IL RITORNO DI EURIDICE
Estratto da "L'uomo invaso" di Gesualdo Bufalino
Gesualdo Bufalino: Il ritorno di Euridice
di Ivana Margarese e Rossella Riccobono
“Era stanca. Poiché c’era da aspettare, sedette su una gomma dell’argine, in vista del palo dove il barcaiolo avrebbe legato l’alzaia. L’aria era del solito colore sulfureo, come di un vapore di marna o di pozzolana, ma sulle sponde sì incanutiva in fiocchi laschi e sudici di bambagia. Si vedeva poco, faceva freddo, lo stesso fiume non pare scorrere ma arrotolarsi su se stesso, nella sua pece pastosa, come una pigrizia di serpe. Un guizzo dall’inatteso, un lampo nero, sorse sul pelo dell’acqua e scomparve. L’acqua gli si richiuse sopra all’istante, lo inghiotti come una gola. Chissà, il volatile, com’era finito quaggiù, doveva essersi imbucato sottoterra dietro i passi e la musica del poeta”.
Questo l’incipit del racconto “Il ritorno di Euridice”, contenuto nella raccolta L’uomo invaso, in cui Gesualdo Bufalino tralasciando il protagonista consueto, l’incomparabile Orfeo, la cui musica ammansisce le bestie e piega persino la volontà degli Inferi, dà voce a un personaggio tradizionalmente silente, Euridice. Stanca, seduta vicino a un fiume che “non pare scorrere ma arrotolarsi su se stesso, nella sua pece pastosa, come una pigrizia di serpe”, Euridice attende di tornare nel regno sotteraneo di Ade. Delusa dall’avere appena perso e per sempre quel guizzo, quell’illusione di volo, che aveva creduto Orfeo, il poeta, fosse tornato a ridarle. Orfeo, quel marito che già in vita aveva percepito distante nel suo darsi tante arie, indifferente a ogni gesto quotidiano: un “adorabile buonannulla”.
Il mito greco diviene nel racconto repertorio di immagini e significanti polivalenti capace di attivare interrogativi sulle storie e sulle zone emozionali sommerse. In un misterioso gioco di specchi Bufalino – Orfeo fa riferimento a quel muein che indica il chiudere gli occhi e il serrare le labbra per vedere meglio e rivolge il suo sguardo a Euridice, la donna che rappresenta il simulacro d’amore, la promessa di un volto passato, l’immagine di colei che gli è cara. Il mito narra che per riaverla e ricondurla a sé, Orfeo si inoltra nel labirinto degli inferi, ma si volta a guardarla prima del tempo accordatogli e la perde per sempre. Al poeta resta la perdita assoluta, il pianto che non avrà mai fine. Seppure, come ipotizzato da Foucault, sotto quel pianto potrebbe splendere «la gloria d’aver visto, per un solo istante, il volto inaccessibile nel momento stesso in cui si voltava e rientrava nella notte». Orfeo forse è sceso negli Inferi non per riportare alla luce Euridice, ma il miraggio di lei, la magia del gesto di chiamarla.
Possiamo così immaginare un parallelismo fra la solitudine della Gorgone Medusa, il cui sguardo pietrifica chiunque la osservi, e quella della delicata Euridice, pietrificata a sua volta dallo sguardo di Orfeo. Entrambe sono figure di metamorfosi, raccontano un passaggio, una esperienza di morte-rigenerazione. Bufalino con estrema cura ci accompagna in un viaggio, finora non raccontato, fatto intimamente e senza gloria da Euridice stessa, un viaggio anche questo iniziatico che conduce la donna a una consapevolezza, a un dolore che tuttavia nell’atto di comprendere scioglie il risentimento, l’ingorgo dolente che porta nel petto. Un percorso che Euridice, in questo perfetto contraltare di Orfeo, compie in silenzio, senza pubblico, battimani o riflettori della ribalta. Euridice non si avvicina al bivacco di anime raccolte sulla sponda del fiume Lete, impazienti e starnazzanti, preferisce restale sola a pensare e ricapitolare la sua storia:
Poiché un disagio, lo stesso che lascia un cibo sbagliato, le faceva male sotto una costola, e lei sapeva che non era il cruccio della vita riversa, della risurrezione andata male, era un altro e curioso agrume, un rincrescimento, incapace per ora di farsi pensiero, ma ostinato a premere dentro in confuso, come preme un bambino non nato, putrefatto nelle viscere, senza nome né sorte. E lei non sapeva Come chiamarlo, se presagio, sospetto, vergogna…
Stimolata da un pungolo del suo corpo, nel regno sotterrano della conoscenza e del destino, ripercorre la sua storia e ricorda, anche se le sarebbe più facile dimenticare: si era innamorata controvoglia perché all’inizio quell’uomo le pareva un mago, un seduttore di cui non fidarsi. Tuttavia il suo fare trasognato da ninfa a poco a poco si era lasciato attirare dalla musica, dalle parole di Orfeo e lo aveva amato, nonostante lui avesse cominciato presto a eclissarsi, “stregato lui stesso dalle cantilene che gli nascevano”, a lasciarla sola ” a corto di provviste, deserta d’affetto, esposta ai salaci approcci di un mandriano del vicinato”. Gesualdo Bufalino racconta così la celebre storia amore tra Euridice e Orfeo e sottolinea, come del resto aveva già fatto Platone nel Fedro ponendo Orfeo tra i sofisti, interessati più alla seduzione della parola che alla verità, la vanità del poeta.
La parola, come scrive Cristina Campo, è un tremendo pericolo, soprattutto per chi la adopera, tanto che di ogni parola bisognerà dare conto.
Seduta accanto a Caronte, nell’unico posto rimasto vuoto, la giovane ninfa cerca di comprendere le ragioni del suo dolore, del peso al costato, seppure buona parte di lei desideri la calma di un oblio totale, una completa dimenticanza di tutto e per sempre. Euridice ha coraggio, un coraggio tenue, senza clamore: osserva ciò che le è accaduto, senza il riparo delle illusioni. Capisce che Orfeo si è voltato e si è voltato apposta:
La barca era tornata ad andare, già l’attracco s’intravedeva fra fiocchi laschi e sporchi di bruma (…). Non s’udiva altro rumore che il colpo uguale e solenne dei remi nell’acqua. Allora Euridice si sentì d’un tratto sciogliere quell’ingorgo nel petto, e trionfalmente, dolorosamente capì: Orfeo s’era voltato apposta.
Questo è il ritratto che attraverso di lei lo scrittore siciliano fa di Orfeo, un uomo incapace di crescere, di preferire il tranquillo mutare delle cose all’eternità della poesia e della musica, di rinunciare alle lusinghe della fama. Anche Cesare Pavese considera l’azione di Orfeo un gesto volontario:
L’Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo un passato che Euridice non sa. L’ho capito tra i morti mentre cantavo il mio canto. Ho visto le ombre irrigidirsi e guardar vuoto, i lamenti cessare, Persefone nascondersi il volto, lo stesso tenebroso-impassibile, Ade, protendersi come un mortale e ascoltare. Ho capito che i morti non sono più nulla”
Ma Orfeo in Bufalino è un personaggio ancora più umano, troppo umano, che si lega alla vanità del durare e alla immaginazione data dall’assenza poiché teme il graduale scolorire della presenza quotidiana. In Diceria dell’untore Gesualdo Bufalino scrive del protagonista innamorato di Marta:
Mentre era appena alle prime battute il grande andante d’oro del mio innamoramento per lei, già dentro di me la desideravo refrattaria se non indegna, per prepararmi a disporre in anticipo i pretesti e gli svincoli della fuga di domani.
E ancora in un passo de Il malpensante descrive l’amore come un sentimento inventato, che nasce più come rituale di seduzione e piacere. Perché non c’è gesto o azione che non deluda, che non nasconda il pericolo della perdita: ogni cosa nell’atto stesso di illuminare acceca.
Euridice nel racconto di Bufalino sceglie anche lei, come Orfeo. Tuttavia differentemente da lui il suo trionfo non cerca il clamore ma il silenzio che attraverso l’accettazione sommessa del dolore scioglie l’ingorgo delle illusioni per rinascere a nuova consapevolezza.
IL RITORNO DI EURIDICE
Era stanca. Poiché c’era da aspettare, sedette su una gobba dell’argine, in vista del palo dove il barcaiolo avrebbe legato l’alzaia. L’aria era del solito colore sulfureo, come d’un vapore di marna o di pozzolana, ma sulle sponde s’incanutiva in fiocchi laschi e sudici di bambagia. Si vedeva poco, faceva freddo, lo stesso fiume non pareva scorrere ma arrotolarsi su se stesso, nella sua pece pastosa, con una pigrizia di serpe. Un guizzo d’ali inatteso, un lampo nero, sorse sul pelo dell’acqua e scomparve. L’acqua gli si richiuse sopra all’istante, lo inghiottì come una gola. Chissà, il volatile, com’era finito quaggiù, doveva essersi imbucato sottoterra dietro i passi e la musica del poeta.
“Il poeta”... Era così che chiamava il marito nell’intimità, quando voleva farlo arrabbiare, ovvero per carezza, svegliandosi al suo fianco e vedendolo intento a solfeggiare con grandi manate nel vuoto una nuova melodia. “Che fai, componi?” Lui non si sognava di rispondere, quante arie si dava. Ma com’era rassicurante e cara cosa che si desse tante arie, che si lasciasse crescere tanti capelli sul collo e li ravviasse continuamente col calamo di giunco che gli serviva per scrivere; e che non sapesse cuocere un uovo... Quando poi gli bastava pizzicare due corde e modulare a mezza voce l’ultimo dei suoi successi per rendere tutti così pacificamente, irremissibilmente felici...
“Poeta”... A maggior ragione, stavolta. Stavolta lei sillabò fra le labbra la parola con una goccia di risentimento. Sventato d’un poeta, adorabile buonannulla... Voltarsi a quel modo, dopo tante raccomandazioni, a cinquanta metri dalla luce... Si guardò i piedi, le facevano male. Se mai possa far male quel poco d’aria di cui sono fatte le ombre.
Non era delusione, la sua, bensì solo un quieto, rassegnato rammarico. In fondo non aveva mai creduto sul serio di poterne venire fuori. Già l’ingresso – un cui di sacco a senso unico, un pozzo dalle pareti di ferro – le era parso decisivo. La morte era questo, né più né meno, e, precipitandovi dentro, nell’attimo stesso che s’era aggricciata d’orrore sotto il dente dello scorpione, aveva saputo ch’era per sempre, e che stava nascendo di nuovo, ma alla tenebra e per sempre. Allora s’era avvinta agli uncini malfermi della memoria, s’era aggrappata al proprio nome, pendulo per un filo all’estremità della mente, e se lo ripeteva, Euridice, Euridice, nel mulinello vorticoso, mentre cascava sempre più giù, Euridice, Euridice, come un ulteriore obolo di soccorso, in aggiunta alla moneta piccina che la mano di lui le aveva nascosto in bocca all’atto della sepoltura.
Tu se’ morta, mia vita, ed io respiro?
Tu se’ da me partita
per mai più non tornare ed io rimango ?
Così aveva gorgheggiato lui con la cetra in mano e lei da quella monodia s’era sentita rimescolare. Avrebbe voluto gridargli grazie, riguardarselo ancora amorosamente, ma era ormai solo una statuina di marmo freddo, con un agnello sgozzato ai piedi, coricata su una pira di fascine insolenti. E nessun comando che si sforzasse di spedire alle palpebre, alle livide labbra, riusciva a fargliele dissuggellare un momento.
Della nuova vita, che dire? E delle nuove membra che le avevano fatto indossare? Tenui, ondose, evasive come veli...
Poteva andar meglio, poteva andar peggio. I giochi con gli aliossi, le partite di carte a due, le ciarle donnesche con Persefone al telaio; le reciproche confidenze a braccetto per i viali del regno, mentre Ade dormiva col capo bendato da un casco di pelle di capro... Tutto era servito, per metà dell’anno almeno, a lenire l’uggia della vita di guarnigione. Ma domani, ma dopo?
Guardò l’acqua. Veniva, onda su onda (e sembravano squame, scaglie di pesce), a rompersi contro la proda. Scura, fradicia acqua, vecchissima acqua di stagno, battuta da remi remoti. Tese l’orecchio: il tonfo delle pale s’udiva in lontananza battere l’acqua a lenti intervalli, doveva essere stufo, il marinaio, di tanti su e giù...
Mille e mille anime s’erano raccolte, frattanto, e aspettavano. Anche a mettersi in fila, sarebbero passate ore prima che giungesse il suo turno. “Non ci sono precedenze per chi ritorna?” si chiese con un sorriso, benché non avesse fretta, ormai che c’era, di rincasare. Erano mille e mille, le anime, e aspettavano tremando di freddo e starnazzando, con ima sorta d’impazienza affamata. D fuoco che brillava in mezzo a loro, va a sapere come avevano fatto ad accenderlo, ad attizzarlo, con che pietre focaie e pigne di pino. E vi si scaldavano attorno, l’aria di fiume è nociva ai corpi spogliati.
Sorrise ancora. Come se i reumi avessero ancora corso, fra i morti. Benché a lei sarebbe piaciuto lo stesso consolarsi le palme a quella fiamma, mescere la sua voce – un pigolio – al pigolare degli altri. Non lo fece, non s’avvicinò al bivacco, preferiva restare sola a pensare. Poiché un disagio, lo stesso che lascia un cibo sbagliato, le faceva male sotto una costola, e lei sapeva che non era il cruccio della vita ripersa, della resurrezione andata a male, era un altro e curioso agrume, un rincrescimento, incapace per ora di farsi pensiero, ma ostinato a premere dentro in confuso, come preme un bambino non nato, putrefatto nelle viscere, senza nome né sorte. E lei non sapeva come chiamarlo, se presagio, sospetto, vergogna...
Ricapitolò la sua storia, voleva capire.
A ripensarci, s’era innamorata di lui tardi e di controvoglia. Non le garbava, all’inizio, che le altre donne gli corressero dietro a quel modo, insieme alle bestie, alle belve. Doveva essere un mago, quell’uomo, un seduttore d’orecchi, un accalappiatopi da non fidarsene. Con l’eterno strumento a tracolla, la guardata indiscreta, la parola ciarlatana. Poi, una sera di molta luna, trovandosi in un boschetto ad andare, trasognata secondo il suo costume, coi piedi che le passeggiavano qua e là, temerari con tante angui latenti nell’erba, a un certo punto, dentro il fitto d’alberi dove s’era cercata una cuccia di buio, un filo di musica s’era infilato, via via sempre più teso e robusto, fino a diventare imo spago invisibile che la tirava, le circondava le membra, gliele liquefaceva in un miele umido e tiepido, in un rapimento e mancamento assai simile al morire. Né s’era svegliata prima che le grosse labbra di lui, la potenza di lui, le si fossero ritirate lentamente di dosso.
Lo amò, dunque. E le nozze furono di gala, con portate a non finire e crateri di vino nero. Turbate da un solo allarme irrisorio: quella torcia che, sebbene Imene l’agitasse con entrambe le mani, non s’avvivava ma continuava a eruttare tutt’intorno pennacchi di brutto fumo.
Dopo di che c’erano stati giorni e notti celesti. Lui sapeva parole che nessun altro sapeva e gliele soffiava fra i capelli, nei due padiglioni di carne rosea, come un respiro recondito, quasi inudibile, che però dentro di lei cresceva subito in tuono e rombo d’amore. Era un paese di nuvole e fiori, la Tracia dove abitavano, e lei non ne ricordava nient’altro, nessuna sodaglia o radura o petraia, solo nuvole in corsa sulla sua fronte e manciate di petali, quando li strappava dal terreno coi pugni, nel momento del piacere. Giaceva con lui sotto un’ampia coppa di cielo, su un letto di foglie e di vento, mirando fra le ciglia in lacrime profili d’alberi vacillare, udendo un frangente lontano battere la scogliera, una cerva bramire nel sottobosco. Si asciugava gli occhi col dorso della mano, li riapriva. Lui glieli chiudeva con un dito e cantava. Ecco già si fa sera, ora negli orti l’oro dei vespri s’imbruna, la luna s’elargisce dai monti, palpita intirizzita fra le dita verdi dell’araucaria... Euridice, Euridice! E lei gli posava la guancia sul petto, vi origliava uno stormire di radici, e battiti, anche, battiti lunghi d’un cuore d’animale o di dio.
Lo aveva amato. Anche se presto aveva dubitato d’esserne amata altrettanto. Troppe volte lui s’eclissava su per i gioghi del Rodope in compagnia d’un popolo di fanciulli che portavano al polso una fettuccia rossa; o scendeva giù a valle, verso la marina, pavoneggiandosi del suo corteo d’usignoli stregati, stregato lui stesso dalle cantilene che gli nascevano. Senza dire mai dove andava, senza preoccuparsi di lasciarla a corto di provviste, deserta d’affetto, esposta ai salaci approcci di un mandriano del vicinato. Si fosse degnato di adontarsene, almeno, di fare una scenata. Macché. Si limitava, tanto per la forma, a intonare un lamento dell’amor geloso, di cui, dopo un minuto, s’era già scordato. Quand’è così, una si disamora, si lascia andare, sicché, negli ultimi tempi, lei s’era trascurata, si faceva vedere in giro con le chiome secche, male truccata, con la pelle indurita dai rovi, dalle tramontane. E sebbene ad Aristeo rispondesse sempre no e poi no, non lo diceva con la protervia di prima, ma blandamente, accettandone, addirittura, ora una focaccia di farro, ora un rustico mazzolino. Salvo a scappare, appena quello dimostrasse cupamente nei pomelli qualche porpora di vino o di desiderio. Finché era morta così, mentre gli scappava davanti, pestando con piante veloci la mala striscia nell’erba.
Maledetta erba... Il pensiero le si volse di nuovo a Persefone. Un fiore di ragazza, ma sfortunata. Che anche lei s’era messa nei guai per volere andare a spasso nei prati. Un’amica a mezzo servizio, purtroppo, ma così bella quando tornava dalle ferie, abbronzata, con le braccia colme di primavera, di ligustri a fasci, di giacinti, amaranti, garofani... E se li metteva fra i capelli, quell’ora o due che duravano; indi nei portafiori, dove s’ostinava a innaffiarli con acqua di Stige, figurarsi; decidendosi a buttarli nell’immondizia solo quando decisamente puzzavano...
Sfortunata ragazza. Cara, tuttavia, a uno sposo, a una madre. E che poteva permettersi di viaggiare, di alternare gli asfodeli con i narcisi, i coniugali granelli di melagrana con le focose arance terrene, di essere a un tempo gelo e vampa, orbita cieca e raggiante pupilla, femmina una e dea trina!...
Un clamore la riscosse. La barca era apparsa di colpo, correva sulla cima dei flutti come per il repentino puntiglio di un conducente in ritardo. E dalla riva le anime applaudivano, squittivano, tendevano le mani, qualcuno lanciava segnali impugnando un tizzone acceso, Euridice si levò in piedi a guardare. La scena era, come dire, infernale. Con quella prora in arrivo sulle onde bigie, e questi riverberi di fuoco nebbioso, sotto cui la folla sembrava torcersi, moltiplicarsi. E si protendevano tutti, pronti a balzare. La chiatta fu subito piena, straripava di passeggeri, stretti stretti, con le braccia in alto per fare più spazio. Un grappolo di esclusi tentò ancora un assalto, afferrandosi a una gomena. Ricaddero in acqua, riemersero a fatica, fangosamente. Un posto solo era rimasto vuoto, proibito, uno stallo di legno accanto al vecchio nocchiero. “Euridice, Euridice!” chiamò il vecchio nocchiero.
Riaprì gli occhi. Una lingua d’acqua fredda le lambiva le caviglie. La barca era immobile, ora, beccheggiava a metà della corrente. Vide davanti a sé la schiena nuda e curva del vecchio, ispida di peli bianchi. Da un buco del fasciame una lingua d’acqua era entrata e il vecchio era curvo a vuotarla e ad incerare la falla. Che barca vecchia. Quante cicatrici, sulla vela, e rammendi d’ago maldestro. “Ero più brava io, a cucire”, pensò. “Sono stata una buona moglie. Lo amavo, il poeta. E lui, dopotutto, mi amava. Non avrebbe, se no, pianto tanto, rischiato tanto per voragini e dirupi, fra Mani tenebrosi e turbe di sogni dalle unghie nere. Non avrebbe guadato acque, scalato erte, ammansito mostri e Moire, avendo per sola armatura una clamide di lino, e una semplice fettuccia rossa legata al polso. Né avrebbe saputo spremere tanta dolcezza di suoni davanti al trono dell’invisibile Ade...”
Il peso contro il costato doleva, ora, ma lei non ne aveva più paura, sapeva cos’era. Era una smemoratezza che le doleva, di un particolare dell’avventura recente, una minuzia che aveva o visto o intuito o capito in un baleno e che il Lete s’era provvisoriamente portato via. Come ima rivelazione da mettere in serbo per ricordarsene dopo. Se ne sarebbe ricordata a momenti, certo, appena la sorsata di Lete avesse finito di sciogliersi, innocua ormai, nel dedalo delle sue vene. Era questa la legge, anche se lei avrebbe preferito un oblio di tutto e per sempre, al posto di questa vicenda di veglie e stupori, di queste temporanee vacanze della coscienza: come chi, sonnambulo, lascia il suo capezzale e si ritrova sull’orlo d’un cornicione...
Ripensò al suo uomo, al loro ultimo incontro. Ci ripensò con fierezza. Poiché il poeta, era venuto qui per lei, e aveva sforzato le porte con passo conquistatore, e aveva piegato tutti alla fatalità del suo canto. Perfino Menippo, quel buffone, quel fool, aveva smesso di sogghignare, s’era preso il calvo capo fra le mani e piangeva, fra le sue bisacce di fave e lupini. E Tantalo aveva cessato di cercare con la bocca le linfe fuggiasche, Sisifo di spingere il macigno per forza di poppa... E la ventosa ruota d’Issione, eccola inerte in aria, come un cerchio d’inutile piombo. Un eroe, un eroe padrone era parso. E Cerbero gli s’era accucciato ai piedi, a leccargli con tre lingue i sandali stanchi... Ade dalla sua nube aveva detto di sì.
Rivide il sèguito: la corsa in salita dietro di lui, per un tragitto di sassi e spine, arrancando col piede ancora zoppo del veleno viperino. Felice di poterlo vedere solo di spalle, felice del divieto che avrebbe fatto più grande la gioia di riabbracciarlo fra poco...
Quale Erinni, quale ape funesta gli aveva punto la mente, perché, perché s’era irriflessivamente voltato?
“Addio!” aveva dovuto gridargli dietro, “Addio!”, sentendosi la verga d’oro di Ermete picchiare piano sopra la spalla. E così, risucchiata dal buio, lo aveva visto allontanarsi verso la fessura del giorno, svanire in un pulviscolo biondo... Ma non sì da non sorprenderlo, in quell’istante di strazio, nel gesto di correre con dita urgenti alla cetra e di tentarne le corde con entusiasmo professionale... L’aria non li aveva ancora divisi che già la sua voce baldamente intonava “Che farò senza Euridice?”, e non sembrava che improvvisasse, ma che a lungo avesse studiato davanti a imo specchio quei vocalizzi e filature, tutto già bell’e pronto, da esibire al pubblico, ai battimani, ai riflettori della ribalta...
La barca era tornata ad andare, già l’attracco s’intravedeva fra fiocchi laschi e sporchi di bruma. Le anime stavano zitte, appiccicate fra loro come nottole di caverna. Non s’udiva altro rumore che il colpo uguale e solenne dei remi nell’acqua. Allora Euridice si sentì d’un tratto sciogliere quell’ingorgo nel petto, e trionfalmente, dolorosamente capì: Orfeo s’era voltato apposta.