ancora come Barringer Crater, dal nome di un ricco ingegnere minerario, Daniel M. Barringer, che nel 1903 aveva ottenuto una concessione per lo sfruttamento del luogo. Barringer era convinto che il cratere fosse stato prodotto dall'impatto con un meteorite di dieci milioni di tonnellate, e confidava di poter fare fortuna estraendo il ferro e il nichel di cui era, secondo lui, ricchissimo. Inconsapevole del fatto che il meteorite doveva essersi vaporizzato nell'impatto insieme a tutto il suo contenuto, dilapidò una fortuna, e i ventisei anni successivi, per scavare tunnel che non lo portarono a niente.
Rispetto agli standard attuali, all'inizio del ventesimo secolo la ricerca sui crateri era, per usare un eufemismo, poco sofisticata. Fra i primi ricercatori, GK. Gilbert della Columbia University fu l'uomo di punta e riuscì a descrivere gli effetti degli impatti servendosi di modelli ottenuti scagliando frammenti di marmo in ciotole piene di porridge.4 (Per ragioni che mi sfuggono, non condusse i suoi esperimenti in un laboratorio della Columbia, ma in una camera d'albergo.5) In un modo o nell'altro, da questi suoi modelli Gilbert dedusse che i crateri della Luna - ma non quelli della Terra - si erano formati proprio in seguito a impatti: un'idea che di per se stessa era abbastanza radicale a quell'epoca. E la maggior parte degli scienziati, infatti, si rifiutò di accettarla. Per loro, i crateri
lunari provavano l'esistenza di antichi vulcani - e niente di più. I pochi crateri rimasti visibili sulla superficie terrestre (la maggior parte era stata cancellata dai processi di erosione) venivano di solito attribuiti ad altre cause o trattati come fortuite rarità.
Al tempo in cui Shoemaker fece il suo ingresso in scena, era opinione comune che il Meteor Crater si fosse formato a causa di un'esplosione di vapore avvenuta sottoterra. Shoemaker non sapeva niente sulle esplosioni sotterranee di vapore (e in effetti non poteva saperne nulla: non esistono) ma sapeva tutto sulle zone di deflagrazione. Uno dei suoi primi lavori, una volta finiti gli studi, era stato quello di analizzare gli anelli causati dalle esplosioni dei test nucleari eseguiti in Nevada, nel sito delle Yucca Flats. Come Barringer prima di lui, anche Shoemaker giunse alla conclusione che nulla, nel Meteor Crater, suggeriva un'attività vulcanica; c'era invece un'enorme distribuzione di altri materiali - polveri silicee anomale e magnetiti, soprattutto - che faceva propendere per l'ipotesi di un impatto con un oggetto proveniente dallo spazio. Incuriosito, Shoemaker cominciò a interessarsi al problema nel tempo libero.
Lavorando prima con la collega Eleanor Helin, e successivamente con la moglie Carolyn e il collega David Levy, Shoemaker cominciò un'analisi sistematica del sistema solare interno. I tre erano soliti trascorrere una settimana al mese presso il Palomar Observa-tory, in California, alla ricerca di oggetti - soprattutto asteroidi - la cui traiettoria attraversasse l'orbita terrestre.
« Quando cominciammo, ne erano stati scoperti poco più di una decina nel corso di tutte le osservazioni astronomiche» ricordò più tardi Shoemaker in un'intervista televisiva. «In pratica, nel ventesimo secolo, gli astronomi avevano abbandonato il sistema solare» aggiunse. « L'attenzione era tutta rivolta alle stelle e alle galassie. »6
Shoemaker e i suoi colleghi scoprirono che lo spazio intorno a noi è un luogo pieno di rischi, molto più di quanto si pensasse.
Come molti sanno, gli asteroidi sono oggetti rocciosi che orbitano in formazione sciolta in una fascia compresa tra Marte e Giove. Le illustrazioni ce li mostrano sempre alquanto ammassati, ma in realtà nel sistema solare c'è moltissimo spazio, e un asteroide si trova mediamente a una distanza di mezzo milione di chilometri dal suo
vicino più prossimo. Nessuno sa dire nemmeno in via approssimativa quanti asteroidi sfreccino nello spazio, ma si pensa che nel complesso il loro numero non sia inferiore al miliardo. Si ritiene che si tratti del materiale di un pianeta non sopravvissuto, materiale la cui aggregazione fu impedita, e lo è tuttora, dall'effetto destabilizzante dell'attrazione gravitazionale di Giove.
Nel diciannovesimo secolo, quando furono individuati i primi asteroidi (il primo fu scoperto il giorno di Capodanno del 1800 da un italiano di nome Giuseppe Piazzi) si pensava che fossero pianeti, e i primi due furono battezzati Ceres e Pallas. Furono necessarie le ispirate deduzioni dell'astronomo William Herschel per capire che quegli oggetti non avevano affatto le dimensioni di un pianeta, ma erano molto più piccoli. Herschel li chiamò asteroidi, da un'espressione latina che significa « simile a una stella »: un termine alquanto infelice, quindi, se si considera che non hanno nulla in comune con le stelle.7 Oggi a volte sono chiamati, con un termine più accurato, planetoidi.
Al principio del diciannovesimo secolo la caccia agli asteroidi diventò un'attività molto di moda, e infatti alla fine del secolo se ne conoscevano ormai circa un migliaio. Il problema era che nessuno li stava registrando in modo sistematico. All'inizio del ventesimo secolo era ormai diventato impossibile sapere se un asteroide fosse effettivamente nuovo o un oggetto già scoperto di cui nel frattempo si erano perse le tracce. A quell'epoca, poi, l'astrofisica aveva fatto tali progressi che ben pochi astronomi erano disposti a dedicare la propria vita a oggetti banali come i planetoidi. Solo alcuni - in particolare Gerard Kuiper, l'astronomo di origine olandese da cui prende il nome la cintura delle comete - mostrarono di nutrire un qualche interesse per il sistema solare. Grazie al suo lavoro presso il McDonald Observatory in Texas, seguito più tardi dalle ricerche svolte da altri presso il Minor Planet Center di Cincinnati e nell'ambito del progetto Spacewatch, in Arizona, la lunga lista di asteroidi smarriti si andò a mano a mano riducendo, finché al termine del ventesimo secolo ne mancava all'appello solo uno: un oggetto denominato 719 Albert. Avvistato l'ultima volta nell'ottobre del 1911, fu infine rintracciato nel 2000, dopo ottantanove anni di latitanza spaziale.8
Per quanto riguarda la ricerca sugli asteroidi, quindi, il ventesimo secolo si ridusse, in sostanza, a un lungo esercizio di contabilità.
Di fatto, solo negli ultimi anni gli astronomi hanno cominciato a contare e tenere d'occhio la restante comunità degli asteroidi. Nel luglio del 2001, gli asteroidi identificati e nominati ammontavano a 26.000, la metà dei quali registrata nei due anni precedenti.9 Poiché ce ne sono un miliardo, la conta è ovviamente appena cominciata.
In un certo senso, non ha molta importanza. Non è che l'identificazione di un asteroide faccia di esso un oggetto più sicuro. Quand'anche ogni asteroide presente nel sistema solare avesse un nome e un'orbita conosciuti, nessuno sarebbe in grado di dire quali perturbazioni potrebbero scagliarne uno qualsiasi sul nostro pianeta. Non riusciamo nemmeno a prevedere i disturbi che interessano la crosta rocciosa della superficie terrestre. Il comportamento di queste rocce alla deriva nello spazio sfugge a qualsiasi previsione. Molto probabilmente, ogni asteroide a cui abbiamo dato il nome non tornerà, per così dire, sui suoi passi per farsene dare un altro.
Immaginiamo l'orbita terrestre come una sorta di autostrada sulla quale viaggi un solo veicolo - la Terra, appunto - e che venga attraversata regolarmente da pedoni ignari di dover guardare a destra e a sinistra prima di abbandonare il ciglio della strada. Almeno il 90 per cento di questi pedoni ci è del tutto sconosciuto. Non sappiamo dove vivano, che orari abbiano, quante volte capitino sulla nostra strada. Sappiamo solo che a un certo punto, a intervalli irregolari, si lanciano nel mezzo della strada che noi stiamo percorrendo a più di centomila chilometri all'ora.10 Come ha detto Steven Ostro del Jet Propulsion Laboratory: « Supponiamo di poter schiacciare un bottone e illuminare così tutti gli asteroidi di più di dieci metri di diametro che attraversano l'orbita terrestre; ci renderemmo subito conto che nel cielo ce ne sono più di cento milioni». In breve, uno non vedrebbe circa duemila stelle scintillanti e lontane, ma milioni e milioni e milioni di oggetti ben più vicini che si muovono a caso, « ciascuno dei quali potrebbe entrare in collisione con la Terra. Tutti che solcano il cielo su traiettorie leggermente diverse e a differenti velocità. Sarebbe una cosa profondamente inquietante».11 Inquietatevi pure, perché è tutto vero. Solo che non possiamo vederli.
Sebbene in realtà sia solo un'ipotesi basata sull'estrapolazione dei dati sui crateri lunari, si ritiene che la nostra orbita sia attraversata regolarmente da qualcosa come duemila asteroidi, tutti abbastanza grandi da mettere a repentaglio la civiltà umana. Anche
un asteroide più piccolo, però, per esempio delle dimensioni di una casa, potrebbe distruggere una città. Il numero di questi gingilli che attraversano l'orbita della Terra è quasi certamente nell'ordine delle centinaia di migliaia e forse dei milioni. E sono quasi impossibili da individuare.
Il primo fu identificato soltanto nel 1991, e comunque solo dopo che era già passato. Denominato 1991 ba, fu notato mentre si allontanava da noi a una distanza di 170.000 chilometri: in termini cosmici l'equivalente di un proiettile che trapassa la manica di qualcuno senza scalfirgli il braccio. Due anni dopo, un altro asteroide un po' più grande ci mancò di soli 145.000 chilometri, e quello fu il passaggio più vicino mai registrato. Anche questo oggetto fu visto solo quando ormai era già passato, quindi avrebbe potuto colpirci senza preavviso. Secondo Timothy Ferris del New Yorker, queste collisioni mancate per un soffio si verificano probabilmente in ragione di due o tre alla settimana, e passano inosservate.12
Un oggetto del diametro di un centinaio di metri non potrebbe essere intercettato da nessun telescopio terrestre fino a che non distasse solo qualche giorno da noi. E questo soltanto se il telescopio fosse puntato proprio su di esso, il che è improbabile, giacché anche oggi il numero di studiosi che cercano questi oggetti è modesto. L'analogia proposta di solito, e che non manca di sorprendere, è che in tutto il mondo il numero di scienziati attivi nella ricerca degli asteroidi è inferiore a quello del personale di un normale ristorante McDonald's. (In realtà, oggi è un po' più elevato. Ma solo un po'.)
Mentre Eugene Shoemaker cercava di creare un certo interesse sui pericoli in agguato nel sistema solare interno, in Italia si stavano svolgendo altri eventi (in apparenza privi di connessione con gli asteroidi) grazie al lavoro di un giovane geologo del Lamont Do-herty Laboratory della Columbia University. Al principio degli anni Settanta, Walter Alvarez stava conducendo alcune ricerche sull'Appennino umbro, in una valle pittoresca nota come gola del Bottaccione, vicino a Gubbio, quando fu incuriosito da una sottile banda di argilla rossa che divideva due antichi strati calcarei, uno risalente al Cretaceo, l'altro al Terziario. Si tratta di un punto noto
in geologia come il confine kt* e segna il momento - corrispondente a sessantacinque milioni di anni fa - in cui i dinosauri e circa metà delle altre specie animali allora esistenti scompaiono all'improvviso dalla documentazione fossile. Alvarez cominciò a chiedersi che cosa ci fosse in quella sottile lamina d'argilla di sei millimetri scarsi, in grado di spiegare un frangente così drammatico nella storia della Terra.
All'epoca, l'opinione comunemente accettata sull'estinzione dei dinosauri era rimasta quella espressa da Charles Lyell un secolo prima, e cioè che i dinosauri si fossero estinti nel corso di milioni di anni. D'altra parte, l'esiguo spessore di quello strato d'argilla suggeriva che - almeno in Umbria - fosse accaduto qualcosa di ben più improvviso. Purtroppo, negli anni Settanta non esistevano analisi in grado di determinare il tempo occorso per la formazione di un simile deposito.
In condizioni normali, quasi certamente Alvarez avrebbe dovuto lasciar perdere; ma per fortuna era in ottimi rapporti con una persona al di fuori della sua disciplina che avrebbe potuto essergli d'aiuto: suo padre Luis. Luis Alvarez era l'eminente fisico nucleare vincitore, dieci anni prima, del Nobel per la fisica. Aveva sempre mostrato un leggero disprezzo per la passione del figlio verso le rocce; questo problema, però, gli parve intrigante. Pensò che la risposta potesse trovarsi nella polvere proveniente dallo spazio.
Ogni anno sulla Terra si accumulano qualcosa come 30.000 tonnellate di «sferule cosmiche» (in un linguaggio più semplice, polvere proveniente dallo spazio); sebbene complessivamente questo materiale sia moltissimo, disperso su tutto il globo è una presenza infinitesimale.13 In questo impalpabile velo di polvere si trovano elementi esotici, di norma rari sulla Terra. Tra questi c'è l'iridio, migliaia di volte più abbondante nello spazio che sulla crosta terrestre (si ritiene infatti che l'iridio originariamente presente sulla Terra sia sprofondato verso il nucleo quando il nostro pianeta era ancora giovane).
Luis Alvarez sapeva che in California Frank Asaro - un suo
* L'abbreviazione per il confine Cretaceo-Terziario è KT e non CT perché la C è associata al Cambriano. A seconda della fonte più accreditata, la K viene fatta risalire sia al greco kreta che al tedesco Kreide. Entrambi i vocaboli indicano il gesso, esattamente come Cretaceo.
collega del Lawrence Berkeley Laboratory - aveva messo a punto una tecnica per misurare con grande precisione la composizione chimica delle argille servendosi di un processo denominato « analisi per attivazione neutronica ». Essa comportava il bombardamento dei campioni con neutroni all'interno di un piccolo reattore nucleare, e la conta dei raggi gamma emessi. Si trattava di un lavoro molto meticoloso. In precedenza, Asaro aveva usato la sua tecnica per analizzare frammenti di vasellame; d'altra parte, Alvarez pensò che se avessero misurato la quantità di uno degli elementi esotici presenti nei campioni di terreno prelevati da suo figlio, e li avessero confrontati con il tasso di deposizione annuo dello stesso elemento, sarebbe stato possibile risalire al tempo richiesto per la formazione dei campioni. In un pomeriggio d'ottobre del 1977, Luis e Walter Alvarez andarono a trovare Asaro e gli chiesero se fosse disposto a condurre per loro i test necessari.
Si trattava di una richiesta piuttosto sfacciata. Stavano chiedendo ad Asaro di dedicare mesi interi a cavillose misurazioni sui campioni geologici, solo per confermare una cosa che sembrava del tutto evidente, e cioè che il sottile strato d'argilla si era formato in un tempo tanto breve quanto quello suggerito dalla sua esilità. Di sicuro nessuno si aspettava che le analisi rivelassero chissà quali sorprese.
«Be', furono molto accattivanti e persuasivi» ricordò Asaro nel corso di un'intervista rilasciata nel 2002. «E poi sembrava un'impresa interessante, e quindi acconsentii. Purtroppo avevo in ballo moltissimo altro lavoro, e quindi passarono otto mesi prima che potessi dedicarmici. » Consultò gli appunti presi in quel periodo: «Il 21 giugno 1978, alle 13.45, mettemmo un campione nel rilevatore. Lo lasciammo in funzione per 224 minuti, finché ci accorgemmo che stavamo ottenendo dei risultati interessanti, così fermammo tutto e andammo a dare un'occhiata».14
In realtà i risultati erano talmente inaspettati che all'inizio i tre scienziati pensarono di aver commesso qualche errore. La quantità di iridio presente nel campione di Alvarez superava di trecento volte i livelli normali, ben oltre qualsiasi deviazione potessero prevedere. Nei mesi successivi Asaro e la sua collega Helen Micheli lavorarono all'analisi dei campioni fino a trenta ore di fila («una volta partito non ti potevi fermare» spiegò Asaro), ottenendo sempre gli stessi risultati. Le analisi effettuate su altri campioni - provenienti da Danimarca, Spagna, Francia, Nuova Zelanda, Antartide - mostrarono che il deposito di iridio era un fenomeno che interessava tutto il mondo, ed era enormemente alto dappertutto, in certi casi superando i livelli normali anche di cinquecento volte. È chiaro che un picco così straordinario doveva essere stato prodotto da un evento improvviso e di portata enorme, probabilmente un evento catastrofico.
Dopo lunghe riflessioni, gli Alvarez giunsero alla conclusione che la spiegazione più plausibile (almeno per quanto li riguardava) fosse che la Terra era stata colpita da un asteroide o da una cometa.
L'idea che di tanto in tanto la Terra potesse essere soggetta a impatti devastanti non era assolutamente nuova, come oggi a volte si lascia intendere. Già nel 1942 Ralph B. Baldwin, un astrofisico della Northwestern University, aveva ipotizzato tale possibilità in un articolo apparso sulla rivista Popular Astronomy, (L'articolo fu pubblicato lì perché nessuna rivista accademica lo accettò.) Almeno due scienziati molto noti - l'astronomo Ernst Opik e il premio Nobel per la chimica Harold Urey - avevano espresso il loro sostegno a quest'ipotesi in varie occasioni. L'idea non era sconosciuta nemmeno ai paleontologi. Nel 1956 un professore della Oregon State University, M.W. de Laubenfels, scrivendo sul Journal of Paleontologa aveva in pratica anticipato la teoria degli Alvarez, ipotizzando che i dinosauri fossero stati portati all'estinzione dall'impatto della Terra con un corpo proveniente dallo spazio;16 e nel 1970 il presidente dell'American Paleontological Society, Dewey J. McLaren, propose alla conferenza annuale della Society l'ipotesi che l'impatto con un oggetto extraterrestre avesse causato un evento precedente, noto come «estinzione del Frasniano».17
Tanto per sottolineare come l'idea non fosse affatto nuova a quei tempi, nel 1979 uno studio hollywoodiano produsse un film dal titolo Meteor («Ha un diametro di otto chilometri [...] sta arrivando a 48.000 chilometri orari - e non esiste un posto dove nascondersi! ») con un cast composto da Henry Fonda, Natalie Wood, Karl Malden e una roccia gigantesca.
Perciò, quando in occasione di un incontro dell'American As-sociation for the Advancement of Science, tenutosi nella prima settimana del 1980, gli Alvarez annunciarono la loro convinzione
che l'estinzione dei dinosauri non avesse avuto luogo nel corso di un qualche lento e inesorabile processo durato milioni di anni, ma fosse avvenuta all'improvviso a causa di un singolo evento esplosivo, la cosa non avrebbe certo dovuto essere percepita come uno shock.
E invece l'effetto fu proprio quello. Fu accolta dappertutto, ma soprattutto negli ambienti della paleontologia, come un'oltraggiosa eresia.
«Be', bisogna ricordare» dice Asaro «che in quel campo noi eravamo dei dilettanti. Walter era un geologo che si stava specializzando in paleomagnetismo, Luis era un fisico, e io ero un chimico nucleare. E adesso stavamo dicendo ai paleontologi che avevamo risolto un problema di cui loro avevano inseguito inutilmente la soluzione per più di un secolo. Non è poi così sorprendente che non accogliessero la nostra idea subito a braccia aperte. » Come disse Luis Alvarez scherzando, «fummo beccati a fare geologia senza licenza».
E tuttavia, nella teoria dell'impatto c'era qualcosa di detestabile anche a un livello molto più profondo e fondamentale. La convinzione che i processi terrestri fossero graduali era stata un fondamento della storia naturale fin dall'epoca di Lyell. Negli scorsi anni Ottanta, il catastrofismo era ormai fuori moda da così tanto tempo da essere diventato letteralmente inconcepibile. Come osservò Eu-gene Shoemaker, per la maggioranza dei geologi l'idea di un impatto devastante era «contro la loro religione scientifica».
Né fu d'aiuto l'aperto disprezzo che Luis Alvarez ostentava verso i paleontologi e i loro contributi alla conoscenza scientifica. «Davvero non sono buoni scienziati. Più che altro sono dei collezionisti di francobolli» scrisse sul New York Times,16 in un articolo ancora bruciante.
Gli oppositori della teoria degli Alvarez produssero un certo numero di spiegazioni alternative per giustificare i depositi di iridio: per esempio, dissero che erano stati generati da prolungate eruzioni vulcaniche avvenute in India e dette « trappi del Deccan » (il termine « trappo » deriva da una parola svedese che definisce un certo tipo di lava, quanto a «Deccan» è il nome attuale della regione), e soprattutto insistevano sul fatto che i reperti fossili rinvenuti a livello del confine dell'iridio non dimostravano in alcun
modo che i dinosauri fossero scomparsi di colpo. Uno degli oppositori più energici fu Charles Officer del Dartmouth College. Officer insisteva sul fatto che l'iridio si fosse depositato in seguito all'azione vulcanica, anche se poi in un'intervista concessa a un giornale ammise di non poterlo dimostrare.19 Ancora nel 1988, più della metà di tutti i paleontologi americani contattati nel corso di un'indagine continuava a credere che l'estinzione dei dinosauri non fosse in alcun modo connessa all'impatto della Terra con un asteroide o una cometa.20
Ovviamente, l'unica cosa che avrebbe potuto provare la teoria degli Alvarez era anche l'unica cosa che ancora essi non avevano: il sito dell'impatto. Ed è qui che entra in scena Eugene Shoemaker. Shoemaker aveva qualche contatto nell'Iowa (sua cognata insegnava all'Iowa University) e conosceva bene il cratere di Manson per averlo studiato. Grazie a lui, l'Iowa finì sotto i riflettori.
La geologia è una professione che varia da un luogo all'altro. Nell'Iowa, che è piatto e privo di eventi stratigrafici, tende a essere abbastanza tranquilla. Non esistono picchi alpini o ghiacciai che incombono, nessun grande giacimento di petrolio o di metalli preziosi, nemmeno una traccia di flusso piroclastico. Per un geologo assunto dallo stato dell'Iowa, buona parte del lavoro consiste nel valutare i Manure Management Plans (programmi di gestione dello stallatico) che tutti gli «operatori alla contenzione di animali» (quelli che tutti noi conosciamo come allevatori di maiali) presenti nello stato sono tenuti a compilare periodicamente.21 Poiché nell'Iowa vivono quindici milioni di maiali, è chiaro che c'è moltissimo letame da gestire. Non sto facendo dell'ironia: è un lavoro di un'importanza vitale e serve a tenere pulite le acque dello stato. Ma con tutta la più buona volontà del mondo, non è come schivare esplosioni di lava sul monte Pinatubo o andare a tentoni tra i crepacci di un ghiacciaio in Groenlandia alla ricerca di quarzi che rechino remote tracce di vita. Quindi possiamo ben immaginare il brivido di eccitazione che percorse l'Iowa Department of Natural Resources quando, a metà degli anni Ottanta, l'attenzione dei geologi di tutto il mondo si concentrò su Manson e il suo cratere.
Trowbridge Hall, a Iowa City, è una costruzione in mattoni rossi
che risale agli inizi del Novecento e ospita il dipartimento di scienze della Terra dell'Iowa University e, in una specie di sottotetto, i geologi del dipartimento delle risorse naturali dell'Iowa. Nessuno ormai riesce a ricordare quando - e ancor meno perché - i geologi dello stato furono collocati in una struttura accademica; tuttavia si ha l'impressione che lo spazio sia stato concesso a fatica, perché gli uffici sono angusti, con i soffitti bassi e non facilmente accessibili. Quando ti mostrano la strada, quasi ti aspetti di essere accompagnato in un solaio e di doverci entrare dalla finestra.
Ray Anderson e Brian Witzke trascorrono le loro giornate di lavoro lassù, in mezzo a pile di carta, riviste, mappe ripiegate e campioni di pietre pesanti sparsi disordinatamente in giro (i geologi non restano mai a corto di fermacarte). È quel tipo di ambiente dove, se volete trovare qualcosa - un'altra sedia, una tazza per il caffè, un telefono che sta suonando -, dovete spostare cumuli di scartoffie.
«All'improvviso ci trovammo catapultati al centro degli eventi» mi disse Anderson illuminandosi al ricordo, quando lo incontrai insieme a Witzke in una mattina piovosa e deprimente di giugno.22 «Fu un periodo meraviglioso. »
Chiesi loro di parlarmi di Eugene Shoemaker, un uomo che sembra essere universalmente rispettato. «Era proprio un tipo fantastico » rispose Witzke senza esitazione. « Se non fosse stato per lui, tutta la faccenda non sarebbe mai decollata, e anche con il suo aiuto ci vollero comunque due anni per metterla in piedi e farla funzionare. La trivellazione è un lavoro costoso: all'epoca ci voleva un centinaio di dollari al metro e oggi ne occorrono anche di più, e noi dovevamo andare giù fino a mille metri. »
« A volte di più » aggiunse Anderson.
« Sì, a volte di più» annuì Witzke. «E in punti diversi. Quindi stiamo parlando veramente di un sacco di soldi. Di sicuro più di quanto ci avrebbero consentito i nostri fondi. »
Fu così che nacque una collaborazione tra l'Iowa Geologica! Survey e lo US Geologica! Survey.
«Per lo meno: noi pensavamo che fosse una collaborazione» disse Anderson con un sorriso amaro.
«Per noi fu davvero una gran lezione» continuò Witzke. «In quel periodo si faceva anche della cattiva scienza - e parecchia. La
gente si precipitava ad annunciare risultati che non sempre reggevano a un'analisi attenta. » Uno di questi casi si verificò nel 1995, alla conferenza annuale dell'American Geophysical Union, quando Glenn Izett e C.L. Pillmore, dello US Geological Survey, annunciarono che il cratere di Manson era abbastanza antico da poter essere implicato nell'estinzione dei dinosauri.23 La dichiarazione attirò una grande attenzione da parte della stampa, ma purtroppo era prematura. Un'attenta analisi dei dati rivelò che il cratere di Manson non solo era troppo piccolo, ma si era formato nove milioni di anni prima del dovuto.
La prima volta che Anderson o Witzke vennero a sapere di questa battuta d'arresto nel loro lavoro fu quando arrivarono a una conferenza nel South Dakota e furono accolti da colleghi dall'aria comprensiva che dicevano: «Abbiamo sentito che avete perso il vostro cratere... » Nessuno dei due sapeva che Izett e gli altri scienziati della USGS avevano appena reso noti i dati aggiornati attestanti che dopotutto il cratere di Manson non poteva essere quello dell'estinzione.
«Fu un colpo» ricorda Anderson. «Voglio dire: stavamo lavorando su questa cosa che era davvero importante, e poi tutto a un tratto l'avevamo persa. Ma la cosa peggiore fu scoprire che le persone con cui pensavamo di collaborare non si erano minimamente preoccupate di condividere i loro nuovi risultati con noi. »
« E perché? »
Scrollò le spalle. «E chi lo sa? A ogni modo, fu davvero un'ottima occasione per capire quanto possa diventare antipatica la scienza quando si sta giocando a un certo livello. »
La ricerca si spostò altrove. Nel 1990 Alan Hildebrand della University of Arizona incontrò per caso un giornalista dello Huston Chronicle che era a conoscenza di una vasta formazione circolare, larga 193 chilometri e profonda 48, sotto la penisola messicana dello Yucatan, a Chicxulub, vicino alla città di Progreso, circa 950 chilometri a sud di New Orleans. La formazione era stata scoperta nel 1952 dalla Pemex, la compagnia petrolifera messicana (per pura coincidenza, lo stesso anno in cui Shoemaker visitava per la prima volta il Meteor Crater in Arizona), ma i geologi della compagnia, in linea con le convinzioni del tempo, avevano ritenuto che fosse di origine vulcanica.24 Hildebrand andò sul posto e decise
quasi subito che avevano trovato il cratere giusto: agli inizi del 1991, in un'atmosfera di quasi unanime soddisfazione, fu stabilito che Chicxulub era l'area dell'impatto.
Erano in molti, tuttavia, a non rendersi ancora conto di quel che poteva significare. Come rievocava Stephen Jay Gould, in uno dei suoi famosi saggi: «Ricordo di aver nutrito alcuni forti dubbi iniziali sull'efficacia di un evento simile [...] Come poteva un oggetto del diametro di neanche dieci chilometri causare una devastazione tale su un pianeta del diametro di tredicimila? »25
Fortunatamente, ben presto emerse la possibilità di un esperimento naturale: Shoemaker e Levy scoprirono la cometa Shoemaker-Levy 9 e si accorsero che stava puntando su Giove. Per la prima volta, gli esseri umani avrebbero potuto assistere a una collisione cosmica. E avrebbero potuto assistervi benissimo, grazie al nuovo telescopio spaziale Hubble. Secondo Curtis Peebles, la maggior parte degli astronomi non si aspettava un gran che, soprattutto perché la cometa in realtà non era una sfera compatta, ma una stringa di ventuno frammenti. «La mia impressione» scrisse uno di essi « è che Giove finirà per inghiottire queste comete senz'altra conseguenza che un bel rutto. »26 Una settimana prima dell'impatto, Nature pubblicò un articolo intitolato « Arriva il grande fiasco », il cui autore prevedeva che l'impatto non sarebbe stato altro che una doccia di meteore.
Gli impatti ebbero inizio il 16 luglio 1994, andarono avanti per una settimana e furono più violenti di quanto chiunque - a parte forse Shoemaker - avesse immaginato. Un frammento, noto come Nucleo G, si abbatté su Giove con la forza di circa sei milioni di megatoni, ossia settantacinque volte tutti gli armamenti atomici esistenti.27 Il Nucleo G aveva le dimensioni di una piccola montagna, ma sulla superficie di Giove aprì ferite grandi come la Terra. Per i critici della teoria di Alvarez quello fu il colpo finale.
Luis Alvarez non seppe mai della scoperta del cratere di Chicxulub o della cometa Shoemaker-Levy, perché morì nel 1988. Anche Shoemaker morì presto. Nel terzo anniversario della collisione di Giove, lui e la moglie si trovavano nell'entroterra australiano, dove si recavano ogni anno alla ricerca di possibili zone di impatto. Su una pista nel deserto del Tanami (di solito uno dei luoghi meno frequentati della Terra) incapparono in un piccolo dosso proprio
mentre arrivava un altro veicolo. Shoemaker morì sul colpo, la moglie rimase ferita. Parte delle sue ceneri fu portata sulla Luna a bordo dell'astronave Lunar Prospector. Il resto venne disperso intorno al Meteor Crater.28
Anderson e Witzke non erano più in possesso del cratere che uccise i dinosauri: «Comunque [Manson] resta ancora il cratere più grande e il meglio conservato nel territorio degli Stati Uniti» disse Anderson (per poter continuare a usare il superlativo parlando di Manson, occorre una certa destrezza verbale; esistono infatti altri crateri più grandi - come quello di Chesapeake Bay, che nel 1994 fu riconosciuto quale area di impatto - che tuttavia si trovano in mare aperto o sono deformati). «Chicxulub è sepolto in alto mare sotto due o tre chilometri di calcare, il che lo rende difficile da studiare » proseguì Anderson. « Manson invece è molto accessibile. E solo perché è sepolto che è ancora intatto. »
Ho chiesto loro su quale preavviso potremmo contare nel caso in cui un pezzo di roccia di quella portata si dirigesse oggi verso di noi.
«Oh, in pratica nessuno» disse Anderson con disinvoltura. «Diventerebbe visibile a occhio nudo solo una volta che avesse cominciato a riscaldarsi, e questo succederebbe solo nell'istante in cui penetrerebbe nell'atmosfera, ossia circa un secondo prima di abbattersi sulla Terra. Stiamo parlando di un oggetto che si muove a velocità di molte decine di volte superiori a quella del proiettile più veloce. A meno che non venisse notato da qualcuno con un telescopio, e non è affatto una certezza, ci coglierebbe del tutto di sorpresa. »
La violenza con cui colpisce uno di questi oggetti dipende da tutta una serie di variabili, fra cui l'angolo di ingresso, la velocità, la traiettoria, la massa e la densità dell'oggetto stesso, e anche dal fatto che la collisione sia frontale o laterale. E a distanza di tanti milioni di anni dall'avvenimento, non siamo in grado di ricostruirne nessuna. Quello che gli scienziati possono fare, però, e Anderson e Witzke lo hanno fatto, è misurare l'area dell'impatto e calcolare la quantità di energia rilasciata. A partire da quel dato, possono poi risalire a uno scenario plausibile per l'evento del passato o - il che è molto più agghiacciante - per quello che potrebbe accadere oggi.
Un asteroide o una cometa lanciati a velocità cosmiche penetrerebbero l'atmosfera terrestre in modo talmente fulmineo che l'aria sottostante non potrebbe far loro spazio, ma resterebbe compressa come succede in una pompa da bicicletta. Come sa bene chiunque ne abbia mai usata una, l'aria compressa si riscalda molto rapidamente e quindi la temperatura sottostante salirebbe a 60.000 gradi Kelvin, equivalente a dieci volte la temperatura superficiale del Sole. Nell'istante stesso del suo ingresso nell'atmosfera, tutto quello che si trovasse sulla traiettoria del proiettile - esseri umani, case, fabbriche, automobili - si accartoccerebbe per poi svanire, come del cellofan in fiamme.
Un secondo dopo essere entrato nell'atmosfera, il meteorite andrebbe a collidere con la superficie terrestre, proprio dove un attimo prima i cittadini di Manson erano intenti ai propri affari. Il meteorite stesso si vaporizzerebbe all'istante, ma la deflagrazione solleverebbe 1000 chilometri cubici di roccia, terra e gas surriscaldati. Nel raggio di 250 chilometri, ogni essere vivente che non fosse già stato ucciso dal calore al momento dell'ingresso del bolide nell'atmosfera, sarebbe comunque ucciso dall'esplosione.29 La prima onda d'urto si irradierebbe all'esterno a una velocità quasi pari a quella della luce, spazzando via tutto quello che incontrerebbe davanti a sé.
Per coloro che si trovassero all'esterno della zona di immediata devastazione, il primo sentore della catastrofe sarebbe un bagliore di luce accecante (la più abbagliante mai vista da occhio umano) seguita, dopo un intervallo compreso fra un istante e uno-due minuti, da un'apocalittica visione di inimmaginabile grandiosità. Un torbido muro di oscurità si leverebbe alto fino al cielo, riempiendo l'intero campo visivo e viaggiando a una velocità di migliaia di chilometri orari. Il suo avvicinarsi sarebbe spaventoso e silenzioso insieme, perché avanzerebbe a una velocità molto più elevata di quella del suono. Chiunque si trovasse a guardare nella direzione giusta, dall'alto di un edificio di Omaha o Des Moines, per esempio, vedrebbe uno sbalorditivo subbuglio seguito da un istantaneo oblio.
Nel giro di qualche minuto, su un'area estesa da Denver a Detroit, comprendente quelle che un tempo erano Chicago, St. Louis, Kansas City, le Twin Cities (in pratica l'intero Midwest), ogni oggetto con una dimensione verticale sarebbe raso al suolo o incenerito, e tutti gli esseri viventi morirebbero. Per un raggio di oltre mille e cinquecento chilometri, la gente sarebbe travolta, bombardata e fatta a pezzi da una tempesta di proiettili vaganti. Oltre i mille e cinquecento chilometri, l'entità della devastazione tenderebbe gradualmente a diminuire.
Ma questa sarebbe solo l'onda d'urto iniziale. I danni associati si possono soltanto immaginare: l'unica certezza è che sarebbero immediati e globali. L'impatto darebbe di sicuro il via a una serie di terremoti devastanti. I vulcani sparsi in tutto il globo comincerebbero a rimbombare ed eruttare. Gli tsunami si leverebbero dal mare per abbattersi con tutta la loro forza devastante su coste lontane. Nello spazio di un'ora, una nuvola oscura coprirebbe la Terra, e rocce roventi e altri detriti cadrebbero bombardando ogni luogo, condannando l'intero pianeta alle fiamme. È stato stimato che alla fine del primo giorno sarebbero morte almeno un miliardo e mezzo di persone. L'enorme perturbazione della ionosfera farebbe saltare tutti i sistemi di comunicazione, dappertutto: i sopravvissuti quindi non avrebbero la minima idea di che cosa succeda altrove, né saprebbero da che parte fuggire. E comunque non farebbe una grande differenza. Come ha detto un giornalista, darsi alla fuga significherebbe « preferire una morte lenta a una rapida. Qualsiasi plausibile tentativo di migrazione influenzerebbe ben poco il bilancio delle vittime: la capacità della Terra di alimentare la vita, infatti, sarebbe universalmente diminuita ».30
La quantità di fuliggine e ceneri sospese, alzate dall'impatto e dagli incendi successivi, oscurerebbe il Sole di sicuro per mesi, forse anche per anni, sconvolgendo i cicli vitali. Nel 2001 i ricercatori del California Institute of Technology hanno analizzato gli isotopi di elio presenti nei sedimenti lasciati dall'ultimo impatto kt, e sono arrivati alla conclusione che l'evento dovette esercitare la sua influenza sul clima del pianeta per circa diecimila anni.31 Questo studio, in realtà, fu usato come prova a sostegno dell'ipotesi che l'estinzione dei dinosauri sia stata improvvisa e totale: in termini geologici, andò davvero così. Possiamo solo immaginare in che modo l'umanità pòssa affrontare un evento simile e soprattutto se sia in grado di farlo.
Con ogni probabilità, come ricorderete, tutto questo succederebbe senza nessun preavviso, come un fulmine a ciel sereno.
Ma supponiamo che vedessimo arrivare l'oggetto. Che cosa potremmo fare? Tutti pensano che si potrebbe sparargli contro una testata nucleare e ridurlo in frantumi. È un'idea che però comporta dei problemi. Prima di tutto - come fa notare John S. Lewis - i nostri missili non sono stati progettati per operare nello spazio. Non hanno l'energia necessaria per sfuggire alla gravità della Terra; anche se l'avessero, poi, non esistono strumenti in grado di guidarli per decine di milioni di chilometri nello spazio.32 Né tanto meno potremmo inviare lassù, a fare il lavoro sporco per noi, un equipaggio di cowboy spaziali, come succede in Armageddon, Oggi non possediamo più un razzo abbastanza potente nemmeno per portarci stilla Luna: l'ultimo in grado di farlo, il Saturno 5, è stato smantellato anni fa e mai più rimpiazzato. Non potremmo nemmeno costruirne rapidamente un altro perché - sembra incredibile, lo so - i piani per i vettori spaziali Saturno sono andati distrutti durante le pulizie di primavera alla NASA.
Anche se riuscissimo, in qualche modo, a lanciare una testata nucleare sull'asteroide facendolo a pezzi, probabilmente lo trasformeremmo in uno sciame di rocce che si schianterebbero sulla Terra una dopo l'altra, come fece la cometa Shoemaker-Levy su Giove - con la differenza, però, che stavolta le rocce sarebbero altamente radioattive. Tom Gehrels, un cacciatore di asteroidi della University of Arizona, pensa che neanche un anno di preavviso sarebbe sufficiente a consentire reazioni appropriate.33 La cosa di gran lunga più probabile, invece, è che non vedremmo nessun oggetto, nemmeno una cometa, finché esso non si trovasse a una distanza di sei mesi da noi, e allora sarebbe troppo tardi. La Shoemaker-Levy 9 era in orbita attorno a Giove dal 1929, ma fu solo dopo mezzo secolo che qualcuno si accorse di lei.34 Eppure era bella grossa.
Come se non bastasse, poiché la traiettoria di questi oggetti è molto difficile da calcolare e include margini di errore molto grandi, quand'anche fossimo consapevoli dell'avvicinamento di un oggetto verso di noi, la certezza della collisione si avrebbe solo verso la fine - diciamo nelle ultime due settimane. Per gran parte del tempo durante il quale l'oggetto si andrebbe avvicinando, continueremmo a vivere in una sorta di cono di indeterminazione. Sarebbero certamente i mesi più interessanti della storia del mondo. Immaginate i festeggiamenti qualora riuscissimo a scansarlo...
«Allora, con quale frequenza si verifica un evento come l'impatto di Manson? » chiesi ad Anderson e Witzke prima di lasciarli.
«Oh, in media una volta ogni milione di anni» mi rispose Witzke.
«Ricordiamoci, però» aggiunse Anderson, «che questo fu un evento relativamente minore. Sa quante estinzioni sono state associate all'impatto di Manson? »
« Non ne ho idea » risposi.
«Nessuna» rilanciò lui con una strana aria di soddisfazione. « Non una. »
Naturalmente, si affrettarono ad aggiungere Witzke e Anderson più o meno all'unisono, ci saranno state terribili devastazioni su gran parte della Terra, proprio come ho appena descritto, e il totale annientamento degli esseri viventi per centinaia di chilometri tutt'intorno al punto della collisione. Ma la vita è tenace, e quando il fumo si diradò i fortunati sopravvissuti di ogni specie erano abbastanza numerosi perché nessuna di esse fosse cancellata per sempre.
La cosa buona, in tutto questo, è che a quanto pare ci vuole davvero una catastrofe spaventosa per estinguere una specie. Il brutto è che su queste cose positive non si può mai contare troppo. Peggio ancora, non è affatto necessario guardare allo spazio per imbattersi in pericoli terrificanti. Come vedremo fra poco, la Terra può offrirci già da sé una gran quantità di pericoli.
14. Il fuoco sotto i piedi
Nell'estate del 1971, Mike Voorhies, un giovane geologo, se ne andava in ricognizione nella regione orientale del Nebraska, un territorio coltivabile ammantato d'erba, non lontano dalla piccola città di Orchard dove era cresciuto. Passando attraverso un canale dai margini scoscesi, notò un curioso luccichio nella sterpaglia soprastante e si arrampicò a dare un'occhiata. Quello che aveva visto era il cranio di un giovane rinoceronte, perfettamente conservato, ben lavato dalle piogge torrenziali cadute di recente.
Pochi metri più in là, si scoprì poi, c'era uno dei più straordinari depositi di fossili mai rinvenuto in Nord America: una pozza d'acqua prosciugata servita come fossa comune per moltissimi animali, fra cui rinoceronti, equidi simili a zebre, cervi dai denti a sciabola, cammelli, tartarughe. Tutti erano morti poco meno di dodici milioni di anni prima a causa di qualche misterioso cataclisma, in un periodo conosciuto dalla geologia come Miocene. A quell'epoca il Nebraska si trovava in una pianura vasta e torrida, molto simile al Serengeti dell'Africa odierna. Gli animali erano sepolti sotto uno strato di ceneri vulcaniche che raggiungeva i 3 metri di spessore. Il mistero è che in Nebraska non c'erano vulcani, né c'erano mai stati.
Oggi il sito della scoperta di Voorhies si chiama Ashfall Fossil Beds State Park. È dotato di un elegante centro per i visitatori e di un museo con esposizioni molto curate sulla geologia del Nebraska e la storia dei depositi fossili. Il centro comprende anche un laboratorio con una parete di vetro, attraverso la quale i visitatori possono osservare i paleontologi intenti a ripulire ossa. Il giorno che ci andai io, in laboratorio c'era solo un tipo brizzolato dall'aspetto gioviale che indossava una tuta da lavoro blu: era Mike Voorhies, lo riconobbi perché l'avevo visto in un documentario della BBC intitolato Horizon. Non è che allo Ashfall Fossil Beds State Park ricevano una quantità impressionante di visitatori: la verità è che il luogo si trova un po' al centro del nulla, e così Voorhies sembrò
contento di accompagnarmi in giro. Mi portò in cima a una parete di sei metri, il sito della sua prima scoperta.
«Era un posto stupido per andare in cerca di ossa» disse allegramente, «ma io non ero affatto alla ricerca di ossa. All'epoca, contavo di fare una mappa geologica del Nebraska orientale, e stavo solo curiosando in giro. Se non mi fossi arrampicato quassù, o se la pioggia non avesse fatto affiorare quel cranio, sarei passato oltre, e questo non sarebbe mai stato ritrovato. "1 Così dicendo mi indicò un piccolo recinto coperto da un tetto, che ormai era diventato il principale sito di scavo. Lì avevano trovato, ammucchiati tutti insieme, duecento animali.
Gli chiesi perché pensasse che quello fosse un posto stupido per andare a caccia di ossa. «Be', se vai alla ricerca di ossa ti servono rocce esposte. Ecco perché gran parte della ricerca paleontologica si svolge in luoghi caldi e riarsi. Non è che lì ci siano più ossa. È solo che hai qualche probabilità di individuarle. In un ambiente come questo» - fece un ampio gesto verso la vasta monotona prateria -«non si saprebbe da che parte cominciare. Ci potrebbero essere cose davvero magnifiche, ma in superficie non c'è un solo indizio che ti dica dove cominciare a cercare. »
All'inizio pensarono che gli animali fossero stati seppelliti vivi, e Voorhies lo dichiarò in un articolo apparso nel 1881 sul National Geographic.2 «L'articolo definiva il sito 'una Pompei degli animali preistorici' » mi raccontò, « ma era un'espressione infelice, perché subito dopo capimmo che gli animali non erano affatto morti all'improvviso. Erano tutti affetti da qualcosa che si chiama osteodistrofia polmonare ipertrofica, che ti può venire se respiri una gran quantità di ceneri abrasive. E loro dovevano averne inalate moltissime, perché per centinaia di chilometri tutt'intorno, lo strato di cenere era spesso diverse decine di centimetri. » Raccolse un pezzo di terriccio grigiastro, simile all'argilla, e me lo sbriciolò in una mano. Era polveroso, ma con una consistenza che ricordava quella della sabbia. « Brutta roba da respirare » proseguì, « è molto sottile, ma nello stesso tempo molto tagliente. In un modo o nell'altro, comunque, arrivarono qui, a questa pozza d'acqua, presumibilmente in cerca di sollievo, e invece morirono tra grandi sofferenze. La cenere doveva aver distrutto tutto, seppellito tutta l'erba, ricoperto ogni foglia e trasformato l'acqua in una grigia poltiglia imbevibile. Non deve essere stato per niente piacevole. »
Il documentario Horizon lasciava intendere che la presenza di così tanta cenere in Nebraska fosse una sorpresa. In realtà, gli enormi depositi di cenere del Nebraska erano noti da molto tempo. Per quasi un secolo erano stati sfruttati per produrre detersivi domestici come Comet e Ajax. Stranamente, però, a nessuno era mai venuto in mente di chiedersi da dove venisse tutta quella cenere.
« Mi imbarazza un po' raccontarlo » mi disse Voorhies sorridendo, « ma la prima volta che ci ho pensato è stato quando un editor del National Geographic mi chiese quale fosse la fonte di tutta quella cenere e io dovetti confessargli che non lo sapevo. Anzi, che nessuno lo sapeva. »
Voorhies inviò dei campioni a diversi colleghi in tutto l'ovest degli Stati Uniti chiedendo loro se vi trovassero qualcosa di riconoscibile. Molti mesi più tardi, un geologo delTIdaho Geological Survey di nome Bill Bonnichsen lo contattò per dirgli che la cenere corrispondeva a quella di un deposito vulcanico in un luogo chiamato Bruneau-Jarbidge, nel sud-ovest dell'Idaho. L'evento che uccise gli animali delle praterie del Nebraska fu un'esplosione vulcanica di una potenza mai immaginata prima, abbastanza potente da lasciare uno strato di ceneri spesso tre metri a qualcosa come 1600 chilometri di distanza, nel Nebraska orientale. Si scoprì che al di sotto della parte occidentale degli Stati Uniti si trova un enorme calderone di magma, un colossale punto caldo vulcanico, che provoca eruzioni cataclismiche all'incirca ogni seicentomila anni. L'ultima di queste eruzioni ha avuto luogo poco più di seicentomila anni fa. Il punto caldo è ancora lì. Di questi tempi, lo chiamiamo Yellowstone National Park.
Sappiamo davvero pochissimo di quello che succede sotto i nostri piedi. Il fatto che la Ford fabbrichi automobili e le commissioni per il Nobel assegnino i loro premi da più tempo di quello passato da quando abbiamo appreso che la Terra ha un nucleo è abbastanza straordinario. Quanto all'idea che i continenti migrino sulla superficie del pianeta come foglie di ninfea sulle acque di uno stagno è un concetto diventato patrimonio comune da molto meno di una generazione. «Per strano che possa sembrare» ha scritto Richard
Feynman, «comprendiamo molto meglio la distribuzione della materia all'interno del Sole che non quella all'interno della Terra. »3
La distanza esistente tra la superficie e il centro della Terra è di 6370 chilometri, che in fondo non è moltissimo.4 È stato calcolato che se si scavasse un pozzo fino al centro della Terra e ci si gettasse dentro un mattone, questo impiegherebbe soltanto quarantacinque minuti a raggiungere il fondo (anche se a quel punto sarebbe senza peso, perché tutta la massa della Terra - normalmente responsabile dell'attrazione di gravità - si troverebbe sopra e intorno a esso, e non sotto). In realtà, i nostri tentativi di penetrare verso il centro del pianeta sono stati modesti. Una o due miniere d'oro sudafricane si spingono a una profondità superiore ai tre chilometri, ma la maggior parte delle miniere non va oltre i quattrocento metri dalla superficie. Se la Terra fosse una mela, non ne avremmo trapassato neanche la buccia. In realtà, non siamo neanche andati vicino a farlo.
Fino a poco meno di un secolo fa, le menti scientifiche meglio informate non sapevano sull'interno della Terra molto più di un minatore, e cioè che si può scavare il terreno fino a un certo punto, ma poi si cozza contro la roccia: tutto qua. Poi, nel 1906, un geologo irlandese di nome R.D. Oldham, mentre esaminava alcuni tracciati sismografici relativi a un terremoto verificatosi in Guatemala, notò che alcune onde d'urto erano penetrate fino a una certa profondità all'interno della Terra, e poi erano state deflesse con un angolo particolare, come se avessero urtato un qualche tipo di barriera. Da questa osservazione Oldham dedusse che la Terra avesse un nucleo. Tre anni dopo, Andrija Mohorovicic, un sismologo croato, stava studiando i tracciati di un terremoto verificatosi a Zagabria e notò una strana deflessione simile a quella riscontrata da Oldham, ma a un livello più superficiale. Aveva scoperto il confine tra la crosta e lo strato immediatamente sottostante, il mantello: una zona che da allora in poi è stata denominata discontinuità di Mohorovicic o anche, più brevemente, Moho.
Stavamo cominciando a farci una vaga idea della stratificazione interna alla Terra, anche se davvero vaga. Fu solo nel 1936 che una scienziata danese di nome Inge Lehemann, studiando i sismogrammi di alcuni terremoti neozelandesi, scoprì l'esistenza di due nuclei: uno più interno, che oggi si ritiene sia solido, e uno più esterno
(quello individuato da Oldham), che si pensa sia liquido e responsabile del magnetismo.
Proprio quando Lehemann stava perfezionando le nostre nozioni fondamentali sull'interno della Terra grazie allo studio delle onde sismiche dei terremoti, in California due geologi del Caltech stavano mettendo a punto un metodo per confrontare terremoti successivi. I due scienziati erano Charles Richter e Beno Gutenberg; per ragioni che nulla hanno a che vedere con la lealtà fra colleghi, però, quasi immediatamente la scala divenne nota solo con il nome di Richter (tali ragioni, peraltro, non avevano nulla a che fare nemmeno con lo stesso Richter, che era un tipo molto modesto e non si riferì mai alla scala con il proprio nome; invece, la chiamò sempre «scala di magnitudo»).5
La scala Richter è stata sempre molto fraintesa dai non scienziati, anche se adesso forse un po' meno rispetto ai primi tempi, quando chi andava a far visita a Richter nel suo laboratorio spesso gli chiedeva di vedere la famosa scala, pensando che fosse uno strumento. La scala è chiaramente più un'idea che una cosa: una misura arbitraria delle vibrazioni della Terra basata su misurazioni effettuate in superficie. La scala Richter cresce in maniera esponenziale, così che un sisma di magnitudo 7,3 libera 50 volte più energia di uno di magnitudo 6,3, ma ben 2500 volte più energia di uno di magnitudo 5,3.6
Almeno in teoria, non ci sono limiti superiori per un terremoto -né, se è per questo, limiti inferiori. La scala è una semplice misura di forza, ma non dà informazioni circa i danni. Un sisma di magnitudo 7 che si verifichi nella profondità del mantello (per esempio a 650 chilometri di profondità) può non causare alcun danno in superficie, mentre un altro terremoto di magnitudo nettamente inferiore, che però si verifichi ad appena 6 o 7 chilometri dalla superficie potrebbe provocare ampie devastazioni. Molto, poi, dipende dalla natura del sottosuolo, dalla durata del sisma, dalla frequenza, dall'intensità delle scosse successive e dall'ambiente fisico dell'area interessata. Tutto questo significa che i terremoti con le conseguenze più terribili non sono necessariamente quelli di maggior magnitudo, anche se è chiaro che quest'ultima conta molto.
Il più grande terremoto mai verificatosi dall'invenzione della scala pare sia stato quello del marzo 1964 con epicentro a Prince William Sound (Alaska), che raggiunse i 9,2 gradi Richter. O forse - dipende dalla fonte a cui si vuol dare credito - fu quello del 1960 con epicentro nell'oceano Pacifico al largo delle coste del Cile, cui fu inizialmente attribuita una magnitudo di 8,6, poi corretta verso l'alto da alcune autorità (compreso lo US Geologica! Survey) fino al valore, davvero enorme, di 9,5. Come avrete capito, la misurazione dei terremoti non è sempre una scienza esatta, soprattutto quando comporta l'interpretazione di letture strumentali provenienti da località remote. A ogni modo, entrambi questi eventi sismici furono di enorme intensità. Il terremoto del 1960 non si limitò a causare danni diffusi lungo l'intera fascia costiera del continente sudamericano, ma generò anche un gigantesco tsunami che avanzò per circa diecimila chilometri attraverso il Pacifico, e spazzò via gran parte del centro di Hilo, nelle Hawaii, distruggendo cinquecento edifici e uccidendo sessanta persone. Ondate anomale simili fecero ancora più vittime in luoghi lontani come il Giappone e le Filippine.
Dal punto di vista della pura devastazione localizzata, comunque, è probabile che il terremoto più intenso che la storia ricordi sia stato quello che colpì Lisbona, e in pratica la fece a pezzi, il giorno di Ognissanti del 1755. Poco prima delle dieci del mattino, la città fu colpita da un improvviso movimento laterale - oggi stimato di magnitudo 9,0 - e tremò selvaggiamente per sette minuti pieni. La forza convulsiva fu così intensa che l'acqua venne risucchiata fuori dal porto della città per poi tornarvi sotto forma di un'onda alta oltre quindici metri, che aggiunse devastazione alla devastazione. Quando alla fine il sisma cessò, i sopravvissuti ebbero tre soli minuti di calma prima che arrivasse una seconda scossa, di poco inferiore alla prima. Una terza scossa, l'ultima, seguì a due ore di distanza. Il bilancio finale fu di sessantamila morti; quanto ai danni materiali, quasi tutti gli edifici nel raggio di chilometri e chilometri furono ridotti in macerie.7 Per avere un termine di confronto, la magnitudo del terremoto che colpì San Francisco nel 1906 è stata stimata pari a 7,8 gradi della scala Richter, e il sisma durò meno di trenta secondi.
I terremoti sono eventi abbastanza comuni. In media, ogni giorno, da qualche parte nel mondo, se ne verificano un paio di magnitudo pari o superiore a 2.0, sufficienti a far avvertire una buona scossa a chi si trovi nelle vicinanze. Anche se tendono a concentrarsi in certe
zone (soprattutto lungo la faglia del Pacifico), i terremoti possono verificarsi quasi dappertutto. Negli Stati Uniti solo la Florida, il Texas orientale e la regione settentrionale del Midwest sembrano esserne stati - finora - del tutto immuni. Negli ultimi duecento anni, il New England è stato teatro di due terremoti di magnitudo pari o superiore a 6,0. Nell'aprile del 2002 la regione subì una scossa di magnitudo 5,1 - dovuta a un terremoto con epicentro nei pressi di Lake Champlain, sul confine tra lo stato di New York e il Vermont - che provocò danni estesi e (posso testimoniare) fece cadere i quadri dalle pareti e i bambini dal letto fin nel New Hampshire.
I tipi di terremoto più comuni sono quelli provocati dall'incontro tra due placche, come avviene in California lungo la faglia di Sant'Andrea. Le placche premono l'una contro l'altra e la pressione aumenta fino a quando una delle due non cede. In genere, più sono lunghi gli intervalli tra i terremoti, più forte è la pressione che si è andata accumulando, e quindi maggiore la probabilità di una scossa molto intensa. Tutto questo rappresenta fonte di particolare apprensione per Tokyo, che Bill McGuire - uno specialista di gestione del rischio allo University College di Londra - descrive come «la città in attesa di morire» (un motto che di sicuro non è riportato su molti dépliant turistici).8 Tokyo si trova nel punto in cui convergono tre placche tettoniche, in un paese già noto per la sua instabilità sismica. Come ricorderete, nel 1995 la città di Kobe, che sorge quasi 500 chilometri a ovest di Tokyo, fu colpita da un sisma di magnitudo 7,2 che uccise 6394 persone. Si stimarono danni per 99 miliardi di dollari. Quel terremoto però fu niente -o meglio, relativamente una piccola cosa - in confronto a quello che c'è da aspettarsi a Tokyo.
Tokyo ha già subito uno dei più devastanti terremoti dell'epoca moderna: il primo settembre 1923, quando mancava poco a mezzogiorno, la città fu colpita da quello che è noto come il Grande Kanto, un evento che sprigionò più di dieci volte l'energia liberata dal sisma di Kobe. Rimasero uccise duecentomila persone. Da allora, a Tokyo ha regnato una calma innaturale: significa che la tensione, sotto la superficie, va accumulandosi ormai da ottant'anni. Alla fine, scoppierà. Nel 1923 Tokyo aveva una popolazione di circa tre milioni di abitanti. Oggi si avvicina ai trenta milioni. Nessuno si è preoccupato di prevedere quante persone potrebbero
morire in un evento simile; il suo potenziale costo economico è stato però stimato pari a sette trilioni di dollari.9
Ancor più inquietanti, perché sono meno studiate e possono verificarsi ovunque in qualsiasi momento, sono le scosse più rare associate ai cosiddetti terremoti intraplacca. Questi ultimi si manifestano lontano dai confini delle placche, il che li rende del tutto imprevedibili; poiché provengono da maggiori profondità, questi eventi sismici tendono a propagarsi su aree molto più vaste. I più tristemente famosi, tra quelli che hanno colpito gli Stati Uniti, sono i tre sismi intraplacca verificatisi a New Madrid, nel Missouri, nell'inverno 1811-12. L'evento ebbe inizio subito dopo la mezzanotte del 16 dicembre, quando la gente fu svegliata prima dal rumore degli animali domestici in preda al panico (l'irrequietezza degli animali prima dei terremoti non è una favola da comari, ma un fatto ben accertato, sebbene non del tutto compreso) e poi da un potente boato che proveniva dalle viscere della Terra. Una volta usciti dalle case, gli abitanti trovarono la terra agitata da onde alte fino a un metro, e la videro aprirsi in crepacci profondi parecchi metri. Un forte odore di zolfo saturava l'aria. La scossa durò quattro minuti, con i consueti effetti devastanti sulle costruzioni. Tra i testimoni ci fu l'artista John James Audubon, che si trovava per caso nella zona. La scossa si propagò in senso centrifugo con una violenza tale da abbattere anche alcune ciminiere a Cincinnati, a più di 600 chilometri di distanza; stando ad almeno una delle testimonianze « distrusse le imbarcazioni ormeggiate nei porti della East Coast e [...] fece persino crollare le impalcature erette attorno al Campidoglio di Washington».10 Il 23 gennaio e il 4 febbraio successivi ci furono altri due terremoti della stessa magnitudo. Da allora New Madrid se ne è restata tranquilla, la qual cosa non sorprende, perché pare che simili episodi non si ripetano mai due volte nello stesso luogo. Per quel che ne sappiamo, sono eventi casuali come i fulmini. Il prossimo potrebbe verificarsi sotto Chicago o Parigi o Kinshasa. Inutile anche solo provare a indovinare. E qual è la causa di queste immani fratture intraplacca? Qualcosa che si trova nelle viscere profonde della Terra. In realtà, non lo sappiamo.
Negli anni Sessanta la frustrazione degli scienziati nel constatare quanto poco si sapesse sull'interno della Terra era ormai giunta a un
punto tale da indurli a tentare di porre rimedio a quello stato di ignoranza. In particolare, pensarono di trivellare il fondo dell'oceano (la crosta continentale è troppo spessa) fino all'altezza della discontinuità di Moho, così da estrarre campioni del mantello da esaminare poi a piacimento. L'idea era che se si fosse compresa la natura delle rocce presenti all'interno della Terra, sarebbe stato possibile cominciare a capire anche le loro interazioni e, quindi, forse, a prevedere i terremoti e altri eventi spiacevoli.
Inevitabilmente, il progetto divenne noto come Mohole e fu decisamente disastroso.11 L'idea era quella di riuscire a calare una trivella sul fondo dell'oceano Pacifico, a più di quattromila metri di profondità al largo delle coste del Messico, e poi di penetrare fino a circa cinquemila metri attraverso la roccia crostale in quel punto relativamente sottile. Trivellare da una nave in mare aperto è, per citare le parole di un oceanografo, « come provare a praticare un foro su un marciapiede di New York stando in cima all'Empire State Building e usando come trivella uno spaghetto ».12 Tutti i tentativi fallirono. La profondità massima che riuscirono a raggiungere fu di circa centottanta metri. Il progetto Mohole divenne famoso come NoHole. Nel 1966, esasperato dai costi che continuavano a lievitare a fronte della totale mancanza di risultati, il Congresso degli Stati Uniti decretò la morte del progetto.
Quattro anni dopo gli scienziati sovietici decisero di tentare la fortuna sulla terraferma. Scelsero un luogo nella penisola russa di Kola, vicino al confine con la Finlandia, e si misero al lavoro con la speranza di effettuare una trivellazione fino alla profondità di quindici chilometri. Il lavoro si rivelò più arduo di quanto si fossero aspettati, ma i sovietici furono di una tenacia encomiabile. Quando alla fine vi rinunciarono, diciannove anni dopo, avevano raggiunto la profondità di 12.262 metri. Tenendo a mente che la crosta della Terra rappresenta solo lo 0,3 per cento circa del volume del pianeta, e che la trivellazione di Kola non aveva trapassato nemmeno un terzo della crosta, è difficile che qualcuno possa sostenere di avere conquistato l'interno del pianeta.13
Anche se la trivellazione effettuata dai sovietici era modesta, quasi tutto ciò che essa rivelò sorprese i ricercatori. Lo studio delle onde sismiche aveva indotto gli scienziati a prevedere, con una certa sicurezza, che fino a una profondità di 4700 metri avrebbero
incontrato rocce sedimentarie, seguite da granito per i successivi 2300 metri e da basalto da quel punto in giù. In realtà, lo strato sedimentario si rivelò essere del 50 per cento più profondo del previsto, e lo strato basaltico non fu mai trovato. Come se non bastasse, il pianeta, là sotto, era molto più caldo di quanto chiunque si fosse aspettato, con una temperatura di 180 gradi Celsius a diecimila metri di profondità, quasi il doppio del previsto. La cosa più sorprendente di tutte, però, fu scoprire che in profondità la roccia era satura d'acqua, una cosa che non era stata ritenuta possibile.
Poiché non possiamo osservare direttamente l'interno della Terra, per riuscire a capire che cosa c'è lì sotto dobbiamo usare altre tecniche, che per lo più comportano la registrazione delle onde che attraversano il pianeta. Sul mantello sappiamo qualcosa grazie ai cosiddetti condotti (o camini) di kimberlite, strutture all'interno delle quali si formano i diamanti.14 Quel che accade nelle profondità della Terra è, in pratica, un'esplosione che spara una sorta di cannonata di magma verso la superficie a velocità supersonica: si tratta di un evento del tutto casuale. Un camino di kimberlite potrebbe benissimo esplodere nel vostro giardino mentre state leggendo queste pagine. Poiché provengono da profondità enormi (fino a 200 chilometri), i camini di kimberlite fanno affiorare tutti quei materiali che di solito non ritroviamo né in superficie né nelle sue vicinanze: per esempio una roccia che si chiama peridotite, cristalli di olivina e diamanti, questi ultimi però solo di rado, in un condotto su cento. Insieme ai materiali eiettati dai camini di kimberlite, giunge in superficie moltissimo carbone, anche se in massima parte, nel processo, esso si vaporizza o si trasforma in grafite. Soltanto di rado uno di questi frammenti viene sparato alla velocità giusta e si raffredda con la rapidità necessaria per diventare un diamante. È stato uno di questi camini a fare di Johannesburg la città con il sito diamantifero più produttivo del mondo; e d'altra parte potrebbero essercene altri, perfino più grandi, dei quali non sappiamo nulla. I geologi sanno invece che in qualche punto, nei territori nordorientali dell'Indiana, ci sono tracce di un camino di kimberlite, o di un gruppo di essi, che potrebbe essere davvero colossale. Sparsi nell'intera regione, ci sono luoghi dove sono stati ritrovati diamanti di 20 carati e anche oltre, ma nessuno è mai riuscito a scoprirne la fonte. Come ha osservato John McPhee, essa
potrebbe trovarsi sepolta sotto depositi glaciali - come il cratere di Manson nell'Iowa - oppure sotto i Grandi Laghi
E allora: che cosa sappiamo di quello che c'è all'interno della Terra? Molto poco. Gli scienziati in genere si trovano d'accordo sul fatto che il mondo sotto di noi è composto da quattro strati: una crosta esterna rocciosa, un mantello di rocce caldissime e viscose, un nucleo esterno liquido e uno interno solido.* Sappiamo che in superficie dominano i silicati, che sono relativamente leggeri e non possono quindi render conto della densità complessiva del pianeta. All'interno, pertanto, devono esserci materiali più pesanti. Sappiamo anche che per generare il nostro campo magnetico, da qualche parte, all'interno del pianeta, deve esserci una regione nella quale sono concentrati elementi metallici allo stato liquido.15 Tutto questo è universalmente accettato. Quasi tutto il resto (per esempio: come interagiscono gli strati, che cosa li fa comportare in un determinato modo e che cosa faranno in un qualsiasi momento del futuro), ebbene: tutto questo è come minimo fonte di una qualche incertezza. In genere, l'incertezza è moltissima.
Persino l'unica parte del pianeta che possiamo vedere, la crosta, è argomento di una polemica molto accesa. Quasi tutti i testi di geologia dicono che al di sotto degli oceani la crosta continentale ha uno spessore compreso fra i cinque e i dieci chilometri. Al di sotto dei continenti, lo spessore raggiunge invece i quaranta chilometri circa, e sotto le grandi catene montuose va dai sessantacinque ai novantacinque chilometri. All'interno di queste generalizzazioni, tuttavia, esistono molti sconcertanti esempi di variabilità. Al di sotto delle montagne della Sierra Nevada, ad esempio, la crosta ha uno spessore di soli trenta-quaranta chilometri e nessuno sa
* Per chi vuole avere un quadro più dettagliato della struttura interna della Terra, ecco le dimensioni (dati medi) dei vari strati. Da 0 a 40 chilometri di profondità c'è la crosta; da 40 a 400 chilometri si trova lo strato superiore del mantello; da 400 a 650 chilometri si estende una zona di transizione tra mantello superiore e inferiore; da 650 a 2700 chilometri si trova il mantello inferiore; da 2700 a 2890 chilometri lo strato «D»; da 2890 fino a 5150 chilometri c'è il nucleo più esterno e da 5150 fino a 6370 chilometri di profondità il nucleo più interno.
perché. In base a tutte le leggi della geofìsica, la Sierra Nevada dovrebbe sprofondare, come se si trovasse sulle sabbie mobili (e alcuni pensano che probabilmente lo stia facendo).16
Il come e il quando si sia formata la crosta terrestre sono questioni sulle quali i geologi sono divisi: da una parte ci sono quelli che pensano sia accaduto in modo improvviso e molto presto nella storia della Terra; dall'altra troviamo quelli che propendono per un processo graduale e relativamente tardivo. Simili diatribe sono alimentate da grandi passioni. Negli anni Sessanta Richard Armstrong di Yale propose una teoria che favoriva una formazione immediata e precoce, e poi passò il resto della sua carriera a combattere contro chi non era d'accordo. Come si leggeva sulla rivista Earth nel 1998, poco prima di morire di cancro nel 1991, Armstrong « si lanciò in una polemica contro i suoi detrattori, su una rivista australiana di scienze della Terra, accusandoli di perpetuare dei miti ». « Morì amareggiato » commentò un collega.
Nel loro insieme, la crosta e parte del mantello esterno sono definiti litosfera (dal greco lithos, che significa «pietra»), la quale galleggia su uno strato di roccia plastica detta astenosfera (da una parola greca che significa «senza forza»); questi termini, tuttavia, non sono mai del tutto soddisfacenti. Per esempio, dire che la litosfera « galleggia » sull'astenosfera suggerisce un'idea che non è affatto esatta. Così come è fuorviante pensare che le rocce «fluiscano » o « scorrano » in modo simile agli oggetti che osserviamo in superficie. Le rocce sono viscose, nello stesso modo in cui lo è il vetro.17 Per quanto il fenomeno possa passare inosservato, tutto il vetro presente sulla Terra tende a colare verso il basso, sotto l'implacabile attrazione della gravità. Se si rimuove una lastra di vetro molto antico dalla finestra di una cattedrale europea, si può constatare che esso è visibilmente più spesso in basso che in alto. È questo il tipo di « flusso » o « scorrimento » di cui stiamo parlando. Le lancette che segnano le ore sul quadrante di un orologio si muovono a una velocità diecimila volte superiore a quella delle rocce che « scorrono » sul mantello.
I movimenti non hanno luogo solo in senso laterale, come nel caso delle placche sulla superficie della Terra, ma anche verticalmente, verso l'alto e il basso, seguendo l'emergere e lo sprofondare
delle rocce dovuto a quel processo di rimescolamento noto col nome di convezione.18 Il processo della convezione fu dedotto per la prima volta alla fine del diciottesimo secolo dall'eccentrico conte von Rumford. Sessantanni dopo Osmond Fisher, un vicario inglese, suggerì, dando prova di grande lungimiranza, che l'interno della Terra potesse essere abbastanza fluido da consentire il movimento del suo contenuto.19 Quest'idea, però, impiegò un lunghissimo periodo di tempo prima di guadagnare consenso.
Pressappoco nel 1970 i geofisici compresero la portata dei movimenti in atto all'interno del pianeta, e la cosa suscitò una notevole impressione. Per dirla con le parole usate da Shawna Vogel nel suo Naked Earth: The New Geophysics, « fu come se gli scienziati avessero passato anni a immaginare gli strati dell'atmosfera terrestre -troposfera, stratosfera eccetera - e poi, all'improvviso, avessero scoperto il vento ».20
Stabilire a quale livello di profondità abbia luogo il processo di convezione è stato fin da subito un argomento oggetto di polemica. Alcuni dicono che cominci a 650 chilometri di profondità, altri a più di 3000. Il problema, come ha osservato James Trefil, è che « ci sono due serie di dati che provengono da due discipline differenti e non possono essere riconciliate».21 Secondo i geochimici alcuni elementi rinvenuti sulla superficie del pianeta non possono provenire dalle regioni più esterne del mantello, ma devono esservi giunti da profondità maggiori all'interno della Terra. Pertanto, i materiali presenti nelle regioni rispettivamente più esterna e più interna del mantello devono per forza, almeno di tanto in tanto, rimescolarsi. I sismologi, dal canto loro, insistono nel dire che questa tesi non è suffragata da prova alcuna.
Quindi, tutto quel che possiamo affermare è che, a un livello imprecisato, mentre puntiamo verso il centro della Terra, ci lasciamo alle spalle l'astenosfera per tuffarci nel mantello vero e proprio. Considerato che rende conto dell'82 per cento del volume della Terra e del 65 per cento della sua massa, il mantello non riceve poi una grande attenzione, in massima parte perché le cose che interessano sia gli studiosi di scienze della Terra sia i lettori non specialisti accadono o a profondità maggiori (per esempio il magnetismo) o in regioni più prossime alla superficie (per esempio i terremoti).22 Sappiamo che a una profondità di circa 150 chilometri il mantello è formato in prevalenza da un tipo di roccia nota come
peridotite, ma ciò che riempie i successivi 2650 chilometri ci è ignoto. Secondo un servizio pubblicato su Nature, sembra che non si tratti di peridotite. Di più non è dato sapere.
Al di sotto del mantello, ci sono i due nuclei: uno solido più interno e uno fuso più esterno. Inutile dire che le nostre conoscenze sulla natura di questi nuclei sono indirette; ciò nonostante gli scienziati sono in grado di avanzare ipotesi ragionevoli. Sanno che le pressioni al centro della Terra (più di tre milioni di volte quelle riscontrate in superficie) sono abbastanza elevate da rendere solido qualsiasi tipo di roccia si trovi laggiù.23 Sanno anche, basandosi sulla storia della Terra e su altri indizi, che il nucleo interno trattiene molto efficacemente il proprio calore. Anche se è poco più di un'ipotesi, si pensa che nel corso di quattro miliardi di anni la temperatura del nucleo non sia diminuita di oltre 110 gradi Celsius. Nessuno sa con esattezza quanto sia caldo il nucleo della Terra, ma il valore stimato è compreso fra i 4000 e i 7000 gradi Celsius: un calore pressappoco equivalente a quello della superficie solare.
Il nucleo più esterno è per molti versi ancor meno compreso, anche se tutti concordano sul fatto che sia fluido e che sia la sede del magnetismo. Nel 1949 E.C. Bullard della Cambridge University propose la teoria secondo la quale questa parte fluida del nucleo del pianeta ruoterebbe in modo da essere, a tutti gli effetti, una specie di motore elettrico, creando così il campo magnetico terrestre. L'assunto è che le correnti di convezione all'interno della Terra agiscano un po' come la corrente nei fili elettrici. Non si sa di preciso che cosa accada, ma si ritiene quasi con certezza che il magnetismo sia correlato alla rotazione del nucleo e al suo stato fluido. I corpi che non possiedono un nucleo liquido (la Luna e Marte, per esempio) non presentano il fenomeno del magnetismo.
È noto che di tanto in tanto l'intensità del campo magnetico terrestre si modifica: all'epoca dei dinosauri, per esempio, era tre volte più intenso rispetto a oggi.24 Sappiamo anche che, in media, ogni cinquecentomila anni circa il campo si inverte - sebbene questa media contenga un grado di imprevedibilità enorme. L'ultima inversione si è verificata circa settecentocinquantamila anni fa. A volte il campo magnetico mantiene il proprio orientamento per milioni di anni (il periodo più lungo di stabilità sembra esser durato 37 milioni di anni); altre volte l'inversione si è verificata dopo soli ventimila anni.25 Complessivamente, negli ultimi cento milioni di
anni, l'inversione si è verificata circa duecento volte, e non abbiamo la minima idea del perché lo abbia fatto. Questa è stata definita «la più grande questione irrisolta delle scienze geologiche».26
Proprio adesso potremmo andare incontro a un'inversione. Solo nell'ultimo secolo il campo magnetico terrestre si è attenuato di circa il 6 per cento. Qualsiasi diminuzione del magnetismo rischia di essere un evento infausto: il magnetismo infatti - oltre a tenere attaccati i nostri memo allo sportello del frigo e far puntare le bussole nella giusta direzione - ha un ruolo fondamentale nel tenerci in vita. Lo spazio è pieno di raggi cosmici pericolosi, che in assenza di protezione magnetica, attraverserebbero il nostro corpo danneggiando irrimediabilmente il DNA. Quando il campo magnetico funziona, questi raggi vengono allontanati dalla superficie terrestre e convogliati dove non possono far danno, in due zone dello spazio vicino denominate fasce di Van Alien. Essi interagiscono anche con le particelle che si trovano negli strati più alti dell'atmosfera, dando luogo a quelle affascinanti velature di luce note come aurore.
Gran parte della nostra ignoranza è dovuta al fatto che, in passato, sono stati fatti pochi tentativi di coordinare le nostre conoscenze relative a ciò che accade, rispettivamente, sulla superficie della Terra e al suo interno. Secondo Shawna Vogel, « è raro che geologi e geofisici frequentino gli stessi convegni, o collaborino alla risoluzione degli stessi problemi ».27
La nostra scarsa conoscenza delle dinamiche interne alla Terra è dimostrata dal fatto che ci lasciamo cogliere di sorpresa ogni volta che fa i capricci. E in questo senso sarebbe davvero difficile trovare una testimonianza più efficace di quella sperimentata con l'eruzione del 1980 di Mount St. Helens (nello stato di Washington).
A quell'epoca gli Stati Uniti continentali (ossia gli Stati Uniti con esclusione dell'Alaska e delle Hawaii) non assistevano a un'eruzione vulcanica da sessantacinque anni. La maggior parte dei vulcanologi chiamati dal governo a controllare e a fare previsioni sul comportamento del St. Helens avevano quindi visto in azione solo vulcani hawaiani, il che non era affatto, come si ebbe poi modo di riscontrare, la stessa cosa.28
Mount St. Helens cominciò a borbottare minacciosamente il 20 marzo. Nel giro di una settimana, sebbene in modeste quantità, aveva cominciato a eruttare magma fino a cento volte al giorno, ed
era costantemente scosso da terremoti. La popolazione fu evacuata e portata a una presunta distanza di sicurezza di 13 chilometri. Mentre la voce rimbombante della montagna si levava sempre più forte, Mount St. Helens divenne un'attrazione turistica mondiale. I giornali fornivano resoconti quotidiani sui luoghi che garantivano una vista migliore. Troupe televisive raggiunsero più volte la cima in elicottero e furono avvistate persone che si arrampicavano sulla montagna. In una sola giornata, più di settanta fra elicotteri e velivoli leggeri sorvolarono la cima. I giorni passavano e il rombo del vulcano non lasciava il passo a nulla di realmente spettacolare. La gente cominciò a spazientirsi e si diffuse la convinzione che alla fine il vulcano non avrebbe eruttato lava.
Il 19 aprile il versante settentrionale della montagna cominciò a rigonfiarsi in modo ben visibile. Il fatto davvero notevole è che nessuno fra coloro che occupavano una posizione di responsabilità si rese conto che il fenomeno indicava un'imminente esplosione laterale. Praticamente l'unica persona, o quasi, che credette possibile il verificarsi di qualcosa di veramente terribile fu Jack Hyde, professore di geologia presso un college di Tacoma. Questi sottolineò il fatto che il St. Helens non aveva un camino aperto come i vulcani hawaiani; la pressione che si andava accumulando al suo interno era quindi destinata a essere rilasciata in modo esplosivo e, probabilmente, catastrofico. A ogni modo, Hyde non faceva parte del gruppo dei geologi ufficiale e le sue osservazioni attirarono scarso interesse.
Quello che accadde poi lo sappiamo tutti. Alle 8.30 di una domenica mattina, il 18 maggio, il versante nord del vulcano cedette riversando un'enorme valanga di terra e rocce giù dal pendio della montagna a quasi 250 chilometri all'ora. Fu la più grande frana della storia umana, e trascinò con sé materiale sufficiente a sotterrare l'intera Manhattan con uno strato spesso 120 metri.29 Un minuto dopo, con un versante gravemente indebolito, il St. Helens esplose con la forza di cinquecento bombe atomiche della potenza di quella sganciata su Hiroshima, scagliando all'esterno una mortale nuvola rovente che viaggiava alla velocità di 1050 chilometri orari (decisamente troppo veloce perché chiunque si trovasse nei paraggi potesse batterla in velocità e salvarsi).30 La maggior parte delle persone che si riteneva fossero al sicuro, spesso così lontane dal vulcano che non potevano nemmeno vederlo, fu colta di sorpresa. Cinquantasette persone rimasero uccise. Ventitré corpi non furono mai trovati.31 Il bilancio sarebbe potuto risultare molto più elevato se non fosse stata domenica. In qualsiasi altro giorno della settimana nella zona della morte sarebbero stati al lavoro molti uomini addetti al taglio del legname. In pratica, rimasero uccise persone che si trovavano a una distanza di trenta chilometri.
Quel giorno la persona più fortunata fu Harry Glicken, uno specializzando che presidiava un posto di osservazione a nove chilometri dalla montagna; il 18 maggio, però, aveva un colloquio in California per un incarico in un college, e quindi aveva lasciato la zona il giorno precedente a quello dell'eruzione. Il suo posto fu preso da David Johnston. Johnston fu il primo a riferire l'esplosione del vulcano; qualche istante dopo era morto. Il suo corpo non fu mai ritrovato. La fortuna di Glicken, purtroppo, fu solo temporanea. Undici anni dopo egli fu tra i quarantatre scienziati e giornalisti rimasti fatalmente intrappolati sul monte Unzen, in Giappone, da un'emissione di ceneri, gas surriscaldati e rocce fuse: un fenomeno noto come flusso piroclastico. Quella fu un'altra occasione in cui il messaggio lanciato da un vulcano fu catastroficamente frainteso.
Può darsi che i vulcanologi siano i peggiori scienziati del mondo in materia di previsioni, oppure no; di certo sono i peggiori nel comprendere l'entità dei propri errori di previsione. A meno di due anni dalla catastrofe di Unzen, un altro gruppo di vulcanologi, guidato da Stanley Williams della University of Arizona, si calò nel cratere di un vulcano attivo chiamato Galeras, in Colombia. A dispetto delle morti verificatesi in anni recenti, solo due dei sedici membri del gruppo di Williams indossavano l'elmetto di protezione e gli altri indumenti di sicurezza. Il vulcano eruttò, uccidendo sei scienziati e tre turisti che li avevano seguiti, e ferendo gravemente molte altre persone, incluso lo stesso Williams.
In un libro del tutto privo di autocritica intitolato Sopravvivere all'inferno, Williams dichiarò che potè « solo scuotere la testa per la meraviglia» quando apprese che i suoi colleghi vulcanologi insinuarono che si fosse comportato avventatamente, e che avesse trascurato o ignorato importanti segnali sismici.32 «Com'è facile criticare col senno di poi, e applicare le conoscenze che abbiamo adesso agli eventi del 1993 » scrisse Williams, convinto che la sua unica colpa fosse stata di aver scelto male i tempi: il Galeras «si
comportò in maniera capricciosa, com'è tipico delle forze della natura. Fui tratto in inganno e di questo mi assumo la responsabilità. Ma non mi sento colpevole per la morte dei miei colleghi. Non c'è nessuna colpa. Ci fu soltanto un'eruzione».
Ma torniamo a Washington. Il Mount St. Helens perse 400 metri di vetta, e 600 chilometri quadrati di foresta furono devastati: fu spazzata via una quantità di alberi sufficiente a costruire 150.000 case (stando ad alcuni resoconti, 300.000). Il danno fu stimato pari a 2,7 miliardi di dollari. In meno di dieci minuti, una gigantesca colonna di fumo e cenere si sollevò fino all'altezza di 18.000 metri. Un pilota di linea dichiarò che il suo aereo era stato bombardato dalle rocce mentre volava a 48 chilometri di distanza dal vulcano.33
Novanta minuti dopo l'esplosione, la cenere cominciò a scendere su Yakima, nello stato di Washington, una comunità di cinquantamila anime a 130 chilometri di distanza da Mount St. Helens. Come si può ben immaginare, la cenere oscurò il cielo come fosse notte e penetrò dappertutto, bloccando motori, generatori e commutatori elettrici; soffocando i pedoni; bloccando i sistemi di filtraggio e, in generale, facendo inceppare ogni cosa nella quale penetrasse. L'aeroporto fu chiuso e la stessa sorte toccò alle autostrade in entrata e in uscita dalla città.
Tutto questo accadde, si badi bene, in un luogo che sorgeva proprio sottovento rispetto a un vulcano che ormai da due mesi rombava minacciosamente. Ebbene: Yakima non aveva procedure da seguire in caso di emergenza vulcanica.34 L'allarme cittadino, che avrebbe dovuto entrare in funzione in situazioni di crisi, non si diffuse nell'etere perché «lo staff in servizio la domenica mattina non sapeva come farlo funzionare ». Per tre giorni, Yakima rimase paralizzata e tagliata fuori dal mondo, con l'aeroporto chiuso e le strade di collegamento impercorribili. A conti fatti, in seguito all'eruzione di Mount St. Helens, la città fu ricoperta da appena 1,5 centimetri di cenere. Ora teniamo tutto questo a mente e vediamo quello che potrebbe succedere con un'esplosione vulcanica a Yellowstone.
15. Una bellezza pericolosa
Negli anni Sessanta, mentre era intento a studiare la storia vulcanica del Yellowstone National Park, Bob Christiansen dello US Geological Survey rimase sconcertato da qualcosa che, stranamente, non aveva mai preoccupato nessuno prima di allora: non riusciva a trovare il vulcano del parco. Il fatto che Yellowstone fosse di natura vulcanica lo si sapeva da tempo (deponevano in questo senso i geyser e altre attrazioni legate all'emissione di vapore) e una delle caratteristiche dei vulcani è che di solito sono abbastanza visibili. Ma Christiansen non riusciva a trovare il vulcano di Yellowstone da nessuna parte. In particolare, quello che non riusciva a trovare era una struttura nota come caldera.
La maggior parte di noi, quando pensa ai vulcani, immagina la classica struttura conica del Fuji o del Kilimangiaro, che si crea quando il magma eruttato si accumula formando un cono simmetrico. I vulcani di questo tipo possono formarsi molto rapidamente. Nel 1943, a Paricutin, in Messico, un agricoltore rimase sbigottito nel vedere del fumo salire da un terreno di sua proprietà. Nel giro di una settimana l'uomo divenne l'incredulo proprietario di un cono alto 152 metri. Nel giro di due anni l'edificio vulcanico aveva raggiunto un'altezza di 430 metri e un diametro di oltre 800.1 Nel complesso, sulla Terra questi vulcani visibili sono circa diecimila, e di essi tutti, tranne qualche centinaio, sono estinti. Esiste tuttavia un secondo tipo di vulcano, meno famoso, che non comporta la formazione di un edificio montagnoso. Sono vulcani così esplosivi da spalancarsi all'improvviso in un'unica impressionante frattura, lasciandosi dietro una vasta conca profonda: la caldera (dal tardo latino caldana, che significava grossa pentola, calderone). Era evidente che Yellowstone apparteneva proprio a questo secondo tipo; Christiansen però non riusciva a trovare la caldera da nessuna parte.
Il caso volle che giusto in quel periodo la NASA decidesse di
collaudare alcune nuove macchine fotografiche per riprese in alta quota, fotografando l'area di Yellowstone. Un funzionario premuroso passò poi le copie di queste immagini alle autorità del parco, pensando che avrebbero potuto costituire lo spunto per una bella mostra in uno dei centri per i visitatori. Non appena Christiansen vide le foto, capì subito perché non era riuscito a individuare la caldera: l'intero parco, in realtà, era una caldera di 9000 chilometri quadrati. L'esplosione aveva lasciato un cratere di quasi 65 chilometri di diametro, un'area decisamente troppo vasta per essere individuata da terra. A un certo punto, nel suo passato, Yellowstone doveva essere esploso con una violenza di gran lunga superiore, come ordine di grandezza, a qualsiasi cosa sia mai stato sperimentato direttamente dagli esseri umani.
Yellowstone si rivelò un supervulcano. Il parco si trova proprio in cima a un enorme punto caldo: un serbatoio di roccia fusa che comincia ad almeno 200 chilometri di profondità e arriva quasi in superficie, formando quello che viene definito un superplume, ovvero un superpennacchio termico. Il calore proveniente da questo punto caldo alimenta tutte le bocche idrotermali, i geyser, le sorgenti calde e le pozze di fanghi bollenti presenti a Yellowstone. Al di sotto della superficie c'è una camera magmatica del diametro di 72 chilometri - che ha quindi all'incirca le stesse dimensioni del parco - e che nel punto di maggior spessore raggiunge all'incirca i 13 chilometri. Per farvi un'idea di che cosa c'è sotto i piedi di frotte di turisti in visita, immaginate una montagna di tritolo grande all'incirca come una contea inglese, che punta verso il cielo arrivando più o meno all'altezza dei cirri, ossia delle nuvole più alte. La pressione esercitata da una simile raccolta di magma sulla crosta sovrastante ha sollevato Yellowstone e il territorio intorno di circa mezzo chilometro. Se dovesse esplodere, provocherebbe un cataclisma inimmaginabile. Secondo Bill McGuire, professore dello University College di Londra, durante l'eruzione «non ci si potrebbe spingere a meno di 1000 chilometri».2 Le conseguenze dell'evento, poi, sarebbero anche peggiori.
I superpennacchi termici come quello di Yellowstone sono per certi versi simili ai bicchieri da Martini: inizialmente stretti, si allargano poi nei pressi della superficie creando un'ampia camera di magma instabile. Alcune di queste camere possono raggiungere anche un diametro di 1900 chilometri. Secondo le teorie più recenti, non eruttano sempre in maniera esplosiva, ma a volte possono traboccare in un enorme riversamento continuo di roccia fusa -una vera e propria inondazione - simile a quella verificatasi 65 milioni di anni fa in India, nei trappi del Deccan. Lì le rocce seppellirono un'area di oltre 500.000 chilometri quadrati e con le loro venefiche esalazioni di gas contribuirono probabilmente alla scomparsa dei dinosauri - di certo non li aiutarono. I superpennacchi possono anche essere responsabili dei rift che provocano la frattura dei continenti.
Strutture del genere non sono affatto rare. Al momento, sulla Terra ce ne sono circa trenta attivi, e hanno dato origine a molte isole o arcipelaghi famosi - l'Islanda, le Hawaii, gli arcipelaghi delle Azzorre, delle Canarie, delle Galapagos, le piccole Pitcairn al centro del Sud Pacifico, e molte altre; a parte Yellowstone, comunque, sono tutte formazioni oceaniche. Nessuno ha la più pallida idea di come e perché Yellowstone sia finito sotto una placca continentale. Due cose sono sicure: la crosta di Yellowstone è sottile e il mondo sotto di essa è caldissimo. Se la crosta sia sottile a causa del punto caldo o se il punto caldo si trovi proprio lì a causa della crosta sottile, è materia di un dibattito, per così dire, infuocato. Ai fini delle eruzioni, la natura continentale della crosta comporta un'enorme differenza. Mentre gli altri supervulcani tendono a ribollire in modo costante e relativamente benigno, Yellowstone esplode. Non è un evento che si verifichi molto spesso, ma quando accade è meglio stare alla larga.
La sua prima eruzione nota risale a 16,5 milioni di anni fa. Da allora, il vulcano è esploso circa un centinaio di volte, ma le uniche eruzioni di cui si abbiano tracce scritte sono le tre più recenti. L'ultima eruzione fu 1000 volte più potente di quella di Mount St. Helens; quella precedente era stata 280 volte più grande, e quella prima ancora talmente immane che nessuno sa quantificarla. Fu almeno 2500 volte più grande di quella di Mount St. Helens, forse addirittura 8000 volte più mostruosa.
Non abbiamo assolutamente nulla con cui confrontarla. In tempi recenti la più grossa deflagrazione è stata quella di Krakatau, in Indonesia. Avvenuta nell'agosto del 1883, l'onda d'urto rimbalzò avanti e indietro in tutto il mondo per nove giorni, sollevò schizzi d'acqua perfino nella Manica.3 Per fare una proporzione, immaginiamo che il volume di materiale eiettato dal Krakatau fosse delle
dimensioni di una palla da golf: quello emesso dalla più grande esplosione di Yellowstone, allora, doveva avere le dimensioni di una sfera abbastanza grande da potercisi nascondere dietro. Messa a confronto con queste due, l'eruzione di Mount St. Helens equivarrebbe a poco più di un pisello.
L'eruzione avvenuta a Yellowstone due milioni di anni fa produsse una quantità di cenere sufficiente a seppellire lo stato di New York sotto una coltre spessa venti metri, o la California sotto uno strato di sei. Fu proprio questa cenere a formare il deposito di fossili rinvenuto da Mike Voorhies nel Nebraska orientale. L'esplosione si verificò in quello che oggi è l'Idaho, ma nel corso di milioni di anni, a una velocità di 2,5 centimetri all'anno, la crosta terrestre si è spostata cosicché oggi il punto caldo si trova proprio sotto il Wyoming nordoccidentale (il punto caldo, infatti, rimane sempre nello stesso posto, come una torcia di acetilene puntata verso il soffitto). Sulla sua scia lascia quel ricco terreno vulcanico che si rivela ideale per la coltivazione delle patate, come scoprirono molto tempo fa gli agricoltori dell'Idaho. I geologi amano scherzare sul fatto che, tra un altro paio di milioni di anni, Yellowstone produrrà direttamente patatine fritte per McDonald's e gli abitanti di Bil-lings, nel Montana, cammineranno in mezzo ai geyser.
La pioggia di cenere seguita all'ultima eruzione di Yellowstone coprì, in tutto o in parte, i diciannove stati dell'ovest (più parte del Canada e del Messico): quasi l'intero territorio degli Stati Uniti a ovest del Mississippi. Questo, va ricordato, è il granaio d'America: un'area che produce all'incirca metà dei cereali del mondo. E la cenere, sarà bene sottolinearlo, non è come una grande nevicata che a primavera si scioglierà. Se si volesse continuare a coltivare, occorrerebbe necessariamente trovare un posto dove mettere la cenere. Sono occorsi migliaia di operai e otto mesi di lavoro per ripulire i 6,5 ettari dell'area del World Trade Center di New York da 1,8 miliardi di tonnellate di detriti. Provate un po' a immaginare come sarebbe dover ripulire il Kansas.
Tutto questo senza nemmeno prendere in considerazione le conseguenze climatiche. L'ultima eruzione di un supervulcano si è verificata 74.000 anni fa a Toba, nella parte nord di Sumatra.4 Nessuno ne conosce l'entità, ma di sicuro fu qualcosa di immane. I carotaggi eseguiti sui ghiacciai della Groenlandia mostrano che l'esplosione di Toba fu seguita da almeno sei anni di «inverno
vulcanico » - e da chissà quante altre stagioni di crescita vegetativa stentata. Si ritiene che l'evento possa aver portato gli esseri umani alla soglia dell'estinzione, riducendo la popolazione globale a non più di qualche migliaio di individui. Ciò significa che tutti gli uomini moderni discendono da una popolazione originaria molto esigua, il che spiegherebbe la nostra mancanza di diversità genetica. A ogni modo, alcuni dati indicano che nei ventimila anni successivi il numero totale di abitanti della Terra non superò mai le poche migliaia di individui.5 Ventimila anni: inutile dirlo, è un tempo molto lungo per riprendersi da una singola esplosione vulcanica.
Tutto questo rimase a livello di interesse teorico fino al 1973, quando una strana circostanza lo mise immediatamente in primo piano: l'acqua dello Yellowstone Lake, proprio nel cuore del parco, cominciò a tracimare dagli argini meridionali e ad allagare un terreno erboso, mentre all'estremo opposto del lago l'acqua defluiva misteriosamente. I geologi si precipitarono a effettuare dei rilievi e scoprirono che una vasta area del parco aveva sviluppato un minaccioso rigonfiamento che sollevava un'estremità del lago provocando la fuoriuscita dell'acqua dal lato opposto: un po' quello che accadrebbe se si sollevasse, inclinandola da una parte, una piscinetta per bambini. Nel 1984 l'intera regione centrale del parco (oltre cento chilometri quadrati) risultava più alta di un metro rispetto al 1924, data a cui risalivano gli ultimi rilevamenti ufficiali. Poi, nel 1985, la parte centrale del parco sprofondò di venti centimetri. Adesso pare che stia tornando a gonfiarsi.
I geologi compresero che c'era una sola cosa in grado di provocare tutto questo: una camera magmatica inquieta. Yellowstone non era la sede di un supervulcano antico, ormai quiescente: era la sede di un vulcano attivo. Più o meno sempre nello stesso periodo, si riuscì a calcolare che il ciclo eruttivo di Yellowstone prevedeva in media un'immane esplosione ogni seicentomila anni. L'ultima è stata 630.000 anni fa. Dunque, a quanto pare, ci siamo...
« Magari uno non se ne accorge, ma siamo sul più grande vulcano attivo del mondo» mi disse Paul Doss, geologo del Yellowstone National Park, subito dopo essere sceso da un'enorme Harley-Davidson e avermi stretto la mano.6 Ci incontrammo di mattina
presto, in una splendida giornata di giugno, a Mammouth Hot Spring, la sede principale del parco. Nativo dell'Indiana, Doss è un uomo gentile, amabile e molto premuroso, che non ha assolutamente l'aria di un impiegato del National Park Service. Con la barba grigia e i capelli tirati indietro in una lunga coda di cavallo, un piccolo zaffiro ad adornargli l'orecchio e la leggera pancetta che tende l'uniforme del Park Service stirata di fresco, Doss sembra più un musicista blues che un impiegato statale. In effetti è un musicista blues (armonica). Ma di sicuro conosce e adora la geologia. «E ho trovato il posto migliore del mondo per praticarla » dice mentre partiamo a bordo di un sobbalzante e malconcio veicolo a trazione integrale, diretti verso Old Faithful. Ha accettato che lo accompagnassi per un'intera giornata di lavoro, mentre va in giro a fare quello che fanno i geologi di un parco. Il primo compito della giornata consiste nel tenere un discorso introduttivo a un nuovo gruppo di guide turistiche.
Yellowstone, non c'è bisogno di sottolinearlo, è di una bellezza spettacolare, con montagne imponenti e scoscese, praterie punteggiate di bisonti, torrenti impetuosi, laghi azzurro cielo e un'infinità di creature selvatiche. «Se sei un geologo, non puoi passartela meglio di così» dice Doss. «Ci sono delle rocce, su a Beartooth Gap, di quasi tre miliardi di anni (tre quarti dell'età della Terra) e poi ci sono sorgenti di acque minerali» (indica le sorgenti sulfuree dalle quali Mammouth prende il nome) « dove puoi osservare la formazione delle rocce. E in mezzo c'è tutto quello che tu possa immaginare. Non ho mai visto un altro luogo dove la geologia sia più evidente - o più bella. »
« Quindi le piace? » gli chiedo.
«No. L'adoro» mi risponde con grande sincerità. «Lo amo davvero, questo posto. Gli inverni sono duri e la paga non è il massimo, ma quando è bello, è proprio... »
Si interruppe per indicarmi, in direzione ovest, una lacuna nel mezzo di una catena di monti appena entrata nella nostra visuale, in cima a una salita. Le montagne, mi disse, si chiamano Gallatins. « Quel buco è largo tra i novanta e i cento chilometri. Per molto tempo nessuno è riuscito a capire come mai ci fosse quel vuoto, poi Bob Christiansen capì che la montagna, semplicemente, doveva essere stata spazzata via. Quando ti ritrovi con cento chilometri
di montagna completamente cancellati, ti rendi conto di avere a che fare con qualcosa di davvero potente. Christiansen ci ha messo sei anni a capirlo. »
Gli chiesi che cosa avesse fatto esplodere Yellowstone all'epoca.
« Non lo so. Non lo sa nessuno. I vulcani sono strani. Proprio non li capiamo. Il Vesuvio, in Italia, è stato attivo per trecento anni fino all'eruzione del 1944, poi si è fermato - e basta. Da allora è rimasto silenzioso. Alcuni vulcanologi pensano che si stia ricaricando alla grande, il che è preoccupante se pensi che lì sopra e nei dintorni vivono due milioni di persone. Ma nessuno lo sa con certezza. »
« E che tipo di segnali ci sarebbero, nel caso in cui Yellowstone si preparasse a esplodere? »
Si strinse nelle spalle. « L'ultima volta che è esploso non c'era nessuno nei paraggi, e quindi nessuno sa quali siano i segni di pericolo. Con ogni probabilità ci sarebbero degli sciami sismici; si osserverebbero degli innalzamenti del terreno, e forse qualche alterazione nel comportamento dei geyser e delle bocche di vapore, ma nessuno lo sa con certezza. »
« Quindi potrebbe anche esplodere così, senza dare segnali? »
Annuì pensieroso. Il problema, mi spiegò, è che tutti gli eventuali segnali di pericolo sarebbero costituiti da fenomeni che a Yellowstone, in qualche misura, si verificano già comunque. « Di solito le eruzioni vulcaniche sono precedute da terremoti. Ma nel parco si verificano già una gran quantità di terremoti: 1260 solo lo scorso anno. La maggior parte sono troppo lievi per essere avvertiti, ma si tratta comunque di terremoti. »
Anche un cambiamento nelle modalità eruttive dei geyser potrebbe essere considerato un indizio, se non fosse che anch'esse variano in maniera imprevedibile. Un tempo il geyser più famoso del parco era l'Excelsior Geyser, che di solito eruttava regolarmente e in modo spettacolare fino a un'altezza di cento metri ma che nel 1888 si arrestò del tutto. Poi, nel 1985, riprese a eruttare, ma solo fino a un'altezza di venticinque metri. Lo Steamboat Geyser è il geyser più grande del mondo: quando è attivo, spara acqua a centoventi metri di altezza. Ma gli intervalli fra le sue eruzioni sono variati da un minimo di quattro giorni a un massimo di quasi cinquantanni. « Se eruttasse oggi e poi ancora la prossima settimana, questo non ci aiuterebbe assolutamente a prevedere quello che potrebbe accadere la settimana successiva, quella dopo ancora o tra vent'anni» spiega Doss. «Tutto il parco ha un comportamento talmente erratico che in pratica è impossibile trarre conclusioni, dall'osservazione di ciò che vi si verifica. »
L'evacuazione di Yellowstone non potrebbe mai essere facile. Il parco riceve qualcosa come tre milioni di visitatori all'anno, la maggior parte dei quali arriva nei tre mesi estivi, che sono il periodo di punta. Le strade che attraversano il parco sono relativamente poche e vengono mantenute intenzionalmente strette: in parte per rallentare il traffico, in parte per preservare un'immagine pittoresca, e in parte a causa di vincoli topografici. Durante i periodi d'alta stagione è facile impiegare mezza giornata per attraversare il parco, mentre per spostarsi al suo interno ci vogliono ore. « Ogni volta che la gente vede un animale, si ferma e basta, ovunque sia » dice Doss. « Qui ci sono ingorghi da orso. Ingorghi da bisonte. Ingorghi da lupo. »
Nell'autunno del 2002, i rappresentanti dello US Geological Survey e del National Park Service si incontrarono insieme ad alcuni accademici per dare vita allo Yellowstone Volcanic Observatory. Istituzioni di questo tipo esistevano già nelle Hawaii, in California, in Alaska e a Washington ma, stranamente, non nella più grande zona vulcanica del mondo. Lo yvo non è tanto una struttura quanto un'idea, un accordo per coordinare gli sforzi tesi allo studio e all'analisi della diversità geologica del parco. Uno dei suoi primi compiti, mi disse Doss, era quello di progettare «un piano di rischio sismico e vulcanico», un piano di azione in caso di emergenza.
« Non ne esiste già uno? » chiesi io.
« No, temo di no. Ma presto ce ne sarà uno. »
«Non è un po' tardi?»
«Be', diciamo che di sicuro non è troppo presto» mi disse con un sorriso.
Una volta che il piano sarà operativo, spetterà a tre persone -Christiansen nel Menlo Park, in California, il professor Robert B. Smith presso la University of Utah e Doss nel parco - stabilire il
grado dì pericolosità di qualsiasi potenziale cataclisma e avvisare il sovrintendente del parco, che deciderà un'eventuale evacuazione. Quanto alle aree circostanti, non esistono piani. Una volta lasciatisi alle spalle i cancelli del parco, il visitatore si troverebbe abbandonato a se stesso: nel caso di un'esplosione davvero immane, il piano non sarebbe di grande aiuto.
Ovviamente, potrebbero passare decine di migliaia di anni prima che arrivi quel giorno. Doss pensa che quel giorno potrebbe anche non arrivare mai. « Il fatto che in passato ci sia stata una certa regolarità nel presentarsi di questi eventi non vuol dire che sia ancora rispettata » dice. « Alcuni dati indicano, in passato, il verificarsi di una serie di esplosioni catastrofiche, seguite da un lungo periodo di quiete, nel quale probabilmente ci troviamo noi adesso. Attualmente pare proprio che la maggior parte della camera magmatica si stia raffreddando e cristallizzando. Sta liberando materiali gassosi, mentre per un'eruzione esplosiva bisogna che i gas rimangano intrappolati. »
Nel frattempo, a Yellowstone e dintorni ci sono molti altri pericoli. Se ne ebbe una drammatica dimostrazione la notte del 17 agosto 1959 in un luogo denominato Hebgen Lake, appena fuori dal parco.7 Quando mancavano venti minuti alla mezzanotte, Hebgen Lake fu scosso da un sisma catastrofico di magnitudo 7,5. Il sisma non fu esteso come spesso possono essere i terremoti, ma fu talmente violento e devastante da far crollare un intero versante della montagna. Si era nel pieno della stagione estiva - anche se, per fortuna, all'epoca Yellowstone non riceveva tutti i visitatori che accoglie oggi. Ottanta milioni di tonnellate di roccia, rotolando a più di 160 chilometri all'ora, si staccarono di colpo dalla montagna con una forza e un impeto tali da spingere il fronte avanzato della frana fino a 120 metri di altezza su una montagna dalla parte opposta della valle. Lungo la traiettoria della frana sorgeva parte del campeggio di Rock Creek. Ventotto ospiti rimasero uccisi, e di questi, 19 rimasero sepolti sotto uno strato di roccia così spesso da non poter essere più ritrovati. La devastazione fu al tempo stesso fulminea e imprevedibile. Tre fratelli che dormivano in una tenda furono risparmiati; i loro genitori, che dormivano nella tenda accanto, vennero travolti, e non se ne seppe più nulla.
«Prima o poi ci sarà un grosso terremoto» mi disse Doss. «E
intendo grosso sul serio: ci può giurare. Questa è una vasta zona di faglia sismica. »
A dispetto del sisma di Hebgen Lake e degli altri rischi, Yellowstone ebbe una dotazione permanente di sismografi solo a partire dagli anni Settanta.
Se foste alla ricerca di un modo per apprezzare la magnificenza e l'inesorabilità dei processi geologici, nulla potrebbe esservi più utile di prendere in considerazione le Tetons, una catena di montagne dal profilo splendidamente frastagliato subito a sud del parco nazionale di Yellowstone. Nove milioni di anni fa le Tetons non esistevano. Il territorio attorno a Jackson Hole era solo un altipiano coperto da'prateria. Poi, nella terra, si aprì un'enorme faglia lunga 64 chilometri, e da allora, all'incirca ogni 900 anni, le Tetons vanno soggette a terremoti davvero imponenti, capaci, ogni volta, di alzarle di altri 2 metri. Sono stati questi ripetuti sussulti, nel corso dei tempi geologici, a far loro raggiungere l'attuale imponente altezza di 2000 metri.
Quei 900 anni sono un valore medio, e per certi versi sono fuorvianti. Secondo quanto sostengono Robert B. Smith e Lee J. Siegel nel loro Windows into the Earth (una storia geologica della regione), l'ultimo grande sisma che ha scosso le Tetons si sarebbe verificato tra i 5000 e i 7000 anni fa. Per farla breve, fra tutte le zone sismiche del pianeta, le Tetons sono quella più in ritardo all'appuntamento.
Anche le esplosioni idrotermali costituiscono un rischio significativo. Possono verificarsi in qualsiasi momento, quasi dappertutto e in modo assolutamente imprevedibile. « Vede, noi dirigiamo intenzionalmente i visitatori verso i bacini termali » mi spiegò Doss dopo che eravamo stati a guardare lo sfiato di Old Faithful. « È proprio per questo che vengono qui. Lo sa che a Yellowstone ci sono più geyser e sorgenti calde che in tutte le altre parti del mondo messe insieme? »
« No, non lo sapevo. »
« Ce ne sono diecimila » annuì, « e nessuno sa quando potrebbe aprirsene un'altra. »
Andammo in macchina fino a un posto chiamato Duke Lake, un corpo d'acqua del diametro di circa 200 metri. « Sembra del tutto
inoffensivo» disse lui. «Soltanto un grosso stagno. Ma una volta non c'era. In un momento imprecisato, negli ultimi quindicimila anni, dev'esserci stata un'esplosione molto potente. Decine di milioni di tonnellate di terra, roccia e acqua surriscaldata saranno state lanciate fuori a velocità supersonica. Riesce a immaginare che cosa potrebbe accadere se un evento del genere si verificasse - diciamo - sotto il parcheggio di Old Faithful, o sotto uno dei centri per i visitatori? » Assunse un'espressione triste.
« Ci sarebbero avvisaglie? »
« Probabilmente no. L'ultima esplosione rilevante avvenuta nel parco è stata quella a Pork Chop Geyser, che nel 1989 lasciò un cratere largo quasi cinque metri (certo non una cosa enorme, comunque, a trovarcisi sopra proprio in quel momento, di sicuro abbastanza grande). Per fortuna non c'era nessuno nei paraggi, e quindi nessuno si fece male. Ma la cosa avvenne senza alcuna avvisaglia. In un passato molto remoto ci furono esplosioni capaci di spalancare buche di un chilometro e mezzo di diametro. Nessuno è in grado di prevedere dove e quando tutto questo possa verificarsi ancora. Bisogna soltanto sperare di non trovarsi proprio lì quando accadrà. »
Anche le grandi frane sono un pericolo. A Gardiner Canyon, nel 1999, ce ne fu una enorme, ma per fortuna anche qui non rimase coinvolto nessuno. Nel tardo pomeriggio Doss e io ci fermammo in un luogo dove una sporgenza rocciosa a sbalzo su un'affollata strada del parco mostrava crepe ben visibili. «Potrebbe cedere in qualsiasi momento » fece Doss pensieroso.
« Sta scherzando » dissi io. Non ci fu un solo momento in cui sotto quello sperone non passassero almeno un paio di macchine piene - nel senso più letterale del termine - di allegri campeggiatori.
« Non è che sia una cosa probabile » precisò lui. « Sto soltanto dicendo che potrebbe succedere. Come potrebbe anche rimanere lì così per decenni. Non c'è proprio il modo di fare previsioni. La gente deve accettare che quando viene qui corre dei rischi. Ecco tutto. »
Mentre ci incamminavamo verso la macchina per tornare a Mammouth Hot Spring, Doss aggiunse: « Comunque la verità è che le cose brutte succedono di rado. Le rocce non franano, non ci sono terremoti, non si aprono nuove bocche vulcaniche all'improvviso. Con tutta la sua instabilità, questo è pur sempre un luogo straordinariamente e stranamente tranquillo».
«Come la Terra, del resto» gli feci notare.
«Esatto.»
A Yellowstone i rischi riguardano sia gli operatori sia i visitatori. Doss ne ebbe l'orribile sentore cinque anni prima, quando lavorava nel parco da pochi giorni. Una notte, molto tardi, tre giovani addetti stagionali del parco erano intenti a un'attività non consentita, nota come « mettersi a cuocere » e cioè nuotare o crogiolarsi nelle pozze calde. Sebbene per ovvie ragioni il parco non pubblicizzi la cosa, non tutte le pozze di Yellowstone sono bollenti. In alcune di esse è piacevolissimo immergersi, e tra gli addetti stagionali qualcuno aveva l'abitudine di fare un tuffo a notte tarda, pur sapendo di andare contro le regole. Stupidamente, i tre incoscienti si erano dimenticati di portare una torcia, il che è pericolosissimo: gran parte del suolo attorno alle pozze calde è infatti così sottile e friabile che è facile rischiare di cadere in uno degli sfiati bollenti sottostanti. A ogni modo, mentre ritornavano ai loro alloggi, i tre incrociarono un ruscello che all'andata avevano superato con un salto. Indietreggiarono di qualche passo tenendosi per mano e dopo aver contato fino a tre, fecero tutti insieme un tuffo con la rincorsa. In realtà, non si trattava affatto del corso d'acqua che avevano incontrato prima, ma di una pozza bollente. Nel buio avevano perso l'orientamento. Nessuno dei tre sopravvisse.
Pensavo a questo uscendo dal parco, il giorno dopo, mentre facevo una breve visita in un posto chiamato Emerald Pool, nell'Upper Geyser Basin. Doss non aveva avuto il tempo di accompagnarmici il giorno prima, ma io pensavo di dovergli dare almeno un'occhiata, visto che è un sito storico.
Nel 1965 una coppia di biologi, Thomas e Louise Brock, durante un viaggio di studio estivo, aveva fatto una cosa un po' pazza. I due avevano raccolto qualche cucchiaiata della schiuma brunastra che bordava la pozza, e l'avevano esaminata alla ricerca di tracce di vita. Con loro grande stupore, e sorprendendo in seguito tutto il mondo, il materiale era risultato pieno di microbi vivi. I due coniugi avevano scoperto i primi estremofili, organismi che potevano vivere in acque in precedenza ritenute troppo calde, acide o sature di zolfo per consentire la vita. Straordinariamente, Emerald Pool
era tutte queste cose insieme: eppure almeno due creature, Sulpho-lobus acidocaldarius e Termophilus aquaticus, come furono poi chiamate, lo trovavano un habitat congeniale. Si era sempre pensato che nulla potesse sopravvivere a temperature superiori ai 50 gradi Celsius; e invece lì a Emerald Pool c'erano organismi che si crogiolavano in acque acide e fetide, con una temperatura almeno doppia.
Per quasi vent'anni uno dei due nuovi batteri scoperti dai Brock, Termophilus aquaticus, rimase un fenomeno da laboratorio. Finché, in California, uno scienziato di nome Kary B. Mullis capì che i suoi enzimi termoresistenti potevano essere usati per creare quella sorta di magia chimica nota come reazione a catena della polimerasi (pcr), che consente di ottenere grandi quantità di DNA a partire da campioni piccolissimi - in condizioni ideali anche solo da un'unica molecola.8 La pcr è una sorta di fotocopiatrice molecolare e divenne la base di tutta la genetica successiva: dagli studi accademici al lavoro della polizia scientifica. Nel 1993 valse a Mullis il premio Nobel per la chimica.
Nel frattempo gli scienziati scoprirono microbi anche più resistenti, oggi noti come ipertermofili, che per vivere necessitano di temperature non inferiori, e in qualche caso superiori, agli 80 gradi Celsius.9 L'organismo più amante del caldo finora scoperto, secondo quanto racconta Frances Ashcroft nel suo Oltre ogni limite, è Pyrolobus fumarii, che vive nelle pareti delle bocche idrotermali sui fondali oceanici, ossia in luoghi dove la temperatura può raggiungere i 113 gradi Celsius. Si ritiene che per la vita il limite massimo di temperatura sia intorno ai 120 gradi Celsius, anche se nessuno ancora lo sa con certezza. A ogni modo, la scoperta dei Brock cambiò completamente la nostra percezione del mondo vivente. Come ha detto lo scienziato della NASA Jay Bergstralh, «fintanto che c'è acqua allo stato liquido e una fonte di energia chimica, in qualunque posto sulla Terra, anche quello che può sembrare l'ambiente più ostile possibile, troveremo la vita».10
La vita è dunque infinitamente più intelligente e adattabile di quanto si pensasse. Ed è un'ottima cosa, visto che, come vedremo fra poco, viviamo su un pianeta che non sembra affatto ben disposto verso di noi.
QUINTA PARTE. La vita, proprio lei
«Più lo osservo e studio i dettagli della sua architettura, più mi convinco che l'universo, in un certo senso, doveva sapere che stavamo arrivando. »
Freeman Dyson
16. Un pianeta solitario
Non è facile essere un organismo vivente. Per quanto ne sappiamo, in tutto l'universo c'è un unico luogo, un modesto avamposto nella Via Lattea, chiamato Terra, che riesce a sopportare creature come noi. E anche lei lo fa di malavoglia.
Dalla più profonda fossa oceanica alla cima della montagna più alta, la zona che contiene tutte le forme di vita conosciute ha uno spessore di soli venti chilometri: non molto in confronto alla vastità del cosmo.
Per gli umani, poi, la situazione è ancora più proibitiva, giacché apparteniamo a quel gruppo di esseri viventi che quattrocento milioni di anni fa presero l'incauta e avventurosa decisione di strisciare fuori dai mari, stabilirsi sulle terre emerse e respirare ossigeno. Di conseguenza, si stima che non meno del 99,5 per cento dello spazio abitabile del pianeta, espresso in volume, sia per noi fondamentalmente - in termini pratici sarebbe meglio dire: assolutamente - proibito.1
Non è solo che non possiamo respirare nell'acqua: il fatto è che non possiamo nemmeno sopportarne la pressione. Poiché l'acqua è circa 1300 volte più pesante dell'aria, a mano a mano che si scende in profondità, la pressione sale rapidamente: un'atmosfera ogni 10 metri.2 Sulla terraferma, se si sale in cima a un famoso monumento alto 150 metri (la cattedrale di Colonia o il monumento a Washington, per esempio) la variazione di pressione è così lieve da risultare impercettibile. Sott'acqua invece, alla stessa profondità le vene collasserebbero, e i polmoni si comprimerebbero fino a raggiungere le dimensioni di una lattina di Coca-Cola.3 È sorprendente, quindi, che ci siano persone disposte a immergersi a queste profondità, senza bombole, per il semplice piacere di farlo, in uno sport conosciuto come «freediving». A quanto pare, l'esperienza di ritrovarsi gli organi interni brutalmente compressi e deformati viene percepita come una cosa inebriante (sebbene, presumibilmente, non come quella di sentirli tornare alle loro dimensioni originali, una volta riemersi in superficie). Per raggiungere tali profondità, comunque, i subacquei devono esservi trascinati, e anche abbastanza velocemente, da una zavorra. La profondità massima mai raggiunta in apnea da qualcuno che sia poi sopravvissuto per raccontarlo è di circa 72 metri: impresa compiuta da Umberto Pelizzari, che nel 1992 raggiunse quella profondità, vi si trattenne per un nanosecondo e poi schizzò indietro verso la superficie. Rapportati alla terraferma, 72 metri sono un po' meno della distanza coperta da un pallone ben calciato. Quindi, anche tenendo conto delle nostre imprese più esuberanti, è molto difficile sostenere di essere i signori degli abissi.
Altri organismi riescono invece ad affrontare la pressione di profondità; il modo esatto in cui alcuni di essi ci riescono, tuttavia, resta un mistero. Il punto più profondo degli oceani è la fossa delle Marianne, nel Pacifico. Lì, a quasi 11,3 chilometri di profondità, la pressione supera i 1100 chilogrammi per centimetro quadrato. Solo una volta, e per un tempo breve, siamo riusciti a mandare a quelle profondità degli esseri umani rinchiusi in un batiscafo; ciò nondimeno, quei fondali ospitano colonie di antìpodi, crostacei simili ai gamberi ma trasparenti, che vi possono sopravvivere senza alcuna protezione. La maggior parte degli oceani è molto meno profonda, ma anche a quattro chilometri - la profondità media degli oceani - la pressione equivale a quella esercitata da quattordici camion carichi di cemento.4
Quasi tutti, compresi gli autori di alcuni famosi libri divulgativi sull'oceanografia, ritengono che, sottoposto all'immensa pressione delle profondità oceaniche, il corpo umano si schiaccerebbe deformandosi completamente. In realtà, sembra che non sia così. Giacché noi esseri umani siamo costituiti in larga misura di acqua, e poiché l'acqua è « pressoché incomprimibile », come dice Frances Ashcroft della Oxford University, «il corpo rimane alla stessa pressione dell'acqua circostante, e in profondità non ne verrebbe schiacciato ».5 Il problema sta nei gas presenti all'interno del corpo, in particolare quelli nel polmone: sono loro che effettivamente si comprimono, anche se non sappiamo a che punto questa compressione diventi letale. Fino a tempi abbastanza recenti, si pensava che chiunque si immergesse a una profondità di circa 100 metri sarebbe morto fra atroci sofferenze in seguito all'implosione dei polmoni
o allo schiacciamento della gabbia toracica. D'altra parte, i cultori del freediving hanno dimostrato in più occasioni il contrario. Secondo Ashcroft, sembra che «gli esseri umani siano più simili a balene e delfini di quanto ci si aspettasse ».6
Possono tuttavia insorgere moltissimi altri problemi. All'epoca degli scafandri (le tute da palombaro che rimanevano connesse alla superficie per mezzo di lunghi tubi) i subacquei a volte andavano incontro a uno spaventoso fenomeno conosciuto come « spremuta ». Si verificava quando la pompa di superficie smetteva di funzionare, provocando una catastrofica perdita di pressione all'interno dello scafandro. L'aria fuoriusciva con una tale violenza che lo sventurato veniva letteralmente risucchiato nel casco e nel tubo. Una volta issato in superficie, « nello scafandro, tutto ciò che restava del palombaro erano le ossa e qualche brandello di carne », come scrisse il biologo J.B.S. Haldane nel 1947, aggiungendo a beneficio degli increduli: « è un fatto realmente accaduto ».7
Detto per inciso, il casco originale dello scafandro, progettato nel 1823 da un inglese di nome Charles Deane, non era stato pensato per i palombari ma per i pompieri. Era stato chiamato casco antifumo, ma essendo fatto di metallo, era troppo caldo e scomodo. Ben presto Deane scoprì che i pompieri non sembravano particolarmente entusiasti di entrare negli edifici in fiamme, qualunque fosse il loro abbigliamento; soprattutto, però, preferivano non indossare una cosa che si scaldava come una teiera e per di più intralciava i movimenti. Nel tentativo di salvare il suo investimento, Deane lo provò sott'acqua e scoprì che era ideale per le operazioni di salvataggio.
Il vero terrore delle profondità è invece l'embolia gassosa (detta anche malattia dei palombari o malattia da decompressione). Non tanto perché sia spiacevole, anche se è ovvio che lo è, quanto perché è molto più probabile. L'aria che respiriamo è composta per l'80 per cento da azoto. Quando il corpo umano è sottoposto a pressione, l'azoto si trasforma in minuscole bollicine che migrano nel sangue e nei tessuti. Se la pressione cambia troppo in fretta (come ad esempio nel caso in cui un subacqueo risalga in superficie troppo rapidamente), le bollicine intrappolate nel corpo cominciano a liberarsi - proprio come accade in una bottiglia di champagne appena stappata - e vanno a ostruire i piccoli vasi sanguigni, privando così le cellule di ossigeno e causando sofferenze tanto terribili che il malcapitato tende a piegarsi in due per il dolore: un dettaglio che spiega il nome colloquiale inglese dell'embolia gassosa, the bends, da to bend, piegare.
L'embolia gassosa costituisce da tempi immemorabili un rischio professionale per i pescatori di perle e di spugne, ma fino al diciannovesimo secolo non attirò molta attenzione nel mondo occidentale. A quel punto, poi, la attirò solo fra gente che non si bagnava o che, se lo faceva, non si immergeva mai oltre le caviglie. Si trattava degli operai addetti ai cassoni. Questi ultimi erano camere asciutte, sigillate, riempite di aria compressa, erette sul letto dei fiumi per facilitare la costruzione dei piloni dei ponti. Spesso, quando gli operai ne emergevano dopo aver lavorato a lungo in queste condizioni di pressione artificiale, avvertivano dei leggeri sintomi, per esempio formicolìi o prurito. Un certo numero di individui, basso ma imprevedibile, avvertiva però dolori persistenti alle articolazioni e, più di rado, collassava per non rialzarsi mai più.
La cosa era decisamente sconcertante. A volte gli operai andavano a letto sentendosi benissimo e si risvegliavano paralizzati. Altre volte non si svegliavano più. Come racconta Ashcroft, all'avvicinarsi del completamento degli scavi, i responsabili dei lavori per l'apertura di un nuovo tunnel sotto il Tamigi organizzarono un banchetto di festeggiamento. I partecipanti rimasero costernati quando - stappato dentro il tunnel ad aria compressa - il loro champagne non spumeggiò. Tuttavia, quando alla fine essi riemersero nella fresca aria di una serata londinese, le bollicine cominciarono immediatamente a liberarsi, ravvivando in modo memorabile la loro digestione.8
Oltre a evitare del tutto ambienti altamente pressurizzati, le strategie efficaci contro la malattia da palombaro sono due. La prima consiste nell'esporsi alle variazioni di pressione solo per brevissimo tempo. Ecco perché chi pratica il freediving può scendere a grande profondità senza effetti nocivi: semplicemente, non vi rimane abbastanza a lungo da consentire all'azoto presente in circolo di dissolversi nei tessuti. L'altra soluzione è quella di risalire gradualmente, per stadi. Questa procedura consente alle bollicine di azoto di liberarsi senza danno.
Gran parte di quello che sappiamo sulla sopravvivenza in condizioni estreme lo si deve a una straordinaria coppia di ricercatori, padre e figlio: John Scott e J.B.S. Haldane. GH Haldane eranodecisamente eccentrici perfino per gli elevati standard degli intellettuali inglesi. Haldane padre era nato nel 1860 da un'aristocratica famiglia scozzese (suo fratello era il visconte Haldane), ma trascorse gran parte della sua carriera in modo relativamente modesto, lavorando come professore di fisiologia a Oxford. Era famoso per la distrazione. Una volta, dopo che l'aveva mandato al piano di sopra a cambiarsi d'abito per una cena, sua moglie non lo vide più tornare e lo trovò a letto, in pigiama, addormentato. Quando si svegliò, il marito le spiegò che essendosi ritrovato svestito, aveva pensato che fosse ora di andare a letto.9 La sua idea di vacanza era andare in Cornovaglia e studiare le elmintiasi che affliggevano i minatori. Aldous Huxley, lo scrittore nipote di T.H. Huxley, visse per qualche tempo con gli Haldane e fece la parodia di Haldane senior, un poco impietosa, nella figura dello scienziato Edward Tantamount, personaggio del romanzo Punto contro punto.
Il contributo di Haldane alla sicurezza delle immersioni in profondità consistette nel calcolare la durata delle pause da effettuare durante la risalita per evitare l'embolia gassosa; i suoi interessi, tuttavia, spaziavano nell'intero campo della fisiologia: dallo studio del mal di montagna negli scalatori al problema dei colpi di calore nelle regioni desertiche.10 Nutriva un interesse particolare per gli effetti dei gas tossici sul corpo umano. Per arrivare a comprendere esattamente il modo in cui le perdite di monossido di carbonio uccidevano i minatori, cominciò ad autosomministrarselo sistematicamente, prelevando e analizzando scrupolosamente campioni del proprio sangue. Smise soltanto quando fu sul punto di perdere completamente il controllo muscolare, e quando i livelli di saturazione nel sangue avevano ormai raggiunto il 56 per cento: una concentrazione appena inferiore a quella sicuramente letale, come fa notare Trevor Norton nella sua divertente storia delle immersioni I pionieri degli abissi.11
Haldane figlio - Jack, noto ai posteri come J.B.S. - fu un bambino prodigio che mostrò interesse per il lavoro del padre fin quasi dalla primissima infanzia. All'età di tre anni lo si udì chiedere stizzito al padre: « Ma si tratta di ossiemoglobina o di carbossie-moglobina? »12 Per tutta l'infanzia il giovane Haldane aiutò il padre nei suoi esperimenti. Ormai adolescente, provava spesso, insieme a lui, gas e maschere antigas: i due le indossavano a turno per vedere quanto tempo l'altro impiegasse a svenire.
Sebbene J.B.S. Haldane non avesse mai conseguito una laurea in scienze (fece studi umanistici a Oxford), divenne comunque un brillante scienziato ottenendo incarichi a Cambridge. Peter Meda-war, che trascorse la propria esistenza nell'olimpo delle menti, lo definì «l'uomo più intelligente che abbia mai conosciuto».13 Nel suo romanzo Passo di danza, Huxley fece la parodia anche del giovane Haldane, ma usò le sue idee sulla manipolazione genetica degli esseri umani come base per la trama del Mondo nuovo. Tra le molte altre cose, Haldane ebbe un ruolo fondamentale nel coniugare i principi evoluzionistici darwiniani con la genetica mendeliana, producendo quella che è conosciuta tra i genetisti come Sintesi Moderna.
Forse unico tra tutti gli esseri umani, il giovane Haldane trovò la Prima guerra mondiale « un'esperienza molto piacevole » e ammise liberamente di aver apprezzato «l'opportunità di uccidere».14 Lui stesso rimase ferito due volte. Dopo la guerra, diventò un divulgatore scientifico di successo e scrisse ventitré libri (e più di quattrocento articoli scientifici). I suoi libri sono ancora leggibilissimi e istruttivi, sebbene non siano sempre facili da reperire. Diventò anche un marxista fervente: qualcuno ha insinuato, non del tutto cinicamente, che ciò avvenne solo per puro spirito di contraddizione, e che se fosse nato in Unione Sovietica sarebbe diventato un monarchico appassionato. A ogni modo, la maggior parte dei suoi articoli apparve in anteprima sul giornale comunista Daily Worker.
Mentre il principale interesse di suo padre sembrava riguardare i minatori e gli avvelenamenti, il giovane Haldane era ossessionato dal mettere al riparo sommergibilisti e sommozzatori dalle spiacevoli conseguenze del loro lavoro. Con le sovvenzioni dell'ammiragliato, acquistò una camera di decompressione che battezzò « pentola a pressione». Consisteva di un cilindro metallico capace di ospitare fino a tre persone, che venivano sottoposte ad analisi di vario genere, tutte dolorose e quasi tutte pericolose. A volte si chiedeva ai volontari di starsene nell'acqua ghiacciata mentre respiravano «un'atmosfera aberrante» o erano sottoposti a rapidi cambiamenti di pressurizzazione. In uno dei suoi esperimenti, lo stesso Haldane simulò su se stesso una pericolosa risalita rapida, per vedere che cosa sarebbe successo. E successe che gli esplosero le otturazioni dei denti. « Quasi tutti gli esperimenti » scrive Norton « finivano con qualcuno che sanguinava, vomitava o aveva una
crisi convulsiva. »13 La camera era quasi completamente insonorizzata, e quindi l'unica maniera in cui gli occupanti potevano segnalare la propria disperazione o la propria sofferenza era di colpirne con insistenza le pareti o mostrare da una finestrella messaggi scritti.
In un'altra occasione, mentre si stava avvelenando con elevati livelli di ossigeno, Haldane ebbe una crisi convulsiva così violenta che riportò lo schiacciamento di diverse vertebre. Il collasso dei polmoni, per lui, era un rischio di routine. Anche la perforazione del timpano era abbastanza frequente ma, come lo stesso Haldane osservò con toni rassicuranti in uno dei suoi saggi, «in genere il timpano cicatrizza; e se rimane bucato, e uno si ritrova un po' sordo, può comunque soffiare il fumo di tabacco dall'orecchio in questione. Il che in società può rivelarsi un talento apprezzabile ».16
L'aspetto straordinario di tutto questo non era tanto che Haldane fosse disposto a sottoporre se stesso a simili rischi e sofferenze per amore della scienza, quanto che non si facesse scrupoli a convincere anche colleghi e persone care a entrare dentro la camera. Sottoposta alla simulazione di un'immersione in profondità, sua moglie ebbe una crisi che durò tredici minuti. Quando alla fine smise di contorcersi sul pavimento, la aiutò a rimettersi in piedi e poi la spedì a casa a preparare la cena. Haldane utilizzò con disinvoltura tutti quelli che gli capitarono a tiro, ivi compreso, in un'occasione memorabile, un ex primo ministro spagnolo, Juan Negrin. Il dottor Negrin lamentò, in seguito, un leggero formicolio e « una curiosa sensazione vellutata alle labbra », ma per il resto sembrò cavarsela senza danno. Poteva considerarsi molto fortunato, giacché un esperimento simile (di privazione dell'ossigeno) lasciò Haldane senza sensibilità alle natiche e alla parte inferiore della spina dorsale per sei anni.17
Tra i numerosi interessi di Haldane c'erano gli effetti ubriacanti dell'azoto. Per ragioni ancora scarsamente comprese, a profondità superiori ai 30 metri, l'azoto diventa un potente inebriante. Si sa di subacquei che, in preda ai suoi effetti, hanno offerto il boccaglio per l'ossigeno ai pesci di passaggio o hanno deciso di prendersi una pausa per una sigaretta. L'azoto produce anche repentine alterazioni dell'umore.18 Nel corso di un esperimento Haldane annotò che il soggetto « alternava depressione ed esaltazione, chiedendo a un certo punto di essere decompresso perché si sentiva 'troppo
male e ridendosela solo un minuto dopo, mentre cercava di interferire con i test dei suoi colleghi ». Per poter misurare la velocità di deterioramento delle condizioni del soggetto, uno scienziato doveva entrare nella camera pressurizzata insieme ai volontari ed effettuare alcuni semplici test. Dopo pochi minuti, però, come Haldane raccontò in seguito, «lo sperimentatore si ritrovava di solito intossicato quanto la cavia, e spesso dimenticava di premere il pulsante del cronometro o di prendere appunti adeguati».19 La causa dell'inebriamento da azoto resta ancora oggi un mistero.20 Si pensa che possa essere dovuta allo stesso meccanismo che provoca l'ubriacatura da alcool, ma visto che nessuno sa per certo cosa provochi quest'ultima, non saremo certo noi i primi ad arrivarci. A ogni modo, se non si presta la massima attenzione, una volta lasciatosi alle spalle il mondo di superficie, è facile ritrovarsi nei guai.
Tutto questo ci riporta (quasi) alla nostra precedente osservazione, ossia che la Terra non è il luogo più ospitale per un organismo, sebbene sia l'unico possibile. Quella piccola porzione di superficie del pianeta abbastanza asciutta da poterci sostenere, risulta in grandissima parte troppo calda, fredda, secca, ripida o elevata per poterci essere della benché minima utilità. In parte (e questo bisogna ammetterlo) è colpa nostra. In termini di adattabilità, gli esseri umani non sono particolarmente brillanti. Come la maggior parte degli animali, noi esseri umani non amiamo molto i luoghi troppo caldi, e comunque siamo più vulnerabili perché sudiamo molto e siamo soggetti ai colpi di calore. Nelle peggiori circostanze (a piedi in un deserto caldo e senz'acqua) la maggior parte degli individui comincerebbe a delirare e in non più di sette-otto ore stramazzerebbe al suolo, probabilmente per non rialzarsi più. Non che col freddo ce la caviamo meglio... Come la maggior parte dei mammiferi, anche gli esseri umani sono capaci di generare calore; ma, poiché siamo quasi del tutto privi di peli, noi umani non riusciamo a trattenerlo. Anche in un clima temperato, metà delle calorie che bruciamo servono a mantenere costante la temperatura corporea.21 Ovviamente, in larga misura noi siamo in grado di contrastare queste nostre fragilità, soprattutto con l'uso di vestiti e ripari; anche così, però, la porzione del pianeta su cui possiamo vivere è molto modesta: appena il 12 per cento delle terre emerse, e
solo il 4 per cento dell'intera superfìcie terrestre, includendo anche i mari.22
D'altra parte, quando si prendono in considerazione le condizioni esistenti altrove nell'universo conosciuto, la meraviglia non sta tanto nel fatto che noi utilizziamo una frazione così piccola del nostro pianeta, quanto piuttosto che siamo riusciti a trovare un pianeta del quale possiamo usufruire, anche se solo limitatamente. Basta guardare il nostro sistema solare (o, se è per questo, la Terra in certi periodi della sua stessa storia) per capire che la maggior parte dei luoghi è più inclemente e meno favorevole alla vita di quanto lo sia il nostro pianeta azzurro.
Finora, al di fuori del sistema solare, gli scienziati hanno scoperto solo una settantina di pianeti dei circa dieci miliardi di trilioni che si pensa esistano - e quindi non possiamo certo atteggiarci ad autorità in materia. Sembra comunque che per trovare un pianeta adatto alla vita occorra davvero una buona dose di fortuna. E più è avanzata la forma di vita che si ha in mente, più bisogna essere fortunati. Diversi esperti hanno identificato una ventina di circostanze particolarmente favorevoli presentatesi sulla Terra. Poiché questa non è che una veloce rassegna, prenderemo in esame solo le quattro principali.
Posizione eccellente. Noi siamo - e lo siamo in un modo che ha del prodigioso - alla distanza giusta dal tipo giusto di stella: un astro abbastanza grande da irradiare una notevole quantità di energia, ma non così grande da consumarsi velocemente. Questo è infatti un aspetto curioso della fisica: quanto più grande è una stella, tanto più rapidamente essa brucia. Se il nostro Sole avesse avuto una massa dieci volte più grande, si sarebbe consumato nel giro di dieci milioni di anni, invece che di dieci miliardi.23 E noi adesso non saremmo qui. Siamo anche fortunati a trovarci sull'orbita in cui siamo. Appena più vicini al Sole, e tutto sulla Terra sarebbe evaporato. Appena più lontani, e tutto sarebbe congelato.
Nel 1978 un astrofisico di nome Michael Hart fece alcuni calcoli e concluse che la Terra sarebbe risultata inabitabile se solo fosse stata dell'uno per cento più lontana o del cinque per cento più vicina al Sole. Certo non è molto, e infatti non era abbastanza. Da allora, i calcoli sono stati perfezionati e le cifre sono diventate un poco più generose (si ritiene che una valutazione più accurata
individui la nostra zona di abitabilità fra un cinque per cento più vicino e un quindici per cento più lontano dal Sole): comunque sia, il risultato rimane una fascia ristretta.*
Per poter apprezzare quanto sia ristretta, conviene dare un'occhiata a Venere che, rispetto a noi, è più vicina al Sole di appena quaranta milioni di chilometri: significa che il calore del Sole la raggiunge appena due minuti prima di toccare noi.24 Per composizione e volume, Venere è molto simile alla Terra, eppure quella piccola differenza di distanza fra le due orbite ha comportato tutta la grande differenza esistente fra noi. Nei primi anni di esistenza del sistema solare, sembra che Venere fosse solo un po' più calda della Terra e probabilmente aveva anche degli oceani.23 Ma quei pochi gradi in più di temperatura non le consentirono di trattenere l'acqua sulla sua superficie, con conseguenze disastrose per il clima. Mentre la sua acqua evaporava, gli atomi di idrogeno sfuggirono nello spazio e quelli di ossigeno si combinarono con il carbonio per formare una densa atmosfera di anidride carbonica, un gas con un potente effetto serra. Venere diventò soffocante. Chi ha la mia età ricorderà di quando gli astronomi speravano che, sotto la coltre di nuvole, Venere potesse ospitare la vita, forse addirittura qualche forma di vegetazione tropicale. Oggi però sappiamo che è un ambiente troppo spietato per qualsiasi forma di vita da noi concepibile. La sua rovente temperatura di superficie, 470 gradi Celsius, è sufficiente a fondere il piombo. Sempre in superficie, la pressione atmosferica è novanta volte superiore a quella della Terra, molto più di quanto un qualsiasi essere umano possa sopportare.26 Non disponiamo della tecnologia necessaria per fabbricare tute e veicoli spaziali che ci consentano di visitarla. Le nostre conoscenze della superficie di Venere si basano sulle immagini rilevate a distanza dai radar e su qualche segnale inviato da una sonda sovietica senza equipaggio che fu lanciata nelle nuvole venusiane in un clima di grandi aspettative nel 1972, e che funzionò per meno di un'ora prima di tacere per sempre.
* La scoperta degli estremofili nelle pozze di fango bollente di Yellowstone e di organismi simili altrove ha fatto comprendere agli scienziati che in realtà certe forme di vita possono spingersi molto oltre; forse anche sotto la superficie ghiacciata di Plutone. Qui, però, stiamo parlando delle condizioni adatte a produrre, sulla superficie del pianeta, creature abbastanza complesse.
Ecco che cosa succede se ci si avvicina al Sole di soli due minuti luce. Se ci si allontana, il problema non sarà più il calore ma il freddo, come Marte gelidamente testimonia. Anch'esso un tempo era un luogo molto più congeniale alla vita, ma non riuscì a conservarsi un'atmosfera utilizzabile e si trasformò in un deserto di ghiaccio.
D'altra parte, il segreto di tutto non sta solo nel trovarsi alla giusta distanza dal Sole: in tal caso, infatti, la Luna sarebbe un luogo piacevole e ammantato di foreste - il che, evidentemente, non è. Perché questo si avveri, infatti, occorre il giusto tipo di pianeta.
Il giusto tipo di pianeta. Non credo che molti geologi, dovendo esprimere i loro desideri, vi includerebbero quello di vivere su un pianeta con l'interno fuso: di sicuro però, senza tutto quel magma che vortica sotto di noi, adesso non saremmo qui. A parte tutto il resto, sono proprio le vivaci viscere della Terra ad averci fornito le esalazioni di gas necessarie alla formazione di un'atmosfera, e ad aver dotato il pianeta di un campo magnetico che lo protegge dalle radiazioni cosmiche. Anche la tettonica a placche è un dono del nucleo fuso della Terra, un dono che ne rinnova e increspa di continuo la superficie. Se la Terra fosse liscia, sarebbe tutta ricoperta d'acqua fino a una profondità di quattro chilometri. In un siffatto oceano solitario, potrebbe benissimo esserci la vita, ma di sicuro non ci sarebbero partite di calcio.
Oltre ad avere un nucleo provvidenziale, il nostro pianeta possiede anche gli elementi giusti nelle corrette proporzioni. Noi siamo fatti delle sostanze giuste, nel senso più letterale. Questo è importantissimo per il nostro benessere, e infatti ne parleremo più esaurientemente tra poco. Prima dobbiamo però prendere in esame gli altri due fattori, uno dei quali viene spesso sottovalutato.
Siamo un pianeta gemello. Non sono molti, fra noi, quelli che normalmente pensano alla Luna come a un pianeta compagno, ma in effetti essa è proprio questo. In confronto al pianeta principale, la maggior parte delle lune è molto piccola. I satelliti marziani Phobos e Deimos, per esempio, hanno un diametro di appena dieci chilometri. La nostra Luna, invece, misura più di un quarto del diametro della Terra, il che fa del nostro pianeta l'unico del sistema solare con una luna di dimensioni così cospicue rispetto alle proprie (fatta
eccezione per Plutone, che però non conta visto che è di per se stesso piccolissimo): questo, per noi, comporta un'enorme differenza.
Senza l'influenza stabilizzante della Luna, la terra barcollerebbe come una trottola in procinto di fermarsi, chissà con quali conseguenze per il clima e le condizioni atmosferiche. Grazie alla costante influenza gravitazionale della Luna, invece, la Terra continua a ruotare alla velocità e all'angolazione giuste per fornire il tipo di stabilità necessaria allo sviluppo e al mantenimento della vita. Ma non durerà per sempre. La Luna sta scivolando dalla nostra presa alla velocità di circa quattro centimetri all'anno.27 Nell'arco dei prossimi due miliardi di anni, si sarà allontanata a tal punto da non garantirci più la stabilità - e noi dovremo inventarci un'altra soluzione. Nel frattempo, però, faremmo bene a considerarla come qualcosa di più di una nota di poesia nel cielo notturno.
Per lungo tempo gli astronomi hanno ritenuto che la Terra e la Luna si fossero formate insieme, o che la Terra avesse catturato la Luna, passata nelle vicinanze mentre andava alla deriva nel cosmo. Come ricorderete da quanto detto in un precedente capitolo, oggi siamo invece convinti che circa 4,4 miliardi di anni fa un oggetto della grandezza di Marte si sia abbattuto sulla Terra, scagliando nello spazio materiale sufficiente a generare la Luna con i detriti dell'impatto. Per noi si trattò sicuramente di un evento molto positivo - soprattutto in quanto accadde moltissimo tempo fa. Se fosse avvenuto nel 1896, o mercoledì scorso, ci avrebbe fatto senz'altro meno piacere. Il che ci porta alla nostra quarta e, per certi versi, più importante considerazione.
Tempismo. L'universo è un luogo sorprendentemente movimentato, teatro di numerosi eventi, e la nostra esistenza al suo interno è un miracolo. Se a partire da 4,6 miliardi di anni fa non si fosse svolta una sequenza di eventi, lunga e inconcepibilmente complessa, e se non si fosse svolta nell'ordine e nei tempi giusti - se (tanto per fare un esempio ovvio) i dinosauri non fossero stati spazzati via da un meteorite -, ora potremmo benissimo essere creature lunghe qualche centimetro, con tanto di coda e baffi. Forse, stareste leggendo queste pagine al riparo offerto da una tana sotterranea.
Non possiamo esserne proprio sicuri, perché non abbiamo termini di paragone, tuttavia sembra evidente che per arrivare a una società moderatamente avanzata, i cui membri siano dotati di pensiero, occorre trovarsi all'estremo di una lunghissima catena di eventi il cui verificarsi richiede ragionevoli periodi di stabilità, all'interno dei quali siano disseminati, nella giusta quantità, stress e stimoli (le ere glaciali sembrano essere particolarmente utili in tal senso), il tutto caratterizzato dalla totale assenza di autentici cataclismi. Come vedremo nelle prossime pagine, siamo davvero fortunati a trovarci in questa posizione.
Detto questo, torniamo a occuparci brevemente degli elementi che compongono il nostro corpo.
In natura esistono novantadue elementi, ai quali se ne aggiungono circa altri venti creati in laboratorio: alcuni di essi, però, possiamo subito accantonarli, come d'altronde tendono a fare gli stessi chimici. Non sono pochi gli elementi terrestri a essere sorprendentemente poco conosciuti. L'astato, per esempio, non è stato studiato affatto. Ha un nome e una casella nella tavola periodica (accanto al polonio di Marie Curie) ma niente di più. Il motivo, qui, non è l'indifferenza scientifica, ma la rarità: proprio non si può dire che ci sia molto astato. L'elemento più elusivo di tutti, comunque, sembra essere il francio: talmente raro che, secondo alcune stime, l'intero pianeta ne conterrebbe, in ogni dato istante, meno di venti atomi.28 A conti fatti, solo una trentina di elementi, fra quelli presenti in natura, si trovano ampiamente diffusi sulla Terra, e quelli di importanza fondamentale per la vita si contano sulle dita di una mano.
Come forse vi aspettate, l'ossigeno è l'elemento più abbondante del pianeta, giacché rende conto di poco meno del 50 per cento della crosta terrestre. A parte quella dell'ossigeno, però, le abbondanze relative sono spesso sorprendenti. Chi avrebbe mai detto, per esempio, che il silicio è il secondo elemento più comune sulla Terra, o che il titanio è il decimo? L'abbondanza, in effetti, ha ben poco a che fare con la familiarità o l'utilità degli elementi per l'uomo. Molti fra gli elementi più sconosciuti sono in realtà più comuni di altri ben più famosi. Per esempio, sulla Terra c'è più cerio che rame, più neodimio e lantanio che cobalto o azoto. Lo stagno si colloca, a stento, tra i primi cinquanta, eclissato, quanto ad abbondanza, da illustri sconosciuti quali il praseodimio, il samario, il gadolinio e il disprosio.
L'abbondanza ha poco a che fare anche con il fatto che la
presenza di un elemento nell'ambiente sia più o meno facile da rilevare. L'alluminio, che è il quarto elemento più comune della Terra, rende ragione di quasi un decimo di tutto ciò che si trova sotto i nostri piedi; eppure la sua esistenza non era nemmeno sospettata finché non venne scoperto da Humphry Davy, nel diciannovesimo secolo, e in seguito, ancora per molto tempo, fu trattato come cosa rara e preziosa. Il Congresso fu quasi sul punto di applicare un brillante rivestimento di lamina d'alluminio in cima al monumento a Washington per dimostrare quale nazione prospera e sofisticata fossero diventati gli Stati Uniti. In quello stesso periodo la famiglia imperiale francese scartò il tradizionale servizio di posate d'argento e lo rimpiazzò con uno di alluminio.29 A quel tempo l'alluminio rappresentava l'ultimo grido della moda - decisamente meno all'avanguardia erano, però, le lame che se ne ottenevano.
Né l'abbondanza ha necessariamente a che fare con l'importanza. Il carbonio, per esempio, è al quindicesimo posto per abbondanza e il suo contributo alla crosta terrestre ammonta a un modesto 0,048 per cento; eppure, senza di esso, saremmo perduti.30 Quel che fa del carbonio un elemento a parte rispetto a tutti gli altri è la sua spudorata promiscuità. Nel mondo atomico è la vera anima della festa: il carbonio si aggancia a molti altri elementi (compreso se stesso) e li tiene stretti, dando luogo a lunghe catene molto robuste - e questo è esattamente il trucco escogitato dalla natura per costruire le proteine e il dna. Come ha scritto Paul Davies, « se non fosse per il carbonio, la vita come la conosciamo sarebbe impossibile. Addirittura, non sarebbe probabilmente possibile alcuna forma di vita ».31 Eppure non è che il carbonio sia così abbondante, nemmeno dentro di noi che pure dipendiamo da lui in maniera così vitale. Su 200 atomi del nostro corpo,32 126 sono di idrogeno, 51 di ossigeno e solo 19 di carbonio.*
Altri elementi sono fondamentali non tanto alla creazione della vita, ma al suo mantenimento. Abbiamo bisogno di ferro per sintetizzare l'emoglobina, e senza di esso moriremmo. Il cobalto è necessario per la produzione di vitamina B12. Potassio e piccole
* Dei restanti quattro atomi, tre sono di azoto e l'ultimo si divide tra tutti gli altri elementi.
quantità di sodio fanno bene ai nervi. Molibdeno, manganese e vanadio aiutano gli enzimi a funzionare come un motore ben oliato. Quanto allo zinco è un'autentica benedizione, giacché ossida l'alcool.
Noi siamo evoluti in modo da utilizzare o tollerare queste cose (altrimenti non saremmo qui), eppure, con tutto ciò, la nostra vita può svolgersi solo entro limiti ristretti. Il selenio è vitale per tutti noi, ma se a qualcuno venisse in mente di assumerne appena un po' di più, sarebbe l'ultima azione della sua vita. La misura in cui i diversi organismi richiedono o tollerano certi elementi è un vestigio della loro evoluzione.33 Sebbene oggi pascolino fianco a fianco, ovini e bovini hanno tuttavia un fabbisogno molto diverso di minerali. I bovini odierni devono introdurre quantità molto elevate di rame perché evolsero in zone dell'Europa e dell'Africa dove tale elemento era abbondante. Gli ovini, invece, evolsero in aree dell'Asia Minore povere di rame. Di norma - e ciò non sorprende affatto - la nostra tolleranza nei confronti dei vari elementi è direttamente proporzionale alla loro abbondanza nella crosta terrestre. Siamo evoluti in modo da essere pronti a ricevere le minuscole quantità di elementi rari che si accumulano nelle carni o nelle fibre di cui ci nutriamo; anzi, in certi casi siamo evoluti in modo da averne proprio bisogno. Ma se aumentiamo le dosi, talvolta anche solo in misura minima, possiamo ben presto trovarci ad aver superato una soglia pericolosa. Gran parte di questo meccanismo non è ben compreso. Nessuno sa, per esempio, se una minuscola quantità di arsenico sia necessaria, oppure no, al mantenimento del nostro benessere. Alcune fonti autorevoli dicono di sì, altre lo negano. Quel che è certo è che, se se ne assume troppo, l'arsenico uccide.
Le proprietà degli elementi possono diventare ancor più curiose quando essi si combinano. Fra tutti gli elementi, per esempio, ossigeno e idrogeno sono - per così dire - fra i più ben disposti nei confronti della combustione; una volta combinati, però, formeranno l'acqua, che non è combustibile.* Ancor più bizzarra è la
* L'ossigeno di per se stesso non è combustibile: si limita a facilitare la combustione di altre sostanze. Questo va benissimo, perché se l'ossigeno fosse combustibile, ogni volta che si accende un fiammifero, tutta l'aria circostante prenderebbe fuoco. L'idrogeno gassoso, d'altro canto, è altamente infiammabile, come dimostrò il dirigibile Hindenburg il 6 maggio del 1937, a Lakehurst, nel New Jersey, quando il suo serbatoio di idrogeno esplose uccidendo trentasei persone.
combinazione del sodio, uno dei più instabili tra tutti gli elementi, con il cloro, che è uno dei più tossici. Immergete un pezzetto di sodio puro in un recipiente contenente normalissima acqua, ed esploderà con una potenza sufficiente a uccidere.34 Notoriamente, il cloro è ancora più pericoloso. Sebbene in piccole concentrazioni sia utile a uccidere i microrganismi (è lui il responsabile dell'odore della candeggina), in maggiori quantità risulta letale. Il cloro era l'elemento di elezione nella maggior parte dei gas letali usati nel corso della Prima guerra mondiale. E come possono testimoniare molti nuotatori con gli occhi irritati, anche in dosi estremamente diluite il corpo umano non lo gradisce affatto. Eppure, se questi due elementi pericolosi si combinano che cosa si ottiene? Cloruro di sodio: comune sale da cucina.
A grandi linee, se un elemento non può penetrare nel nostro corpo in modo naturale (per esempio se non è solubile in acqua) noi tendiamo a non tollerarlo. Il piombo ci avvelena perché nella nostra evoluzione non siamo mai stati esposti a esso, finché non abbiamo cominciato a usarlo per fabbricare pentole e tubature (non a caso, la parola inglese plumbing - impianto idraulico - deriva dal latino plumbum, la stessa radice utilizzata per il simbolo chimico dell'elemento, Pb). I romani usavano il piombo per aromatizzare il vino, il che potrebbe in parte spiegare come mai non sono più la potenza di un tempo.35 Come abbiamo già visto in altri capitoli, le nostre moderne manipolazioni del piombo (per non parlare del mercurio, del cadmio e di altri inquinanti industriali che ci auto-somministriamo ogni giorno) non ci permettono di assumere atteggiamenti di superiorità nei confronti degli antichi. Infine, nel caso di elementi che non sono presenti in natura, come il plutonio, non abbiamo sviluppato nessuna tolleranza nei loro confronti ed essi pertanto risultano estremamente tossici. La nostra tolleranza al plutonio è zero: esso è nocivo a qualsiasi concentrazione.
Abbiamo fatto un lungo ragionamento per approdare a questo concetto: se la Terra ci sembra così miracolosamente accogliente, è in gran parte perché ci siamo evoluti in modo da adeguarci alle sue condizioni. In realtà, noi non ci meravigliamo che la Terra sia favorevole alla vita, quanto che sia favorevole alla nostra vita - il che non dovrebbe sorprendere. Probabilmente, molte delle caratteristiche che fanno della Terra un luogo splendido per noi che l'abitiamo (un Sole delle giuste dimensioni, una Luna fedele, un
carbonio socievole, una gran quantità di magma fuso all'interno, e tutto il resto) ci sembrano tali, ci appaiono meravigliose, solo perché siamo fatti per contare su di esse. Nessuno può dirlo.
Altri mondi potrebbero ospitare creature traboccanti di gratitudine per i loro argentei laghi di mercurio e per le nuvole di ammoniaca, alla deriva nel cielo. Queste creature potrebbero essere felici di vivere su un pianeta che non li terrorizza con i movimenti delle placche e non vomita lava sul paesaggio, ma che vive in una permanente tranquillità non tettonica. Qualsiasi visitatore giunto sulla Terra da lontane galassie sarebbe di sicuro sconcertato (a dir poco) trovandoci immersi in un'atmosfera di azoto (un gas poco socievole e scarsamente incline a reagire con altre sostanze) e di ossigeno (un elemento così amante della combustione da costringerci a dotare tutte le nostre città di caserme dei vigili del fuoco, per proteggerci dai suoi effetti più esuberanti). Ma anche nel caso che i nostri visitatori fossero creature bipedi e respirassero ossigeno, quand'anche fossero avvezzi ai centri commerciali e avessero una passione per i film d'azione, difficilmente troverebbero la Terra un luogo ideale. Non potremmo nemmeno offrirgli un pranzo decente, giacché tutti i nostri cibi contengono tracce di manganese, selenio, zinco e altre sostanze che per loro potrebbero rivelarsi, tutte o alcune, velenose. Agli occhi dei nostri ospiti, la Terra potrebbe non sembrare affatto un luogo meravigliosamente congeniale alla vita.
Il fisico Richard Feynman era solito scherzare sulle conclusioni a posteriori, l'abitudine di ragionare a partire da fatti noti per risalire alle possibili cause. « Sapete, stasera mi è successa una cosa incredibile... » diceva. «Ho visto una macchina targata arw 357. Ve lo immaginate? Di tutti i milioni di targhe automobilistiche che ci sono in questo stato, che probabilità avevo di vedere proprio quella, stasera? Incredibile! »36 Il concetto che Fejmman intendeva sottolineare, naturalmente, era che qualsiasi situazione banale può facilmente sembrare straordinaria se solo la si presenta come un evento fatidico.
Perciò può darsi benissimo che gli eventi e le condizioni che portarono alla comparsa della vita sulla Terra non siano poi straordinari come ci piacerebbe pensare. A ogni modo, in una certa misura lo furono. E una cosa è certa: dovranno continuare finché non troveremo di meglio.
17. Nella troposfera
L'atmosfera è un'autentica benedizione. Intanto ci tiene al caldo: senza di lei la Terra sarebbe una sfera ghiacciata priva di vita, con una temperatura media di —50 gradi Celsius.1 In secondo luogo, l'atmosfera assorbe o deflette sciami di raggi cosmici, particelle cariche, raggi ultravioletti e simili. Nel suo complesso, la cortina gassosa dell'atmosfera equivale a un muro di cemento spesso 4,5 metri: senza di lei, questi invisibili visitatori provenienti dallo spazio ci trafìggerebbero come altrettanti minuscoli stiletti. Perfino le gocce di pioggia ci lascerebbero stesi al suolo privi di sensi se non fosse per l'effetto frenante dell'atmosfera.
La cosa più notevole della nostra atmosfera è che in fondo non è poi tanta. Si estende verso l'alto per circa 190 chilometri, un'altezza che vista dalla Terra potrebbe anche sembrare generosa, ma se si riduce il pianeta alle dimensioni di un mappamondo da tavolo, corrisponderebbe soltanto allo spessore di un paio di mani di vernice.
Per convenienza scientifica, l'atmosfera viene suddivisa in quattro strati di diverso spessore: troposfera, stratosfera, mesosfera e ionosfera (ora spesso denominata termosfera). La troposfera è la parte per noi più preziosa. Da sola contiene calore e ossigeno sufficienti per consentirci di funzionare, sebbene a mano a mano che si sale diventi ben presto ostile alla vita. A partire dal livello della superficie terrestre fino al suo punto di altezza massima, la troposfera (sfera del cambiamento) è spessa circa 16 chilometri all'equatore e non più di 10 o 11 alle latitudini temperate, dove vive la maggior parte di noi. L'80 per cento della massa atmosferica, e in particolare quasi tutta l'acqua e quindi tutti i fenomeni meteorologici, è contenuto in uno strato esile e delicato. Fra noi e l'oblio c'è davvero poco.
Oltre la troposfera si estende la stratosfera. Quando vediamo la parte superiore di una nube temporalesca appiattirsi assumendo la
classica forma a incudine, stiamo osservando il confine tra troposfera e stratosfera. Questo soffitto invisibile è noto con il nome di tropopausa e fu scoperto nel 1902 da un francese in mongolfiera: Leon-Philippe Teisserenc de Bort.2 In questa accezione, pausa non indica un arresto momentaneo ma un blocco completo, e deriva dalla stessa radice greca di menopausa? Anche in corrispondenza della massima estensione della troposfera, la tropopausa non è molto distante. Un ascensore rapido, del tipo di quelli installati nei grattacieli moderni, ci arriverebbe in una ventina di minuti; il viaggio, tuttavia, sarebbe fortemente sconsigliato. Un'ascesa così rapida, in mancanza di pressurizzazione, darebbe luogo come minimo a gravi edemi polmonari e cerebrali, in altre parole un pericoloso eccesso di liquidi nei tessuti corporei.4 Al momento dell'apertura delle porte sulla piattaforma panoramica, gli occupanti all'interno della cabina sarebbero quasi certamente morti o agonizzanti. Ma anche un'ascesa più graduale sarebbe accompagnata da una notevole sofferenza. A diecimila metri di quota, la temperatura può raggiungere i —57 gradi Celsius, e il viaggiatore sentirebbe il bisogno di un supplemento di ossigeno, o quanto meno lo apprezzerebbe molto.5
Appena lasciata la troposfera, la temperatura torna ben presto a salire, fino a raggiungere circa 4 gradi Celsius, grazie agli effetti assorbenti dell'ozono (un altro fenomeno scoperto da Bort nella sua audace ascensione del 1902). Successivamente, ripiomba verso il basso a —90 gradi Celsius della mesosfera, prima di schizzare a 1500 (e oltre) gradi Celsius in quella che viene giustamente definita la termosfera. Questa è però molto incostante e le sue temperature possono variare di oltre 500 gradi dal giorno alla notte, sebbene vada sottolineato che ad altezze simili il concetto di temperatura diventa alquanto teorico. La temperatura è in realtà soltanto una misura dell'attività delle molecole. A livello del mare le molecole d'aria sono così concentrate che possono percorrere solo minime distanze (circa otto milionesimi di centimetro, tanto per essere precisi) prima di entrare in collisione fra loro.6 A causa della costante collisione di trilioni di molecole viene scambiata una gran quantità di calore. All'altezza della termosfera, però, cioè ad almeno 80 chilometri di quota, l'aria è così rarefatta che due molecole qualsiasi si troverebbero a chilometri di distanza l'una dall'altra, e sarebbe difficile che venissero a contatto. Pertanto, anche se ogni
molecola fosse molto calda, le interazioni tra particelle sono rare, e c'è un minore trasferimento di calore. Questo è un fatto positivo per satelliti e navi spaziali, giacché in caso contrario qualsiasi oggetto costruito dall'uomo si trovasse a orbitare a quel livello andrebbe in fiamme.
Anche così, comunque, le navi spaziali devono fare attenzione negli strati più esterni dell'atmosfera, soprattutto nel viaggio di ritorno verso la Terra, come dimostrò la tragedia della navetta spaziale Columbia nel febbraio del 2003. Sebbene l'atmosfera sia molto rarefatta, se un veicolo spaziale entra con un angolo eccessivo (superiore a circa 6 gradi) o a velocità troppo elevata, può colpire un numero di molecole sufficienti a generare una forte resistenza aerodinamica con un grandissimo sviluppo di calore. Al contrario, se un veicolo arriva a colpire la termosfera con un angolo troppo basso, potrebbe benissimo rimbalzare nello spazio come un sasso rimbalza sull'acqua.7
Non occorre avventurarsi ai confini dell'atmosfera, comunque, per ricordare che siamo irrimediabilmente vincolati al suolo. Come ben sa chiunque abbia trascorso un po' di tempo in una città d'alta quota, non c'è bisogno di allontanarsi troppe centinaia di metri dal livello del mare prima che il corpo cominci a risentirsi. Ad altezze troppo elevate perfino gli alpinisti provetti, nonostante la forma fisica, l'allenamento e le bombole d'ossigeno, vanno ben presto soggetti a confusione, nausea, spossatezza, congelamento, ipotermia, emicrania, perdita di appetito e un gran numero di altre disfunzioni che li fanno procedere barcollando. Il corpo umano ricorda al suo proprietario, con la dovuta enfasi e in centinaia di modi diversi, di non essere stato progettato per funzionare così in alto sul livello del mare.
« Perfino nelle circostanze più favorevoli » ha scritto lo scalatore Peter Habeler a proposito dell'Everest, «ogni passo a quell'altitudine richiede un colossale sforzo di volontà. Devi costringere te stesso a compiere ogni singolo movimento, a raggiungere ogni appiglio. Sei continuamente minacciato da una fatica mortale, pesante come piombo. » In The OtherSide of Everest, il documentarista e scalatore Matt Dickinson racconta come, durante una spedizione inglese sull'Everest nel 1924, Howard Somervell «per poco non rimase soffocato a causa del distacco di un lembo di tessuto infetto che gli ostruì la trachea ». Con uno sforzo sovrumano, Somervell riuscì a espellere con un colpo di tosse il materiale: emerse che si trattava «dell'intera mucosa della laringe».8
La sofferenza fisica è tristemente nota a quote superiori ai 7500 metri (quella che gli scalatori chiamano « zona della morte »); molte persone, tuttavia, sperimentano una grave debilitazione, e perfino pericolosi malori, già a circa 4500 metri. Questa vulnerabilità ha poco a che vedere con la forma fisica. Ci sono nonnine che sgambettano a quote elevatissime mentre i loro atletici nipoti si riducono a inutili relitti lamentosi, e tali rimangono finché non sono riportati a quote più basse.
Il limite assoluto di tolleranza umana, per una permanenza continuata, sembra attestarsi a circa 5500 metri; anche individui acclimatati a vivere in alta quota, tuttavia, potrebbero non tollerare a lungo simili altitudini.9 Frances Ashcroft, in Oltre ogni limite, nota che sulle Ande esistono miniere di zolfo a quota 5800 metri; tuttavia i minatori preferiscono scendere ogni sera di 460 metri e risalire il giorno dopo, piuttosto che vivere di continuo a quelle altitudini. Le popolazioni che vivono abitualmente ad alta quota hanno spesso impiegato migliaia di anni a sviluppare polmoni e gabbia toracica sproporzionatamente grandi e ad aumentare di almeno un terzo la concentrazione di globuli rossi portatori di ossigeno. Esistono tuttavia dei limiti oltre ai quali l'ispessimento del sangue, dovuto all'aumento dei globuli rossi, ne impedisce il flusso regolare. Inoltre, al di sopra dei 5500 metri anche le donne meglio adattate non riescono a fornire al feto la quantità di ossigeno necessaria per portare a termine la gravidanza.10
Nel decennio 1780-90, quando in Europa cominciarono le ascese sperimentali in mongolfiera, la cosa che sorprese maggiormente i protagonisti di quelle avventure fu il freddo che incontravano a mano a mano che salivano. La temperatura scende di circa 1,6 gradi Celsius ogni 1000 metri. La logica sembrerebbe indicare che più ci si avvicina a una fonte di calore, più si dovrebbe sentire caldo. Parte della spiegazione sta nel fatto che non ci si sta assolutamente avvicinando al Sole in modo significativo. Il Sole è lontano circa 150 milioni di chilometri. Muoversi di poche centinaia di metri verso il Sole è un po' come trovarsi in Ohio e fare un passo in direzione dell'incendio che divampa in una prateria australiana, aspettandosi di sentire l'odore del fumo. La risposta ci riporta alla questione della densità delle molecole nell'atmosfera. Il Sole carica
gli atomi di energia aumentando la velocità alla quale essi si agitano; in questo stato di eccitazione essi collidono fra loro rilasciando calore. Quando in un giorno d'estate avvertite il calore del sole sulla schiena, ciò che percepite, in realtà, è l'eccitazione degli atomi. Più si sale nell'atmosfera, meno molecole si trovano e meno collisioni avvengono. L'aria è un mezzo ingannevole. Anche a livello del mare tendiamo a pensare a essa come a qualcosa di etereo, quasi privo di peso. In realtà ha una massa notevole - e molto spesso se ne avvale. Come scrisse lo scienziato Wyville Thomson più di un secolo fa, « a volte, al mattino, leggendo sul barometro che la pressione si è alzata di un pollice, scopriamo che quasi mezza tonnellata è andata lentamente caricandosi su di noi nel corso della notte; eppure non sperimentiamo alcun disagio, ma piuttosto una sensazione di euforia e buonumore, e questo perché muovere il nostro corpo in questo mezzo più denso richiede uno sforzo minore».11 Il motivo per il quale non ci sentiamo schiacciati sotto questa mezza tonnellata di pressione aggiuntiva è lo stesso per il quale non siamo schiacciati alle profondità marine. Il nostro corpo è costituito per la maggior parte da fluidi non comprimibili che esercitano una forza contraria, bilanciando così la pressione tra interno ed esterno.
D'altra parte, se l'aria è in movimento, come nel caso di un uragano o anche di un forte vento, ci si rende immediatamente conto del fatto che ha una massa considerevole. In tutto ci sono circa 5200 milioni di milioni di tonnellate d'aria intorno a noi (più di 15 milioni di tonnellate per chilometro quadrato): certo non una quantità irrilevante. Quando milioni di tonnellate di atmosfera si muovono alla velocità di 50 o 60 chilometri all'ora, non è affatto sorprendente che i rami degli alberi si spezzino e le tegole dei tetti volino via. Come osserva Anthony Smith, un tipico fronte meteorologico può consistere di 750 milioni di tonnellate di aria fredda immobilizzate sotto un miliardo di tonnellate di aria calda.12 Poca meraviglia, quindi, se dal punto di vista meteorologico il risultato di tutto questo è a volte emozionante.
Di sicuro, se c'è qualcosa che non fa difetto nel mondo al di sopra della nostra testa, è l'energia. È stato calcolato che un solo temporale può contenere una quantità di energia equivalente al consumo di quattro giorni di energia elettrica degli interi Stati
Uniti.13 In condizioni favorevoli, le nubi temporalesche possono sollevarsi a un'altezza compresa fra i 10 e i 15 chilometri, e contenere correnti ascensionali e discensionali in grado di spostarsi a velocità superiori ai 150 chilometri orari. Esse si trovano spesso affiancate, ed è per questo motivo che i piloti non vogliono volarci in mezzo. Nelle perturbazioni, le particelle all'interno della nube diventano elettricamente cariche. Per ragioni non del tutto chiare, quelle più leggere tendono a caricarsi positivamente e a essere sospinte dalle correnti d'aria verso la parte più alta della nube. Le particelle più pesanti rimangono invece alla base, accumulando cariche negative. Queste particelle portatrici di cariche negative hanno una fortissima tendenza a scaricarsi sulla Terra, che è positiva: si può solo augurare buona fortuna a qualsiasi cosa si trovi sulla loro traiettoria. Un fulmine viaggia a 435.000 chilometri orari e può aumentare la temperatura dell'aria circostante fino a 28.000 gradi Celsius, una temperatura di gran lunga superiore a quella della superficie solare. In ogni momento si formano, intorno al pianeta, 1800 temporali: qualcosa come 40.000 al giorno.14 Ogni secondo, giorno e notte, circa un centinaio di fulmini si scarica al suolo, in tutto il pianeta. Il cielo è un luogo movimentato.
La maggior parte delle nostre conoscenze su quello che accade lassù è molto recente.15 Correnti a getto, localizzate di solito a circa 9000-10.000 metri di altezza, possono sfrecciare alla velocità di quasi 300 chilometri all'ora e influenzare i fenomeni meteorologici di interi continenti. Eppure, finché i piloti non cominciarono a volarci in mezzo durante la Seconda guerra mondiale, non se ne sospettava nemmeno l'esistenza. Anche oggi moltissimi fenomeni atmosferici sono scarsamente compresi. Esiste una forma di movimento ondoso, nota come turbolenza in aria serena, che anima di tanto in tanto i voli aerei. Ogni anno si verificano circa venti incidenti abbastanza seri da venire riportati. Non sono associati alla struttura delle nuvole, né ad altri segnali che possano essere individuati a vista o per mezzo del radar. Si tratta semplicemente di sacche di eccezionale turbolenza nel bel mezzo di un cielo tranquillo. In uno di questi tipici incidenti, un aeroplano in rotta da Singapore a Sydney stava volando sull'Australia centrale in condizioni di calma, quando improvvisamente precipitò di 90 metri: un balzo sufficiente a far volare i passeggeri senza cintura contro il soffitto.
Dodici persone rimasero ferite, una in modo grave. Nessuno sa quale sia la causa di queste perturbazioni atmosferiche.
Il processo che muove le masse d'aria nell'atmosfera è lo stesso che aziona il motore interno del pianeta, e cioè la convezione. L'aria umida e calda proveniente dalle regioni equatoriali si solleva fino a urtare la barriera della tropopausa e poi si espande. A mano a mano che si allontana dall'equatore e si raffredda, sprofonda. Quando tocca il fondo, parte dell'aria in caduta cerca una zona di bassa pressione da occupare e si dirige di nuovo verso l'equatore, completando il circuito.
All'equatore il processo di convezione è generalmente stabile e il tempo è prevedibilmente bello; nelle zone temperate, invece, le caratteristiche meteorologiche sono molto più stagionali, localizzate e casuali, il che dà luogo a un'infinita battaglia tra sistemi di aria ad alta e a bassa pressione. I sistemi a bassa pressione sono creati dall'aria che sale trasportando nel cielo molecole d'acqua le quali formano le nuvole e infine la pioggia. L'aria calda può trattenere più umidità di quella fredda, ed è per questo che le tempeste tropicali ed estive tendono a essere le più violente. Le aree a bassa pressione tendono quindi ad associarsi a nuvolosità e pioggia, mentre quelle ad alta pressione comportano di solito sole e bel tempo. L'incontro di questi due sistemi si manifesta, di norma, nelle formazioni nuvolose. Le nubi stratiformi, ad esempio, quelle spiacevoli espansioni di nuvole informi che danno luogo al cielo coperto, si formano quando le correnti ascensionali umide mancano dell'energia necessaria a penetrare il livello superiore di aria più stabile e si disperdono invece come il fumo che urta contro il soffitto. In effetti, osservando qualcuno che fuma, ci si può fare un'idea molto chiara di come funzionano le cose dal modo in cui il fumo si leva da una sigaretta in una stanza senza correnti d'aria. All'inizio va dritto verso l'alto (e questo si chiama flusso laminare, nel caso vogliate fare colpo su qualcuno); poi si allarga in uno strato diffuso e ondulato. Il più grande supercomputer del mondo, che effettua misurazioni nell'ambiente più scrupolosamente controllato, non è in grado di prevedere accuratamente quale forma prenderanno queste increspature. Ora potete immaginare le difficoltà con cui si
confrontano i meteorologi quando cercano di prevedere questi movimenti in un mondo su grande scala, ventoso e rotante.
Quello che sappiamo è che data la distribuzione ineguale del calore del Sole, sulla Terra si verificano differenze nella pressione dell'aria. L'atmosfera non le tollera, e quindi l'aria si muove nel tentativo di bilanciare la pressione dappertutto. Il vento non è che il modo in cui l'atmosfera cerca di tenere le cose in equilibrio. L'aria si sposta sempre dalle zone di alta pressione a quelle di bassa pressione (proprio come vi aspettereste: pensate a qualsiasi cosa piena di aria sotto pressione - un palloncino, un serbatoio d'aria o un aeroplano con un finestrino mancante - e pensate con quanta insistenza l'aria sotto pressione cercherà di spostarsi altrove); quanto maggiore sarà il divario nei valori della pressione, tanto più veloce sarà la corrente d'aria.
Detto per inciso, la velocità dei venti - come la maggior parte delle cose che si accumulano - cresce in maniera esponenziale: un vento che soffia a 300 chilometri orari non è semplicemente 10 volte più forte di un vento che raggiunge i 30, ma ben 100 - e di conseguenza sarà molto più distruttivo.16 Se a questo effetto acceleratore si aggiunge quello di svariati milioni di tonnellate d'aria, il risultato, in termini di energia, sarà straordinario: in un giorno un uragano tropicale può liberare tanta energia quanta ne consuma, in un anno, una delle nazioni industrializzate di media estensione, come l'Inghilterra o la Francia.17
La tendenza dell'atmosfera verso l'equilibrio fu sospettata per la prima volta dall'onnipresente Edmond Halley e l'idea fu elaborata nel corso del diciottesimo secolo dal suo collega britannico George Hadley, il quale intuì che le colonne d'aria ascendenti e discendenti tendevano a produrre « celle » (da allora note come « celle di Hadley »).18 Sebbene di professione fosse un avvocato, Hadley nutriva un grande interesse per la meteorologia (non dimentichiamo che, dopotutto, era un inglese) e ipotizzò anche l'esistenza di una correlazione tra le sue celle, la rotazione terrestre e le deflessioni apparenti dell'aria che provocano i venti alisei. Fu invece un professore di ingegneria dell'École Polytechnique di Parigi, Gustave-Ga-spard de Coriolis, a elaborare, nel 1835, i dettagli di queste interazioni, che noi chiamiamo infatti « effetto Coriolis » (un altro suo merito, all'École, fu quello di introdurre i refrigeratori per l'acqua, che sono ancora lì e sono conosciuti con il nome di «Corios»).19
All'altezza dell'equatore la Terra ruota alla velocità di 1675 chilometri all'ora, ma quando ci si sposta verso i poli la velocità rallenta molto, così da raggiungere, per esempio, circa 900 chilometri orari a Londra o Parigi. Se ci si pensa, la ragione è evidente. Se vi trovate all'equatore, la Terra deve coprire con la sua rotazione una distanza molto lunga (circa 40.000 chilometri) per riportarvi nello stesso punto, mentre se siete vicino al Polo Nord, per completare la rivoluzione dovrete muovervi solo di qualche metro. In entrambi i casi, però, per riportarvi al punto di partenza occorrono ventiquattro ore; più si è vicini all'equatore, quindi, più la velocità di rotazione dev'essere elevata.
L'effetto Coriolis spiega come mai, a una certa distanza, tutto ciò che si muove in linea retta attraverso l'aria, lateralmente rispetto alla rotazione della Terra, sembri curvare a destra nell'emisfero settentrionale e a sinistra in quello meridionale. Per visualizzare l'effetto Coriolis si può immaginare di stare al centro di una giostra e di lanciare una palla a qualcuno che si trovi vicino al bordo. Nel tempo che la palla impiega a raggiungere il bordo esterno della giostra, il destinatario del lancio si sarà spostato, e la palla finirà così alle sue spalle. Dalla nostra prospettiva sembrerà che sia stata la palla a curvare, deviando da lui. Questo è l'effetto Coriolis, ed è ciò che imprime ai sistemi atmosferici le loro volute e che spinge gli uragani a girare come trottole.20 Occorre tener conto dell'effetto Coriolis anche quando una nave spara proiettili di artiglieria verso un bersaglio; se non si procedesse all'opportuna correzione verso destra o verso sinistra, un proiettile lanciato a una distanza di 25 chilometri devierebbe di circa cento metri e finirebbe in mare aperto senza fare alcun danno.
Nonostante l'influenza che il tempo esercita sulla maggior parte di noi, sia a livello pratico sia psicologico, la meteorologia non divenne davvero una scienza fin quasi all'inizio del diciannovesimo secolo (sebbene il termine meteorologia sia stato impiegato sin dal 1626, quando fu coniato da T. Granger in un testo di logica).
Parte del problema era dovuta al fatto che il successo della meteorologia richiede una misurazione precisa delle temperature, e per molto tempo la fabbricazione dei termometri si dimostrò molto più difficile di quanto ci si potrebbe aspettare. La possibilità
di ottenere una lettura accurata dipendeva dalla capacità di fabbricare un tubo di vetro con caratteristiche molto regolari all'interno, il che non era affatto facile da realizzare. Il primo a risolvere il problema fu Daniel Gabriel Fahrenheit, un fabbricante olandese di strumenti scientifici, che nel 1717 produsse un termometro accurato. Per ragioni sconosciute, tuttavia, egli calibrò lo strumento in modo da indicare il punto di congelamento dell'acqua a 32 gradi e quello di ebollizione a 212 gradi. Fin dall'inizio la gente trovò fastidiosa questa bizzarria numerica, e nel 1742 Anders Celsius, un astronomo svedese, escogitò una scala alternativa. A riprova dell'affermazione secondo la quale raramente gli inventori riescono a farla tutta giusta, Celsius fissò il punto di ebollizione a 0 e quello di congelamento a 100; ben presto comunque il tutto fu invertito.21
L'uomo che più spesso viene identificato come il padre della moderna meteorologia è Luke Howard, un farmacista inglese che raggiunse la notorietà agli inizi del diciannovesimo secolo. Oggi Howard viene ricordato principalmente perché nel 1803 attribuì ai vari tipi di nuvole il loro nome.22 Sebbene fosse un membro attivo e rispettato della Linnaean Society, e in questa sua nuova classificazione avesse adottato principi linneiani, Howard scelse come sede per presentarla la meno nota Askesian Society. (Come forse ricorderete da un capitolo precedente, i membri della Askesian Society erano insolitamente entusiasti dei piaceri offerti dal protossido di azoto - e quindi si può solo sperare che abbiano ascoltato l'esposizione di Howard con la sobria attenzione che meritava. È un punto sul quale i biografi di Howard mantengono un curioso silenzio.)
Howard suddivise le nuvole in tre gruppi: gli strati per le nuvole stratificate; i cumuli per quelle dall'aspetto vaporoso; e i cirri (dal latino cirrus, che significa « ricciolo ») per quelle formazioni alte e rarefatte, dall'aspetto piumoso, che di solito lasciano presagire un abbassamento di temperatura. A queste Howard aggiunse in seguito un quarto termine, nembo (dal latino nimbus che significa «nuvola», ma anche «pioggia»), a indicare quelle che portano precipitazioni. La bellezza del sistema di Howard era che gli elementi di base potevano essere combinati a piacimento per descrivere qualsiasi forma e dimensione assunta dalle nuvole di passaggio: ecco allora gli stratocumuli, i cirrostrati, i cumulonembi eccetera. Fu un successo immediato, e non solo in Inghilterra. Goethe ne fu così colpito che dedicò a Howard quattro componimenti.
Nel corso degli anni, al sistema di Howard sono state fatte molte aggiunte, così tante che l'enciclopedico International Cloud Atlas consta di ben due volumi (e di pochi lettori).23 È tuttavia interessante notare che quasi tutti i tipi di nuvole post-howardiane (si pensi, a titolo di esempio, ai vari mammatus, pileus, nebulosis, spissatus, floccus e mediocris) non hanno mai catturato l'attenzione di nessuno al di fuori dei meteorologi - e a quanto mi dicono, di pochi anche fra quelli. Per inciso, la prima edizione di quell'atlante, che era di dimensioni decisamente più contenute e fu pubblicata nel 1896, divideva le nuvole in dieci tipi fondamentali: la più rotondetta, la nube che sembrava più soffice, era la numero nove, il cumulonembo.* L'abitudine degli inglesi, che quando sono al settimo cielo dichiarano di essere on the cloud nine - sulla nuvola numero nove, appunto -, sembra derivare proprio da qui.24
Nonostante tutta la massa e la furia delle occasionali tempeste scatenate dalle nubi temporalesche a incudine, in realtà una nuvola media è una formazione innocua e sorprendentemente rarefatta. Un vaporoso cumulo estivo, lungo parecchie centinaia di metri, contiene al massimo 100 150 litri d'acqua: come ha scritto James Trefil, «abbastanza per riempire una vasca da bagno».25 Potete farvi un'idea della qualità immateriale delle nuvole andando a passeggio nella nebbia, la quale in fondo non è che una nuvola a cui manca la voglia di volare. Per citare ancora Trefil: « Se percorrete nella nebbia un centinaio di metri, verrete a contatto soltanto con poco più di 8 centimetri cubici di acqua, una quantità che non basta neppure per una sorsata decente ». Ne consegue che in fondo le nuvole non sono grandi riserve d'acqua: in ogni momento, fluttuante alla deriva sopra la nostra testa, c'è solo lo 0,035 per cento dell'acqua dolce disponibile sul pianeta.26
* Se siete mai stati colpiti da come le nubi cumuliformi tendano ad avere una splendida definizione e contorni nitidissimi, mentre altri tipi di nuvole presentano un bordo più incerto, la spiegazione sta nel confine molto netto esistente tra l'umidità all'interno della nube cumuliforme e l'aria asciutta che si trova al suo esterno. Tutte le molecole di acqua che sfuggono al di là dei confini della nuvola sono immediatamente eliminate dall'aria secca esterna, il che permette alla nuvola di mantenere intatto il proprio nitidissimo contorno. I cirri, che si trovano più in alto, sono fatti di ghiaccio, e la zona di confine tra nuvola e aria esterna non è altrettanto nettamente delineata: per questo motivo essi tendono ad avere contorni indistinti.
A seconda di dove cade, il destino di una molecola d'acqua è molto differente. Se atterra su un suolo fertile, sarà assorbita dalle piante o rievaporata direttamente nel giro di qualche ora o qualche giorno. Se si fa strada verso le acque sotterranee, invece, potrebbe rivedere la luce del sole soltanto dopo molti anni, anche migliaia se andasse molto in profondità.27 Quando contemplate un lago, state guardando un insieme di molecole che si trova lì, in media, da circa dieci anni. Nell'oceano, invece, si ritiene che il tempo di permanenza di una molecola si aggiri intorno ai cento anni. In complesso, circa il 60 per cento delle molecole d'acqua arrivate a terra con una precipitazione ritorna all'atmosfera nel giro di un giorno o due. Una volta evaporate, non passano in cielo più di una settimana, poco più o poco meno (secondo Drury dodici giorni), prima di precipitare nuovamente sotto forma di pioggia.
L'evaporazione è un processo rapido, come si può facilmente determinare osservando il destino di una pozzanghera in un giorno d'estate. Anche un corpo d'acqua delle dimensioni del Mediterraneo evaporerebbe nel giro di un migliaio di anni, se non venisse reintegrato di continuo.28 Un evento simile si verificò poco meno di 6 milioni di anni fa, e provocò quella che è nota alla scienza come « crisi di salinità messiniana », causata dal fatto che il movimento dei continenti aveva chiuso lo stretto di Gibilterra.29 Mentre il Mediterraneo andava prosciugandosi, il suo contenuto, evaporato, precipitava sotto forma di pioggia di acqua dolce negli altri mari, diluendone leggermente la salinità - in effetti diluendola quel tanto che bastava per consentire la glaciazione di zone più vaste del normale. La superfìcie coperta dai ghiacci, così ampliata, rifletteva una maggior quantità della radiazione solare e spinse la Terra verso un'era glaciale. Per lo meno, questa è la teoria.
Quello che sicuramente è vero, per quanto ne sappiamo, è che un piccolo cambiamento nella dinamica terrestre può avere ripercussioni che vanno ben oltre la nostra immaginazione. Come vedremo fra poco, potrebbe essere stato un evento del genere ad averci creato.
La vera fonte dalla quale attingono energia i fenomeni superficiali del pianeta è rappresentata dagli oceani. I meteorologi trattano infatti gli oceani e l'atmosfera sempre più come un unico sistema, ed è per questo che ora dobbiamo dedicargli un poco di attenzione.
L'acqua ha una prodigiosa capacità di trattenere e trasportare quantità inimmaginabili di calore. Ogni giorno la Corrente del Golfo porta in Europa una quantità di calore equivalente alla produzione mondiale di carbone per dieci anni, il che spiega come mai la Gran Bretagna e l'Irlanda abbiano inverni tanto miti in confronto a quelli del Canada e della Russia.30 Ma l'acqua è anche lenta a riscaldarsi, e questo è il motivo per cui quella di laghi e piscine risulta fresca anche nei giorni di massima calura. Ed è sempre questo il motivo per cui in genere c'è un divario fra l'inizio astronomico ufficiale di una stagione e la sensazione che essa sia davvero cominciata.31 Nell'emisfero settentrionale la primavera può benissimo iniziare ufficialmente a marzo, ma nella maggior parte dei luoghi non la si avverte prima di aprile, se tutto va bene.
Gli oceani non sono una massa d'acqua uniforme. Le loro differenze in termini di temperatura, salinità, profondità, densità eccetera esercitano un'enorme influenza sulle modalità con le quali essi trasportano il calore, modalità che a loro volta influenzano il clima. L'Atlantico, per esempio, è più salato del Pacifico, il che è una buona cosa. Più l'acqua è salata, più è densa. E l'acqua densa sprofonda. Senza il suo carico supplementare di sale, le correnti dell'Atlantico procederebbero fino all'Artico riscaldando il Polo Nord, ma privando l'Europa di tutto il loro calore. Il principale agente del trasferimento di calore sulla Terra è noto come circolazione termoalina, che si origina in correnti lente e profonde, molto lontano dalla superficie.* Si tratta di un processo individuato per la prima volta nel 1797 dallo scienziato-avventuriero conte von Rumford. In prossimità dell'Europa le acque di superficie diventano più dense e scendono a grandi profondità, dove cominciano il loro lento viaggio di ritorno verso l'emisfero meridionale. Una volta
* A quanto pare, persone diverse attribuiscono significati diversi a questo termine. Nel novembre del 2002 Cari Wunsch del MIT pubblicò un intervento su Science intitolato « What Is the Thermohaline Circulation? », nel quale osservava che l'espressione è stata usata su riviste di primissimo piano per indicare almeno sette fenomeni diversi (per esempio, la circolazione a livello abissale, la circolazione azionata da differenze di densità, la circolazione di massa con rimescolamento nell'emisfero meridionale eccetera); tutti tali significati hanno comunque a che fare con la circolazione di masse oceaniche e con il trasferimento di calore, ovvero con quell'accezione ampia e prudentemente vaga che io ho utilizzato qui.
raggiunta l'Antartide, vengono catturate nella Corrente Circumpolare Antartica e sospinte verso il Pacifico. Il processo è molto lento, possono essere necessari anche 150 anni perché l'acqua compia il suo viaggio dall'Atlantico settentrionale al centro del Pacifico, ma la massa di calore e di acqua che viene spostata in questo modo è davvero considerevole, e l'influsso sul clima enorme.
Se qualcuno si chiede come si possa calcolare il tempo impiegato da una goccia d'acqua a passare da un oceano all'altro, la risposta è che, misurando la concentrazione di alcuni composti disciolti nell'acqua, come i clorofluorocarburi, gli scienziati possono calcolare quanto tempo è passato da quando essi si trovavano nell'atmosfera. Mettendo a confronto una serie di misurazioni effettuate a diverse profondità e in luoghi diversi, è possibile tracciare mappe abbastanza attendibili del movimento dell'acqua.32
La circolazione termoalina non soltanto mette in movimento il calore ma, mentre le correnti portano grandi masse d'acqua a maggiore o minore profondità, aiuta a rimescolare i nutrienti che esse contengono, rendendo così abitabili dai pesci e dalle altre creature marine porzioni di oceano più ampie. Purtroppo, sembra che la circolazione sia anche molto sensibile al cambiamento. Stando ad alcune simulazioni effettuate al computer, anche una modesta diluizione del contenuto salino dell'oceano (dovuta, per esempio, allo scioglimento dei banchi di ghiaccio della Groenlandia) potrebbe alterarne il ciclo in maniera disastrosa.
I mari ci fanno un altro grande favore: assorbono enormi quantità di carbonio e offrono un modo sicuro per immobilizzarlo. Una delle stranezze del nostro sistema solare è che oggi il Sole brucia con una intensità maggiore del 25 per cento rispetto a quando era più giovane. Questo avrebbe dovuto produrre una Terra più calda. Anzi, come sostiene il geologo inglese Aubrey Manning: « Questo colossale cambiamento avrebbe dovuto avere un effetto catastrofico sulla Terra. E invece sembra che il nostro mondo ne sia stato appena sfiorato».
Ma allora che cos'è che mantiene il nostro pianeta stabile e fresco? È la vita. Trilioni di trilioni di minuscoli organismi marini di cui la maggior parte di noi non ha mai sentito parlare - foraminiferi, coccoliti e alghe calcaree - catturano il carbonio atmosferico sotto forma di anidride carbonica quando essa precipita insieme alla pioggia, e lo usano (insieme ad altre sostanze) per produrre i
loro minuscoli gusci. Immobilizzando il carbonio nei gusci, essi impediscono che esso rievapori nell'atmosfera, dove andrebbe ad accumularsi pericolosamente sotto forma di gas a effetto serra. Alla fine, tutte queste minuscole creature - foraminiferi, coccoliti e altre ancora - muoiono e precipitano sul fondale dove vengono compresse dando origine a pietra calcarea. È impressionante, quando si contempla una straordinaria formazione naturale come quella delle bianche scogliere di Dover, in Inghilterra, pensare che è costituita quasi interamente dai resti di minuscoli organismi marini. Ancora più impressionante, però, è rendersi conto di quanto carbonio essi sequestrino complessivamente. Un cubo di gesso di Dover, con il lato di 15 centimetri, conterrà più di 1000 litri di anidride carbonica compressa, che altrimenti avrebbe potuto danneggiarci. Nel complesso, la quantità di carbonio sequestrata nelle rocce è circa 20.000 volte superiore a quella presente nell'atmosfera.33 Alla fine, gran parte di quel calcare andrà ad alimentare i vulcani: il carbonio tornerà nell'atmosfera e ricadrà sulla Terra in forma di pioggia, ed è per questo motivo che l'intero processo appena descritto è detto «ciclo del carbonio a lungo termine». Il processo è veramente lentissimo (un atomo di carbonio lo percorre tutto, mediamente, in circa mezzo milione di anni) ma, in assenza di perturbazioni, funziona magnificamente e mantiene stabile il clima.
Purtroppo, gli esseri umani hanno un'avventata tendenza ad alterare questo ciclo, liberando nell'atmosfera grandi quantità supplementari di carbonio, indipendentemente dal fatto che i foraminiferi siano pronti o meno a farvi fronte. È stato stimato che a partire dal 1850 abbiamo emesso nell'aria circa 100 miliardi di tonnellate extra di carbonio, un totale al quale vanno ad aggiungersi, ogni anno, all'incirca altri 7 miliardi di tonnellate. Nel complesso, non è poi moltissimo; la natura (soprattutto attraverso le eruzioni vulcaniche e la decomposizione di materiali di origine vegetale) spedisce ogni anno nell'atmosfera circa 200 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, un'emissione di quasi 30 volte superiore a quella delle nostre fabbriche e delle nostre automobili. Ma basta osservare la caligine sospesa sulle nostre città, sul Grand Canyon e a volte perfino sulle bianche scogliere di Dover, per capire quale differenza comporti il nostro sia pur modesto contributo.
Sappiamo, dall'esame di campioni di ghiaccio molto antico, che
il livello «naturale» di anidride carbonica nell'atmosfera (prima che cominciassimo ad aumentarlo con le nostre attività industriali) è di circa 280 parti per milione.34 Dal 1958, anno in cui i camici bianchi cominciarono a fare attenzione al fenomeno, quel valore è aumentato, arrivando a 315 parti per milione. Attualmente ha superato le 360 parti per milione e aumenta di circa lo 0,25 per cento ogni anno. La previsione, per la fine del ventunesimo secolo, è che si attesti a circa 560 parti per milione.
Finora gli oceani e le foreste della Terra (anch'esse attive nel sequestrare moltissimo carbonio) sono riusciti a salvarci da noi stessi, ma come afferma Peter Cox del British Meteorological Office, « esiste una soglia critica oltre la quale la biosfera smetterà di proteggerci dagli effetti delle nostre emissioni e comincerà ad amplificarli». Si teme che possa verificarsi un'impennata del riscaldamento globale. Incapaci di adattarsi, molte specie arboree e vegetali di altro tipo morirebbero, liberando così nell'ambiente il carbonio immobilizzato nei loro tessuti, e aggravando il problema. Cicli simili si sono già verificati, sporadicamente, in un passato remoto, anche senza il contributo umano. Di buono c'è che anche in queste circostanze la natura è assolutamente prodigiosa. Quasi sicuramente, alla fine, il ciclo del carbonio sarebbe ripristinato e riporterebbe la Terra a una situazione di felice stabilità. L'ultima volta che è successo sono stati necessari solo 60.000 anni.
18. In mare aperto
Immaginiamo di dover vivere in un mondo dominato dall'ossido di idrogeno, un composto che non ha sapore né odore, ed è così variabile nelle sue caratteristiche che, pur essendo generalmente benefico, a volte si rivela improvvisamente letale.1 A seconda del suo stato, può ustionarci o congelarci. In presenza di certe molecole organiche,' può formare degli acidi carbonici così nocivi da riuscire a spogliare gli alberi delle foglie e corrodere i volti delle statue. Quando è in grandi quantità ed è agitato, può colpire con una violenza tale da abbattere qualsiasi costruzione umana. Anche per chi ha imparato a conviverci, può essere spesso una sostanza letale. Noi lo chiamiamo acqua.
L'acqua è dappertutto. Una patata è costituita da acqua all'80 per cento, una mucca al 74, un batterio al 15.2 Un pomodoro, con il suo 95 per cento, è poco più che acqua. Ogni essere umano è costituito per il 65 per cento da acqua, il che ci fa più liquidi che solidi, con un rapporto di quasi due a uno. L'acqua è una sostanza strana. E senza forma e trasparente, eppure noi aneliamo a starci vicino. Non ha nessun sapore, eppure amiamo il suo gusto. Percorriamo grandi distanze e paghiamo piccole fortune per vederla illuminata dal sole. E anche se sappiamo che è pericolosa e che è causa di annegamento per decine di migliaia di persone ogni anno, proprio non riusciamo a evitare di giocarci dentro.
Poiché l'acqua ha il dono dell'ubiquità, tendiamo a lasciarci sfuggire quanto è straordinaria. Quasi nessuna delle sue proprietà può essere utilizzata per fare previsioni attendibili su quelle degli altri liquidi - e viceversa.3 Se non sapessimo nulla di lei e basassimo le nostre supposizioni sul comportamento dei composti che le sono chimicamente più affini (in particolare il seleniuro di idrogeno e il solfuro di idrogeno) ci aspetteremo di vederla bollire a —93 gradi Celsius e di trovarla sotto forma di gas a temperatura ambiente.
La maggior parte dei liquidi, quando viene raffreddata, va incontro a una riduzione volumetrica di circa il 10 per cento. Anche l'acqua si comporta così, ma solo fino a un certo punto. Arrivata a un soffio dal congelamento, ricomincia a espandersi in maniera contraddittoria, ingannevole e assolutamente improbabile. Una volta solidificata, ha subito un aumento volumetrico di quasi un decimo.4 A causa di tale espansione, il ghiaccio galleggia sull'acqua: una proprietà che John Gribbin definisce « assolutamente bizzarra».5 Se non fosse per questa sua splendida stravaganza, il ghiaccio sprofonderebbe, e laghi e oceani congelerebbero interamente, in tutto il loro spessore. Senza superfici ghiacciate a trattenerlo all'interno, il calore dell'acqua si disperderebbe, lasciandola più fredda e creando ancora più ghiaccio. Molto rapidamente, anche gli oceani congelerebbero e quasi di sicuro rimarrebbero gelati a lungo, forse per sempre (di certo una condizione poco favorevole alla vita). Per nostra fortuna, l'acqua sembra ignorare le leggi della fisica e della chimica.
Tutti sanno che la formula chimica dell'acqua è H2o: ciò significa che consiste di un atomo abbastanza grosso di ossigeno, legato a due atomi più piccoli di idrogeno. Questi ultimi stanno saldamente aggrappati al loro ossigeno, ma stabiliscono anche altri legami casuali con altre molecole d'acqua. La natura di una molecola d'acqua implica che essa si impegni in una sorta di danza con altre molecole d'acqua, allacciandosi e slacciandosi, come nel perpetuo cambiamento di coppie di una quadriglia, per usare la bella analogia di Robert Kunzig.6 Sebbene un bicchiere d'acqua possa non sembrare un luogo molto animato, ogni molecola presente al suo interno cambia compagna miliardi di volte al secondo: ecco perché le molecole d'acqua si legano formando ampie raccolte, come le pozzanghere e i laghi, tuttavia non così strettamente da non poter essere separate con facilità, come succede, per esempio, quando ci tuffiamo in piscina. In ogni singolo istante, solo il 15 per cento di esse è realmente a contatto.7
Per certi versi, il legame è molto forte. È questo il motivo per cui, se aspirate, le molecole d'acqua possono scorrere dal basso verso l'alto; lo stesso motivo che spiega la singolare determinazione delle gocce che cadono sul cofano di un'automobile a imperlarsi unendosi alle loro compagne. Lo stesso motivo, infine, spiega la tensione superficiale dell'acqua: le molecole in superficie sono attratte molto più fortemente dalle molecole affini, di fianco o sotto
di esse, che non dalle molecole d'aria che stanno sopra. Questo fenomeno genera una sorta di membrana abbastanza robusta da sostenere il peso degli insetti e da permettere a un sasso di rimbalzare. Esso giustifica anche il doloroso impatto con l'acqua di un tuffatore maldestro.
Non occorre sottolineare che senza di lei saremmo perduti. Privato dell'acqua, il corpo umano perde rapidamente la sua integrità. Nel giro di pochi giorni le labbra si ritirano « come se fossero [state] amputate, le gengive si anneriscono, il naso avvizzisce fino a metà della sua lunghezza, e la pelle si contrae a tal punto intorno agli occhi da impedire il battito delle palpebre».8 L'acqua è così vitale, per noi, da indurci facilmente a trascurare un importante dato di fatto: a causa del sale che contiene, tutta l'acqua presente sulla Terra, a eccezione di una piccolissima parte, è per noi velenosa (mortalmente velenosa). Noi abbiamo bisogno anche del sale per vivere, ma solo in quantità molto piccole, e l'acqua del mare ne contiene molto di più: circa 70 volte più di quanto ne possiamo metabolizzare senza danno. In genere, un litro d'acqua di mare contiene all'incirca solo 2,5 cucchiaini di comune sale da cucina, ma quantità ben più elevate di altri elementi, composti e solidi disciolti, noti collettivamente come sali.9 Le proporzioni di questi sali e minerali nei nostri tessuti sono straordinariamente simili a quelle nell'acqua di mare (come hanno detto Margulis e Sagan, noi piangiamo e sudiamo acqua di mare); curiosamente, però, non possiamo tollerarne l'ingestione.10 Se immettiamo una grande quantità di sale nel nostro corpo, il metabolismo ben presto va in crisi. Le molecole d'acqua, come tanti pompieri volontari, si precipitano fuori da ogni cellula per cercare di diluire e rimuovere l'improvviso eccesso di sale. Questo lascia le cellule pericolosamente a corto dell'acqua di cui hanno bisogno per espletare le loro normali funzioni. In poche parole, si disidratano. In situazioni estreme la disidratazione porta a convulsioni, perdita di coscienza e danni cerebrali. Nel frattempo le cellule del sangue, sovraccariche di lavoro, portano il sale ai reni, che alla fine vengono sopraffatti e smettono di funzionare. Il blocco renale conduce alla morte. Ecco perché non beviamo acqua di mare.
Sulla Terra ci sono 1,3 miliardi di chilometri cubici d'acqua, e questo è il massimo che potremo mai avere.11 Il sistema è chiuso. In termini pratici, niente può essere aggiunto o sottratto. L'acqua che
beviamo ha circolato nel pianeta fin da quando esso era giovane. Già 3,8 miliardi di anni fa gli oceani avevano raggiunto, almeno approssimativamente, il loro volume attuale.12
Il regno dell'acqua è noto come idrosfera, ed è in larghissima misura costituito da oceani. Il 97 per cento di tutta l'acqua della Terra si trova nei mari, la maggior parte nel Pacifico, che da solo è più grande di tutte le terre emerse messe insieme. Complessivamente, il Pacifico contiene più della metà dell'acqua degli oceani (51,6 per cento); l'oceano Atlantico ne ha il 23,6 per cento e l'oceano Indiano il 21,2 per cento.13 A tutti gli altri mari ne resta solo il 3,6 per cento. La profondità media dell'oceano è di 3,86 chilometri: mediamente, il Pacifico è di 300 metri più profondo degli oceani Atlantico e Indiano. Il 60 per cento della superficie del pianeta è coperta da un oceano di profondità superiore a 1,6 chilometri. Come scrive Philip Ball, avremmo fatto meglio a chiamare il nostro pianeta Acqua, e non Terra.14
Sulla Terra le acque dolci rendono conto del 3 per cento del totale, e la maggior parte di esse è sotto forma di calotte polari.15 Solo una minima quantità (lo 0,036 per cento) è presente in laghi, fiumi e bacini, e una parte ancora più piccola (solo lo 0,001 per cento) sotto forma di nuvole o vapore. Quasi il 90 per cento dei ghiacci del pianeta si trova in Antartide, e il resto quasi tutto in Groenlandia. Se andassimo al Polo Sud ci ritroveremmo sopra circa 3 chilometri di ghiaccio; al Polo Nord su uno strato di appena 4,5 metri.16 La sola Antartide possiede oltre 9,5 milioni di chilometri cubici di ghiaccio (sufficiente, se si sciogliesse tutto, a innalzare gli oceani di circa 60 metri).17 Ma se tutta l'acqua presente nell'atmosfera cadesse sotto forma di pioggia, dappertutto uniformemente, il livello degli oceani aumenterebbe solo di un paio di centimetri.
Il livello del mare, detto per inciso, è un concetto quasi del tutto teorico. I mari non hanno affatto un livello. Maree, venti, effetto Coriolis e altre forze alterano in modo considerevole i livelli dell'acqua da un oceano all'altro, e anche all'interno di uno stesso oceano. Lungo la sua sponda occidentale il Pacifico è più alto di circa mezzo metro. Questo dislivello è una conseguenza della forza centrifuga creata dalla rotazione terrestre, proprio come accade quando trasciniamo verso di noi un catino d'acqua e questa tende a fluire nella direzione opposta, come se fosse restia a seguirci. Allo
stesso modo, la rotazione della Terra verso est tende a spingere l'acqua contro il margine occidentale dell'oceano.
Considerata la millenaria importanza che hanno per noi i mari, è sorprendente quanto tempo abbiamo impiegato a provare un interesse scientifico nei loro confronti. Ancora per buona parte del diciannovesimo secolo quello che si sapeva degli oceani si basava in larga misura su quanto veniva trascinato a riva o issato a bordo delle navi con le reti da pesca, e quasi tutto quello che si scriveva sull'argomento era fondato su aneddoti e supposizioni più che su prove tangibili. Negli anni Trenta del diciannovesimo secolo il naturalista inglese Edward Forbes sondò i fondali dell'Atlantico e del Mediterraneo e dichiarò che in tutti i mari, al di sotto dei 600 metri, non c'era alcuna forma di vita. Sembrava una supposizione ragionevole. A quelle profondità non c'era luce, e quindi nessuna vita vegetale, e si sapeva che la pressione dell'acqua era estrema. Così fu una sorpresa quando, nel 1860, uno dei primi cavi telegrafici transatlantici, ripescato da più di 3 chilometri di profondità per effettuare alcune riparazioni, fu trovato coperto di spesse incrostazioni di coralli, molluschi bivalvi e altri detriti organici.
Per il primo vero studio organizzato dei mari si dovette attendere il 1872, quando una spedizione congiunta, organizzata dal British Museum, dalla Royal Society e dal governo inglese, partì da Portsmouth a bordo della Challenger, una ex nave da guerra. Per tre anni e mezzo i ricercatori solcarono i mari del globo campionando le acque, catturando pesci e trascinando una draga sui sedimenti. Senza dubbio, era un lavoro noioso. Su un effettivo di 240 uomini, tra scienziati ed equipaggio, uno su quattro abbandonò la nave e altri otto morirono o impazzirono, «portati alla follia dalla routine di anni di dragaggio », per citare la storica Samantha Weinberg.18 Malgrado ciò, percorsero il mare in lungo e in largo per quasi 70.000 miglia nautiche, scoprirono più di 4700 specie di organismi marini ancora sconosciute, raccolsero informazioni sufficienti a stilare una relazione di 50 volumi, la cui preparazione richiese 19 anni, e fornirono al mondo il nome di una nuova disciplina scientifica: l'oceanografia.19 Scoprirono anche, grazie alle misurazioni di profondità, che nel bel mezzo dell'Atlantico sembravano esserci montagne sommerse, un'osservazione che spinse alcuni entusiasti a chiedersi se per caso non si fossero imbattuti nel continente perduto di Atlantide.
Poiché la maggior parte del mondo istituzionale ignorava i mari, il compito di dirci cosa ci fosse là sotto toccò ad appassionati dilettanti, peraltro molto occasionali. La moderna esplorazione delle profondità oceaniche ebbe inizio nel 1930 con Charles William Beebe e Otis Barton. Sebbene fossero soci alla pari, Beebe, un carattere più interessante, ha sempre ricevuto maggiore attenzione da parte dei biografi. Nato a New York nel 1877 da una famiglia abbiente, Beebe studiò zoologia alla Columbia University, poi accettò un lavoro come guardiano degli uccelli alla New York Zoological Society. Stancatosi, decise alla fine di darsi all'avventura, e per il successivo quarto di secolo viaggiò per tutta l'Asia e il Sud America, accompagnato da una serie di attraenti assistenti di sesso femminile, i cui compiti venivano creativamente descritti come «storica e tecnica» o «assistente per i problemi ittici».20 Finanziò queste imprese con una serie di libri divulgativi, con titoli come Edge of the Jungle e Jungle Days; produsse tuttavia anche qualche dignitoso testo di ornitologia e sulla fauna e la flora selvatiche.
A metà degli anni Venti, durante un viaggio alle isole Galapagos, scoprì « il piacere dello star sospesi », come definì le immersioni in profondità. Subito dopo fece società con Barton, che proveniva da una famiglia ancora più benestante, aveva frequentato la Columbia come lui, ed era allo stesso modo affamato d'avventura.21 Sebbene il merito sia stato quasi sempre attribuito a Beebe, in realtà fu Barton a progettare la prima batisfera (termine di origine greca, che significa «sfera di profondità») e a procurare i 12.000 dollari necessari per la sua costruzione. Si trattava di una piccola e necessariamente robusta camera di ghisa, spessa 4 centimetri, con due piccoli oblò formati da blocchi di quarzo spessi 1,5 centimetri. Poteva ospitare due uomini, ma solo se disposti a entrare in stretta intimità. La tecnologia non era sofisticata, nemmeno per i criteri dell'epoca. La sfera non aveva alcuna manovrabilità (si limitava semplicemente a pendere all'estremità di un grosso cavo) ed era dotata del più primitivo degli apparecchi respiratori.22 Per neutralizzare la loro stessa anidride carbonica, i due avevano approntato dei fusti aperti di calce sodata, e per assorbire l'umidità, aprivano una vaschetta di cloruro di calcio, sulla quale a volte agitavano foglie di palma in modo da incoraggiare le reazioni chimiche.
La piccola, insignificante batisfera fece tuttavia il lavoro per il quale era stata progettata. Con la prima immersione, avvenuta nel
giugno del 1930 alle Bahamas, Barton e Beebe stabilirono il record mondiale scendendo alla profondità di 183 metri. Nel 1934 essi avevano portato il record già oltre i 900 metri, dove rimase attestato fino a dopo la Seconda guerra mondiale. Barton riteneva che la batisfera fosse sicura fino a una profondità di circa 1400 metri, sebbene durante la discesa, a ogni braccio di profondità, vi fossero evidenti prove acustiche della pressione esercitata su ogni singolo chiodo o bullone. Quale che fosse la profondità raggiunta, fu un lavoro coraggioso e rischioso. A 900 metri il loro piccolo oblò era soggetto a 3 tonnellate di pressione per centimetro quadrato. Se avessero superato il limite di tenuta della struttura, la morte, a quelle profondità, sarebbe stata istantanea, come Beebe non smise mai di evidenziare nei suoi molti libri, articoli e trasmissioni radiofoniche. La* preoccupazione maggiore, comunque, era che il verricello a bordo della nave, messo a dura prova dal dover sorreggere una sfera di metallo e due tonnellate di cavo d'acciaio, potesse cedere lasciando precipitare i due uomini sul fondo dell'oceano. In una simile evenienza, niente avrebbe potuto salvarli.
Se c'è qualcosa di cui le immersioni di Beebe e Barton furono alquanto avare, furono i risultati scientifici utili. Sebbene fosse capitato loro di incontrare molte creature mai viste prima, i limiti di visibilità e il fatto che nessuno degli intrepidi acquanauti fosse un esperto oceanografo implicava che, spesso, i due non erano in grado di descrivere le loro scoperte nella forma dettagliata cui anelavano gli scienziati. La sfera non aveva una luce esterna, ma solo una lampadina da 250 watt che i due potevano tenere vicino all'oblò; al di sotto dei 150 metri, tuttavia, l'acqua era in pratica impenetrabile e loro la scrutavano attraverso 7,5 centimetri di quarzo: qualsiasi cosa sperassero di vedere, quindi, avrebbe dovuto nutrire nei loro confronti quanto meno lo stesso interesse che loro nutrivano per essa. Di conseguenza, tutto ciò che poterono raccontare fu che li sotto c'erano moltissime strane creature. Nel 1934, durante un'immersione, Beebe restò sbigottito nello scorgere un serpente gigantesco «lungo oltre 6 metri e molto grosso». Gli passò accanto superandolo troppo rapidamente per sembrare più che un'ombra. Qualsiasi cosa fosse, nessuno prima di allora aveva mai visto niente del genere.23 Fu a causa di questa imprecisione che di solito i resoconti di Beebe e Barton furono ignorati dal mondo accademico.
Dopo l'immersione del record del 1934, Beebe perse interesse per le esplorazioni subacquee e si rivolse ad altre avventure. Barton invece perseverò. A suo merito, va riconosciuto che Beebe disse sempre, a chiunque glielo chiedesse, che il vero cervello dell'impresa era Barton, il quale tuttavia sembrava proprio incapace di uscire dall'ombra. Anche lui scrisse resoconti elettrizzanti delle loro avventure sottomarine e addirittura recitò in un film hollywoodiano dal titolo Titans ofthe Deep che mostrava una batisfera coinvolta in una serie di incontri eccitanti e molto romanzati con aggressivi calamari giganti e altre creature simili. Fece addirittura da testimonial per la pubblicità delle sigarette Carnei (« Non mi innervosiscono»). Nel 1948 aumentò il record di profondità del 50 per cento, con un'immersione a 1370 metri nell'oceano Pacifico, al largo della California; ma il mondo sembrava proprio determinato a ignorarlo. Un giornalista recensore di Titans ofthe Deep pensò addirittura che il protagonista del film fosse Beebe. Oggi Barton è fortunato a ricevere anche solo una menzione.
A ogni modo, era sul punto di venire completamente eclissato da un team svizzero composto da padre e figlio, Auguste e Jacques Piccard; i due stavano progettando un nuovo tipo di sonda chiamata batiscafo (che significa «scafo di profondità»). Battezzato Trieste, in onore della città in cui fu costruito, il nuovo mezzo poteva essere manovrato in maniera indipendente, anche se in realtà era in grado di fare poco di più che salire e scendere. In una delle sue prime immersioni, agli inizi del 1954, scese al di sotto dei 4000 metri, una profondità quasi tre volte superiore a quella del record stabilito da Barton sei anni prima. Le immersioni in profondità richiedevano però una grande assistenza ed erano costosissime, così che i Piccard si ridussero a poco a poco sul lastrico.
Nel 1958 strinsero un accordo con la Marina militare americana che lasciava a quest'ultima la proprietà del batiscafo e a loro il comando.24 A quel punto, inondati di finanziamenti, i Piccard ricostruirono il loro sommergibile, questa volta con pareti spesse 13 centimetri e oblò di soli 5 centimetri di diametro (poco più grandi di uno spioncino). Ormai il batiscafo era abbastanza forte per sopportare pressioni davvero enormi, e nel gennaio del 1960 Jacques Piccard e il luogotenente della Marina statunitense Don Walsh si immersero lentamente fino a giungere sul letto del più profondo canyon sottomarino, la fossa delle Marianne, circa 400
303
chilometri al largo di Guam, nel Pacifico occidentale (precedentemente scoperta da Harry Hess con il suo scandaglio). Ci vollero meno di 4 ore per scendere a 10.918 metri. Sebbene a quella profondità la pressione si aggirasse intorno ai 1200 chilogrammi per centimetro quadrato, non appena toccato il fondo i due si accorsero con sorpresa di aver disturbato una creatura abitante dei fondali, un pesce piatto simile a una sogliola. Non avevano l'attrezzatura per fare fotografie, quindi non esistono immagini a documentare l'evento.
Dopo soli 20 minuti di permanenza sul fondale oceanico più profondo del pianeta, Piccard e Walsh tornarono in superficie. Quella fu l'unica occasione in cui l'uomo riuscì a raggiungere tali profondità.
A distanza di 40 anni, la domanda che sorge spontanea è: perché da allora nessuno ci è più tornato? Tanto per cominciare, ulteriori immersioni furono osteggiate con forza dal vice ammiraglio Hyman G. Rickover, un uomo dal temperamento energico, dalle idee persuasive e, cosa più importante, con in mano il controllo dei fondi dell'ammiragliato. Secondo Rickover, le immersioni sottomarine erano uno spreco di risorse, senza contare che la Marina non era un istituto di ricerca. La nazione, inoltre, stava per essere assorbita completamente dai viaggi spaziali e dalle ricerche per inviare l'uomo sulla Luna, il che faceva apparire gli studi sulle profondità marine poco importanti e alquanto sorpassati. La motivazione decisiva, però, fu che l'immersione del Trieste, a conti fatti, non aveva portato a grandi risultati. Come spiegò anni dopo un ufficiale della Marina: «Non imparammo un accidente, a parte che eravamo capaci di farlo. Perché riprovarci? »25 In parole povere, per andare a trovare una sogliola era un viaggio molto lungo e anche troppo costoso. Si è stimato che, a ripeterla oggi, quell'impresa costerebbe almeno 100 milioni di dollari.
Quando i ricercatori subacquei capirono che la Marina non aveva intenzione di continuare il programma di esplorazione promesso, si levò un addolorato grido di protesta. In parte per placare queste critiche la Marina mise a disposizione i fondi per la costruzione di un sommergibile più avanzato, da affidare alla gestione della Woods Hole Oceanographic Institution del Massachusetts. Alvin - così chiamato in onore dell'oceanografo Allyn C. Vine, del quale riprendeva, contraendolo, il nome - doveva essere un minisottomarino perfettamente manovrabile, sebbene non si sarebbe assolutamente spinto a profondità simili a quelle del Trieste. C'era solo un problema: i progettisti non riuscivano a trovare nessuno disposto a costruirlo. Secondo quanto scrive William J. Broad nel suo Universe Below, «nessuna grande compagnia come la General Dynamics, costruttrice di sottomarini per la Marina militare, voleva imbarcarsi in un progetto screditato sia dal Bureau of Ships sia dall'ammiraglio Rickover, principali arbitri degli investimenti della Marina».26 Alla fine, in modo del tutto inverosimile, l'Alvi» fu costruito dalla General Mills, un'azienda alimentare, in uno stabilimento dove si fabbricavano le macchine produttrici dei cereali per la colazione.
Quanto a quello che ancora si celava negli abissi, la gente ne aveva davvero un'idea molto vaga. Nel pieno degli anni Cinquanta le migliori mappe a disposizione degli oceanografi erano ancora basate, in larghissima parte, su qualche piccolo dettaglio fornito da frammentari rilievi effettuati nel 1929 e inserito in quello che, essenzialmente, era un oceano di ipotesi. La Marina americana aveva a disposizione mappe eccellenti con cui guidare i sottomarini attraverso canyon e guyot, ma non desiderava affatto che queste informazioni finissero nelle mani dei sovietici, così le tenne sotto chiave. Gli studiosi, pertanto, dovevano arrangiarsi con rilievi topografici approssimativi e superati, oppure basarsi su ipotesi e intuizioni. Anche oggi la nostra conoscenza dei fondali oceanici ha un livello di definizione straordinariamente basso. Se osservassimo la Luna con un telescopio amatoriale, potremmo vedere crateri di grandi dimensioni (Fracastorius, Blancanus, Zach, Plank e molti altri che suonano familiari a qualsiasi studioso della Luna); ma se quegli stessi crateri si trovassero sui fondali dei nostri oceani, sarebbero sconosciuti. Abbiamo mappe di Marte ben più dettagliate di quelle dei nostri fondali marini.
Anche in superficie le nostre tecniche di rilevazione sono state viziate, per così dire, da un approccio un po' troppo ad hoc. Nel 1994 un carico di 34.000 guanti da hockey su ghiaccio, che si trovava a bordo di un mercantile coreano, finì in mare durante una tempesta nel Pacifico.27 I guanti furono trascinati dappertutto, da Vancouver al Vietnam, aiutando così gli oceanografi a tracciare il percorso delle correnti con un'accuratezza mai raggiunta prima.
Oggi l'Alvi» ha quasi 40 anni, ma rimane il miglior sottomarino
da ricerca del mondo. Non esistono ancora mezzi capaci di avvicinarsi a profondità simili a quelle della fossa delle Marianne, e soltanto cinque, Alvin incluso, possono spingersi fino alle profondità della piana abissale, il fondale oceanico profondo esteso su più della metà della superficie del pianeta. Poiché il loro funzionamento costa circa 25.000 dollari al giorno, è difficile che vengano messi in acqua per capriccio e ancora meno che siano mandati per mare nella speranza che s'imbattano casualmente in qualcosa di interessante. E come se la nostra esperienza di prima mano del mondo di superficie si basasse sul lavoro di cinque ragazzi che lo esplorano di notte a bordo di trattori da giardino. Secondo Robert Kunzig, gli esseri umani probabilmente hanno esaminato «forse un milionesimo o un miliardesimo degli abissi marini. Forse meno. Forse molto meno. »28
Gli oceanografi però sono molto industriosi e, con le loro risorse limitate, hanno fatto numerose importanti osservazioni, inclusa -nel 1977 - una delle più importanti e stupefacenti scoperte biologiche del ventesimo secolo. Quell'anno, al largo delle isole Galapagos, l'Alvin trovò colonie pullulanti di grandi organismi che vivevano sopra le bocche idrotermali di profondità, o nelle loro immediate vicinanze: c'erano vermi tubicoli lunghi più di 3 metri, bivalvi di 30 centimetri, gamberi e cozze a profusione, vermi simili a spaghetti che si contorcevano.29 Tutte queste creature dovevano la propria esistenza a vaste colonie di batteri i quali a loro volta derivavano energia e sostentamento dagli idrosolfuri (composti molto tossici per le creature di superficie) che sgorgavano costantemente dalle bocche idrotermali sottomarine. Era, questo, un mondo indipendente dalla luce del Sole, dall'ossigeno e da qualsiasi altra cosa di norma associata alla vita. Si trattava di un sistema vivente basato non sulla fotosintesi ma sulla chemiosintesi, un tipo di metabolismo che i biologi avrebbero scartato come assurdo, se solo ci fosse stato qualcuno abbastanza fantasioso da ipotizzarlo.
Le bocche idrotermali rilasciano enormi quantità di calore e di energia. In prossimità di esse esistono grandissime differenze di temperatura e, messe assieme, ne basterebbero due dozzine per produrre l'energia di una grande centrale. Nel punto di emissione la temperatura può raggiungere i 400 gradi Celsius, mentre un paio di metri più in là l'acqua può trovarsi anche solo a 2-3 gradi sopra il punto di congelamento. Una famiglia di vermi, gli alvinellidi, fu
trovata proprio sui bordi delle bocche, così che la temperatura dell'acqua in prossimità della loro testa era di 78 gradi Celsius più elevata di quella a cui era esposta la coda. Prima di quel momento, si riteneva che nessun organismo complesso potesse sopravvivere in acque a temperature superiori a circa 54 gradi Celsius: qui invece ce n'era uno che sopravviveva non solo a temperature ancora più alte, ma anche estremamente fredde.30 Questa scoperta modificò radicalmente le nostre conoscenze sui requisiti indispensabili alla vita.
Essa diede anche risposta a uno dei più grandi misteri dell'oceanografia (un fenomeno la cui stessa enigmaticità era sfuggita a molti di noi): perché gli oceani non diventano sempre più salati con il passare del tempo? A rischio di incorrere in un'ovvietà, nel mare c'è una quantità enorme di sale, abbastanza da sotterrare ogni centimetro di terra emersa del pianeta sotto uno strato spesso circa 150 metri.31 È risaputo da secoli che i fiumi portano i minerali al mare, dove poi essi si combinano con gli ioni presenti nell'acqua dell'oceano per formare dei sali. Fino a qui nessun problema. A risultare sconcertante era che i livelli di salinità del mare fossero stabili. Ogni giorno, dall'oceano, evaporano milioni di litri di acqua dolce che si lasciano dietro tutti i sali: secondo la logica, quindi, con il passare degli anni i mari dovrebbero diventare sempre più salati; e invece ciò non succede. Qualcosa rimuove dall'acqua una quantità di sale equivalente a quella che le viene aggiunta. Per moltissimo tempo, nessuno riuscì neppure a immaginare quale potesse essere la causa di questo fenomeno.
La scoperta delle sorgenti idrotermali sottomarine da parte dell'Alvin fornì la risposta. I geofisici compresero che esse funzionavano in modo simile ai filtri in un acquario. A mano a mano che l'acqua penetra nella crosta terrestre, si depriva dei sali, e alla fine, così ripulita, viene riemessa da questi camini. Il processo non è veloce - per ripulire un oceano possono essere necessari anche 10 milioni di anni - ma se non si ha fretta è un sistema meravigliosamente efficiente.32
Probabilmente nulla può esprimere con maggior chiarezza la nostra indifferenza psicologica nei confronti delle profondità oceaniche dell'enunciazione del compito principale degli oceanografi,
così come esso venne formulato nel corso dell'Anno Internazionale della Geofisica 1957-58: studiare «l'uso degli abissi per lo smaltimento delle scorie radioattive».33 Non era un obiettivo da perseguire segretamente, ma qualcosa di cui andare orgogliosamente fieri. Di fatto, sebbene non fosse un'attività molto pubblicizzata, nel 1957-58 lo smaltimento delle scorie radioattive era già in atto da una decina d'anni, con un'intensità che aveva qualcosa di terrificante. A partire dal 1946 gli Stati Uniti trasportarono regolarmente fusti da oltre 200 litri pieni di fanghi radioattivi nelle isole Fallarone, circa 50 chilometri al largo della costa californiana, vicino a San Francisco, dove venivano semplicemente gettati in mare.
Era una cosa condotta all'insegna di una straordinaria sciatteria. La maggior parte dei fusti era dello stesso tipo di quelli arrugginiti che si vedono nel retro delle stazioni di servizio o all'esterno delle fabbriche: mancavano cioè di rivestimenti protettivi di qualsiasi genere. Quando non riuscivano ad andare a fondo, cosa che succedeva spesso, i tiratori della Marina li riempivano di proiettili, in modo da lasciar entrare l'acqua (e, ovviamente, uscire plutonio, uranio e stronzio).34 Prima che negli anni Novanta si mettesse fine a questo tipo di smaltimento, gli Stati Uniti avevano gettato molte centinaia di migliaia di bidoni in circa 50 diversi siti oceanici (quasi 50.000 nelle sole isole Fallarone). Ma gli Stati Uniti non furono certo i soli. Tra gli altri entusiastici scaricatori di spazzatura radioattiva c'erano anche Russia, Cina, Giappone, Nuova Zelanda e quasi tutte le nazioni europee.
E che effetto potrebbe avere avuto tutto questo sulla vita sottomarina? Be', poco, si spera. Ma allo stato attuale non ne abbiamo alcuna idea. La nostra ignoranza sulla vita negli abissi è crassa, lampante, colossale. Persino le creature oceaniche più cospicue ci sono spesso sconosciute, compresa la più imponente di tutte, la balenottera azzurra, una creatura di proporzioni talmente mostruose che - per citare David Attenborough - la sua «lingua pesa quanto un elefante, il suo cuore ha le dimensioni di un'automobile e alcuni vasi sanguigni sono così larghi che ci potresti nuotare dentro». È l'animale più gigantesco che la Terra abbia mai prodotto, più grande persino dei più enormi dinosauri. Eppure, la vita di queste creature è per noi in gran parte un mistero. Non abbiamo idea di dove passino la maggior parte del tempo, dove vadano a riprodursi, per esempio, o che rotte seguano per arrivarci. Quel
poco che sappiamo di loro proviene quasi interamente dall'averne origliato i canti, che tuttavia restano anch'essi un mistero. A volte le balenottere interrompono una delle loro melodie, per poi riprenderla sei mesi dopo, esattamente dallo stesso punto.35 Altre volte cominciano un nuovo canto che nessuna di loro può avere sentito prima, ma che ognuna sembra conoscere già. Come ci riescano, e perché lo facciano, sono questioni nemmeno lontanamente comprese. E questi sono animali che devono risalire continuamente in superfìcie per respirare.
Nel caso delle creature che non hanno questa necessità di affiorare, la nostra ignoranza può essere ancor più frustrante. Prendiamo, per esempio, le nostre conoscenze sul leggendario calamaro gigante.36 Sebbene non abbia le dimensioni della balenottera azzurra, si tratta decisamente di un animale di dimensioni considerevoli, con occhi della grandezza di un pallone da calcio e uno strascico di tentacoli che possono raggiungere la lunghezza di 18 metri. Pesa quasi una tonnellata ed è il più grande invertebrato della Terra. Se ne mettessimo uno in una piccola piscina, non resterebbe posto per nient'altro. Eppure nessuno scienziato, nessuno in assoluto, per quanto ne sappiamo, ha mai visto un calamaro gigante vivo. Alcuni zoologi hanno dedicato la loro intera carriera al tentativo di catturarne, o almeno scorgerne, uno vivo; e hanno sempre fallito. Conosciamo questi animali, in larga misura, perché sono stati sospinti sulle spiagge (in particolare, e per ragioni ignote, sulle spiagge dell'isola del Sud della Nuova Zelanda). Devono esistere in grande numero, dato che costituiscono l'elemento principale della dieta del capodoglio, e i capodogli mangiano molto.*
Secondo una stima, ci potrebbero essere ben 30 milioni di specie animali marine, la maggior parte delle quali non ancora scoperte.37 Il primo vago indizio di quanto possa essere abbondante la vita nelle profondità marine non è venuto che negli anni Sessanta, con l'invenzione della draga epibentonica, con la quale è possibile
* Le parti non digeribili del calamaro gigante, in particolare il becco, si accumulano nello stomaco del capodoglio dando origine a una sostanza conosciuta come ambra grigia, usata come fissativo in profumeria. La prossima volta che vi metterete una goccia di Chanel Numero 5 (ammesso che qualcuno di voi lo faccia), forse vi soffermerete a riflettere sul fatto che vi state profumando col distillato di un mostro marino mai visto.
catturare non solo gli organismi vicini al fondale marino, ma anche quelli nascosti tra i sedimenti sottostanti. In una sola ora di strascico sulla platea continentale, a una profondità di circa 1,5 chilometri, gli oceanografi di Woods Hole - Howard Sandler e Robert Hessler - catturarono più di 25.000 creature (vermi, stelle marine, cetrioli di mare e simili) appartenenti a 365 specie diverse. Persino alla profondità di 5 chilometri essi trovarono circa 3700 creature che rappresentavano quasi 200 specie di organismi.38 La draga, d'altra parte, riusciva a catturare solo ciò che era troppo lento o troppo stupido per sfuggirle. Verso la fine degli anni Sessanta un biologo marino di nome John Isaacs ebbe l'idea di calare una cinepresa con attaccate delle esche, e ne trovò ancora di più: sciami di missinoidi - creature primitive simili ad anguille - che si contorcevano e banchi guizzanti di pesci macruridi. Quando si rende improvvisamente disponibile del cibo, per esempio quando un cetaceo muore e precipita sul fondo, sulla sua carcassa accorrono a banchettare fino a 390 specie di creature marine. È stato interessante scoprire che molte di esse provenivano da sorgenti idrotermali distanti fino a 1600 chilometri, e tra queste c'erano alcune specie, come vongole e cozze, che non sono certo famose per essere grandi viaggiatrici. Ora si ritiene che le larve di certi organismi possano andare alla deriva finché, grazie a qualche meccanismo chimico sconosciuto, percepiscono di essere arrivate vicino a una risorsa di cibo e vi si lasciano cadere sopra.
Allora perché, se i mari sono tanto vasti, riusciamo a esaurirne le risorse così facilmente? Per cominciare, i mari del mondo non sono tutti uniformemente generosi. Nel complesso, si ritiene che meno di un decimo degli oceani sia naturalmente produttivo.39 La maggior parte delle specie acquatiche ama vivere in acque basse, dove c'è luce, calore e abbondanza di sostanze organiche per innescare la catena alimentare. Le barriere coralline, per esempio, costituiscono una percentuale inferiore all'1 per cento del volume degli oceani, ma ospitano circa il 25 per cento di tutti i pesci.
Altrove gli oceani non sono così ricchi. Prendiamo l'Australia. Con i suoi 36.735 chilometri di costa e più di 23 milioni di chilometri quadrati di acque territoriali, ha più rive lambite dal mare di qualsiasi altro paese; eppure, come scrive Tim Flannery, per quantità di pescato non rientra nemmeno nelle prime 50 nazioni.40 Anzi: l'Australia è un grande importatore di pesce. Questo perché le sue acque, come la maggior parte dell'Australia stessa, sono essenzialmente deserte a causa della povertà del suolo che non introduce nessun elemento nutritivo nelle acque di deflusso. Unica eccezione di rilievo è la grande barriera corallina al largo del Queensland, meravigliosamente feconda.
Anche dove prospera, poi, la vita è spesso estremamente sensibile ai fattori di disturbo. Negli anni Settanta i pescatori australiani, e in misura minore quelli neozelandesi, scoprirono banchi di una specie ittica poco conosciuta, che vivevano a una profondità di circa 800 metri sulle piane continentali. Era il pesce specchio atlantico, era delizioso ed era abbondantissimo: in men che non si dica, le flotte di pescherecci ne issarono a bordo 40.000 tonnellate all'anno. I biologi marini fecero in seguito una scoperta allarmante. I pesci specchio hanno una vita molto lunga e uno sviluppo molto lento. Possono raggiungere anche i 150 anni di età e alcuni di quelli che abbiamo mangiato potevano benissimo essere nati ai tempi della regina Vittoria. Se i pesci specchio hanno adottato uno stile di vita tanto flemmatico è perché le acque in cui vivono sono molto povere di risorse. In un habitat simile, alcuni individui si riproducono una sola volta nella vita. Chiaramente, si tratta di popolazioni che non possono tollerare troppi fattori di disturbo. Purtroppo, nel momento in cui ci si rese conto di tutto questo, le popolazioni erano state già decimate dalla pesca. Anche con una buona gestione del prelievo ittico, occorreranno decenni prima che si riprendano, ammesso che riescano a farlo.
Altrove, invece, l'uso improprio delle risorse oceaniche è stato più deliberato che involontario. Molti pescatori recidono le pinne agli squali e poi li ributtano in acqua a morire.41 Nel 1998, in Estremo Oriente, le pinne di pescecane si vendevano a più di 110 dollari al chilo, e a Tokyo il prezzo di una zuppa di pinne era di 100 dollari. Nel 1994 il World Wildlife Fund calcolò che il numero di squali uccisi ogni anno era compreso tra i 40 e i 70 milioni.
Nel 1995 i circa 37.000 grandi pescherecci industriali, insieme a un altro milione di imbarcazioni più piccole, prelevarono in totale una quantità di pesce due volte superiore a quella pescata 25 anni prima. Oggi a volte i pescherecci sono grandi come navi da crociera, e si trascinano reti talmente grosse da poter contenere una
dozzina di jumbo jet.42 Alcuni usano addirittura aerei da ricognizione per localizzare i banchi di pesci dall'alto.
Si stima che circa un quarto del pesce issato a bordo nelle reti rappresenti prede «collaterali»: in altre parole, non può essere portato a terra e utilizzato perché troppo piccolo, della specie sbagliata o pescato nella stagione inadatta o vietata. Come ha dichiarato uno studioso sull'Economist: « Siamo ancora nel Medioevo. Non facciamo altro che calare una rete e vedere cosa viene su ».43 Ogni anno, qualcosa come 22 milioni di tonnellate di questi pesci indesiderati vengono ributtati in mare, la maggior parte ormai morti.44 Per ogni chilo di gamberi pescato, vengono distrutti circa 4 chili di pesce e di altre creature marine.
Vaste aree dei fondali del mare del Nord vengono ripulite dalle reti a strascico dei pescherecci almeno 7 volte all'anno: un livello di disturbo che nessun ecosistema è in grado di sostenere.45 Secondo molte stime, almeno due terzi delle specie presenti nel mare del Nord sono sottoposte a un prelievo eccessivo. Le cose non vanno meglio dall'altra parte dell'Atlantico. Un tempo, al largo del New England, l'halibut era così abbondante che ogni barca poteva portarne a terra quasi dieci tonnellate al giorno; oggi sembra pressoché estinto dalle coste nordorientali dell'America.
Niente può essere però paragonato alla sorte del merluzzo. Nella seconda metà del quindicesimo secolo l'esploratore John Cabot trovò quantità incredibili di questo pesce nelle secche orientali del Nord America, zone d'acqua poco profonda ricche di pesci che si nutrono sul fondale come i merluzzi. Ve ne erano in quantità tali, riferiva un attonito Cabot, che i pescatori li raccoglievano usando delle ceste.46 Alcune di quelle secche, poi, erano davvero vaste. L'area di Georges Bank, al largo del Massachusetts, ha una superficie più estesa dello stesso Massachusetts. Al largo di Terranova i Grand Banks sono ancora più grandi, e per secoli sono sempre stati ricchi di merluzzi. Si pensava fossero inesauribili. Ovviamente, non lo erano affatto.
Nel 1960 il numero di merluzzi che deponevano le uova nell'A-tlantico settentrionale era ormai precipitato a un valore stimato in 1,6 milioni di tonnellate. Nel 1990 la cifra era piombata a 22.000 tonnellate.47 In termini commerciali, il merluzzo era estinto; «non c'era più» scrisse Mark Kurlansky nella sua affascinante storia, Il merluzzo, « avevano pescato tutto ».48 l'Atlantico occidentale potrebbe avere perso il merluzzo per sempre. Nel 1992, sui Grand Banks, la pesca del merluzzo fu proibita del tutto; nell'autunno del 2002, comunque, stando a quanto riferito in un articolo apparso su Nature, le nuove generazioni non accennavano a tornare.49 Kurlansky scrive che in origine il pesce dei filetti o dei bastoncini era effettivamente merluzzo; in seguito fu rimpiazzato prima dall'eglefino, poi dagli scorpenidi e infine da pesci di qualità inferiore. Di questi tempi, scrive con sarcasmo, « la parola 'pesce' indica qualsiasi cosa sia rimasta ».50
Quasi lo stesso si può dire di molti altri prodotti del mare. Nella zona di pesca del New England, al largo di Rhode Island, un tempo era normale pescare aragoste da 9 chilogrammi. A volte superavano anche i 13. Se indisturbate, le aragoste possono vivere per decenni (fino a 70 anni, si pensa) senza mai smettere di crescere. Al giorno d'oggi sono poche le aragoste che superano il chilo al momento della cattura. Secondo il New York Times, « i biologi stimano che il 90 per cento delle aragoste sia pescato entro un anno dal raggiungimento della grandezza minima legale, quindi all'età di circa 6 anni».51 A dispetto della riduzione del pescato, i pescatori del New England continuano a ricevere incentivi fiscali statali e federali che li incoraggiano (per la verità in alcuni casi li costringono) ad acquistare barche più grandi e a sfruttare i mari in modo più intensivo. Oggi i pescatori del Massachusetts si sono ridotti a pescare l'orribile missinoide, per il quale esiste un certo mercato in Estremo Oriente. Ma perfino il numero di questi pesci si sta riducendo.
Siamo straordinariamente ignoranti circa le dinamiche che governano la vita del mare. Mentre in alcune aree sottoposte a un eccessivo prelievo la vita marina è più povera di quanto ci aspetteremmo, in certe acque naturalmente povere c'è più vita di quanta ce ne dovrebbe essere. Gli oceani meridionali attorno all'Antartide producono solo il 3 per cento del fitoplancton presente al mondo - davvero troppo poco, a quanto pare, per sostenere un ecosistema complesso - eppure riescono a sostentarsi. La foca mangiagranchi o lobodonte non è una specie della quale si senta molto parlare, ma potrebbe essere, dopo gli esseri umani, il secondo mammifero più numeroso della Terra. Pare che sui banchi di ghiaccio attorno all'Antartide ne vivano circa 15 milioni di esemplari.52 Ci sono anche forse 2 milioni di foche di Weddel, almeno mezzo milione di pinguini imperatore, e probabilmente 4 milioni
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di pinguini di Adelia. Sebbene la catena alimentare sia quindi irrimediabilmente sbilanciata a favore dei consumatori, in qualche modo riesce a funzionare. È sorprendente che nessuno sappia come mai.
Abbiamo fatto tutti questi giri tortuosi solo per giungere ad affermare che sappiamo davvero poco circa il più grande sistema della Terra. Quando si comincia a parlare di vita, come vedremo nelle pagine che ci restano, c'è una grande quantità di cose che non sappiamo. Quello che non capiamo è, innanzitutto, come abbia fatto a resistere.
19. L'alba della vita
Nel 1953 Stanley Miller, specializzando presso la University of Chicago, collegò mediante tubi di gomma due recipienti - uno contenente acqua e l'altro contenente una miscela gassosa di metano, ammoniaca e solfuro di idrogeno per rappresentare, rispettivamente, gli oceani e l'atmosfera della Terra primitiva - e vi fece passare qualche scarica elettrica come surrogato dei fulmini. Dopo qualche giorno l'acqua contenuta nei recipienti era diventata un fertile brodo giallo-verdastro, ricco di amminoacidi, acidi grassi, zuccheri e altri composti organici.1 «Se Dio non lo ha fatto in questo modo » osservò compiaciuto il superiore di Miller nonché premio Nobel Harold Urey, « si è lasciato sfuggire un'ottima occasione. »
La stampa dell'epoca diede al pubblico l'impressione che bastasse agitare bene per vedere qualche forma di vita spuntar fuori strisciando dai recipienti. Come il tempo ha poi dimostrato, non era assolutamente così semplice. Nonostante mezzo secolo di ulteriori studi, oggi non siamo vicini alla sintesi della vita più di quanto lo fossimo nel 1953, anzi: siamo molto più lontani dal pensare di poterci mai riuscire. Gli scienziati sono quasi certi che l'atmosfera del pianeta Terra non fosse affatto quell'ambiente gassoso pronto per lo sviluppo della vita ipotizzato da Miller e Urey, e ritengono invece che si trattasse di una miscela molto meno reattiva di azoto e anidride carbonica. La ripetizione degli esperimenti di Miller con queste condizioni di partenza più difficili ha prodotto finora un solo amminoacido primitivo. In ogni caso, il vero problema non sta nella sintesi degli amminoacidi.2 Il problema sono le proteine.
Le proteine si ottengono legando molti amminoacidi fra loro. Noi abbiamo bisogno di moltissime proteine e, sebbene nessuno possa dirlo con certezza, si calcola che nel corpo umano ce ne sia un milione, tutte diverse, ognuna delle quali è un piccolo miracolo.3 Stando alle leggi della probabilità, le proteine non dovrebbero
esistere. Per crearne una, gli amminoacidi (che una lunga tradizione mi obbliga a chiamare i «mattoni della vita») devono essere assemblati in un ordine particolare, proprio come le lettere all'interno di una parola. Il problema è che le parole scritte con l'alfabeto degli amminoacidi sono spesso estremamente lunghe. Per scrivere la parola « collagene », una comune proteina, basta posizionare le nove lettere che la compongono nell'ordine giusto. Per sintetizzare il collagene, invece, bisogna disporre ben 1055 amminoacidi nella sequenza corretta. Inoltre - e direi che, per quanto ovvio, si tratta di un punto cruciale - non lo facciamo noi. Accade da sé, spontaneamente, senza supervisione: ed è proprio qui che si affaccia l'improbabilità.
Le probabilità che una molecola come il collagene, costituita da una sequenza di 1055 amminoacidi, si autoassembli spontaneamente sono, in tutta franchezza, nulle. Diciamo che un tale evento non accadrà, punto e basta. Per renderci conto di quanto esso sia improbabile, immaginiamo una normalissima slot machine come quelle di Las Vegas e aumentiamone le dimensioni portandole a 27 metri, in modo che possa accogliere 1055 ruote (anziché le solite 3 o 4) ognuna delle quali contenente 20 simboli (uno per ogni comune amminoacido).* Quante volte dovremmo tirare la leva prima che tutti i 1055 simboli si presentino nella sequenza giusta? In pratica, per tutta l'eternità. Anche riducendo il numero delle ruote a 200 - che è in realtà un numero di amminoacidi più comune per una proteina - la probabilità che si sistemino tutte in una sequenza prescritta è una su 10^260 (ossia 1 seguito da 260 zeri).4 Un numero di per sé più elevato di quello di tutti gli atomi contenuti nell'universo.
Le proteine, insomma, sono entità complesse. L'emoglobina contiene solo 146 amminoacidi: una mezza cartuccia rispetto agli standard proteici, eppure anche con le sue dimensioni contenute
* In realtà gli amminoacidi naturali conosciuti sulla Terra sono ventidue e probabilmente ce ne sono altri che attendono solo di essere scoperti. Ma per formare un essere umano e la maggior parte degli altri esseri viventi ne bastano venti. Il ventiduesimo - la pirrolisina - è stato scoperto nel 2002 dai ricercatori della Ohio State University e si trova solo in un particolare archeobatterio (una forma di vita primitiva di cui ci occuperemo fra poco) chiamato Methanosarcina barkeri.
presenta un ventaglio di 10^190 possibili combinazioni di amminoacidi.5 Il che spiega come mai il chimico Max Perutz della Cambridge University abbia impiegato 23 anni - più o meno un'intera carriera - per rivelarne la sequenza. Il fatto che anche solo una singola proteina possa essere sintetizzata grazie a eventi casuali sembrerebbe dunque una circostanza spaventosamente improbabile. Per citare la colorita similitudine dell'astronomo Fred Hoyle, sarebbe come se una tromba d'aria attraversasse una discarica e uscisse dallo sconquasso lasciando dietro di sé un jumbo jet perfettamente funzionante.
Ma non basta: esistono varie centinaia di migliaia di proteine, forse perfino un milione, ciascuna delle quali unica e, per quel che ne sappiamo, di vitale importanza per mantenerci vivi e vegeti. E non è ancora tutto. Affinché serva a qualcosa, non basta che una proteina contenga i suoi amminoacidi allineati nella sequenza esatta: essa deve anche impegnarsi in una sorta di origami chimico e ripiegarsi fino ad assumere una forma molto specifica. Quand'anche avesse raggiunto questa complessità strutturale, poi, la proteina non servirebbe a niente se non fosse capace di riprodursi. E in effetti nessuna proteina è in grado di farlo. Altrimenti a che servirebbe il dna? Il dna è un vero mago della replicazione (riesce addirittura a produrre una copia di se stesso in pochi secondi); in pratica, però, sa fare solo quello.6 Ci troviamo quindi in una situazione paradossale: le proteine non possono esistere senza dna, e il dna senza di esse non serve a niente. Dobbiamo quindi presumere che siano comparsi sulla Terra contemporaneamente, con lo scopo di sostenersi a vicenda? Se le cose stanno così, c'è di che restare a bocca aperta!
Ancora non è tutto. Il DNA, le proteine e le altre componenti della vita non potrebbero svilupparsi se non ci fosse una membrana a contenerle. Nessun atomo, nessuna molecola, ha mai preso vita indipendentemente. Prelevate un atomo dal vostro corpo, e non vi troverete più vita di quanta ce ne sia in un granello di sabbia. E solo quando si uniscono all'interno del rifugio accogliente costituito dalla cellula che tutti questi materiali, tanto diversi fra loro, possono prendere parte a quella danza sorprendente che chiamiamo vita. Senza la cellula, non sono altro che interessanti sostanze chimiche. E d'altra parte, senza di esse, la cellula non ha motivo di esistere. Come dice Davies: « Se ogni cosa rimanda a un'altra, come
è potuta nascere la comunità di molecole iniziale? »7 È come se tutti gli ingredienti che teniamo in cucina fossero riusciti in qualche modo a mettersi insieme e a preparare una torta: anzi, una torta che in più è in grado di dividersi per produrre, quando occorre, altre torte. Non c'è da sorprendersi, quindi, se si parla di miracolo della vita. Né c'è da meravigliarsi se stiamo cominciando a capirlo solo adesso.
Come si giustifica una complessità così stupefacente, allora? Una delle possibilità è che non sia poi tanto stupefacente come sembra a prima vista. Prendiamo per esempio le proteine, improbabili fino all'inverosimile. Lo stupore suscitato dal modo in cui si assemblano deriva dalla convinzione che esse siano comparse sulla Terra già perfettamente formate. E se invece le catene proteiche non avessero preso forma tutte in una volta? E se alcune ruote della grande slot machine fossero state bloccate, proprio come i giocatori tengono fisso un certo numero di combinazioni promettenti? E se, in altre parole, le proteine non fossero nate tutto d'un tratto così come sono, ma fossero evolute?
Immaginiamo di prendere tutti gli ingredienti che costituiscono un corpo umano - carbonio, idrogeno, ossigeno eccetera -, di metterli in un contenitore con un po' d'acqua, mescolare bene e vedere saltare fuori una persona in carne e ossa. Sarebbe incredibile. E proprio questo che Hoyle e altri (fra cui anche molti creazionisti convinti) obiettano quando viene detto loro che le proteine si sarebbero assemblate nella loro forma definitiva spontaneamente. Non è andata così, non può essere andata così. Come sostiene Richard Dawkins in L'orologiaio cieco, deve esserci stato un processo di selezione cumulativa di qualche tipo che ha consentito agli amminoacidi di assemblarsi in brevi catene.8 Probabilmente due o tre amminoacidi si legarono fra loro per svolgere qualche semplice compito; successivamente si imbatterono in un'altra breve sequenza di dimensioni simili, «scoprendo» così qualche possibile miglioramento.
Le reazioni chimiche associate alla vita sono in realtà comunissime. Può darsi benissimo che ricrearle in un laboratorio, a la Stanley Miller e Harold Urey, vada oltre le nostre possibilità; l'universo però lo fa con una certa disinvoltura. In natura, moltissime
molecole si uniscono per formare lunghe catene chiamate polimeri: gli zuccheri si assemblano di continuo per formare gli amidi. I cristalli riescono a fare un certo numero di cose che ricordano la vita: per esempio si riproducono, rispondono a stimoli ambientali, presentano una complessità fondata sulla ripetizione di modelli regolari.9 Certo, essi non hanno mai raggiunto davvero la vita, però ci hanno ripetutamente dimostrato che la complessità è un evento naturale, spontaneo, assolutamente ripetibile. Nell'universo, inteso in senso lato, può esserci o meno una gran quantità di vita, ma certamente non mancano forme di auto-assemblaggio ordinato: dalla sbalorditiva simmetria dei fiocchi di neve all'eleganza degli anelli di Saturno.
Questa tendenza ad assemblarsi è così forte che ormai sono molti gli scienziati convinti che la vita probabilmente sia più inevitabile di quanto pensiamo: che sia, per citare il biochimico Christian de Duve, premio Nobel belga, «una manifestazione della materia da considerarsi obbligatoria, costretta a presentarsi laddove vi siano le condizioni appropriate».10 De Duve riteneva verosimile che le condizioni appropriate si potessero riscontrare forse un milione di volte in ogni galassia.
Sicuramente nelle sostanze chimiche che ci animano non c'è nulla di terribilmente esotico. Se volessimo creare un altro essere vivente - un pesce rosso, un cespo di lattuga, o un essere umano -in fondo basterebbe avere a disposizione i quattro elementi principali (carbonio, idrogeno, ossigeno e azoto) e un pizzico di qualche altro (soprattutto zolfo, fosforo, calcio e ferro).11 Se li mettessimo insieme in una trentina di combinazioni diverse - per formare zuccheri, acidi e altri composti fondamentali - potremmo creare qualsiasi forma di vita. Come osserva Dawkins: «non c'è niente di speciale nelle sostanze di cui sono composti gli esseri viventi. Sono insiemi di molecole, esattamente come ogni altra cosa».12
In conclusione, oltre che gratificante, la vita è stupefacente: anzi, forse è addirittura un miracolo, ma certo non impossibile, come le nostre modeste esistenze testimoniano ripetutamente. Di certo molti dettagli fini sull'origine della vita rimangono alquanto imponderabili. Qualsiasi scenario di cui abbiate mai letto riguardante le condizioni necessarie alla vita avrà sicuramente comportato la presenza di acqua: dal «piccolo stagno dalle acque tiepide» in cui Darwin immaginava l'alba della vita, alle bocche vulcaniche sottomarine, che oggi sono le candidate favorite come luogo per il suo esordio. Tutto questo, però, trascura il fatto che la conversione dei monomeri in polimeri (in altre parole il primo passo per la creazione delle proteine) comporta un tipo di reazione che i biologi chiamano « di condensazione ». Secondo quanto affermato - con una nota di disagio - da uno dei testi di biologia attualmente più accreditati, «tutti i ricercatori sono concordi nell'asserire che, a causa della legge di azione di massa, nel mare primordiale e in qualsiasi altro ambiente acquoso non si sarebbero verificate le condizioni energetiche adeguate per l'innescarsi di tali reazioni».13 Sarebbe come mettere dello zucchero in un bicchiere d'acqua e vederlo diventare una zolletta. Non dovrebbe succedere; eppure, in un modo o nell'altro, in natura succede eccome. Ai fini di questo libro, la chimica di tutti questi fenomeni è un po' complessa: qui basterà dire che, di solito, bagnando i monomeri, non si ottengono polimeri - a meno che non si tratti di creare la vita sul pianeta Terra. Come e perché ciò si verifichi in quelle circostanze e non in altre è uno dei grandi misteri irrisolti della biologia.
Scoprire quanto sia remoto l'avvento della vita sul nostro pianeta ha costituito una delle più grandi sorprese regalateci dalle scienze della Terra negli ultimi decenni. Ancora negli anni Cinquanta si pensava che la vita fosse comparsa sulla Terra meno di 600 milioni di anni fa.14 Negli anni Settanta alcuni audaci intuirono che l'evento poteva essere spostato fino a 2,5 miliardi di anni fa. La data accettata attualmente, pari a 3,85 miliardi di anni or sono, è sorprendentemente remota se consideriamo che la superficie terrestre divenne solida solo 3,9 miliardi di anni fa.
«Una tale rapidità di sviluppo ci spinge senz'altro a dedurre che, almeno per le forme di vita di tipo batterico, non deve essere 'difficile' evolvere in un pianeta in cui sussistano condizioni appropriate » osservò Stephen Jay Gould sul New York Times nel 1996.15 Oppure, come affermò in un'altra occasione, è difficile non concludere che « la vita sulla Terra ebbe origine non appena le condizioni fisico-chimiche lo permisero: un fatto sorprendente che, di per sé, indica l'inevitabilità chimica della sua origine».16
In effetti, la vita emerse con una rapidità tale da indurre in alcuni autorevoli studiosi il sospetto che avesse ricevuto qualche forma di aiuto - forse, un aiuto cospicuo. L'ipotesi che la vita sia arrivata sulla Terra dallo spazio ha una storia sorprendentemente lunga, e a
tratti perfino illustre. Fu il grande Lord Kelvin in persona, durante una riunione della British Association for the Advancement of Science, a sollevare, già nel 1871, questa possibilità, suggerendo che « i germi della vita potrebbero essere stati portati sulla Terra da qualche meteorite». L'ipotesi fu tuttavia ignorata fino a una domenica di settembre del 1969, quando decine di migliaia di australiani furono sorpresi da una serie di bang sonici e dalla vista di una sfera infuocata che attraversava il cielo da est a ovest.17 Il passaggio del bolide produceva uno strano crepitio e lasciava dietro di sé un odore che alcuni paragonarono all'alcool denaturato e altri descrissero semplicemente come orribile.
La sfera esplose proprio sopra Murchison, un piccolo centro di 600 abitanti nella Goulburn Valley, a nord di Melbourne, e si frantumò in una pioggia di grossi frammenti, alcuni del peso di oltre 5 chilogrammi. Per fortuna non vi furono feriti. Il meteorite era di un raro tipo, conosciuto come condrite carbonacea; gli abitanti della cittadina ne raccolsero, con gran solerzia, all'incirca 90 chili. Il momento non poteva essere più propizio. Meno di due mesi prima gli astronauti dell''Apollo 11 erano tornati sulla Terra con una sacca piena di rocce lunari: i laboratori di tutto il mondo erano pronti ad analizzare rocce di provenienza extraterrestre -anzi: reclamavano a gran voce il privilegio di poterlo fare.
Si scoprì che il meteorite di Murchison aveva 4,5 miliardi di anni ed era ricchissimo di amminoacidi - in tutto 74 tipi diversi, 8 dei quali coinvolti nella formazione delle proteine presenti sulla Terra.18 Alla fine del 2001, a più di trent'anni dall'impatto, un gruppo di studiosi dell'Ames Research Center in California annunciò che le rocce di Murchison contenevano anche complesse sequenze di zuccheri chiamate polioli, prima di allora mai rinvenuti in materiali extraterrestri. Dopo il 1969 altre condriti carbonacee hanno incrociato l'orbita terrestre (una, atterrata nel gennaio del 2000 vicino al Targish Lake, nello Yukon canadese, fu vista in gran parte del Nord America) e hanno confermato che l'universo è ricco di composti organici.19 Oggi si ritiene che la cometa di Halley sia costituita per il 25 per cento circa di molecole organiche. Basterebbe che un numero sufficiente di rocce simili si schiantasse sul pianeta giusto - la Terra, per esempio - e tutt'a un tratto sarebbero disponibili gli elementi fondamentali necessari per lo sviluppo della vita.
Il concetto di panspermia - questo è il nome con cui sono conosciute le teorie extraterrestri - comporta due problemi. Il primo è che in realtà esso non risponde a nessuna delle domande sull'origine della vita, ma si limita a spostarne altrove le responsabilità. L'altro è che a volte i fautori della panspermia, anche i più autorevoli, tendono a esaltarsi a tal punto che finiscono per lanciarsi in speculazioni a dir poco incaute. Francis Crick, coscopritore della struttura del dna, ha suggerito, insieme al suo collega Leslie Orgel, che la Terra sia stata « volutamente inseminata di vita da forme di intelligenza aliena »: un'idea che Gribbin ha definito «al limite estremo della rispettabilità scientifica»; in altre parole, un concetto che sarebbe stato ritenuto del tutto sconsiderato se non fosse venuto dalla bocca di un premio Nobel.20 Come abbiamo già raccontato nel capitolo 3, Fred Hoyle e la sua collega Chandra Wickramasinghe erosero ulteriormente il consenso creatosi intorno alla panspermia suggerendo che dallo spazio non fosse arrivata solo la vita ma anche malattie come l'influenza e la peste bubbonica, un'idea peraltro prontamente confutata dai biochimici.
Quale che sia stato l'impulso che consentì alla vita di cominciare, esso si manifestò una sola volta: questo costituisce l'evento più straordinario di tutta la biologia, anzi, forse l'evento più straordinario di cui siamo a conoscenza. L'esordio di qualunque forma di vita, animale o vegetale, che si sia mai manifestata sulla Terra può esser fatto risalire allo stesso fremito primordiale. A un certo punto, in un passato inconcepibilmente remoto, una microscopica sacca contenente sostanze chimiche sussultò inquieta e varcò la soglia della vita. Assorbì un po' di nutrimento, pulsò flebilmente e godette una breve esistenza. Tutto questo probabilmente era già successo prima, forse molte altre volte. Ma questa piccola sacca ancestrale fece qualcos'altro, qualcosa di straordinario: si divise e generò una prole. Una minuscola quantità di materiale genetico passò così da un'entità vivente a un'altra, e da allora questa trasmissione non si è più fermata. Fu quello, per tutti noi, il momento della creazione. I biologi a volte lo chiamano Big Birth, la grande nascita.
« In qualsiasi parte del mondo, qualsiasi animale, pianta, baco o muffa, purché vivente, usa lo stesso dizionario e riconosce lo stesso codice. La vita è una sola» dice Matt Ridley.21 Tutti noi siamo il risultato di un unico virtuosismo genetico tramandatosi di generazione in generazione per circa 4 miliardi di anni, al punto che se si prende un frammento di istruzioni genetiche umane e le si utilizza per riparare una cellula di lievito difettosa, questa le utilizzerà come se fossero sue. E questo perché, in un senso molto profondo, sono sue.
L'alba della vita - o almeno qualcosa che le assomiglia molto - fa bella mostra di sé su uno scaffale nello studio di Victoria Bennett, una cordiale studiosa di geochimica degli isotopi che lavora allo Earth Science Building dell'Australian National University di Canberra. Americana, Bennett arrivò all'ANU dalla California nel 1989, con un contratto di due anni. Da allora, non se ne è più andata. Quando andai a trovarla, alla fine del 2001, mi mise in mano uno spuntone di roccia dal peso modesto, composto da sottili strisce alternate di quarzo bianco e di un materiale grigio-verde chiamato clinopirossene. La roccia proveniva da Akilia Island, in Groenlandia, dove nel 1997 erano state rinvenute rocce insolitamente antiche, risalenti a 3,85 miliardi di anni fa: reperti che rappresentavano i più antichi sedimenti marini mai trovati.
« Non possiamo essere sicuri che la roccia che lei ha in mano abbia un tempo contenuto degli organismi viventi: per scoprirlo dovremmo ridurla in polvere» mi spiegò Bennett.22 «Proviene però dallo stesso deposito da cui fu estratta la più antica forma di vita, quindi, probabilmente, anche in essa ve ne era. » Pur cercando con la massima attenzione, poi, non si troverebbero veri microbi fossili. Qualsiasi semplice organismo, purtroppo, sarebbe andato distrutto dai processi che hanno trasformato il fango dell'oceano in pietra. Ciò che invece riusciremmo a vedere se sbriciolassimo la roccia e la esaminassimo al microscopio sarebbero i residui chimici lasciati dagli organismi: isotopi di carbonio e un particolare tipo di fosfato chiamato apatite, i quali, se presenti insieme, costituiscono un'ottima prova del fatto che un tempo la roccia conteneva colonie di esseri viventi. «Possiamo soltanto ipotizzare quale aspetto avessero quegli organismi» mi disse Bennett. «Probabilmente si trattava della forma di vita più essenziale che si possa immaginare: ma era pur sempre vita. Era una creatura vivente. Si riproduceva. »
E alla fine portò a noi.
Per chi si intende di rocce molto antiche - e sicuramente Bennett fa parte del gruppo - l'ANU è un ottimo luogo in cui lavorare. Ciò si deve in gran parte alla genialità di Bill Compston che oggi è in pensione ma che negli anni Settanta costruì la prima shrimp (Sensitive High Resolution Ion Micro Probe, ovvero microsonda ionica sensibile ad alta risoluzione). Si tratta di uno strumento che misura la velocità di decadimento dell'uranio in minuscoli minerali chiamati zirconi. Gli zirconi sono presenti in quasi tutte le rocce non basaltiche e sono estremamente resistenti, giacché sopravvivono a ogni processo naturale, eccetto la subduzione. In massima parte, la crosta terrestre a un certo punto è scivolata verso l'interno del pianeta; eppure qua e là - per esempio nell'Australia occidentale e in Groenlandia - i geologi hanno rinvenuto affioramenti di rocce che sono sempre rimaste in superficie. La sonda di Compston ha permesso di datare queste rocce con una precisione senza paragoni. Il prototipo della shrimp fu costruito e messo in funzione nell'officina defl'Earth Sciences Department; sebbene avesse tutta l'aria di essere stato costruito con pezzi di recupero, funzionava magnificamente. Durante il collaudo ufficiale del 1982 datò il più antico ritrovamento della storia: una roccia di 4,3 miliardi di anni proveniente dall'Australia occidentale.
« All'epoca tutto ciò suscitò un certo trambusto: si trattava di un ritrovamento importantissimo, avvenuto molto rapidamente grazie a una tecnologia nuova di zecca » mi raccontò Bennett.
Poi mi accompagnò in un'altra stanza per mostrarmi il nuovo modello della sonda, la shrimp il: un'apparecchiatura voluminosa e pesante, in acciaio inossidabile, lunga forse tre metri e mezzo e alta uno e mezzo, costruita con la stessa solidità che caratterizza le sonde da usare negli abissi, Seduto davanti alla console, tenendo d'occhio una stringa di cifre in continuo movimento su uno schermo, c'era un uomo di nome Bob, proveniente dalla Canterbury University della Nuova Zelanda. Mi disse che era lì già dalle quattro del mattino. Erano appena passate le nove, e Bob doveva restare alla macchina fino a mezzogiorno. La shrimp n funziona 24 ore su 24: ci sono moltissime rocce da datare. Se chiedessimo a un paio di geochimici di spiegarci il funzionamento di una macchina come questa, comincerebbero a parlare di abbondanze isotopiche e livelli di ionizzazione con un entusiasmo che suscita più simpatia che comprensione. Nondimeno, il punto è che la macchina - bombardando un frammento di roccia con un fascio di atomi carichi - riesce a rilevare sottili differenze nelle quantità di piombo e uranio contenute nei campioni di zircone, differenze grazie alle quali è possibile dedurre con precisione l'età delle rocce. Bob mi spiegò che occorrono circa 17 minuti per analizzare uno zircone, ed è necessario effettuare diverse decine di letture su ogni campione di roccia se si vogliono ottenere dati attendibili. In pratica, la procedura sembrava comportare lo stesso livello di attività intermittente, e all'incirca la stessa stimolazione intellettuale, della visita a una lavanderia a gettoni. Bob, tuttavia, aveva un'aria molto contenta; va detto anche, però, che si tratta di una caratteristica condivisa da quasi tutti i neozelandesi.
Il complesso dell'Earth Sciences Department era una strana combinazione: in parte ufficio, in parte laboratorio, in parte magazzino per le apparecchiature. «Prima costruivamo tutto qua dentro » mi disse Bennett. « Avevamo addirittura il nostro soffiatore per la vetreria, ma ormai è andato in pensione. Però abbiamo ancora due frantumatori di roccia a tempo pieno. » Notò il mio sguardo di leggera sorpresa. « Esaminiamo molte rocce. Devono essere preparate con grande attenzione. Bisogna essere sicuri che non ci siano contaminazioni da parte dei campioni analizzati in precedenza; non deve esserci polvere o altro. Si tratta di un processo estremamente meticoloso. » Mi mostrò i macchinari per la frantumazione delle rocce - erano davvero in ottime condizioni -ma gli addetti alla frantumazione erano evidentemente in pausa caffè. Accanto alle macchine c'erano grandi casse contenenti rocce di ogni forma e dimensione. Effettivamente all'ANU esaminano molte rocce.
Tornati nello studio di Bennett dopo il giro per il dipartimento, notai che sulla parete c'era un poster raffigurante un'interpretazione - fantasiosa e colorata - della Terra così come sarebbe potuta apparire 3,5 miliardi di anni fa, proprio quando cominciavano a manifestarsi le prime forme di vita: il periodo che gli scienziati chiamano Archeano. Il poster raffigurava un paesaggio alieno dominato da enormi vulcani in piena attività e da un mare color rame, esalante vapore, sotto un cielo d'un rosso spietato. Le stromatoliti, un tipo di roccia batterica, riempivano i bassi fondali in primo piano. Non sembrava un luogo molto promettente per creare e
favorire la vita. Chiesi a Bennett se quella rappresentazione fosse accurata.
«Be', in realtà una scuola di pensiero sostiene che all'epoca facesse freddo, perché il sole era molto più debole di oggi. » (Qualche tempo dopo, scoprii che quando sono in vena di facezie i biologi si riferiscono a questo tema come al «problema del ristorante cinese», alludendo al pallore del sole di allora.) «In assenza di un'atmosfera, i raggi ultravioletti provenienti dal sole, per quanto debole esso fosse, avrebbero avuto la tendenza a spezzare qualsiasi legame incipiente tra le molecole. E tuttavia lì dentro» disse picchiettando col dito sulla stromatolite « ci sono organismi quasi in superficie. E proprio un rompicapo. »
« Quindi, non abbiamo idea di come fosse il mondo allora? »
«Mmmm» concordò lei pensierosa.
« Diciamo che in ogni caso le condizioni non erano favorevoli alla vita. »
Annuì affabilmente. «Eppure deve esserci stato qualcosa che la favorì. Altrimenti non saremmo qui. »
Di sicuro questo qualcosa non sarebbe stato adatto per noi. Se potessimo salire su una macchina del tempo e arrivare nell'antico mondo dell'Archeano, torneremmo immediatamente a bordo, perché all'epoca sulla Terra non c'era molto più ossigeno di quanto ce ne sia oggi su Marte. Il nostro pianeta era anche saturo di vapori nocivi derivanti dall'acido cloridrico e dall'acido solforico, potenti al punto di penetrare attraverso i vestiti e riempire la pelle di vesciche. Certo quel mondo non ci avrebbe offerto i panorami tersi e luminosi del poster appeso nello studio di Victoria Bennett.23 L'atmosfera era una sorta di densa cortina di sostanze chimiche che difficilmente avrebbe consentito ai raggi solari di raggiungere la superficie terrestre. Il poco che avreste potuto vedere, lo avreste colto solo per brevi istanti, illuminato dai lampi dei fulmini. In breve, si trattava della Terra, certo, ma era una Terra che avremmo stentato a riconoscere come il nostro pianeta.
Nel mondo dell'Archeano, gli anniversari da festeggiare erano piuttosto rari. Per due miliardi di anni, gli organismi batterici furono l'unica forma di vita. Vivevano, si riproducevano e sciamavano in grandissime quantità - ma non mostrarono mai un particolare interesse a evolvere verso un altro livello di esistenza, più impegnativo e stimolante. A un certo punto, durante il primo miliardo di anni dalla comparsa della vita, i cianobatteri o alghe azzurre cominciarono ad attingere a una risorsa disponibile e del tutto gratuita: l'idrogeno, la cui abbondanza nell'acqua è davvero spettacolare. Assorbivano le molecole d'acqua, si sostentavano con l'idrogeno e liberavano l'ossigeno come prodotto di rifiuto; inventarono così la fotosintesi. Come osservano Margulis e Sagan, la fotosintesi è «indubbiamente la singola innovazione metabolica più importante nella storia della vita sulla Terra », e a inventarla non furono le piante, ma i batteri.24
A mano a mano che i cianobatteri proliferavano, il mondo cominciò a riempirsi di O2, con grande costernazione degli organismi per i quali esso era tossico - a quei tempi, praticamente tutti. In un mondo che non fa uso di ossigeno, ossia in un mondo anaerobico, questo elemento è molto nocivo. I nostri globuli bianchi, infatti, lo usano per uccidere i batteri indesiderati.25 Il fatto che l'ossigeno sia fondamentalmente tossico spesso sorprende quanti fra noi considerano questa sostanza utilissima al loro benessere; in realtà è così solo perché noi siamo evoluti in modo da sfruttarlo. Per altre creature l'ossigeno è un flagello: in fondo, è lui che fa irrancidire il burro e arrugginire il ferro. E in realtà perfino noi possiamo tollerarlo solo fino a un certo punto. Il livello di ossigeno presente nelle nostre cellule è pari solo a circa un decimo di quello riscontrato nell'atmosfera.
I nuovi organismi capaci di sfruttare l'ossigeno avevano due vantaggi. L'ossigeno era un mezzo più efficace per produrre energia e in più sgominava gli organismi competitori. Di questi ultimi, alcuni si ritirarono nel mondo anaerobico e melmoso del fondo di laghi e acquitrini. Altri all'inizio fecero lo stesso, ma poi (molto tempo dopo) migrarono nell'apparato digerente di creature simili a noi. Un numero enorme di questi esseri primordiali vivono nel nostro corpo, in questo momento, e ci aiutano a digerire ciò che mangiamo. Eppure aborriscono l'ossigeno, anche in tracce minime. Altri organismi, un numero incalcolabile, non riuscirono ad adattarsi e morirono.
I cianobatteri ebbero un successo travolgente. All'inizio, l'eccesso di ossigeno che essi andavano producendo non si accumulò nell'atmosfera, ma si combinò con il ferro per formare ossidi ferrici,
che sprofondarono sui fondali dei mari primitivi. Per milioni di anni il mondo andò letteralmente arrugginendo: un fenomeno eloquentemente documentato nei depositi di ferro che forniscono gran parte del metallo estraibile. Per parecchie decine di milioni di anni, a parte questo, non accadde un gran che. Se tornassimo in quel primitivo mondo proterozoico, certamente non troveremmo molti segni promettenti che lascino ben sperare per la futura vita sulla Terra. Magari qua e là, in qualche stagno al riparo da tutto, potremmo scovare una sottile pellicola di schiuma brulicante di microrganismi, oppure un rivestimento lucente, verde e marrone, sulle rocce della riva. Per il resto la vita rimarrebbe invisibile.
Circa 3,5 miliardi di anni fa, però, comparve qualcosa di un po' più appariscente.26 Ovunque ci fossero fondali bassi, cominciarono a formarsi strutture chiaramente visibili. Mentre svolgevano il loro normale lavorio chimico, i cianobatteri divennero leggermente vischiosi, al punto da intrappolare microparticelle di polvere e sabbia, cementandole a formare strutture bizzarre ma solide: le stromatoliti raffigurate nelle acque basse in primo piano del poster appeso nello studio di Victoria Bennett. Le stromatoliti assunsero varie forme e dimensioni. Alcune sembravano enormi cavolfiori, altre soffici materassi; altre ancora avevano forma di colonne che si innalzavano per decine di metri - a volte fino a 100 metri - sulla superficie dell'acqua. Qualunque fosse la loro forma, erano una sorta di roccia viva e rappresentarono la prima joint venture della storia, stipulata fra organismi primitivi che vivevano in superficie e altri localizzati più in profondità, i quali traevano reciproco vantaggio gli uni dagli altri. Il mondo ebbe così il suo primo ecosistema.
Gli scienziati conoscevano le stromatoliti fossili da molti anni, ma la scoperta di una comunità di stromatoliti viventi a Shark Bay, lungo la remota costa nordoccidentale australiana, avvenuta nel 1961, lasciò tutti di stucco. Si trattò di un evento inaspettato; a tal punto inaspettato che dovette passare qualche anno prima che gli scienziati si rendessero conto di ciò che avevano scoperto. Oggi Shark Bay è un'attrazione turistica - per quanto possa esserlo un luogo distante centinaia di chilometri da qualsiasi cosa. Lungo la baia sono state costruite delle passerelle per consentire ai visitatori di camminare sull'acqua e vedere le stromatoliti che respirano silenziose sotto la superficie. Di colore grigio, opache, le stromatoliti somigliano, come ho già fatto notare in un mio libro precedente, a enormi mucchi di sterco di vacca. Ciò nondimeno, ritrovarsi a guardare relitti viventi di com'era la Terra 3,5 miliardi di anni fa è un'esperienza che dà le vertigini. Come ha detto Richard Fortey: « Questo è davvero un viaggiare nel tempo, e se il mondo fosse più sintonizzato sulle sue autentiche meraviglie, questa vita potrebbe essere famosa come le piramidi di Giza ».27 Uno non lo direbbe mai, ma queste rocce opache pullulano di vita: si stima (ovviamente è una stima) che contengano all'incirca tre miliardi di organismi viventi per metro quadrato. A volte, quando le stromatoliti liberano ossigeno, se si osserva attentamente, è possibile scorgere minuscole collane di bollicine che salgono in superficie. In due miliardi di anni questi minuscoli contributi innalzarono il livello di ossigeno presente nell'atmosfera terrestre portandolo al 20 per cento, preparando lo scenario al successivo capitolo, più complesso, della storia della vita.
C'è chi ha suggerito che i cianobatteri di Shark Bay siano forse gli organismi dall'evoluzione più lenta di tutto il pianeta.28 Sicuramente sono fra i più rari. Avendo aperto la strada a forme di vita più complesse, quasi ovunque furono poi divorati fino all'estinzione da quegli stessi organismi di cui avevano reso possibile la vita. A Shark Bay continuano a esistere perché in quella regione le acque sono troppo saline per ospitare le creature che, in altre circostanze, le avrebbero volentieri incluse nella propria dieta.
In parte, se la vita impiegò tanto tempo ad assumere forme più complesse fu perché il mondo dovette aspettare che gli organismi più semplici avessero ossigenato l'atmosfera a un livello sufficiente. «Gli animali non potevano ricavare l'energia per funzionare» come affermò Fortey.29 Sono occorsi due miliardi di anni, circa il 40 per cento della storia del pianeta, perché l'ossigeno raggiungesse l'attuale livello di concentrazione nell'atmosfera. Ma appena lo scenario fu pronto - ossia molto presto - si sviluppò un tipo di cellula interamente nuovo, contenente un nucleo e altri piccoli corpuscoli chiamati organuli (dal termine greco che significa « piccolo strumento »). Si ipotizza che il processo sia cominciato quando alcuni batteri si lasciarono catturare da altri microrganismi simili oppure li invasero, per goffaggine o sete di avventura, e la strana convivenza si rivelò proficua per entrambi. Si pensa che il batterio prigioniero divenne poi un mitocondrio. Questa invasione mitocondriale (o evento endosimbiotico, come amano chiamarlo i biologi) rese possibili forme di vita più complesse. Nelle piante, un'invasione simile produsse i cloroplasti, ossia gli organuli che consentono di realizzare la fotosintesi.
I mitocondri manipolano l'ossigeno in modo da liberare energia dagli alimenti. Senza questo trucco ingegnoso, oggi la vita sulla Terra sarebbe rappresentata solo da strati melmosi di semplici microbi.30 I mitocondri sono minuscoli - se ne possono stipare un miliardo nello spazio occupato da un granello di sabbia - ma anche molto voraci.31 Quasi tutto il nutrimento che assorbiamo serve a nutrire loro.
Non potremmo vivere neanche due minuti senza mitocondri, eppure dopo un miliardo di anni essi si comportano ancora come se il nostro rapporto fosse molto precario: conservano molecole e strutture proprie - dna, rna e ribosomi - e si riproducono in un momento diverso rispetto alla cellula ospite. Somigliano ai batteri, si moltiplicano come i batteri, e a volte rispondono agli antibiotici come i batteri. Non parlano neanche lo stesso linguaggio genetico della cellula in cui vivono. In poche parole, hanno sempre le valigie pronte. E come avere un estraneo in casa, un estraneo che è con noi da un miliardo di anni.
Il nuovo tipo di cellula, conosciuta col nome di eucariote (« con un vero nucleo ») in contrapposizione a quella più primitiva detta procariote («pre-nucleata»), sembra essere comparsa all'improvviso nella documentazione fossile. I più antichi eucarioti conosciuti, denominati Grypania, furono scoperti nel 1992 in sedimenti ricchi di ferro del Michigan. Fossili di questo tipo sono stati rinvenuti solo una volta: per i successivi 500 milioni di anni, non ne sono noti altri.32
La Terra aveva fatto il primo passo per diventare un pianeta davvero interessante. In confronto ai nuovi eucarioti, i vecchi procarioti erano poco più che piccole «sacche contenenti elementi chimici», espressione che prendo in prestito dal geologo britannico Stephen Drury.33 Gli eucarioti erano più grandi - fino a 10.000 volte più grandi - dei loro cugini più semplici e potevano contenere una quantità di dna fino a 1000 volte maggiore. A poco a poco, grazie a questi rivoluzionari cambiamenti, la vita divenne più complessa e generò due tipi di organismi: quelli che espellono ossigeno (come le piante) e quelli che lo assumono (come noi).
Un tempo gli eucarioti unicellulari erano chiamati protozoi («animali primitivi»), ma il termine a poco a poco è caduto in disuso; oggi sono comunemente denominati protisti. In confronto ai precedenti batteri, i nuovi protisti erano autentiche meraviglie di sofisticazione e design. La semplice ameba, composta da un'unica cellula e con la sola ambizione di esistere, contiene all'interno del proprio DNA 400 milioni di bit di informazione genetica, sufficienti - come osservò Cari Sagan - a riempire 80 libri di 500 pagine ciascuno.34
Infine, gli eucarioti impararono a eseguire un trucco ancor più particolare: occorse molto tempo - all'incirca un miliardo di anni -, ma quando cominciarono a padroneggiarne la tecnica si rivelò prezioso. Riuscirono ad aggregarsi dando luogo a creature pluricellulari complesse. Fu grazie a questa innovazione che divennero possibili entità grandi, complicate e visibili come noi: il pianeta Terra era pronto a passare a una fase più ambiziosa.
Prima che tutto questo ci dia alla testa, vale la pena di ricordare che il mondo, come vedremo tra poco, appartiene ancora alle creature microscopiche.
20. Com'è piccolo il mondo
Probabilmente non è una buona idea quella di interessarsi troppo ai microbi che convivono con noi. Louis Pasteur, il grande chimico e batteriologo francese, ne era così preoccupato che, a tavola, prese a scrutare criticamente con una lente d'ingrandimento ogni piatto che gli veniva presentato, abitudine che presumibilmente non dovette fruttargli molti inviti a cena.1
In effetti, è inutile tentare di sfuggire ai batteri, poiché essi si trovano sempre sul nostro corpo e intorno a noi e sono in quantità inimmaginabili. Se godiamo di buona salute e la nostra igiene personale rientra nella media, sulla nostra pelle pascola circa un trilione di batteri: ce ne sono pressappoco 100.000 per ogni centimetro quadrato.2 Si cibano dei circa 10 miliardi di piccole squame che la nostra pelle elimina ogni giorno, oltre che di tutti gli oli saporiti e i minerali corroboranti emessi da pori e fessure della cute. Per questi batteri noi rappresentiamo un magnifico buffet, oltretutto con il vantaggio del calore e di una costante mobilità nell'ambiente. A titolo di ringraziamento, loro ci lasciano addosso quello che chiamiamo odore corporeo.
E questi sono solo i batteri che abitano sulla nostra pelle. Ce ne sono trilioni di altri che si nascondono nell'intestino e nelle narici, che si arrampicano su capelli e sopracciglia, nuotano sulla superficie degli occhi e trapanano lo smalto dei denti. Solo l'apparato digerente ospita più di 100 trilioni di microbi, di almeno 400 tipi diversi.3 Alcuni attaccano gli zuccheri, altri gli amidi e alcuni se la prendono con altri batteri. C'è poi un numero sorprendente di essi - per esempio le ubiquitarie spirochete intestinali - che non svolge nessuna funzione rilevabile.4 A quanto pare, a queste creature piace stare con noi e basta. Ogni corpo umano è fatto di circa 10 quadrilioni di cellule, ma ospita pressappoco 100 quadrilioni di cellule batteriche.5 Possiamo dire che i batteri sono una grossa parte di
noi; quanto ai batteri, dal loro punto di vista potrebbero dire che noi siamo una parte alquanto piccola di loro.
Poiché noi umani siamo creature abbastanza grandi e intelligenti da produrre e usare antibiotici e disinfettanti, ci autoconvinciamo facilmente di aver relegato i batteri ai margini dell'esistenza: be', non contateci. I batteri non costruiscono città e non hanno una vita sociale molto interessante, questo è vero; ma quando il Sole esploderà, saranno ancora qui. Questo è il loro pianeta, e noi lo abitiamo solo perché loro ce lo consentono.
I batteri, non dimentichiamolo, hanno vissuto per miliardi di anni senza di noi; noi, al contrario, non riusciremmo a sopravvivere un solo giorno senza di loro.6 Sono loro che elaborano i nostri prodotti di rifiuto e li rendono nuovamente utilizzabili; se smettessero il loro diligente lavorio, nulla potrebbe più decomporsi. I batteri purificano l'acqua e assicurano la produttività del suolo, sintetizzano le vitamine nel nostro intestino, trasformano ciò che mangiamo in zuccheri e polisaccaridi utili e combattono microbi estranei che scivolano nel nostro esofago.
Per prelevare l'azoto presente nell'aria e trasformarlo in nucleotidi e amminoacidi utili, dipendiamo totalmente dai batteri. Si tratta di un'impresa di un'efficienza prodigiosa. Come osservano Margulis e Sagan, per fare la stessa cosa a livello industriale (per esempio nella produzione di fertilizzanti) occorre riscaldare le materie prime fino a 500 gradi Celsius, e poi sottoporle a una pressione 300 volte superiore al normale. I batteri ottengono lo stesso risultato, e lo fanno in continuazione, senza scomporsi più di tanto, il che è una gran fortuna, giacché nessun organismo di grandi dimensioni potrebbe sopravvivere senza l'azoto che essi rendono disponibile. Soprattutto, i microrganismi ci forniscono continuamente l'aria che respiriamo e mantengono stabile l'atmosfera; le forme di vita microscopica, comprese le versioni moderne dei cia-nobatteri, ci donano gran parte dell'ossigeno respirabile presente sul pianeta. Le alghe e gli altri minuscoli organismi attivi nelle acque marine rilasciano circa 150 miliardi di chilogrammi di ossigeno ogni anno, sotto forma di bollicine.7
La loro prolificità è sbalorditiva: i più frenetici possono dar vita a una nuova generazione in meno di 10 minuti. Clostridium per-fringens, l'odioso batterio che causa la cancrena, può riprodursi in 9 minuti e ricominciare subito a dividersi.8 In teoria, a questa
velocità un singolo batterio potrebbe produrre in soli due giorni una discendenza numericamente superiore ai protoni esistenti nell'universo.9 «Con un'adeguata fornitura di nutrienti, una sola cellula batterica può generarne 280.000 miliardi in un solo giorno», secondo il biochimico e premio Nobel belga Christian de Duve.10 Nello stesso lasso di tempo una cellula umana riesce a malapena a dividersi una volta.
Circa una volta ogni milione di divisioni i batteri producono un mutante. Di solito, per lui non è una gran fortuna, giacché per un organismo un cambiamento comporta sempre un rischio; molto sporadicamente, tuttavia, capita che il nuovo batterio presenti qualche vantaggio, per esempio la capacità di schivare o di sgominare l'attacco da parte di un antibiotico. Alla capacità di evolvere rapidamente ne è spesso associata un'altra, che fa ancora più paura. I batteri condividono l'informazione genetica. Ogni batterio è in grado di prelevare informazioni genetiche da qualsiasi altro batterio. Essenzialmente, come hanno detto Margulis e Sagan, tutti i batteri condividono un unico pool genico.11 Qualunque cambiamento adattativo si verifichi in un'area dell'universo batterico potrà diffondersi a qualsiasi altra area. È più o meno come se un uomo potesse andare da un insetto e prelevare da esso l'informazione genetica necessaria per farsi crescere le ali o camminare sul soffitto. Ciò significa che dal punto di vista genetico i batteri sono diventati un unico superorganismo: microscopico, disperso, ma invincibile.
Vivranno e prospereranno su tutto ciò che ci scrolleremo di dosso, verseremo o lasceremo gocciolare. Basta creare un minimo di umidità - come quando si passa un panno bagnato su un tavolo -per farli proliferare come se fossero stati creati dal nulla. Mangeranno il legno, la colla della carta da parati, i metalli nella vernice rappresa. Gli scienziati australiani scoprirono un microbo chiamato Thiobacillus concretivorans che non solo viveva in concentrazioni di acido solforico talmente forti da dissolvere il metallo, ma non avrebbe potuto farne a meno.12 Un'altra specie, Micrococcus radio-philus, viveva beatamente nei contenitori per le scorie dei reattori nucleari, dove si rimpinzava di plutonio e di quant'altro mai vi fosse contenuto. Alcuni batteri degradano sostanze chimiche dalle quali, per quanto ne sappiamo, non ricavano alcun beneficio.13
Ne sono stati trovati alcuni in pozze di fango bollente, nella soda caustica, all'interno delle rocce, sui fondali marini, nelle pozze di
acqua ghiacciata nelle McMurdo Dry Valleys dell'Antartide, nonché a 11 chilometri di profondità nell'oceano Pacifico, dove la pressione è più di 1000 volte superiore rispetto a quella di superficie: qualcosa che equivale, più o meno, a rimanere schiacciati sotto il peso di 50 jumbo jet. Alcune di queste creature sembrano praticamente indistruttibili. Deinococcus radiodurans è, secondo l'Economist, « quasi immune dalla radioattività ». Se si bombarda di radiazioni il suo dna, i frammenti immediatamente torneranno a ricongiungersi, « come le membra ancora pulsanti di vita di uno zombie da film dell'orrore».14
Forse, il caso di sopravvivenza più straordinario trovato finora è quello del batterio Streptococcus rinvenuto sulle lenti sigillate di una macchina fotografica rimasta sulla Luna per due anni.13 Per farla breve, gli ambienti in cui i batteri non sono preparati a vivere sono ben pochi. « Quando hanno calato delle sonde dentro le bocche idrotermali sui fondali oceanici - luoghi dove la temperatura è così elevata che le sonde stesse cominciano a sciogliersi - hanno scoperto che ci sono batteri anche lì » mi spiegò Victoria Bennett.
Negli anni Venti due scienziati della University of Chicago, Edson Bastin e Frank Greer, annunciarono di aver isolato da pozzi di petrolio alcuni ceppi di batteri che vivevano a una profondità di 600 metri. La notizia fu liquidata come fondamentalmente assurda: non c'era niente di cui vivere a 600 metri - e per cinquantanni si diede per scontato che i campioni fossero stati contaminati da microbi di superficie. Oggi sappiamo che molti microbi vivono nelle viscere della Terra, e la maggior parte di essi non ha niente a che fare con il mondo organico convenzionale. Mangiano rocce o, più precisamente, ciò che si trova nelle rocce: ferro, zolfo, manganese eccetera. E respirano sostanze altrettanto strane: ferro, cromo, cobalto e perfino uranio. I loro processi metabolici possono contribuire alla concentrazione di oro, rame e altri metalli preziosi, e forse di giacimenti di petrolio e gas naturale. È stato suggerito che siano state proprio queste creature, con il loro insaziabile appetito, a creare la crosta terrestre.16
Oggi alcuni scienziati pensano che sotto i nostri piedi, negli ecosistemi ipogei popolati dai microrganismi litotrofi, possano esserci fino a 100 trilioni di tonnellate di batteri. Thomas Gold della Cornell University ha calcolato che se si prelevassero tutti i batteri dall'interno della Terra e si riversassero sulla superficie, ricoprirebbero tutto il pianeta con uno strato spesso 15 metri, all'incirca l'altezza di un palazzo a quattro piani.17 Se le stime sono corrette, potrebbe esserci più vita sottoterra che non sopra.
A grandi profondità i microbi diventano più piccoli ed estremamente pigri. I più vivaci si dividono non più di una volta ogni secolo, alcuni addirittura non più di una volta ogni cinque.18 Come è stato scritto sull'Economist: « il segreto per una lunga vita, a quanto pare, è di non essere troppo attivi».19 Quando le cose si mettono davvero male, i batteri sono programmati per spegnere tutto il loro sistema e aspettare tempi migliori. Nel 1997 gli scienziati attivarono con successo alcune spore di antrace rimaste dormienti per 80 anni dentro la teca di un museo di Trondheim, in Norvegia. Altri microrganismi sono ritornati alla vita dopo essere stati liberati da una scatoletta di carne e da una lattina di birra nelle quali si trovavano rispettivamente da 118 e 166 anni.20 Nel 1996 gli scienziati russi dell'Accademia delle Scienze annunciarono di aver riportato in vita batteri rimasti congelati nel permafrost siberiano per 3 milioni di anni.21 Tuttavia, il record ufficiale è quello riportato da Russell Vreeland e i suoi colleghi della West Chester University in Pennsylvania, che nel 2000 annunciarono di aver resuscitato Bacillus permians, un batterio di 250 milioni di anni rimasto intrappolato in giacimenti di sale a 600 metri di profondità nel sottosuolo di Carlsbad, nel New Mexico. Se fosse veramente così, questo microbo sarebbe ancor più vecchio degli attuali continenti.22
Il ritrovamento suscitò qualche ragionevole dubbio. Molti biochimici sostenevano che in un simile lasso di tempo le componenti del microbo si sarebbero irrimediabilmente degradate, a meno che, di tanto in tanto, il batterio non si fosse risvegliato. E comunque, quand'anche il batterio in questione si fosse di tanto in tanto riattivato, nessuna plausibile fonte interna di energia sarebbe potuta durare tanto a lungo. Gli scienziati più scettici suggerirono che il campione potesse essere stato contaminato: se non durante il ritrovamento, probabilmente quando si trovava ancora nel sottosuolo.23 Nel 2001 un'equipe dell'università di Tel Aviv sostenne che B. permians era quasi identico a un batterio odierno, Bacillus mari-smortui, rinvenuto appunto nel mar Morto. I due microrganismi differivano per due sole sequenze genetiche, e anche in quelle solo leggermente.
«Dobbiamo dunque ritenere» scrissero i ricercatori israeliani «che in 250 milioni di anni B. permians abbia accumulato la stessa quantità di differenze genetiche che avrebbe potuto raggiungere in soli 3-7 giorni di laboratorio? » Per tutta risposta, Vreeland asserì che « in laboratorio i batteri si evolvono più velocemente di quanto facciano in natura ».
Può darsi.
È significativo che in piena era spaziale la maggior parte dei testi scolastici dividesse ancora il mondo degli esseri viventi in due sole categorie: piante e animali. I microrganismi non comparivano quasi mai. Amebe e altri organismi unicellulari venivano trattati come proto-animali e le alghe come proto-piante. I batteri erano solitamente associati alle piante, anche se tutti sapevano benissimo che non era quello il loro posto.24 Già verso la fine del diciannovesimo secolo il naturalista tedesco Ernst Haeckel aveva suggerito che i batteri meritassero di essere collocati in un regno separato, da lui chiamato delle monere; l'idea però cominciò a trovare consenso solo negli scorsi anni Sessanta e anche allora ad abbracciarla furono solo pochi biologi. (Faccio notare che il mio fidato dizionario American Heritage del 1969 non contiene il termine.)
Anche molti organismi del mondo visibile rientravano con difficoltà nella divisione tradizionale. Quelli appartenenti al regno dei funghi - ossia i funghi commestibili, le muffe, i lieviti e le vesce -erano quasi sempre considerati come oggetti di interesse botanico, sebbene in effetti le loro modalità di riproduzione, respirazione e sviluppo non abbiano proprio niente a che fare con il mondo vegetale. Dal punto di vista strutturale, i funghi hanno un maggior numero di caratteristiche in comune con gli animali, giacché costruiscono le proprie cellule utilizzando chitina, una sostanza che conferisce loro una caratteristica consistenza; essa è presente anche nei gusci degli insetti e negli artigli dei mammiferi; la chitina di un cervo volante, comunque, non è nemmeno lontanamente saporita come quella di un fungo prataiolo. Inoltre, a differenza di tutte le piante, i funghi non sono fotosintetici, quindi non hanno clorofilla e pertanto non sono verdi. Essi crescono direttamente sulla loro fonte di nutrimento, che può essere rappresentata praticamente da qualsiasi cosa. I funghi assorbiranno lo zolfo da una parete di cemento
oppure la sporcizia che si forma tra le dita dei piedi di un essere umano: due cose, queste, che nessuna pianta è in grado di fare. L'unica caratteristica che li rende simili a una pianta è il fatto che vivono ancorati al substrato.
Ancor più refrattario alle classificazioni era quel particolarissimo gruppo di organismi scientificamente denominati mixomiceti, altrimenti noti come muffe mucillaginose. Senza dubbio questi nomi hanno contribuito a confinare queste creature nell'oscurità. Un appellativo che suonasse un po' più dinamico - per esempio: protoplasma mobile auto-attivante - e che ricordasse un po' meno il materiale che si trova in una tubatura fognaria intasata, avrebbe assicurato a queste straordinarie creature l'attenzione che meritano. Le muffe mucillaginose sono infatti fra i più interessanti organismi esistenti in natura. In condizioni favorevoli, si presentano come individui unicellulari molto simili alle amebe; quando però le circostanze si fanno ostili, essi strisciano tutti in un unico luogo dove si uniscono e diventano, quasi per miracolo, un plasmodio. Quest'ultimo non è certo un esempio di bellezza, né si spinge molto lontano: di solito si porta dalla base di un mucchio di detrito fogliare fin sulla sua cima, dove si trova leggermente più esposto; per milioni di anni, tuttavia, questo potrebbe essere stato l'espediente più ingegnoso dell'universo. E non finisce qui. Dopo essersi innalzata fino a raggiungere una posizione più favorevole, la muffa mucillaginosa si trasforma nuovamente, assumendo una forma simile a una pianta. Grazie a un curioso processo, le cellule si dispongono secondo un nuovo ordine - proprio come i membri di una banda musicale - per costituire un gambo in cima al quale si forma un bulbo definito corpo fruttifero. All'interno di quest'ultimo ci sono milioni di spore che, al momento opportuno, vengono rilasciate affinché il vento le porti lontano, dove diventeranno organismi unicellulari in grado di ricominciare il ciclo.
Per anni zoologi e micologi hanno cercato di inserire le muffe mucillaginose rispettivamente fra i protozoi e i funghi, nonostante fossero in molti ad aver capito che in realtà questi organismi non appartenevano a nessuno dei due regni. Quando divenne possibile effettuare i test genetici, i camici bianchi rimasero stupiti nello scoprire che queste creature erano talmente particolari da non avere una parentela diretta con nessun altro organismo - e a volte nemmeno fra di loro.
Nel 1969, durante un tentativo di mettere un poco di ordine nelle sempre più cospicue inadeguatezze della classificazione, R.H. Whirtaker - un ecologo della Cornell University - avanzò sulla rivista Science la proposta di suddividere l'albero della vita in 5 rami principali - noti come regni - denominati Animalia, Plantae, Fungi, Protista e Monera.25 Il termine protisti derivava dalla modificazione di una parola più antica, protoctista, proposta un secolo prima dal biologo scozzese John Hogg, e doveva indicare qualunque organismo che non fosse né una pianta né un animale.
Sebbene il nuovo schema di Whittaker costituisse un grande miglioramento, il regno dei protisti rimase mal definito. Alcuni tassonomisti riservarono il termine ai grandi organismi unicellulari - gli eucarioti -, ma altri lo utilizzarono come una sorta di cassetto dei calzini spaiati, infilandoci tutto ciò che non rientrava in nessu-n'altra categoria. A seconda dei testi consultati, esso poteva comprendere, oltre a molte altre cose, le muffe mucillaginose, le amebe e perfino le alghe marine. Secondo una stima, conteneva quasi 200.000 specie di organismi diversi.26 Un po' troppi come calzini spaiati.
Per ironia della sorte, proprio mentre la classificazione in cinque regni di Whittaker stava cominciando a farsi strada nei libri di testo, Cari Woese - uomo dal temperamento schivo, professore alla University of Illinois - stava procedendo verso una scoperta che avrebbe rimesso tutto in discussione. Fin dalla metà degli anni Sessanta - non appena era stato possibile farlo - Woese si era messo silenziosamente a studiare le sequenze geniche dei batteri. A quei tempi si trattava di un autentico lavoro da certosino: il lavoro su un singolo batterio poteva richiedere un anno intero. Stando a quanto racconta Woese, all'epoca le specie di batteri conosciute erano all'incirca solo 500, in pratica meno di quelle che prosperano nella nostra bocca.27 Oggi il numero è quasi 10 volte superiore, anche se siamo ancora lontani dalle 26.900 specie di alghe, 70.000 di funghi e 30.800 di amebe e organismi simili, le cui biografie riempiono gli annali di biologia.
Non è l'indifferenza a tenere basso il totale: il fatto è che l'isolamento e lo studio dei batteri può essere un'impresa così difficile da risultare esasperante. Solo circa l'1 per cento dei batteri cresce in coltura.28 Considerata la loro straordinaria capacità di adattarsi nell'ambiente naturale, è strano che l'unico luogo in cui non abbiano voglia di vivere è una capsula petri. Metteteli su un letto di agar e poi viziateli quanto vi pare: la maggior parte di essi si limiterà a starsene lì senza far niente, ignorando ogni stimolo a riprodursi. Per definizione, qualsiasi batterio prosperi in laboratorio è un'eccezione; eppure gli organismi studiati dai microbiologi appartenevano quasi esclusivamente a questa categoria. Secondo Woese, era un po' « come studiare gli animali visitando i giardini zoologici ».29
I geni, comunque, consentirono a Woese di accostarsi al mondo dei microrganismi da un altro punto di vista. Mentre lavorava, si accorse che in quel mondo esistevano divisioni più importanti di quanto si sospettasse. Molti piccoli organismi, simili ai batteri dal punto di vista morfologico e comportamentale, erano in realtà creature completamente diverse, allontanatesi dai batteri in tempi remotissimi. Woese chiamò questi organismi archeobatteri, successivamente abbreviato in archea (Archaea).
Occorre segnalare che le caratteristiche che distinguono gli archea dai batteri sono quel genere di cosa capace di dare il batticuore solo a un biologo. Più che altro, le differenze riguardano il profilo lipidico e l'assenza di una molecola denominata peptido-glicano. All'atto pratico, però, una differenza enorme: gli archea somigliano ai batteri meno di quanto noi somigliamo a un granchio o a un ragno. Lavorando da solo, Woese aveva scoperto una differenza fra i viventi che in realtà nessuno si aspettava, una differenza talmente fondamentale da collocarsi al di sopra di quella fra i vari regni, in cima all'albero universale della vita, come esso viene chiamato con tono piuttosto reverenziale.
Nel 1976 Woese sorprese il mondo - o almeno quella piccola parte di mondo che gli prestò attenzione - ridisegnando l'albero della vita in modo che contenesse non più solo cinque divisioni principali ma ventitré, raggruppate in tre categorie principali che chiamò domini: Bacteria, Archaea ed Eukarya. La nuova classificazione era la seguente:
Bacteria: cianobatteri, batteri purpurei, batteri gram-positivi, batteri verdi non sulfurei, flavobatteri e Thermotogales. Archaea: archeobatteri alofili, Methanosarcina, Methanobacterium, Methanococcus, Thermoceler, Thermoproteus e Pyrodictium. Eukarya: diplomonadi, microsporidi, tricomonadi, flagellati, enta-mebe, muffe mucillaginose, ciliari, piante, funghi e animali.
Le nuove categorie di Woese non suscitarono molto clamore tra i biologi; alcuni liquidarono sbrigativamente la sua classificazione perché ritenevano che desse troppa enfasi al mondo microbico, molti altri la ignorarono e basta. Woese, stando a quanto racconta Frances Ashcroft, « provò un'amara delusione ».30 Tuttavia, sia pur lentamente, il suo nuovo schema cominciò a far presa tra i microbiologi. Botanici e zoologi impiegarono molto più tempo ad apprezzarne i pregi, e non è difficile capire perché. Nel modello di Woese il mondo botanico e zoologico erano relegati a rappresentare qualche germoglio sul ramo più esterno degli eucarioti. Tutte le altre creature erano organismi unicellulari.
«I miei colleghi sono stati abituati a classificare in termini di somiglianze e differenze morfologiche macroscopiche» dichiarò Woese in un'intervista del 1996. «Per molti di loro, l'idea di classificare in termini di sequenze molecolari è un po' dura da mandare giù. » In poche parole, se i biologi non riuscivano a vedere una differenza con i propri occhi, non le davano peso. Questo spiega come mai insistettero nell'usare la più convenzionale classificazione in 5 regni: uno schema che Woese definì «non particolarmente utile » nei momenti in cui era più diplomatico e « del tutto fuorviante » nella maggior parte delle altre circostanze. « La biologia, come la fisica prima di lei » scrisse Woese, « è arrivata a un livello in cui gli oggetti di studio e le loro interazioni spesso non possono essere percepiti tramite osservazione diretta. »31
Nel 1998 Ernst Mayr - grande zoologo di Harvard che all'epoca aveva 94 anni - contribuì ad animare ulteriormente il dibattito dichiarando che si dovessero riconoscere solo due divisioni principali di organismi viventi, da lui definite imperi. In un articolo pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences, Mayr affermò che le scoperte di Woese erano interessanti, ma in ultima analisi fuorvianti, sottolineando che « Woese non aveva una formazione da biologo e dunque era assolutamente naturale che non avesse una grande familiarità con i principi della classificazione», il che, nel linguaggio degli insigni scienziati, significa andar molto vicino a dire che un collega
non sa di che cosa stia parlando.32 Le critiche di Mayr sono molto tecniche: riguardano, fra le altre cose, argomenti quali la sessualità meiotica, il cladismo di Hennig e le controverse interpretazioni del genoma di Methanobacterium thermoautrophicum. In fondo, comunque, Mayr sostiene che la classificazione di Woese sbilancia l'albero della vita. Il regno dei batteri, osserva Mayr, è costituito da non più di qualche migliaio di specie; quello degli archea conta 115 esemplari nominati, e forse qualche altro migliaio da scoprire, «ma difficilmente di più». Al contrario, il regno degli eucarioti - quello degli organismi più complessi, uomo compreso, dotati di cellule nucleate - conta già milioni di specie. Per rispettare il « principio dell'equilibrio », Mayr vorrebbe riunire i semplici organismi batterici in un'unica categoria, quella dei procarioti, e classificare i rimanenti - più complessi e «altamente evoluti» - nell'impero degli eucarioti, in modo che si bilancino. In altre parole, Mayr si batte per mantenere le cose com'erano. Secondo lui, è a livello di questa divisione fra cellule semplici e cellule complesse che si trova «la grande frattura nel mondo degli esseri viventi». Se la nuova classificazione di Woese ci ha insegnato qualcosa, è che la vita è davvero varia e che gran parte di questa varietà si esprime in piccole creature unicellulari a noi poco familiari. Per l'uomo è del tutto naturale pensare all'evoluzione come a una lunga catena di miglioramenti, un cammino senza fine verso il raggiungimento di maggiori dimensioni e maggiore complessità - in altre parole, verso gli esseri umani: ci compiaciamo di noi stessi. Tuttavia, nel corso dell'evoluzione, gran parte della diversità si è manifestata su piccola scala. Grandi creature come gli esseri umani sono solo, per così dire, colpi di fortuna - nell'albero della vita, un ramo interessante, certo, ma laterale. Delle ventitré principali divisioni della vita, soltanto tre (piante, animali e funghi) sono abbastanza grandi da poter essere viste a occhio nudo, e anch'esse, comunque, comprendono specie microscopiche.33 Per la verità, secondo Woese, se si calcolasse l'intera biomassa del pianeta (ogni essere vivente, piante incluse) i microbi renderebbero conto di almeno l'80 per cento del totale, se non di più.34 Il mondo appartiene alle creature più piccole. Ed è così da moltissimo tempo. Ma allora perché, ci chiederemo, accade tanto spesso che i microbi ci vogliano fare del male? Che soddisfazione può provare una di queste microscopiche creature a farci venire la febbre e a scuoterci di brividi? Oppure a sfigurarci di piaghe o peggio ancora a ucciderci? Un ospite morto, dopotutto, diffìcilmente potrà offrire ospitalità a lungo. Tanto per cominciare, è il caso di ricordare che la maggior parte dei microrganismi è del tutto inoffensiva, se non addirittura benefica per la nostra salute. L'organismo più infettivo del pianeta, un batterio chiamato Wolbachia, è del tutto innocuo per l'uomo -anzi, per qualunque vertebrato - ma nel caso di gamberi, vermi o moscerini, può far loro rimpiangere di essere nati.35 Secondo il National Geographic, soltanto un microbo su mille è patogeno per l'uomo; d'altra parte, sapendo ciò che alcuni di essi riescono a combinare, ci perdoneranno se pensiamo che sia già abbastanza.36 Sebbene per la maggior parte siano innocui, i microbi sono ancora al terzo posto fra i killer del mondo occidentale e anche molti di quelli che non uccidono ci danno comunque ottime ragioni per rammaricarci della loro esistenza.37 Per un microbo, far ammalare l'ospite comporta di sicuro alcuni vantaggi. Spesso, i sintomi di una malattia contribuiscono a diffonderla. Vomito, starnuti e diarrea sono ottimi metodi per farsi espellere da un ospite e mettersi in condizione di approdare su un altro. La strategia più efficace è quella di ottenere l'aiuto di una terza parte capace di movimento. Gli agenti infettivi adorano le zanzare perché il loro pungiglione li trasporta direttamente nel sangue del nuovo ospite, dove possono mettersi all'opera prima che i suoi meccanismi difensivi si rendano conto di che cosa li abbia colpiti. È per questo che così tante gravi patologie (malaria, febbre gialla, dengue, encefalite e un centinaio di altre meno note ma spesso virulente) hanno inizio con la puntura di una zanzara. È una fortuna per noi che l'aids non sia fra queste, o almeno non ancora. Tutto l'hiv - il virus responsabile dell'AiDS - che la zanzara succhia durante i suoi viaggi viene degradato dai processi metabolici dell'insetto. Quando il virus imparerà ad aggirarli, saranno guai seri. È uno sbaglio, comunque, considerare l'argomento concentrandosi troppo sui suoi aspetti logici, giacché è evidente che i microrganismi non sono entità in grado di effettuare calcoli. A loro non importa della sofferenza che ci causano, esattamente come a noi non importa quella che causiamo a loro quando li sterminiamo a milioni con il bagnoschiuma o una spruzzata di deodorante. L'unico caso in cui la continuità del nostro benessere ha un peso per l'agente patogeno è quando quest'ultimo ci uccide troppo in fretta. Se i microbi ci eliminano prima di potersi trasferire su un altro ospite, possono morire anche loro. «La storia della medicina» osserva Jared Diamond « è piena di episodi del genere: malattie misteriose, che non somigliano a nessuna di quelle note oggi, che appaiono, causano epidemie tremende e poi scompaiono misteriosamente così come erano venute. »38 E cita la violenta epidemia di febbre miliare inglese - violenta ma fortunatamente passeggera -che si presentò a più riprese fra il 1485 e il 1552, uccidendo decine di migliaia di persone prima di esaurirsi. Un eccesso di efficienza non giova a nessun agente infettivo. Gran parte della sofferenza deriva non tanto da ciò che l'organismo patogeno fa a noi, ma da ciò che il nostro corpo cerca di fare a lui. Durante la battaglia per liberare l'organismo dai patogeni, a volte il sistema immunitario distrugge le cellule oppure danneggia tessuti importanti: spesso, perciò, quando non stiamo bene non è colpa dei microrganismi, ma della nostra risposta immunitaria. A ogni modo, ammalarsi è una reazione ragionevole all'infezione; chi si ammala si infila a letto sotto le coperte, rappresentando in tal modo una minaccia meno pericolosa per la comunità più ampia. Proprio perché esistono moltissimi organismi che possono nuocerci, il nostro corpo è dotato di una gran varietà di globuli bianchi: all'incirca dieci milioni di tipi, ciascuno dei quali fatto apposta per identificare e distruggere un particolare tipo di invasore. Poiché sarebbe spaventosamente inefficiente mantenere dieci milioni di eserciti in attesa di scendere in campo, ogni tipo di globulo bianco è rappresentato solo da pochi ricognitori in servizio permanente. Quando un agente infettivo (il cosiddetto antigene) dà inizio all'invasione, i ricognitori specifici lo identificano e chiamano i rinforzi corrispondenti. Mentre il suo organismo produce questi difensori, con ogni probabilità l'ospite si sente malissimo. L'inizio della ripresa coincide con l'entrata in azione delle truppe. I globuli bianchi sono spietati: danno la caccia e uccidono tutti i patogeni che riescono a scovare. Per evitare l'estinzione, gli invasori hanno evoluto due strategie elementari. Possono colpire velocemente e poi trasferirsi immediatamente in un nuovo ospite, come succede nelle infezioni più comuni, per esempio l'influenza; oppure possono mascherarsi, in modo che i globuli bianchi non riescano a localizzarli, come succede con l'HIV, che può restare silente nel nucleo delle cellule e passare inosservato anche per anni prima di entrare in azione. Uno degli aspetti più strani delle infezioni è che microbi normalmente innocui a volte finiscono nelle parti sbagliate del corpo e «in un certo senso impazziscono», per usare le parole di Bryan Marsh, specialista di malattie infettive presso il Dartmouth-Hitch-cock Medical Center di Lebanon, nel New Hampshire. « Succede in continuazione nel caso di incidenti d'auto in cui i feriti riportano lesioni interne: microbi che di norma non sono patogeni finché restano nell'intestino si spostano in altre parti del corpo - nel sangue, per esempio - e provocano danni terribili. » L'infezione batterica più temibile e attualmente fuori controllo è una malattia nota come fascite necrotizzante in cui i batteri, essenzialmente, divorano la vittima dall'interno, consumandone voracemente i tessuti e lasciando al loro posto una poltiglia tossica.39 Spesso al momento del ricovero i pazienti hanno sintomi relativamente leggeri (di solito febbre e rash cutaneo), ma in seguito peggiorano in modo drammatico. Al momento di operare il paziente, spesso si scopre che qualcosa lo sta, né più né meno, divorando. L'unica terapia possibile è un cosiddetto intervento radicale, che consiste nell'escissione chirurgica di ogni millimetro di area infetta. Il settanta per cento dei pazienti muore; fra i sopravvissuti, molti restano orribilmente sfigurati. La causa dell'infezione è una comune famiglia di batteri, gli streptococchi del gruppo A, che normalmente causano semplici mal di gola. Molto sporadicamente e per ragioni sconosciute, alcuni di questi batteri attraversano le mucose della gola e si spingono all'interno dell'organismo, dove causano danni devastanti. Sono completamente resistenti agli antibiotici. Negli Stati Uniti si registrano all'incirca un migliaio di casi all'anno, e nessuno può dire se in futuro le cose peggioreranno oppure no. Con la meningite succede esattamente lo stesso. Almeno il dieci per cento dei giovani adulti e forse il trenta per cento degli adolescenti convivono con il meningococco, un batterio potenzialmente letale che vive senza arrecare alcun fastidio in gola. Di tanto in tanto però, in circa un giovane su centomila, questo microrganismo penetra nel sangue e scatena una malattia grave. Nei casi peggiori, la morte può sopraggiungere nell'arco di dodici ore: una rapidità sconvolgente. «Uno può stare benissimo a colazione, e all'ora di cena essere già morto» spiega Marsh. Riusciremmo a mietere molti più successi contro i batteri se solo non usassimo in modo tanto indiscriminato le nostre armi migliori: gli antibiotici. Vale la pena di notare che, stando a una stima, il settanta per cento degli antibiotici utilizzati nel mondo industrializzato viene somministrato ad animali da allevamento - spesso insieme al cibo - al solo scopo di promuoverne la crescita e prevenire le infezioni. Un simile utilizzo degli antibiotici dà ai batteri ottime opportunità di evolvere una farmacoresistenza. Ed è un'opportunità che essi hanno colto al volo. Nel 1952 la penicillina era efficace contro il cento per cento dei ceppi di stafilococco, al punto che, all'inizio degli anni Sessanta, William Stewart - ai tempi Surgeon General, l'autorità a capo dei servizi per la salute pubblica statunitensi - si sentì abbastanza ottimista da dichiarare: « È arrivato il momento di chiudere il capitolo delle malattie infettive. Le infezioni sono state fondamentalmente spazzate via dagli Stati Uniti».40 Proprio mentre parlava, invece, all'incirca il novanta per cento dei patogeni era all'opera per sviluppare l'immunità dalla penicillina; ben presto negli ospedali cominciò a presentarsi uno di questi ceppi antibioticoresistenti: lo stafilococco aureo resistente alla meticillina.41 Un solo antibiotico, la vancomicina, ha conservato la propria efficacia contro di esso, anche se nel 1997 un ospedale di Tokyo segnalò la comparsa di un ceppo resistente anche a questo farmaco.42 Nel giro di qualche mese il batterio si era già diffuso in altri sei ospedali giapponesi. Ora i microbi stanno ricominciando a vincere la guerra dappertutto: soltanto negli ospedali statunitensi, a causa delle infezioni nosocomiali muoiono ogni anno circa quattordicimila persone. Come osservò James Surowiecki in un articolo per il New Yorker, di fronte alla possibilità di scegliere fra investire nella ricerca di antibiotici (che si assumono una volta al giorno per due settimane) o nella ricerca di antidepressivi (che si prendono una volta al giorno per tutta la vita) le case farmaceutiche hanno optato per questi ultimi, il che certo non ci sorprende.43 Sebbene alcune molecole siano state migliorate, è ormai dagli anni Settanta che l'industria farmaceutica non propone nuovi antibiotici. E la nostra avventatezza è tanto più allarmante se si considera che molte altre patologie potrebbero essere di origine batterica. Il processo che portò a questa scoperta ebbe inizio nel 1983, quando Barry Marshall - un medico di Perth, nell'Australia occidentale - si accorse che molti tumori allo stomaco e la maggior parte delle ulcere gastriche erano causati da un batterio chiamato Helicobacter pylori. Nonostante i dati di Marshall fossero facili da verificare in laboratorio, il concetto era talmente radicale che occorsero oltre dieci anni perché essi fossero accettati a livello generale. Negli Stati Uniti, per esempio, il National Institutes of Health accettò l'idea solo nel 1994.44 « Centinaia, se non migliaia, di persone sono probabilmente morte di ulcera, quando tutto questo avrebbe potuto essere evitato» dichiarò Marshall nel 1999 a un cronista della rivista Forbes.45 Da quel momento in poi, le ricerche hanno dimostrato che c'è, o potrebbe esserci, una componente batterica in moltissimi tipi di malattie: cardiopatie, asma, artriti, sclerosi multipla, diversi generi di disturbi mentali, molti tumori e perfino - com'è stato ipotizzato su Science - nell'obesità.46 Il giorno in cui avremo un disperato bisogno di un antibiotico efficace, e non ne avremo nessuno a disposizione, forse non è lontano. Sapere che anche i batteri possono ammalarsi può forse essere di qualche conforto. A volte essi vengono infettati dai batteriofagi (o, più semplicemente, fagi), un particolare tipo di virus. I virus sono entità strane e spiacevoli: « cattive notizie in un involucro proteico », come recita la memorabile definizione del premio Nobel Peter Medawar.47 Più piccolo e più semplice di un batterio, un virus, di per se stesso, non è nemmeno vivo. Se isolato, è inerte e innocuo; ma basta introdurlo in un ospite adatto perché torni immediatamente in attività - perché torni alla vita. Oggi conosciamo all'in-circa cinquemila tipi di virus, fra cui quelli che ci affliggono con centinaia e centinaia di malattie: dall'influenza e il raffreddore fino a quelle - come il vaiolo, la rabbia, la febbre gialla, l'ebola, la poliomielite e l'aids - che hanno maggiormente in odio il benessere umano.48 I virus prosperano sequestrando il materiale genetico di una cellula vivente e utilizzandolo per produrre altre particelle virali. Si riproducono in modo frenetico, finché la cellula in cui si trovano scoppia ed essi fuoriescono in cerca di altre cellule da invadere. Non essendo di per se stessi organismi viventi, possono permettersi di essere estremamente semplici; molti virus, compreso l'HIV, hanno anche meno di dieci geni, mentre al batterio più semplice ne servono diverse migliaia. Sono anche minuscoli, troppo piccoli per essere visti con un microscopio convenzionale. Solo nel 1943, con l'invenzione del microscopio elettronico, la scienza è riuscita a metter gli occhi addosso a un virus. Eppure, sono capaci di provocare danni immensi. Si stima che nel ventesimo secolo il solo virus del vaiolo abbia ucciso trecento milioni di persone.49 I virus hanno anche una capacità snervante di emergere in forme nuove, prendendoci di sorpresa, per poi sparire con la stessa velocità con cui sono comparsi. Nel 1916, in Europa e in America, si verificò uno di questi casi, quando molte persone si ammalarono di una strana malattia del sonno che divenne poi nota come encefalite letargica. I pazienti andavano a dormire e restavano addormentati. Farli alzare per mangiare o andare in bagno non comportava grandi difficoltà ed essi rispondevano con lucidità alle domande (sapevano dire chi fossero e dove si trovassero), ma il loro comportamento era sempre apatico. Comunque, non appena gli si consentiva di riposare, scivolavano nuovamente nel sonno più profondo, rimanendo in quello stato finché qualcuno non li destava. Alcuni andarono avanti così per mesi prima di morire; pochissimi sopravvissero e recuperarono la coscienza, ma non la vitalità di un tempo. Vivevano in uno stato di profonda apatia, «come vulcani spenti» per usare le parole di un medico. In dieci anni la malattia uccise quasi cinque milioni di persone: poi, silenziosamente, si estinse.50 Non le si dedicò molta attenzione perché nel frattempo il mondo era stato travolto da un'epidemia ancora peggiore, in realtà la peggiore della storia. La grande epidemia viene chiamata influenza suina o spagnola, ma quale che sia il nome che vogliamo darle si trattò di un virus feroce. La Prima guerra mondiale uccise ventuno milioni di persone in quattro anni: l'influenza suina fece altrettanto nei primi quattro mesi.51 Quasi l'ottanta per cento delle perdite americane durante la Prima guerra mondiale non fu dovuto al fuoco nemico ma all'influenza. In alcune unità dell'esercito il tasso di mortalità raggiunse l'ottanta per cento. La spagnola comparve sulla scena come una normale influenza nella primavera del 1918, ma nei mesi successivi - nessuno sa come o dove - riuscì a trasformarsi in qualcosa di molto più grave. Un quinto delle vittime presentava solo sintomi di lieve entità, ma gli altri si ammalarono gravemente e molti morirono. Alcuni in poche ore, altri dopo aver resistito qualche giorno. Negli Stati Uniti i primi decessi si registrarono fra i marinai di Boston alla fine dell'agosto 1918, ma l'epidemia si diffuse presto in tutto il paese. Furono chiuse le scuole e i locali pubblici, ovunque si indossavano le mascherine. Servì a poco. Fra l'autunno del 1918 e la primavera dell'anno successivo, in America morirono di spagnola 548.452 persone. Il bilancio delle vittime in Gran Bretagna fu di 220.000 morti, e cifre simili si registrarono in Francia e Germania. Nessuno conosce per certo il totale complessivo delle vittime, perché nel terzo mondo la documentazione relativa era spesso scarsa: sicuramente però non fu inferiore ai venti milioni ed è anzi molto probabile che si aggirasse intorno ai cinquanta. Alcune stime sono pervenute a un totale di cento milioni. Nel tentativo di mettere a punto un vaccino, le autorità sanitarie condussero esperimenti su volontari nel carcere militare di Deer Island, nel porto di Boston.52 Ai prigionieri fu promessa la grazia se fossero sopravvissuti ai test. Si trattava di esperimenti a dir poco estremi. In primo luogo si procedeva a iniettare ai soggetti un estratto di tessuto polmonare infetto prelevato da cadavere; in seguito occhi, naso e bocca venivano esposti ad aerosol infetti. Se i volontari riuscivano a non soccombere, veniva loro tamponata la gola con le secrezioni di pazienti malati o morenti. Se tutto questo non bastava a ucciderli, venivano fatti sedere con la bocca aperta mentre un paziente gravemente malato veniva sollevato in modo che potesse tossire loro in faccia. Sui trecento uomini - numero peraltro sorprendente - che si offrirono di partecipare come volontari alla sperimentazione, i medici ne selezionarono sessantadue. Nessuno di loro - non uno - contrasse il virus. L'unico ad ammalarsi fu il medico di reparto, che morì rapidamente. Con ogni probabilità, ciò accadde perché l'epidemia aveva già visitato il carcere qualche settimana prima, e i volontari, che erano tutti sopravvissuti a quel primo contatto, avevano ormai sviluppato un'immunità naturale. Molte cose riguardanti l'epidemia di spagnola del 1918 sono scarsamente comprese - o ci sfuggono ancora del tutto. Uno dei misteri, per esempio, è come abbia fatto a scoppiare all'improvviso ovunque, in paesi separati da oceani, catene montuose e altre barriere naturali. Un virus può sopravvivere soltanto qualche ora fuori dal corpo dell'ospite: ma allora come potè manifestarsi a Madrid, Bombay e Filadelfia nella stessa settimana? La risposta più probabile è che in realtà il virus fosse stato incubato e diffuso da persone che presentavano pochi sintomi o erano addirittura asintomatiche. Anche nelle epidemie di proporzioni normali, circa il dieci per cento della popolazione contrae l'influenza senza accorgersene perché non ne avverte i sintomi. Proprio perché continuano a circolare, queste persone tendono a essere i principali fattori di diffusione della malattia. Questo giustificherebbe l'ampia distribuzione dell'epidemia del 1918, ma non spiega ancora come il virus sia riuscito a mantenere un basso profilo per diversi mesi prima di manifestarsi in modo tanto esplosivo e pressoché contemporaneamente in tutto il mondo. Ancora più misterioso è il fatto che la malattia risultò molto più devastante per gli adulti. Di solito l'influenza colpisce più duramente i bambini piccoli e gli anziani, ma durante l'epidemia del 1918 i decessi furono più numerosi nella fascia di età compresa fra i venti e i quarant'anni. Gli anziani potrebbero aver beneficiato della resistenza acquisita in seguito a una precedente esposizione allo stesso ceppo; resta però un mistero il motivo per cui furono risparmiati i bambini. Ma l'enigma più grande è questo: perché l'influenza del 1918 fu così spaventosamente letale, mentre la maggior parte delle influenze non lo è affatto? Non ne abbiamo ancora la minima idea. Di tanto in tanto, alcuni ceppi di virus ricompaiono. Un virus russo, decisamente spiacevole, noto come HI NI, provocò nel 1933 - e poi nuovamente negli anni Cinquanta e Settanta - gravi epidemie su aree geografiche molto estese. Dove si ritirasse fra un'epidemia e l'altra è difficile a dirsi. Alcuni sostengono che i virus si nascondano nelle popolazioni di animali selvatici prima di cimentarsi con nuova generazione di esseri umani. Nessuno può escludere la possibilità che la grande epidemia di influenza suina possa tornare ad attaccarci. E se non sarà lei, potrebbero essere altre. Nuovi e spaventosi virus si sviluppano di continuo. I virus responsabili delle febbri di Ebola, Lassa e Marburgo tendono tutti a divampare per poi sparire, ma nessuno può dire se al momento stiano silenziosamente mutando nascosti da qualche parte, o se stiano semplicemente aspettando l'occasione per esplodere in un'epidemia catastrofica. Ormai è evidente che l'aids si trova fra noi da molto più tempo di quanto si sospettasse inizialmente. I ricercatori del Manchester Royal Infirmary scoprirono che un marinaio morto nel 1959 per un male misterioso e incurabile in realtà aveva contratto l'aids.53 Eppure, per chissà quali ragioni, il virus rimase quiescente per altri ventanni. E un miracolo che altre patologie simili non si siano diffuse. La febbre di Lassa fu descritta per la prima volta nel 1969, in Africa occidentale: si tratta di un patogeno estremamente virulento e poco compreso. Nel 1969 un medico che lavorava a New Haven, in un laboratorio di Yale, contrasse il virus mentre stava studiando la malattia.54 Lui riuscì a sopravvivere ma, fatto decisamente allarmante, si ammalò anche un tecnico che lavorava in un laboratorio vicino e che non era stato direttamente esposto al virus. Il tecnico morì. Il caso volle che la diffusione, a quel punto, si fermasse. Ma non possiamo confidare di essere sempre così fortunati. Il nostro stile di vita è un invito a nozze per le epidemie. I viaggi in aereo rendono possibile la diffusione di agenti infettivi in tutto il pianeta con sorprendente facilità. Il virus dell'ebola potrebbe trovarsi all'alba nel Benin ed entro sera finire a New York, Amburgo o Nairobi. O in tutte e tre le città. Ciò implica, fra l'altro, la necessità, sempre più urgente, che le autorità sanitarie conoscano tutte le patologie presenti sul pianeta; allo stato attuale, com'è ovvio, tale conoscenza manca. Nel 1990 un nigeriano residente a Chicago contrasse la febbre di Lassa durante una vacanza nel proprio paese d'origine, ma sviluppò i sintomi solo una volta tornato negli Stati Uniti.53 Morì in un ospedale di Chicago senza che gli fosse stato diagnosticato nulla e senza che nessuno avesse preso particolari precauzioni nell'avvicinarglisi, nella totale inconsapevolezza che avesse contratto una delle malattie infettive più letali del pianeta. Per puro miracolo, nessuno fu contagiato. La prossima volta potremmo non essere altrettanto fortunati. Dopo questa osservazione che dovrebbe farci riflettere, è tempo di tornare al mondo delle creature visibili a occhio nudo. 21. La vita continua Non è facile diventare un fossile. Il destino di quasi tutti gli organismi viventi (del 99,9 per cento di essi) è decomporsi fino a scomparire.1 Quando la fiamma della vita si spegne, tutte le molecole dell'organismo sono prelevate sotto forma di liquidi o solidi, per essere utilizzate da qualche altro sistema. E così che va la vita. Anche se riuscissimo a far parte di quel piccolo gruppo di organismi, meno dello 0,1 per cento, che non viene divorato, le probabilità di fossilizzazione sarebbero comunque pochissime. Per diventare un fossile devono succedere molte cose. Prima di tutto, occorre morire nel luogo giusto. Soltanto il 15 per cento circa delle rocce può preservare i fossili: per esempio, i futuri graniti sarebbero da evitare.2 In termini pratici, l'organismo deve rimanere seppellito in un sedimento dove possa lasciare un'impronta - come una foglia nel fango umido - oppure decomporsi senza essere esposto all'ossigeno, permettendo così alle molecole presenti nelle ossa e nelle altre parti dure (e molto sporadicamente in quelle molli) di essere sostituite dai minerali dissolti, creando così una copia pietrificata dell'originale. A quel punto, mentre i sedimenti in cui il fossile giace vengono pressati, piegati e spinti senza alcun riguardo dai processi che hanno luogo nella crosta terrestre, il fossile stesso deve in qualche modo riuscire a mantenere una forma riconoscibile. Infine, cosa più importante, dopo decine, o forse centinaia, di milioni di anni nel corso dei quali è rimasto nascosto, il fossile deve essere scoperto e riconosciuto come oggetto degno di essere conservato. Si pensa che il processo di fossilizzazione interessi solo circa un osso su un miliardo. Se è così, significa che probabilmente la popolazione statunitense odierna (duecentosettanta milioni di persone, ciascuna delle quali con duecentosei ossa) lascerebbe ai posteri non più di una cinquantina di ossa fossili, ossia un quarto di uno scheletro completo. Questo naturalmente non implicherebbe che una qualsiasi di esse sarà mai trovata. Se si pensa che potrebbero essere sepolte ovunque in un'area di circa 9,3 milioni di chilometri quadrati, e che di questo territorio solo una frazione piccolissima sarà mai scavata e una quantità ancor più piccola verrà esaminata, trovarle rappresenterebbe davvero una sorta di miracolo. I fossili sono in tutti i sensi estremamente rari. Quasi tutti gli organismi vissuti sulla Terra non hanno lasciato alcuna traccia del proprio passaggio. Si stima che meno di una specie su diecimila abbia lasciato testimonianze fossili.3 Di per se stessa, questa proporzione è già incredibilmente piccola. A ogni modo, se si accetta la stima comune, secondo la quale la Terra avrebbe prodotto trenta miliardi di specie durante la sua esistenza, e se si accetta l'affermazione di Richard Leakey e Roger Lewin (nella Sesta estinzione) secondo la quale la documentazione fossile testimonia l'esistenza di duecentocinquantamila specie di creature, la proporzione delle specie che hanno lasciato tracce fossili si riduce in realtà a una su centoventimila.4 Comunque sia, ciò che possediamo non è che un assaggio di tutta la vita generata dalla Terra. Come se non bastasse, le testimonianze di cui disponiamo ci forniscono un quadro distorto. La maggior parte degli animali terrestri, infatti, non va a morire nei sedimenti. Di solito si accasciano all'aperto e vengono divorati da altri animali, oppure imputridiscono esposti alle intemperie finché di loro non resta più nulla. Le nostre testimonianze fossili, di conseguenza, sono spaventosamente sbilanciate a favore delle creature marine. Circa il novantacinque per cento di tutti i fossili di cui siamo in possesso appartiene ad animali che un tempo vivevano sott'acqua, soprattutto in acque basse.5 Parlo di tutto questo per spiegare come mai, in una grigia giornata di febbraio, mi recai al Naturai History Museum di Londra per incontrare Richard Fortey, un paleontologo simpatico e gioviale, un po' arruffato. Fortey sa moltissime cose su moltissime cose. È l'autore di un libro splendido e pieno di ironia, intitolato Età: quattro miliardi di anni, che copre tutti gli eventi e i protagonisti della creazione. Il suo primo amore, però, è un tipo particolare di organismo marino, che pullulava negli oceani dell'Ordoviciano, ma che da molto tempo esiste solo sotto forma di fossile: il trilobite. Tutti i trilobiti hanno in comune un fondamentale piano corporeo costituito di tre parti o lobi (capo, torace e coda) da cui deriva il loro nome. Fortey trovò il primo trilobite da ragazzino, quando si arrampicava sulle rocce della St. David's Bay in Galles. Da allora non ha più potuto farne a meno. Mi portò in un corridoio pieno di alti armadietti metallici. Ogni armadio era pieno di cassettoni, e ogni cassettino era stipato di trilobiti pietrificati: ventimila esemplari in tutto. «Sembra un gran numero» annuì lui, «ma bisogna ricordare che per milioni e milioni di anni, nei mari antichi, vissero milioni e milioni di trilobiti, e perciò ventimila non è poi un numero così enorme. Senza contare che la maggior parte di questi esemplari sono solo parziali. Per un paleontologo, trovare un fossile di trilobite integro è ancora un grande evento. »6 I trilobiti comparvero sulla scena nella loro forma completa, apparentemente sbucando dal nulla, all'incirca 540 milioni di anni fa - più o meno all'inizio di quel grandioso fiorire di forme di vita complessa generalmente noto come esplosione del Cambriano -per poi sparire, insieme a moltissime altre creature, durante l'immane estinzione del Permiano, per molti versi ancora avvolta nel mistero, all'incirca trecentomila secoli dopo. Come accade di fronte a tutte le creature estinte, si prova la naturale tentazione di considerarli un fallimento; in realtà, furono fra gli animali più riusciti mai vissuti sul nostro pianeta. Regnarono per trecento milioni di anni: il doppio dei dinosauri, un altro gruppo molto longevo. Finora, osserva Fortey, gli esseri umani sono sopravvissuti per lo 0,5 per cento del tempo dei trilobiti.7 Con tutto quel tempo a loro disposizione, i trilobiti proliferarono in maniera prodigiosa. La maggior parte di essi rimase di piccole dimensioni, più o meno come i moderni coleotteri; alcuni però divennero grossi come vassoi. Nel complesso, formarono almeno cinquemila generi e sessantamila specie - e se ne continuano a scoprire di nuove. Fortey ha tenuto recentemente una conferenza in Sud America, dove è stato avvicinato da una ricercatrice argentina, che lavora in una piccola università di provincia. «Aveva con sé una scatola piena di roba interessante: trilobiti mai visti prima in Sud America - anzi, in realtà da nessuna parte - e moltissime altre cose. Non aveva attrezzature per poterli studiare né finanziamenti per poterne cercare altri. Ci sono ancora enormi porzioni di pianeta completamente inesplorate. » «Per quanto riguarda i trilobiti?» «No, per quanto riguarda tutto.» Nel diciannovesimo secolo i trilobiti erano quasi le uniche forme di antica vita complessa conosciuta, e per questo motivo furono raccolti e studiati assiduamente. Il grande mistero riguardava la loro improvvisa comparsa. Anche oggi, spiega Fortey, è sorprendente andare nella giusta formazione rocciosa, risalire dal basso verso l'alto ripercorrendo gli eoni senza trovare traccia alcuna di vita visibile, e poi, all'improvviso, «trovarsi fra le mani un esemplare intatto di Profallotaspis o di Elenellus, grosso come un granchio».8 Queste erano creature dotate di arti, branchie, sistema nervoso, antenne con una funzione sensoriale, « una sorta di cervello », come dice Fortey, e gli occhi più strani che si siano mai visti: costituiti da bastoncelli di calcite, lo stesso materiale che forma il calcare, rappresentano il più antico sistema visivo conosciuto. Ma c'è di più: i primi trilobiti non appartenevano tutti a un'unica specie temeraria, ce n'erano già decine. Né si erano limitati a colonizzare uno o due luoghi, erano dappertutto. Nel diciannovesimo secolo furono in molte le persone ragionevoli a vedere in questo la prova dell'operato divino e una smentita delle idee evoluzioniste di Darwin. Se davvero l'evoluzione era andata avanti a piccoli passi, si chiedevano costoro, come spiegava Darwin l'improvvisa comparsa di creature complesse e già perfettamente formate come queste? In effetti, Darwin non poteva spiegarla. Le cose sembravano destinate a rimanere così per sempre, fino a un giorno del 1909, a tre mesi scarsi dal cinquantesimo anniversario della pubblicazione dell' Origine delle specie di Darwin, quando un paleontologo di nome Charles Doolittle Walcott fece una straordinaria scoperta sulle Montagne Rocciose canadesi. Walcott era nato nel 1850 ed era cresciuto vicino a Utica, nello stato di New York. La sua famiglia era di condizioni modeste e lo divenne ancora di più dopo la morte improvvisa del padre, avvenuta quando Charles era piccolissimo. Da ragazzino, Walcott scoprì di avere una certa abilità nel trovare i fossili, in particolare i trilobiti, al punto che mise insieme una collezione sufficientemente importante da essere acquistata da Louis Agassiz per il museo di Harvard al prezzo di una piccola fortuna: all'incirca 67.500 euro di oggi.9 Sebbene avesse a malapena un'istruzione da scuola superiore e in scienze fosse autodidatta, Walcott divenne un'autorità sui trilobiti, e fu anche il primo a stabilire che si trattava di artropodi, lo stesso gruppo che comprende gli insetti e i crostacei moderni. Nel 1879 Walcott accettò un lavoro come ricercatore sul campo per lo US Geological Survey allora appena costituito, e lo portò a termine con una tale abilità che nel giro di quindici anni divenne presidente dell'usGS.10 Nel 1907 fu nominato segretario della Smithsonian Institution, dove rimase fino alla morte, avvenuta nel 1927. Nonostante gli impegni comportati da queste cariche amministrative, Walcott continuò a lavorare sul campo e fu uno scrittore prolifico. «I suoi libri» racconta Fortey «riempiono un intero scaffale di biblioteca. »11 Fra l'altro, Walcott fu anche membro fondatore del National Advisory Committee for Aeronautics, che divenne poi la National Aeronautics and Space Administration, ossia la NASA: può dunque essere considerato a buon diritto il padre, o forse il nonno, dell'era spaziale. Oggi, però, Walcott è ricordato per un ritrovamento - abile e al tempo stesso fortunato - avvenuto verso la fine dell'estate del 1909 nella Columbia Britannica, sopra la cittadina di Field. La versione consueta della storia è che Walcott stava percorrendo un sentiero di montagna insieme alla moglie quando il cavallo di lei scivolò sul pietrisco. Smontato per aiutarla, Walcott si accorse che il cavallo aveva spostato una lastra di scisto che conteneva crostacei fossili di un tipo insolito e particolarmente antico. Stava nevicando (sulle Montagne Rocciose canadesi l'inverno arriva prima) e quindi i coniugi non indugiarono oltre. L'anno dopo, però, non appena ne ebbe l'opportunità, Walcott tornò sul posto. Risalendo lungo il presunto percorso della frana, si arrampicò per circa 250 metri fin quasi sulla cima della montagna. Lì, a oltre 2400 metri sul livello del mare, trovò un affioramento di scisto delle dimensioni di un isolato cittadino, che conteneva un assortimento mai visto di fossili risalenti all'epoca immediatamente successiva a quell'incredibile fioritura di forme di vita complessa nota come esplosione del Cambriano. Walcott aveva in pratica scoperto il Santo Graal della paleontologia. L'affioramento divenne noto come Scisto di Burgess, dal nome della cresta su cui fu trovato, e per un lungo periodo fu «la nostra unica finestra sull'esordio della vita moderna in tutta la sua pienezza», come scrisse il compianto Stephen Jay Gould nel suo libro divulgativo La vita meravigliosa.12 Scrupoloso come sempre, Gould, leggendo i diari di Walcott, si accorse che la storia della scoperta degli scisti di Burgess sembra essere stata in qualche modo romanzata - Walcott non faceva infatti alcun accenno a un cavallo scivolato o a nevicate. Quel che è fuori discussione è che si trattò di una scoperta straordinaria.13 A noi esseri umani, che su questo pianeta abbiamo un tempo limitato a qualche fugace decennio, riesce quasi impossibile comprendere quanto sia remota l'esplosione del Cambriano. Se potessimo volare a ritroso nel passato alla velocità di un anno al secondo, occorrerebbe all'incirca mezz'ora per raggiungere l'epoca di Cristo, e un po' più di tre settimane per arrivare agli esordi dell'umanità. Ma per raggiungere l'alba del periodo Cambriano impiegheremmo vent'anni. In altre parole, accadde davvero moltissimo tempo fa, quando il mondo era un luogo molto, molto diverso. Tanto per cominciare, al momento della loro formazione - ossia almeno cinquecento milioni di anni fa - gli scisti di Burgess non si trovavano affatto in cima a una montagna, ma ai suoi piedi. In particolare, erano in un bacino oceanico poco profondo, sotto una ripida scogliera. A quell'epoca i mari pullulavano di vita, ma di norma gli animali non lasciarono tracce fossili perché erano creature dal corpo molle che si decomponeva completamente subito dopo la morte. A Burgess, tuttavia, accadde che la scogliera franò e le creature che si trovavano sotto, seppellite dal fango, rimasero pressate come fiori tra le pagine di un libro, in modo che le loro forme furono prodigiosamente conservate nei minimi dettagli. Nei viaggi estivi che effettuò nel periodo compreso fra il 1910 e il 1925 (anno in cui aveva già settantacinque anni) Walcott disseppellì decine di migliaia di esemplari (Gould parla di ottantamila; il National Geographic, generalmente infallibile nella verifica dei dati, dice sessantamila), che poi portò a Washington per esami più approfonditi. Tanto per il numero quanto per la varietà degli esemplari, la sua collezione era senza pari. Alcuni fossili di Burgess appartenevano a creature dotate di gusci, molti altri no. Alcuni animali avevano il dono della vista, altri erano ciechi. La varietà era enorme: secondo una stima, si contavano ben centoquaranta specie.14 «Gli scisti di Burgess comprendevano una gamma di piani anatomici mai più eguagliata, nemmeno da tutte le creature presenti attualmente nell'oceano di tutto il mondo» scrisse Gould.15 Purtroppo, secondo Gould, Walcott non riuscì a comprendere l'importanza dei suoi ritrovamenti. « Non riuscendo a cavare dalla vittoria altro che un fiasco» scrisse Gould in Otto piccoli porcellini, «Walcott continuò a fraintendere nel modo più completo quei magnifici fossili. » Li collocò all'interno di gruppi moderni, scambiandoli per antenati di vermi, meduse e altre creature odierne, lasciandosi quindi completamente sfuggire il loro carattere peculiare. «Secondo questa interpretazione» sospirò Gould, «la vita sarebbe cominciata da una semplicità primordiale per poi progredire inesorabilmente e prevedibilmente verso l'abbondanza e la perfezione. »16> Walcott morì nel 1927 e i fossili di Burgess caddero nel dimenticatoio. Per quasi mezzo secolo rimasero chiusi nei cassetti dell'A-merican Museum of Natural History di Washington, raramente studiati e mai messi in discussione. Poi, nel 1973, Simon Conway Morris, allora dottorando della Cambridge University, visitò la collezione.17 Quel che trovò lo lasciò sbalordito. I fossili erano di gran lunga più vari e magnifici di come li aveva descritti Walcott nei suoi appunti. In tassonomia, la categoria che descrive i piani corporei fondamentali degli organismi è il phylum, e lì, concluse Conway Morris, c'erano cassetti e cassetti di singolarità anatomiche, tutte incredibilmente e inspiegabilmente fraintese dall'uomo che le aveva scoperte. Insieme al suo relatore Harry Whittington e al suo collega dottorando Derek Briggs, Conway Morris trascorse diversi anni impegnato nella revisione sistematica dell'intera collezione, sfornando una monografia dietro l'altra a mano a mano che le scoperte andavano accumulandosi. Molte delle creature di Walcott erano dotate di una struttura corporea non solo diversa da qualunque altra mai vista, ma diversa in modo bizzarro. Opabinia, per esempio, aveva cinque occhi e una sorta di proboscide che terminava con una chela. Un'altra creatura, di forma discoidale, si chiamava Peytoia, e presentava una somiglianza quasi ridicola con una fetta di ananas. Un terzo animale probabilmente se ne andava in giro barcollando su una fila di zampe simili a trampoli, ed era così strano che gli misero il nome di Hallucigenia. C'era un tal numero di novità in quella collezione che - secondo un aneddoto ormai famoso - Con-way Morris, nell'aprire un nuovo cassetto, fu sentito borbottare: «No, cazzo no... non un altro phylum! »18 L'opera di revisione compiuta dal gruppo di paleontologi inglesi dimostrò che, in tema di piani corporei, il Cambriano era stato un periodo di innovazione e sperimentazione senza pari. Per quasi quattro miliardi di anni, la vita si era, in un certo senso, gingillata senza dar segno di particolari ambizioni nei confronti della complessità. Poi, all'improvviso, nello spazio di appena cinque o dieci milioni di anni, aveva creato tutti i piani corporei ancora in uso oggi. Qualsiasi creatura nominiate, da un verme nematode fino a Cameron Diaz, potete star certi che utilizzano tutte un'architettura corporea inventata nel Cambriano.19 La cosa più sorprendente, però, era che moltissimi piani corporei non fossero riusciti a far centro, e fossero spariti senza lasciare discendenza. In tutto, stando alle stime di Gould, almeno quindici, se non venti, animali di Burgess non appartenevano a nessun phylum conosciuto.20 (In alcune versioni divulgative il numero andò crescendo, e arrivò presto a cento: molti più di quanti gli scienziati di Cambridge ne avessero effettivamente dichiarati.) «La storia della vita » scrisse Gould « è fatta di massicce cancellazioni, seguite dal differenziamento all'interno dei pochi ceppi sopravvissuti -niente a che vedere con il classico racconto di un costante aumento di eccellenza, complessità e diversità. » A quanto pareva, il successo evolutivo era una sorta di lotteria. Emerse poi che una delle creature che erano riuscite a cavarsela, un essere vermiforme a cui fu dato il nome di Pikaia gracilens, aveva una primitiva spina dorsale, carattere che faceva di lei il più remoto antenato di tutti i vertebrati successivi, uomo compreso. Pikaia non era assolutamente abbondante fra i reperti fossili di Burgess: nessuno può sapere, perciò, quanto questa creatura si sia spinta vicino all'estinzione. Gould, in un celebre passo, non lascia dubbi sul fatto che considerasse il successo della nostra linea evolutiva come un gran colpo di fortuna: « Riawolgete il nastro della vita fino ai tempi degli scisti di Burgess; fatelo poi ripartire dallo stesso punto: le possibilità che qualcosa di simile all'intelligenza umana conceda il bis sono evanescenti ».21 La vita meravigliosa di Gould fu pubblicato nel 1989, acclamato da pubblico e critica. Ciò che forse non tutti sapevano era che molti scienziati non erano affatto d'accordo con le conclusioni tratte da Gould, e che le cose stavano per mettersi male. Nel contesto del Cambriano, il termine «esplosione» avrebbe ben presto avuto a che fare più con il pessimo carattere di certe creature moderne che non con la fisiologia di antichi organismi. In effetti, oggi sappiamo che organismi complessi esistevano già almeno cento milioni di anni prima del Cambriano. Tuttavia, avremmo potuto saperlo molto tempo prima. Quasi quarant'anni dopo la scoperta di Walcott in Canada, dall'altra parte del pianeta, in Australia, un giovane geologo di nome Reginald Sprigg scoprì qualcosa di ancora più antico e a suo modo altrettanto straordinario. Nel 1946 Sprigg - allora giovane geologo al servizio del governo del South Australia - fu mandato a compiere dei rilevamenti nelle miniere abbandonate delle Ediacara Hills, sulla Flinders Ranger un'arida distesa nell'entroterra australiano, circa cinquecento chilometri a nord di Adelaide.22 L'idea era di vedere se c'era qualche vecchia miniera che potesse essere rimessa in funzione con le nuove tecnologie. Dunque Sprigg non era lì per studiare le rocce di superficie, e meno che mai i fossili. Ma un giorno, mentre s'era fermato a mangiare qualcosa, Sprigg rivoltò con gesto pigro un blocco di arenaria, e rimase a dir poco sorpreso nello scoprire che la superficie della roccia era ricoperta di fossili delicati, simili alle impronte che le foglie lasciano nel fango. Quelle rocce erano precedenti all'esplosione del Cambriano: il geologo a caccia di miniere aveva posato gli occhi sull'alba della vita visibile. Sprigg inviò un articolo alla rivista Nature, che lo respinse. L'anno dopo lo presentò alla conferenza dell'Australian and New Zealand Association for the Advancement of Science, ma non riuscì ad accattivarsi il consenso del presidente, secondo il quale le impronte di Ediacara altro non erano che « fortuite tracce inorganiche»: impronte lasciate dal vento, dalla pioggia o dalle mareggiate, ma non da esseri viventi.23 Non avendo ancora del tutto abbandonato le speranze, Sprigg andò a Londra e presentò le sue scoperte all'International Geological Congress del 1948, senza però riuscire a riscuotere interesse o a convincere qualcuno. Alla fine, in mancanza di meglio, pubblicò le sue scoperte su Transactions ofthe Royal Society of South Australia. Poi si licenziò dal suo incarico statale e si diede alle esplorazioni petrolifere. Nove anni dopo, nel 1957, un ragazzino di nome John Mason, mentre passeggiava per la Charnwood Forest, nelle English Mid-lands, trovò, incluso in una roccia, uno strano fossile simile a una moderna penna di mare, identico ad alcuni degli esemplari che Sprigg aveva scoperto e che da tempo cercava di far conoscere al mondo scientifico.24 Mason consegnò il fossile a un paleontologo della Leicester University che lo riconobbe immediatamente come risalente al Precambriano. La foto del giovane Mason finì sui giornali, e lui fu trattato come un talento precoce: ancora oggi è citato in molti libri. Il fossile fu chiamato Charnia masoni in suo onore. Attualmente, alcuni esemplari originali di Ediacara ritrovati da Sprigg, insieme a molti degli altri mille e cinquecento scoperti da allora sulla Flinders Range, si possono osservare in una teca di vetro al secondo piano del bell'edificio del South Australian Museum di Adelaide; ciò nondimeno, non attraggono molta attenzione. Le forme, essendosi impresse sulla roccia con delicatezza, sono piuttosto vaghe e non si impongono a un occhio inesperto. Si tratta per lo più di fossili piccoli di forma discoidale, da cui si dipartono vaghe strutture nastriformi. Fortey li ha descritti come « stranezze dal corpo molle ». Le opinioni sulla natura di queste creature e sul loro modo di vivere sono ancora molto discordanti. Possiamo solo dire che non avevano bocca né ano attraverso i quali rispettivamente introdurre ed eliminare materiali nutrienti, e neanche organi interni con i quali elaborarli. « Da viva » dice Fortey, « la maggior parte di esse con ogni probabilità si limitava a starsene distesa sulla superficie del sedimento sabbioso, come sogliole inanimate, senza struttura e dal corpo molle. » Al culmine della loro vitalità, non erano più complesse di una medusa. Tutta la fauna di Ediacara era diblastica, il che significa che il corpo di questi animali era costruito a partire da due foglietti di tessuto. Con la sola eccezione delle meduse, tutti gli animali odierni sono triblastici. Alcuni esperti ritengono che le creature di Ediacara non fossero affatto animali, ma piuttosto piante o funghi. Gli aspetti distintivi fra piante e animali non sono sempre chiari neanche oggi. Le spugne moderne trascorrono la propria esistenza ancorate in un unico luogo; non hanno occhi né cuore né cervello: eppure sono animali. « Se risaliamo al Precambriano, le differenze tra piante e animali erano probabilmente ancora meno nette» dice Fortey. «Nessuna legge ti impone di essere in modo dimostrabile l'una o l'altra cosa. » Né c'è accordo sul fatto che gli organismi di Ediacara possano in qualche modo considerarsi gli antenati di creature tuttora viventi (tranne forse che per qualche medusa). Molte autorità scientifiche li ritengono una sorta di esperimento fallito, un tentativo di complessità che non ebbe seguito, forse perché le pigre creature di Ediacara furono divorate o sopraffatte dagli animali più mobili e sofisticati comparsi nel Cambriano. « Oggi non c'è nulla di neanche lontanamente simile a esse» ha scritto Fortey.25 «E difficile interpretarle come antenati delle creature venute dopo. »26 La sensazione è che in ultima analisi non siano poi state molto importanti per lo sviluppo della vita sulla Terra. Molti autorevoli scienziati sono convinti che al confine fra Precambriano e Cambriano abbia avuto luogo un'estinzione di massa, e che tutta la fauna di Ediacara (a eccezione di quelle incerte meduse) sia stata esclusa dalla fase successiva. In altre parole, la vita complessa, quella vera, ebbe inizio con l'esplosione del Cambriano. Quanto meno, è così che la vedeva Gould. Tornando alle revisioni dei fossili trovati negli scisti di Burgess, quasi subito gli scienziati cominciarono a metterne in discussione le varie interpretazioni - più precisamente, l'interpretazione che Gould aveva dato delle interpretazioni. « Sin dal principio furono molti gli scienziati che misero in dubbio il resoconto di Steve Gould, anche se ne avevano molto ammirato la forma dell'esposizione» scrisse Fortey con garbo in Età: quattro miliardi di anni. « Se solo Stephen Gould pensasse con la stessa chiarezza con cui scrive. » brontolò Richard Dawkins, professore a Oxford, nella prima riga di una sua recensione a La vita meravigliosa (comparsa sul Sunday Telegraph).27 Dawkins ammise che il libro era «scritto benissimo», un «tour de force letterario», però accusò Gould di essersi impantanato in un'esposizione dei fatti erronea, «magniloquente e al limite della malafede», soprattutto quando suggeriva che la revisione dei fossili di Burgess avesse sbalordito i paleontologi. «Alla posizione attaccata da Gould (cioè che l'evoluzione sia una marcia inesorabile verso la vetta, rappresentata dall'uomo) non crede più nessuno da cinquantanni» tuonava Dawkins. Questa sottigliezza sfuggì a molti recensori non specialisti. Uno di questi, in un articolo comparso sulla New York Times Book Review, disse allegramente che dopo aver letto il libro di Gould gli scienziati avevano «abbandonato alcuni preconcetti che non erano stati messi in discussione da generazioni. E adesso, con riluttanza o con entusiasmo, [stavano] accettando l'idea che gli esseri umani sono nella stessa misura un accidente della natura e il prodotto di un'evoluzione sistematica ».28 Ma la vera accusa rivolta a Gould veniva dalla convinzione che molte sue conclusioni fossero semplicemente sbagliate oppure gonfiate senza ritegno. In un articolo per Evolution, Dawkins attaccò l'affermazione di Gould secondo la quale «l'evoluzione del Cambriano era un tipo di processo differente da quello attuale» e si disse esasperato dal suo continuo ripetere che il Cambriano fosse stato «un periodo di 'esperimenti', 'tentativi ed errori' e 'false partenze' evolutive [...] un periodo fertile in cui furono inventati tutti i grandi 'piani corporei fondamentali' Al giorno d'oggi l'evoluzione non fa altro che armeggiare con piani corporei preesistenti. Nel Cambriano sorsero nuovi phyla e nuove classi. Oggi al massimo nasce qualche nuova specie! »29 Sottolineando quanto spesso venisse ripresa quest'idea (e cioè che oggi non ci sono più nuovi piani corporei), Dawkins afferma: «È come se un giardiniere guardasse un albero di quercia e commentasse tutto stupito: Non è strano che da tanti anni su quest'albero non siano più cresciuti grandi rami nuovi? Ormai al massimo spunta qualche ramoscello ». «Fu un momento molto particolare» dice Fortey. «Soprattutto se si pensa che si scaldavano tanto per cose successe cinquecento milioni di anni fa. In uno dei miei libri scrissi per scherzo che forse era il caso di mettersi il casco prima di scrivere qualcosa sul Cambriano: effettivamente avevo un po' quella sensazione. » La cosa più strana fu la reazione di uno degli eroi citati in La vita meravigliosa, Simon Conway Morris, il quale stupì molti paleontologi rispondendo in malo modo a Gould con un libro intitolato The Crucible of Creation?Q «Non ho mai riscontrato tanto livore in un libro scritto da un professionista » osservò Fortey qualche tempo dopo.31 «Il lettore che si imbattesse per caso in The Crucible of Creation, e che non conoscesse gli estremi della vicenda, non potrebbe mai sospettare che un tempo le tesi dell'autore erano vicine (se non addirittura identiche) a quelle di Gould. » Quando ne parlai con Fortey, mi disse: «Be', fu una cosa molto strana, quasi uno shock, soprattutto perché il ritratto che Gould aveva fatto di Morris era molto lusinghiero. Potevo solo dedurne che Simon si fosse sentito in imbarazzo. Sa, la scienza cambia ma i libri restano. E penso che gli desse fastidio essere irrimediabilmente associato a una tesi che non condivideva affatto. Poi c'era pure quella storiella del suo 'No, cazzo no... non un altro phylum!': secondo me non gli faceva molto piacere diventare famoso per quell'uscita. Leggendo il libro di Simon nessuno direbbe mai che un tempo le sue idee erano state pressoché identiche a quelle di Gould ». I fossili del primo Cambriano erano dunque entrati in un periodo di rivalutazione critica. Fortey e Derek Briggs (un altro dei protagonisti del libro di Gould) avevano usato un metodo conosciuto col nome di cladistica per confrontare i vari fossili di Burgess. In parole povere, la cladistica consiste nel classificare gli organismi sulla base di caratteri condivisi. Fortey porta come esempio l'idea di comparare fra loro un toporagno e un elefante.32 Se si considera la sua grossa mole e la vistosa proboscide, si potrebbe concludere che l'elefante ha poco in comune con un minuscolo toporagno tutto intento ad annusare qua e là. Ma se li si confronta entrambi con una lucertola, si può immediatamente constatare che queste due creature, il toporagno e l'elefante, sono in larghissima misura costruite seguendo lo stesso piano corporeo. In pratica, Fortey sta dicendo che Gould vedeva elefanti e toporagni dove lui e Briggs vedevano mammiferi. La creature di Burgess, essi ne erano convinti, non erano poi così strane e varie come potevano sembrare a prima vista. « Spesso non erano più strane dei trilobiti » mi disse Fortey. «È solo che per abituarci ai trilobiti abbiamo avuto più di un secolo. La familiarità alimenta la familiarità. » Devo sottolineare che non si trattò di sciatteria o mancanza di attenzione. Interpretare le forme di antichi animali e le loro relazioni sulla base di prove spesso distorte e frammentarie è di sicuro un'operazione difficile. Edward O. Wilson ha osservato che se si prendessero particolari specie di insetti moderni e le si presentassero come fossili simili a quelli di Burgess, nessuno azzarderebbe nemmeno l'ipotesi che appartengano tutte allo stesso phylum, tale è la differenza fra i loro piani corporei. Utile alla revisione in atto fu anche la scoperta di altri due siti risalenti al Cambriano inferiore (uno in Groenlandia e uno in Cina), insieme ad altri ritrovamenti più dispersi comprendenti ulteriori esemplari, spesso migliori. Ne seguì che, dopotutto, i fossili di Burgess non risultarono più così diversi. Emerse che Hallucigenia era stato ricostruito capovolto: le zampe simili a trampoli erano in realtà spine che correvano lungo il dorso. Peytoia, la bizzarra creatura che sembrava una fetta di ananas, non era un'entità a sé, ma solo parte di un animale più grande, che fu chiamato Anomalocaris. Molti esemplari di Burgess sono ormai stati assegnati a phyla viventi, esattamente dove li aveva messi Walcott all'inizio. Si pensa che Hallucigenia, insieme a qualche altra creatura, abbia una parentela con gli Onychophora, un gruppo di animali il cui aspetto ricorda quello di un bruco. Altri sono stati riclassificati come precursori dei moderni Annelida. In effetti, mi disse Fortey, « sono relativamente poche le forme cambriane del tutto inedite. Più spesso si rivelano solo interessanti elaborazioni di forme già ben consolidate». Come ha scritto in Età: quattro miliardi di anni: « Nessuna era strana quanto lo è un balano dei giorni nostri, o grottesca come una termite regina».33 Dopotutto, quindi, gli esemplari degli scisti di Burgess non erano poi così spettacolari. il che, come scrisse Fortey, non li rese «meno interessanti o meno bizzarri, ma solo più spiegabili».34 I loro strani piani corporei altro non erano che una sorta di esuberanza giovanile: l'equivalente evolutivo, per così dire, dei capelli rasta e dei piercing alla lingua. Alla fine le forme si acquietarono in una dignitosa e stabile mezza età. Tutto ciò, comunque, lasciava aperti gli interrogativi sulla provenienza di questi animali: come avevano fatto a spuntare fuori dal nulla? Emerse che l'esplosione del Cambriano probabilmente non era stata affatto così esplosiva. Oggi si ritiene che gli animali del Cambriano fossero già tutti lì, solo che erano troppo piccoli per poterli vedere. Ancora una volta, furono i trilobiti a fornire gli indizi: in particolare, quella comparsa, evidentemente ingannevole, di diversi tipi di trilobiti in luoghi sparsi per il pianeta più o meno nello stesso periodo. A un primo sguardo, la repentina comparsa di moltissime creature perfettamente formate e di vario aspetto sembrerebbe porre l'accento sul carattere miracoloso dell'esplosione del Cambriano; in realtà, però, significa l'esatto opposto. Una cosa è il ritrovamento isolato di un trilobite integro (evento davvero stupefacente) e un'altra è il simultaneo emergere nella documentazione fossile di molti trilobiti, ciascuno diverso ma in relazione con tutti gli altri, sparsi in luoghi distanti fra loro come la Cina e New York. Questo secondo caso indica chiaramente che gran parte della loro storia ci sfugge.35 Non potrebbe esserci prova più convincente del fatto che, semplicemente, essi dovevano avere un antenato comune: una sorta di specie-antenata che diede inizio alla loro linea filetica in un passato molto più remoto. Il motivo per cui non abbiamo scoperto questi antenati più antichi, si pensa oggi, è che erano troppo minuscoli per giungere ben conservati fino a noi. « Non bisogna per forza essere grandi, per essere organismi complessi perfettamente funzionanti» spiega Fortey. « Oggi il mare pullula di minuscoli artropodi che non hanno lasciato alcuna traccia fossile. » E cita i piccoli copepodi, presenti a trilioni nei mari moderni, dove si possono raggruppare in banchi così fitti da annerire vaste aree di oceano; eppure, tutto ciò che sappiamo dei loro antenati viene da un unico esemplare rinvenuto nel corpo di un antico pesce fossile. « Con ogni probabilità, l'esplosione del Cambriano, sempre che sia corretto chiamarla così, fu caratterizzata da un aumento di taglia più che dall'improvviso manifestarsi di nuovi piani corporei» dice Fortey. « E potrebbe essersi scatenata molto in fretta - e quindi in quel senso direi che effettivamente fu un'esplosione. » L'idea è che - proprio come i mammiferi tennero un basso profilo per cento milioni di anni aspettando l'occasione buona per proliferare su tutto il pianeta quando i dinosauri uscirono di scena - forse anche gli artropodi e le altre creature triblastiche rimasero ad aspettare, anonimi e semi-microscopici, che gli organismi di Ediacara dominanti avessero fatto la loro epoca. Fortey afferma: « Sappiamo che i mammiferi andarono incontro a un impressionante incremento di taglia dopo l'uscita di scena dei dinosauri, anche se quando parlo di rapidità, ovviamente, lo faccio in senso geologico. Stiamo pur sempre parlando di milioni di anni». Detto per inciso, Reginald Sprigg alla fine ebbe il suo riconoscimento, assolutamente meritato. Uno dei generi primitivi più importanti, Spriggina, fu chiamato così proprio in suo onore, come pure diverse altre specie; quanto all'intero complesso di creature, fu battezzato fauna di Ediacara, dal nome delle colline su cui Sprigg aveva compiuto le sue ricerche. All'epoca, tuttavia, Sprigg aveva smesso di andare a caccia di fossili ormai da tempo. Dopo aver abbandonato la geologia, fondò una compagnia petrolifera, e alla fine, quando andò in pensione, si ritirò in una proprietà sulla sua adorata Flinders Range, dove creò una riserva naturale. Quando morì, nel 1994, Sprigg era un uomo ricco. 22. Arrivederci a tutti Se la si considera dalla prospettiva degli esseri umani - e ovviamente per noi sarebbe difficile fare altrimenti - la vita è una cosa strana. Sembra che abbia avuto una gran fretta di cominciare, ma che poi, una volta iniziata, se la sia presa molto comoda. Consideriamo i licheni: essi non sono solo fra gli organismi meno appariscenti del pianeta, ma anche fra i meno ambiziosi. Sebbene crescano discretamente in un cimitero assolato, prosperano soprattutto in ambienti dove nessun altro organismo vivrebbe volentieri: sulle cime delle montagne battute dal vento come nelle distese artiche, ovunque ci sia ben poco a parte rocce, pioggia e freddo, nella quasi totale assenza di competizione. In alcune aree dell'Antartide, dove praticamente non cresce nient'altro, si trovano vaste distese di licheni - quattrocento tipi diversi - devotamente attaccati a ogni singolo centimetro di roccia sferzata dal vento.1 Per lungo tempo, ci si è chiesti come facessero. Poiché i licheni crescono sulla nuda roccia, in apparenza senza alcun nutrimento e senza produrre semi, moltissime persone - persone istruite - credevano fossero pietre colte nel processo di diventare piante. « Spontaneamente, ecco la pietra inorganica che diventa una pianta viva! » gioiva il dottor Hornschuch, osservandoli nel 1819.2 Un esame più attento rivelò che i licheni non erano tanto magici, quanto piuttosto interessanti: in effetti, essi rappresentano un'associazione tra funghi e alghe. I funghi emettono sostanze acide che sciolgono la superficie della roccia, liberando così minerali che le alghe convertono in nutrienti sufficienti a sostenere se stesse e i funghi. Di sicuro non sarà uno stile di vita emozionante, tuttavia ha dimostrato di essere decisamente efficace. Al mondo esistono più di ventimila specie di licheni.3 Come la maggior parte delle creature che prosperano in ambienti ostili, i licheni crescono lentamente. Possono impiegare anche più di mezzo secolo per diventare grandi come il bottone di una camicia. Pertanto, scrive David Attenborough, quelli che raggiungono le dimensioni di un piatto da tavola devono avere «centinaia, forse anche migliaia di anni».4 Difficile immaginare un'esistenza meno appagante. «Si limitano a esistere» aggiunge Attenborough, «testimoniando che a quanto pare la vita, anche al suo livello più semplice, trova motivazione in se stessa. » È facile lasciarsi sfuggire quest'idea - che la vita, semplicemente, esiste. In quanto esseri umani abbiamo una naturale tendenza a credere che essa debba avere uno scopo. Noi abbiamo progetti, desideri e aspirazioni. Vogliamo sempre trarre un vantaggio dall'inebriante esistenza che ci è stata concessa. Ma per un lichene che cos'è la vita? D'altra parte, il suo impulso a esistere, a essere, è in tutto e per tutto forte quanto il nostro, se non di più. Se mi dicessero che devo trascorrere decine e decine di anni sotto forma di crescita lanuginosa aggrappata alle rocce di un bosco, credo che perderei la voglia di vivere. I licheni no. Come quasi tutti gli esseri viventi, sopporteranno ogni difficoltà, resisteranno a ogni insulto, pur di avere un solo istante di vita in più. Per farla breve, la vita vuole solo esistere. Però - e questo è interessante -nella maggior parte dei casi non ha grandi pretese. Questo forse è un po' strano, giacché la vita ha avuto moltissimo tempo per sviluppare delle ambizioni. Se immaginiamo di comprimere i quattromilacinquecento milioni di anni di storia della Terra in una normale giornata di ventiquattro ore, la vita compare molto presto, intorno alle quattro del mattino, con l'emergere dei primi semplici organismi unicellulari.5 Poi, però, non fa altri progressi per le sedici ore successive. Fino alle otto e mezzo di sera - quando cinque sesti della giornata sono ormai già trascorsi - la Terra non può mostrare all'universo che un'irrequieta pellicola di microbi. Poi, finalmente, compaiono le prime piante marine seguite, venti minuti dopo, dalle prime meduse e dall'enigmatica fauna di Ediacara scoperta da Reginald Sprigg in Australia. Alle nove e quattro minuti, i trilobiti irrompono sulla scena seguiti più o meno immediatamente dalle eleganti creature degli scisti di Burgess. Appena prima delle dieci, dal terreno cominciano a spuntare le piante. Subito dopo, quando rimangono solo due ore, compaiono le prime creature terrestri. Grazie a una decina di minuti caratterizzati da un clima mite, alle dieci e ventiquattro la Terra è coperta dalle grandi foreste del Carbonifero dai cui residui deriva tutto il nostro carbone, e sono evidenti i primi insetti alati. I dinosauri arrancano sul palcoscenico un po' prima delle undici e tengono banco per circa tre quarti d'ora. Quando mancano ventuno minuti alla mezzanotte, si estinguono e comincia l'era dei mammiferi. Gli esseri umani compaiono un minuto e diciassette secondi prima della mezzanotte. Su questa scala, tutta la nostra storia non coprirebbe che qualche secondo. Una vita umana, forse, neanche un istante. Durante questa giornata così accelerata, i continenti vanno alla deriva e cozzano fra loro a una velocità di sicuro poco prudente. Le montagne si alzano e si fondono, i bacini oceanici si formano e scompaiono, i ghiacci avanzano e si ritirano. E in tutto questo, all'incirca tre volte al minuto, da qualche parte sul pianeta il lampo di luce di una lampadina segnala l'impatto di un meteorite grande come quello di Manson, se non di più. È un miracolo che qualcosa riesca a sopravvivere in un ambiente tanto instabile e bersagliato. Effettivamente, non furono in molte le creature che sopravvissero a lungo. Forse un modo ancor più efficace per renderci conto di quanto sia recente la nostra comparsa in scena, in uno scenario esistente da 4,5 miliardi di anni, è allungare al massimo le braccia e immaginare che l'apertura delle nostre braccia rappresenti l'intera storia della Terra.6 Secondo quanto afferma John McPhee nel suo Basin and Range, su questa scala la distanza fra la punta delle dita di una mano e il polso dell'altra corrisponde al Precambriano. Tutta la vita complessa sta in una mano, « e con un solo colpo di limetta per le unghie si potrebbe spazzare via l'intera storia umana ». Per fortuna quel momento non è arrivato, ma ci sono ottime probabilità che arrivi in futuro. Non è mia intenzione inserire una nota deprimente proprio a questo punto; sta di fatto che l'estinzione è un'altra delle qualità peculiari della vita sulla Terra. La vita si estingue, in modo regolare. Nonostante tutto il gran daffare che si danno per assemblarsi e preservarsi, le specie sfioriscono e muoiono con una straordinaria regolarità. Non solo: più complesse diventano, più velocemente sembra che si estinguano. Forse questo è proprio uno dei motivi che spiegano come mai moltissime creature non siano troppo ambiziose. Ogni volta che la vita compie un gesto audace, pertanto, è un vero e proprio evento; poche occasioni furono più ricche di eventi del momento in cui la vita emerse dal mare, passando a quello che è il capitolo successivo della nostra narrazione. La terraferma era un ambiente spaventoso: caldo, asciutto, esposto a intense radiazioni ultraviolette, incapace di offrire quella spinta di galleggiamento che rendeva il movimento in acqua senza dubbio meno faticoso. Per vivere sulla terraferma, le creature dovettero andare incontro a rimaneggiamenti radicali della loro anatomia. Se prendiamo un pesce tenendolo da entrambe le estremità, il suo corpo si piegherà al centro, poiché la spina dorsale è troppo debole per sostenerlo. Per sopravvivere fuori dall'acqua, le creature marine dovettero inventare una nuova architettura interna in grado di sopportare il peso - e questo non è il genere di modifica che si attua dal giorno alla notte. Soprattutto, e questa è forse la cosa più ovvia di tutte, le creature decise a colonizzare le terre emerse dovettero sviluppare un modo per assorbire l'ossigeno direttamente dall'aria, anziché filtrarlo dall'acqua. Non erano problemi da poco. D'altra parte, c'era un potente incentivo per uscire dall'acqua: negli oceani le cose si stavano facendo pericolose. La lenta fusione dei continenti in un'unica massa di terra - Pangea -implicò una drastica riduzione delle coste, e pertanto degli habitat litoranei. Di conseguenza, la competizione divenne feroce. Sulla scena era comparso anche un nuovo tipo di predatore, lo squalo: creatura onnivora e inquietante, vera e propria macchina fatta per attaccare, era progettato in modo così perfetto che è cambiato pochissimo dai remotissimi tempi della sua comparsa. Non ci sarebbe mai stato momento più propizio per cercare un ambiente alternativo all'acqua. Le piante cominciarono a colonizzare le terre emerse circa quattrocentocinquanta milioni di anni fa, accompagnate da minuscoli acari e altri organismi che svolgevano per loro un indispensabile lavoro di scissione e riciclaggio della materia organica morta. Gli animali di maggiori dimensioni impiegarono un po' più di tempo a emergere dalle acque, ma all'incirca quattrocento milioni di anni fa stavano anch'essi avventurandosi all'asciutto. Le illustrazioni dei libri divulgativi ci hanno indotto a immaginare i primi temerari abitanti della Terra come una sorta di pesci intraprendenti - simili al perioftalmo moderno, che nei periodi di siccità può saltare di pozzanghera in pozzanghera - o anche come un vero e proprio anfibio. In realtà, i primi esseri dotati di movimento e visibilità che colonizzarono la terraferma erano probabilmente molto più simili all'onisco delle cantine, conosciuto anche col nome di porcellino di terra. Si tratta di quelle bestioline (per esser precisi, sono crostacei) che di solito scappano di qua e di là quando solleviamo una roccia o un ciocco di legno. Gli animali che impararono a respirare l'ossigeno atmosferico se la passarono bene. Durante il Devoniano e il Carbonifero, ossia nei periodi in cui fiorì la vita terrestre, l'ossigeno raggiunse anche il trentacinque per cento (rispetto a quasi il venti per cento di oggi). Ciò consentì agli animali di diventare molto grossi in tempi straordinariamente brevi.7 Qualcuno si chiederà giustamente come facciano gli scienziati a sapere quali fossero i livelli di ossigeno atmosferico centinaia di milioni di anni fa. La risposta proviene dalla geochimica degli isotopi, una branca della scienza poco nota al grande pubblico ma geniale. Nel Devoniano e nel Carbonifero i mari primitivi brulicavano di minuscoli organismi planctonici che si proteggevano avvolgendosi in piccoli gusci. Proprio come oggi, anche allora gli organismi planctonici costruivano i propri gusci estraendo ossigeno dall'atmosfera e combinandolo con altri elementi (soprattutto carbonio) per formare composti stabili come il carbonato di calcio. È lo stesso meccanismo chimico che ha luogo nel ciclo del carbonio a lungo termine (argomento trattato altrove): un processo, quello del ciclo del carbonio, certo non molto avvincente dal punto di vista narrativo ma di vitale importanza per l'abitabilità del pianeta. In tale processo, tutti i piccoli organismi a un certo momento muoiono e finiscono in fondo al mare, dove lentamente vengono compressi a formare il calcare. Fra le strutture atomiche che gli organismi planctonici portano con sé nei sedimenti ci sono due isotopi molto stabili: l'ossigeno-16 e l'ossigeno-18. (Se avete dimenticato che cosa sia un isotopo, non importa; per dovere di cronaca diremo che si tratta di un atomo con un numero anomalo di neutroni.) È qui che entrano in scena i geochimici: gli isotopi si accumulano a velocità differenti a seconda di quanto ossigeno o anidride carbonica sono presenti nell'atmosfera al momento della loro formazione.8 Confrontando il tasso di deposito dei due isotopi in un remoto passato, i geochimici riescono a decifrare le condizioni presenti nel mondo antico: livelli di ossigeno, temperatura dell'aria e degli oceani, estensione nello spazio e nel tempo delle ere glaciali e molto altro ancora. Unendo i risultati relativi alle concentrazioni isotopiche con dati fossili che indicano altre condizioni, per esempio i livelli di polline e altro ancora, gli scienziati riescono a ricreare, con una notevole sicurezza, scenari mai visti da occhio umano. Il motivo principale che spiega come mai i livelli di ossigeno riuscirono ad aumentare così tanto nel periodo coincidente con le prime forme di vita terrestre è che il mondo in larga misura era dominato da gigantesche felci arboree e vasti acquitrini, che per la loro stessa natura interruppero il normale processo di riciclo del carbonio. Anziché decomporsi del tutto, fronde cadute e altro materiale vegetale morto si andarono accumulando in ricchi sedimenti umidi che alla fine furono compressi formando i grandi letti carboniferi che a tutt'oggi sostengono la maggior parte delle nostre attività economiche. Questi livelli elevatissimi di ossigeno, ovviamente, incoraggiarono una crescita fuori misura. La più antica indicazione della presenza di un animale terrestre rinvenuta finora è una traccia lasciata trecentocinquanta milioni di anni fa da una creatura simile a un millepiedi su una roccia scozzese. Era lunga più di un metro. Prima che quell'era fosse terminata, alcuni millepiedi raggiunsero lunghezze doppie e anche superiori. Considerando la presenza di creature simili perennemente a caccia, forse non sorprende che in quello stesso periodo gli insetti svilupparono un espediente per tenersi fuori dalla loro portata: impararono a volare. Alcuni si abituarono a questo nuovo mezzo di locomozione con una facilità così straordinaria che da allora non hanno più sentito il bisogno di modificare la propria tecnica. Le libellule, proprio come oggi, riuscivano a viaggiare a più di cinquanta chilometri all'ora, fermarsi di colpo, rimanere sospese, volare all'indietro e, in proporzione, sollevarsi molto più di qualunque velivolo progettato dall'uomo. « Quelli della US Air Force » ha scritto un commentatore «le hanno messe nelle gallerie del vento per capire come facciano. E non sono riusciti a farsene una ragione. »9 Anche loro si riempirono avidamente di quell'aria ricca di ossigeno: nelle foreste del Carbonifero le libellule divennero grosse come corvi.10 Analogamente, anche gli alberi e altri vegetali raggiunsero dimensioni spropositate. Gli equiseti e le felci arboree raggiunsero i quindici metri d'altezza, i licopodi arrivarono a quaranta. I primi vertebrati terrestri - vale a dire i primi animali colonizzatori delle terre emerse, dai quali poi saremmo derivati anche noi - sono avvolti nel mistero. Ciò in parte si deve all'esiguità dei reperti fossili relativi, ma in parte anche a uno svedese eccentrico di nome Erik Jarvik, le cui strambe interpretazioni e il cui comportamento esageratamente riservato frenarono il progresso per quasi mezzo secolo. Jarvik faceva parte di un gruppo di studiosi scandinavi che negli anni Trenta e Quaranta si recarono in Groenlandia alla ricerca di pesci fossili. In particolare, cercavano resti di crossopterigi, pesci con le pinne a forma di lobo, presumibilmente antenati degli esseri umani e di tutte le creature deambulanti note come tetrapodi. Molti degli animali a noi più familiari sono tetrapodi, e tutti i tetrapodi viventi hanno una caratteristica in comune: quattro arti, ognuno dei quali con un massimo di cinque dita. Dinosauri, balene, uccelli, esseri umani - perfino alcuni pesci - sono tutti tetrapodi, il che indica chiaramente l'esistenza di un unico antenato comune. Si riteneva che la prova di tale antenato fosse da cercare nel Devoniano, circa quattrocento milioni di anni fa. Prima di allora, nessuna creatura mise piede sul suolo. Successivamente, invece, furono molti gli organismi che ci si avventurarono. Per fortuna il gruppo di scienziati trovò un animale lungo un metro che rispondeva alle caratteristiche richieste e al quale fu dato il nome di Ichthyostega.11 L'analisi del fossile toccò a Jarvik, che cominciò a studiarlo nel 1948 e vi si dedicò per i successivi quarantotto anni impedendo purtroppo a chiunque altro di esaminarlo. I paleontologi dovettero accontentarsi dei due articoli, preliminari e schematici, in cui Jarvik annotava che la creatura aveva cinque dita su ognuna delle quattro zampe, a conferma del suo ruolo ancestrale. Jarvik morì nel 1998. Dopo la sua scomparsa, altri paleontologi impazienti di esaminare l'esemplare scoprirono che Jarvik aveva clamorosamente sbagliato a contare le dita degli arti superiori e inferiori (in realtà ce n'erano otto per ogni arto) e non si era reso conto che il pesce non avrebbe mai potuto camminare, giacché la struttura delle sue pinne non era tale da poterlo sostenere. Inutile dire che questo non contribuì molto a una migliore comprensione dei primi animali terrestri. Oggi conosciamo tre antichi tetrapodi, nessuno dei quali possiede cinque dita. Per farla breve, proprio non sappiamo da dove siamo venuti. Comunque sia, in un modo o nell'altro siamo qui, anche se per raggiungere il nostro attuale status di preminenza non abbiamo sempre percorso una strada diritta. Fin dall'inizio, la vita sulla terraferma è stata costituita da quattro megadinastie, come sono a volte chiamate. La prima comprendeva anfibi e rettili primitivi, creature dal passo pesante a volte molto imponenti. La specie meglio conosciuta di quest'epoca era Dimetrodonte, un animale dotato di vela dorsale e spesso confuso con i dinosauri (perfino nella didascalia di un'illustrazione di Comet, il libro di Cari Sagan). In realtà, il dimetrodonte era un sinapside. E tali eravamo noi, moltissimo tempo fa. I sinapsidi sono una delle quattro principali suddivisioni dei primi rettili: gli altri sono gli anapsidi, gli euriapsidi e i diapsidi. I nomi si riferiscono semplicemente al numero e alla collocazione di piccoli fori che si aprono sui lati del cranio di questi rettili. I sinapsidi avevano un solo foro nella parte inferiore dell'osso temporale, i diapsidi ne avevano due, gli euriapsidi solo uno, ma più in alto di quello dei sinapsidi.12 Col tempo ciascuno di questi raggruppamenti principali si scisse dando luogo ad altre suddivisioni, alcune delle quali prosperarono mentre altre procedettero stentatamente. Gli anapsidi diedero origine alle tartarughe, le quali - per quanto possa sembrare inverosimile - per un certo periodo, essendo le creature più evolute e feroci, sembrarono destinate a dominare il pianeta. Poi un rovescio evolutivo fece loro rinunciare al dominio a favore della longevità. I sinapsidi si divisero in quattro rami, uno solo dei quali sopravvisse oltre il Permiano. Fortunatamente, era quello a cui appartenevano i nostri antenati, ed evolse in una famiglia di protomammiferi noti come terapsidi. Questi ultimi formarono la seconda megadinastia. Nel frattempo i diapsidi stavano a loro volta evolvendo dando luogo (oltre che ad altre creature) ai dinosauri, che a poco a poco si dimostrarono avversari troppo forti per i loro cugini terapsidi. Incapaci di competere direttamente con queste nuove creature aggressive, i terapsidi sparirono quasi del tutto dalla documentazione fossile. Fra loro, tuttavia, ce ne furono pochissimi che evolsero in piccoli esseri pelosi capaci di scavarsi una tana: piccoli mammiferi che aspettarono per moltissimo tempo il loro momento. I più grandi erano delle dimensioni di un gatto domestico, ma la maggior parte non superava la taglia di un topo. In ultima analisi, queste dimensioni ridotte furono la loro salvezza; essi dovettero comunque attendere circa centocinquanta milioni di anni perché la terza megadinastia, rappresentata dai dinosauri, finisse bruscamente lasciando il passo alla quarta: cominciava l'era dei mammiferi. Tutte queste imponenti trasformazioni - insieme a molte altre di più lieve entità che ebbero luogo nello stesso periodo, frapponendosi alle prime - dipesero da un motore di progresso fondamentale sebbene paradossale: l'estinzione. E curioso che per le specie del pianeta Terra la morte sia, nel senso più letterale del termine, uno stile di vita. Nessuno sa dire quante specie di organismi siano esistite da quando ebbe inizio la vita. Una delle cifre più citate è trenta miliardi, ma qualcuno si è spinto fino a quattromila miliardi.13 Qualunque sia il totale, il 99,99 per cento delle specie vissute su questo pianeta si è estinto. Come ama dire David Raup della University of Chicago, « in prima approssimazione tutte le specie sono estinte ».14 Per gli organismi complessi la durata media di una specie è di soli quattro milioni di anni: all'incirca la nostra età.15 L'estinzione di sicuro non è un evento positivo per chi la subisce, ma per il dinamismo del pianeta sembra un'ottima cosa. « L'alternativa all'estinzione è la stagnazione» afferma Ian Tattersall dell'American Museum of Natural History, « e in qualsiasi campo è raro che la stagnazione sia una buona cosa. »16 (Forse è il caso di far notare che stiamo parlando di estinzione intesa come processo naturale a lungo termine. L'estinzione dovuta all'incuria dell'uomo è tutt'altra faccenda.) Nella storia del pianeta Terra a ogni crisi sono immancabilmente associati impressionanti progressi.17 Il declino della fauna di Ediacara fu seguito dall'esplosione creativa del Cambriano. L'estinzione dell'Ordoviciano, avvenuta 440 milioni di anni fa, spazzò via dagli oceani moltissimi organismi filtratori immobili e in un modo o nell'altro creò condizioni che favorirono lo sviluppo di pesci guizzanti e giganteschi rettili acquatici. Queste creature si trovavano a loro volta in una posizione ottimale per inviare dei coloni sulla terraferma quando una nuova estinzione di massa, avvenuta nel tardo Devoniano, assestò alla vita un'altra scossa potente. Ed è andata avanti così, a intervalli irregolari, per tutto il corso della storia. Se tutti questi avvenimenti non si fossero verificati esattamente nei tempi e nei modi in cui si verificarono, quasi sicuramente noi adesso non saremmo qui. Nell'arco della sua storia, la Terra ha vissuto cinque fondamentali eventi di estinzione avvenuti rispettivamente nell'Ordoviciano, nel Devoniano, nel Permiano, nel Triassico e nel Cretaceo, oltre a molti altri di entità più lieve. Le estinzioni dell'Ordoviciano (440 milioni di anni fa) e del Devoniano (365 milioni di anni fa) spazzarono via una percentuale compresa fra l'ottanta e l'ottantacinque per cento delle specie. Quella del Triassico (210 milioni di anni fa) e quella del Cretaceo (65 milioni di anni fa) fecero entrambe piazza pulita del settantacinque per cento delle specie. Il vero flagello, però, fu l'estinzione del Permiano (circa 245 milioni di anni fa) che alzò il sipario sulla lunga era dei dinosauri. In quell'evento, almeno il novantacinque per cento degli animali a noi noti dai fossili scomparve definitivamente.18 Si estinse perfino un terzo delle specie di insetti: quella fu l'unica volta in cui essi perirono en masse. Mai, nella storia della Terra, arrivammo così vicini all'annientamento totale.19 « Si trattò davvero di un'estinzione di massa: mai prima di allora il pianeta era stato colpito da una carneficina di tale entità » dice Richard Fortey.20 Quella del Permiano fu un'estinzione particolarmente devastante per le creature marine. I trilobiti scomparvero del tutto. Bivalvi e ricci di mare per poco non li seguirono. Quasi tutti gli altri organismi acquatici subirono un duro colpo. In totale, fra mari e terre emerse, si ritiene che il pianeta abbia perduto, in quell'occasione, il cinquantadue per cento di tutte le famiglie - il livello che, nella grande scala della vita (argomento del prossimo capitolo), si trova al di sopra del genere e al di sotto dell'ordine - e forse fino al novantasei per cento di tutte le specie. Occorse molto tempo - secondo una stima all'incirca ottanta milioni di anni -perché la vita, in particolare il totale delle specie, si riprendesse. Due cose vanno tenute presenti. La prima è che queste sono tutte ipotesi: fondate, certo, ma pur sempre ipotesi. Le stime del numero di specie animali esistenti alla fine del Permiano spaziano da un minimo di quarantacinquemila a un massimo di duecentoquarantamila.21 Se non si conosce il numero delle specie esistenti, e difficile stabilire con sicurezza quante ne morirono. Inoltre, stiamo parlando dell'estinzione di intere specie, non della morte di individui Se ci attenessimo a questi ultimi, la cifra sarebbe molto più alta, anzi, in molti casi raggiungerebbe in pratica il totale.22 Le specie sopravvissute alla grande estinzione, che riuscirono ad approdare alla fase successiva della lotteria della vita, devono con ogni probabilità la propria esistenza a pochi sopravissuti, provati e malconci. Fra una grande estinzione e la successiva, si verificarono anche vari episodi di minore entità e meno conosciuti: quelli dell'Enfilliano, del Frasniano, del Famenniano, del Rancholabreano, e una decina di altri, non altrettanto devastanti per il totale delle specie scomparse, ma che spesso colpirono in modo deleterio alcune popolazioni. Gli animali da pascolo, compresi gli equidi, furono quasi cancellati dal pianeta durante l'Enfilliano, all'incirca cinque milioni di anni fa.23 Gli equidi si ridussero a un'unica specie, che appare in modo talmente sporadico nella documentazione fossile da far pensare che per un certo periodo si sia trovata sull'orlo dell'estinzione. Immaginiamo che cosa sarebbe stata la storia dell'umanità senza cavalli e animali da pascolo. In quasi tutti i casi, tanto per le estinzioni di massa quanto per eventi di minore entità, abbiamo idee davvero molto vaghe circa le cause che le hanno generate. Anche tralasciando le ipotesi più bizzarre, le teorie che tentano di spiegare le estinzioni sono comunque più numerose degli eventi che vorrebbero spiegare. Sono stati identificati più di una ventina di possibili cause o fattori contribuenti, ivi compresi il surriscaldamento globale, il raffreddamento globale, le variazioni del livello del mare, la deplezione di ossigeno (anossia) cui sono andati incontro gli oceani, e poi ancora epidemie, enormi fuoriuscite di gas metano dai fondali marini, l'impatto con comete o meteoriti, il passaggio di potentissimi uragani di tipo particolare (noti come hypercanes), immani sollevamenti vulcanici e catastrofici brillamenti solari.24 Quest'ultima possibilità è particolarmente intrigante. Nessuno sa fino a quale entità possano spingersi i brillamenti solari, dal momento che abbiamo potuto osservare queste violente eruzioni soltanto dall'inizio dell'era spaziale; sappiamo però che il Sole è un motore di spaventosa potenza e che le sue tempeste sono eventi proporzionalmente enormi. Un tipico brillamento solare - qualcosa di cui sulla Terra non ci rendiamo conto - libera una quantità di energia equivalente a un miliardo di bombe a idrogeno, e lancia nello spazio circa cento miliardi di tonnellate di particelle letali ad alta energia. L'atmosfera e la magnetosfera, di solito, le riflettono nello spazio, oppure le dirottano verso i poli (dove producono il bellissimo spettacolo delle aurore); si ritiene tuttavia che un brillamento di dimensioni insolite, diciamo cento volte superiore a un'eruzione tipica, potrebbe travolgere queste nostre eteree difese. Lo spettacolo di luce sarebbe mozzafiato, ma quasi sicuramente ucciderebbe un'altissima percentuale delle creature che vi fossero esposte. Inoltre, e la cosa mette i brividi, secondo Brace Tsuratani del Jet Propulsion Laboratory della NASA, un brillamento del genere «non lascerebbe alcuna traccia di sé nella storia». Tutto questo ci lascia, come ha detto un ricercatore, con «tonnellate di congetture e pochissime prove».25 Alla base di almeno tre dei grandi eventi di estinzione - quelli dell'Ordoviciano, del Devoniano e del Permiano - sembrerebbe esserci stato un processo di raffreddamento planetario, ma a parte questo non c'è accordo quasi su nient'altro. Non si sa neppure se questi episodi si siano svolti lentamente o si siano abbattuti sulla Terra all'improvviso. Gli scienziati, per esempio, non riescono a mettersi d'accordo sull'estinzione del Devoniano superiore (l'evento che fu seguito dalla colonizzazione delle terre emerse da parte dei vertebrati): durò milioni di anni? Migliaia? Oppure un solo giorno burrascoso? Uno dei motivi per cui è così difficile spiegare in modo convincente le estinzioni è che lo sterminio della vita su vasta scala è un'impresa difficilissima. Come abbiamo già visto nel caso dell'impatto di Manson, si può anche subire un colpo spaventoso e tuttavia mettere in atto un recupero completo, anche se forse un po' vacillante. E allora perché, fra tutte le migliaia di impatti sopportati dalla Terra, l'evento kt di sessantacinque milioni di anni fa, quello che mise fine ai dinosauri, fu tanto devastante? In primo luogo perché fu effettivamente immane. Si abbatté sul pianeta con la forza di cento milioni di megatoni. Un'esplosione del genere non è facile da immaginare, ma, come ha affermato James Lawrence Powell, se si facesse esplodere una bomba simile a quella di Hiroshima per ogni abitante della Terra, mancherebbe ancora circa un miliardo di bombe per arrivare all'entità dell'impatto kt.26 Eppure, da solo, anche un evento di quella portata potrebbe non essere bastato a spazzare via il 70 per cento della vita presente sulla Terra, dinosauri compresi. Il meteorite dell'evento KT ebbe dalla sua l'ulteriore vantaggio -vantaggio dalla prospettiva dei mammiferi - di schiantarsi in un mare profondo solo 10 metri, probabilmente con l'angolazione giusta, in un periodo in cui il livello di ossigeno era del 10 per cento superiore rispetto a quello attuale e quindi l'atmosfera era più infiammabile.27 Soprattutto, i fondali marini sui quali avvenne l'impatto erano costituiti da rocce ricche di zolfo. Il risultato fu uno schianto che trasformò un'area di fondale marino grande quanto il Belgio in un gigantesco aerosol di acido solforico. Nei mesi successivi la Terra fu soggetta a piogge così acide da bruciare la pelle. Associata a una domanda come « Che cosa spazzò via il 70 per cento delle specie esistenti? » ce n'è una ancor più importante: «Come fece il restante 30 per cento a sopravvivere?» Come mai l'evento KT fu così devastante per i dinosauri, mentre altri rettili, per esempio serpenti e coccodrilli, lo attraversarono indenni? Per quanto ne sappiamo, nel Nord America non si estinsero specie di rospi, tritoni, salamandre o altri anfibi. «Perché queste creature così delicate uscirono incolumi da un disastro di quella portata? » si chiede Tim Flannery nel suo affascinante libro sulla preistoria nel continente americano, intitolato The Eternai Frontiera Nei mari le cose andarono più o meno allo stesso modo.29 Tutte le ammoniti scomparvero, ma i nautiloidi, un gruppo affine con uno stile di vita simile, sopravvissero. Fra gli organismi planctonici, alcune specie furono in pratica spazzate via - il 92 per cento dei foraminiferi, per esempio - mentre altri gruppi, come le diatomee, che pure erano simili per struttura e habitat, ne uscirono relativamente illesi. Contraddizioni difficili da risolvere. Come osserva Richard Fortey, « limitarsi a definirli 'fortunati', lasciando cadere la questione, non sembra soddisfacente ».30 Se, come pare molto probabile, l'evento fu seguito da mesi di buio e fumo soffocante, allora è difficile giustificare la sopravvivenza di molti insetti. « Esistono pochi insetti » fa notare Fortey « che sanno sopravvivere per anni sul legno morto, e questa sembra comunque un'abilità particolare, riservata ai coleotteri. » Ma che cosa dobbiamo pensare di quelli che, come le api, si orientano servendosi della luce solare e si nutrono di polline? Spiegare la loro sopravvivenza non è così facile. Soprattutto, ci sono i coralli. I coralli necessitano di alghe per sopravvivere, e le alghe hanno bisogno di sole; tanto i coralli quanto le alghe, poi, necessitano di temperature minime costanti. Negli ultimi anni si è fatto un gran parlare di coralli morti perché la temperatura dell'acqua marina si è modificata, più o meno, di un solo grado. Se queste creature sono così vulnerabili ai piccoli cambiamenti, come fecero a sopravvivere al lunghissimo inverno causato dall'impatto? Difficili da spiegare sono anche numerose variazioni regionali. Pare che nell'emisfero meridionale le estinzioni siano state molto meno severe. La Nuova Zelanda, in particolare, sembra essere uscita dall'evento in larga misura senza danno, eppure quasi non aveva creature in grado di scavarsi una tana. Perfino la vegetazione fu risparmiata quasi del tutto, eppure i danni riscontrati altrove suggeriscono una devastazione globale. In poche parole, ancora moltissime cose attendono di essere spiegate. Alcuni animali prosperarono, e fra questi sono curiosamente comprese, ancora una volta, le tartarughe.31 Come fa notare Flannery, il periodo immediatamente successivo all'estinzione dei dinosauri potrebbe a buon diritto chiamarsi «era delle tartarughe». In Nord America ne sopravvissero sedici specie e subito dopo ne comparvero altre tre. Ovviamente, in quelle circostanze, vivere in acqua rappresentò un grande aiuto. L'impatto kt spazzò via quasi il 90 per cento delle specie che avevano colonizzato la terraferma, ma solo il 10 per cento di quelle che vivevano in acqua dolce. L'acqua costituì un ovvio riparo dal calore e dal fuoco, e probabilmente fornì un maggior sostentamento nel periodo di carestia che seguì l'impatto. Tutti gli animali terrestri sopravvissuti avevano l'abitudine di ritirarsi in ambienti sicuri - sott'acqua o sottoterra - nei momenti di pericolo, procurandosi così un ottimo riparo mentre all'esterno aveva luogo la devastazione. Anche gli animali che vivevano cibandosi di rifiuti e carogne si ritrovarono avvantaggiati. Le lucertole erano, e sono tuttora, in larga misura inattaccabili da parte dei batteri presenti nelle carcasse in putrefazione e infatti spesso ne sono attratte. Ai tempi della grande estinzione, ovviamente, per un lungo periodo le carcasse putrescenti di certo non mancarono. Si sente spesso ripetere l'affermazione sbagliata secondo cui soltanto piccoli animali sopravvissero all'evento kt. In realtà, fra i sopravvissuti ci furono anche i coccodrilli, che all'epoca erano addirittura tre volte più grandi di oggi. Però è vero che, nel complesso, la maggior parte dei sopravvissuti era di piccole dimensioni e manteneva un basso profilo. Effettivamente, un mondo così buio e ostile era l'ideale per piccole creature notturne, a sangue caldo, flessibili nella dieta e prudenti per natura: tutte qualità distintive dei nostri antenati mammiferi. Se fossimo stati a uno stadio evolutivo più avanzato, con tutta probabilità saremmo stati spazzati via dal pianeta. Invece, i mammiferi si ritrovarono in un mondo che sembrava fatto su misura per loro. A ogni modo non è che i mammiferi si siano precipitati a riempire ogni nicchia vacante. «L'evoluzione avrà anche orrore del vuoto » scrisse il paleobiologo Steven M. Stanley, « ma spesso impiega molto tempo per riempirlo. »32 Forse per ben dieci milioni di anni i mammiferi rimasero prudentemente piccoli.33 All'inizio del Terziario un animale grosso quanto una lince era già in condizioni di dominare. Una volta lanciati, però, i mammiferi cominciarono a espandersi in maniera prodigiosa, a volte a un livello quasi assurdo. Per un certo periodo ci furono porcellini d'india grandi come rinoceronti, e rinoceronti grandi come un palazzo a due piani.34 Dovunque venne a crearsi un posto vuoto nella catena dei predatori, i mammiferi si ersero (spesso nel senso letterale del termine) per occuparlo. I primi membri della famiglia dei procioni migrarono in Sud America, scoprirono un posto vacante ed evolsero in creature simili per dimensioni e ferocia agli orsi. Anche gli uccelli prosperarono in modo esagerato. Per milioni di anni un gigantesco uccello carnivoro inetto al volo, Titanis, fu probabilmente la creatura più feroce di tutto il Nord America.35 Di sicuro fu l'uccello più spaventoso mai esistito. Alto tre metri, pesava più di trecentocinquanta chilogrammi, e aveva un becco in grado di staccare la testa a qualunque creatura lo infastidisse. La sua famiglia sopravvisse indomita per cinquanta milioni di anni, eppure fino alla scoperta di uno scheletro, avvenuta in Florida nel 1963, non avevamo idea che fosse mai esistito. Questo ci riporta a un altro motivo di incertezza riguardo alle estinzioni: la scarsità dei reperti fossili. Abbiamo già accennato all'estrema improbabilità che un qualunque scheletro fossilizzi; in verità, però, la documentazione fossile è ancor più incompleta di quanto ci si potrebbe aspettare. Consideriamo i dinosauri. I musei danno l'impressione che nel mondo ci sia una generale abbondanza di fossili di dinosauro. In realtà, la grandissima maggioranza degli esemplari mostrati nei musei è artificiale. Il gigantesco diplodoco che domina l'ingresso del Natural History Museum di Londra e che ha deliziato, oltre che istruito, generazioni di visitatori, è fatto interamente di gesso: fu costruito a Pittsburgh nel 1903 e donato al museo da Andrew Carnegie.36 L'ingresso dell'American Museum of Natural History di New York è dominato da una ricostruzione ancora più grandiosa: lo scheletro di un grande barosauro che difende il proprio piccolo dall'attacco di un veloce allosauro dalla temibile dentatura. È una rappresentazione impressionante e spettacolare (il barosauro si erge forse per nove metri verso il soffitto) ma anche del tutto fasulla. Ciascuna delle centinaia di ossa che la compongono è solo un calco. Se si visita qualunque grande museo di storia naturale del mondo - Parigi, Vienna, Francoforte, Buenos Aires, Città del Messico -, si viene accolti non tanto da antiche ossa, quanto da vecchi modelli. La verità è che non sappiamo moltissimo dei dinosauri. In tutto, sono state identificate meno di un migliaio di specie (e di quasi metà di esse è stato rinvenuto un unico esemplare): all'incirca un quarto delle specie di mammiferi oggi viventi. Il dominio dei dinosauri, è bene tenerlo a mente, è durato un tempo almeno tre volte più lungo di quello dei mammiferi. Quindi i casi sono due: o i dinosauri furono un gruppo straordinariamente poco prolifico, o abbiamo appena scalfito la superficie di quanto essi hanno da rivelarci (per usare un cliché irresistibilmente calzante). Ci sono milioni di anni, nell'era dei dinosauri, per i quali non è ancora stato rinvenuto un solo fossile. Anche per quanto riguarda il Cretaceo superiore - il periodo della preistoria più studiato, grazie al nostro interesse di vecchia data per i dinosauri e la loro estinzione - potrebbero esserci ancora da scoprire all'incirca tre quarti di tutte le specie vissute. Animali ancor più imponenti del diplodoco o più terribili del tirannosauro potrebbero aver scorrazzato sulla Terra a migliaia, e forse noi non lo sapremo mai. Fino a poco tempo fa tutto quello che si sapeva dei dinosauri di questo periodo scaturiva da soli trecento esemplari, in rappresentanza di appena sedici specie.37 L'insufficienza dei reperti portò alla diffusa convinzione che i dinosauri fossero già sul punto di estinguersi al momento dell'impatto kt. Alla fine degli anni Ottanta Peter Sheehan, un paleontologo del Milwaukee Public Museum, decise di condurre un esperimento. Con l'aiuto di duecento volontari compì il censimento di un'area ben definita, ma anche già ben esaminata, della famosa Formazione di Hell Creek, nel Montana. Passandola meticolosamente al setaccio, i volontari raccolsero tutto quello che era stato trascurato dagli esploratori precedenti, raccogliendo fino all'ultimo dente, vertebra e frammento di osso. Il lavoro richiese tre anni. Quando ebbero finito scoprirono di avere più che triplicato il numero di dinosauri fossili risalenti al tardo Cretaceo. La ricerca stabilì che i dinosauri furono numerosi fino all'epoca dell'impatto kt. «Non c'è ragione di credere che i dinosauri siano scomparsi gradualmente durante gli ultimi tre milioni di anni del Cretaceo » dichiarò Sheehan.38 Noi siamo convinti che fu inevitabile, per l'uomo, diventare la specie dominante del pianeta; a tal punto siamo abituati a quell'idea che ci risulta difficile capire che se siamo qui è solo grazie a varie coincidenze fortuite, non ultima la collisione con oggetti extraterrestri avvenuta proprio al momento giusto. L'unica cosa che abbiamo in comune con tutti gli altri esseri viventi è che per quasi quattro miliardi di anni, ogni volta che ce n'è stato bisogno, i nostri antenati sono riusciti a passare attraverso una serie di porte che andavano chiudendosi. Stephen Jay Gould espresse questo concetto sinteticamente in un passo celebre: « L'uomo oggi esiste perché la sua particolare linea genealogica non si è mai interrotta: neppure una volta, in nessuno dei miliardi di punti che avrebbero potuto cancellarci dalla storia».39 Abbiamo cominciato questo capitolo con tre affermazioni: la vita vuole esistere; non sempre ha grandi pretese; di tanto in tanto si estingue. A queste ne possiamo aggiungere una quarta: la vita continua. E spesso, come vedremo, continua in modi decisamente spettacolari. 23. La ricchezza dell'essere Al Natural History Museum di Londra, qua e là, nei recessi di qualche corridoio male illuminato, oppure sparse fra teche contenenti minerali, uova di struzzo e un secolo di ciarpame istruttivo, si aprono delle porte segrete (per lo meno nel senso che non fanno nulla per attirare l'attenzione del visitatore). Ogni tanto, anche se si tratta di un evento piuttosto raro, può capitare di vedere qualcuno - con i capelli scarmigliati e la classica aria distratta dello scienziato - sgattaiolare fuori da una di quelle porticine per poi sparire subito dietro un'altra. Per la maggior parte del tempo, però, quelle porte restano chiuse, senza mai dare adito al sospetto che celino l'esistenza di un museo parallelo, in molti casi ancora più meraviglioso di quello aperto al pubblico e tanto amato dai visitatori. Il Natural History Museum contiene circa settanta milioni di oggetti, appartenenti alle più diverse forme di vita e provenienti da ogni angolo del pianeta, e ogni anno si aggiungono alla collezione più di centomila nuovi esemplari. In realtà, però, è solo da dietro le quinte che ci si rende davvero conto del tesoro custodito in questo edificio. Negli armadi, nelle vetrine e nelle lunghe stanze piene di mensole stipate si conservano decine di migliaia di animali a mollo nei fissativi e chiusi in barattoli, milioni di insetti ciascuno dei quali fermato con uno spillo su un cartoncino, interi cassetti di molluschi lucenti, ossa di dinosauro, crani appartenuti ai primi esseri umani, un numero infinito di cartellette contenenti piante pressate con cura. È un po' come passeggiare nel cervello di Darwin. Solo gli scantinati contengono venti chilometri di scaffali con barattoli su barattoli di animali fissati in alcool denaturato.1 Qui si trovano gli esemplari raccolti da Joseph Banks in Australia, da Alexander von Humboldt in Amazzonia e dallo stesso Darwin nel suo viaggio a bordo della Beagle - oltre a molti altri reperti, tutti rarissimi o di grande rilevanza storica (se non entrambe le cose). In molti vorrebbero mettere le mani su questo ben di dio. Qualcuno c'è riuscito davvero. Nel 1954 il museo acquisì per donazione di un devoto collezionista, di nome Richard Meinertzha-gen (autore, fra i vari testi scientifici, anche di Birds of Arabia), un'importantissima collezione ornitologica. Meinertzhagen era stato per anni un assiduo frequentatore del museo: ci andava quasi ogni giorno e prendeva gli appunti necessari per la stesura dei suoi libri e delle sue monografie. Quando arrivarono le casse della sua collezione, i curatori le aprirono in preda all'eccitazione, ma rimasero a dir poco sorpresi nello scoprire che su un gran numero di esemplari c'era affissa l'etichetta del museo. Emerse così che Meinertzhagen si era servito liberamente, attingendo dalle collezioni del museo. Questo spiegava la sua abitudine di indossare un ampio soprabito anche quando faceva caldo. Qualche anno dopo, un affascinante e anziano frequentatore del settore dedicato ai molluschi - « un signore molto distinto » mi è stato detto - fu scoperto mentre infilava alcune preziosissime conchiglie all'interno delle gambe del suo deambulatore. «Io non credo che qui dentro ci sia una sola cosa sulla quale qualcuno, da qualche parte del mondo, non voglia posare le mani» mi disse Richard Fortey con aria pensosa, mentre mi faceva da guida in quell'accattivante mondo che si estende dietro le quinte del museo. Ci aggirammo per un gran numero di settori, dove persone sedute davanti a grandi tavoli erano tutte intente allo studio di artropodi, fronde di palma e scatole di ossa ingiallite. Dappertutto si respirava un'aria di lavoro accurato che pareva ignorare la fretta: tutta quella gente era impegnata in un'impresa gigantesca, che non avrebbe mai potuto essere completata - e non andava svolta sotto pressione. Avevo letto che nel 1967 il museo aveva pubblicato il resoconto della spedizione compiuta da John Murray nell'oceano Indiano ben quarantaquattro anni prima.2 Questo è un mondo in cui le cose si muovono secondo un ritmo loro proprio: anche il piccolo ascensore che io e Fortey prendemmo insieme a un uomo anziano con tutta l'aria dello scienziato. Mentre l'ascensore saliva alla stessa velocità con cui stratificano i sedimenti, lui e Fortey parlavano in modo gioviale e con una certa familiarità. Quando l'uomo ci lasciò, Fortey mi disse: « Quel tizio è molto simpatico. Si chiama Norman, e ha passato quarantadue anni a studiare una specie di pianta, l'iperico. E andato in pensione nel 1989, ma viene ancora qui tutte le settimane». «Come si fa a passare quarantadue anni su una sola specie di pianta? » gli chiesi. «Incredibile, eh?» ammise Fortey. Poi si fermò a riflettere un momento. «È un tipo molto pignolo, a quanto pare.» La porta dell'ascensore si aprì davanti a un muro di mattoni. Fortey sembrava confuso. « Che strano » disse. « Prima qui c'era botanica. » Schiacciò il bottone corrispondente a un altro piano, e raggiungemmo il settore di botanica usando le scale sul retro e sconfinando con cautela in molti altri dipartimenti, dove i ricercatori faticavano con passione su quel che restava di antiche creature. Fu così che Fortey mi presentò a Len Ellis, introducendomi nel suo tranquillo mondo di briofite (per noi profani: muschi). Quando il poeta Emerson fece notare che i muschi prediligono il lato esposto a nord degli alberi («Il muschio sulla corteccia / stella polare della notte scura»), in realtà stava parlando dei licheni, perché nel diciannovesimo secolo tra muschi e licheni non c'era ancora distinzione. I veri muschi non selezionano così attentamente il posto dove crescere, quindi non sono bussole naturali particolarmente efficaci. In effetti, i muschi non sono particolarmente efficaci a far niente. « Forse, dal punto di vista commerciale ed economico, nessun altro grande gruppo di piante ha così pochi impieghi come i muschi » scrisse Henry S. Conard, probabilmente con un pizzico di amarezza, nel suo How to Know the Mosses and Livenoorts, pubblicato nel 1956, a tutt'oggi unico tentativo mai compiuto di divulgare la materia.3 Almeno, però, sono prolifici. Anche escludendo i licheni, quello delle briofite è un mondo molto attivo, con oltre diecimila specie comprese in circa settecento generi. Il maestoso e pesante volume Moss Flora of Britain and Ireland di AJ.E. Smith consta di ben settecento pagine: e Irlanda e Gran Bretagna non sono certo luoghi particolarmente ricchi di muschi. « Il massimo della varietà si registra ai tropici » mi disse Len Ellis.4 Tipo posato e dal fisico asciutto, Ellis lavorava al Natural History Museum da ventisette anni, e dal 1990 era il curatore del dipartimento. « In un luogo come la foresta pluviale della Malesia, sarà relativamente facile trovare nuove varietà. Ho potuto sperimentarlo di persona non molto tempo fa: come ho abbassato lo sguardo, ho visto una specie mai registrata prima. » « Quindi non sappiamo quante specie sono ancora da scoprire?» « Oh, no. Non ne abbiamo idea. » Si potrebbe pensare che al mondo in fondo non esistano molte persone pronte a consacrare la propria vita allo studio di organismi che, come i muschi, tengono per così dire un basso profilo; eppure gli studiosi che se ne occupano si contano a centinaia, e tutti si dedicano alla propria materia con sentimento e passione. « Eh, sì » mi disse Ellis, «i congressi a volte si fanno molto animati. » Gli chiesi di farmi un esempio di controversia. « Be', eccone una inflittaci da un nostro connazionale» mi disse accennando un sorriso e aprendo un voluminoso testo di consultazione pieno di foto di muschi, la cui caratteristica più evidente per l'occhio inesperto era l'inquietante somiglianza dell'uno con l'altro. «Questo» disse picchiettando col dito su uno di essi «era considerato un unico genere, Drepanocladus. Ora è stato riorganizzato in tre: Drepanocladus, Warnstorfia e Hamatacoulis. » « E questo ha fatto scoppiare una rissa? » chiesi forse un po' ingenuamente. « Vede, l'idea in sé sembrava giusta. Sembrava proprio giusta. Ma comportava una gran mole di lavoro per il riordino delle collezioni, senza contare che per un certo periodo ci saremmo ritrovati con tutti i manuali da aggiornare e quindi ci fu, come dire, un po' di brontolio. » E poi anche i muschi hanno i loro misteri, mi raccontò. Un caso famoso - famoso per chi studia i muschi, s'intende - riguardava Hyophila stanfordensis: una specie poco appariscente scoperta nel campus della Stanford University in California e qualche tempo dopo ritrovata anche ai margini di un sentiero in Cornovaglia, ma mai incontrata in nessun luogo a metà strada fra i due. Come abbia fatto a crescere in due località così distanti è un mistero per tutti. «Comunque adesso si chiama Hennediella stanfordensis» disse Ellis. « Un'altra revisione. » Annuimmo pensierosi. Quando si trova un nuovo muschio bisogna subito confrontarlo con tutti gli altri, per non correre il rischio che sia già stato classificato. Poi bisogna stenderne una descrizione e preparare le illustrazioni: il tutto va poi pubblicato su una rivista di prestigio. L'intero processo di solito richiede almeno sei mesi. Il ventesimo secolo non è stato un gran periodo per la tassonomia dei muschi. In larga misura, il lavoro si è ridotto a sbrogliare la confusione e a eliminare i doppioni lasciatici in eredità dal diciannovesimo secolo. Per quanto riguarda la raccolta dei muschi, quest'ultimo fu una vera età dell'oro. (Forse ricorderete che il padre di Charles Lyell era un grande esperto di muschi.) Un inglese di nome George Hunt era solito andare a caccia dei muschi con una tale assiduità che oggi si pensa abbia probabilmente contribuito all'estinzione di molte specie. D'altra parte, è grazie a imprese del genere che la collezione di Len Ellis è una delle più complete al mondo. Tutti i suoi 780.000 esemplari sono pressati fra grandi fogli piegati di carta pesante, alcuni dei quali molto antichi, recanti scritte dai tratti angolosi e sottili, in calligrafia vittoriana. Altri, per quel che ne sappiamo, potrebbero essere appartenuti a Robert Brown, il grande botanico vittoriano scopritore dei moti browniani e del nucleo delle cellule, che fondò il dipartimento di botanica del museo e lo diresse per trentun anni, fino alla morte avvenuta nel 1858. Tutti gli esemplari sono custoditi in vetrinette di mogano così lustre e belle a vedersi che non potei fare a meno di ammirarle. « Ah, quelle erano di Sir Joseph Banks, vengono dalla sua casa di Soho Square » disse Ellis senza dar loro troppa importanza, come se stesse parlando di un mobile appena acquistato all'Ikea. «Le aveva fatte costruire apposta per metterci dentro gli esemplari raccolti durante il viaggio dell'Ewdeavour. » Osservò le vetrinette con aria pensierosa, come se le stesse guardando per la prima volta dopo moltissimo tempo. « Non so come abbiamo fatto ad averle noi, qui a biologia » aggiunse. Per me fu una rivelazione sconcertante. Joseph Banks fu il più grande botanico inglese, e il viaggio deWEndeavour - quello in cui il capitano Cook registrò il transito di Venere del 1769 e acquisì l'Australia all'impero britannico - fu la spedizione botanica più importante della storia. Banks spese diecimila sterline dell'epoca, all'incirca novecentomila euro di oggi, per partecipare insieme ad altre nove persone (un naturalista, un segretario, tre illustratori e quattro servitori) a quell'avventura intorno al mondo durata tre anni. Solo il cielo sa che cosa pensasse il burbero capitano Cook di quel manipolo di aristocratici delicati e viziati, ma sembra che Banks gli fosse simpatico, e non potè far altro che ammirarne il talento botanico: un sentimento condiviso anche dai posteri. Mai, né prima né dopo, una spedizione botanica ottenne risultati così trionfali. In parte ciò si deve al fatto che il viaggio toccò molti luoghi nuovi o poco conosciuti: la Terra del Fuoco, Tahiti, la Nuova Zelanda, l'Australia, la Nuova Guinea. Ma soprattutto fu perché Banks era un collezionista molto abile e pieno di inventiva. Perfino quando non potè sbarcare a Rio de Janeiro a causa di una quarantena, passò al setaccio una balla di foraggio, inviata sulla nave per nutrire gli animali presenti a bordo, e fece nuove scoperte.5 A quanto pare nulla sfuggiva al suo sguardo. In totale portò a casa trentamila specie di piante, fra cui mille e quattrocento mai viste prima: abbastanza da incrementare di circa un quarto il numero di tutte le piante conosciute al mondo. Ma quello di Banks fu solo una parte del bottino totale raggiunto in quell'epoca in cui l'acquisizione di nuove conoscenze si spinse fin quasi all'assurdo. Nel diciottesimo secolo collezionare piante divenne una sorta di mania internazionale. Fama e ricchezza attendevano quelli che riuscivano a rinvenire nuove specie: botanici e avventurieri intrapresero le più incredibili spedizioni pur di soddisfare la brama del mondo di nuove varietà colturali. Quando arrivò in America, Thomas Nuttall - l'uomo che diede il nome di Caspar Wistar alla leguminosa Wisteria, il glicine - era ancora un tipografo poco istruito, ma ben presto scoprì di avere una passione per le piante ed esplorò il paese in lungo e in largo collezionando centinaia di vegetali mai visti prima. John Fraser - che diede il suo nome a una specie di abete, Abies fraseri o abete di Fraser - passò anni a raccogliere piante in luoghi sperduti per la grande Caterina di Russia, e quando finalmente tornò alla civiltà scoprì che la Russia aveva un nuovo zar che lo riteneva un folle e si rifiutò di onorare il suo contratto. Fraser allora portò tutti i suoi esemplari a Chelsea, dove aprì un vivaio e fece la bella vita vendendo a una deliziata aristocrazia inglese rododendri, azalee, magnolie, vite del Canada, aster e altre piante esotiche provenienti dalle colonie. Scoprendo le cose giuste, si potevano mettere insieme somme enormi. John Lyon, un botanico dilettante, trascorse due anni difficili e pericolosi a raccogliere esemplari, ma a compenso dei suoi sacrifici si mise in tasca circa 185.000 euro di oggi. Molti, comunque, intraprendevano le spedizioni solo per amore della botanica. Nuttall regalò gran parte di quanto aveva scoperto ai giardini botanici di Liverpool. Alla fine divenne direttore del giardino botanico di Harvard e autore dell'enciclopedico General ofNorth American Plants (opera che non si limitò a scrivere, ma della quale curò personalmente anche gli aspetti tipografici della stampa). E questo per limitarsi alle sole piante. C'era anche tutta la fauna dei nuovi mondi: canguri, kiwi, procioni, linci, zanzare e altre creature la cui stranezza andava oltre l'immaginazione. Il volume della vita sulla Terra era in apparenza infinito, come ebbe a notare Jonathan Swift in alcuni suoi celebri versi: Dunque, sostengono i naturalisti, la -pulce Ha pulci più piccole che la tormentano; E queste ne hanno di ancora più minute che le mordono; E così ad infinitum. Tutte queste informazioni andavano archiviate, ordinate e confrontate con quello che già si conosceva. Il mondo aveva un disperato bisogno di un sistema di classificazione funzionale: in Svezia, fortunatamente, c'era un uomo pronto a fornirlo. Il suo nome era Carl Linné (più tardi modificato, con il permesso delle autorità, in un più aristocratico von Linné), passato tuttavia alla storia con la forma latinizzata del suo nome, Carolus Linnaeus, o più semplicemente Linneo. Nato nel 1707 nel villaggio di Rashult, nella Svezia meridionale, Linneo era figlio di un povero quanto ambizioso pastore luterano, ed era uno studente così pigro che il padre, esasperato, lo mandò a lavorare come apprendista da un calzolaio (oppure, secondo alcuni, fu sul punto di mandarcelo). Terrorizzato dalla prospettiva di passare la vita a battere chiodi nel cuoio, il giovane Linneo implorò un'altra possibilità, che gli fu concessa. Da quel momento in poi, si distinse per i risultati accademici: studiò medicina in Svezia e in Olanda, ma la sua vera passione era il mondo della natura. Non ancora trentenne, cominciò a produrre cataloghi di specie animali e vegetali, adoperando un sistema di sua invenzione. A poco a poco divenne famoso. È difficile trovare un uomo che fosse più a suo agio con la propria grandezza. Passava la maggior parte del suo tempo libero a scrivere lunghi autoritratti celebrativi, dichiarando che non era mai esistito « un botanico o uno zoologo più grande», e che il suo sistema di classificazione era « la più grande conquista nel regno della scienza». Con molta modestia, suggerì che la sua lapide dovesse portare l'iscrizione Princeps Botanicorum. Non fu mai molto saggio mettere in questione le generose valutazioni che Linneo faceva di se stesso. Coloro che ci provarono, ritrovarono il proprio nome legato a un'erbaccia. Un'altra qualità notevole di Linneo era un costante - a volte, si sarebbe detto, febbrile - interesse per il sesso. Era particolarmente colpito dalla somiglianza fra alcuni bivalvi e i genitali femminili. Chiamò le parti di una specie di bivalve vulva, labia, pubes, anus e hymen.6 Raggruppò le piante secondo la natura dei loro organi riproduttivi e attribuì loro un'inclinazione al piacere sessuale decisamente antropomorfa. Le sue descrizioni dei fiori e del loro comportamento sono piene di riferimenti a «rapporti promiscui», « concubine sterili » e « letti nuziali ». In primavera, egli scrisse in un passaggio spesso citato: L'amore arriva perfino alle piante. Maschi e femmine [...] celebrano i propri riti nuziali [...] mostrando attraverso i propri organi sessuali quali siano i maschi e quali le femmine. I petali del fiore fungono da talamo nuziale, il quale è stato dal Creatore disposto in modo sì splendido, ornato di sì nobili baldacchini, e profumato con un sì gran numero di soavi fragranze che lo sposo e la sposa possano consumarvi le nozze con una grandissima solennità. Quando il letto è pronto, lo sposo può abbracciare la sposa sua adorata e arrendersi a lei.7 Chiamò un genere di piante Clitoria. Non c'è gran che da sorprendersi se erano in pochi a ritenerlo un po' strano. Il suo sistema di classificazione, però, era irresistibile. Prima di Linneo, alle piante venivano dati nomi lunghi e descrittivi. La mullaca, una pianta simile all'alchechengi, si chiamava Physalis amno ramosissime ramis angulosis glabris foliis dentoserratis. Linneo gli diede un taglio riducendolo a Physalis angulata, nome tuttora in uso. Il mondo vegetale era reso ugualmente disordinato anche dall'incostanza dei nomi.8 Un botanico non poteva essere sicuro che la Rosa sylvestris alba cum rubore, folio glabro fosse la stessa pianta che altri chiamavano Rosa sylvestris inodora seu canina. Linneo tolse tutti dall'imbarazzo chiamandola semplicemente Rosa canina. L'impresa di rendere utili e graditi agli occhi di tutti questi colpi di cesoia richiedeva molto più della semplice determinazione. Occorreva un certo istinto - in realtà un vero e proprio genio - per individuare le qualità salienti di una specie. Il sistema linneano è così consolidato che per noi è difficile immaginare un'alternativa, ma prima di Linneo i sistemi di classificazione erano spesso altamente arbitrari. Gli animali potevano essere raggruppati a seconda che fossero selvatici o domestici, terrestri o acquatici, grandi o piccoli o addirittura nobili e belli anziché insignificanti. Buffon classificò gli animali a seconda della loro utilità per l'uomo. Difficilmente entravano in gioco considerazioni anatomiche. Linneo lavorò tutta la vita alla correzione di questa carenza, classificando ogni essere vivente secondo le sue peculiarità fisiche. La tassonomia - cioè la scienza della classificazione - non si è più guardata indietro. Naturalmente ci volle del tempo. La prima edizione del suo grande Systema Naturae, del 1735, era lunga solo quattordici pagine.9 Crebbe però da una ristampa alla successiva finché, alla dodicesima edizione - l'ultima che Linneo vide prima di morire -, era ormai estesa a tre volumi per un totale di duemila e trecento pagine. Alla fine, Linneo diede il nome a, o registrò, circa tredicimila specie fra piante e animali. Altre opere erano più vaste: i tre volumi di John Ray, intitolati Historia Generalis Plantarum, pubblicati in Inghilterra fra il 1686 e il 1704, coprivano, di sole piante, non meno di 18.625 specie.10 Ma in quanto a coerenza, ordine, semplicità e tempestività, Linneo non temeva confronti. Sebbene la sua opera risalga al decennio 1730-40, in Inghilterra ebbe fortuna solo dopo il 1760, in tempo per fare dell'autore una sorta di padre dei naturalisti britannici: in nessun altro paese il suo sistema fu adottato con tanto entusiasmo (il che spiega anche come mai la Linnaean Society abbia sede a Londra e non a Stoccolma).11 Non che Linneo fosse al riparo da errori. Trovò spazio, nei suoi cataloghi, anche per bestie mitologiche ed «esseri umani mostruosi» descritti da marinai e altri viaggiatori dalla fervida immaginazione, e che lui, peccando di creduloneria, aveva accettato.12 Fra questi c'era un uomo selvaggio, Homus ferus, che camminava su tutti e quattro gli arti e non aveva ancora fatto suo il linguaggio, e Homo caudatus, ovvero un « uomo con la coda ». D'altra parte, non dovremmo dimenticare che l'epoca di Linneo era molto più ingenua della nostra. Perfino il grande Joseph Banks, alla fine del diciottesimo secolo, dimostrò un vivo interesse per una serie di presunti avvistamenti di sirene al largo delle coste scozzesi. In massima parte, però, le sviste di Linneo erano compensate da una solida e spesso brillante tassonomia. Fra l'altro, si accorse che le balene appartenevano al gruppo dei quadrupedia (poi rinominato mammalia, mammiferi) che comprendeva bovini, topi e altri comuni animali terrestri: un'affinità, questa, che nessuno prima di lui aveva colto.13 Da principio, Linneo intendeva dare a ogni pianta soltanto un nome di genere accompagnato da un numero: Convolvulus 1, Con-volvulus 2 e così via. Ben presto però si rese conto che si trattava di un metodo insoddisfacente e puntò sulla nomenclatura binomia che a tutt'oggi rappresenta il cuore del suo sistema. L'intenzione originale era di usare il sistema binomio per qualsiasi cosa: rocce, minerali, malattie, venti e qualunque altro oggetto naturale. Non tutti accolsero calorosamente questo sistema. Furono in molti a rimproverare Linneo per una certa mancanza di delicatezza, il che suona abbastanza paradossale se si pensa che prima di lui il nome comune di molte specie vegetali e animali era spesso decisamente volgare. Il dente di leone fu a lungo noto col nome di «piscialetto», a causa delle sue presunte qualità diuretiche; altri nomi di uso comune comprendevano fra l'altro «scorreggia di cavalla», «signore discinte», «strizzata di palle», «piscio di cane», «culo aperto» e «pezza al culo».14 Un paio di questi rozzi appellativi probabilmente sono sopravvissuti anche nell'inglese attuale. Il capelvenere, per esempio, non si riferisce affatto alla chioma di una fanciulla. In ogni caso, da tempo si riteneva che le scienze naturali avrebbero acquisito uno status più dignitoso grazie a una generosa riattribuzione di nomi classici. È dunque comprensibile la costernazione suscitata dai vari Clitoria, Fornicata e Vulva che l'autonominatosi principe della botanica aveva disseminato qua e là nella sua opera. Nel corso degli anni molti di questi nomi furono lasciati cadere e scivolarono nel dimenticatoio (non tutti, però: la crepidula, un comune gasteropode, risponde ancora al nome scientifico di Crepidula fornicata), mentre furono introdotti molti altri perfezionamenti a mano a mano che le scienze naturali andavano specializzandosi. In particolare, il sistema fu ampliato dalla graduale introduzione di ulteriori gerarchie. I termini genere e specie erano stati adoperati dai naturalisti per più di un secolo prima di Linneo, mentre ordine, classe e famiglia, in senso biologico, entrarono nell'uso a partire dal ventennio 1750-70. Il termine phylum, invece, fu coniato solo nel 1876 (dal tedesco Ernst Haeckel); quanto a famiglia e ordine, furono considerati intercambiabili fino all'inizio del ventesimo secolo. Per un certo periodo gli zoologi adoperarono famiglia quando i botanici utilizzavano ordine, con conseguente confusione per tutti.* Linneo aveva diviso il mondo animale in sei categorie: mammiferi, rettili, uccelli, pesci, insetti e vermes - vermi - per tutto ciò che non rientrava nelle prime cinque. Fu subito chiaro che inserire aragoste e gamberi nella stessa categoria dei vermi era insoddisfacente e quindi furono create diverse nuove categorie, fra le quali, per esempio, mollusco e crustacea. Purtroppo queste nuove classificazioni non vennero applicate in modo uniforme in tutti i paesi. Nel tentativo di ristabilire l'ordine, nel 1842 i britannici fissarono un nuovo insieme di regole, il codice di Strickland, ma i francesi lo considerarono un'imposizione, e la Société Zoologique gli contrappose un sistema suo. Nel frattempo, l'American Ornithological Society, per oscure ragioni, decise di adottare come base per la nomenclatura l'edizione del Systema Naturae del 1758, anziché quella del 1766 usata in tutti gli altri paesi, il che implicò che molti uccelli americani trascorsero il diciannovesimo secolo collocati in generi diversi rispetto ai loro cugini europei. Fu solo nel 1902, in occasione di uno dei primi convegni dell'International Congress of Zoology, che i naturalisti cominciarono finalmente a mostrare un certo spirito di compromesso e adottarono un codice universale. La tassonomia è descritta talvolta come una scienza e talvolta come un'arte; in realtà, è un campo di battaglia. Anche oggi nel sistema c'è più disordine di quanto si pensi. Prendiamo, per esempio, la * A titolo di esempio, gli esseri umani appartengono al dominio degli elicanoti, al regno degli animali, al phylum dei cordati, al subphylum dei vertebrati, alla classe dei mammiferi, all'ordine dei primati, alla famiglia degli ominidi, al genere Homo e alla specie sapiens. (Per convenzione, i nomi di genere e specie si indicano in corsivo, ma non quelli delle divisioni superiori.) Alcuni tassonomisti usano ulteriori suddivisioni: tribù, sottordine, infraordine, superordine e altre. categoria del phylum, la divisione che descrive i piani corporei fondamentali degli organismi. Alcuni phyla - per esempio i molluschi (bivalvi e gasteropodi), gli artropodi (insetti e crostacei) e i cordati (noi e tutti gli altri animali dotati di colonna vertebrale o di strutture primitive simili) - sono conosciuti bene; per quanto riguarda tutti gli altri, si scivola rapidamente nel buio dell'ignoranza. In questa oscurità dobbiamo inserire gli gnatostomulidi (vermi marini), gli cnidari (meduse, anemoni marini e coralli) e i delicati priapulidi (piccoli vermi di forma fallica). Che siano familiari o no, queste sono suddivisioni elementari. Eppure la questione di quanti phyla esistano o debbano esistere è ancora controversa - controversa in modo sorprendente. Molti biologi fissano il totale a una trentina, altri optano per venti, mentre Edward O. Wilson nel suo La diversità della vita gonfia la cifra fino a un sorprendente ottantanove.15 Dipende da dove si decide di porre le divisioni: se cioè la tendenza è ad accorpare o a dividere. Al livello più comune della specie le possibilità di disaccordo sono anche maggiori. Il fatto che una specie di erba debba chiamarsi Aegilops incurva, Aegilops incurvata oppure Aegilops ovata probabilmente non infiammerà molti non botanici, ma negli ambienti giusti può surriscaldare gli animi. Il problema è che esistono cinquemila specie di erba, molte delle quali spaventosamente simili perfino agli occhi di un inesperto. Di conseguenza, alcune specie sono state scoperte e nominate almeno venti volte, e a quanto pare è difficile trovarne una che non sia stata identificata almeno due volte. Il Manualofthe Grasses ofthe United States, un'opera in due volumi, dedica duecento pagine molto fitte all'elenco di tutti i sinonimi, termine che in biologia indica duplicati involontari ma molto comuni. E questo solo per le erbe di un unico paese. Per dirimere le controversie su scala mondiale esiste l'International Association for Plant Taxonomy, un organismo che si pronuncia su questioni di priorità e duplicati. A intervalli regolari viene emanato un decreto in cui si afferma che Zauschneria californica (pianta assai comune nei giardini rocciosi) da questo momento in poi dovrà essere chiamata Epilobium canum, oppure che Aglaothamnion tenuissimum potrà essere considerato cospecifico di Aglaothamnion byssoides ma non di Aglaothamnion pseudobyssoides. Di solito si tratta di questioni di poco conto, riguardanti appunto la correzione di qualche dato o nome che non fa molto scalpore. Ma quando si parla di piante da giardino amate da tutti, come talvolta capita, si finisce sempre per gridare allo scandalo. Alla fine degli anni Ottanta il comune crisantemo fu bandito (sulla base di principi scientifici in apparenza rigorosi) dal genere omonimo e relegato nel grigio e poco affascinante mondo del genere Dendranthema. I coltivatori di crisantemi sono un gruppo folto e molto orgoglioso, quindi sporsero protesta al comitato per le spermatofite (per quanto sembri improbabile, giuro che esiste davvero; così come, fra innumerevoli altri, esistono comitati per le pterodifite, le brio-fite e i funghi, tutti facenti capo a un organismo denominato Rapporteur General: un'istituzione che va senz'altro preservata). Sebbene si supponga che le regole della nomenclatura siano applicate rigidamente, anche i botanici hanno un cuore, e nel 1995 la decisione fu revocata. Dispense simili hanno in passato salvato petunie, evonimi e una popolare specie di amarillis dalla riduzione di status implicata dal cambio del nome; retrocessione che non è tuttavia stata risparmiata a molte specie di gerani, che qualche anno fa furono trasferite, in un clima di indignazione collettiva, al genere Pelargonium.16 Charles Elliott, nel suo The Potting-Shed Papers, analizza in modo divertente molte di queste dispute. Controversie e revisioni dello stesso tipo si verificano in tutti gli altri regni del mondo della vita, e quindi tenerne un registro aggiornato è ben lungi dall'essere una cosa semplice come si potrebbe supporre. La conseguenza più incredibile di tutto ciò è che ci ritroviamo a non avere la più pallida idea - « nemmeno con l'approssimazione di un ordine di grandezza » per usare le parole di Edward O. Wilson - del numero di creature che attualmente popolano il nostro pianeta. Le stime variano dai tre ai duecento milioni.17 Ma la cosa più straordinaria è che, stando a un'indagine pubblicata dall'Economist, all'incirca il novantasette per cento delle specie animali e vegetali attende ancora di essere scoperto.18 Per quanto riguarda invece gli organismi a noi già noti, nel novantanove per cento dei casi siamo in possesso solo di descrizioni schematiche - « il nome scientifico, qualche esemplare conservato in un museo, e brevi descrizioni rintracciabili nelle riviste scientifiche»: è così che Wilson descrive lo stato attuale delle nostre conoscenze in materia. Nella Diversità della vita egli calcola che il numero totale di specie conosciute (di qualunque tipo: piante, insetti, microbi, alghe, tutto) ammonti a 1,4 milioni, ma si premura subito di aggiungere che si tratta di una semplice ipotesi.19 Altre autorità scientifiche hanno spostato la cifra un po' più in alto, fra 1,5 e 1,8 milioni, ma poiché non esiste un organismo centralizzato preposto al censimento, sono tutti numeri impossibili da verificare.20 In poche parole, ci troviamo a ignorare ciò che sappiamo: una condizione davvero particolare. In linea di principio si dovrebbe poter andare dai vari specialisti, chiedere loro quante specie esistano nel campo di cui si occupano e poi tirare le somme. In molti effettivamente ci hanno provato. Il problema è la difficoltà di trovare almeno due cifre che coincidano. Alcune fonti fissano il numero di funghi conosciuti a settantamila, altre a centomila: quasi il cinquanta per cento in più. Affermazioni convincenti fissano a quattromila il numero di specie note di anellidi oligocheti (i lombrichi); altre, non meno convincenti, portano la stima a dodicimila. Per quanto riguarda gli insetti, le cifre variano da settecentocinquantamila a novecentocinquantamila specie. E stiamo parlando di numeri che presumiamo di conoscere. Per quanto riguarda le piante, le cifre comunemente accettate vanno da 248.000 a 265.000. Può non sembrare una gran differenza, ma si tratta di un numero pari a venti volte quello delle angiosperme presenti nel Nord America. Mettere ordine in questa confusione non è certo un compito facile. All'inizio degli anni Sessanta Colin Groves dell'Australian National University intraprese un'indagine sistematica sulle oltre duecentocinquanta specie di primati note. Scoprì che molto spesso una stessa specie era stata descritta più di una volta - in certi casi diverse volte - senza che nessuno si fosse reso conto di avere a che fare con un animale già noto alla scienza. Groves impiegò quaran-t'anni per sbrogliare la matassa, e si trattava di un gruppo relativamente piccolo di creature facilmente identificabili e generalmente non controverse.21 Solo il cielo sa che cosa accadrebbe se qualcuno mettesse mano a un'impresa simile con le presunte ventimila specie dei licheni, le cinquantamila dei molluschi o le oltre quattrocentomila dei coleotteri. L'unica cosa certa è che il mondo brulica di vita, anche se le reali quantità sono necessariamente stimate sulla base di estrapolazioni (a volte effettivamente un po' troppo dilatabili). In quello che divenne un esperimento famoso condotto negli anni Ottanta, Terry Erwin della Smithsonian Institution irrorò di insetticida un campione di diciannove alberi in una foresta pluviale di Panama, e poi raccolse tutto ciò che cadde nelle reti che vi aveva piazzato attorno. Il bottino (anzi, i bottini, visto che ripetè l'esperimento a ogni stagione, per assicurarsi di catturare anche le specie migranti) comprendeva milleduecento diversi tipi di coleotteri. Poi, sulla base della distribuzione dei coleotteri in altri paesi; del numero di altre specie arboree presenti nella foresta esaminata; del numero di foreste presenti nel mondo; del numero di altri tipi d'insetti e così via, prendendo in considerazione una lunga serie di variabili, Erwin giunse alla cifra di trenta milioni di specie di insetti per l'intero pianeta: stima che qualche tempo dopo affermò di ritenere troppo prudente. Altri, usando gli stessi suoi dati o comunque dati simili, hanno parlato di tredici milioni di specie di insetti, oppure di ottanta, o anche di cento: sempre sottolineando il fatto che stime del genere, per quanto ben studiate, hanno a che fare più con le supposizioni che con la scienza. Secondo il Wall Street Journal, al mondo ci sarebbero «circa diecimila tassonomisti in attività »: non molti, se si pensa al gran lavoro che c'è da fare. Tuttavia, aggiunge il quotidiano, a causa dei costi (circa 1875 euro per ogni specie) e delle scartoffie, ogni anno si arrivano a catalogare solo quindicimila nuove specie.22 «Non è la biodiversità a essere in crisi, ma la tassonomia!» tuona Koen Maes, direttore di origine belga della sezione invertebrati del Kenyan National Museum di Nairobi, con il quale mi incontrai brevemente durante un mio viaggio in Africa nell'autunno 2002.23 Mi disse che in tutta l'Africa non c'era un solo tassonomista specializzato. « Ce n'era uno in Costa d'Avorio, ma credo sia andato in pensione» mi disse. Ci vogliono tra gli otto e i dieci anni per istruire un tassonomista, e non ce n'è uno che venga in Africa. « Sono loro i veri fossili » aggiunse Maes. Lui stesso era in procinto di lasciare il continente alla fine dell'anno, mi confidò. Dopo otto anni in Kenya, il suo contratto non sarebbe stato rinnovato. «Mancano i fondi» mi spiegò. Qualche mese prima il biologo britannico G.H. Godfray aveva fatto notare, in un articolo apparso su Nature, che i tassonomisti soffrivano ovunque di una cronica « carenza di prestigio e di risorse ». Di conseguenza « molte specie sono descritte superficialmente in pubblicazioni isolate, senza fare alcun tentativo di trovare una relazione fra il nuovo taxon* e le specie e le classificazioni esistenti».24 Oltretutto, i tassonomisti impegnano la maggior parte del tempo a riordinare le specie già scoperte, anziché a descriverne di nuove. Molti, stando a quanto afferma Godfray, «passano gran parte della loro vita lavorativa nel tentativo di interpretare il lavoro dei sistematici del diciannovesimo secolo: anni e anni impiegati a scomporre e ricomporre le loro descrizioni spesso inadeguate e a setacciare i musei del mondo alla ricerca di esemplari tipo spesso in pessime condizioni». Godfray sottolinea in modo particolare l'assenza di attenzione nei confronti delle possibilità offerte da internet. Il fatto è che in larga misura la tassonomia è ancora stranamente legata alla documentazione cartacea. Nel tentativo di farla entrare nell'epoca moderna, nel 2001 Kevin Kelly, cofondatore della rivista Wired, lanciò un'iniziativa denominata Ali Species Foundation, allo scopo di registrare in un data base ogni organismo vivente.25 Il costo del progetto è stato stimato fra i due e i quarantacinque miliardi di euro. Alla primavera del 2002 la fondazione aveva raccolto solo un milione e centoventicinquemila euro e contava quattro impiegati a tempo pieno. Se, come suggeriscono le stime, al mondo ci sono da scoprire ancora circa cento milioni di specie di insetti, continuando di questo passo potremmo finire di catalogarli soltanto tra quindicimila anni. Per il resto del regno animale ci vorrà un po' di più. Ma perché ne sappiamo così poco? I motivi sono più o meno tanti quanti gli animali che ci restano da contare, quindi ci limitiamo a elencarne qui di seguito alcuni dei principali. La maggior parte degli esseri viventi è piccola e passa facilmente inosservata. In termini pratici, questa non è sempre una cosa negativa. Infatti non dormireste sonni tanto tranquilli se foste consapevoli che il vostro materasso ospita circa due milioni di acari microscopici che durante la notte si nutrono delle vostre secrezioni sebacee e banchettano con quei deliziosi e croccanti fiocchi di pelle * Termine tecnico usato per riferirsi a una generica categoria zoologica come phylum o genere. che perdete mentre vi rigirate nel sonno.26 Soltanto il vostro cuscino può dare asilo a quarantamila di queste piccole creature (che considerano la vostra testa alla stregua di un'enorme, untuosa leccornia). E non vi illudete che una federa pulita possa risolvere il problema. Per creature sulla scala dimensionale degli acari, la trama del tessuto più fitto equivale alla rete di un pescatore. Infatti è stato calcolato che se un cuscino ha sei anni - a quanto pare l'età media di un guanciale - un decimo del suo peso è costituito da « residui di pelle umana, acari vivi, acari morti e sterco di acaro », per citare l'uomo che ha compiuto la misurazione, il dottor John Maunder del British Medical Entomology Centre.27 (Almeno, però, sono i vostri acari. Pensate a che cosa succede ogni volta che vi stendete sul letto di un albergo.)* Questi acari vivono con noi da tempo immemorabile, ma li abbiamo scoperti solo nel 1965.28 Se creature con le quali abbiamo un rapporto tanto intimo ci sono sfuggite fino all'epoca della televisione a colori, c'è poco da sorprendersi se non conosciamo quasi nulla di tutto il restante mondo su piccola scala. Se andiamo in un bosco - uno qualsiasi -e raccogliamo una manciata di terra, avremo in mano dieci miliardi di batteri, per la maggior parte sconosciuti alla scienza. Il nostro campione conterrà anche all'incirca un milione di lieviti, circa duecentomila piccoli funghi lanuginosi detti muffe e forse diecimila protozoi (quello a noi più familiare è l'ameba) insieme a tutto un assortimento di rotiferi, platelminti, nematodi e varie altre creature microscopiche, collettivamente note come cripto-zoi.29 Ancora una volta, un'ampia percentuale di queste creature ci sarà sconosciuta. Il più completo manuale microbiologia, il Bergey's Manual of Systematic Bacteriology, enumera circa quattromila tipi di batteri. Negli anni Ottanta due scienziati norvegesi, Jostein Goksoyr e Vigdis Torsvik, raccolsero un grammo di suolo, campionandolo a caso da una foresta di faggi nei pressi del loro laboratorio di Bergen, e poi ne analizzarono attentamente il contenuto batterico. * In materia d'igiene stiamo davvero peggiorando. Il dottor Maunder è convinto che l'abitudine di usare i detergenti attivi a bassa temperatura nelle lavatrici abbia favorito il proliferare dei parassiti. Come dice lui: «Lavando a bassa temperatura della biancheria piena di pidocchi, in pratica si ottengono pidocchi più puliti». Scoprirono che questo piccolo campione conteneva fra le quattro e le cinquemila specie di batteri: in altre parole, più di quelle elencate nel Bergey's Manual. Poi andarono in una località costiera a qualche chilometro di distanza, raccolsero un altro grammo di terra e scoprirono che conteneva anch'esso quattro o cinquemila specie: diverse, però. Come osserva Edward O. Wilson: «Se in due soli pizzichi di substrato, provenienti da due località della Norvegia, si possono trovare diecimila specie di batteri, quante ancora attendono di essere scoperte in ambienti radicalmente diversi? »30 Stando alle stime, potrebbero essere quattrocento milioni.31 Non cerchiamo nei posti giusti. Nel suo libro La diversità della vita Wilson parla di un botanico che dopo aver trascorso qualche giorno vagabondando in dieci ettari di giungla del Borneo, scoprì un migliaio di nuove specie di angiosperme: più di quante se ne conoscano in tutto il Nord America.32 Non erano affatto difficili da trovare. Il fatto è che nessuno aveva mai perlustrato quell'area. Koen Maes del Kenyan National Museum mi raccontò di essere andato in una «foresta fra le nuvole», una di quelle foreste del Kenya in cima alle montagne, e di aver scoperto quattro nuove specie di millepiedi (di cui tre appartenenti a nuovi generi) e una nuova specie di albero in mezz'ora di « ricerca non particolarmente attenta ». « Un grande albero » aggiunse facendo un cerchio con le braccia come se stesse danzando con una partner molto formosa. Le cloudforests si trovano in cima agli altipiani e in certi casi sono rimaste isolate per milioni di anni. «Lassù c'è il clima ideale per la vita e quegli habitat non sono mai stati studiati» mi disse Maes. Complessivamente, le foreste pluviali tropicali ricoprono solo il sei per cento della superficie terrestre, eppure ospitano oltre la metà degli animali del pianeta e circa i due terzi delle piante con fiore.33 Gran parte di queste forme di vita rimane ignota perché sono pochissimi i ricercatori che vi si recano. Va detto che potrebbe trattarsi di forme di vita molto importanti. Almeno il 99 per cento delle angiosperme non è mai stato testato per verificarne le eventuali proprietà medicinali. Poiché non possono fuggire dai predatori, le piante hanno dovuto escogitare elaborate strategie chimiche per difendersi, e quindi sono particolarmente ricche di composti interessanti. Oggi quasi un quarto di tutti i farmaci prescritti deriva da una quarantina di piante, mentre un altro sedici per cento deriva da animali e microbi; ciò significa che ogni volta che abbattiamo un ettaro di foresta corriamo il serio rischio di perdere risorse che potrebbero rivelarsi vitali per la medicina. Usando un metodo denominato chimica combinatoria, i chimici possono generare in laboratorio quarantamila composti alla volta; si tratta tuttavia di prodotti casuali e spesso del tutto inutili, mentre in natura qualsiasi molecola ha già superato quello che l'Economist ha definito « il test più severo: più di tre miliardi e mezzo di anni di evoluzione ».34 A ogni modo, per far luce sull'ignoto non basta spingersi in luoghi lontani e dimenticati. In Età: quattro miliardi di anni, Richard Fortey fa notare che un antico batterio fu rinvenuto sul muro di un pub di campagna «dove gli uomini avevano urinato per generazioni ».35 Una scoperta che sembra aver comportato una rara dose di fortuna e dedizione alla scienza, oltre a qualche altra capacità non meglio definita. Non ci sono abbastanza specialisti. La quantità di creature da scoprire, esaminare e registrare supera di molto la disponibilità degli scienziati che si dedicano a questo compito. Prendiamo per esempio i rotiferi bdelloidei, organismi poco conosciuti e straordinariamente resistenti. Si tratta di animali microscopici in grado di sopravvivere quasi a tutto. Quando le condizioni ambientali diventano proibitive, si raggomitolano assumendo una forma compatta, spengono il proprio metabolismo e aspettano tempi migliori. Mentre sono in questo stato, potete anche gettarli nell'acqua bollente o congelarli fin quasi allo zero assoluto (una temperatura alla quale anche gli atomi, per così dire, si arrendono): quando avrete finito di torturarli e li riporterete in un ambiente meno ostile, li vedrete srotolarsi e riprendere la loro attività come se nulla fosse. Fino a oggi ne sono state identificate circa cinquecento specie (sebbene altre fonti dicano trecentosessanta), ma nessuno ha la minima idea di quante ne possano esistere complessivamente.36 Per anni tutto ciò che si sapeva sul loro conto lo si doveva al lavoro di un dilettante appassionato, un impiegato londinese di nome David Bryce, che li studiava nel tempo libero. Gli esperti di rotiferi bdelloidei sono sparsi un po' in tutto il mondo, ma se vi venisse in mente di invitarli tutti a cena non avreste alcun bisogno di farvi prestare i piatti dal vicino. 403 Perfino creature importanti e ubiquitarie come i funghi attirano relativamente poca attenzione. I funghi sono dappertutto e se ne trovano di tutte le forme: i classici funghi con gambo e cappello, i vari tipi di muffe comprese quelle che causano gravi malattie delle piante, i lieviti e le vesce, solo per nominarne qualcuna - e sono in quantità tali che la maggior parte di noi neanche sospetta. Se si accogliessero tutti i funghi presenti in un ettaro di prateria ci si ritroverebbe con duemilaottocento chilogrammi di questi organismi.37 Non si tratta di creature marginali. Senza funghi non ci sarebbe la peronospora della patata, la grafiosi dell'olmo, la tigna inguinale e il piede d'atleta; però dovremmo rinunciare anche allo yogurt, alla birra e al formaggio. Finora sono state identificate settantamila specie di funghi, ma si pensa che il totale potrebbe ammontare a 1,8 milioni.38 Molti micologi si occupano della produzione industriale di formaggi, yogurt e simili, quindi è difficile dire quanti di essi facciano attivamente ricerca, ma possiamo dare per scontato che ci sono più specie di funghi ancora sconosciute che scienziati pronti a scoprirle. Il mondo è davvero molto grande. La facilità dei viaggi in aereo e di altre forme di comunicazione ci ha dato l'illusione che il mondo sia piccolo; a livello del suolo, però, dove si ritrovano a lavorare i ricercatori, esso è enorme: abbastanza enorme da essere pieno di sorprese. Oggi sappiamo che nelle foreste pluviali dello Zaire sono presenti popolazioni consistenti di okapi, il parente più stretto della giraffa, la cui popolazione totale è stimata intorno alle trentamila unità - eppure fino al ventesimo secolo la sua esistenza non era neanche sospettata. Il takahe, un grande uccello neozelandese inetto al volo, era ritenuto estinto da duecento anni prima che lo si trovasse vivo e vegeto in una zona impervia dell'isola del Sud.39 Nel 1995 un gruppo di scienziati francesi e britannici, smarritosi in una remota valle del Tibet durante una tempesta di neve, si imbatté in una razza di cavalli chiamata Riwoche, un tempo conosciuta soltanto tramite i disegni rinvenuti nelle caverne preistoriche. Gli abitanti del luogo rimasero sbalorditi nell'apprendere che nel resto del mondo i loro cavalli erano considerati una rarità.40 Alcuni pensano che ci siano sorprese ancora più grandi ad attenderci. « Un importante etnobiologo britannico » scrisse l'Economist nel 1995 «ritiene che nei recessi della foresta amazzonica possa nascondersi un Megatherium, cioè una sorta di bradipo terricolo gigante alto come una giraffa. »41 Forse non è un caso che il nome dell'etnobiologo non venga citato; forse lo è ancora meno che non si sia più sentito parlare né di lui né del suo bradipo gigante. Nessuno, comunque, potrà escludere categoricamente l'esistenza di una creatura del genere fino a quando non sarà stato perlustrato ogni angolo di giungla - e siamo ancora molto lontani dall'averlo fatto. Ma anche se preparassimo migliaia di ricercatori sul campo e li inviassimo negli angoli più remoti del globo, non basterebbe ancora, perché la vita è presente davvero ovunque possa esistere. La sua straordinaria fecondità è stupefacente, perfino gratificante, ma anche problematica. Per esaminarla tutta, dovreste girare ogni sasso, setacciare tutto il suolo di ogni foresta, passare al vaglio quantità inimmaginabili di sabbia e polvere, arrampicarvi in alto, fra le chiome di ogni foresta, ed escogitare metodi molto più efficaci di quelli oggi disponibili per scandagliare i fondali marini. E anche così, vi sfuggirebbero ancora interi ecosistemi. Negli anni Ottanta un gruppo di speleologi dilettanti entrò nelle viscere di una grotta rumena rimasta isolata per un periodo lunghissimo, sebbene non quantificato, e scoprirono trentatré nuove specie di insetti e altre piccole creature - ragni, centopiedi, pidocchi - tutte cieche, incolori e sconosciute alla scienza. Si cibavano tutte dei microbi presenti nella schiuma che si forma sulla superficie delle raccolte d'acqua: microbi che a loro volta traevano energia dal solfuro di idrogeno proveniente dalle sorgenti calde.