domenica 14 maggio 2023

IL CUGINO PONS Honoré de Balzac


 

IL CUGINO PONS

Honoré de Balzac 

Traduzione di Walter Binni

© GARZANTI

Recensione

Il romanzo è un eccezionale documento dell’ultimo Balzac, alla vigilia della Rivoluzione del 1848. Mi sorprende la capacità di Balzac di interpretare il clima di conflitto che sta attraversando la società francese: il dio denaro domina su tutto, sono i nuovi ricchi che si impossessano di ogni cosa, prevale una competizione sfrenata di tutti contro tutti. Balzac esprime una critica feroce a una società dove il “progresso” comporta l’annientamento dei deboli, e dove non c'è posto per sentimenti disinteressati come l’amicizia e l’amore. Patetici e ingenui appaiono i due vecchi musicisti Pons e Schmucke, La passione del collezionista Pons, esperto in «bricabracologia», ci viene presentata come incomprensibile e maniacale . È una realtà dove i droghieri, degli usurai e i portinai, si affermano in modo apparentemente inarrrestabile, contro la cultura e la civiltà. Una sfilata di personaggi "attuali" perchè, per dirla parafrasando Kundera, non sono personaggi legati a quel momento storico ma a una situazione esistenziale rivelatrice.

I • UN GLORIOSO RELITTO DELL'IMPERO

Verso le tre del pomeriggio, nell'ottobre del 1844, un uomo di una sessantina d'anni che ne dimostrava molti di più camminava lungo il boulevard des Italiens, naso a terra e aria soddisfatta, come un negoziante che avesse appena concluso un affare eccellente o un ragazzo appena uscito tutto soddisfatto da un boudoir. A Parigi è questa l'espressione più eloquente dell'umana soddisfazione. Scorgendo da lontano quel vecchio, le persone che stavano lì ogni giorno sedute sulla sedia, abbandonandosi al piacere di osservare i passanti, lasciavano affiorare sul volto quel sorriso tipico dei parigini, ironico, beffardo o compassionevole, che tuttavia per animare l'espressione di un parigino, abituato a ogni genere di spettacoli, richiede una dose di curiosità non comune.

Un aneddoto può far capire sia il valore archeologico di quel brav'uomo, sia la ragione di quel sorriso che si ripeteva come un'eco in ogni sguardo. Fu chiesto a Hyacinthe, un attore celebre per le sue battute, dove mai si facesse fare quei cappelli che alla loro apparizione suscitavano esplosioni di risate in sala. Rispose: «Non li faccio fare! Io li conservo». Ebbene, nel milione d'attori che compone la grande compagnia di Parigi s'incontrano degli Hyacinthe che non sanno di esserlo: questi attori inconsapevoli sono un vero concentrato di tutte le ridicolaggini di un'epoca e sembrano impersonare un intero periodo storico, per strapparvi una ventata di buonumore mentre passeggiate ingoiando qualche amaro dispiacere provocato dal tradimento di un ex amico.

Mantenendosi comunque fedele, in qualche particolare dell'abbigliamento, alla moda del 1806, quel passante ricordava l'Impero senza sembrare una caricatura. Per gli osservatori, una tale finezza rende estremamente preziose le rievocazioni di questo genere. Ma quell'insieme di piccoli dettagli richiedeva l'attenzione analitica di cui sono dotati i più consumati perdigiorno; e, per provocare il riso da lontano, quel passante doveva offrire uno di quei paradossi che saltano immediatamente agli occhi e che gli attori ricercano per garantirsi il successo dell'entrata in scena. Il vecchio, asciutto e magro, portava uno spencer color nocciola sopra una giacca verdastra con bottoni di metallo bianco!... Un uomo in spencer nel 1844 è come se Napoleone si fosse degnato di resuscitare per un paio d'ore.

Lo spencer fu inventato, come dice il nome, da un lord certamente orgoglioso del proprio portamento. Prima della pace di Amiens quest'inglese aveva risolto il problema di coprire il busto senza schiacciare il corpo sotto il peso di quell'orribile carrick che oggi è finito sulle spalle dei vecchi fiaccherai; ma poiché le figure snelle sono rare, la moda dello spencer da uomo in Francia riscosse un successo effimero, nonostante si trattasse di un'invenzione inglese. Alla vista dello spencer le persone tra i quaranta e i cinquant'anni rivestivano mentalmente quel signore di stivali con i risvolti, di pantaloni di casimir verde pistacchio con nastri annodati, e si rivedevano negli abiti della giovinezza! Le vecchie si ricordavano delle loro conquiste! Quanto ai giovani, si chiedevano perché mai quel vecchio Alcibiade avesse tagliato la coda al paltò. Tutto si accordava talmente bene con quello spencer che non avreste esitato a definire quel passante «un uomo Impero», così come si dice un «mobile Impero»; ma era un 2/166

simbolo dell'Impero solo per coloro ai quali quell'epoca magnifica e grandiosa è nota almeno de visu; infatti richiedeva una certa fedeltà ai ricordi in materia di moda.

L'Impero è già talmente lontano da noi che non tutti possono immaginarlo nella sua realtà gallo-greca.

Il cappello all'indietro lasciava scoperta quasi interamente la fronte, con quell'atteggiamento di spavalderia con cui gli impiegati e i borghesi, in quegli anni, cercavano di rispondere a quella dei militari. Era un orribile cappello di seta da quattordici franchi, sui cui bordi interni due orecchi alti e larghi avevano impresso delle macchie biancastre, combattute invano dalla spazzola. Il tessuto di seta applicato malamente, come sempre, sul cartone della forma, faceva qua e là delle pieghe e pareva aggredito dalla lebbra nonostante la mano che ogni mattina lo lisciava.

Sotto il cappello, che sembrava sul punto di sfondarsi, si stendeva una di quelle facce strane e comiche che soltanto i cinesi sanno inventare per le loro statuine grottesche.

Il volto largo, bucherellato come una schiumarola i cui fori formavano delle ombre, e scavato come una maschera romana, smentiva tutte le leggi dell'anatomia. Lo sguardo non riusciva a scorgervi alcuna struttura. Là dove il disegno esigeva delle ossa, la carne presentava dei piani gelatinosi, e là dove i volti hanno di solito delle cavità, il suo sporgeva in flaccide protuberanze. Quella faccia grottesca, schiacciata a forma di fungo, intristita dagli occhi grigi sormontati da due linee rosse al posto delle sopracciglia, era sovrastata da un naso alla don Chisciotte, come una pianura è dominata da un masso erratico. Un naso simile esprime, come ebbe a notare Cervantes, una naturale tendenza a quella dedizione ai grandi ideali che degenera in stupidità. Eppure quella bruttezza, perfino comica, non faceva ridere affatto.

L'estrema malinconia che traboccava dagli occhi smorti del pover'uomo colpiva la persona beffarda e le gelava il sarcasmo sulle labbra. Veniva subito da pensare che la natura avesse proibito a quel brav'uomo di esprimere affetto, a meno di suscitare il riso di una donna o di affliggerla. Il francese ammutolisce di fronte alla sventura che considera la più crudele di tutte: non poter piacere!

II • UN ABBIGLIAMENTO COME SE NE VEDONO POCHI Quell'uomo trattato così male dalla natura era vestito come i nobili decaduti ai quali i ricchi cercano spesso di somigliare. Le scarpe erano coperte da ghette, sul modello di quelle della guardia imperiale, che certamente gli permettevano di tenere gli stessi calzini per un certo tempo. I pantaloni di panno nero avevano dei riflessi rossastri e, sulle pieghe, linee bianche o lucide le quali, non meno del taglio, facevano risalire a tre anni prima la data dell'acquisto. L'ampiezza dell'abito nascondeva malamente una magrezza dovuta più alla costituzione fisica che a un regime vegetariano; infatti il buonuomo, dotato di una bocca sensuale dalle labbra carnose, quando sorrideva mostrava dei denti bianchi degni di un pescecane. Il panciotto a scialle, anch'esso di panno nero, sopra un altro panciotto bianco sotto il quale luccicava in terza linea l'orlo di una maglia rosa, vi riportava alla memoria i cinque panciotti di Garat. Un'enorme cravatta di mussola bianca il cui nodo pretenzioso era stato creato da qualche bellimbusto per incantare le femmes charmantes del 1809, oltrepassava talmente il mento che la faccia sembrava sprofondarvi come in un abisso. Un cordone di seta intrecciata che simulava dei capelli attraversava la camicia e proteggeva l'orologio da un improbabile furto. La giacca verdastra, decisamente pulita, aveva almeno tre anni più dei pantaloni; ma il colletto di velluto nero e i bottoni di metallo bianco rinnovati 3/166

da poco rivelavano meticolose cure domestiche.

Quel modo di tenere il cappello sulla nuca, il triplice panciotto, l'immensa cravatta nella quale sprofondare il mento, le ghette, i bottoni di metallo sulla giacca verdastra, tutte queste vestigia delle mode imperiali si armonizzavano con il sapore antico della civetteria degli Incroyables, con quel non so che di minuto nelle pieghe, di corretto e di essenziale nell'insieme, che ricordava la scuola di David e gli slanciati mobili di Jacob. Si riconosceva del resto a prima vista un uomo ben educato in preda a qualche vizio segreto, o una di quelle persone la cui rendita è così modesta e condiziona a tal punto le loro spese che un vetro rotto, uno strappo al vestito o la sciagura di una colletta filantropica bastano da soli a cancellare i loro piccoli piaceri per un mese intero. Se vi foste trovati lì, vi sareste chiesti perché mai il sorriso animasse quella faccia grottesca la cui espressione abituale doveva essere triste e fredda, come quella di tutti coloro che lottano oscuramente per far fronte alle triviali necessità dell'esistenza. Ma, osservando la precauzione materna con cui quel vecchio singolare teneva nella mano destra un oggetto sicuramente prezioso, sotto i due lembi sinistri della sua doppia giacca per proteggerlo da urti imprevisti; e soprattutto notando in lui l'aria indaffarata che assumono gli oziosi incaricati di qualche commissione, vi sarebbe sorto il sospetto che avesse ritrovato qualcosa di equivalente al cagnolino di una marchesa e che lo stesse riportando trionfante, con la premurosa galanteria di un

«uomo Impero», all'incantevole dama sessantenne che ancora non ha saputo rinunciare alla visita quotidiana del suo cicisbeo. Parigi è l'unica città al mondo dove potreste assistere a spettacoli del genere, che fanno dei suoi boulevards un dramma ininterrotto, rappresentato gratis dai francesi a profitto dell'Arte.

III • LA FINE DI UN GRAND PRIX DE ROME

Dato il profilo di quell'uomo ossuto e nonostante il suo audace spencer, difficilmente lo avreste classificato nella categoria degli artisti parigini: individui convenzionali che hanno la grande capacità, quasi come i monelli di Parigi, di risvegliare nell'immaginazione dei borghesi le giovialità più mirabolanti, visto che è stato riportato in auge questo termine disusato e pittoresco. Eppure quel passante era un grand prix, l'autore della prima cantata premiata all'Institut nel momento in cui fu di nuovo insediata l'Académie de Rome, insomma si trattava di Sylvain Pons!... l'autore di celebri romanze gorgheggiate dalle nostre madri, di due o tre opere rappresentate nel 1815 e nel 1816, e di alcune partiture inedite. Quell'uomo di valore era finito come direttore d'orchestra in un teatro dei boulevards. Grazie al suo aspetto, era professore in qualche pensionato per fanciulle, e non aveva altra rendita che i suoi emolumenti e le sue lezioni. Correre dietro alle lezioni private a quell'età!... Quanti misteri in una situazione così poco romantica!

Quell'ultimo porta-spencer portava dunque su di sé ben altro che i simboli dell'Impero; portava anche un grande insegnamento scritto sui suoi tre panciotti.

Mostrava gratis una delle numerose vittime di quel fatale e funesto sistema chiamato

«concorso», che ancora regna in Francia dopo cent'anni di esperienze senza risultati.

Questo torchio delle intelligenze fu inventato da Poisson de Martigny, il fratello di madame de Pompadour, nominato direttore delle Belle Arti nel 1746. Ora, provate a contare sulle dita le persone di genio che sono uscite in un secolo dalle file degli artisti laureati! Anzitutto, nessuno sforzo amministrativo o scolastico sostituirà mai i miracoli del caso, cui si devono i grandi uomini. Tra tutti i misteri della nascita è questo il più inaccessibile alla nostra ambiziosa analisi moderna. Poi, cosa pensereste degli egiziani 4/166

che, si dice, inventarono dei forni per far schiudere le uova, se non avessero subito imbeccato i pulcini? Così tuttavia si comporta la Francia, che cerca di produrre degli artisti con la «serra calda» del concorso; e una volta ottenuti con questo procedimento meccanico lo scultore, il pittore, l'incisore, il musicista, non se ne occupa più di quanto il dandy si curi la sera del fiore che ha messo all'occhiello.

Accade così che l'uomo di talento è Greuze o Watteau, Félicien David o Pagnest, Géricault o Decamps, Auber o David d'Angers, Eugène Delacroix o Meissonier, persone del tutto noncuranti dei grands prix e nate in piena terra sotto i raggi di quel sole invisibile che si chiama vocazione.

Inviato dallo Stato a Roma perché diventasse un grande musicista, Sylvain Pons ne aveva riportato il gusto delle antichità e della bellezza artistica. S'intendeva mirabilmente di tutte quelle cose, capolavori della mano e del pensiero, che il gergo popolare indicava con il nuovo termine di bric-à-brac. Questo figlio di Euterpe tornò dunque a Parigi, intorno al 1810, collezionista accanito, carico di quadri, statuine, cornici, sculture in avorio, in legno, smalti, porcellane ecc. che, durante il suo soggiorno accademico a Roma, avevano assorbito la maggior parte dell'eredità paterna sia per le spese di trasporto che per quelle di acquisto. Aveva impiegato nello stesso modo l'eredità materna durante il viaggio in Italia, al termine dei tre anni del soggiorno ufficiale a Roma. Allora visitò in assoluta libertà Venezia, Milano, Firenze, Bologna, Napoli, soggiornando in ogni città da sognatore, da filosofo, con la noncuranza dell'artista che per vivere conta sul proprio talento, come le ragazze di vita contano sulla propria bellezza. Durante quello splendido viaggio, Pons fu felice quanto poteva esserlo un uomo sensibile e delicato cui la bruttezza impediva successi con le donne, per usare una celebre espressione del 1809, e che trovava le cose della vita sempre al di sotto del tipo ideale che se ne era creato, e aveva tratto profitto da questa discordanza tra il suono della sua anima e la realtà. Questo sentimento del bello, conservato puro e vivo nel suo cuore, fu certamente all'origine delle melodie ingegnose, fini, piene di grazia, che gli procurarono una certa notorietà tra il 1810 e il 1814. In Francia ogni notorietà che si fondi sul successo, sulla moda, sulle follie effimere di Parigi, produce dei Pons. Non esiste un altro paese dove si sia tanto severi nei confronti delle grandi cose, e così sdegnosamente indulgenti verso le piccole. Se Pons, ben presto annegato nei flutti dell'armonia tedesca e nella produzione rossiniana, nel 1824 era ancora un musicista piacevole e noto per qualche ultima romanza, figuratevi cosa poteva essere nel 1831! Così nel 1844, l'anno in cui ebbe inizio l'unico dramma della sua vita oscura, Sylvain Pons aveva raggiunto il valore di una croma antidiluviana; i negozianti di musica ignoravano completamente la sua esistenza, benché componesse - a prezzi modesti - la musica per qualche spettacolo nei teatri della zona.

Quel brav'uomo, del resto, rendeva giustizia ai celebri maestri del nostro tempo; una bella esecuzione di qualche brano scelto lo faceva piangere; ma la sua religione non giungeva fino a rasentare la mania come nei Kreisler di Hoffmann; non la lasciava apparire e godeva dentro di sé alla maniera dei fumatori di hashish o dei teriaschi. Il genio dell'ammirazione, della comprensione, la sola facoltà grazie alla quale un uomo ordinario diventa fratello di un grande poeta, è talmente raro a Parigi, dove tutte le idee somigliano a viaggiatori di passaggio in una locanda, che a Pons deve essere accordata una stima piena di rispetto. L'insuccesso del brav'uomo può sembrare eccessivo, ma era lui stesso a confessare ingenuamente la sua debolezza in armonia: aveva trascurato lo studio del contrappunto; e la strumentazione moderna, ampliata oltre misura, gli sembrò inaccessibile nel momento in cui, grazie a nuovi studi, avrebbe potuto rimanere tra i compositori moderni e diventare non certo Rossini ma Hérold. Allora trovò nei piaceri del collezionista così vive compensazioni alla gloria mancata che, se avesse dovuto scegliere tra il possesso delle sue «curiosità» e il nome di Rossini - lo credereste? -, Pons avrebbe optato per il suo caro cabinet. Il 5/166

vecchio musicista applicava l'assioma di Chenavard, l'esperto collezionista di preziose incisioni, secondo cui non può procurare alcun piacere la contemplazione di un Ruysdael, di un Hobbéma, di un Holbein, di un Raffaello, di un Murillo, un Greuze, un Sebastiano del Piombo, un Giorgione, un Albrecht Dürer, quando il quadro sia costato più di cinquanta franchi. Pons non concepiva acquisti al di sopra dei cento franchi; e, per pagare un oggetto cinquanta franchi, doveva valerne tremila. La cosa più bella del mondo, se costava trecento franchi per lui non esisteva. Le occasioni erano state rare; ma egli possedeva i tre elementi del successo: le gambe del cervo, il tempo degli sfaccendati e la pazienza dell'israelita.

Questo sistema, praticato per quarant'anni sia a Roma che a Parigi, aveva dato i suoi frutti. Dopo aver speso, da quando era tornato da Roma, circa duemila franchi all'anno, Pons nascondeva ad ogni sguardo una collezione di capolavori d'ogni genere il cui catalogo raggiungeva ormai il favoloso numero 1907.

Dal 1811 al 1816, nelle sue corse attraverso Parigi, aveva trovato per dieci franchi ciò che oggi si paga dai mille ai milleduecento franchi. Si trattava di quadri selezionati tra i quarantacinquemila che ogni anno sono esposti in vendita a Parigi; di porcellane di Sèvres, pasta tenera, acquistate dagli alverniati, satelliti della «banda nera», che riportavano sui carretti le meraviglie della Francia ai tempi della Pompadour. Poi aveva raccolto i resti del Seicento e del Settecento rendendo giustizia agli uomini di spirito e di genio della scuola francese, quei grandi sconosciuti come i Lepautre, i Lavallée-Poussin ecc., che hanno creato il genere Luigi XV, il genere Luigi XVI, e le cui opere oggi alimentano le sedicenti invenzioni dei nostri artisti, continuamente curvi sui tesori del Cabinet des estampes per creare il nuovo attraverso abili rifacimenti. Pons doveva molti dei suoi pezzi agli scambi: ineffabile gioia dei collezionisti! Il piacere di acquistare delle curiosità non è che il secondo; il primo è il baratto. Pons aveva iniziato per primo a collezionare tabacchiere e miniature. Non essendo una celebrità nella «bricabracologia», dal momento che non frequentava le aste, non si faceva vedere presso i mercanti più noti. E ignorava il valore commerciale del suo tesoro.

Il defunto Dusommerard aveva tentato di entrare in rapporto con il musicista; ma il principe del bric-à-brac morì senza essere riuscito a entrare nel museo Pons, l'unico che avrebbe potuto competere con la famosa collezione Sauvageot. Pons e Sauvageot avevano qualcosa in comune. Sauvageot, musicista come Pons, e come lui senza grandi risorse, aveva proceduto nello stesso modo, con gli stessi mezzi, con lo stesso amore per l'arte, con lo stesso odio per quegli illustri ricchi che mettono insieme le loro collezioni per fare concorrenza ai mercanti d'arte. Proprio come il suo rivale, il suo emulo, il suo antagonista, per tutte quelle opere della mano dell'uomo, per quei prodigi del lavoro, Pons sentiva nel cuore un'insaziabile avarizia, l'amore dell'innamorato per una bella amante, e l'asta, nelle sale della rue des Jeûneurs, coi colpi di martello dei periti, gli sembrava un crimine di leso bric-à-brac. Possedeva il suo museo per goderne ad ogni ora, perché le anime create per ammirare le grandi opere hanno la sublime facoltà dei veri amanti; provano oggi lo stesso piacere di ieri, non si stancano mai, e i capolavori restano sempre giovani. Perciò quell'oggetto tenuto con atteggiamento tanto paterno doveva essere una di quelle cose trovate per caso, che si portano via con quella passione che voi, amatori, conoscete così bene!

Ai primi tratti di questo profilo biografico, tutti esclameranno: «Ecco, malgrado la sua bruttezza, l'uomo più felice della terra!». In effetti, nessun fastidio, nessun malumore resiste alla ventosa che afferra l'anima quando si cede a una mania. Tutti voi che non potete più bere a quella che in ogni tempo è stata chiamata la coppa del piacere, mettetevi a collezionare qualunque cosa (si sono fatte collezioni di manifesti), e ritroverete il lingotto della felicità in spiccioli. Una mania è il piacere trasferito allo stato di idea! Tuttavia non invidiate quel brav'uomo di Pons; questo sentimento, come ogni passione del genere, si fonderebbe su un errore.

Quest'uomo delicatissimo, la cui anima viveva di un'ammirazione inesauribile per la 6/166

magnificenza del lavoro umano, la nobile gara con le opere della natura, era lo schiavo di quello dei sette peccati capitali che forse Dio punisce meno severamente: Pons era goloso. I suoi mezzi limitati e la sua passione per il bric-à-brac gli imponevano un regime dietetico talmente orribile per la sua gola raffinata, che all'inizio lo scapolo aveva risolto il problema andando tutti i giorni a pranzo fuori. Ora, sotto l'Impero, si ebbe più che ai giorni nostri un vero culto per le celebrità, forse a causa del loro piccolo numero e delle loro modeste ambizioni politiche. Si diventava poeti, scrittori, musicisti così facilmente! Pons, considerato il probabile rivale dei Nicolò, dei Paer e dei Berton, ricevette in quel periodo così tanti inviti che fu costretto ad annotarli su un'agenda, come gli avvocati annotano le loro udienze.

Comportandosi, del resto, da artista, offriva esemplari delle sue romanze a tutti i suoi anfitrioni, suonava il piano in casa loro, e offriva palchi al Feydeau, il teatro per cui lavorava e dove organizzava concerti; talvolta suonava il violino a casa dei suoi parenti e improvvisava ballabili.

IV • DOVE SI VEDE CHE UN FAVORE NON È SEMPRE RICAMBIATO

In quel tempo gli uomini più belli di Francia scambiavano colpi di spada con gli uomini più belli della coalizione; la bruttezza di Pons fu quindi chiamata «originalità», secondo la grande legge promulgata da Molière nel famoso couplet di Éliante. Avendo reso qualche servizio a una «bella dama», talvolta si sentì definire «un uomo delizioso», ma la sua fortuna non andò mai oltre questa parola.

Durante questo periodo, che durò circa sei anni, dal 1810 al 1816, Pons contrasse la funesta abitudine di concedersi dei buoni pranzi, di vedere che chi lo invitava si accollava delle spese per procurarsi le primizie, stappare i vini migliori, curare il dessert, il caffè, i liquori, e trattarlo nel migliore dei modi come usava sotto l'Impero quando in molte case si imitavano gli splendori dei re, delle regine e dei principi di cui Parigi era piena. Si giocava molto alla regalità, come oggi si gioca alla Camera creando un gran numero di società con presidenti, vicepresidenti e segretari; società linicola, vinicola, serica, agricola, industriale ecc. Si è giunti a frugare tra le piaghe sociali per costituire in società i guaritori! È inevitabile che uno stomaco educato in questo modo influisca sul morale e lo corrompa in ragione della grande sapienza culinaria che acquisisce. La voluttà, acquattata in ogni piega del cuore, vi parla da sovrana, batte in breccia la volontà, l'onore, esige d'essere soddisfatta ad ogni costo.

Non si sono mai descritte le esigenze della gola, che sfuggono alla critica letteraria a causa della necessità di vivere; ma non ci si immagina quanta gente sia stata rovinata dalla tavola. In questo senso la tavola è a Parigi l'emula della cortigiana; del resto, la prima costituisce l'entrata e la seconda l'uscita. Quando, da invitato perpetuo, Pons raggiunse - per la sua decadenza d'artista - la condizione di scroccone, gli fu impossibile passare da quelle tavole così ben servite al brodetto spartano di un ristorante da quaranta soldi. Ahimè!, rabbrividì al pensiero che la sua indipendenza gli costava tali sacrifici, e si sentì capace delle più grandi viltà pur di continuare a vivere bene, ad assaporare ogni primizia al momento giusto, insomma a far baldoria (termine popolare ma espressivo) con manicaretti ben curati. Uccello spigolatore, in fuga col gozzo pieno, e cinguettando un'arietta in segno di ringraziamento, Pons provava del resto un certo piacere a passarsela bene a spese della società, che si limitava a chiedergli in cambio un po' di chiacchiere. Abituato, come ogni scapolo che ha in orrore la propria casa e vive a casa degli altri, a quelle formule, a quelle smorfie sociali che in società sostituiscono i sentimenti, si serviva dei complimenti come 7/166

fossero moneta spicciola; nel rapporto con le persone si accontentava delle etichette senza affondare una mano curiosa nelle borse.

Questa fase assai sopportabile durò altri dieci anni; ma che anni! Un autunno piovoso.

Durante quel periodo Pons si mantenne gratuitamente a tavola, rendendosi necessario in ogni casa che frequentasse. Imboccò una strada fatale occupandosi di una serie di commissioni, sostituendo i portieri e i domestici in molte e molte occasioni. Incaricato di vari acquisti, divenne la spia onesta e innocente inviata da una famiglia all'altra; ma nessuno dimostrò la sua gratitudine per tante corse e tante bassezze.

«Pons è un ragazzo», dicevano, «non sa come impiegare il suo tempo, è tutto contento di trottare per noi... che altro potrebbe fare?».

Assai presto apparve quella freddezza che un vecchio diffonde intorno a sé. Quel vento gelido si comunica, produce il suo effetto nella temperatura morale, soprattutto quando il vecchio è brutto e povero. Non si diventa, allora, vecchi tre volte? Giunse l'inverno della vita, l'inverno col naso rosso, le guance smunte, con ogni sorta di congelamenti!

Dal 1836 al 1843 Pons fu invitato raramente. Non essendo alla ricerca di uno scroccone, ogni famiglia lo accettava come si accetta una tassa; di lui non si faceva più alcun caso, neppure dei suoi servigi. Le famiglie presso le quali il brav'uomo eseguiva le sue evoluzioni, tutte senza rispetto per le arti, in adorazione soltanto davanti ai risultati, apprezzavano solo quanto avevano conquistato dopo il 1830: ricchezze o posizioni sociali eminenti. Ora, poiché Pons non aveva abbastanza prestigio nell'animo e neppure nei modi per incutere quel timore che lo spirito o il genio provocano nel borghese, aveva naturalmente finito per diventare meno che niente, senza tuttavia essere completamente disprezzato. Nonostante provasse, in un ambiente simile, forti sofferenze, come tutti i timidi soffriva in silenzio. In fondo si era abituato, un po' alla volta, a reprimere i propri sentimenti, a fare del suo cuore un santuario nel quale ritirarsi. Molte persone superficiali traducono questo fenomeno con il termine «egoismo». Dev'esserci una somiglianza notevole tra il solitario e l'egoista se i maldicenti sembrano aver ragione contro l'uomo di cuore, soprattutto a Parigi dove nessuno s'impegna ad osservare, e tutto è rapido come l'onda, e tutto passa come un ministero!

Il cugino Pons rimase schiacciato sotto un'accusa di egoismo, retroattiva perché la società finisce sempre per condannare coloro che accusa. Ma si sa davvero fino a che punto un discredito immeritato può affliggere i timidi? Chi mai descriverà le sventure della timidezza? Questa situazione, che si aggravava di giorno in giorno, spiega la tristezza impressa sul viso di quel povero musicista che viveva di capitolazioni infamanti. Ma le bassezze che ogni passione esige sono altrettanti legami; più la passione ne reclama, più essa vi lega; essa trasforma qualsiasi sacrificio in un ideale tesoro negativo in cui l'uomo vede ricchezze immense. Dopo essere stato oggetto dello sguardo insolentemente protettivo di un borghese tronfio di stupidità, Pons gustava come una vendetta il bicchiere di vino di Porto, la quaglia al gratin che aveva iniziato ad assaporare, e intanto diceva tra sé: «Non è costato troppo!».

Agli occhi del moralista, in quella vita c'erano tuttavia delle circostanze attenuanti. In effetti l'uomo esiste soltanto nelle soddisfazioni che riesce a procurarsi. Un uomo privo di passioni, il giusto perfetto, è un mostro, un mezzo angelo che non ha ancora le ali.

Gli angeli, nella mitologia cattolica, hanno soltanto la testa. Sulla terra, un giusto è quel noioso Grandisson secondo il quale perfino la Venere dei marciapiedi sarebbe priva di sesso. Ora, tranne le rare e volgari avventure del suo viaggio in Italia, dove il clima fu senza dubbio la causa dei suoi successi, Pons non aveva mai visto sorridergli una donna. A molti uomini è riservato questo destino fatale. Pons era un mostro nato; suo padre e sua madre l'avevano avuto quando erano già vecchi, e portava le stigmate di questa nascita fuori stagione sul suo colore cadaverico che sembrava essere stato contratto in uno di quei vasi di alcool in cui la scienza conserva certi feti 8/166

straordinari. Quest'artista, dotato di un'anima sensibile, sognatrice e delicata, costretto ad accettare il carattere che il viso gli imponeva, non aveva alcuna speranza d'essere amato. Il celibato fu dunque per lui più una necessità che un'inclinazione. La ghiottoneria, il peccato dei monaci virtuosi, gli tese le braccia: e lui vi si precipitò come si era precipitato nell'adorazione delle opere d'arte e nel culto della musica. La buona tavola e il bric-à-brac sostituirono per lui la donna; infatti la musica era la sua professione, e trovatemi un uomo che ami la professione di cui vive! Alla lunga con una professione accade come per il matrimonio: se ne avvertono soltanto gli inconvenienti.

Brillat-Savarin ha giustificato per partito preso i gusti dei gastronomi; ma forse non ha insistito abbastanza sul vero piacere che l'uomo prova a tavola. Nell'impiegare le energie dell'uomo, la digestione è un'intima lotta che per i gastrolatri equivale ai più alti godimenti dell'amore. Si avverte un così ampio dispiegamento della capacità vitale che il cervello si annulla a favore del secondo cervello situato nel diaframma, e l'ebbrezza sopraggiunge per l'inerzia stessa di ogni facoltà. I boa che hanno ingurgitato un toro sono talmente ebbri che si fanno uccidere. Passati i quarant'anni, chi ha il coraggio di lavorare dopo pranzo?... Perciò tutti i grandi uomini sono stati sobri.

Ai convalescenti di una malattia grave, ai quali si misura il cibo con tanta parsimonia, è dato talvolta di provare quella specie di ebbrezza gastrica provocata da una semplice ala di pollo. Il saggio Pons, i cui soli godimenti erano concentrati nello stomaco, si trovava continuamente nella situazione di quei convalescenti; chiedeva alla buona tavola tutte le sensazioni che essa può dare, e fino ad allora le aveva ottenute tutti i giorni. Nessuno osa dire addio a un'abitudine. Molti suicidi si sono fermati sulla soglia della morte al ricordo del caffè dove ogni sera vanno a giocare una partita a domino.

V • I DUE SCHIACCIANOCI

Nel 1835 il caso vendicò Pons dell'indifferenza del gentil sesso; gli offrì quello che in stile familiare si chiama un bastone per la vecchiaia. Quell'uomo nato già vecchio trovò nell'amicizia un sostegno per la vita, contraendo l'unico matrimonio che la società gli permettesse: sposò un uomo, un vecchio, un musicista come lui. Senza la divina favola di La Fontaine, questo schizzo avrebbe avuto per titolo I due amici. Ma non sarebbe stato un attentato letterario, una profanazione di fronte alla quale ogni vero scrittore indietreggerà? Il capolavoro del nostro favolista, nello stesso tempo confessione della sua anima e storia dei suoi sogni, deve avere l'eterno privilegio di quel titolo. Quella pagina in cima alla quale il poeta ha inciso queste tre parole, I DUE

AMICI, è una di quelle proprietà sacre, un tempio in cui ogni generazione entrerà con rispetto e che l'universo visiterà finché durerà la tipografia.

L'amico di Pons era un professore di pianoforte, la cui vita e i cui costumi simpatizzavano talmente con i suoi, che Pons diceva di averlo conosciuto troppo tardi per la sua felicità; infatti la loro conoscenza, nata in occasione di una premiazione, in un collegio, risaliva soltanto al 1834. Mai forse due anime si scoprirono tanto simili nell'oceano umano che sgorgò dal paradiso terrestre contro la volontà di Dio. I due musicisti divennero in poco tempo necessari l'uno all'altro. Uniti da una fiducia reciproca, in otto giorni diventarono come due fratelli. Schmucke non credeva che potesse esistere un Pons, più di quanto Pons non credeva che potesse esistere uno Schmucke. Già questo basterebbe a descrivere i due; ma non tutti gli intelletti amano 9/166

la brevità delle sintesi. Per gli increduli è necessaria una rapida dimostrazione.

Quel pianista, come tutti i pianisti, era un tedesco, tedesco come il grande Listz e il grande Mendelssohn, tedesco come Steibelt, tedesco come Mozart e Dusseck, tedesco come Meyer, tedesco come Doelher, tedesco come Thalberg, come Dreschok, come Hiller, come Léopold Mayer, come Crammer, come Zimmerman e Kalkbrenner, come Herz, Woëtz, Karr, Wolff, Pixis, Clara Wieck, e in particolare tutti i tedeschi.

Nonostante fosse un grande compositore, Schmucke non poteva essere che un esecutore, tanto il suo carattere si negava l'audacia necessaria all'uomo di genio per rivelarsi musicalmente. In molti tedeschi l'ingenuità non è eterna, anzi scompare; ciò che ne è rimasto a una certa età è attinto, come l'acqua da un canale, alla fonte della loro giovinezza, ed essi se ne servono per rendere più fertili i loro successi in ogni campo: scienza, arte o denaro, allontanano la diffidenza. In Francia, certi personaggi astuti sostituiscono tale ingenuità con la stupidità del droghiere parigino. Ma Schmucke aveva conservato tutta la sua ingenuità infantile, come Pons conservava in sé le reliquie dell'Impero senza neppure rendersene conto. Quell'autentico e nobile tedesco era contemporaneamente lo spettacolo e gli spettatori, e si accompagnava da solo con la musica. Abitava a Parigi come un usignolo nella foresta e vi cantava, unico di tutta la sua specie, da vent'anni, fino a quando incontrò in Pons un altro se stesso.

(Vedi Una figlia di Eva.)

Pons e Schmucke possedevano in abbondanza, nel cuore e nel carattere, quelle puerilità sentimentali che caratterizzano i tedeschi: come la passione dei fiori o l'adorazione dei fenomeni naturali, che li porta a piantare grandi bottiglie nei loro giardini per osservare in piccolo il paesaggio che hanno in grande sotto gli occhi; o quella predisposizione alle ricerche che fa fare a uno scienziato tedesco cento leghe a piedi per trovare una verità che lo guarda ridendo, seduta sul bordo del pozzo, sotto un gelsomino del cortile; oppure, infine, quel bisogno di attribuire un significato psichico ai dettagli più insignificanti della creazione, che produce le opere inspiegabili di Jean Paul Richter, le ebbrezze stampate di Hoffmann e le barriere in-folio che la Germania innalza intorno alle questioni più semplici, indagate come abissi, in fondo alle quali non si trova nient'altro che un tedesco. Cattolici entrambi, andando insieme alla messa assolvevano ai doveri religiosi come bambini che non hanno mai nulla da dire al confessore. Erano fermamente convinti che la musica, la lingua del cielo, fosse per le idee e i sentimenti quello che le idee e i sentimenti sono per la parola, e conversavano all'infinito su questa teoria, rispondendosi l'un l'altro con orge di musica per dimostrare a se stessi le proprie convinzioni, come due amanti. Schmucke era tanto distratto quanto Pons era attento. Se Pons era un collezionista, Schmucke era un sognatore; questo studiava le belle cose morali, l'altro salvava le belle cose materiali. Pons vedeva e acquistava una tazza di porcellana nel tempo che Schmucke impiegava per soffiarsi il naso pensando a qualche motivo di Rossini, di Bellini, di Beethoven o di Mozart, cercando nel mondo dei sentimenti dove si potessero rintracciare l'origine o la replica di una frase musicale. Schmucke, le cui economie erano amministrate dalla distrazione, e Pons, prodigo per passione, giungevano entrambi allo stesso risultato: tasche vuote al San Silvestro di ogni anno.

Senza quell'amicizia, forse Pons sarebbe rimasto schiacciato sotto i suoi dispiaceri; invece, dal giorno in cui ebbe un cuore in cui riversare il suo, la vita gli divenne sopportabile. La prima volta che manifestò le sue pene al cuore di Schmucke, il buon tedesco gli consigliò di vivere come lui, a pane e formaggio ma in casa propria, piuttosto che accettare pranzi che gli costavano così cari. Ahimè! Pons non osò confessare a Schmucke che in lui il cuore e lo stomaco erano nemici, che lo stomaco si accontentava di ciò che faceva soffrire il cuore, e che gli era indispensabile un buon pranzo da gustare come un uomo galante ha bisogno di un'amante da stuzzicare. Col tempo Schmucke riuscì a capire il povero Pons, perché era troppo tedesco per avere la rapidità d'osservazione di un francese, e lo amò ancora di più. Niente rafforza 10/166

l'amicizia come il fatto che, tra due amici, l'uno si creda superiore all'altro. Un angelo non avrebbe avuto niente da dire vedendo Schmucke che si sfregava le mani quando scoprì la forza della ghiottoneria nel suo amico. E il giorno dopo il buon tedesco ornò il pranzo di leccornie che era andato a cercare personalmente, e fece in modo di averne ogni giorno di nuove per il suo amico; infatti dal giorno della loro unione pranzavano sempre insieme a casa.

Bisognerebbe non conoscere Parigi per credere che ai due amici fosse stato possibile sfuggire al sarcasmo parigino, che non ha mai avuto rispetto per niente. Schmucke e Pons, unendo le loro ricchezze e le loro miserie, avevano avuto l'idea economica di abitare insieme, e dividevano in parti eguali l'affitto di un appartamento diviso in due parti assai diseguali, in una tranquilla casa della tranquilla rue de Normandie, al Marais. Poiché uscivano spesso insieme e percorrevano gli stessi boulevards l'uno di fianco all'altro, i perdigiorno del quartiere li avevano soprannominati i due schiaccianoci. Il soprannome ci risparmia la descrizione di Schmucke, che stava a Pons come la nutrice di Niobe, la famosa statua del Vaticano, sta alla Venere della Tribuna.

La signora Cibot, la portiera, era il perno sul quale ruotava la vita quotidiana dei due schiaccianoci; ma essa svolge un ruolo talmente importante nel dramma che pose termine a quella duplice esistenza che conviene riservare il suo ritratto al momento della sua entrata in scena.

Ciò che resta da dire sul morale di questi due esseri è decisamente la cosa più difficile da far capire al novantanove per cento dei lettori nel quarantasettesimo anno del XIX

secolo, probabilmente a causa del prodigioso sviluppo finanziario dovuto all'installazione delle ferrovie. È poco ed è molto. Si tratta infatti di dare un'idea dell'eccessiva delicatezza di questi due cuori. Prendiamo un'immagine alle strade ferrate, se non altro a titolo di rimborso di quanto esse prendono a noi. Oggi i convogli, scorrendo sui binari, vi frantumano impercettibili granelli di sabbia.

Introducete uno di questi granelli di polvere, invisibili ai viaggiatori, nei loro reni; proveranno i dolori della malattia più temibile, i calcoli, di cui si muore. Ebbene, ciò che per la nostra società lanciata sulla sua strada metallica con una velocità da locomotiva è il granello di sabbia invisibile di cui essa non si cura affatto, quel granello

- incessantemente gettato nelle fibre di quei due esseri, e ad ogni proposito - causava loro dei calcoli nel cuore. Eccessivamente sensibile alle sofferenze altrui, ognuno dei due si lamentava della propria impotenza; quanto alla loro percezione, erano entrambi di una sensitivà quasi morbosa. Niente, né la vecchiaia, né i continui spettacoli del dramma parigino, aveva indurito quelle due anime fresche, infantili e pure. Più andavano avanti e più aumentavano le loro intime sofferenze. Ahimè! ciò accade alle nature caste, ai pensatori tranquilli e ai veri poeti che non sono caduti in alcun eccesso.

Da quando questi due vecchi si erano uniti, le loro occupazioni, più o meno simili, avevano preso quell'andatura fraterna che a Parigi distingue i cavalli del fiacre. Dopo essersi alzati verso le sette, d'estate come d'inverno, dopo aver fatto colazione andavano a fare lezione nei collegi dove, quando c'era bisogno, si supplivano a vicenda. Verso mezzogiorno Pons si recava al suo teatro, quando vi era chiamato da una prova, e in ogni momento libero se ne andava a zonzo. Poi i due amici si ritrovavano la sera a teatro, dove Pons aveva fatto assumere Schmucke. Ecco in quale modo.

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VI • UN UOMO SFRUTTATO COME SE NE VEDONO TANTI Quando Pons incontrò Schmucke aveva appena ricevuto, senza averlo chiesto, il bastone di maresciallo dei compositori sconosciuti: una bacchetta di direttore d'orchestra! Grazie al conte Popinot, allora ministro, quel posto era stato assegnato al povero musicista nel momento in cui quell'eroe borghese della rivoluzione di Luglio aveva fatto avere in concessione un teatro ad uno di quegli amici di cui un arricchito si vergogna quando, andando in carrozza, vede in una strada di Parigi un vecchio compagno di gioventù, malridotto, senza sottopiedi, con indosso una finanziera dai colori inverosimili, assorto in affari troppo ambiziosi per capitali effimeri. Vecchio commesso viaggiatore, quell'amico, di nome Gaudissart, era stato un tempo molto utile al successo della grande casa Popinot. Divenuto conte, divenuto pari di Francia, dopo essere stato due volte ministro, Popinot non rinnegò L'ILLUSTRE GAUDISSART!

Anzi, volle mettere il commesso viaggiatore in grado di rinnovare il guardaroba e di riempirsi la borsa; la politica, le vanità della corte cittadina non avevano guastato il cuore del vecchio mercante di droghe. Gaudissart, sempre pazzo per le donne, chiese in concessione un teatro che era appena fallito, e il ministro, concedendoglielo, ebbe cura di inviargli qualche vecchio cultore del gentil sesso, abbastanza ricco per creare una potente accomandita amorosa di ciò che nascondono le calzemaglie delle ballerine. Pons, parassita del palazzo Popinot, fu una clausola della concessione. La compagnia Gaudissart, che fece fortuna, nel 1834 decise di realizzare una grande idea: un teatro dell'opera per il popolo. La musica dei balletti e delle pantomime richiedeva un direttore d'orchestra passabile e che fosse anche un po' compositore.

L'amministrazione cui succedeva la compagnia Gaudissart era da troppo tempo in stato fallimentare per avere ancora un copista. Allora Pons introdusse Schmucke nel teatro in qualità di copista d'orchestra, mestiere oscuro che richiede conoscenze musicali impegnative. Su consiglio di Pons, Schmucke si accordò con il capo di questo servizio all'Opéra-Comique e in questo modo ne evitò la fatica materiale. La società Schmucke-Pons produsse un risultato meraviglioso. Schmucke, molto bravo in armonia come tutti i tedeschi, curò la parte strumentale delle partiture, mentre la parte del canto spettò a Pons. Quando gli esperti ammirarono alcune nuove composizioni che accompagnavano due o tre pezzi di grande successo, le spiegarono con il termine «progresso», senza cercarne gli autori. Pons e Schmucke si eclissarono nella gloria, come certe persone annegano nella vasca da bagno. A Parigi, soprattutto dopo il 1830, nessuno ha successo senza sgomitare, quibuscumque viis, e molto, in una massa spaventosa di concorrenti; allora è indispensabile tanta forza di reni, e i due amici avevano nel cuore quella renella che intralcia ogni ambizione.

Di solito Pons andava a teatro verso le otto di sera, l'ora in cui si danno i pezzi di maggiore successo, quando le ouvertures e gli accompagnamenti richiedono la tirannia della bacchetta. Questa tolleranza è abituale nella maggior parte dei piccoli teatri; ma Pons si sentiva tanto più a suo agio quanto meno si curava dei suoi rapporti con l'amministrazione. Del resto, quando c'era bisogno veniva sostituito da Schmucke.

Col tempo la posizione di Schmucke nell'orchestra si era rafforzata. L'illustre Gaudissart aveva riconosciuto, sia pure tacitamente, il valore e l'utilità del collaboratore di Pons. Si rese necessario introdurre nell'orchestra un pianoforte, come nei grandi teatri. Il piano, suonato gratis da Schmucke, fu installato accanto al leggìo del direttore d'orchestra, dove prendevano posto i volontari in soprannumero. Quando quel buon tedesco, senza ambizioni né pretese, fu conosciuto per quello che era, venne accettato da tutti gli orchestrali. Per un modesto compenso, l'amministrazione affidò a Schmucke quegli strumenti che non fanno parte della dotazione dei teatri di boulevard ma che sono spesso necessari, come il pianoforte, la viola d'amore, il corno inglese, il violoncello, l'arpa, le nacchere per accompagnare la cachucha, i campanelli e le invenzioni di Sax, ecc. I tedeschi, anche se non sanno fare uso dei grandi 12/166

strumenti della libertà, sanno suonare istintivamente ogni strumento musicale.

I due vecchi artisti, eccessivamente apprezzati a teatro, vi vivevano da filosofi. Si erano messi una benda sugli occhi per non vedere gli aspetti negativi di un ambiente teatrale quando promiscuamente vi lavorano un corpo di ballo, attori e attrici, uno dei peggiori assortimenti che la necessità delle entrate abbiano creato, per il tormento dei direttori, degli autori e dei musicisti. Un grande rispetto per gli altri e per se stesso aveva procurato la stima generale al buono e modesto Pons. Del resto, in ogni ambiente una vita limpida, un'onestà senza macchia, impongono una sorta di ammirazione perfino ai cuori più malvagi. A Parigi una bella virtù ottiene il successo di un grosso diamante, di una curiosità rara. Nessun attore, nessun autore, nessuna ballerina, per sfacciata che fosse, si sarebbero permessi il più piccolo scherzo o qualche burla nei confronti di Pons o del suo amico. Qualche volta Pons appariva nel ridotto; ma Schmucke conosceva soltanto il corridoio sotterraneo che portava dall'esterno del teatro all'orchestra. Negli intervalli, quando assisteva a una rappresentazione, il buon vecchio tedesco si arrischiava a sbirciare in sala e talvolta faceva domande al primo flauto, un giovanotto nato a Strasburgo da una famiglia tedesca di Kehl, sui personaggi eccentrici che quasi sempre coloriscono i palchi del proscenio. Poco a poco l'immaginazione infantile di Schmucke, della cui educazione sociale si fece carico quel flautista, ammise l'esistenza favolosa della donna di facili costumi, la possibilità dei matrimoni nella «tredicesima circoscrizione», gli sperperi di una prima attrice, e i traffici equivoci delle palchettaie. Gli aspetti innocenti del vizio sembrarono a quel degno uomo l'estrema manifestazione delle depravazioni babilonesi, ed egli ne sorrideva come di fronte ad arabeschi cinesi. Le persone intelligenti devono capire che Pons e Schmucke erano sfruttati, per usare una parola alla moda; ma ciò che persero in denaro lo guadagnarono in stima e in cortesia.

Dopo il successo di un balletto, che diede inizio alla rapida fortuna della compagnia Gaudissart, i direttori inviarono a Pons un gruppo in argento attribuito a Benvenuto Cellini, il cui prezzo esorbitante era stato oggetto di conversazione nel ridotto del teatro. Si trattava di milleduecento franchi! Il povero onest'uomo voleva restituire il dono! A Gaudissart non fu facile farglielo accettare.

«Ah! potessimo trovare attori di questo stampo!», disse al suo socio.

Questa duplice vita, apparentemente così calma, era turbata soltanto dal vizio al quale Pons sacrificava, cioè il bisogno feroce di mangiare fuori. Così, ogni volta che Schmucke si trovava in casa quando Pons si preparava per uscire, il buon tedesco deplorava quella funesta abitudine.

«Almeno lo facesse ingrassare!», esclamava spesso.

E Schmucke pensava al modo di guarire l'amico dal suo vizio degradante, perché i veri amici sono dotati, nella sfera morale, della perfezione che distingue l'odorato dei cani; fiutano i dispiaceri dei loro amici, ne intuiscono le cause, se ne preoccupano.

Pons, che ancora portava al mignolo della mano destra un anello con brillante, tollerato durante l'Impero e oggi ridicolo, Pons, eccessivamente troubadour e troppo francese, non presentava nella sua fisionomia quella divina serenità che attenuava l'orribile bruttezza di Schmucke. Il tedesco aveva riconosciuto nell'espressione malinconica del volto del suo amico le crescenti difficoltà che rendevano sempre più penoso il mestiere di parassita. In effetti, nell'ottobre 1834, il numero delle case dove Pons andava a pranzo si era naturalmente assai ridotto. Il povero direttore d'orchestra, costretto a percorrere il cerchio familiare, aveva un po' troppo esteso il significato della parola «famiglia», come si vedrà.

L'ex «laureato» del pensionato era cugino carnale della prima moglie del signor Camusot, il ricco commerciante di seterie di rue des Bourdonnais, una signorina Pons, unica erede di uno dei famosi fratelli Pons, i ricamatori di corte, azienda in cui il padre e la madre del musicista erano accomandatari dopo averla fondata prima della Rivoluzione del 1789, e che il signor Rivet acquistò nel 1815 dal padre della prima 13/166

signora Camusot. Camusot, che da ormai dieci anni si era ritirato dagli affari, nel 1844

era membro del consiglio generale delle manifatture, deputato ecc. Accolto con amicizia dalla tribù dei Camusot, quel buonuomo di Pons si considerò cugino dei figli che il commerciante di seterie aveva avuto dal secondo letto, sebbene con loro non ci fosse nessun legame e neppure affinità.

Poiché la seconda signora Camusot era una signorina Cardot, Pons s'introdusse - in qualità di parente dei Camusot - nella rumorosa famiglia dei Cardot, seconda tribù borghese che grazie alle sue parentele costituiva un'intera società non meno potente di quella dei Camusot. Il notaio Cardot, fratello della seconda signora Camusot, aveva sposato una signorina Chiffreville. La celebre famiglia dei Chiffreville, la regina dei prodotti chimici, era legata alla «grande drogheria» diretta per molto tempo da quell'Anselme Popinot che la rivoluzione di Luglio aveva lanciato - come tutti sanno -

nel cuore della politica più dinastica. Così Pons si introdusse, al seguito dei Camusot e dei Cardot, in casa dei Chiffreville; e da lì in quella dei Popinot, sempre in qualità di cugino dei cugini.

Questa rapida rassegna delle ultime relazioni del vecchio musicista fa capire come potesse essere ancora accolto familiarmente nel 1844: 1°, dal conte Popinot, pari di Francia, già ministro dell'agricoltura e del commercio; 2°, dal signor Cardot, già notaio, sindaco e deputato di una circoscrizione di Parigi; 3°, dal vecchio signor Camusot, deputato, membro del consiglio comunale di Parigi e del consiglio generale delle manifatture, vicino alla nomina di pari; 4°, dal signor Camusot de Marville, figlio di primo letto, e pertanto l'unico vero cugino di Pons, anche se di secondo grado.

Questo Camusot, che per distinguersi dal padre e dal fratellastro aveva aggiunto al proprio nome quello della terra di Marville, nel 1844 era presidente di sezione presso la Corte reale di Parigi.

Poiché l'ex notaio Cardot aveva maritato la figlia al suo successore, tale Berthier, Pons, che faceva parte dei doveri, seppe conservarsi quel pranzo: «ratificato da un notaio», diceva.

Era questo il firmamento borghese che Pons chiamava la sua famiglia, e dove aveva così penosamente difeso il suo diritto di forchetta.

Di queste dieci case, quella in cui l'artista poteva essere accolto meglio, la casa del presidente Camusot, era oggetto delle sue maggiori attenzioni. Ma, ahimè!, la presidentessa, figlia del defunto messere Thirion, cerimoniere di corte dei re Luigi XVIII e Carlo X, non aveva mai trattato bene il cugino di suo marito. Nel tentativo di ammorbidire quella parente terribile, Pons aveva perso il suo tempo poiché, dopo aver dato gratuitamente delle lezioni alla signorina Camusot, non gli era riuscito di fare una musicista di quella ragazza rossiccia.

Ora, Pons, con in mano il prezioso oggetto, si stava appunto dirigendo verso la casa del cugino presidente dove, entrando, gli sembrava di essere alle Tuileries, tanto i solenni drappi verdi, le tappezzerie grigie, i tappeti, i mobili imponenti dell'appartamento in cui si respirava l'aria della più severa magistratura, agivano sul suo morale. Che strano! Si sentiva a suo agio nel palazzo Popinot, in rue Basse-du-Rempart, senza dubbio a causa degli oggetti d'arte che vi si trovavano; infatti l'ex ministro, dopo il suo ingresso nella vita politica, aveva contratto la mania di collezionare le cose belle, certamente per controbilanciare la politica, che segretamente colleziona le azioni più turpi.

VII • UNA DELLE MILLE GIOIE DEI COLLEZIONISTI 14/166

Il presidente de Marville abitava in rue de Hanovre, in una casa acquistata dieci anni prima dalla presidentessa dopo la morte del padre e della madre, il signore e la signora Thirion, che le avevano lasciato circa centocinquantamila franchi di risparmi.

La casa, di aspetto piuttosto tetro dalla parte della strada dove la facciata è esposta a nord, guarda a mezzogiorno sul cortile, oltre il quale si trova un giardino assai bello. Il magistrato occupa l'intero primo piano, che durante il regno di Luigi XV aveva ospitato uno dei più potenti finanzieri del tempo. Con il secondo piano affittato a una ricca e vecchia signora, la casa ha un aspetto tranquillo e decoroso che si addice alla magistratura. I resti della magnifica terra di Marville, per il cui acquisto il magistrato aveva impiegato le sue economie di vent'anni, oltre all'eredità materna, consistono nel castello, splendido monumento come se ne vedono ancora in Normandia, e in una solida fattoria che rende dodicimila franchi. Un parco di cento ettari circonda il castello. Questo lusso, oggi principesco, costa al presidente un migliaio di scudi e così la terra fa entrare «in tasca», come si dice, non più di novemila franchi. Questi novemila franchi e il suo stipendio assicuravano al presidente una rendita di circa ventimila franchi, apparentemente sufficiente, soprattutto in previsione della metà dell'eredità paterna che avrebbe ricevuto, essendo l'unico figlio di primo letto; ma la vita a Parigi e gli obblighi della loro posizione sociale avevano costretto il signore e la signora de Marville a dissipare la quasi totalità delle loro entrate. Fino al 1834 si erano trovati in difficoltà.

Quest'inventario spiega perché la signorina de Marville, ragazza di ventitré anni, non fosse ancora sposata nonostante una dote di centomila franchi e l'attrattiva delle sue speranze, abilmente e frequentemente esibite, ma invano. Da cinque anni il cugino Pons ascoltava le doglianze della presidentessa, che vedeva tutti i sostituti prender moglie, i nuovi giudici di tribunale già padri, avendo fatto brillare inutilmente le speranze della signorina de Marville di fronte agli occhi poco incantati del giovane visconte Popinot, figlio maggiore del gallo della «drogheria», a profitto del quale, secondo gli invidiosi del quartiere dei Lombardi, era stata fatta la rivoluzione di Luglio; almeno tanto quanto a profitto del figlio del ramo cadetto.

Giunto in rue de Choiseul e sul punto di svoltare in rue de Hanovre, Pons provò quell'inspiegabile emozione che tormenta le coscienze pure, che infligge loro i supplizi provati dai più grandi scellerati alla vista di un gendarme, provocata da quest'unica domanda: come sarebbe stato accolto dalla presidentessa? Quel granello di sabbia che gli lacerava le fibre del cuore non si era mai arrotondato; gli spigoli diventavano sempre più aguzzi, e le persone della casa facevano del loro meglio per renderli sempre più acuminati. Infatti la scarsa considerazione dei Camusot nei confronti del cugino Pons, la sua svalutazione all'interno della famiglia, agivano sui domestici che, senza mancargli di rispetto, lo consideravano una varietà della specie Povero.

Il nemico giurato di Pons era una certa Madeleine Vivet, una vecchia zitella secca e minuta, cameriera della signora C. de Marville e di sua figlia. Madeleine, malgrado una carnagione chiazzata di macchie rosse, forse proprio a causa di questo e della sua lunghezza viperina, si era messa in testa di diventare la signora Pons. Invano aveva sfoggiato ventimila franchi di risparmi davanti agli occhi del vecchio celibe; Pons aveva rifiutato quella felicità eccessivamente maculata. Così quella Didone d'anticamera, che voleva diventare cugina dei suoi padroni, giocava i tiri più malvagi al vecchio musicista. Appena sentiva che il brav'uomo stava salendo le scale, e facendo in modo di farsi udire, esclamava: «Ah!, ecco lo scroccone!». Quando serviva a tavola, in assenza del cameriere, versava poco vino e molta acqua nel bicchiere della sua vittima, imponendogli il difficile compito di avvicinare alle labbra un bicchiere troppo pieno senza versarne una goccia. Dimenticava di servire il brav'uomo, e se lo faceva dire dalla presidentessa (con quale tono?... il cugino ne arrossiva!), oppure gli versava della salsa sugli abiti. Era, in definitiva, la guerra dell'inferiore che sa di 15/166

godere l'impunità contro un superiore sfortunato.

VIII • DOVE LO SFORTUNATO CUGINO VIENE ACCOLTO MOLTO MALE

Donna di fatica e cameriera, Madeleine aveva seguito i signori Camusot fino dal loro matrimonio. Aveva visto i suoi padroni nelle difficoltà dei primi tempi, in provincia, quando il signore era giudice presso il tribunale di Alençon; li aveva aiutati a sopravvivere quando, presidente del tribunale di Mantes, nel 1828 il signor Camusot era venuto a Parigi, ed era stato nominato giudice istruttore. Dunque apparteneva troppo alla famiglia per non avere delle ragioni di vendetta. Il desiderio di giocare all'orgogliosa e ambiziosa presidentessa il tiro di diventare la cugina del signore, doveva nascondere uno di quei sordi odî generati da uno di quei sassolini che formano le valanghe.

«Signora, ecco il vostro signor Pons, e sempre in spencer!», andò a dire Madeleine alla presidentessa. «Dovrebbe proprio dirmi come fa a conservarlo da venticinque anni!».

Udendo il passo di un uomo nel salottino che si trovava tra il salotto e la camera da letto, la signora Camusot guardò la figlia e alzò le spalle.

«Mi avvertite sempre con tanta intelligenza, Madeleine, che non mi resta il tempo di decidere», disse la presidentessa.

«Signora, Jean è uscito, io ero sola, il signor Pons ha suonato, gli ho aperto la porta, e siccome è quasi di casa non potevo impedirgli di venirmi dietro: ora è lì che si toglie lo spencer».

«Mia povera piccola», disse la presidentessa alla figlia, «non c'è scampo! ora dobbiamo pranzare in casa. Vediamo», continuò, alla vista dell'espressione rattristata della sua cara piccina, «vogliamo liberarcene per sempre?».

«Oh, pover'uomo!», rispose la signorina Camusot, «privarlo di uno dei suoi pranzi!».

Il salottino risuonò della falsa tosse di un uomo che in questo modo voleva dire: «Vi sto ascoltando».

«Ebbene, fatelo entrare!», disse la signora Camusot a Madeleine con un gesto delle spalle.

«Siete venuto così presto, caro cugino», disse Cécile Camusot con un'aria da piccola smorfiosa, «che ci avete sorpreso proprio mentre mia madre stava per vestirsi».

Il cugino Pons, cui non era sfuggito il gesto di spalle della presidentessa, fu così crudelmente colpito che non riuscì a trovare un complimento adatto alla situazione, e si accontentò di queste profonde parole: «Siete sempre incantevole, cuginetta mia!».

Poi, voltandosi verso la madre e salutandola:

«Cara cugina», proseguì, «non me ne vorrete se sono venuto un po' prima del solito; vi porto ciò che mi avete fatto il piacere di chiedermi...».

E il povero Pons, che irritava enormemente il presidente, la presidentessa e Cécile ogni volta che li chiamava «cugino» o «cugina», estrasse dalla tasca uno splendido astuccio oblungo in legno di Santa Lucia, divinamente intagliato.

«Ah, me ne ero dimenticata!», disse con freddezza la presidentessa.

Una tale esclamazione non era forse atroce? non toglieva ogni merito alla premura del parente, colpevole soltanto di essere un parente povero?

«Siete troppo buono, cugino mio», aggiunse lei. «Vi devo molto denaro per questa piccola sciocchezza?».

La domanda provocò una specie di sussulto interiore nel cugino, che pensava di saldare tutti i suoi pranzi con l'offerta di quel gioiello.

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«Ho pensato che mi avreste permesso di offrirvelo», disse con un filo di voce.

«Come! come!», riprese la presidentessa, «tra noi niente complimenti; ci conosciamo abbastanza per lavare in famiglia i nostri panni. Lo so che non siete abbastanza ricco e non voglio peggiorare la vostra situazione. Non vi siete disturbato già abbastanza perdendo il vostro tempo a correre da un negozio all'altro?...».

«Non vorreste questo ventaglio, mia cara cugina, dovendone pagare il giusto prezzo», replicò offeso il pover'uomo, «perché è un capolavoro di Watteau, che lo ha dipinto sui due lati; ma state tranquilla cugina mia, non l'ho pagato la centesima parte del suo valore artistico».

Dire a un ricco: «Voi siete povero!», è come dire all'arcivescovo di Granada che le sue omelie non valgono niente. La presidentessa era troppo orgogliosa della posizione del marito, della proprietà di Marville e degli inviti ai balli di corte per non essere ferita da una simile osservazione, soprattutto perché veniva da un miserabile musicista nei cui confronti si atteggiava a benefattrice.

«Sono così stupidi quelli da cui comprate questa roba?...», disse vivacemente la presidentessa.

«A Parigi non ci sono negozianti stupidi», replicò Pons seccamente.

«Allora siete voi molto abile», disse Cécile per calmare gli spiriti.

«Cara cuginetta, sono abile a riconoscere Lancret, Pater, Watteau, Greuze; ma avevo soprattutto il desiderio di compiacere la vostra cara mamma».

Ignorante e vanitosa, la signora de Marville non voleva avere l'aria di ricevere qualcosa dal suo scroccone e la sua ignoranza le servì a meraviglia: Watteau, non sapeva neppure chi fosse. Se qualcosa può esprimere fino a che punto arrivi l'amor proprio dei collezionisti, che certamente è tra i più vivi perché compete con l'amor proprio degli artisti, è sicuramente l'audacia che Pons aveva appena dimostrato nel tener testa alla cugina, per la prima volta in vent'anni. Stupito della sua temerarietà, Pons riprese un contegno pacifico descrivendo a Cécile, in ogni dettaglio, la bellezza della fine scultura delle stecche di quel ventaglio meraviglioso. Ma, per comprendere profondamente la trepidazione di cuore che agitava il brav'uomo, è necessario tracciare un rapido profilo della presidentessa.

A quarantasei anni la signora de Marville, un tempo piccola, bionda, grassa e fresca, pur essendo rimasta piccola era diventata secca. La fronte bombata, la bocca rientrante, che la giovinezza un tempo aveva decorato con tinte delicate, avevano reso arcigna la sua espressione, sdegnosa per natura. L'abitudine a un dominio assoluto in casa aveva reso dura e sgradevole la sua fisionomia. Col passare degli anni i capelli biondi erano diventati di un castano stridente. Gli occhi, ancora vivaci e caustici, esprimevano una tracotanza giudiziaria carica di un'invidia contenuta. In effetti la presidentessa si ritrovava quasi povera nella società di borghesi arricchiti dove Pons si recava a pranzo. Ella non perdonava al ricco mercante di droghe, ex presidente del tribunale di commercio, d'essere diventato successivamente deputato, ministro, conte e pari. Non perdonava al suocero d'essersi fatto nominare, a scapito del primogenito, deputato della propria circoscrizione, quando Popinot era stato promosso pari. Dopo diciotto anni di servizio a Parigi, ella ancora attendeva per Camusot il posto di consigliere presso la Corte di cassazione, dal quale d'altra parte lo escludeva un'incapacità ben nota a palazzo di Giustizia. Il ministro in carica nel 1844

deprecava la nomina di Camusot alla presidenza, ottenuta nel 1834; ma l'avevano sistemato alla procura dove, grazie a una lunga esperienza di giudice istruttore, faceva qualcosa compilando delle sentenze.

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IX • UNA BUONA TROVATA

Questi errori di calcolo avevano logorato la presidentessa, che del resto non si faceva illusioni sul valore di suo marito, e l'avevano resa terribile. Il suo carattere, già duro, si era inasprito. Più invecchiata che vecchia, si mostrava aspra e rude come una spazzola per ottenere con la paura ciò che gli altri volevano rifiutarle. Mordace fino all'eccesso, aveva poche amiche. Era molto invadente, anche grazie ad alcune vecchie bigotte del suo tipo, di cui si era circondata e che la sostenevano, ricambiate a loro volta. Così i rapporti del povero Pons con questo diavolo in gonnella erano quelli di uno scolaro con un maestro che parla soltanto a frustate. Per questo la presidentessa non si spiegava l'improvvisa audacia del cugino; il fatto è che ignorava il valore del dono.

«Ma dove l'avete trovato?», chiese Cécile esaminando il ventaglio.

«In rue de Lappe, da un antiquario che l'aveva trovato in un castello demolito, presso Dreux, il castello di Aulnay abitato talvolta dalla Pompadour prima della costruzione di Ménars; ne sono state salvate le più splendide boiseries che si conoscano; sono talmente belle che Liénard, il nostro celebre scultore in legno, ne ha conservate, come nec-plus-ultra dell'arte, due cornici ovali da tenere come modelli... C'erano dei veri tesori. Il mio antiquario ha trovato questo ventaglio in uno scrittoio intarsiato che avrei acquistato se facessi la collezione di quel genere di oggetti; ma è inavvicinabile... un mobile di Riesener vale dai tre ai quattromila franchi! A Parigi si comincia a riconoscere che i famosi intarsiatori tedeschi e francesi dei secoli XVI, XVII e XVIII hanno creato dei veri e propri quadri in legno. Il merito del collezionista è la capacità di precedere la moda. Siatene certa! entro cinque anni le porcellane di Frankenthal, che io colleziono da vent'anni, a Parigi si pagheranno due volte più care della pasta tenera di Sèvres».

«Cos'è il Frankenthal?», chiese Cécile.

«È il nome della fabbrica di porcellane dell'elettore palatino; è più antica della nostra manifattura di Sèvres; come i famosi giardini di Heidelberg, rovinati da Turenne, hanno avuto la sventura di esistere prima di quelli di Versailles. Sèvres ha copiato molto Frankenthal... I tedeschi, bisogna riconoscerlo, hanno creato prima di noi cose meravigliose in Sassonia e nel Palatinato».

La madre e la figlia si guardavano come se Pons avesse parlato in cinese, perché non si può immaginare quanto i parigini siano ignoranti ed esclusivi: sanno soltanto quello che viene loro insegnato, quando vogliono impararlo.

«E da cosa riconoscete il Frankenthal?».

«Ma dalla firma!», rispose Pons infervorato. «Quei capolavori incantevoli sono tutti firmati. Il Frankenthal ha una C e una T (Charles-Théodore) intrecciati sotto una corona principesca. La porcellana antica di Sassonia ha due spade e il numero d'ordine in oro. Vincennes firmava con un corno. Vienna ha una V chiusa e barrata. Berlino ha due barre. Magonza ha la ruota. Sèvres ha due LL, e la porcellana della regina una A che significa Antoinette, sovrastata da una corona reale. Nel XVIII secolo tutti i sovrani d'Europa hanno gareggiato nella fabbricazione della porcellana. Ci si contendevano gli operai. Watteau disegnava dei servizi per la manifattura di Dresda, e le sue opere hanno raggiunto prezzi folli. (Bisogna intendersene, perché oggi Dresda li riproduce copiandoli). In quel periodo si sono fabbricate cose mirabili, che non si faranno mai più...».

«Suvvia!».

«Sì, cugina, non si faranno più certi intarsi, certe porcellane, come non si faranno più dei Raffaello, dei Tiziano, dei Rembrandt, dei Van Eyck, dei Cranach!... Vedete, i cinesi sono molto abili, molto esperti... ebbene, oggi copiano dei bei modelli di porcellana

«gran-mandarino»... Ora, due vasi di gran-mandarino antico, del formato più grande, valgono sei, otto, diecimila franchi, quando se ne può avere una copia moderna per 18/166

duecento franchi!».

«State scherzando!».

«Cugina, questi prezzi vi stupiscono, ma è ancora niente. Un servizio completo da tavola per dodici in pasta tenera di Sèvres, che non è porcellana, vale centomila franchi. Un servizio del genere veniva pagato cinquantamila franchi a Sèvres nel 1750.

Ho visto delle fatture originali.

«Torniamo a questo ventaglio», disse Cécile alla quale quell'oggetto sembrava troppo vecchio.

«È evidente che appena la vostra cara mamma mi ha fatto l'onore di chiedermi un ventaglio mi sono messo in caccia. Ho ispezionato tutti i negozi d'antiquariato di Parigi senza trovarvi niente di bello; infatti per la cara presidentessa volevo un capolavoro, volevo donarle il ventaglio di Maria Antonietta, il più bello di tutti i ventagli celebri. Ma ieri sono rimasto abbagliato da questo divino capolavoro, certamente commissionato da Luigi XV. Perché mai sono andato a cercare un ventaglio in rue de Lappe, nel negozio di un alverniate che vende rame, ferro vecchio, mobili dorati? Io credo all'intelligenza degli oggetti d'arte; essi conoscono gli intenditori, li chiamano, dicono loro: «Ehi, tu!».

La presidentessa alzò le spalle e lanciò un rapido sguardo alla figlia, senza che Pons se ne accorgesse.

«Li conosco tutti quegli spilorci! «Che avete di nuovo, papà Monistrol? Avete dei soprapporta?», ho chiesto a quel negoziante, che mi permette di dare un'occhiata ai suoi acquisti prima che li vedano i grandi antiquari. A questa domanda, Monistrol mi racconta come Liénard, che scolpiva nella cappella di Dreux delle cose molto belle per la corte reale, avesse salvato le boiseries intagliate, all'asta di Aulnay, dalle mani di alcuni antiquari parigini che erano interessati soltanto alle porcellane e ai mobili intarsiati. «Non ho ottenuto molto», mi disse, «ma posso ripagarmi il viaggio con questa». E mi mostrò lo scrittoio, una meraviglia! Dei disegni di Boucher eseguiti a intarsio con un'arte!... da gettarsi in ginocchio! «Guardate, signore», mi disse, «poco fa ho trovato in un cassettino chiuso, senza chiave, che ho forzato, questo ventaglio!

Volete dirmi a chi potrei venderlo?». E tira fuori quest'astuccio intagliato, in legno di Santa Lucia. «Guardate! È in quello stile Pompadour che sembra gotico fiorito». «Oh», gli ho risposto, «l'astuccio è grazioso e potrebbe anche interessarmi, l'astuccio!

perché, quanto al ventaglio, mio vecchio Monistrol, non ho una signora Pons cui donare questo vecchio gioiello; del resto, se ne fanno di nuovi, molto graziosi. Oggi si dipingono queste pergamene in modo miracoloso e assai a buon mercato. E voi sapete bene che a Parigi ci sono duemila pittori!». E intanto aprivo con indifferenza il ventaglio trattenendo la mia ammirazione, osservando freddamente questi due quadretti dipinti con tanta facilità, con una tecnica meravigliosa. Avevo il ventaglio della Pompadour! Watteau ha fatto prodigi in questo lavoro! «Quanto volete del mobile?». «Oh, mille franchi. Me li danno già!». Gli offro una cifra per il ventaglio, che corrispondeva alle spese presunte del suo viaggio. Allora ci guardiamo nel bianco degli occhi e mi rendo conto che l'accordo è fatto. Subito ripongo il ventaglio nell'astuccio per evitare che l'alverniate si metta a esaminarlo, e vado in estasi dinanzi all'intaglio dell'astuccio che è un vero gioiello. «Se lo compro», dico a Monistrol, «è per questo, vedete, è solo l'astuccio a interessarmi. Quanto a questo scrittoio, ne ricaverete più di mille franchi; guardate come sono cesellati questi ottoni! sono dei modelli... si possono sfruttare... sono pezzi unici, si facevano solo pezzi unici per la Pompadour...». E il mio uomo, tutto preso dalla sua scrivania, dimentica il ventaglio e me lo lascia per niente, in cambio della mia rivelazione sulla bellezza di quel mobile di Riesener. Ecco fatto! Ma ci vuole dell'esperienza per concludere trattative simili! Sono combattimenti a colpi di sguardi, e che occhio è quello di un ebreo o di un alverniate!».

La mirabile pantomima, il brio del vecchio artista che facevano di lui - mentre 19/166

raccontava il trionfo della sua intelligenza sull'ignoranza del rigattiere - un modello degno di un pennello olandese... tutto ciò non fu neppure percepito dalla presidentessa e dalla figlia che si dissero, scambiandosi degli sguardi freddi e sdegnosi:

«Che originale!...».

«Dunque tutto ciò vi diverte?», chiese la presidentessa.

Pons, gelato da una simile domanda, ebbe voglia di prendere a sberle la presidentessa.

«Ma, cara cugina», rispose, «è la caccia ai capolavori! E ci si trova faccia a faccia con avversari che difendono la selvaggina! È una lotta di astuzia! Un capolavoro nelle mani di un normanno, di un ebreo o di un alverniate è come, nelle fiabe, una principessa prigioniera di un mago!».

«E come fate a sapere che è un Wat....? come dite?».

«Watteau! cugina mia, uno dei più grandi pittori francesi del XVIII secolo! Guardate, non vedete la firma?», disse, indicandole una delle scene pastorali che rappresentava una ronde danzata da false contadine e da aristocratici pastori. «Che vitalità! Che brio! Che colore! E tutto di getto, come lo svolazzo di un maestro di calligrafia. Non si sente più il lavoro! E sull'altro lato, guardate: un ballo in un salotto. L'inverno e l'estate! Che decorazioni! E come si è conservato bene! Guardate la ghiera, è d'oro e da entrambi i lati termina in un piccolo rubino che ho ripulito».

«Se è così, cugino mio, non posso accettare da voi un oggetto di così grande valore. È

meglio che lo vendiate», disse la presidentessa che non chiedeva di meglio che entrare in possesso di quel magnifico ventaglio.

«È tempo che ciò che è servito al vizio passi nelle mani della virtù!», disse il brav'uomo riacquistando sicurezza. «Ci saranno voluti cento anni perché si compisse un simile miracolo. Siate certa che a corte nessuna principessa avrà qualcosa di paragonabile a questo capolavoro; perché, sventuratamente, è proprio della natura umana fare di più per una Pompadour che per una regina virtuosa!».

«Ebbene, l'accetto», disse ridendo la presidentessa. «Cécile, angelino mio, vai a vedere con Madeleine che il pranzo sia degno di nostro cugino».

La presidentessa voleva pareggiare il conto. Quella raccomandazione ad alta voce, contrariamente alle regole del buon gusto, somigliava talmente al saldo di un pagamento che Pons arrossì come una fanciulla colta in fallo. Quel granello di sabbia un po' troppo grosso gli circolò per un po' nel cuore. Cécile, ragazza dai capelli rossicci il cui atteggiamento, viziato dalla pedanteria, esibiva il tono giudiziario del presidente e risentiva della durezza materna, scomparve lasciando il povero Pons alle prese con la terribile presidentessa.

X • UNA RAGAZZA DA MARITARE

«È proprio graziosa la mia piccola Lili», disse la presidentessa usando ancora il diminutivo infantile dato un tempo al nome di Cécile.

«Incantevole!», rispose il vecchio musicista roteando i pollici.

«Non capisco niente del tempo in cui viviamo», proseguì la presidentessa. «A che serve dunque avere per padre un presidente della corte reale di Parigi, e commendatore della Legion d'onore, per nonno un deputato milionario, un futuro pari di Francia, il più ricco commerciante all'ingrosso di seterie?».

Le devozione del presidente alla nuova dinastia gli aveva procurato da poco il titolo di commendatore, favore attribuito da qualche invidioso all'amicizia che lo univa a 20/166

Popinot. Questo ministro, malgrado la sua modestia, come abbiamo visto si era lasciato nominare conte. «Per mio figlio», aveva detto ai suoi numerosi amici.

«Oggi si cerca soltanto il denaro», rispose il cugino Pons, «si ha riguardo soltanto per i ricchi, e...».

«E in quale situazione ci troveremmo», esclamò la presidentessa, «se il cielo mi avesse lasciato il mio piccolo Charles!...».

«Oh! con due figli sareste povera!», continuò il cugino. «È l'effetto della divisione dei beni in parti eguali; ma, state tranquilla mia bella cugina, prima o poi Cécile si sposerà. Non ho mai visto una signorina così educata».

Ecco fino a qual punto Pons aveva umiliato la sua anima nelle case dei suoi anfitrioni: ripeteva le loro idee, gliele commentava nel modo più banale, alla maniera dei cori antichi. Non osava abbandonarsi all'originalità che distingue gli artisti e che nella sua giovinezza anche lui aveva avuto, con caratteri assai fini, ma che l'abitudine di farsi da parte aveva allora quasi eliminata, e che veniva rifiutata, come un attimo prima, appena si riaffacciava.

«Ma io mi sono sposata con una dote di ventimila franchi soltanto...».

«Nel 1819, cugina!», disse Pons interrompendola. «E si trattava di voi, donna di qualità, protetta dal re Luigi XVIII!».

«Dopotutto mia figlia è un angelo di perfezione e di spirito; ha un gran cuore, una dote di centomila franchi, senza contare le più belle speranze, eppure è ancora a nostro carico...».

La signora de Marville parlò di sua figlia e di se stessa per venti minuti, abbandonandosi alle lamentele delle madri che hanno figlie in età da marito. Dopo venti anni che il vecchio musicista pranzava in casa del suo unico cugino Camusot, il pover'uomo era ancora in attesa di una parola sui suoi affari, sulla sua vita, sulla sua salute. Del resto Pons era ovunque una specie di fogna delle confidenze domestiche: egli offriva le migliori garanzie per la sua discrezione ben nota e necessaria, perché una sola parola di troppo gli avrebbe sbarrato la porta di dieci case; la sua parte di ascoltatore era perciò accompagnata da una costante approvazione; sorrideva su ogni cosa, non accusava né difendeva nessuno; per lui avevano ragione tutti. In questo modo non contava più come uomo: era uno stomaco! Nella sua lunga tirata la presidentessa confessò al cugino, non senza qualche precauzione, di essere disposta ad accettare per la figlia, quasi a occhi chiusi, un partito qualunque. Giunse a considerare un buon affare un uomo di quarantotto anni, sempre che possedesse una rendita di ventimila franchi.

«Cécile ha ventitré anni, e se disgraziatamente arrivasse ai venticinque o ai ventisei sarebbe difficilissimo maritarla. Allora la gente si chiederebbe come mai una ragazza sia rimasta in attesa tanto a lungo. Nel nostro ambiente si chiacchiera fin troppo di questa situazione. Ormai abbiamo esaurito le ragioni più ovvie: «È troppo giovane. -

Ama troppo i genitori per lasciarli. - È felice in casa sua. - Fa la difficile. Pretende un bel nome!». Stiamo diventando ridicoli, lo so bene. D'altra parte anche Cécile è stanca di aspettare; soffre, povera piccola...».

«E di che?», chiese scioccamente Pons.

«Ma», riprese la madre con un tono da governante, «è umiliata di vedere tutte le sue amiche sposarsi prima di lei».

«Cugina mia, cosa è mai cambiato dall'ultima volta che ho avuto il piacere di pranzare qui, perché pensiate a un uomo di quarantotto anni?», chiese umilmente il povero musicista.

«C'è che», rispose la presidentessa, «dovevamo avere un incontro da un consigliere di corte il cui figlio ha trent'anni, provvisto di una fortuna considerevole e per il quale il signore de Marville avrebbe ottenuto, grazie al denaro, un posto di referendario presso la corte dei conti. Il giovane vi si trova già come aggiunto. Ci hanno appena detto che questo giovanotto ha commesso la follia di partire per l'Italia, correndo 21/166

dietro a una ballerina. È un rifiuto mascherato. Ci viene negato un giovane la cui madre è morta, e che già gode di una rendita di trentamila franchi, in attesa della fortuna paterna. Così dovete perdonarci il nostro malumore, caro cugino: siete arrivato in un momento di crisi.».

Mentre Pons stava cercando una di quelle risposte complimentose che gli venivano sempre troppo tardi in casa degli anfitrioni che lo intimorivano, entrò Madeleine, consegnò un biglietto alla presidentessa e rimase in attesa della risposta. Nel biglietto c'era scritto:

«Chi ha portato questo biglietto del signore?», chiese la presidentessa con tono brusco.

«Un commesso del Tribunale», rispose sfrontatamente la secca Madeleine.

Con questa risposta la vecchia fantesca faceva capire alla padrona che era stata lei a ordire il complotto, d'accordo con la spazientita Cécile.

«Dite che mia figlia ed io saremo lì alle cinque e mezzo».

XI • UNO DEI MILLE OLTRAGGI CHE DEVE SUBIRE UNO SCROCCONE

Uscita Madeleine, la presidentessa guardò il cugino Pons con quella falsa amabilità che su un'anima delicata produce un effetto pari a quello di un miscuglio di latte e aceto sulla lingua di un ghiotto:

«Caro cugino, il pranzo è pronto; pranzerete senza di noi perché mio marito mi scrive dall'udienza per informarmi che si riprende il progetto di matrimonio con il consigliere, e così andiamo a pranzo da lui. Tra di noi non facciamo certo dei complimenti. Fate come se foste a casa vostra. Vedete con quanta franchezza vi tratto; con voi non ho segreti... Non vorreste far saltare il matrimonio di quell'angioletto, vero?».

«Al contrario, cugina, vorrei trovarle io un marito; ma nell'ambiente in cui vivo...».

«Ah, è improbabile», interruppe con insolenza la presidentessa. «Insomma, rimanete?

Cécile vi terrà compagnia mentre mi preparo».

«Oh, cugina, posso pranzare altrove», disse il brav'uomo.

Anche se offeso crudelmente dal modo usato dalla presidentessa per rimproverargli la sua indigenza, era ancora più impaurito dalla prospettiva di trovarsi solo con i domestici.

«Ma perché?... il pranzo è pronto, si mangerebbero tutto i domestici...».

Udendo questa frase orribile, Pons si alzò come se fosse stato colpito dalla scarica di una pila galvanica, salutò freddamente la cugina e andò a riprendersi lo spencer. La porta della camera da letto di Cécile, che dava su un salottino, era semiaperta in modo che, guardando davanti in uno specchio, Pons scorse la ragazza in preda al riso mentre, rivolta alla madre, faceva dei cenni con la testa e dei gesti che rivelarono una qualche ignobile mistificazione a danno del vecchio artista. Pons scese lentamente le scale trattenendo le lacrime: si vedeva scacciato da quella casa senza sapere perché.

«Ormai sono troppo vecchio», disse tra sé, «la gente ha orrore della vecchiaia e della povertà, due brutte cose. Non voglio più andare da nessuna parte senza essere stato invitato».

Parole eroiche!...

La porta della cucina, a pianterreno, di fronte alla portineria, rimaneva spesso aperta come accade nelle case abitate dai proprietari, mentre il portone resta sempre chiuso: così poté udire le risate della cuoca e del domestico ai quali Madeleine stava raccontando il tiro giocato a Pons, perché non pensava che il brav'uomo se ne sarebbe 22/166

andato tanto in fretta. Il domestico approvava in pieno quello scherzo riservato a un frequentatore abituale della casa che, diceva, non dava mai più di un piccolo scudo per le feste!

«Sì, ma se gli salta la mosca al naso e non torna più», fece osservare la cuoca, «per noi saranno tre franchi in meno a capodanno».

«Ma come potrebbe saperlo?», disse il domestico rispondendo alla cuoca.

«Prima o poi», riprese Madeleine, «a noi che importa? Annoia talmente i padroni delle case dove pranza, che lo scacceranno dappertutto».

In quel momento il vecchio musicista gridò alla portiera: «Aprite, per favore!». Quel grido doloroso fu accolto in cucina dal più profondo silenzio.

«Stava ascoltando», disse il domestico.

«Ebbene, tanto peggio, o piuttosto tanto meglio», replicò Madeleine, «ha finito di fare il topo».

Il brav'uomo, che non aveva perduto una parola di quanto era stato detto in cucina, udì anche quest'ultima frase. Tornò a casa per i boulevards nello stato in cui si troverebbe una vecchia dopo una lotta accanita con degli assassini. Parlando a se stesso, camminava con velocità convulsa; l'onore ferito lo sospingeva come una paglia trascinata da un vento furioso. Finalmente si trovò, alle cinque, sul boulevard du Temple senza sapere come vi fosse giunto; ma, cosa straordinaria, non avvertiva il minimo appetito.

Ma, per capire la rivoluzione che il ritorno di Pons a quell'ora avrebbe provocato in casa sua, sono a questo punto necessarie le spiegazioni promesse a proposito della signora Cibot.

XII • TIPO DI PORTIERE (MASCHIO E FEMMINA)

La rue de Normandie è una di quelle vie dove uno può credere di trovarsi in provincia: vi fiorisce l'erba, un passante rappresenta un avvenimento, e tutti si conoscono. Le case risalgono all'epoca in cui, sotto Enrico IV, iniziò la costruzione di un quartiere in cui ogni via doveva portare il nome di una provincia, con al centro una bella piazza dedicata alla Francia. L'idea del quartiere dell'Europa fu la riproposta di quel piano. Il mondo si ripete in ogni cosa, ovunque, anche nelle idee. La casa in cui abitavano i due musicisti è un vecchio palazzo tra il cortile e il giardino; ma la facciata, sulla via, risaliva al periodo della grande fortuna del Marais nell'ultimo secolo. I due amici occupavano tutto il secondo piano del vecchio palazzo; i due appartamenti in cui era diviso erano di proprietà del signor Pillerault, un ottuagenario che ne aveva affidato l'amministrazione ai coniugi Cibot, suoi portieri da ventisei anni. Ora, poiché lo stipendio di un portiere del Marais non pemette di vivere del solo portierato, Cibot univa alla percentuale sugli affitti e sui carichi di legna le risorse dell'ingegno personale: come molti portieri, faceva il sarto. Col tempo Cibot aveva smesso di lavorare per le sartorie; infatti, grazie alla fiducia della piccola borghesia del quartiere, godeva del privilegio incontestabile di rammendare, accomodare e rimettere a nuovo tutti gli abiti in un perimetro di tre strade. La portineria era grande e pulita, con accanto una camera. Così la famiglia Cibot era considerata una delle più agiate tra i signori portieri della circoscrizione.

Cibot, piccolo e rinsecchito, diventato quasi olivastro a forza di stare sempre seduto, alla turca, su un tavolo collocato all'altezza della finestra con la grata che dava sulla strada, col suo mestiere guadagnava circa quaranta soldi al giorno. Lavorava ancora nonostante i suoi cinquantotto anni; ma i cinquantotto anni sono l'età migliore per i 23/166

portieri; hanno passato una vita nella portineria, che per loro è divenuta ciò che è il guscio per le ostriche, e sono conosciuti nel quartiere!

La signora Cibot, che un tempo era stata una bella ostricaia, aveva lasciato il suo posto al Cadran bleu per amore di Cibot, all'età di ventotto anni, dopo tutte le avventure che una bella ostricaia incontra senza neppure cercarle. La bellezza delle donne del popolo dura poco, soprattutto quando stanno di spalle all'ingresso di un ristorante. I caldi vapori della cucina si proiettano sui lineamenti, che si induriscono; i resti delle bottiglie bevuti in compagnia dei camerieri s'infiltrano nel colorito, e nessun fiore matura più in fretta di quello di una bella ostricaia. Fortunatamente per la Cibot, il matrimonio legittimo e la vita di portiera giunsero in tempo per salvarla; ed ella si mantenne come una modella di Rubens, conservando una bellezza virile che le rivali della rue de Normandie calunniavano, definendola una cicciona. I colori della sua carnagione potevano essere paragonati agli appetitosi pendii dei pani di burro d'Isigny; e, nonostante la sua grassezza, dava prova di un'incomparabile agilità nello svolgimento delle sue mansioni. La Cibot era giunta all'età in cui le donne di quel genere sono costrette a farsi la barba. Non è come dire che aveva quarantotto anni?

Una portiera con i baffi è una delle maggiori garanzie d'ordine e di sicurezza per un proprietario. Se Delacroix avesse potuto vedere la Cibot appoggiata fieramente alla sua scopa, certamente ne avrebbe fatto una Bellona!

La posizione dei coniugi Cibot, in stile d'atto d'accusa, un giorno avrebbe stranamente influenzato quella dei due amici; così lo storico, per essere fedele, è obbligato a entrare in qualche dettaglio a proposito della portineria. La casa rendeva circa ottomila franchi, perché era composta di tre appartamenti completi, di eguale estensione, sulla via, e tre nella parte più vecchia del palazzo, tra il cortile e il giardino. Inoltre un ferravecchio di nome Rémonencq occupava una bottega sulla via.

Questo Rémonencq, che da qualche mese era divenuto un negoziante di curiosità, conosceva così bene il valore di Pons come esperto di bric-à-brac, che lo salutava dal fondo della sua bottega ogni volta che il musicista entrava o usciva. Così, la percentuale sugli affitti rendeva circa quattrocento franchi alla famiglia Cibot, che inoltre aveva gratuitamente l'alloggio e la legna. Ora, dal momento che lo stipendio di Cibot era in media di sette-ottocento franchi l'anno, i coniugi mettevano insieme, con le mance, un'entrata di milleseicento franchi che i Cibot letteralmente si mangiavano, vivendo meglio di quanto non faccia la gente del popolo. «Si vive una volta sola!», diceva la Cibot. Nata durante la Rivoluzione, ignorava, come si vede, il catechismo.

Dei suoi rapporti con il Cadran bleu questa portiera dall'occhio arancione e severo aveva conservato qualche nozione culinaria che rendeva il marito oggetto dell'invidia di tutti i suoi colleghi. Perciò, ormai giunti alla maturità, sulla soglia della vecchiaia, i Cibot non avevano neppure cento franchi di risparmi. D'altra parte, ben vestiti e ben nutriti, godevano nel quartiere di una stima dovuta a ventisei anni di rigorosa onestà.

Se non possedevano niente, non dovevano neppure n'un centesimo a nessuno, secondo una loro espressione, perché la Cibot prodigava le n nel suo modo di parlare.

Diceva al marito: «Tu sei n'un amore!». Perché? Tanto varrebbe chiedere la ragione della sua indifferenza in materia di religione. Fieri entrambi di quella vita alla luce del sole, della stima di sei o sette vie, e dell'autocrazia sulla casa che il poprietario accordava loro, erano segretamente addolorati di non avere alcuna rendita. Cibot lamentava dolori alle mani e alle gambe, e la Cibot deplorava che il suo povero Cibot, alla sua età, fosse ancora costretto a lavorare. Verrà un giorno in cui, dopo trent'anni di una vita simile, un portiere accuserà il governo d'ingiustizia e pretenderà la decorazione della Legion d'onore! Ogni volta che dalle chiacchiere di quartiere venivano a sapere che a una tale domestica, dopo otto o dieci anni di servizio, era stato intestato un vitalizio di tre o quattrocento franchi, di portineria in portineria si alzavano grandi lamentele, che possono dare un'idea della gelosia che a Parigi divora i mestieri più umili.

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«Ecco, a noi non capiterà mai di essere messi su un testamento! Non abbiamo fortuna! Eppure siamo più utili dei domestici. Siamo persone di fiducia, riscuotiamo gli affitti, siamo sempre all'erta; ma siamo trattati né più né meno come cani!».

«È solo questione di fortuna», diceva Cibot andando a riconsegnare un abito.

«Se avessi lasciato Cibot nella sua portineria e fossi andata a fare la cuoca, averemmo trentamila franchi da parte», esclamava la Cibot parlando con la vicina, le mani sui grossi fianchi. «Mi sono proprio sbagliata, con quella storia dell'alloggio e del riscaldamento dentro una buona portineria, e che non ci sarebbe mancato nulla».

XIII • PROFONDO STUPORE

Quando nel 1836 i due amici occuparono il secondo piano del vecchio palazzo, provocarono una specie di rivoluzione nelle abitudini della famiglia Cibot. Ecco come.

Schmucke aveva, come del resto il suo amico Pons, l'abitudine di servirsi dei portieri o delle portiere delle case in cui abitava, per sbrigare le faccende domestiche. I due musicisti, insediandosi in rue de Normandia, furono entrambi dell'avviso di mettersi d'accordo con la Cibot, che divenne la loro domestica per venticinque franchi al mese, dodici franchi e cinquanta centesimi a testa. Nel giro di un anno la portiera emerita regnò sulla casa dei due vecchi scapoli esattamente come regnava sulla casa del signor Pillerault, il prozio della contessa Popinot; i loro affari divennero i suoi affari, e lei diceva: I miei due signori. Infine, trovando i due schiaccianoci docili come pecore, facili da accontentare, per niente diffidenti, dei veri bambini, con il suo cuore generoso di popolana si mise a proteggerli, ad adorarli, a servirli con una dedizione così sincera che talvolta faceva loro qualche ramanzina e li metteva in guardia contro tutti gli imbrogli che a Parigi fanno aumentare le spese di casa. Con venticinque franchi al mese i due scapoli, senza alcuna premeditazione e senza rendersene conto, acquistarono una madre. Vedendo quanto valeva la Cibot, i due musicisti le avevano ingenuamente rivolto degli elogi, dei ringraziamenti e dei piccoli doni che rafforzarono i legami di quell'unione domestica. La Cibot preferiva mille volte essere apprezzata per il suo valore che essere pagata; sentimento che, ben conosciuto, migliora sempre i salari. Cibot faceva a metà prezzo le commissioni, le riparazioni, tutto ciò che poteva riguardarlo nel servizio ai due signori di sua moglie.

Poi, dal secondo anno, nell'unione tra il secondo piano e la portineria entrò un nuovo elemento di mutua amicizia. Schmucke concluse con la Cibot un accordo che esaudì la sua pigrizia e il suo desiderio di vivere senza occuparsi di niente. Per trenta soldi al giorno o quarantacinque franchi al mese, la Cibot si incaricò di provvedere al pranzo e alla cena di Schmucke. Pons, trovando molto soddisfacente il pranzo dell'amico, fece un accordo analogo per diciotto franchi. Quest'organizzazione dei pasti, che aumentò di circa novanta franchi le entrate della portineria, fece dei due inquilini degli esseri inviolabili, degli angeli, dei cherubini, degli dei. È molto dubbio che il re dei francesi, che se ne intende, sia servito come lo furono allora i due schiaccianoci. Per loro il latte sgorgava puro dal recipiente; leggevano gratis i giornali degli inquilini del primo e del terzo piano, che si alzavano tardi e ai quali, se fosse stato necessario, si sarebbe detto che i giornali non erano ancora arrivati. La Cibot inoltre teneva l'appartamento, gli abiti, il pianerottolo, in uno stato di pulizia fiamminga. Schmucke era felice come mai avrebbe sperato: la Cibot gli rendeva la vita facile; le dava circa sei franchi al mese per il bucato, cui provvedeva lei stessa, e per le rammendature. Inoltre spendeva quindici franchi al mese per il tabacco. Queste tre voci di spesa formavano un totale mensile di sessantasei franchi che, moltiplicati per dodici, fanno settecentonovantadue 25/166

franchi. Cibot provvedeva ai vestiti di Schmucke, per una spesa media di centocinquanta franchi. Questo profondo filosofo viveva dunque con milleduecento franchi l'anno. Quanta gente, in Europa, il cui solo pensiero è di stabilirsi a Parigi, rimarrà piacevolmente sorpresa di sapere che vi si può vivere felicemente con una rendita di milleduecento franchi, in rue de Normandie, al Marais, sotto la protezione di una Cibot!

La Cibot rimase stupita vedendo rientrare il buon Pons alle cinque di sera. Non soltanto non era mai successo, ma per di più il suo signore non la vide neppure, non la salutò.

«Bene, Cibot», disse al marito, «o il signor Pons è diventato milionario o è impazzito!».

«Sembra anche a me», rispose Cibot lasciando cadere una manica d'abito cui stava applicando, come si dice nel gergo dei sarti, una giunta.

XIV • UN ESEMPIO VIVENTE DELLA FAVOLA DEI DUE PICCIONI Mentre Pons rientrava in casa come un automa, la Cibot aveva appena preparato la cena di Schmucke. La cena consisteva in un certo sugo il cui odore si era sparso per tutto il cortile. Si trattava di avanzi di manzo bollito acquistati da un rosticciere che faceva anche il rivendugliolo, soffritti al burro con cipolla tagliata a fette sottili fino a che il burro non fosse stato assorbito dalla carne e dalla cipolla, in modo che questa pietanza da portiere prendesse l'aspetto di una frittura. Il piatto, preparato amorevolmente per Cibot e Schmucke, tra i quali la Cibot lo avrebbe diviso, accompagnato da una bottiglia di birra e da un pezzo di formaggio, era sufficiente al vecchio maestro di musica tedesco. E siate certi che il re Salomone, nella sua gloria, non cenava meglio di Schmucke. Ora questo piatto di bollito soffritto con cipolla, ora degli avanzi di pollo saltati, ora del lesso freddo in salsa verde, ora del pesce in una salsa inventata dalla Cibot, nella quale una madre avrebbe mangiato il suo bambino senza accorgersene, ora della cacciagione, secondo la qualità e la quantità di ciò che i ristoranti del boulevard rivendevano al rosticciere della rue Boucherat: questo era il vitto abituale di Schmucke, che si accontentava, senza la minima obiezione, di tutto quello che gli serviva la puona sighnora Zipot. E, di giorno in giorno, la buona Cibot aveva diminuito le dosi del vitto in modo che non costasse più di venti soldi.

«Vado a sentire che gli è successo, n'a quel caro brav'uomo», disse la Cibot al marito,

«tanto la cena del signor Schmucke è pronta».

La Cibot coprì la fondina di terraglia con un piatto di porcellana comune; poi, nonostante l'età, raggiunse l'appartamento dei due amici proprio mentre Schmucke stava aprendo a Pons.

«Che ha tu, mio puon amico?», chiese il tedesco allarmato dalla faccia stravolta di Pons.

«Ti dirò tutto; ma vengo a cenare con te...».

«Cenare! cenare!», esclamò Schmucke lusingato. «Ma essere impossipile!», aggiunse pensando alle abitudini gastrolatriche dell'amico.

Il vecchio tedesco vide allora la Cibot che stava ascoltando, secondo il suo diritto di donna di servizio ufficiale. Còlto da una di quelle ispirazioni che si accendono solo nel cuore di un vero amico, andò verso la portiera e la condusse sul pianerottolo:

«Sighnora Zipot, il puon Pons ama le puone cose; andate al Cadran pleu e ordinate una cena speciale: acciuche, maccaroni! Insomma un pasto da Lucullo!».

«E che vuol dire?», chiese la Cibot.

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«Eppene», rispose Schmucke, «vitello alla finanziera, puon pesce, una pottiglia di Pordeaux, e tutte le migliori leccornie: crocchette di riso, larto affumicato! Ma, silenzio! e domani mattina vi restituirò il denaro».

Schmucke rientrò tutto allegro, sfregandosi le mani; ma il suo viso riprese gradualmente un'espressione di stupore mentre ascoltava il racconto delle sventure che si erano abbattute nello stesso momento sul cuore del suo amico. Schmucke tentò di consolare Pons descrivendogli la società secondo il suo punto di vista. Parigi era una tempesta continua, gli uomini e le donne venivano trascinati da un movimento di valzer furioso, e non bisognava chiedere nulla alla società, che guarda soltanto all'esteriore e non all'interiorità, disse. Raccontò per la centesima volta che, di anno in anno, le tre uniche allieve che avesse prediletto, e dalle quali era amato, per le quali avrebbe dato la vita, dalle quali riceveva una piccola pensione di novecento franchi cui contribuivano in parti eguali, ognuna con circa trecento franchi, avevano così bene dimenticato, di anno in anno, di venirlo a trovare, ed erano talmente travolte dalla vita parigina, che da tre anni non era più riuscito a farsi ricevere quando andava a trovarle. (È anche vero che Schmucke si presentava a casa di quelle gran dame alle dieci del mattino!) Insomma, i trimestri della pensione gli venivano pagati dai notai.

«E tuttavia», continuò, «hanno un cuore d'oro. Sono pur sempre le mie piccole sante Cecilie, tonne incantefoli, la sighnora te Bordentuère, la sighnora te Fantenesse, la sighnora ti Dilet. Quando le vedo ai Champs-Elysées, senza essere feduto da loro... mi voghliono tanto pene, e se folessi andare a pranzo ta loro, sareppero pen contente.

Potrei anche antare ta loro in campaghnia; ma preferisco stare con il mio amico Pons, che fedo qvando voghlio e tutti i ghiorni».

Pons prese la mano di Schmucke, la tenne tra le sue, la strinse con un gesto che esprimeva tutta l'anima, ed entrambi rimasero così per qualche minuto, come due amanti che si rivedono dopo una lunga assenza.

«Chena qvi tutti i ghiorni!...», riprese Schmucke che tra sé benediceva la durezza della presidentessa. «Su, noi pricapracheremo insieme, e il tiafolo non metterà mai la sua cota tra ti noi».

Per capire queste parole davvero eroiche: noi pricapracheremo insieme! bisogna confessare che Schmucke era di una crassa ignoranza in materia di bricabracologia. Ci voleva tutta la forza della sua amicizia perché non rompesse nulla in salotto e nello studio lasciati a Pons perché ne facesse il suo museo. Schmucke, totalmente preso dalla musica, compositore, considerava tutte le piccole sciocchezze del suo amico come un pesce che avesse ricevuto un biglietto d'invito guarderebbe un'esposizione di fiori al Luxembourg. Rispettava quelle opere meravigliose per la dedizione con la quale Pons spolverava il suo tesoro. E rispondeva: «Siii, feramente crazioso!», alle parole di ammirazione del suo amico, come una madre risponde alle parole insignificanti e ai gesti di un bambino che ancora non sa parlare. Da quando i due amici vivevano insieme, Schmucke aveva visto Pons cambiare orologio sette volte, sempre sostituendone uno meno bello con uno migliore. Ora Pons possedeva il più bell'orologio di Boulle, in ebano intarsiato di rame e decorato di sculture, della prima maniera di Boulle. Boulle ha avuto due maniere, come Raffaello ne ha avute tre. Nella prima univa il rame all'ebano; nella seconda, contro le proprie convinzioni, usava la tartaruga, compiendo dei prodigi per vincere i concorrenti, che avevano inventato l'intaglio in tartaruga. Malgrado le sapienti dimostrazioni di Pons, Schmucke non vedeva la più piccola differenza tra il magnifico orologio della prima maniera di Boulle e gli altri dieci. Ma, in omaggio alla felicità di Pons, Schmucke aveva più cura di tutte quelle cianfrusaglie di quanta ne avesse il suo amico. Non bisogna dunque stupirsi se la sublime frase di

Schmucke ebbe il potere di placare la disperazione di Pons, perché il noi pricapracheremo del tedesco voleva dire: «Se vieni a cena qui, metterò del denaro nel bric-à-brac».

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«I signori sono serviti», disse la Cibot con una sorprendente disinvoltura.

Si comprenderà facilmente la sorpresa di Pons nel vedere e nell'assaporare quella cena dovuta all'amicizia di Schmucke. Le sensazioni di questo genere, così rare nella vita, non nascono dalla totale devozione per cui due uomini si ripetono costantemente l'un l'altro: «Tu hai in me un altro te stesso» (perché ci si fa l'abitudine); no, nascono dal confronto tra tali testimonianze della felicità della vita interiore e la barbarie della vita sociale. È la società a legare di nuovo, continuamente, due amici o due amanti, quando due grandi anime si sono unite per amore o per amicizia. Così Pons si asciugò due grosse lacrime, mentre Schmucke, per parte sua, era costretto ad asciugarsi gli occhi inumiditi. Non si dissero niente, ma si amarono ancora di più, e si scambiarono dei piccoli cenni con la testa le cui espressioni balsamiche lenirono i dolori di quel sassolino che la presidentessa aveva introdotto nel cuore di Pons. Schmucke si sfregava le mani fino a spellarsele, perché aveva concepito una di quelle idee che stupiscono un tedesco soltanto quando si sono dischiuse all'improvviso nel suo cervello congelato dal rispetto dovuto ai principî supremi.

«Mio puon Bons?», disse Schmucke.

«Indovino, vuoi che ceniamo insieme tutti i giorni...».

«Forrei essere tanto ricco ta poterti offrire ogni ciorno una cena come questa...», rispose malinconico il buon tedesco.

Allora la Cibot, cui Pons regalava di tanto in tanto dei biglietti per i teatri di boulevard, e ciò gli valeva un posto nel suo cuore allo stesso livello del pensionante Schmucke, fece questa proposta:

«Perdinci», disse, «per tre franchi, senza il vino, posso fare ogni giorno, per voi due, n'un pranzo da mangiarvi anche il piatto, e da lasciarlo pulito come se fosse stato lavato».

«Il fatto è», rispose Schmucke, «che io mangio meglio con quello che mi cucina montame Zipod di chi mangia le leccornie del re...».

Forte della sua speranza, il rispettoso tedesco giunse a imitare l'irriverenza dei giornaletti, insinuando sospetti sul prezzo fisso della mensa reale.

«Veramente?», disse Pons. «Domani proverò!».

Udendo questa promessa, Schmucke saltò da un capo all'altro della tavola trascinando la tovaglia, i piatti, le brocche e abbracciò Pons con una stretta simile a quella di un gas che s'impadronisce di un altro gas cui è affine.

«Che felicità!», gridò.

«Il signore cenerà qui tutti i giorni!», disse con orgoglio la Cibot, intenerita.

Senza conoscere l'avvenimento al quale doveva la realizzazione del suo sogno, l'eccellente Cibot scese in portineria e vi entrò come Josépha entra in scena nel Guglielmo Tell. Si liberò dei piatti ed esclamò:

«Cibot, corri a prendere due tazzine al Café Turc, e di' al ragazzo che sono per me!».

Poi si mise a sedere appoggiando le mani sulle possenti ginocchia e, guardando dalla finestra il muro di fronte, disse:

«Stasera andrò a sentire la signora Fontaine!...».

XV • UNA CACCIA AL TESTAMENTO

La Fontaine faceva le carte a tutte le cuoche, alle cameriere, ai domestici, ai portieri ecc., del Marais.

«Da quando questi due signori sono venuti ad abitare qui, abbiamo duemila franchi alla cassa di risparmio. In otto anni, che fortuna! È meglio non guadagnare nulla sulla 28/166

cena del signor Pons e trattenerlo in casa? Me lo diranno le carte della signora Fontaine».

Non vedendo eredi intorno a Pons né a Schmucke, da circa tre anni la Cibot fantasticava di essere menzionata nel testamento dei suoi signori, e aveva raddoppiato il suo zelo per questo pensiero libidinoso, spuntato assai tardi tra i suoi baffi fino a quel momento colmi di probità. Andando ogni giorno a cena fuori, Pons era sfuggito al completo asservimento nel quale la portiera intendeva tenere i suoi signori.

La vita nomade di quel vecchio trovatore-collezionista turbava le vaghe idee di seduzione che volteggiavano nel cervello della Cibot, e che divennero un piano formidabile dopo quella cena memorabile. Dopo un quarto d'ora la Cibot riapparve in sala da pranzo, armata di due eccellenti tazze di caffè accompagnate da due bicchierini di kirschwasser.

«Effifa la sighnora Zibod!», gridò Schmucke, «mi ha intovinato».

Dopo qualche cortese protesta dello scroccone, combattuta da Schmucke con le moine che il piccione sedentario dové fare al piccione viaggiatore, i due amici uscirono insieme. Schmucke non volle lasciare l'amico nella situazione in cui l'aveva messo il comportamento dei padroni e della servitù di casa Camusot. Conosceva bene Pons e sapeva che dei pensieri orribilmente tristi avrebbero potuto colpirlo sul podio di direttore d'orchestra, distruggendo così il buon effetto del suo ritorno al nido.

Schmucke, riconducendo a casa Pons verso mezzanotte, lo teneva sottobraccio; e, come fa un amante con l'amante adorata, segnalava a Pons dove finiva o ricominciava il marciapiede; avrebbe voluto che il lastricato fosse di cotone, che il cielo fosse azzurro, che gli angeli facessero udire a Pons la musica che stavano suonando per lui.

Aveva conquistato l'ultima provincia che ancora non gli apparteneva in quel cuore!

Per circa tre mesi Pons cenò ogni giorno con Schmucke. Ma, innanzitutto, fu costretto a detrarre ottanta franchi dalla somma che destinava ai suoi acquisti, perché gli servirono circa trentacinque franchi per il vino e quarantacinque per la cena. Poi, malgrado le cure e i lazzi di Schmucke, il vecchio artista rimpianse i piatti squisiti, i bicchierini di liquore, il buon caffè, le chiacchiere, le false cortesie, i commensali e le maldicenze delle case dove andava a cena. Non si rompe sul declino della vita con un'abitudine che dura da trentasei anni. Un barile di vino da centotrenta franchi versa un liquido poco generoso nel bicchiere di un intenditore; così, ogni volta che Pons avvicinava il bicchiere alle labbra, si ricordava con mille rimpianti pungenti i vini squisiti dei suoi anfitrioni. Dunque in capo a tre mesi, i dolori atroci che avevano rischiato di spezzare il cuore delicato di Pons si erano attutiti, ed egli pensava soltanto ai piaceri del vivere in società; esattamente come un vecchio donnaiolo rimpiange un'amante lasciata perché colpevole di troppe infedeltà! Anche se tentava di nascondere la profonda malinconia che lo divorava, il vecchio musicista sembrava evidentemente colpito da una di quelle inesplicabili malattie che s'insediano nel morale.

Per spiegare questa nostalgia prodotta da un'abitudine infranta, basterà indicare uno dei mille nonnulla che, simili alle maglie di una cotta d'arme, avvolgono l'anima in una rete di ferro. Uno dei piaceri più vivi della vita passata di Pons, una delle gioie dello scroccone d'un tempo, era la sorpresa, l'impressione gastronomica del piatto straordinario, della leccornia aggiunta trionfalmente nelle case borghesi dalla padrona che vuol dare un'aria di festa al suo pranzo! Quella delizia dello stomaco mancava a Pons; la Cibot, per orgoglio, gli preannunciava il menu. Il piccante quotidiano della vita di Pons era totalmente scomparso. Il suo pasto si svolgeva senza l'imprevisto di quello che una volta, nelle case dei nostri vecchi, si chiamava il piatto coperto! Ecco una cosa che Schmucke non poteva capire. Pons era troppo delicato per lamentarsene, e se c'è qualcosa di ancora più triste del genio misconosciuto questo è lo stomaco incompreso. Il cuore in cui l'amore è respinto, dramma di cui si abusa, si basa su un falso bisogno; infatti, se la creatura ci abbandona, si può amare il 29/166

Creatore, che ha dei tesori da dispensarci. Ma lo stomaco!... Niente può essere confrontato con le sue sofferenze; perché, la vita innanzitutto! Pons rimpiangeva certe creme, delle vere poesie! certe salse bianche, dei capolavori! certi polli tartufati, un amore! e sopra tutto il resto, le famose carpe del Reno che si trovano solo a Parigi, e con quali condimenti! In certi giorni Pons esclamava: «O Sophie!», pensando alla cuoca del conte Popinot. Un passante, udendo questo sospiro, avrebbe creduto che il buonuomo stesse pensando a un'amante, mentre si trattava di qualcosa di più raro: una grossa carpa, accompagnata da una salsa, trasparente nella salsiera e densa sulla lingua, una salsa che avrebbe meritato il premio Montyon! Il ricordo di quelle cene vissute fece dunque dimagrire considerevolmente il direttore d'orchestra, colpito da una nostalgia gastrica.

XVI • UN TIPO TEDESCO

All'inizio del quarto mese, verso la fine del gennaio 1845, il giovane flautista, che si chiamava Wilhelm come quasi tutti i tedeschi, e Schwab per distinguersi da tutti i Wilhelm, senza distinguersi per questo da tutti gli Schwab, ritenne necessario far notare a Schmucke le condizioni del direttore d'orchestra, di cui a teatro ci si preoccupava. Era il giorno di una prima, che coinvolgeva tutti gli strumenti suonati dal vecchio maestro tedesco.

«Il buonuomo declina, sembra malato, l'occhio è triste, il movimento del braccio è sempre più debole», disse Wilhelm indicando Pons che saliva sul podio con aria da funerale.

«A sessant'anni è sempre così», rispose Schmucke.

Schmucke, simile a quella madre delle Cronache di Canongate che, per godersi il figlio altre ventiquattro ore, lo fa fucilare, era capace di sacrificare Pons al piacere di vederlo cenare tutti i giorni con lui.

«In teatro tutti sono preoccupati e, come dice la signorina Héloïse Brisetout, nostra prima ballerina, quasi non fa più rumore quando si soffia il naso».

Quando si soffiava il naso, sembrava che il vecchio musicista suonasse il corno, tanto il suo naso lungo e voluminoso risuonava nel fazzoletto. Questo frastuono era la causa di uno dei più costanti rimproveri della presidentessa al cugino Pons.

«Non so cosa darei per distrarlo», disse Schmucke, «lo consuma la noia».

«Credetemi», disse Wilhelm Schwab, «il signor Pons mi sembra un essere talmente superiore a noi poveri diavoli, che non osavo invitarlo alle mie nozze. Mi sposo...».

«E come?», chiese Schmucke.

«Oh, molto onestamente», rispose Wilhelm che nella bizzarra domanda di Schmucke trovò del sarcasmo di cui quel perfetto cristiano era incapace.

«Andiamo, signori, ai vostri posti!», disse Pons, che dopo aver udito il campanello del direttore scrutò il suo piccolo esercito nell'orchestra.

Fu eseguita l'ouverture della Fiancée du Diable, opera pastorale che ebbe duecento repliche. Al primo intervallo, Wilhelm e Schmucke si ritrovarono soli nell'orchestra deserta. La temperatura della sala aveva raggiunto i trentadue gradi Réaumur.

«Raccontatemi dunque la vostra storia», disse Schmucke a Wilhelm.

«Ecco, vedete quel giovane, nel proscenio?... lo riconoscete?».

«Niente affatto...».

«Ah! perché porta dei guanti gialli e risplende del bagliore dell'opulenza; ma è il mio amico Fritz Brunner, di Francoforte sul Meno...».

«Quello che assisteva alle rappresentazioni dall'orchestra, accanto a voi?».

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«Proprio lui. Non è incredibile una simile metamorfosi?».

Quell'eroe della storia promessa era uno di quei tedeschi il cui aspetto richiama nello stesso tempo il tetro sarcasmo del Mefistofele di Goethe e la bonomia dei romanzi di August Lafontaine, di pacifica memoria; l'astuzia e l'ingenuità, la durezza dei bancari e la calcolata noncuranza di un membro del Jockey Club; ma soprattutto il disgusto che mette la pistola in mano a Werther, assai più annoiato dei principi tedeschi che di Carlotta. Era veramente una figura tipica della Germania: molto ebraismo e molta semplicità, stupidità e coraggio, una cultura che genera noia, un'esperienza vanificata dal minimo infantilismo; l'abuso della birra e del tabacco; e infine, a rendere evidenti tutte queste antitesi, una scintilla diabolica in due begli occhi azzurri, affaticati.

Elegante come un banchiere, Fritz Brunner offriva agli sguardi di tutta la sala una testa calva di un colore tizianesco, intorno alla quale si arricciavano i pochi capelli di un biondo ardente, che la dissolutezza e la miseria gli avevano lasciato in modo da poter pagare un barbiere il giorno della sua restaurazione finanziaria. Il suo volto, un tempo bello e fresco, come quello del Gesù Cristo dei pittori, aveva assunto dei toni aspri che i baffi rossi e una barba fulva rendevano quasi sinistri. L'azzurro puro degli occhi si era intorbidato nella lotta con i dispiaceri. Infine le mille prostituzioni di Parigi avevano offuscato le palpebre e il contorno di quegli occhi dove un tempo una madre poteva vedere con ebbrezza una copia divina dei suoi. Questo filosofo precoce, questo giovane vecchio era l'opera di una matrigna.

Qui inizia la storia curiosa di un figliol prodigo di Francoforte sul Meno, il fatto più straordinario e bizzarro che sia mai accaduto in quella città, saggia anche se al centro di grandi traffici.

XVII • DOVE SI VEDE CHE I FIGLIOLI PRODIGHI FINISCONO PER DIVENTARE

BANCHIERI E MILIONARI QUANDO SONO DI FRANCOFORTE SUL MENO

Il signor Gédéon Brunner, padre di Fritz, uno di quei celebri albergatori di Francoforte sul Meno che praticano, con la complicità dei banchieri, incisioni autorizzate dalle leggi sulla borsa dei turisti, d'altra parte onesto calvinista, aveva sposato un'ebrea convertita alla cui dote doveva la sua ricchezza. L'ebrea morì, lasciando il figlio Fritz, di dodici anni, sotto la tutela del padre e la sorveglianza di uno zio materno, commerciante di pellicce a Lipsia, direttore della casa Virlaz e C. Brunner padre fu costretto dallo zio, che non era tenero come le sue pellicce, a investire il patrimonio del piccolo Fritz in titoli vincolati presso la casa Al-Sartchild. Per vendicarsi di quest'esigenza israelita, Brunner padre si risposò, sostenendo di non poter gestire il suo immenso albergo senza l'occhio e il braccio di una donna. Sposò la figlia di un altro albergatore, che gli sembrava una perla; ma non aveva provato cosa significasse una figlia unica, adulata da un padre e da una madre. La seconda signora Brunner fu quello che sono le giovani tedesche quando sono cattive e leggere; sperperò la propria fortuna, e vendicò la prima signora Brunner rendendo suo marito l'uomo più infelice che fosse conosciuto nel territorio della libera città di Francoforte sul Meno dove, si dice, i milionari vogliono far promulgare una legge municipale che obblighi le donne a preferire esclusivamente loro. Quella tedesca amava i diversi tipi di aceto che i tedeschi chiamano «vino del Reno»; amava gli articoli di lusso parigini; amava montare a cavallo; amava i bei vestiti; insomma, l'unica cosa costosa che non amasse erano le donne. Prese in antipatia il povero Fritz, e l'avrebbe fatto impazzire se quel giovane prodotto del calvinismo e del mosaismo non avesse avuto come culla Francoforte, e la casa Virlaz di Lipsia come tutela; ma lo zio Virlaz, tutto preso dalle sue pellicce, era attento soltanto ai marchi vincolati e lasciò il bambino nelle mani della matrigna.

Questa iena era tanto più furiosa contro quel cherubino, figlio della bella signora Brunner, perché, malgrado gli sforzi degni di una locomotiva, non riusciva ad avere 31/166

figli. Spinta da un pensiero diabolico, la criminale tedesca lanciò il giovane Fritz, all'età di ventun anni, in dissolutezze antigermaniche. Sperò che il cavallo inglese, l'aceto del Reno e le Margherite di Goethe divorassero il figlio dell'ebrea e il suo patrimonio; perché lo zio Virlaz aveva lasciato una bella eredità al suo piccolo Fritz quando aveva raggiunto la maggiore età. Ma, se le roulettes delle stazioni termali e i compagni di bagordi, tra i quali Wilhelm Schwab, esaurirono il capitale Virlaz, il giovane figliol prodigo restò, per volere del Signore, un esempio per i cadetti della città di Francoforte sul Meno, dove ogni famiglia lo usa come spauracchio per conservare i loro figli onesti e timorosi nelle loro banche blindate, piene di titoli vincolati. Invece di morire nel fiore degli anni, Fritz Brunner ebbe il piacere di veder sotterrare la matrigna in uno di quegli incantevoli cimiteri dove i tedeschi, col pretesto di onorare i loro morti, si dedicano alla sfrenata passione dell'orticoltura. La seconda signora Brunner morì dunque prima dei suoi autori; il vecchio Brunner perse il denaro che lei aveva prelevato dai suoi scrigni e ne provò tali pene che quest'albergatore di erculea costituzione si ritrovò, a sessantasette anni, indebolito come se fosse stato avvelenato dalla famosa pozione dei Borgia. Il fatto di non ereditare dalla moglie, dopo averla sopportata per dieci anni, fece dell'albergatore una seconda rovina di Heidelberg, ma restaurata continuamente dai Rechnungs dei viaggiatori come si restaura quella di Heidelberg per tenere vivo l'interesse dei turisti che affluiscono per vedere quella bella rovina, conservata così bene. A Francoforte ne parlavano come di un fallimento, e dicevano indicando Brunner:

«Ecco dove possono condurre una donna malvagia da cui non si eredita nulla, e un figlio educato alla francese!». In Italia e in Germania, i francesi sono la causa di ogni sciagura, il bersaglio di ogni colpo; mais le dieu, poursuivant sa carrière... (Il seguito come nell'ode di Lefranc de Pompignan.)

La collera del proprietario del grande Hôtel de Hollande non ricadde soltanto sui viaggiatori, i cui conti (Rechnungs) documentarono le sue afflizioni. Quando il figlio fu totalmente rovinato, Gédéon, considerandolo la causa indiretta delle sue disgrazie, gli negò il pane e l'acqua, il sale, il fuoco, l'alloggio e la pipa!, il che rappresenta per un padre albergatore e tedesco l'ultimo grado della maledizione paterna. Le autorità del luogo, non rendendosi conto delle colpe originarie del padre, e vedendo in lui uno degli uomini più sventurati di Francoforte sul Meno, gli vennero in aiuto; espulsero Fritz dal territorio di quella libera città, senza alcun motivo. La giustizia non è più umana né più saggia a Francoforte che altrove, benché questa città sia la sede della Dieta germanica. Raramente un magistrato risale il fiume dei crimini e delle sventure per sapere chi teneva in mano l'urna da cui si versò il primo filo d'acqua. Brunner dimenticò suo figlio, e gli amici albergatori lo imitarono.

Ah! se questa storia avesse potuto essere rappresentata davanti alla buca del suggeritore per quella sala in cui i giornalisti, i bellimbusti e alcune parigine si stavano chiedendo da dove fosse uscito il volto profondamente tragico di quel tedesco apparso tra la Parigi elegante nel bel mezzo di una prima, solo, in un palco di proscenio, una simile storia sarebbe stata molto più bella dell'opera fantastica La fiancée du diable, anche se si fosse trattato della duecentomillesima replica della sublime parabola rappresentata in Mesopotamia tremila anni prima di Cristo.

Fritz andò a piedi a Strasburgo, e vi trovò quello che il figliol prodigo della Bibbia non aveva trovato nella patria delle Sacre Scritture. In ciò si rivela la superiorità dell'Alsazia, dove battono tanti cuori generosi, per mostrare alla Germania la bellezza dell'incontro tra lo spirito francese e la solidità tedesca. Wilhelm, da qualche giorno erede del patrimonio del padre e della madre, possedeva centomila franchi; aprì le braccia a Fritz, gli aprì il cuore, la casa e la borsa. Descrivere il momento in cui Fritz, impolverato, malridotto e quasi lebbroso, trovò sull'altra riva del Reno una vera moneta da venti franchi nella mano di un vero amico, sarebbe come voler iniziare un'ode, e solo Pindaro potrebbe lanciarla in greco sull'umanità per riaccendere 32/166

l'amicizia morente. Affiancate i nomi di Fritz e Wilhelm a quelli di Damone e Pizia, di Castore e Polluce, di Oreste e Pilade, di Dubreuil e Pmeyah, di Schmucke e Pons, e a tutti i nomi di fantasia che diamo ai due amici del Monomotapa, poiché La Fontaine, da uomo di genio che era, ne ha fatto delle sembianze prive di corpo, senza realtà; aggiungete questi due nomi nuovi a quelli illustri già ricordati, ancor più a ragione in quanto Wilhelm mangiò, in compagnia di Fritz, la propria eredità, come Fritz aveva bevuto la sua con Wilhelm, ma fumando, sia chiaro, ogni specie conosciuta di tabacco.

I due amici divorarono quell'eredità, cosa strana!, nelle birrerie di Strasburgo, nel modo più stupido e comune, insieme con delle comparse del teatro di Strasburgo e delle alsaziane le quali delle loro piccole scope non avevano che il manico. E ogni mattina si dicevano l'un altro:

«Dobbiamo fermarci, prendere una decisione, fare qualcosa con quello che ci resta!».

«Bah!, ancora oggi...», diceva Fritz, «ma domani... oh! domani...».

Nella vita degli scialacquatori Oggi è un gran vanesio, ma Domani è un gran vigliacco, spaventato dal coraggio del suo predecessore; Oggi è il Capitano dell'antica commedia, e Domani è il Pierrot delle nostre pantomime. Giunti al loro ultimo biglietto da mille franchi, i due amici acquistarono due posti alle Messaggerie dette reali, che li condussero a Parigi dove alloggiarono nelle soffitte dell'Hôtel du Rhin, rue du Mail, da Graff, già primo cameriere di Gédéon Brunner. Fritz entrò come commesso a seicento franchi presso i fratelli Keller, banchieri, cui era stato raccomandato da Graff. Graff, padrone dell'Hôtel du Rhin, è il fratello del famoso sarto Graff. Il sarto assunse Wilhelm come contabile. Graff trovò questi due umili impieghi ai due figlioli prodighi, in ricordo del suo apprendistato presso l'Hôtel de Hollande. Questi due fatti: un amico in rovina riconosciuto da un amico ricco, e un albergatore tedesco che s'interessa di due compatrioti senza un soldo, faranno credere a chiunque che questa storia sia un romanzo; ma tutte le cose vere tanto più somigliano a delle favole quanto più la favola, nel nostro tempo, fa degli sforzi inauditi per somigliare alla verità.

Fritz, commesso a seicento franchi, Wilhelm, contabile con lo stesso stipendio, si resero ben conto della difficoltà di vivere in una città cortigiana come Parigi. Così, dal secondo anno del loro soggiorno, nel 1837, Wilhelm, che aveva un buon talento di flautista, entrò nell'orchestra diretta da Pons, per poter mettere qualche volta un po'

di burro sul pane. Quanto a Fritz, riuscì a trovare un po' di soldi solo impiegando l'abilità finanziaria di un figlio di Virlaz. Malgrado la sua assiduità, forse a causa del suo talento, il francofortese giunse a guadagnare duemila franchi solo nel 1843. La miseria, divina matrigna, fece per questi due giovani quello che le loro madri non erano riuscite a fare: insegnò loro l'economia, il mondo e la vita; impartì loro quella grande, quella forte educazione ch'essa dispensa a colpi di frusta ai grandi uomini, tutti infelici nella loro infanzia. Fritz e Wilhelm, che erano uomini piuttosto comuni, non ascoltarono tutte le lezioni della miseria, si difesero dai suoi attacchi, trovarono che aveva il seno duro, le braccia scarne, e non ne trassero affatto quella buona fata Urgèle che cede alle carezze delle persone di genio. Tuttavia impararono a riconoscere il valore della fortuna, e si ripromisero di tagliarle le ali se mai fosse tornata alla loro porta.

XVIII • COME SI FA FORTUNA

«Ebbene, papà Schmucke», riprese Wilhelm, che raccontò in tedesco per esteso questa storia al pianista, «poche parole vi spiegheranno tutto. Il padre di Brunner è morto. Senza che il figlio né il signor Graff, presso il quale alloggiavamo, ne sapesse 33/166

niente, egli è stato uno dei fondatori delle ferrovie del Baden, con le quali ha realizzato immensi guadagni, e ha lasciato quattro milioni! Stasera suono il flauto per l'ultima volta. Se non si fosse trattato di una prima, me ne sarei già andato da qualche giorno; non ho voluto far mancare la mia parte».

«Molto bene, giovanotto», disse Schmucke, «ma chi sposate?».

«La figlia del signor Graff, nostro ospite e proprietario dell'Hôtel du Rhin. Amo la signorina Émilie da sette anni; ha letto tanti romanzi immorali che ha rifiutato ogni partito per me, senza sapere cosa le sarebbe accaduto. La ragazza sarà molto ricca, è l'unica erede dei Graff, i sarti della rue de Richelieu. Fritz mi dona cinque volte quello che abbiamo consumato insieme a Strasburgo, cinquecentomila franchi!... Mette un milione di franchi in una banca dove il signor Graff, il sarto, ne mette cinquecentomila a sua volta; il padre della mia promessa sposa mi permette di depositarvi la dote, che è di duecentocinquantamila franchi, e ci finanzia per altrettanto. La casa Brunner, Schwab e C. avrà dunque un capitale di due milioni e cinquecentomila franchi. A garanzia del nostro conto, Fritz ha appena acquistato un milione e cinquecentomila franchi in azioni della Banca di Francia. Non è l'intero patrimonio di Fritz; gli restano ancora le case del padre a Francoforte, che sono valutate un milione, e ha già affittato il grande Hôtel de Hollande a un cugino di Graff».

«State guardando il vostro amico con tristezza», disse Schmucke che aveva ascoltato Wilhelm attentamente, «siete forse geloso di lui?».

«Sono geloso, ma della felicità di Fritz», rispose Wilhelm. «Vi sembra il volto di un uomo soddisfatto? Ho paura di Parigi per lui; vorrei che prendesse la mia stessa decisione. L'antico dèmone può risvegliarsi in lui. Delle due nostre teste, non è la sua quella in cui è entrata più saggezza. Quell'abbigliamento, quell'occhialino, tutto ciò mi preoccupa. Non ha fatto che guardare le donnine in sala. Ah! se sapeste com'è difficile trovare una moglie per Fritz! Ha orrore di quello che in Francia si dice fare la corte; e invece bisognerebbe lanciarlo nella famiglia, come in Inghilterra si lancia un uomo nell'eternità.

Durante il tumulto che segna la fine di tutte le prime, il flauto invitò il direttore d'orchestra. Pons accettò con gioia. Allora Schmucke vide, per la prima volta da tre mesi, un sorriso sul volto del suo amico; lo ricondusse in rue de Normandie, in profondo silenzio perché da quel lampo di gioia aveva capito la profondità della malattia che rodeva Pons. Che un uomo veramente nobile come lui, disinteressato, di sentimenti elevati, avesse tali debolezze!... ecco cosa stupiva lo stoico Schmucke, che divenne orribilmente triste perché sentì la necessità di rinunciare a vedere ogni giorno il suo puon Bons a tavola davanti a lui!, nell'interesse della felicità di Pons; e non sapeva se quel sacrificio gli sarebbe stato possibile: la sola idea lo faceva impazzire!

XIX • A PROPOSITO DI UN VENTAGLIO

Il fiero silenzio mantenuto da Pons, rifugiato sull'Aventino della rue Normandie, aveva inevitabilmente colpito la presidentessa che, liberatasi del suo parassita, se ne dispiaceva poco; pensava, come la sua affascinante figliola, che il cugino avesse capito il senso dello scherzo della piccola Lili; ma non fu così per il presidente. Il presidente Camusot de Marville, piccolo e tondo, di solenne portamento dopo l'avanzamento di grado, ammirava Cicerone, preferiva l'Opéra-Comique al Théâtre des Italiens, faceva confronti tra gli attori, era attento alle mode; ripeteva, come fossero idee sue, tutti gli articoli del giornale ministeriale, e in camera di consiglio parafrasava le idee del consigliere che lo aveva preceduto. Questo magistrato, sufficientemente 34/166

conosciuto nei tratti essenziali del carattere, costretto dalla posizione a prendere tutto sul serio, teneva soprattutto ai legami familiari. Come la maggior parte dei mariti totalmente dominati dalle mogli, il presidente esibiva nelle piccole cose un'indipendenza che la moglie rispettava. Se, per un mese, il presidente si accontentò delle banali ragioni con cui la presidentessa giustificava la scomparsa di Pons, finì per trovare strano che il vecchio musicista, amico da quarant'anni, non venisse più, soprattutto dopo aver fatto un dono così importante come il ventaglio della Pompadour. Quel ventaglio, considerato un capolavoro dal conte Popinot, procurò alla presidentessa e alle Tuileries, dove quel gioiello passò di mano in mano, complimenti che lusingarono eccessivamente il suo amor proprio; le furono indicate in dettaglio le bellezze delle dieci stecche d'avorio, ognuna delle quali presentava intagli di rara finezza. Una dama russa (le russe credono sempre di essere in Russia) offrì, in casa del conte Popinot, seimila franchi alla presidentessa per quel ventaglio straordinario, sorridendo nel vederlo in tali mani in quanto si trattava, bisogna dirlo, di un ventaglio da duchessa.

«Non si può negare a quel povero cugino», disse Cécile al padre il giorno dopo quel regalo, «di essere un intenditore di queste piccole sciocchezze!».

«Piccole sciocchezze!», esclamò il presidente. «Lo Stato pagherà trecentomila franchi per la collezione del defunto consigliere Dusommerard, e spenderà, a metà con il Comune di Parigi, quasi un milione per l'acquisto e il restauro del palazzo di Cluny, per sistemarvi quelle piccole sciocchezze... Quelle piccole sciocchezze, mia cara bambina, spesso sono le uniche testimonianze di civiltà scomparse. Un vaso etrusco, una collana, che talvolta valgono l'uno quaranta, l'altra cinquanta franchi, sono piccole sciocchezze che ci rivelano la perfezione delle arti al tempo dell'assedio di Troia, e ci dimostrano che gli etruschi erano dei troiani rifugiati in Italia!».

Era questo il genere di battute del corpulento presidente; alla moglie e alla figlia destinava pesanti ironie.

«L'insieme delle conoscenze che queste piccole sciocchezze esigono, Cécile», continuò, «è una scienza che si chiama archeologia. L'archeologia comprende l'architettura, la scultura, la pittura, l'oreficeria, la ceramica, l'ebanisteria, arte assolutamente moderna; poi i merletti, gli arazzi, insomma ogni creazione del lavoro umano».

«Ma allora il cugino Pons è un dotto?», chiese Cécile.

«A proposito, come mai non lo si vede più?», domandò il presidente con l'aria di un uomo che prova un'emozione prodotta da mille osservazioni dimenticate, che all'improvviso si riuniscono e fanno palla, per impiegare un'espressione dei cacciatori.

«Gli sarà saltata la mosca al naso per qualche inezia», rispose la presidentessa.

«Forse sono stata meno sensibile del dovuto al dono del ventaglio. Sapete che sono piuttosto ignorante...».

«Voi! una delle migliori allieve di Servin», esclamò il presidente, «non conoscete Watteau?».

«Conosco David, Gérard, Gros, e Girodet, e Guérin, e Forbin, e Turpin de Crissé...».

«Ma avreste dovuto...».

«Cosa avrei dovuto, signore?», chiese la presidentessa guardando il marito con un'aria da regina di Saba.

«Sapere chi è Watteau, mia cara, è molto di moda», rispose il presidente con un tono di umiltà che rivelava tutti i suoi obblighi nei confronti della moglie.

Questa conversazione aveva preceduto di qualche giorno la prima della Fiancée du diable, quando l'intera orchestra fu colpita dal cattivo stato di salute di Pons. Allora le persone abituate a vedere Pons alla loro tavola, a servirsene come messaggero, se ne erano chieste la ragione, e nell'ambiente nel quale il brav'uomo gravitava s'era sparsa un'inquietudine tanto maggiore proprio per il fatto che in molti lo videro al suo posto in teatro. Malgrado l'attenzione con cui Pons evitava nelle sue passeggiate le antiche 35/166

conoscenze, s'imbatté nell'ex ministro conte Popinot da Monistrol, uno dei più noti e scaltri negozianti del nuovo boulevard Beaumarchais, di cui Pons aveva parlato alla presidentessa, e il cui astuto entusiasmo fa rincarare di giorno in giorno le curiosità che, come dicono i commercianti, sono ormai divenute così rare da non trovarne più.

«Mio caro Pons, perché non vi si vede più? Ci mancate molto, e la signora Popinot non sa cosa pensare di quest'abbandono».

«Signor conte», rispose il buonuomo, «mi hanno fatto capire, in una casa, presso un parente, che alla mia età si è di troppo nel mondo. Non sono mai stato ricevuto con molti riguardi, ma almeno non ero stato ancora insultato. Non ho mai chiesto nulla a nessuno», disse con la fierezza dell'artista. «In cambio di un po' di gentilezza, mi rendevo spesso utile a chi mi accoglieva; ma pare che io mi sia sbagliato, e che dovrei subire imposizioni e servitù, alla mercé degli altri, per l'onore di andare a cena dai miei amici, dai miei parenti... Ebbene, ho dato le mie dimissioni da scroccone. A casa mia trovo ogni giorno quello che nessuna tavola mi ha offerto: un vero amico!».

Queste parole, ispirate dall'amarezza che il vecchio artista riusciva ancora a mettervi con i gesti e i toni, colpirono talmente il pari di Francia, che lo prese da parte.

«Ma cosa vi è successo, mio vecchio amico? Non potete confidarmi cosa vi ha offeso?

Mi permetterete di farvi notare che in casa mia siete sempre stato trattato con riguardo...».

«Siete l'unica eccezione che posso fare», disse il buonuomo. «Del resto, siete un gran signore, un uomo di Stato, e le vostre preoccupazioni, in ogni caso, giustificherebbero tutto».

Pons, circuito dall'abilità diplomatica acquisita da Popinot nel manipolare gli uomini e gli affari, finì per raccontare le sue sventure in casa del presidente de Marville. Popinot sposò con tanto calore le ragioni della vittima che ne parlò subito alla signora Popinot, eccellente e degna donna, che fece le sue rimostranze alla presidentessa appena la incontrò. E poiché l'ex ministro, da parte sua, aveva detto qualche parola in proposito al presidente, ci fu una spiegazione in famiglia, dai Camusot de Marville. Benché Camusot non fosse del tutto padrone in casa sua, la sua rimostranza era troppo fondata di diritto e di fatto perché la moglie e la figlia non ne riconoscessero la verità; si scusarono entrambe, e dettero la colpa ai domestici. Questi, chiamati e redarguiti, ottennero il perdono solo dopo una completa confessione, la quale provò al presidente che il cugino Pons aveva ragione a starsene a casa sua. Come tutti i padroni di casa dominati dalle loro mogli, il presidente usò tutta la sua autorità maritale e giudiziaria, dichiarando ai domestici che sarebbero stati licenziati, e avrebbero così perso tutti i vantaggi che derivavano dal lungo servizio in casa sua, se in futuro il cugino Pons e chiunque gli facesse l'onore di venire in casa non fossero stati trattati come lui stesso.

Queste parole fecero sorridere Madeleine.

«Avete una sola possibilità di salvezza», aggiunse il presidente, «disarmare mio cugino con delle scuse. Andate a dirgli che la vostra permanenza in questa casa dipende interamente da lui, perché io vi licenzio tutti se non vi perdona».

XX • RITORNO DEI BEI GIORNI

Il giorno dopo, il presidente uscì di buon'ora per poter fare una visita al cugino prima dell'udienza. L'apparizione del signor presidente de Marville, annunciato dalla Cibot, fu un avvenimento. Pons, che riceveva quest'onore per la prima volta in vita sua, capì che era una riparazione.

«Caro cugino», disse il presidente dopo i convenevoli di rito, «finalmente ho saputo la 36/166

causa della vostra scomparsa. La vostra condotta aumenta, se è possibile, la stima che ho per voi. A questo proposito vi dirò una sola cosa: i miei domestici sono tutti licenziati. Mia moglie e mia figlia sono disperate; vogliono vedervi, per chiarire tutto.

In tutta questa storia, cugino, c'è un innocente, ed è un vecchio giudice; non punitemi dunque per la scappatella di una ragazzina stordita che voleva andare a cena dai Popinot, soprattutto quando vengo a chiedervi la pace riconoscendo che tutti i torti sono dalla nostra parte... Un'amicizia di trentasei anni, anche ammesso che sia deteriorata, ha certo ancora qualche diritto. Su, firmate la pace venendo questa sera a cena da noi...».

Pons s'ingarbugliò in una risposta prolissa, e concluse facendo notare al cugino che quella sera doveva assistere al fidanzamento di un musicista della sua orchestra, che gettava il flauto alle ortiche per diventare banchiere.

«Allora domani».

«Cugino mio, la signora contessa Popinot mi ha fatto l'onore di invitarmi con una lettera di una tale amabilità...».

«E allora dopodomani...», continuò il presidente.

«Dopodomani, il socio del mio primo flauto, un tedesco, il signor Brunner, restituirà ai fidanzati la cortesia che oggi riceve da loro...».

«Siete davvero gradito, se ci si contende in questo modo il piacere di avervi», disse il presidente. «Ebbene, domenica prossima! oggi a otto... come si dice a palazzo di Giustizia».

«Ma saremo a cena da un certo signor Graff, il suocero del flauto...».

«E allora sabato! Da qui ad allora avrete avuto il tempo di rassicurare una ragazza che ha già versato delle lacrime sulla sua colpa. Dio non chiede altro che il pentimento; sarete più esigente del Padre eterno con quella povera piccola Cécile?...».

Pons, preso sul lato debole, ripiegò su formule più che cortesi, e riaccompagnò il presidente fino sul pianerottolo. Un'ora dopo, arrivarono a casa di quel buonuomo di Pons i domestici del presidente; si dimostrarono quello che sono i domestici, vili e ipocriti: piansero! Madeleine prese in disparte Pons e con decisione gli si gettò ai piedi.

«È tutta colpa mia, signore... e il signore sa bene quanto io l'ami...», disse sciogliendosi in lacrime. «In tutta questa disgraziata vicenda, è con la vendetta che mi ribolliva nel sangue che il signore deve prendersela. Perderemo i nostri vitalizi!...

Signore, ero pazza, e non vorrei che i miei compagni subissero le conseguenze della mia pazzia... Mi rendo conto, adesso, che non ero destinata ad essere del signore. Me ne sono fatta una ragione, sono stata troppo ambiziosa, ma vi amo ancora, signore.

Per dieci anni non ho sognato altro che la gioia di rendervi felice e di aver cura della vostra casa. Che bel destino!... Oh, se il signore sapesse quanto l'amo! Ma il signore deve essersene accorto per tutte le mie cattiverie. Se morissi domani, cosa si troverebbe?... un testamento in vostro favore, signore... sì, signore, nel mio baule, sotto i miei gioielli!».

Toccando questa corda, Madeleine consegnò il vecchio scapolo ai sublimi piaceri dell'amor proprio che una passione suscitata da noi stessi, anche se sgradevole, farà sempre nascere. Dopo aver perdonato nobilmente Madeleine, Pons accolse la resa di tutti gli altri, dicendo loro che avrebbe parlato alla cugina presidentessa per ottenere che tutti rimanessero al suo servizio. Con ineffabile piacere, Pons si vide ristabilito in tutti i suoi godimenti abituali, senza aver commesso alcun atto di viltà. Erano stati gli altri a venire da lui, quindi la dignità del suo carattere ci guadagnava; ma, descrivendo il suo trionfo all'amico Schmucke, ebbe il dolore di vederlo triste e turbato da dubbi inespressi. Tuttavia, alla vista del rapido cambiamento prodotto nella fisionomia di Pons, il buon tedesco finì per rallegrarsi, sacrificando la felicità che aveva gustato nell'aver avuto tutto per sé, per circa quattro mesi, il suo amico. Le malattie morali hanno su quelle fisiche un vantaggio immenso: guariscono immediatamente appena viene soddisfatto il desiderio che le genera, così 37/166

come nascono dalla privazione: quella mattina Pons fu un altro uomo. Il vecchio triste, moribondo, fece posto al Pons soddisfatto che aveva appena portato alla presidentessa il ventaglio della marchesa Pompadour. Ma Schmucke precipitò in profondi pensieri su quel fenomeno che non riusciva a comprendere perché il vero stoicismo non potrà mai spiegarsi la cortigianeria francese. Pons era un vero francese dell'Impero, nel quale la galanteria dell'ultimo secolo si univa alla devozione per la donna, tanto celebrata nelle romanze come Partant pour la Syrie ecc. Schmucke seppellì il dolore nel cuore, sotto i fiori della sua filosofia tedesca; ma in otto giorni diventò giallo, e la Cibot dovette usare dei sotterfugi per farlo visitare dal medico di quartiere. Il medico sospettò un ittero, e lasciò la Cibot folgorata da questo termine dotto che significa itterizia.

Forse per la prima volta, i due amici andarono insieme a pranzo fuori; ma per Schmucke era come fare una gita in Germania. Infatti Johann Graff, il padrone dell'Hôtel du Rhin, e sua figlia Émilie; Wolfgang Graff, il sarto, e sua moglie; Fritz Brunner e Wilhelm Schwab, erano tutti tedeschi. Pons e il notaio erano gli unici francesi invitati al banchetto. I sarti, che possedevano un magnifico palazzo in rue de Richelieu, tra la rue Neuve-des-PetitsChamps e la rue Villedot, avevano allevato in casa la nipote, per la quale il padre temeva, a ragione, il contatto con la gente di ogni tipo che frequenta un albergo. Questi degni sarti, che amavano la nipote come se fosse una loro figlia, avevano messo a disposizione degli sposi il pianterreno. Lì doveva insediarsi la Banca Brunner, Schwab e C.

Poiché il pianterreno era stato sistemato da appena un mese, tempo per realizzare l'acquisizione dell'eredità di Brunner, autore di tutta questa felicità, l'appartamento era stato lussuosamente rinnovato e ammobiliato dal famoso sarto. Gli uffici della banca erano stati allestiti nell'ala che collegava una magnifica casa d'affitto costruita sulla via all'antico palazzo situato tra il cortile e il giardino.

XXI • QUANTO COSTA UNA MOGLIE

Mentre andavano dalla rue de Normandie alla rue de Richelieu, Pons si fece raccontare dal distratto Schmucke i dettagli di questa nuova storia del figliol prodigo, per favorire il quale la Morte aveva ucciso l'albergatore grasso. Pons, appena riconciliato con i suoi parenti più vicini, fu subito preso dal desiderio di far sposare Fritz Brunner con Cécile de Marville. Il caso volle che il notaio dei fratelli Graff fosse proprio il genero e successore di Cardot, ex praticante dello studio, dal quale Pons andava spesso a cena.

«Oh! come va, signor Berthier?», disse il vecchio musicista tendendo la mano al suo ex anfitrione.

«Ma perché non ci fate più il piacere di venire a cena da noi?», chiese il notaio. «Mia moglie era in pensiero. Poi vi abbiamo visto alla prima della Fiancée du Diable e la nostra inquietudine è diventata curiosità».

«I vecchi sono suscettibili», rispose il buonuomo, «hanno il torto di essere in ritardo di un secolo; ma che farci?... è già molto rappresentarne uno, e non possono essere di quello che li vede morire».

«Ah!», disse il notaio con aria arguta, « non si può vivere in due secoli contemporaneamente».

«A proposito», disse il buonuomo prendendo in disparte il giovane notaio, «perché non trovate marito a mia cugina Cécile de Marville?».

«Ah! perché?...», continuò il notaio. «In questo secolo in cui il lusso è entrato perfino nelle portinerie, i giovani esitano a unire la loro sorte a quella della figlia di un 38/166

presidente della corte reale di Parigi quando ha una dote di soli centomila franchi. Non si conosce ancora una donna che non costi al marito più di tremila franchi l'anno, nella classe alla quale apparterrà il marito della signorina de Marville. Gli interessi di una simile dote possono appena pagare le spese di vestiario di una futura sposa. A uno scapolo che abbia dai quindici ai ventimila franchi di rendita, alloggiato in un grazioso mezzanino, nessuno chiede di strafare; può avere un solo domestico, spende ogni sua rendita in divertimenti, non ha altro decoro da mantenere tranne quello di cui s'incarica il suo sarto. Vezzeggiato da ogni madre previdente, è uno dei re della fashion parigina. Al contrario, una donna esige una casa attrezzata, una carrozza; se va a teatro vuole un palco, mentre allo scapolo basta una sedia; insomma, consuma tutta la ricchezza che lo scapolo si godeva per conto proprio. Supponete che due sposi abbiano una rendita di trentamila franchi: nella società attuale, lo scapolo ricco diventa un povero diavolo che deve stare attento al costo di una gita a Chantilly.

Aggiungete dei figli... ed ecco l'indigenza. Poiché il signore e la signora de Marville sono appena sulla cinquantina, le speranze hanno una scadenza di quindici o venti anni; nessuno scapolo se la sente di tenerle così a lungo nel portafoglio; e il calcolo corrompe talmente bene il cuore degli sventati che danzano la polka da Mabille con le donnine allegre, che ogni giovanotto in età di matrimonio studia i due aspetti del problema senza alcun bisogno delle nostre spiegazioni. Detto tra noi, la signorina de Marville lascia ai suoi pretendenti il cuore assai tranquillo perché la testa resti al suo posto, e possono quindi dedicarsi a queste riflessioni antimatrimoniali. Se qualche giovanotto, assennato e provvisto di una rendita di ventimila franchi, traccia in petto un programma matrimoniale per soddisfare dei pensieri ambiziosi, la signorina de Marville è poco adatta...».

«E perché?», chiese stupito il musicista.

«Ah!...», rispose il notaio, «oggi quasi tutti questi giovani, anche quando sono brutti come noi due, mio caro Pons, hanno l'impertinenza di esigere una dote di seicentomila franchi, e delle signorine di ottima famiglia, molto belle, molto intelligenti, ottimamente educate, senza difetti, perfette».

«Dunque per mia cugina sarà difficile sposarsi?».

«Resterà zitella fino a quando il padre e la madre non si decideranno a darle in dote le proprietà Marville; se l'avessero voluto, sarebbe già la viscontessa Popinot... Ma ecco il signor Brunner; dobbiamo leggere l'atto costitutivo della società Brunner e il contratto di matrimonio».

Dopo le presentazioni e i convenevoli di rito, Pons, cui era stato chiesto dai parenti di sottoscrivere il contratto, ascoltò la lettura degli atti, e verso le cinque e mezzo si passò in sala da pranzo. La cena fu sontuosa, come quelle offerte dai negozianti quando fanno una tregua nei loro affari, e attestava le relazioni di Graff, il padrone dell'Hôtel du Rhin, con i primi fornitori di Parigi. Mai Pons e Schmucke avevano ricevuto un trattamento simile. Ci furono portate à ravir la pensée!... tagliatelle di una delicatezza inedita, eperlani fritti in modo incomparabile, un ferra del lago di Ginevra in vera salsa ginevrina, e una crema per plumpudding da stupire il famoso dottore che, dicono, l'ha inventata a Londra. Si alzarono da tavola alle dieci di sera. La quantità di vino del Reno e di vini francesi bevuta durante la cena farebbe stupire dei dandy, perché non si può immaginare quanto liquido riescano a ingerire i tedeschi restando calmi e tranquilli. Bisogna mangiare in Germania e vedere le bottiglie che si susseguono le une alle altre come l'onda segue l'onda su una bella spiaggia del Mediterraneo, scomparendo come se i tedeschi avessero lo stesso potere assorbente della spugna e della sabbia; ma armoniosamente, senza il fracasso francese; il discorso si mantiene assennato come le chiacchiere improvvisate di un usuraio; i volti diventano rossi come quelli delle fidanzate dipinte negli affreschi di Cornelius o di Schnorr, cioè impercettibilmente, e i ricordi si diffondono come il fumo della pipa, lentamente.

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Verso le dieci e mezzo, Pons e Schmucke si trovarono su una panca, nel giardino, ognuno a fianco dell'ex flauto, senza sapere bene chi li avesse spinti a raccontarsi i loro caratteri, le loro opinioni e le loro disavventure. In mezzo a quel pot-pourri di confidenze, Wilhelm parlò del suo desiderio di far sposare Fritz, ma con una forza e un'eloquenza un po' ebbre.

«Che ne direste di questo programma per il vostro amico Fritz...», disse Pons all'orecchio di Wilhelm, «una giovane incantevole, ragionevole, ventiquattro anni, di famiglia assolutamente distinta, il padre in uno dei ruoli più elevati della magistratura, centomila franchi di dote e speranze per un milione?».

«Aspettate!», rispose Schwab, «vado subito a parlarne a Fritz».

E i due musicisti videro Brunner e l'amico passeggiare per il giardino, passare e ripassare sotto i loro occhi, ascoltarsi a vicenda. Pons, che aveva la testa un po'

pesante e, senza essere ubriaco, aveva tanta leggerezza nelle idee quanta pesantezza nel loro involucro, osservò Fritz Brunner attraverso quella nube diafana che provoca il vino, e volle vedere in quella fisionomia delle aspirazioni alla felicità familiare. Schwab presentò subito al signor Pons il suo amico, il suo socio, che ringraziò molto il vecchio per le sue attenzioni. Iniziò una conversazione, durante la quale Schmucke e Pons, questi due celibi, esaltarono il matrimonio e si permisero, senza malizia, questo gioco di parole: «che significava fine dell'uomo». Quando furono serviti i gelati, il tè, il ponce e i dolci nel futuro appartamento dei futuri sposi, l'ilarità esplose tra quegli onorevoli negozianti, quasi tutti ubriachi, non appena vennero a sapere che l'accomandante della banca stava per imitare il suo socio.

Schmucke e Pons, alle due del mattino, rientrarono a casa attraverso i boulevards, filosofando in maniera dissennata sull'arrangiamento musicale delle cose in questo basso mondo.

XXII • DOVE PONS PORTA ALLA PRESIDENTESSA UN OGGETTO D'ARTE UN PO' PIÙ

PREZIOSO DI UN VENTAGLIO

L'indomani, Pons andò dalla cugina presidentessa, in preda alla gioia profonda di rendere il bene per il male. Povera cara anima bella!... Certamente raggiunse il sublime, e tutti ne converranno, visto che viviamo in un secolo in cui si dà il premio Montyon a chi fa il proprio dovere, secondo i precetti del Vangelo.

«Ah! si sentiranno enormemente in debito con il loro scroccone», diceva tra sé, svoltando in rue de Choiseul.

Un uomo meno immerso nella sua contentezza di quanto non lo fosse Pons, un uomo di mondo, un uomo diffidente, rientrando in quella casa avrebbe osservato la presidentessa e sua figlia; ma quel povero musicista era un bambino, un artista pieno di ingenuità, che credeva solo al bene morale come credeva al bello nelle arti; rimase incantato dei complimenti che gli fecero Cécile e la presidentessa. Il buonuomo, che da dodici anni vedeva rappresentati sotto i suoi occhi il vaudeville, il dramma e la commedia, non riconobbe le smorfie della commedia sociale, che non poteva neppure concepire. Chi frequenta la società parigina e ha imparato a riconoscere l'aridità di spirito e di corpo della presidentessa, smaniosa soltanto di onori e irosa per una virtù ostentata, la sua falsa devozione e l'alterigia di una padrona abituata a comandare in casa propria, può immaginare quale odio nascosto quella donna provasse per il cugino del marito, dopo essere stata costretta a riconoscere il proprio torto. Tutte le moine della presidentessa e della figlia furono dunque accompagnate da un formidabile desiderio di vendetta, evidentemente da rinviare al momento opportuno. Per la prima 40/166

volta in vita sua, Amélie aveva avuto torto agli occhi del marito, che dominava; eppure doveva mostrarsi affettuosa con l'autore della sua sconfitta!... Hanno qualche analogia con questa situazione certe ipocrisie che durano anni nel sacro collegio dei cardinali o nei capitoli dei capi di ordini religiosi. Alle tre, quando il presidente rientrò dal palazzo di Giustizia, Pons aveva appena finito di raccontare i casi meravigliosi della sua conoscenza con il signor Fritz Brunner, e la cena del giorno prima, che era finita al mattino, e tutto quanto riguardava il suddetto Fritz Brunner. Cécile era andata subito al sodo, chiedendo come vestiva Fritz Brunner, quanto era alto, che aspetto aveva, il colore degli occhi e dei capelli; dopo essersi fatta l'idea che Fritz aveva un'aria distinta, ammirò la generosità del carattere.

«Donare cinquecentomila franchi al suo compagno di sventura! Oh, mamma, avrò carrozza e palco agli Italiens...».

E Cécile divenne quasi graziosa mentre pensava alla realizzazione di tutte le pretese di sua madre per lei e delle speranze di cui disperava.

Quanto alla presidentessa, disse queste sole parole:

«Cara bambina mia, in quindici giorni puoi essere sposata».

Tutte le madri chiamano «bambine» le figlie di ventitré anni!

«Tuttavia», disse il presidente, «prima bisogna prendere informazioni; non darò mai mia figlia al primo venuto...».

«Quanto alle informazioni, gli atti sono stati stipulati da Berthier», rispose il vecchio artista. «Quanto al giovane, cara cugina, sapete quello che mi avete detto! Ebbene, ha quarant'anni passati ed è mezzo calvo. Nella famiglia vuol trovare un porto contro gli uragani, e io non l'ho certo distolto da quest'idea; ogni gusto è naturale...».

«Ragione di più per vedere il signor Fritz Brunner», replicò il presidente. «Non voglio dare mia figlia a un valetudinario».

«Ebbene, cugina, giudicherete voi la mia proposta, entro cinque giorni se volete; secondo le vostre idee un colloquio dovrebbe bastare».

Cécile e la presidentessa fecero un gesto di viva soddisfazione.

«Fritz, che è un esperto d'arte, mi ha pregato di lasciargli vedere tutta la mia piccola collezione», continuò il cugino Pons. «Voi non avete mai visto i miei quadri, le mie curiosità; venite», disse alle due parenti, «sarete là come due signore portate dall'amico Schmucke, e così conoscerete il futuro sposo, senza compromettervi. Fritz può ignorare perfettamente chi siete».

«Benissimo!», esclamò il presidente.

Si può immaginare quali riguardi furono usati al parassita un tempo tanto disprezzato.

Il pover'uomo fu, quel giorno, il cugino della presidentessa. La felice madre, annegando il suo odio nei flutti della gioia, trovò degli sguardi, dei sorrisi, delle parole che mandarono in estasi il buonuomo a causa del bene che faceva, e dell'avvenire che intravedeva. Non avrebbe forse trovato nelle case Brunner, Schwab e Graff delle cene simili a quella per la firma del contratto? Vedeva una vita di cuccagna e una sequela meravigliosa di piatti coperti, di sorprese gastronomiche e di vini squisiti!

«Se il cugino Pons ci fa concludere un affare di questo genere», disse il presidente alla moglie quando Pons se ne fu andato, «dobbiamo costituire per lui una rendita equivalente ai suoi emolumenti di direttore d'orchestra».

«Certamente», disse la presidentessa.

Cécile fu incaricata, nel caso che la persona risultasse di suo gradimento, di far accettare al vecchio musicista quell'ignobile munificenza.

Il giorno dopo, il presidente, desideroso di avere delle prove autentiche della ricchezza del signor Fritz Brunner, andò dal notaio. Berthier, preavvertito dalla presidentessa, aveva fatto venire il suo nuovo cliente, il banchiere Schwab, l'ex flauto. Abbagliato da una simile parentela (è risaputo quanto i tedeschi rispettino le distinzioni sociali! in Germania, una moglie è la signora generalessa, la signora consigliera, la signora avvocatessa), Schwab fu arrendevole come un collezionista che crede di raggirare un 41/166

negoziante.

«Innanzitutto», disse il padre di Cécile a Schwab, «poiché darò per contratto la proprietà di Marville a mia figlia, desidererei maritarla con il regime dotale. Il signor Brunner dovrebbe investire un milione in terreni per aumentare il possedimento di Marville, costituendo un immobile dotale che porrebbe l'avvenire di mia figlia e dei suoi figli al sicuro dagli imprevisti della banca».

Berthier si accarezzò il mento pensando:

«Ma bravo il presidente!».

Schwab, dopo essersi fatto spiegare gli effetti del regime dotale, garantì per l'amico.

Quella clausola realizzava il desiderio che aveva udito formulare da parte di Fritz, di trovare una soluzione che gli impedisse una volta per sempre di ricadere in miseria.

«In questo momento si trovano in vendita fattorie e prati per un milione e duecentomila franchi», disse il presidente.

«Un milione in azioni della Banca sarà sufficiente», disse Schwab, «a garantire il nostro conto in banca; Fritz non vuole investire più di due milioni negli affari; farà quello che chiedete, signor presidente».

Il presidente fece quasi impazzire di gioia le sue due donne, comunicando loro queste notizie. Mai pesca tanto ricca si era mostrata talmente compiacente alla rete coniugale.

«Sarai la signora Brunner de Marville», disse il padre alla figlia, «perché otterrò per tuo marito il permesso di aggiungere questo nome al suo; più tardi riceverà le lettere di naturalità. Se divento pari di Francia, mi succederà!».

La presidentessa impiegò cinque giorni a preparare la figlia. Il giorno dell'incontro, vestì lei stessa Cécile, con le proprie mani la equipaggiò con la stessa cura che l'ammiraglio della flotta azzurra aveva messo nell'approntare il panfilo della regina d'Inghilterra quando partì per il suo viaggio in Germania.

Da parte loro, Pons e Schwab pulirono, spolverarono il museo di Pons, l'appartamento, i mobili, con l'agilità con cui i mozzi lavano una nave ammiraglia. Non un grano di polvere nei legni intagliati. Gli ottoni risplendevano. I vetri lasciavano vedere nettamente le opere a pastello di Latour, di Greuze e di Liotard, l'illustre autore della Cioccolataia, miracolo di quella pittura, ahimè!, così passeggera. L'inimitabile smalto dei bronzi fiorentini riluceva cangiante. I vetri colorati splendevano nei loro colori delicati. Ogni cosa brillava nella sua forma e lanciava la sua frase all'anima, in quel concerto di capolavori organizzato da due musicisti, entrambi anche poeti.

XXIII • UN'IDEA TEDESCA

Assai astute per evitare le difficoltà di un'entrata in scena, le donne arrivarono per prime perché volevano avere il vantaggio del terreno. Pons presentò l'amico Schmucke alle parenti, cui fece l'impressione di essere un idiota.Tutte prese dall'idea di un fidanzato quattro volte milionario, le due ignoranti prestarono un'attenzione mediocre alle spiegazioni artistiche del buon Pons. Guardavano con occhio indifferente gli smalti di Petitot allestiti su velluto rosso entro tre cornici meravigliose. I fiori di Van Huysum, di David di Heim, gli insetti di Abraham Mignon, i Van Eyck, gli Albrecht Dürer, i veri Cranach, il Giorgione, il Sebastiano del Piombo, Backhuyzen, Hobbema, Géricault, le rarità della pittura... niente suscitava la loro curiosità perché erano in attesa del sole che doveva illuminare tutte quelle ricchezze; tuttavia rimasero sorprese della bellezza di qualche gioiello etrusco e del valore reale delle tabacchiere.

Stavano fingendo di estasiarsi davanti a dei bronzi fiorentini che tenevano in mano, 42/166

quando la Cibot annunciò il signor Brunner! Non si voltarono affatto e approfittarono di un superbo specchio veneziano, in un'incredibile cornice di ebano intagliato, per esaminare la fenice dei pretendenti.

Fritz, preavvertito da Wilhelm, aveva raccolto i pochi capelli che gli restavano in modo da coprire la calvizie; portava dei graziosi pantaloni di colore delicato anche se scuro, un elegantissimo gilet di seta dal taglio originale, una camicia di tela fatta a mano da una tessitrice di Frisia, con punti a giorno, una cravatta blu a righe bianche. La catena dell'orologio era di Florent e Chanor, come il pomo del bastone. Quanto all'abito, era stato tagliato personalmente da Graff nel tessuto migliore. Dei guanti di Svezia denotavano l'uomo che aveva già dissipato il patrimonio della madre. Si sarebbe potuto indovinare il piccolo coupé basso a due cavalli, del banchiere, vedendo luccicare gli stivali di vernice, se l'orecchio delle due donne non ne avesse già udito il rumore nella rue de Normandie.

Quando il libertino di vent'anni è la crisalide di un banchiere, a quarant'anni libera un osservatore, tanto più acuto in quanto Brunner aveva capito quali vantaggi un tedesco può trarre dalla propria ingenuità. Quella mattina assunse l'aria sognante di un uomo che si trovi a dover scegliere tra la vita familiare e le dissolutezze della vita di scapolo.

In un tedesco francesizzato, un tale atteggiamento sembrò a Cécile il massimo del romanticismo. Nel figlio dei Virlaz vide un Werther. Quale ragazza non si concede un romanzetto nella storia del suo matrimonio? Cécile si considerò la più felice delle donne quando Brunner, alla vista delle magnifiche opere raccolte in quarant'anni di paziente collezionismo, si entusiasmò, le apprezzò, per la prima volta, nel loro giusto valore, con grande soddisfazione di Pons.

«È un poeta!», pensò la signorina de Marville, «ci vede dei milioni. Un poeta è un uomo che non calcola, che lascia la moglie padrona dei capitali, un uomo facile da guidare e che si tiene occupato con delle sciocchezze».

Ogni riquadro delle due finestre della camera del buonuomo era un vetro di lavorazione svizzera, colorato; il più piccolo valeva mille franchi; Pons possedeva sedici di questi capolavori, oggi molto ricercati dagli intenditori. Nel 1815 questi vetri si vendevano dai sei ai dieci franchi. Il prezzo dei sessanta quadri che componevano quella divina collezione di puri capolavori, originali, autentici, poteva essere conosciuto soltanto nel clima acceso di un'asta. Intorno a ogni quadro sbocciava una cornice di valore immenso, e ce n'erano di tutti i tipi: la cornice veneziana con le sue grandi decorazioni simili a quelle dell'attuale vasellame inglese; la cornice romana, così singolare per quello che gli artisti chiamano il flafla; la cornice spagnola dai fogliami arditi; le cornici fiamminghe e tedesche con i loro ingenui personaggi; la cornice di tartaruga intarsiata di stagno, di rame, di madreperla, d'avorio; la cornice d'ebano, la cornice di bosso, la cornice di rame, la cornice Luigi XIII, Luigi XIV, Luigi XV e Luigi XVI... insomma una collezione unica dei più bei modelli. Pons, più fortunato dei conservatori dei Tesori di Dresda e di Vienna, possedeva una cornice del celebre Brustolon, il Michelangelo del legno.

Naturalmente la signora de Marville chiese spiegazioni su ogni nuova curiosità. Si fece iniziare da Brunner alla conoscenza di quelle meraviglie. Fu talmente ingenua nelle sue esclamazioni, e sembrò talmente desiderosa di sapere da Fritz il valore, la bellezza di un dipinto, di una scultura, di un bronzo, che il tedesco si sgelò: il suo volto ringiovanì. Insomma, da una parte e dall'altra si andò più avanti di quanto non si chiedesse a questo primo incontro, sempre dovuto al caso.

La visita durò tre ore. Brunner offrì il braccio a Cécile per scendere le scale. Mentre scendeva i gradini con sapiente lentezza, Cécile, che continuava a parlare di belle arti, rimase stupita dell'ammirazione del suo pretendente per i gingilli del cugino Pons.

«Credete dunque che tutto quello che abbiamo visto valga molto denaro?».

«Eh! signorina, se il vostro signor cugino volesse vendermi la sua collezione, gli darei subito ottocentomila franchi, e non farei un cattivo affare. Soltanto i sessanta quadri 43/166

raggiungerebbero una cifra ancora più alta in un'asta».

«Ci credo perché lo dite voi», rispose, «e dev'essere così, trattandosi delle cose di cui vi siete occupato di più».

«Oh, signorina!...», esclamò Brunner. «Come sola risposta a questo rimprovero, chiederò alla vostra signora madre il permesso di farle visita, per avere il piacere di rivedervi».

«È sveglia la mia bambina!», pensò la presidentessa, che stava alle calcagna della figlia. «Col più grande piacere, signore», disse a voce alta. «Spero che verrete, col nostro cugino Pons, a pranzo da noi; il signor presidente sarà felice di fare la vostra conoscenza... Grazie, cugino».

Strinse il braccio di Pons in un modo così significativo che la frase sacramentale «Uniti per la vita e per la morte!» non sarebbe stata altrettanto forte. E abbracciò Pons con l'occhiata che accompagnò quel «Grazie, cugino».

Dopo aver fatto salire la ragazza in carrozza, e quando il coupé scomparve nella rue Charlot, Brunner parlò di bric-à-brac con Pons, che parlava del matrimonio.

«Insomma, per voi non ci sono difficoltà...», disse Pons.

«Mah!», replicò Brunner. «La piccola è insignificante, la madre un po' artefatta...

vedremo».

«Con la prospettiva di un bel patrimonio...», fece osservare Pons. «Più di un milione...».

«A lunedì!», lo interruppe il milionario. «Nel caso che decidiate di vendere la vostra collezione di quadri, offrirei volentieri da cinque a seicentomila franchi...».

«Ah!», esclamò il buonuomo, che non credeva di essere così ricco, «non riuscirei a separarmi da ciò che mi rende felice... Potrei vendere la mia collezione solo a patto di tenerla con me fino alla morte».

«Bene, vedremo...».

«Ecco due affari in corso», si disse il collezionista, che pensava soltanto al matrimonio.

Brunner salutò Pons e scomparve con il suo splendido equipaggio. Pons guardò allontanarsi il piccolo coupé senza fare attenzione a Rémonencq, che fumava la pipa sulla soglia della sua bottega.

XXIV • CASTELLI IN ARIA

La sera stessa, la presidentessa de Marville andò a casa del suocero per consigliarsi con lui, e vi trovò la famiglia Popinot. Nel suo desiderio di soddisfare una piccola vendetta, decisamente naturale nel cuore delle madri quando non sono riuscite a catturare un figlio di famiglia, la signora de Marville fece capire che per Cécile si stava preparando un matrimonio eccezionale. «E con chi si sposa Cécile?», fu la domanda che corse su tutte le labbra. Allora, convinta di non tradire i suoi segreti, la presidentessa disse tante mezze parole, fece tante confidenze appena sussurrate, confermate del resto dalla signora Berthier, che il giorno dopo, nell'Empireo borghese nel quale Pons eseguiva le sue evoluzioni gastronomiche, ecco cosa si diceva:

«Cécile de Marville si sposa con un giovane tedesco che farà il banchiere per umanità, dal momento che già possiede una ricchezza di quattro milioni; è un eroe da romanzo, un vero Werther, affascinante, generoso, uomo di mondo, che ha perso la testa per Cécile; un amore a prima vista, tanto più sicuro in quanto Cécile aveva come rivali tutte le madonne dipinte di Pons», ecc. ecc.

Due giorni dopo, alcune persone andarono a complimentarsi con la presidentessa solo 44/166

per sapere se quel prodigio accadeva davvero, e la presidentessa si impegnò in quelle mirabili variazioni sul tema, che le madri potranno consultare come una volta si consultava Il perfetto segretario:

«Un matrimonio non è perfezionato», diceva alla signora de Chiffreville, «finché non si ritorna dal municipio e dalla chiesa, e noi siamo ancora ai preliminari; conto sulla vostra discrezione che non parliate delle nostre speranze...».

«Siete veramente fortunata, signora presidentessa, è così difficile oggi concludere dei matrimoni...».

«Che volete! è un caso; ma i matrimoni avvengono spesso in questo modo».

«Dunque maritate Cécile?», chiedeva la signora Cardot.

«Sì», rispondeva la presidentessa cogliendo la malizia di quel dunque. «Eravamo troppo esigenti, e ciò ritardava la sistemazione di Cécile. Ora abbiamo tutto: ricchezza, buona educazione, buon carattere, e un bell'uomo. Del resto, la mia cara bambina se lo meritava. Il signor Brunner è un giovane incantevole, molto distinto; ama il lusso, conosce la vita, ed è pazzo di Cécile che ama sinceramente; e Cécile lo accetta malgrado i suoi tre o quattro milioni... Non avevamo tutte queste pretese...

ma il troppo non guasta... A farci decidere non è tanto la ricchezza quanto l'affetto ispirato da mia figlia», diceva la presidentessa alla signora Lebas. «Il signor Brunner ha talmente fretta che vuole sposarsi entro i più stretti termini di legge».

«È uno straniero?...».

«Sì, signora; ma confesso che sono molto contenta. No, non avrò un genero, avrò un figlio. Il signor Brunner è di una delicatezza veramente seducente. Non si può immaginare la sua insistenza per un matrimonio sotto regime dotale... Per le famiglie è una grande sicurezza. Acquisterà per un milione e duecentomila franchi dei terreni che un giorno saranno uniti alla proprietà di Marville».

Il giorno dopo, altre variazioni sul tema. E allora il signor Brunner era un gran signore, e lo era in tutto; non badava a spese; e se il signore de Marville fosse riuscito ad ottenere le lettere patenti di naturalità, il genero sarebbe diventato pari di Francia.

Non si conosceva la ricchezza del signor Brunner, ma aveva sicuramente i cavalli più belli e gli equipaggi più belli di Parigi, ecc.

Il piacere che provavano i Camusot a rendere pubbliche le loro speranze la diceva lunga su quanto quel trionfo fosse insperato.

Subito dopo l'incontro a casa del cugino Pons, il signor de Marville, spinto dalla moglie, convinse il ministro della giustizia, il primo presidente e il procuratore generale ad andare a cena da lui il giorno della presentazione della fenice dei generi. I tre grandi personaggi accettarono, anche se invitati con breve preavviso; ognuno di loro comprese bene il ruolo che il padre di famiglia gli chiedeva di rappresentare, e accettò con piacere. In Francia, si aiutano volentieri le madri di famiglia che pescano un genero ricco. Anche il conte e la contessa Popinot si prestarono a completare il lusso di quella giornata, nonostante che un simile invito sembrasse loro di cattivo gusto. In tutto erano undici persone. Il nonno di Cécile, il vecchio Camusot, e sua moglie non potevano mancare a quella riunione, che per la posizione dei convitati era destinata a impegnare definitivamente il signor Brunner, presentato - come si è visto -

come uno dei più ricchi capitalisti della Germania, uomo di gusto (che amava la bambina), futuro rivale dei Nucingen, dei Keller, dei du Tillet, ecc.

«È il nostro giorno», disse con studiata semplicità la presidentessa a colui che considerava suo genero mentre gli indicava i convitati, «ci sono solo gli intimi.

Innanzitutto il padre di mio marito che, lo sapete, deve essere promosso pari di Francia; poi il signor conte e la signora contessa Popinot, il cui figlio non si è considerato sufficientemente ricco per Cécile, e tuttavia siamo rimasti buoni amici; il nostro ministro della giustizia, il nostro primo presidente, il nostro procuratore generale, infine i nostri amici... Dovremo cenare un po' tardi a causa del tribunale; le udienze non finiscono mai prima delle sei».

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Brunner rivolse a Pons uno sguardo significativo, e Pons si sfregò le mani come per dire: «Ecco i nostri amici, miei amici!...».

La presidentessa, da donna abile quale era, ebbe qualcosa da dire in privato al cugino, in modo da lasciare soli per un momento Cécile e il suo Werther. Cécile si dette da fare a chiacchierare, e fece in modo che Fritz scorgesse un dizionario tedesco, una grammatica tedesca e un Goethe che aveva nascosti.

«Ah! state imparando il tedesco?», chiese Brunner arrossendo.

Solo i francesi inventano questo genere di trappole.

«Oh!», rispose lei, «siete cattivo!... non sta bene, signore, frugare nei miei nascondigli. Voglio leggere Goethe nell'originale», aggiunse, «e sono due anni che studio il tedesco».

«La grammatica dev'essere molto difficile da capire... non ci sono neppure dieci pagine tagliate», notò ingenuamente Brunner.

Cécile, confusa, si voltò per non far vedere il suo rossore. Un tedesco non resiste a testimonianze di questo genere; Fritz prese per mano Cécile, la condusse tutta smarrita sotto il suo sguardo e la guardò come si guardano i fidanzati nei romanzi di August Lafontaine, di pudica memoria.

«Siete adorabile!», disse Fritz.

Cécile fece un gesto sbarazzino che significava: «E voi?... chi non vi amerebbe?».

«Mamma, va bene!», bisbigliò all'orecchio della madre che rientrava con Pons.

L'aspetto di una famiglia durante una serata simile è indescrivibile. Ognuno era contento di vedere una madre che metteva le mani su un buon partito per la figlia. Ci si felicitava, con parole a doppio senso e a doppio effetto, con Brunner che fingeva di non capire, con Cécile che capiva tutto, con la presidentessa che andava a caccia di complimenti. Tutto il sangue rimbombò negli orecchi di Pons, e gli sembrò di vedere accesi tutti i becchi a gas della ribalta del suo teatro, quando Cécile gli sussurrò, con le cautele più ingegnose, che il padre era intenzionato ad assicurargli una rendita vitalizia di milleduecento franchi, che il vecchio artista rifiutò fermamente, obiettando la rivelazione che Brunner gli aveva fatto a proposito della ricchezza della sua collezione.

Il ministro, il primo ministro, il procuratore generale, i Popinot, tutte le persone che avevano degli impegni se ne andarono. Ben presto rimasero soltanto il vecchio Camusot e Cardot, l'ex notaio, col genero Berthier. Il buon Pons, considerandosi in famiglia, ringraziò in modo assai maldestro il presidente e la presidentessa per l'offerta di cui Cécile gli aveva appena parlato. Le persone di cuore sono fatte così: sono istintive. Brunner, che in quella rendita offerta vide una specie di percentuale sull'affare, ebbe un impulso di orgoglio israelita e assunse l'atteggiamento freddissimo del calcolatore.

«La mia collezione, o il denaro che renderà, apparterrà sempre alla nostra famiglia, sia che la venda al nostro amico Brunner, sia che la tenga per me», diceva Pons facendo sapere alla famiglia assai stupefatta che era in possesso di un grande valore.

Brunner osservò il mutamento che si verificò in tutti quegli ignoranti, a favore di un uomo che passava da una condizione di indigenza alla ricchezza, come aveva già notato le premure della madre e del padre per la loro Cécile, idolo della casa, e allora si divertì a provocare le sorprese e le esclamazioni di quei degni borghesi.

«Ho detto alla signorina che i quadri del signor Pons per me valgono quella somma; ma, ai prezzi raggiunti dagli oggetti d'arte unici, nessuno può prevedere il valore che la collezione raggiungerebbe in un'asta pubblica. I sessanta quadri potrebbero raggiungere il milione; ne ho visti molti salire fino a cinquecentomila franchi».

«Fortunato il vostro erede!», disse l'ex notaio a Pons.

«Il mio erede è mia cugina Cécile», replicò il buonuomo insistendo sulla parentela.

Un moto di ammirazione si riversò sul musicista.

«Sarà un'erede molto ricca», disse ridendo Cardot, che se ne andò.

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Furono lasciati soli Camusot padre, il presidente, la presidentessa, Cécile, Brunner, Berthier e Pons; si credeva che stesse per essere chiesta ufficialmente la mano di Cécile. E infatti, appena queste persone furono sole, Brunner cominciò con una domanda che ai parenti sembrò di buon augurio.

«Mi è sembrato di capire», disse Brunner rivolgendosi alla presidentessa, «che la signorina è figlia unica...».

«Certamente», rispose lei con orgoglio.

«Non troverete difficoltà con nessuno», aggiunse il buon Pons per spingere Brunner a fare la sua richiesta.

Brunner diventò sospettoso, e un fatale silenzio instaurò un clima di strana freddezza.

Sembrava che la presidentessa avesse confessato che la sua bambina era epilettica. Il presidente, ritenendo opportuno che la figlia non fosse presente, fece un cenno a Cécile, che capì e uscì. Brunner rimase in silenzio. Si guardarono. La situazione divenne imbarazzante. Il vecchio Camusot, uomo di grande esperienza, condusse il tedesco nella camera della presidentessa col pretesto di mostrargli il ventaglio trovato da Pons, intuendo che fosse insorta qualche difficoltà, e con un gesto chiese a suo figlio, alla nuora e a Pons di lasciarlo solo col futuro sposo.

«Ecco il capolavoro!», disse il vecchio negoziante di seterie mostrando il ventaglio.

«Vale mille franchi», rispose Brunner dopo averlo esaminato.

«Ma non eravate venuto», chiese il futuro pari di Francia, «per chiedere la mano di mia nipote?».

«Sì, signore», disse Brunner, «e vi prego di credere che nessuna unione potrebbe essere più lusinghiera di questa. Non troverò mai una giovane più bella, più amabile, che mi si addica meglio della signorina Cécile. Ma...».

«Ah! niente ma», disse il vecchio Camusot, «vediamo subito cosa significano i vostri ma, caro signore...».

«Signore», proseguì Brunner con tono grave, «sono felice che non ci siamo impegnati reciprocamente, perché la qualità di figlia unica, così preziosa per tutti tranne che per me, qualità che io ignoravo, credetemi, costituisce un ostacolo assoluto...».

«Ma come, signore», disse il vecchio stupefatto, «considerate negativo quello che è un immenso vantaggio? La vostra condotta è davvero singolare, e vorrei proprio conoscerne le ragioni».

«Signore», rispose con flemma il tedesco, «sono venuto qui stasera con l'intenzione di chiedere al signor presidente la mano di sua figlia. Volevo costruire un futuro brillante per la signorina Cécile, offrendole tutto quello che avesse voluto accettare della mia ricchezza; ma una figlia unica è una ragazza abituata dall'indulgenza dei genitori a fare quello che vuole, e non sa neppure cosa sia una contrarietà. Accade qui come in molte famiglie, dove ho potuto studiare il culto per queste specie di divinità: non solo vostra nipote è l'idolo della casa, ma per di più la signora presidentessa porta i....

sapete benissimo che cosa! Signore, ho visto la casa di mio padre diventare un inferno per questa ragione. La mia matrigna, causa di tutte le mie disgrazie, figlia unica, adorata, la più incantevole delle fidanzate, è diventata l'incarnazione di un diavolo.

Sicuramente la signorina Cécile sarà un'eccezione alla mia teoria; ma io non sono più un ragazzo, ho quarantasei anni, e la differenza tra le nostre età comporta difficoltà che non mi permettono di rendere felice una ragazza abituata ad essere sempre assecondata dalla signora presidentessa, e che la signora presidentessa ascolta come un oracolo. Con quale diritto potrei pretendere che la signorina Cécile cambiasse idee e abitudini? Invece di un padre e di una madre compiacenti a ogni suo capriccio, incontrerebbe l'egoismo di un quarantenne; qualora lei resistesse, sarebbe il quarantenne ad essere sconfitto. Agisco dunque da uomo onesto, e mi ritiro. Del resto, desidero essere io l'unico sacrificato, se fosse necessario spiegare per quale ragione stasera mi sia limitato a fare una visita...».

«Se sono queste le vostre ragioni, signore», disse il futuro pari di Francia, «per quanto 47/166

singolari sono plausibili...».

«Signore, non mettete in dubbio la mia sincerità», lo interruppe vivacemente Brunner.

«Se conoscete una povera ragazza, di famiglia numerosa, bene educata, senza mezzi, come se ne trovano tante in Francia, e con un carattere che offra garanzie, io la sposo».

Durante il silenzio che seguì questa dichiarazione, Fritz lasciò il nonno di Cécile, salutò cortesemente il presidente e la presidentessa, e uscì. Commento vivente del saluto del suo Werther, Cécile apparve, pallida come una moribonda; nascosta nel guardaroba della madre, aveva udito tutto.

«Rifiutata!...», sussurrò all'orecchio della madre.

«E perché?», chiese la presidentessa al suocero imbarazzato.

«Col delizioso pretesto che le figlie uniche sono delle bambine viziate», rispose il vecchio, «e non ha tutti i torti», aggiunse cogliendo l'occasione per rimproverare la nuora, che lo infastidiva da vent'anni.

«Mia figlia ne morirà! e l'avrete uccisa voi!...», disse la presidentessa a Pons sorreggendo la figlia, che ritenne simpatico giustificare queste parole lasciandosi cadere tra le braccia della madre.

Il presidente e sua moglie adagiarono Cécile su una poltrona, dove lei finì di svenire. Il nonno suonò per chiamare i domestici.

XXV • PONS SEPOLTO SOTTO I CALCOLI

«Ora riesco a vedere la trama ordita da questo signore!», disse la madre, furiosa, indicando il povero Pons.

Pons si drizzò come se avesse sentito risuonare negli orecchi la tromba del giudizio universale.

«Questo signore», continuò la presidentessa con gli occhi che erano diventate due fontane di bile verde, «ha voluto rispondere a uno scherzo innocente con un insulto.

Chi potrà credere al buon senso di quel tedesco? O è complice di un'atroce vendetta o è pazzo. Spero, signor Pons, che in futuro ci risparmierete il dispiacere di vedervi ancora in una casa in cui avete cercato di portare la vergogna e il disonore».

Pons, che era diventato una statua, teneva gli occhi fissi su una rosetta del tappeto e si girava i pollici.

«Ebbene, siete ancora qui, mostro d'ingratitudine!...», gridò la presidentessa voltandosi. «Non saremo mai in casa, né il presidente né io, se mai questo signore si dovesse presentare!», disse ai domestici indicando Pons. «Jean, andate a chiamare il dottore. E voi, Madeleine, dell'acqua di corno di cervo!».

Per la presidentessa le giustificazioni di Brunner non erano altro che un pretesto sotto il quale se ne nascondevano altre; ma il matrimonio saltava a maggior ragione. Con quella rapidità di pensiero tipica delle donne nei momenti importanti, la signora de Marville aveva trovato il solo modo di riparare allo scacco attribuendo a Pons una vendetta premeditata. Questa soluzione, infernale nei confronti di Pons, salvava l'onore della famiglia. Fedele al suo odio contro Pons, aveva trasformato in verità un semplice sospetto di donna. In generale le donne hanno una fede particolare, una propria morale: credono alla realtà di tutto ciò che risponde ai loro interessi e alle loro passioni. La presidentessa andò molto più in là: nel corso della serata riuscì a persuadere il presidente delle proprie congetture, e l'indomani il presidente era convinto della colpevolezza del cugino. Tutti troveranno orribile la condotta della presidentessa; ma in simili circostanze ogni madre imiterà la signora Camusot e 48/166

preferirà sacrificare l'onore di un estraneo a quello della figlia. Cambieranno i mezzi, ma lo scopo rimarrà lo stesso.

Il musicista scese in fretta le scale; ma camminò con passo lento sui boulevards fino al teatro dove entrò meccanicamente, e meccanicamente diresse l'orchestra. Durante gli intervalli, rispose in maniera talmente distratta a Schmucke, che Schmucke dissimulò la sua preoccupazione e pensò che Pons fosse impazzito. In una natura infantile come quella di Pons, la scena che si era appena svolta assumeva le proporzioni di una catastrofe... Risvegliare un odio spaventoso là dove aveva voluto portare la felicità, significava capovolgere totalmente l'esistenza. Negli occhi, nei gesti, nella voce della presidentessa aveva riconosciuto un'inimicizia mortale.

Il giorno dopo, la signora Camusot de Marville prese una grande decisione, dettata del resto dalla situazione, e che fu condivisa dal presidente. Fu deciso di dare in dote a Cécile la proprietà di Marville, il palazzo della rue de Hanovre e centomila franchi.

Nella mattinata la presidentessa andò a trovare la contessa Popinot, avendo capito che ad uno scacco simile bisognava rispondere con un matrimonio immediato.

Raccontò della spaventosa vendetta e dell'orribile inganno tramati da Pons. Tutto sembrò credibile quando si venne a sapere che il pretesto della rottura era la condizione di figlia unica. Infine la presidentessa fece risplendere abilmente il vantaggio di chiamarsi Popinot de Marville e l'enormità della dote. Al prezzo di valutazione dei beni in Normandia, al due per cento, la proprietà valeva circa novecentomila franchi, e il palazzo della rue de Hanovre era stimato duecentocinquantamila franchi. Nessuna famiglia ragionevole poteva rifiutare una simile unione; così il conte Popinot e sua moglie accettarono; quindi, da persone interessate all'onore della famiglia con cui si legavano, promisero che avrebbero fatto la loro parte per spiegare la catastrofe del giorno prima.

Poi, in casa dello stesso vecchio Camusot, nonno di Cécile, davanti alle stesse persone che vi si erano trovate qualche giorno prima e alle quali la presidentessa aveva cantato le sue litanie su Brunner, quella stessa presidentessa, che incuteva timore a chiunque, continuò a dare coraggiosamente le sue spiegazioni.

«Certo oggi», diceva, «non sarebbero mai troppe le precauzioni da prendere quando si tratta di un matrimonio, e soprattutto si ha a che fare con degli stranieri».

«E perché mai, signora?».

«Cosa vi è successo?», chiese la signora Chiffreville.

«Non sapete della nostra avventura con quel Brunner che aveva il coraggio di aspirare alla mano di Cécile?... È figlio di un bettoliere tedesco, nipote di un venditore di pelli di coniglio».

«È mai possibile? Voi, così attenta!...», disse una signora.

«Questi avventurieri sono talmente astuti! Ma abbiamo saputo tutto da Berthier.

Questo tedesco ha per amico un povero diavolo che suona il flauto! Ha a che fare con un tale che ha una locanda in rue du Mail, con dei sarti... Siamo venuti a sapere che è sempre vissuto nel modo più dissoluto, e nessuna ricchezza può bastare a uno sciagurato che ha già fatto fuori quella della madre...».

«La signorina vostra figlia sarebbe stata molto infelice!...», disse la signora Berthier.

«E come vi era stato presentato?», chiese la vecchia signora Lebas.

«È stata una vendetta del signor Pons; è stato lui a presentarci quel bel tipo per gettarci nel ridicolo... Questo Brunner, che vuol dire «Fontana» (ce ne avevano parlato come di un gran signore), è piuttosto malaticcio, calvo, i denti rovinati; mi è stato sufficiente vederlo una volta per diffidare di lui».

«E quella grande ricchezza di cui mi parlavate?», domandò timidamente una giovane signora.

«La sua ricchezza non è considerevole come dicono. I sarti, l'albergatore e lui, tutti hanno raschiato il fondo delle loro casse per fare una banca... Cosa vuol dire oggi aprire una banca? vuol dire la possibilità di rovinarsi. Una donna che si addormenta 49/166

milionaria può svegliarsi ridotta soltanto al suo. Dalla sua prima parola, vedendolo la prima volta, ci siamo subito fatti la nostra opinione sul conto di quel signore, che non sa niente delle nostre usanze. Si vede dai guanti, dal gilè, che è un operaio, il figlio di un bettoliere tedesco, privo di nobili sentimenti, un bevitore di birra... e che fuma, signora, venticinque pipe al giorno! Cosa sarebbe accaduto alla mia povera Lili?...

Ancora ne rabbrividisco. Dio ci ha salvati! D'altra parte quel signore non piaceva affatto a Cécile... Potevamo aspettarci un simile inganno da un parente, da un frequentatore assiduo della nostra casa, che da vent'anni viene a cena da noi due volte la settimana? che abbiamo coperto di favori, e che recitava così bene la commedia da nominare Cécile sua erede alla presenza del guardasigilli, del procuratore generale, del primo presidente?... Quel Brunner e il signor Pons erano d'accordo per dividersi dei milioni!... No, ve lo assicuro: tutte voi, signore mie, sareste rimaste vittime di quest'imbroglio d'artista!».

In poche settimane le famiglie riunite dei Popinot, dei Camusot e dei loro amici ottennero nel loro ambiente un trionfo facile, perché nessuno prese le difese del miserabile Pons, del parassita, del furbastro, dell'avaro, del falso brav'uomo sepolto sotto il disprezzo, considerato una vipera che si era scaldata in seno alle famiglie, come un uomo di rara malvagità, un saltimbanco pericoloso che bisognava dimenticare.

XXVI • L'ULTIMO COLPO

Un mese circa dopo il rifiuto del falso Werther, il povero Pons, uscito per la prima volta dal suo letto, dove era rimasto in preda a una febbre nervosa, passeggiava sui boulevards, al sole, appoggiato al braccio di Schmucke. Sul boulevard du Temple nessuno più rideva dei due schiaccianoci, alla vista dello stato miserevole dell'uno e della commovente premura dell'altro per l'amico convalescente. Giunti sul boulevard Poissonnière, Pons aveva ripreso un po' di colore, respirando quell'atmosfera dei boulevards in cui l'aria è tanto forte; infatti, dove la folla abbonda, il fluido è talmente vitale che a Roma è stata notata la mancanza di mala aria nell'infetto Ghetto dove pullulano gli ebrei. Forse agiva sul malato anche la vista di ciò che da sempre gli piaceva vedere, il grande spettacolo di Parigi. Davanti al Théâtre des Variétés, Pons si allontanò da Schmucke, al cui fianco aveva camminato fino a quel momento; infatti di tanto in tanto il convalescente lasciava l'amico per guardare le novità esposte nelle vetrine dei negozi. All'improvviso si trovò faccia a faccia con il conte Popinot, che salutò nel modo più rispettoso dal momento che l'ex ministro era uno degli uomini che Pons stimava e venerava di più.

«Ah, signore», rispose con tono severo il pari di Francia, «non capisco proprio come abbiate così poco tatto da salutare una persona imparentata con la famiglia che avete tentato di coprire di vergogna e di ridicolo, per una di quelle vendette che solo gli artisti sanno inventare... Sappiate, signore, che da oggi in poi dobbiamo considerarci del tutto estranei. La signora contessa Popinot condivide l'indignazione che il vostro comportamento ha suscitato in tutto il nostro ambiente».

L'ex ministro si allontanò, lasciando Pons fulminato. Le passioni, la giustizia, la politica, le grandi forze sociali non si preoccupano mai di indagare la condizione dell'essere che vanno a colpire. L'uomo di Stato, spinto dall'interesse della famiglia di distruggere Pons, non si accorse neppure della debolezza fisica di quel temibile nemico.

«Che hai, bofero amico mio?», esclamò Schmucke impallidendo quanto Pons.

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«Ho appena ricevuto un'altra pugnalata al cuore», rispose il buonuomo appoggiandosi al braccio di Schmucke. «Evidentemente soltanto il Signore ha il diritto di fare del bene; ecco perché tutti coloro che si immischiano nelle sue faccende vengono così crudelmente puniti».

Questo sarcasmo d'artista fu uno sforzo supremo di quella creatura eccellente per dissolvere i segni della paura sul volto dell'amico.

«Lo credo anch'io», si limitò a rispondere Schmucke.

Ma tutto ciò rimase inspiegabile per Pons, al quale né i Camusot né i Popinot avevano inviato la partecipazione di nozze di Cécile. Sul boulevard des Italiens, Pons vide venirgli incontro il signor Cardot. Messo in guardia dall'allocuzione del pari di Francia, Pons si guardò bene dal fermare questo personaggio a casa del quale, nell'ultimo anno, era andato a cena ogni quindici giorni, e si limitò a salutarlo; ma il sindaco, il deputato di Parigi, guardò Pons con aria indignata, senza restituirgli il saluto.

«Va' un po' a chiedergli cos'hanno tutti contro di me», disse il buonuomo a Schmucke, che conosceva in ogni dettaglio la catastrofe capitata a Pons.

«Sighnore», disse finemente Schmucke a Cardot, «il mio amico Bons è appena uscito da una brutta malattia, e senza dubbio non l'avete riconosciuto».

«L'ho riconosciuto perfettamente».

«Ma cos'avete da rimproverargli?».

«Avete per amico un mostro d'ingratitudine, un uomo che, se è ancora vivo, è perché, come dice il proverbio, l'erba cattiva cresce nonostante tutto. Fa bene la società a diffidare degli artisti; sono maligni e cattivi come le scimmie. Il vostro amico ha cercato di disonorare la sua stessa famiglia, di compromettere la reputazione di una ragazza per vendicarsi di uno scherzo innocente. Non voglio più avere alcun rapporto con lui; cercherò di dimenticare che l'ho conosciuto, che esiste. Questi sentimenti, signore, sono quelli di tutte le persone della mia famiglia, della sua, e di quanti facevano al signor Pons l'onore di riceverlo...».

«Ma sighnore, voi siete un uomo ragionevole; se me lo permettete posso spiegarvi la faccenda...».

«Restategli pure amico, se ne avete la forza; siete libero di farlo, signore», replicò Cardot; «ma non è il caso che continuiate; e credo di dovervi avvertire che coinvolgerò nella stessa riprovazione coloro che tenteranno di giustificarlo, di difenderlo».

«Di giustificarlo?».

«Sì, perché la sua condotta è ingiustificabile, e inqualificabile».

Detto questo, il deputato della Senna continuò per la sua strada senza voler ascoltare una sillaba di più.

«Ho già contro di me i due poteri dello Stato», disse sorridendo il povero Pons quando Schmucke ebbe finito di riferirgli quelle furiose imprecazioni.

«Tutto è contro di noi», replicò addolorato Schmucke. «Andiamocene via, per non incontrare altre bestie».

Era la prima volta nella sua vita, vera vita di pecora, che Schmucke pronunciava parole simili. Mai la sua beatitudine quasi divina era stata turbata; avrebbe sorriso ingenuamente a ogni disgrazia che potesse capitargli; ma veder maltrattare il suo sublime Pons, quell'Aristide sconosciuto, quel genio rassegnato, quell'anima senza fiele, quel tesoro di bontà, quell'oro puro!... provava l'indignazione di Alceste, e chiamava bestie gli anfitrioni di Pons! In un carattere tanto mite, questa reazione equivaleva a tutti i furori di Orlando. Con saggia previsione, Schmucke fece ritornare Pons verso il boulevard du Temple; e Pons si lasciò condurre, poiché il malato si trovava nella condizione di quei lottatori che non contano più i colpi. Il caso volle che l'intera società fosse contro il povero musicista. La valanga che stava per investirlo comprendeva ogni cosa: la Camera dei pari, la Camera dei deputati, la famiglia, gli stranieri, i forti, i deboli, gli innocenti!

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Sul boulevard Poissonnière, tornando a casa, Pons vide venirgli incontro la figlia del signor Cardot, una giovane signora che era stata duramente provata dalle sventure, e ciò l'aveva resa indulgente. Responsabile di una colpa tenuta segreta, si era fatta schiava del marito. Tra tutte le padrone delle case dove cenava, la signora Berthier era l'unica che Pons chiamava per nome; la chiamava «Félicie!», e talvolta credeva che lei lo comprendesse. Quella dolce creatura sembrò contrariata dall'incontro con il cugino Pons; perché, malgrado l'assenza di un legame di parentela con la famiglia della seconda moglie di suo cugino, il vecchio Camusot, Pons era trattato da cugino.

Ma, non potendo evitarlo, Félicie si fermò davanti al moribondo.

«Non vi credevo cattivo, cugino; ma, se di tutto quello che sento dire di voi, un quarto soltanto è vero, siete un uomo veramente falso... Oh! non giustificatevi», aggiunse con tono vivace, a un gesto di Pons, «è inutile per due ragioni: la prima è che io non ho il diritto di accusare, né di giudicare, né di condannare nessuno, sapendo per mia esperienza che coloro che sembrano avere i torti maggiori possono avere delle giustificazioni; la seconda è che le vostre motivazioni non servirebbero a niente. Il signor Berthier, che ha stipulato il contratto tra la signorina de Marville e il visconte Popinot, è talmente irritato con voi che se venisse a sapere che vi ho rivolto la parola, che vi ho parlato sia pure per l'ultima volta, mi sgriderebbe. Tutti sono contro di voi».

«Lo vedo, signora!», rispose con voce commossa il povero musicista, che salutò rispettosamente la moglie del notaio.

E penosamente riprese il suo cammino verso la rue de Normandie appoggiandosi al braccio di Schmucke con una pesantezza che rivelò al vecchio tedesco un cedimento fisico combattuto coraggiosamente. Quel terzo incontro fu come il verdetto pronunciato dall'agnello che giace ai piedi di Dio; il corruccio di quest'angelo dei poveri, il simbolo dei popoli, è l'ultima parola del cielo. I due amici giunsero a casa senza aver scambiato una parola. In certe circostanze della vita, è sufficiente sentire la presenza di un amico. La consolazione con le parole irrita la piaga, ne rivela la profondità. Il vecchio pianista aveva, come vedete, il genio dell'amicizia, la delicatezza di chi, avendo sofferto molto, sa come trattare la sofferenza.

Quella passeggiata doveva essere l'ultima del buon Pons. Il malato passò da una malattia all'altra. Essendo di temperamento sanguigno-bilioso, la bile si riversò nel sangue e provocò una violenta epatite. Poiché le due malattie successive erano le sole che avesse mai avuto, non conosceva nessun medico. Allora la sensibile e devota Cibot ebbe l'eccellente idea, perfino materna, di chiamare il medico del quartiere.

XXVII • IL DISPIACERE TRASFORMATO IN ITTERIZIA A Parigi, in ogni quartiere, c'è un medico il cui nome e la cui abitazione sono noti soltanto alla classe inferiore, ai piccoli borghesi, ai portieri, e che perciò è chiamato il medico del quartiere. Questo medico, che si occupa di parti e pratica i salassi, corrisponde, nel campo della medicina, al domestico tuttofare dei «Piccoli annunci».

Costretto ad essere buono con i poveri, assai esperto per una lunga pratica, è generalmente amato. Il dottor Poulain, che la Cibot aveva condotto dal nostro malato, e che Schmucke aveva riconosciuto, ascoltò senza prestarvi attenzione le doglianze del vecchio musicista che, durante tutta la notte, si era grattato la pelle diventata completamente insensibile. Gli occhi cerchiati di giallo erano un ulteriore sintomo dell'itterizia.

«Avete avuto, negli ultimi due giorni, qualche forte dispiacere», disse il dottore al malato.

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«Ahimè, sì», rispose Pons.

«Avete la malattia che stava per venire al signore», disse indicando Schmucke,

«l'itterizia; ma non sarà niente», aggiunse il dottor Poulain scrivendo una ricetta.

Malgrado quest'ultima parola consolante, il dottore aveva rivolto al malato uno di quegli sguardi ippocratici in cui la sentenza di morte, anche se nascosta da una commiserazione di circostanza, è sempre intuita da occhi interessati a conoscere la verità. Così la Cibot, che affondò negli occhi del dottore uno sguardo da spia, non si fece ingannare né dal tono della frase né dalla fisionomia ipocrita del dottor Poulain, e lo seguì mentre usciva.

«Credete davvero che non sia niente?», chiese la Cibot al dottore sul pianerottolo.

«Mia cara signora Cibot, il vostro signore è un uomo morto, non per il travaso di bile nel sangue, ma per la sua debolezza morale. Tuttavia, con molte cure, il vostro malato può ancora cavarsela; bisognerebbe farlo uscire di qui, farlo viaggiare...».

«E con quali mezzi?...», disse la portiera. «Ha solo il suo stipendio, e il suo amico vive con una piccola rendita che gli è stata assicurata da certe signore assai caritatevoli alle quali, stando a quello che dice, avrebbe reso dei servizi. Sono due bambini, di cui mi occupo da nove anni».

«Passo la mia vita a vedere gente che muore, non per le loro malattie ma per quella grande e incurabile ferita che è la mancanza di soldi. In quante soffitte, invece di farmi pagare la visita, sono costretto a lasciare cento soldi sul camino!...».

«Povero caro signor Poulain!...», disse la Cibot. «Ah! se n' aveste le centomila lire di rendita che hanno certi taccagni del quartiere, dei veri diavoli scatenati, sareste il rappresentante di Dio in terra!».

Il medico, che secondo il parere dei signori portieri della circoscrizione era riuscito a farsi una clientela che bastava appena a sopravvivere, alzò gli occhi al cielo e ringraziò la signora Cibot con una smorfia degna di Tartufo.

«Dunque, caro signor Poulain, voi dite che, con molte cure, il nostro malato potrebbe cavarsela?».

«Sì, se non è troppo indebolito nel morale dal dispiacere che ha provato».

«Poveretto! chi ha potuto avere il coraggio di farlo star male? È n' un brav'uomo che sulla terra non ha eguali, tranne il suo amico, il signor Schmucke!... Voglio proprio sapere cosa gli hanno fatto! Poi ci penserò io a strigliare chi m'ha conciato così il mio signor Pons...».

«Sentite, cara signora Cibot», disse il medico, che in quel momento si trovava sulla soglia del portone, «una delle principali caratteristiche della malattia del signor Pons è un'impazienza continua senza alcun motivo, e poiché non è verosimile che possa prendere un'infermiera sarete voi ad occuparvene. Allora...».

«È del signor Pons che state parlando?», chiese il ferravecchio che stava fumando la pipa.

E si alzò dal paracarro del portone per partecipare alla conversazione tra la portiera e il dottore.

«Sì, papà Rémonencq!», rispose la Cibot all'alverniate.

«Ebbene, è più ricco del signor Monistrol e di tutti i negozianti di curiosità... Sono abbastanza esperto del settore per dirvi che il brav'uomo possiede dei tesori!».

«Ma va'... e io credevo che mi prendeste in giro l'altro giorno, quando vi ho fatto vedere tutte quelle anticaglie mentre i signori erano fuori...», disse la Cibot a Rémonencq.

A Parigi, dove il selciato ha gli orecchi, e le porte hanno la lingua, e le sbarre delle finestre hanno gli occhi, niente è più pericoloso del parlare sui portoni. Le ultime parole che vi si dicono, e che stanno a una conversazione come un post-scriptum a una lettera, contengono delle indiscrezioni pericolose sia per chi le pronuncia, sia per chi le ascolta. Un solo esempio potrà bastare a corroborare quello presentato da 53/166

questa storia.

XXVIII • L'ORO È UNA CHIMERA (PAROLE DI SCRIBE, MUSICA DI MEYERBEER, SCENE

DI RÉMONENCQ)

Un giorno, uno dei primi parrucchieri del tempo dell'Impero, epoca in cui gli uomini curavano molto la loro capigliatura, stava uscendo da una casa dove era andato a pettinare una bella signora, e dove serviva tutti i ricchi inquilini. Tra questi spiccava un vecchio scapolo armato di una governante che detestava gli eredi del suo padrone.

Costui, gravemente malato, era stato appena sottoposto a un consulto dei medici più famosi, che ancora non venivano chiamati i principi della scienza. Usciti, per caso, nello stesso momento del parrucchiere, i medici, mentre si salutavano sulla soglia del portone, parlavano, con la scienza e la verità alla mano, come parlano tra loro quando la farsa del consulto è terminata. «È un uomo morto», disse il dottor Haudry. «Non gli resta un mese», aggiunse Desplein, «a meno che un miracolo...». Il parrucchiere udì queste parole. Come tutti i parrucchieri, se la intendeva con i domestici. Spinto da una mostruosa avidità, subito risale dallo scapolo e promette alla serva-padrona una bella ricompensa qualora riesca a convincere il padrone a destinare gran parte della sua ricchezza a un vitalizio. Il patrimonio del vecchio scapolo moribondo, di cinquantasei anni che valevano il doppio a causa delle sue campagne amorose, comprendeva una magnifica casa in rue de Richelieu, che allora valeva duecentocinquantamila franchi.

Quella casa, oggetto della cupidigia del parrucchiere, gli fu venduta in cambio di una rendita vitalizia di trentamila franchi. Ciò accadeva nel 1806. Il parrucchiere, oggi a riposo, settantenne, nel 1846 paga ancora la rendita. Poiché il suddetto scapolo ha ormai ottantasei anni, è rimbambito e ha sposato la sua signora Evrard, può campare ancora a lungo. Così, poiché il parrucchiere ha dato circa trentamila franchi alla governante, l'immobile gli costa più di un milione; mentre la casa oggi vale da ottocento a novecentomila franchi.

A imitazione di quel parrucchiere, l'alverniate aveva udito le ultime parole dette da Brunner a Pons davanti al suo negozio, il giorno dell'incontro del fidanzato-fenice con Cécile. Rémonencq, che viveva in buon accordo con i Cibot, fu subito introdotto nell'appartamento dei due amici in loro assenza. Abbagliato da tutta quella ricchezza, vide che c'era la possibilità di un bel colpo, che nel gergo mercantile significa «un bel furto», e da cinque o sei giorni non pensava ad altro.

«Io scherzo talmente poco», rispose alla Cibot e al dottor Poulain, «che riparleremo della cosa, e se quel bravo signore vuole una rendita vitalizia di cinquantamila franchi, vi pago un cesto di bottiglie di vino del mio paese nel caso che voi mi...».

«Dite sul serio?», disse il medico a Rémonencq. «Cinquantamila franchi di rendita vitalizia!... Ma se il buonuomo è così ricco, curato da me e assistito dalla signora Cibot può certamente guarire..., perché le malattie di fegato sono gli inconvenienti dei temperamenti molto forti...».

«Ho detto cinquanta? Ma un signore, lì, sulla soglia del portone, gli ha proposto settecentomila franchi e solo per i quadri!».

A questa dichiarazione di Rémonencq, la Cibot guardò il dottor Poulain in modo strano; il diavolo accendeva un fuoco sinistro nei suoi occhi arancioni.

«Su, non diamo retta a simili stupidaggini», replicò il medico, piuttosto contento di sapere che il suo cliente era in grado di pagare tutte le visite che stava per fargli.

«Signor dottore, se la mia cara signora Cibot, dal momento che il signore è a letto, mi permette di portare il mio esperto, sono sicuro di trovare il denaro in un paio d'ore, 54/166

anche se si trattasse di settecentomila franchi...».

«Bene, amico mio!...», rispose il dottore. «Allora, signora Cibot, evitate di contrariare il malato; dovete armarvi di pazienza, perché ogni cosa lo irriterà, lo stancherà, anche le vostre attenzioni; aspettatevi che niente gli vada bene...».

«Sarà un'impresa difficile», disse la portiera.

«Ascoltatemi bene», continuò il medico con tono autorevole. «La vita del signor Pons è nelle mani di coloro che lo cureranno; così verrò a vederlo tutti i giorni, forse due volte al giorno. Comincerò il mio giro da lui...».

Improvvisamente il medico era passato dall'indifferenza profonda che mostrava per la sorte dei suoi malati poveri alla più affettuosa sollecitudine, essendosi reso conto della reale possibilità della ricchezza di Pons dal tono serio con cui lo speculatore ne aveva parlato.

«Sarà curato come un re», rispose la Cibot con simulato entusiasmo.

La portiera attese che il medico avesse svoltato nella rue Charlot prima di riprendere la conversazione con Rémonencq. Il ferravecchio stava finendo di fumare la sua pipa, la schiena appoggiata allo stipite della porta della bottega. Non aveva preso a caso questa posizione: voleva veder tornare da lui la portiera.

La bottega, un tempo occupata da un caffè, era rimasta tale quale l'alverniate l'aveva trovata quando l'aveva presa in affitto. Si leggeva ancora CAFÈ DE NORMANDIE

sull'insegna che sovrasta le vetrine dei negozi moderni. L'alverniate aveva fatto dipingere, sicuramente gratis, a pennello e con vernice nera, da qualche garzone imbianchino, nello spazio che rimaneva sotto CAFÈ DE NORMANDIE, queste parole: Rémonencq, ferravecchio, compra oggetti d'occasione. Naturalmente tutto il mobilio del Café de Normandie, gli specchi, i tavoli, gli sgabelli, gli scaffali, era stato venduto.

Rémonencq aveva preso in affitto, per seicento franchi, la bottega vuota, il retrobottega, la cucina e una sola camera al mezzanino, dove aveva dormito il primo cameriere, perché l'appartamento annesso al Café de Normandie era stato affittato a parte. Del lusso originario sfoggiato dal venditore di bevande restava soltanto una carta da parati color verde-chiaro, e le forti sbarre di ferro della vetrina con i loro bulloni.

XXIX • ICONOGRAFIA DEL GENERE RIGATTIERE

Arrivato lì nel 1831, dopo la rivoluzione di Luglio, Rémonencq cominciò a esporre campanelli rotti, piatti incrinati, rottami di ferro, vecchie bilance, antichi pesi non più legali dopo la legge sulle nuove misure che lo Stato è l'unico a non osservare, poiché lascia ancora in circolazione le monete da un soldo e da due soldi che risalgono al regno di Luigi XVI. Successivamente questo alverniate, della forza di cinque alverniati, comprò batterie da cucina, vecchie cornici, vecchi utensili di rame, porcellane sbreccate. Poco a poco, a forza di riempirsi e svuotarsi, la bottega somigliò alle farse di Nicolet: il genere delle merci migliorò. Il ferravecchio seguì quella prodigiosa e sicura martingala, i cui effetti risultano evidenti agli occhi dei fannulloni abbastanza filosofi da studiare la progressione crescente dei valori che guarniscono quelle interessanti botteghe. Alla latta, alle lampade, ai cocci seguono cornici e oggetti di rame. Presto la bottega, trasformata per qualche tempo in crostèo, passa allo stadio di museo. Infine, un giorno, la vetrina polverosa si rischiara, l'interno appare restaurato, l'alverniate lascia il fustagno e le giacche per portare la redingote! Assume l'aspetto di un drago a guardia del tesoro; è circondato di capolavori, è diventato un raffinato esperto, ha decuplicato i suoi capitali e non si lascia più ingannare perché 55/166

ormai conosce tutti i trucchi del mestiere. Il mostro è là, come una vecchia in mezzo a venti ragazze che offre al pubblico. La bellezza, i miracoli dell'arte sono indifferenti a quest'uomo astuto e insieme grossolano, che fa bene i suoi conti e tratta male gli ignoranti. Divenuto attore, finge di essere affezionato alle sue tele, ai suoi intarsi, oppure di trovarsi in difficoltà economiche, oppure si inventa i prezzi d'acquisto delle merci e offre di mostrare le fatture. È un proteo: è nello stesso tempo Jocrisse, Janot, Codarossa, Mondor, Arpagone e Nicodemo.

Dopo il terzo anno, si videro da Rémonencq pendole piuttosto belle, armature, quadri antichi; durante le sue assenze faceva custodire la bottega da un'orribile donnona, sua sorella, che dietro sua richiesta era venuta a piedi dal paese. La Rémonencq, una specie d'idiota dallo sguardo vuoto, vestita come un idolo giapponese, non calava di un centesimo il prezzo stabilito dal fratello; era lei a occuparsi delle faccende di casa, risolvendo il problema apparentemente insolubile di vivere delle nebbie della Senna.

Rémonencq e sua sorella si nutrivano di pane e aringhe, bucce, avanzi di legumi raccolti nei mucchi di spazzatura che i ristoratori lasciano accanto ai loro paracarri. In due non spendevano dodici soldi al giorno compreso il pane, e la Rémonencq cuciva o filava per guadagnarli.

Questo inizio dell'attività commerciale di Rémonencq, venuto a Parigi per fare il fattorino, e che dal 1825 al 1831 aveva eseguito commissioni per i negozianti di curiosità del boulevard Beaumarchais e per i calderai della rue de Lappe, è la storia normale di molti negozianti di curiosità. Gli ebrei, i normanni, gli alverniati e i savoiardi, queste quattro razze di uomini hanno gli stessi istinti e fanno fortuna con gli stessi mezzi. Non spendere niente, realizzare piccoli guadagni, e accumulare interessi e guadagni: è questo il loro programma. Ed è un programma che si realizza.

In quel periodo Rémonencq, riconciliatosi col suo antico padrone Monistrol, in rapporto d'affari con grossi commercianti, andava in cerca di anticaglie nei sobborghi di Parigi che, come sapete, si estendono in un raggio di quaranta leghe. Dopo quattordici anni di esperienza, aveva messo insieme una ricchezza di sessantamila franchi e una bottega ben fornita. Senza imprevisti, nella rue de Normandie dove lo tratteneva il modico affitto, vendeva le sue merci ai commercianti, contentandosi di modesti guadagni. Trattava i suoi affari in dialetto alverniate, detto charabia. Quest'uomo carezzava un sogno! Il suo grande desiderio era stabilirsi sui boulevards; voleva diventare un ricco negoziante di curiosità, per trattare un giorno direttamente con gli amatori. Del resto, era un formidabile negoziante. Sul suo volto era rimasto uno strato polveroso, prodotto dalla limatura di ferro e incollato dal sudore, poiché faceva tutto da solo; ciò rendeva la sua fisionomia tanto più impenetrabile in quanto l'abitudine alla fatica fisica l'aveva dotato della stoica impassibilità dei soldati del 1799.

Rémonencq era basso e magro, e gli occhi piccoli, disposti come quelli dei maiali, rivelavano, nelle pupille di un colore azzurro freddo, l'avidità concentrata, l'astuzia sorniona degli ebrei, tranne quella loro apparente umiltà accompagnata da un profondo disprezzo per i cristiani.

I rapporti tra i Cibot e i Rémonencq erano quelli che si stabiliscono tra il benefattore e il beneficato. La Cibot, convinta della estrema povertà dei due alverniati, vendeva loro a prezzi favolosi gli avanzi di Schmucke e di Cibot. I Rémonencq pagavano due centesimi e mezzo una libbra di croste secche e di mollica di pane, un centesimo e mezzo una scodella di patate, e così via. L'astuto Rémonencq faceva credere che non faceva mai affari per proprio conto. Rappresentava sempre Monistrol, e sosteneva di essere una vittima dei ricchi commercianti; così i Cibot compiangevano sinceramente i Rémonencq. In undici anni l'alverniate non aveva ancora consumato la giacca di fustagno, i pantaloni di fustagno e il gilè di fustagno che indossava sempre; ma questi tre indumenti, tipici degli alverniati, erano pieni di toppe, cucite gratis da Cibot. Come possiamo vedere, non tutti gli ebrei sono in Israele.

«Non mi state prendendo in giro, Rémonencq?», chiese la portiera. «Com'è possibile 56/166

che il signor Pons sia così ricco e faccia la vita che fa? Non ha neppure cento franchi!...».

«Gli amatori sono tutti così», rispose con tono sentenzioso Rémonencq.

«Così credete davvero che la sua roba valga settecentomila franchi?...».

«I quadri da soli li valgono... Ne ha uno che se chiedesse cinquantamila franchi li troverei a costo di farmi impiccare. Avete visto quelle piccole cornici di rame smaltato, col velluto rosso e dei ritratti?... Ebbene, sono smalti di Pettitotte per ognuno dei quali il signor ministro del governo, un vecchio droghiere, paga mille scudi...».

«Ce ne sono trenta nelle due cornici!», disse la portiera spalancando gli occhi.

«Ebbene, da questo potete capire quanto vale il suo tesoro».

La Cibot, presa da vertigini, fece un voltafaccia. Le venne subito l'idea di farsi ricordare nel testamento del buon Pons, come tutte le serve-padrone i cui vitalizi suscitavano tante cupidigie nel quartiere del Marais. Immaginando di vivere in un paese nei dintorni di Parigi, già si pavoneggiava in una casa di campagna dove si occupava del pollaio, del giardino, e dove avrebbe finito i suoi giorni, servita come una regina, insieme al povero Cibot che si meritava proprio di star bene, come tutti gli angeli dimenticati, incompresi.

Nel movimento brusco e ingenuo della portiera, Rémonencq vide la certezza di un successo. Nel mestiere del rigattiere (tale è il nome di chi va alla ricerca di oggetti d'occasione e conclude buoni affari con chi non se ne intende), in questo mestiere la difficoltà consiste nel riuscire a introdursi nelle case. Non si possono immaginare le furbizie da Scapino, i tiri da Sganarello e le seduzioni da Dorina che i rigattieri inventano per entrare nelle case dei borghesi. Sono vere commedie da teatro, sempre fondate - come in questo caso - sulla rapacità dei domestici. I domestici, soprattutto in campagna o in provincia, per trenta franchi in denaro o in merci fanno concludere affari in cui il rigattiere realizza guadagni da mille a duemila franchi. C'è un certo servizio di antico Sèvres, pasta tenera, la cui conquista, se venisse raccontata, rivelerebbe tutte le astuzie diplomatiche del congresso di Münster, tutta l'intelligenza messa in campo a Nimega, a Utrecht, a Rijswijck, a Vienna, superate dai rigattieri la cui comicità è assai più franca di quella dei negoziatori. I rigattieri usano dei mezzi d'azione che penetrano tanto profondamente negli abissi dell'interesse personale, quanto quelli ricercati con tanta fatica dagli ambasciatori per determinare la rottura delle alleanze più solide.

«Ho infiammato perbene la Cibot», disse il fratello alla sorella mentre lei si rimetteva a sedere su una sedia spagliata. «Ora vado a sentire cosa ne pensa l'unico che se ne intende, il nostro ebreo, quel caro ebreo che ci ha prestato i soldi solo al quindici per cento!».

Rémonencq aveva letto nel cuore della Cibot. Nelle donne di quella tempra, volere è agire; non indietreggiano dinanzi a nessun mezzo per ottenere il successo; in un attimo passano dalla più completa probità alla più profonda scelleratezza. La probità, come del resto tutti i nostri sentimenti, dovrebbe essere distinta in due probità: una probità negativa e una probità positiva. La probità negativa sarebbe quella dei Cibot, che sono probi finché non si presenta loro l'occasione di arricchirsi. La probità positiva sarebbe quella che resta continuamente in tentazione senza mai cedere, la probità degli esattori.

XXX • DOVE LA CIBOT INIZIA IL PRIMO ATTACCO

Un fiume di malvage intenzioni irruppe nell'intelligenza e nel cuore della portiera 57/166

attraverso la chiusa dell'interesse che si era aperta alle parole diaboliche del rigattiere.

La Cibot salì, anzi volò, per essere esatti, dalla portineria all'appartamento dei suoi due signori e apparve, con un'espressione di falsa tenerezza, sulla soglia della camera dove Pons e Schmucke gemevano. Vedendo entrare la donna di servizio, Schmucke le fece segno di non dire una sola parola, in presenza del malato, sulle vere opinioni del dottore; infatti l'amico, il sublime tedesco, aveva letto negli occhi del dottore. Lei gli rispose con un altro cenno della testa, esprimendo un profondo dolore.

«Ebbene, caro signore, come vi sentite?», chiese la Cibot.

La portiera si fermò ai piedi del letto, i pugni sui fianchi e gli occhi affettuosamente fissi sul malato; ma quali pagliuzze d'oro ne sprizzavano! Un osservatore avrebbe notato che quello sguardo era terribile quanto lo sguardo di una tigre.

«Malissimo!», rispose il povero Pons, «non ho più il minimo appetito. Ah, il mondo! il mondo!», esclamava stringendo la mano di Schmucke che, seduto al capezzale del letto, teneva la mano di Pons e col quale sicuramente il malato stava parlando delle cause della sua malattia. «Avrei fatto meglio, mio buon Schmucke, a seguire i tuoi consigli! Pranzare qui ogni giorno da quando ci siamo incontrati! Rinunciare a quella società che mi passa sopra come un carretto su un uovo, e poi in cambio di che?...».

«Su, mio buon signore, niente lamenti», disse la Cibot, «il dottore mi ha detto la verità...».

Schmucke tirò la portiera per la veste.

«Sì, potete cavarvela, ma avete bisogno di molte cure... State tranquillo, avete con voi n' un buon amico e, senza vantarmi, una donna che vi curerà come una madre cura il suo primo figlio. Ho tirato fuori Cibot da una malattia, che il signor Poulain l'aveva già condannato e, come si dice, gli aveva già buttato il lenzuolo sul naso, lo davano per morto!... Ebbene, voi che grazie a Dio non siete a questo punto, anche se siete piuttosto malato, contate pure su di me... vi tirerò fuori da sola! Ma state calmo, non agitatevi in questo modo».

E sistemò la coperta sulle mani del malato.

«Coraggio, figlio mio», continuò, «il signor Schmucke e io faremo le nottate al vostro capezzale... Sarete assistito meglio di un principe...; e d'altra parte siete abbastanza ricco per non farvi mancare niente di quello che vi serve per curarvi... Sono già d'accordo con Cibot; pover'uomo, come farebbe senza di me!... Ebbene, gli ho fatto capire; vi vogliamo talmente bene che mi permette di restare qui la notte... Eh, per un uomo come lui... è un grande sacrificio... mi ama ancora come il primo giorno. Non so perché... forse la portineria! uno accanto all'altro, sempre!... Ma insomma, non scopritevi!...», disse lanciandosi al capezzale e sistemando le coperte sul petto di Pons. «Se non siete bravo, se non fate perbene tutto quello che ordina il signor Poulain, che è l'immagine del buon Dio in terra, non mi occuperò più di voi... Bisogna obbedirmi...».

«Sì, sighnora Zipod! vi obbedirà», rispose Schmucke, «perché vuole vivere per il suo amico Schmucke, ve lo garantisco».

«E soprattutto non vi spazientite, perché la vostra malattia», disse la Cibot, «vi innervosisce già abbastanza e non c'è nessun bisogno che vi ci mettiate anche voi. È

Dio che ci manda i nostri mali, mio caro signore, e ci punisce per le nostre colpe; non avrete qualche bel peccatuccio da rimproverarvi?...».

Il malato fece segno di no con la testa.

«Oh! andiamo, avrete pur amato in gioventù, avrete avuto le vostre scappatelle, e forse avete da qualche parte un frutto dei vostri amori, magari senza pane, senza fuoco e senza casa... Che mostri gli uomini! Vi amano per un giorno e poi spariscono!

Non pensano più a niente, neppure a pagare la balia!... Povere donne!...».

«Mi hanno voluto bene soltanto Schmucke e la mia povera mamma», disse tristemente il povero Pons.

«Su! non sarete mica un santo! Siete stato giovane, e a vent'anni dovevate essere un 58/166

bel ragazzo... Buono come siete, io vi avrei amato...».

«Sono sempre stato brutto come un rospo!», disse Pons con aria dispiaciuta.

«Parlate così per modestia, perché siete modesto per natura».

«Ma no, cara signora Cibot, ve lo ripeto, sono sempre stato brutto e nessuno mi ha mai amato...».

«Proprio voi!...», disse la portiera. «Ora volete farmi credere che alla vostra età siete una verginella... Ma via! un musicista! un uomo di teatro! Fosse anche una donna a dirmelo, non le crederei».

«Sighnora Zipod! lo farete irritare!», esclamò Schmucke vedendo che Pons si stava contorcendo nel letto come un verme.

«Ma tacete anche voi! Siete due vecchi libertini... Avete voglia a essere brutti, non c'è coperchio talmente brutto da non trovare il suo vaso! come dice il proverbio. Cibot è riuscito a farsi amare da una delle più belle ostricaie di Parigi... e voi siete infinitamente meglio di lui... siete buono, voi!... Andiamo, anche voi avete corso la cavallina! e ora Dio vi punisce per aver abbandonato i vostri figli, come Abramo!...».

Il malato, esausto, trovò la forza per fare ancora un gesto di diniego.

«Ma state tranquillo, tutto questo non vi impedirà di vivere quanto Matusalemme».

«Ma insomma, lasciatemi in pace!», gridò Pons. «Non ho mai saputo cosa volesse dire essere amato!... Non ho avuto figli, e su questa terra sono solo!...».

«Ma è proprio vero?», insisté la portiera. «Siete talmente buono che le donne, che amano la bontà e proprio per questo si affezionano... mi sembra impossibile che ai vostri bei tempi...».

«Portala via!», disse Pons all'orecchio di Schmucke, «mi irrita!».

«Invece il signor Schmucke deve averlo qualche figlio... siete tutti uguali voi vecchi scapoli...».

«Io!», saltò in piedi Schmucke. «Ma...».

«Allora anche voi sareste senza eredi? Tutti e due siete spuntati dalla terra come funghi...».

«Insomma, basta!», rispose Schmucke.

Il buon tedesco prese eroicamente la Cibot per la vita e la spinse in salotto senza ascoltare le sue proteste.

XXXI • UN BELL'ATTO DI CONTINENZA

«Non vorrete abusare di una povera donna, alla vostra età!...», gridava la Cibot dibattendosi tra le braccia di Schmucke.

«Non gridate!».

«Proprio voi, il migliore dei due...», rispose la Cibot. «Ah! ho fatto male a parlare d'amore a due vecchi che non hanno mai toccato una donna! Vi ho messo il fuoco addosso... mostro...», gridò vedendo di occhi di Schmucke, accesi di collera. «Aiuto!

Aiuto! Mi rapiscono!».

«Siete una scema!», rispose il tedesco. «Su, che ha detto il dottore?».

«Mi maltrattate in questo modo...», rispose in lacrime la Cibot, che ora era libera, «io che mi getterei nel fuoco per voi due! Ma bene! si dice che gli uomini si conoscono solo frequentandoli... com'è vero! Il mio povero Cibot non avrebbe mai osato malmenarmi in questo modo... io che vi tratto come se foste figli miei; perché io non ho figli e proprio ieri, sì, non più tardi di ieri, dicevo a Cibot: «Amico mio, Dio sapeva bene quello che faceva negandoci dei figli, perché due figli li ho, al piano di sopra!».

Ecco cosa gli dicevo, per la santa croce di Dio, sull'anima di mia madre...».

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«Sì, ma che ha detto il dottore?», chiese infastidito Schmucke, che per la prima volta in vita sua batté i piedi per terra.

«Ha detto», rispose la Cibot trascinando Schmucke in sala da pranzo, «che il nostro amatissimo tesoro di malato rischia di morire se non viene curato bene: ma io sono qui per questo, malgrado la vostra brutalità; perché voi, che credevo così dolce, invece siete brutale. Bel carattere avete!... Ah! alla vostra età vorreste ancora abusare di una donna, sporcaccione?...».

«Sporcaccione! a me?... Voi non capite che io amo soltanto Bons!».

«Meglio così... mi lascerete in pace...», disse sorridendo a Schmucke. «E sarà meglio perché Cibot romperebbe le ossa a chiunque attentasse al suo onore!».

«Accuditelo bene, mia piccola sighnora Zibod», disse Schmucke cercando di prendere una mano alla Cibot.

«Come!... ancora?...».

«Ascoltatemi dunque! Tutto quello che possiedo sarà vostro, se lo salveremo...».

«Vado dal farmacista a comprare quello che serve. Vi rendete conto, caro signore, che questa malattia costerà... Come farete?...».

«Lavorerò! Voglio che Bons sia curato come un principe...».

«E lo sarà, mio buon signor Schmucke; non preoccupatevi di niente. Cibot ed io abbiamo duemila franchi di risparmi; sono vostri. Del resto, credetemi, è da molto tempo che qui ci metto del mio...».

«Che buona donna!», esclamò Schmucke asciugandosi gli occhi, «che cuore!».

«Asciugatevi quelle lacrime che mi onorano: ecco la miglior ricompensa per me!», disse con tono melodrammatico la Cibot. «Sono la persona più disinteressata al mondo; ma non entrate da lui con le lacrime agli occhi... il signor Pons potrebbe credere di essere più malato di quanto non sia».

Schmucke, commosso da tanta delicatezza, prese una mano alla Cibot e la strinse.

«Risparmiatemi!», disse l'ex ostricaia rivolgendo a Schmucke uno sguardo tenero.

«Bons», disse il buon tedesco rientrando nella camera, «la sighnora Zibod è un angelo, un angelo chiacchierone ma un angelo».

«Credi?... Da un mese a questa parte sono diventato diffidente», rispose il malato scuotendo la testa. «Dopo tutte le mie sventure, credo soltanto a Dio e a te!...».

«Guarisci, e vivremo tutti e tre come dei re!», esclamò Schmucke.

«Cibot!», disse la portiera mentre entrava, ansimante, nella portineria. «Amico mio, siamo ricchi! I miei due signori non hanno eredi né figli naturali, niente di niente!...

Oh! vado dalla Fontaine a farmi fare le carte per sapere quanto avremo di rendita!...».

«Moglie», rispose il piccolo sarto, «non contiamo sulle scarpe di un morto per essere ben calzati».

«Vuoi farmi arrabbiare?», rispose lei dando un colpetto affettuoso a Cibot. «So quello che so! Il signor Poulain ha dato per spacciato il signor Pons! E noi saremo ricchi! Mi metterà nel testamento... Ci penso io. Tu pensa a cucire e bada alla portineria, ma non farai ancora per molto questo mestiere! Ci ritireremo in campagna, a Batignolles.

Una bella casa, un bel giardino che ti divertirai a coltivare, e io avrò una serva!...».

«Allora, vicina, come sta andando lassù?», chiese Rémonencq. «Avete saputo quanto vale la collezione?».

«No, non ancora! Non è così che bisogna fare, buonuomo. Per quanto mi riguarda, ho cominciato col farmi dire delle cose più importanti...».

«Più importanti!», esclamò Rémonencq. «Ma cosa c'è di più importante di quello?».

«Su, birichino! lasciami guidare la barca», disse la portiera con tono autoritario.

«Col trenta per cento su settecentomila franchi, avreste di che vivere da signori per il resto della vostra vita...».

«State tranquillo, papà Rémonencq; quando sarà il momento di sapere quanto vale tutta quella roba messa insieme dal brav'uomo, vedremo...».

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XXXII • TRATTATO DI SCIENZE OCCULTE

E la portiera, dopo essere andata dal farmacista a prendere le medicine ordinate dal dottor Poulain, rinviò al giorno dopo la visita alla signora Fontaine, pensando che avrebbe trovato più fresche e più chiare le facoltà dell'oracolo se ci fosse andata di buon mattino, prima degli altri; perché c'è spesso molta gente dalla signora Fontaine.

Dopo essere stata per quarant'anni l'antagonista della celebre signorina Lenormand, cui era sopravvissuta, a quell'epoca la signora Fontaine era l'oracolo del Marais. Non si può immaginare cosa significano le cartomanti per le classi inferiori parigine e l'enorme influenza che esercitano sulle decisioni delle persone prive di istruzione; infatti le cuoche, le portiere, le mantenute, gli operai, tutti coloro che a Parigi vivono di speranze, consultano quegli esseri privilegiati che possiedono lo strano e inspiegabile potere di leggere il futuro. La credenza nelle scienze occulte è molto più diffusa di quanto non credano gli scienziati, gli avvocati, i notai, i medici, i magistrati e i filosofi. Il popolo ha istinti indelebili. Tra questi istinti, quello che così stupidamente è chiamato superstizione si trova tanto nel sangue del popolo quanto nello spirito delle classi superiori. Più di un uomo di Stato, a Parigi, consulta le cartomanti. Per gli increduli, l'astrologia giudiziaria (alleanza di parole eccessivamente bizzarra) non è altro che lo sfruttamento di un sentimento innato, uno dei più forti della nostra natura, la curiosità. Gli increduli negano dunque completamente i rapporti che la divinazione instaura tra il destino umano e la configurazione che se ne ottiene attraverso i sette o otto mezzi principali che compongono l'astrologia giudiziaria. Ma alle scienze occulte è riservata la stessa sorte di tanti fenomeni naturali rifiutati dagli spiriti forti o dai filosofi materialisti, cioè da quanti si attengono unicamente ai fatti visibili, solidi, ai risultati della storta o delle bilance della fisica e della chimica moderne; eppure esistono e continuano la loro strada, sia pure senza alcun progresso dal momento che da circa due secoli le intelligenze superiori ne hanno abbandonato lo studio.

Guardando soltanto alla possibilità della divinazione, credere che gli avvenimenti anteriori della vita di un uomo, che i segreti noti a lui soltanto possano essere immediatamente rappresentati dalle carte che l'indovino mischia e poi scopre e divide in mucchietti secondo leggi misteriose, è assurdo; ma è lo stesso assurdo che condannava il vapore, che ancora condanna la navigazione aerea, che condannava le invenzioni della polvere da sparo e della stampa, quella degli occhiali, dell'incisione, e l'ultima grande scoperta della dagherrotipia. Se qualcuno fosse andato a dire a Napoleone che un edificio e un uomo sono continuamente e in ogni istante rappresentati da un'immagine nell'atmosfera, che tutti gli oggetti esistenti vi hanno uno spettro afferrabile, percepibile, l'imperatore avrebbe fatto rinchiudere quest'uomo a Charenton, come Richelieu rinchiuse Salomon de Caux a Bicêtre quando il martire normanno gli portò l'immensa conquista della navigazione a vapore. La stessa cosa è accaduta a Daguerre con la sua scoperta! Ebbene, se Dio ha impresso, per certi occhi chiaroveggenti, il destino di ogni uomo nella sua fisionomia, prendendo questa parola come l'espressione totale del corpo, perché mai la mano non potrebbe riassumere la fisionomia, dal momento che la mano è l'azione umana e l'unico suo mezzo di espressione? Da qui nasce la chiromanzia. La società non imita forse Dio? Predire a un uomo gli avvenimenti della sua vita in base all'aspetto della mano non è un fatto più straordinario, per chi ha ricevuto le facoltà del veggente, del dire a un soldato che combatterà, a un avvocato che parlerà, a un calzolaio che farà delle scarpe e degli stivali, a un coltivatore che concimerà la terra e la lavorerà. Prendiamo un esempio 61/166

evidente. Il genio è talmente visibile nell'uomo che, passeggiando per Parigi, anche le persone più ignoranti sanno riconoscere un grande artista solo a vederlo passare. È

una sorta di sole morale i cui raggi colorano ogni cosa al suo passaggio. Un imbecille non si riconosce forse immediatamente per delle impressioni opposte a quelle suscitate dall'uomo di genio? Un uomo ordinario passa quasi inosservato. La maggior parte degli osservatori della natura sociale e parigina può indovinare la professione di un passante dal suo solo aspetto. Oggi i misteri del sabba, così ben dipinti dai pittori del XVI secolo, non sono più dei misteri. Le egiziane e gli egiziani, padri degli zingari, strana nazione venuta dalle Indie, facevano prendere dell'hascisc ai loro clienti. I fenomeni provocati da quest'impasto spiegano perfettamente le cavalcate sulle scope, le fughe su per i camini, le visioni reali, per così dire, delle vecchie trasformate in giovani, le danze furibonde e le musiche deliziose che componevano le fantasie dei pretesi adoratori del diavolo.

Oggi, sono talmente tanti i fatti verificati, veri, nati dalle scienze occulte, che un giorno queste scienze saranno professate come si professa la chimica e l'astronomia.

È anzi singolare che mentre a Parigi vengono istituite delle cattedre di slavo, di manciù, di letterature assai poco professabili come le letterature del Nord, e i cui titolari ripetono sempre le stesse cose su Shakespeare o sul XVI secolo, non sia stato ristabilito, sotto il nome di antropologia, l'insegnamento della filosofia occulta, una delle glorie dell'antica Università. In questo, la Germania, paese nello stesso tempo così grande e così infantile, ha preceduto la Francia: lì si professa quella scienza, assai più utile delle diverse FILOSOFIE, che sono tutte la stessa cosa.

Che certe persone abbiano il potere di vedere il futuro nel germe delle cause, come il grande inventore intravede un'industria, una scienza in un fenomeno naturale di cui una persona comune non si accorge, non è più un'eccezione clamorosa; è l'effetto di una facoltà riconosciuta, e che sarebbe in un certo senso il sonnambulismo dello spirito. Se un concetto del genere, sul quale si basano le diverse maniere di decifrare il futuro, sembra assurdo, il fatto comunque esiste.

Considerate che predire i grandi eventi del futuro non costituisce per il veggente uno sforzo più straordinario di quello d'indovinare il passato. Il passato, il futuro, per gli increduli sono egualmente inconoscibili. Se gli eventi accaduti hanno lasciato delle tracce, è verosimile immaginare che gli eventi futuri abbiano le loro radici. Colui che vi annuncia la buona sorte, dal momento in cui vi spiega dettagliatamente i fatti che voi soli conoscete, nella vostra vita precedente, può anche predirvi gli avvenimenti che saranno prodotti da cause esistenti. Il mondo morale è tagliato, per così dire, sul modello del mondo naturale; vi si devono ritrovare gli stessi effetti, con le differenze specifiche dei loro diversi ambienti. Così, proprio come i corpi si proiettano realmente nell'atmosfera lasciandovi sussistere quello spettro còlto dal dagherrotipo al suo passaggio, le idee, creazioni reali e operanti, s'imprimono in quella che è opportuno definire l'atmosfera del mondo spirituale, vi producono degli effetti, vi vivono spettralmente (è necessario forgiare termini nuovi per indicare fenomeni che ancora non hanno nome), e allora certe creature dotate di facoltà rare possono vedere perfettamente quelle forme o quelle tracce di idee.

Quanto ai mezzi impiegati per ottenere le visioni, questa è la meraviglia che meglio si spiega, perché è la mano del cliente a disporre gli oggetti con i quali gli si fanno rappresentare i casi della vita. In effetti, nel mondo reale tutto è concatenato. Ogni movimento vi corrisponde a una causa, e ogni causa si collega all'insieme; di conseguenza l'insieme si rappresenta nel più piccolo movimento. Rabelais, il più grande spirito dell'umanità moderna, l'uomo nel quale rivivevano Pitagora, Ippocrate, Aristofane e Dante, ha detto tre secoli fa: «L'uomo è un microcosmo». Un secolo dopo, Swedenborg, il grande profeta svedese, diceva che la terra era un uomo. Il profeta e il precursore dell'incredulità s'incontravano così nella più grande delle formule. Nella vita umana tutto è fatale, come nella vita del nostro pianeta. I più 62/166

piccoli casi, i più futili, vi sono subordinati. Dunque le grandi cose, i grandi progetti, i grandi pensieri si riflettono necessariamente nelle più piccole azioni, e con una tale fedeltà che, se un cospiratore mischia e alza le carte, in esse scriverà il segreto della sua cospirazione per il veggente chiamato zingaro, ciarlatano, colui che annuncia la buona sorte, ecc. Ammettendo la fatalità, cioè il concatenamento delle cause, è inevitabile riconoscere il valore dell'astrologia, che torna ad essere ciò che era un tempo: una scienza immensa, caratterizzata dalla facoltà di dedurre che rese Cuvier tanto grande; ma spontanea, invece di essere esercitata, come nel caso di quel genio, nelle notti studiose del laboratorio.

L'astrologia, la divinazione, ha regnato per sette secoli non come oggi sulla gente del popolo ma sulle intelligenze migliori, sui sovrani, sulle regine e sui ricchi. Una delle più grandi scienze dell'antichità, il magnetismo animale, è nata dalle scienze occulte, come la chimica dai fornelli degli alchimisti. Anche la craniologia, la fisiognomica e la neurologia sono scaturite dalle scienze occulte; e gli illustri creatori di queste scienze apparentemente nuove hanno avuto un solo torto, quello di ogni inventore, che consiste nel sistematizzare perfettamente dei fatti isolati la cui causa generatrice sfugge ancora all'analisi. Un giorno la Chiesa cattolica e la filosofia moderna si sono trovate d'accordo con la giustizia per proscrivere, perseguitare, ridicolizzare i misteri della cabala nonché i suoi adepti; ne è derivata una deprecabile lacuna di cento anni nel dominio e nello studio delle scienze occulte. Comunque sia, il popolo e molte persone intelligenti, soprattutto le donne, continuano a pagare il loro contributo al misterioso potere di coloro che possono sollevare il velo del futuro; da loro vanno a comprare un po' di speranza, di coraggio, di forza, cioè quello che solo la religione può dare. Così questa scienza è ancora praticata, non senza qualche rischio. Oggi gli stregoni, al riparo da ogni tortura grazie alla tolleranza di cui siamo debitori agli enciclopedisti del XVIII secolo, sono soggetti alla sola polizia correzionale, e solo nel caso in cui si dedichino a operazioni fraudolente, quando spaventano i loro clienti per estorcere del denaro, il che costituisce una frode. Sventuratamente la frode e spesso il delitto accompagnano l'esercizio di questa sublime facoltà. Vediamo perché.

I mirabili doni che distinguono il veggente si trovano, generalmente, in quegli individui cui viene affibbiato l'epiteto di «bruti». Questi bruti sono i vasi prediletti nei quali Dio ripone gli elixir che sorprendono l'umanità. Da questi bruti provengono i profeti, i san Pietro, i Pietro l'Eremita. Ogni volta che il pensiero mantiene la propria totalità integra, e non si disperde in chiacchiere, intrighi, opere letterarie, fantasie di scienziati, sforzi politici, congetture d'inventori, servizi militari, è in grado di emanare fuochi di un'intensità prodigiosa, come il brillante mantiene lo splendore delle proprie sfaccettature. Si presenti un'occasione propizia! Subito quell'intelligenza si accenderà, avrà ali per superare le distanze, occhi divini per vedere tutto: ieri era un carbone; il giorno dopo, sotto il getto del fluido sconosciuto che l'attraversa, sarà un diamante splendente. Le persone delle classi superiori, esperte nell'uso della loro intelligenza, non possono mai presentare questo potere supremo, a meno che non si tratti di uno di quei miracoli che tavolta Dio si concede. Per questo gli indovini e le indovine sono quasi sempre dei mendicanti o delle mendicanti di spirito ingenuo, esseri dall'aspetto grossolano, ciottoli rotolati nei torrenti della miseria, nei sentieri della vita, dove non hanno speso nient'altro che sofferenze fisiche. Il profeta, il veggente è insomma quel Martino il contadino che fece tremare Luigi XVIII dicendogli un segreto che solo il re poteva conoscere; è una signorina Lenormand, una cuoca come la signora Fontaine, una negra quasi idiota, un pastore che vive con le sue bestie con le corna, un fachiro che se ne sta seduto accanto a una pagoda e, mortificando la carne, fa entrare in contatto il suo spirito con il grande potere sconosciuto delle facoltà sonnamboliche.

È in Asia che in ogni epoca si sono trovati gli eroi delle scienze occulte. Spesso, nello stato ordinario, restano ciò che sono, assolvendo in qualche modo le funzioni chimiche e fisiche dei corpi conduttori di elettricità, di volta in volta metalli inerti o canali pieni 63/166

di fluidi misteriosi; costoro, tornati in sé, si dedicano a pratiche, a progetti che li portano dritti alla polizia correzionale o, come il famoso Balthazar, in corte d'assise e al bagno penale. Infine, e questo dimostra l'immenso potere che la cartomanzia esercita sul popolo, la vita o la morte del povero musicista dipendevano dall'oroscopo che la signora Fontaine avrebbe letto alla Cibot.

Benché certe ripetizioni siano inevitabili in una narrazione così ampia e piena di dettagli come una storia completa della società francese nel XIX secolo, è inutile descrivere il tugurio della signora Fontaine, già descritto nei Commedianti senza saperlo. È tuttavia necessario notare che la Cibot entrò dalla signora Fontaine, che abita in rue Vieille-du-Temple, allo stesso modo in cui un frequentatore abituale del Café Anglais entra in quel ristorante per cenare. La Cibot, antica cliente, vi portava spesso ragazze e comari divorate dalla curiosità.

XXXIII • IL GRANDE GIOCO

La vecchia domestica che faceva da assistente alla cartomante aprì la porta del santuario senza avvisare la padrona.

«È la signora Cibot!... Entrate», aggiunse, «non c'è nessuno».

«Ebbene, piccola mia, che vi è successo per venire così presto?», chiese la strega.

La signora Fontaine, che allora aveva sessantotto anni, meritava di essere chiamata in questo modo per il suo aspetto degno di una Parca.

«Ho il sangue in subbuglio, fatemi il grande gioco», esclamò la Cibot, «si tratta della mia fortuna».

E spiegò la situazione in cui si trovava, chiedendo una predizione per la sua sordida speranza.

«Ma voi sapete cos'è il grande gioco?», disse solennemente la signora Fontaine.

«No, non sono abbastanza ricca per essermi potuta permettere questo lusso!... Cento franchi! scusate se è poco! E dove li avrei presi? Ma oggi mi serve!».

«Non lo faccio spesso, piccola», rispose la signora Fontaine, «lo faccio ai ricchi solo nelle grandi occasioni, e me lo pagano venticinque luigi; perché mi stanca, mi esaurisce! Lo Spirito mi smuove tutto lo stomaco. È come andare al sabba, come si diceva una volta!».

«Ma vi dico, mia cara signora Fontaine, che si tratta del mio avvenire...».

«Insomma, per voi che venite tante volte mi lascerò andare allo Spirito!», rispose la signora Fontaine mentre sul suo volto decrepito appariva un'espressione di terrore che non era simulata.

Si alzò dalla sua vecchia poltrona unta e bisunta, all'angolo del camino, e andò verso il tavolo coperto da un tappeto verde di cui si potevano contare tutti i fili della logora trama e sul quale, sulla sinistra, dormiva un rospo gigantesco, accanto a una gabbia aperta e abitata da una gallina dalle penne arruffate.

«Astaroth! qui, figlio mio!», disse dando un colpetto con un lungo ferro da calza sul dorso del rospo, che la guardò con un'espressione intelligente. «E voi, madamigella Cleopatra!... attenzione!», continuò, dando un colpetto sul becco della vecchia gallina.

La signora Fontaine si concentrò rimanendo immobile per qualche istante; allora prese l'aspetto di una morta, i suoi occhi si rovesciarono all'indietro e divennero bianchi; poi s'irrigidì e disse con voce cavernosa: «Sono qui!».

Dopo aver sparpagliato automaticamente un po' di miglio per Cleopatra, prese il mazzo delle carte grandi, lo mischiò convulsamente e lo fece alzare dalla Cibot, emettendo sospiri profondi. Quando quest'immagine della Morte in turbante sudicio, in casacca sinistra, scrutò i chicchi di miglio che la gallina stava beccando, e disse al rospo Astaroth di camminare sulle carte sparse, la Cibot sentì un brivido freddo nella 64/166

schiena e trasalì. Solo le grandi credenze danno grandi emozioni. Avere o non avere rendite, questo era il problema, ha detto Shakespeare.

Dopo setto o otto minuti durante i quali aprì un libro di magia e vi lesse delle parole con voce sepolcrale, ed esaminò i chicchi rimasti e il percorso compiuto dal rospo mentre si ritirava, la strega decifrò il significato delle carte concentrandovi gli occhi bianchi.

«Sì, riuscirete! anche se in questa faccenda niente andrà come voi credete», disse.

«Dovreste darvi da fare. Ma raccoglierete il frutto delle vostre fatiche. Vi comporterete molto male, come tutti coloro che assistono i malati sperando di avere una parte dell'eredità. In quest'opera malefica sarete aiutata da alcuni personaggi ragguardevoli... Più tardi, vi pentirete nelle angosce della morte, perché morirete assassinata da due forzati evasi, uno piccolo con i capelli rossi e uno vecchio completamente calvo, a causa della ricchezza che vi sarà attribuita nel villaggio dove vi sarete ritirata col vostro secondo marito... Figlia mia, siete libera di agire o di starvene tranquilla».

L'esaltazione interiore che aveva acceso due torce negli occhi cavi di quello scheletro apparentemente così freddo cessò. Pronunciato l'oroscopo, la signora Fontaine fu come abbagliata e sembrò del tutto simile ai sonnambuli quando vengono svegliati; si guardò intorno con aria stupita; poi riconobbe la Cibot e parve sorpresa di vederla in preda all'orrore che le si leggeva sul volto.

XXXIV • UN PERSONAGGIO DEI RACCONTI DI HOFFMANN

«Allora, figlia mia», disse con una voce del tutto diversa da quella con cui aveva profetizzato, «siete contenta?...».

La Cibot guardò la strega con un'aria inebetita, senza riuscire a rispondere.

«Ah! avete voluto il grande gioco! Vi ho trattata come una vecchia conoscenza.

Datemi soltanto cento franchi...».

«Cibot deve morire?...», esclamò la portiera.

«Vi ho dunque detto delle cose tanto terribili?...», chiese ingenuamente la signora Fontaine.

«Ma sì!...», disse la Cibot, tirando fuori di tasca cento franchi e posandoli sul bordo del tavolo, «morire assassinata!...».

«Eh già, voi volete il grande gioco!... Ma consolatevi, tutte le persone assassinate nelle carte non muoiono».

«Ma è possibile, signora Fontaine?».

«Ah, piccola bella, che posso saperne io? Avete voluto bussare alla porta dell'avvenire, io ho tirato il cordone, ecco tutto, e lui è venuto!».

«Chi lui?», chiese la Cibot.

«Ma lo Spirito, no?», rispose la strega spazientita.

«Addio signora Fontaine!», esclamò la portiera. «Non lo conoscevo il grande gioco; mi avete messo una gran paura!...».

«La signora non si mette mai più di una volta al mese in quello stato!», disse la serva accompagnando la portiera sul pianerottolo. «È faticosissimo, ne potrebbe morire. Ora deve mangiarsi una bistecca e dormire per tre ore...».

In strada, camminando, la Cibot fece quello che fa chiunque abbia consultato qualcuno ottenendone un qualsivoglia responso. Credette a quanto la profezia offriva di favorevole ai suoi interessi, e dubitò delle sventure annunciate. L'indomani, rassicurata nei suoi propositi, già pensava al modo di diventare ricca facendosi dare 65/166

una parte del museo Pons. Così per un po' di tempo non ebbe altri pensieri che quello di trovare il modo di riuscirci. Il fenomeno appena spiegato, quello della concentrazione delle forze morali in tutte le persone grossolane che, non consumando le loro facoltà intellettuali, come le persone delle classi superiori, con un dispendio quotidiano, trovano tali energie forti e potenti nel momento in cui agisce nel loro spirito quell'arma paurosa che è chiamata «idea fissa», si manifestò nella Cibot a un grado elevato. Proprio come l'idea fissa produce i miracoli delle evasioni e i miracoli dei sentimenti, la portiera, sostenuta dalla cupidigia, diventò forte quanto un Nucingen senza una lira, e ingegnosa, sotto la sua stupidità, quanto il seducente La Palférine.

Qualche giorno dopo, verso le sette del mattino, vedendo Rémonencq che stava aprendo la bottega, andò da lui con un'aria da gattamorta.

«Come si può fare per sapere quanto vale veramente tutta quella roba che è su dai miei padroni?», gli chiese.

«Ah! è facilissimo», rispose il negoziante di curiosità nel suo spaventoso linguaggio incomprensibile, che per la chiarezza del racconto è meglio non riprodurre. «Se volete giocare a carte scoperte con me, vi indicherò uno stimatore, onestissimo, che conosce il valore dei quadri quasi al centesimo...».

«Chi?».

«Il signor Magus, un ebreo che ormai fa affari soltanto per il suo piacere».

Élie Magus, il cui nome è troppo noto nella COMMEDIA UMANA perché sia necessario parlare di lui, si era ritirato dal commercio dei quadri e delle curiosità, imitando, da commerciante, la scelta adottata da Pons come amatore. I celebri stimatori: il defunto Henry, i signori Pigeot e Moret, Théret, Georges e Roëhn, gli esperti del Museo...

erano tutti dei ragazzi al confronto con Élie Magus, che indovinava un capolavoro sotto una crosta centenaria, che conosceva tutte le scuole e le firme di ogni pittore.

Questo ebreo, venuto a Parigi da Bordeaux, aveva lasciato il commercio nel 1835, conservando il suo aspetto miserabile, secondo le abitudini della maggior parte degli ebrei, tanto quella razza è fedele alle sue tradizioni. Nel medioevo la persecuzione costringeva gli ebrei a vestirsi di stracci per sviare i sospetti, a lamentarsi sempre, a piagnucolare, a pianger miseria. Queste necessità di altri tempi sono divenute, come sempre, un istinto comune, un vizio endemico. Élie Magus, a forza di comprare diamanti e di rivenderli, di commerciare in quadri e merletti, in rarità di pregio, smalti, sculture raffinate e vecchie oreficerie, possedeva una fortuna immensa, sconosciuta, accumulata con questo genere di commercio, divenuto tanto importante. In effetti il numero dei mercanti d'arte è decuplicato in vent'anni a Parigi, la città dove tutte le curiosità del mondo si ritrovano insieme. Quanto ai quadri, si vendono in tre sole città: Roma, Londra e Parigi.

Élie Magus viveva in chaussée des Minimes, breve e larga via che porta in place Royale, dove possedeva un vecchio palazzo comprato nel 1831 per un pezzo di pane, come si dice. Quella magnifica costruzione conteneva uno dei più fastosi appartamenti decorati del periodo di Louis XV, poiché si trattava dell'antico palazzo Moulaincourt.

Costruito dal celebre presidente della corte dei tribunali, il palazzo, grazie alla sua posizione non era stato devastato durante la Rivoluzione. Se il vecchio ebreo si era deciso, contro le leggi israelite, a diventare proprietario, credete pure che aveva le sue buone ragioni. Il vecchio faceva la fine di tutti noi, preso da una mania spinta fino alla follia. Nonostante fosse avaro quanto il suo amico Gobseck, si lasciò conquistare dall'ammirazione per i capolavori in cui commerciava; ma il suo gusto, sempre più sofisticato, sempre più difficile, era diventato una di quelle passioni che sono concesse solo ai re, quando sono ricchi e amano le arti. Simile al secondo re di Prussia, che si entusiasmava per un granatiere soltanto quando il soggetto raggiungeva i sei piedi di altezza, e allora spendeva somme folli per aggiungerlo al suo museo vivente di granatieri, il mercante in ritiro si appassionava soltanto per tele impeccabili, rimaste tali quali il maestro le aveva dipinte, e ritenute di prim'ordine nella sua produzione.

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Così Élie Magus non mancava a una sola delle grandi vendite, visitava tutti i mercati, e viaggiava per l'intera Europa. Quest'anima votata al lucro, fredda come il ghiaccio, si riscaldava alla vista di un capolavoro, esattamente come un libertino, stanco di donne, si commuove davanti a una fanciulla perfetta, e si dedica alla ricerca di bellezze senza difetti. Questo don Giovanni delle tele, questo adoratore dell'ideale, trovava in tale ammirazione dei godimenti superiori a quelli che la contemplazione dell'oro procura all'avaro. Viveva in un serraglio di bei quadri!

I capolavori, sistemati come si conviene ai figli dei principi, occupavano l'intero primo piano del palazzo che Élie Magus aveva fatto restaurare, e con quale splendore! Alle finestre pendevano, come tende, i più bei broccati d'oro di Venezia. Sui pavimenti erano stesi i più magnifici tappeti della Savonnerie. I quadri, circa cento, erano incorniciati nelle cornici più splendide, magistralmente ridorate dal solo doratore di Parigi che Élie considerava coscienzioso, da Servais, cui il vecchio ebreo aveva insegnato a dorare con l'oro inglese, infinitamente superiore a quello dei battiloro francesi. Nell'arte della doratura, Servais equivale a ciò che era nell'arte della rilegatura Thouvenin, un artista innamorato delle sue opere. Le finestre dell'appartamento erano protette da imposte rinforzate di lamiera. Élie Magus abitava in due stanze a soffitta, al secondo piano, ammobiliate miseramente, piene dei suoi stracci che sapevano di ebreo, poiché finiva di vivere come sempre aveva vissuto.

Il pianterreno, interamente occupato dai quadri che l'ebreo continuava a comprare, dalle casse venute dall'estero, conteneva uno studio immenso dove lavorava quasi esclusivamente per lui Moret, il più abile dei nostri restauratori di quadri, uno di quelli che dovrebbero essere impiegati dal Museo. Lì si trovava anche l'appartamento della figlia, il frutto della sua vecchiaia, un'ebrea, bella come tutte le ebree quando il tipo asiatico riappare puro e nobile in loro. Noémi, accudita da due serve fanatiche ed ebree, aveva come avanguardia un ebreo polacco di nome Abramko, compromesso, per un caso incredibile, negli avvenimenti di Polonia, e che Élie Magus aveva salvato per ragioni speculative. Abramko, portiere di quel palazzo muto, triste e deserto, occupava una portineria armata di tre cani di una notevole ferocia: uno di Terranova, uno dei Pirenei e il terzo inglese, un mastino.

Su queste osservazioni profonde si basava la sicurezza dell'ebreo, che viaggiava senza alcun timore, dormiva tra due guanciali, e non temeva nessun attentato alla figlia, il suo più grande tesoro, né ai suoi quadri, né al suo oro. Abramko riceveva ogni anno duecento franchi in più dell'anno precedente, e non doveva ricevere più nulla alla morte di Magus, che lo addestrava a esercitare l'usura nel quartiere. Abramko non apriva mai a nessuno senza aver prima guardato da uno spioncino con griglia, robustissimo. Questo portiere, di una forza erculea, adorava Magus come Sancio Panza adora Don Chisciotte. I cani, chiusi durante il giorno, non ricevevano cibo; ma la notte Abramko li scioglieva, ed erano condannati dall'astuto calcolo del vecchio a stare fermi, uno nel giardino ai piedi di un palo in cima al quale era appeso un pezzo di carne; l'altro nel cortile, ai piedi di un palo simile; e il terzo nella grande sala del pianterreno. Comprenderete che i cani, che già per istinto facevano la guardia alla casa, erano vigilati dalla loro fame; non avrebbero mai lasciato il loro posto ai piedi dell'albero della cuccagna, neppure per la cagna più bella; non se ne allontanavano mai per nessuna ragione. Se appariva uno sconosciuto, tutti e tre i cani s'immaginavano che il quidam volesse mettere le mani sul cibo che gli veniva dato al mattino, quando Abramko si svegliava. Questo sistema infernale presentava un vantaggio immenso. I cani non abbaiavano mai, il genio di Magus li aveva resi selvaggi, erano diventati sornioni come dei mohicani. Ora, ecco cosa accadde. Un giorno dei malfattori, incoraggiati da tutto quel silenzio, pensarono con molta leggerezza di dare una ripassata alla cassa dell'ebreo. Uno di loro, col compito di dare l'assalto per primo, scavalcò il muro del giardino e scese dall'altra parte; il mastino l'aveva lasciato fare, lo aveva sentito perfettamente; ma appena il piede di quel 67/166

signore fu alla portata dei suoi denti, glielo staccò di netto e se lo mangiò. Il ladro trovò il coraggio di oltrepassare di nuovo il muro e camminò sull'osso della gamba finché non cadde svenuto tra le braccia dei suoi compagni, che lo portarono via.

Questo delizioso episodio delle notti parigine, che la «Gazette des Tribunaux» non mancò di riferire, fu considerato una fandonia.

Magus, che allora aveva settantacinque anni, poteva arrivare ai cento. Ricco, viveva come vivevano i Rémonencq. Tremila franchi, comprese le prodigalità nei confronti della figlia, coprivano tutte le sue spese.

XXXV • DOVE SI VEDE CHE GLI ESPERTI DI PITTURA NON SONO TUTTI DELL'ACCADEMIA DI BELLE ARTI

Nessuna esistenza era più regolare di quella del vecchio. Si alzava all'alba, mangiava un po' di pane sfregato con l'aglio, e con questa colazione arrivava fino all'ora di pranzo. Il pranzo, di una frugalità monacale, veniva consumato in famiglia. Da quando si alzava fino a mezzogiorno il maniaco passava il suo tempo ad aggirarsi per l'appartamento tra i suoi capolavori. Spolverava ogni cosa, mobili e quadri, senza stancarsi di ammirare tutto; poi scendeva dalla figlia, si inebriava della felicità dei padri, e poi usciva per le sue commissioni attraverso Parigi, controllando le vendite all'incanto, visitando le esposizioni, ecc. Quando un capolavoro presentava i requisiti che lui ricercava, allora la vita di quell'uomo si animava: ora aveva un colpo da mettere a punto, un affare da concludere, una battaglia di Marengo da vincere.

Elaborava astuzie su astuzie per entrare in possesso della sua nuova sultana a buon mercato. Magus aveva una sua carta d'Europa, una carta in cui erano segnati i capolavori, e incaricava i suoi correligionari in ogni parte del mondo di seguire l'affare per suo conto, in cambio di una percentuale. Ma quali ricompense dopo tanta fatica!...

I due quadri di Raffaello andati perduti e cercati con tanta tenacia dai raffaellisti, li ha Magus! Possiede l'originale dell'Amante di Giorgione, la donna per cui quel pittore è morto, e i pretesi originali sono copie di questa celebre tela, che secondo la stima di Magus vale cinquecentomila franchi. Quest'ebreo conserva il capolavoro di Tiziano, La deposizione, quadro dipinto per Carlo V, che fu inviato dal grande uomo al grande imperatore, accompagnato da una lettera interamente autografa di Tiziano, e questa lettera è incollata in basso, sotto la tela. Dello stesso pittore possiede l'originale, il bozzetto, a partire dal quale sono stati eseguiti tutti i ritratti di Filippo II. Gli altri novantasei quadri sono tutti di quest'importanza e di questa preziosità. Così Magus se la ride del nostro Museo devastato dal sole che, attraverso i vetri la cui azione equivale a quella delle lenti, corrode le tele più belle. Le gallerie di quadri devono essere illuminate solo dal soffitto. Magus chiudeva e apriva lui stesso le imposte del suo museo, trattando i quadri con la stessa cura e cautela che riservava alla figlia, il suo altro idolo! Ah! il vecchio quadromane conosceva bene le leggi della pittura!

Secondo lui, i capolavori avevano una vita propria, quotidiana, e la loro bellezza dipendeva dalla luce che dava loro il colore; ne parlava come gli olandesi parlavano un tempo dei loro tulipani, e andava a guardare il tal quadro nell'ora in cui il capolavoro risplendeva in tutta la sua gloria, quando il tempo era sereno e puro.

E tra quei quadri immobili era un quadro vivente quel vecchietto, vestito con una brutta redingote, un decennale gilè di seta, pantaloni lerci, la testa calva, il volto scavato, la barba nervosa e saettante i suoi peli bianchi, il mento minaccioso e aguzzo, la bocca in disarmo, l'occhio brillante come quello dei suoi cani, le mani ossute e scarne, il naso a obelisco, la pelle rugosa e fredda, mentre sorrideva a quelle 68/166

belle creazioni del genio! Un ebreo, in mezzo a tre milioni di persone, sarà sempre uno degli spettacoli più belli che l'umanità possa offrire. Robert Médal, il nostro grande attore, non potrà mai, per quanto sia sublime, raggiungere una tale vetta poetica.

Parigi è la città del mondo che dà rifugio al maggior numero di originali di questo tipo, che hanno una religione nel cuore. Gli eccentrici di Londra finiscono sempre per disgustarsi delle loro adorazioni, come si stancano di vivere; mentre a Parigi i monomani vivono con la loro fantasia in un felice concubinaggio spirituale. Vi capiterà spesso di incontrarvi dei Pons, degli Élie Magus vestiti assai miseramente, il naso come quello del segretario perpetuo dell'Académie Française, ad ovest!, con l'aria di non tenere a niente, di non sentire niente, di non prestare alcuna attenzione alle donne, ai negozi, mentre se ne vanno - per così dire - alla ventura, con le tasche vuote, persi come dei pazzi, e voi vi chiedete a quale tribù parigina possano appartenere. Ebbene, quei tipi sono dei milionari, dei collezionisti, le persone più appassionate della terra, gente capace di addentrarsi nei terreni fangosi della polizia correzionale per impadronirsi di una tazza, di un quadro, di un pezzo raro, come fece un giorno Élie Magus in Germania.

Era questo l'esperto dal quale Rémonencq condusse misteriosamente la Cibot.

Rémonencq chiedeva consigli a Élie Magus ogni volta che lo incontrava sui boulevards.

Più volte l'ebreo, attraverso Abramko, aveva prestato del denaro a quell'ex fattorino della cui probità era sicuro. Poiché la chaussée des Minimes si trova a due passi dalla rue de Normandie, i due complici del colpo da preparare vi giunsero in dieci minuti.

«State per incontrare», disse Rémonencq alla Cibot, «il più ricco dei vecchi commercianti di curiosità, il maggiore esperto che vi sia a Parigi...».

La Cibot rimase stupita trovandosi di fronte un vecchietto che indossava una palandrana indegna di passare tra le mani di Cibot per essere accomodata, intento a sorvegliare il lavoro del restauratore, un pittore che stava riparando dei quadri in una stanza gelida del vasto pianterreno; poi, ricevendo uno sguardo di quegli occhi pieni di una malizia fredda come quella dei gatti, tremò.

«Cosa volete, Rémonencq?», disse.

«Si tratta di stimare dei quadri; a Parigi solo voi potete dire a un povero calderaio come me quanto può darne, quando non ne ha come voi delle migliaia e delle centinaia!».

«Dove si trovano?», chiese Élie Magus.

«Questa è la portiera della casa, che si occupa dell'appartamento del padrone e con la quale mi sono messo d'accordo...».

«Come si chiama il proprietario?».

«Il signor Pons!», disse la Cibot.

«Non lo conosco», rispose Magus con aria ingenua, toccando leggermente col piede il piede del restauratore.

Moret, il pittore, che conosceva il valore del museo Pons, di colpo aveva sollevato la testa. Una tale finezza non poteva essere azzardata che in presenza di Rémonencq e della Cibot. L'uno e l'altra dovevano ignorare che il buon Pons e Magus avevano incrociato spesso gli artigli. Infatti quei due amatori accaniti si invidiavano. Così si spiega come il vecchio ebreo avesse appena provato una specie di folgorazione interiore. Non avrebbe mai sperato di riuscire a entrare in un serraglio tanto protetto.

Il museo Pons era l'unico a Parigi che potesse competere con il museo Magus. L'ebreo aveva avuto, venti anni dopo Pons, la sua stessa idea; ma poiché era un amatore commerciante, il museo Pons era stato precluso sia a lui che a Dusommerard. Pons e Magus avevano nel cuore la stessa gelosia. Né l'uno né l'altro apprezzavano affatto quella fama di cui normalmente vanno alla ricerca coloro che possiedono delle collezioni. Poter esaminare la magnifica collezione del povero musicista dava a Élie Magus la stessa felicità che prova un collezionista di donne quando riesce a infilarsi nel boudoir di una bella amante che un amico gli nasconde. Il grande rispetto che 69/166

Rémonencq dimostrava per quel bizzarro personaggio e il prestigio esercitato da ogni potere reale anche se misterioso, resero la portiera obbediente e arrendevole. La Cibot perse quel tono autocratico che teneva nella sua portineria con gli inquilini e i suoi due signori, accettò le condizioni di Magus e promise di farlo entrare nel museo Pons quel giorno stesso. Significava portare il nemico nel cuore della piazzaforte, affondare un pugnale nel cuore di Pons, che da dieci anni proibiva alla Cibot di far entrare chiunque, e portava sempre con sé le chiavi di casa, e al quale la Cibot aveva sempre obbedito, fino a quando aveva condiviso le opinioni di Schmucke a proposito di bric-à-brac. Infatti il buon Schmucke, che trattava quelle cose magnifiche come cianfrusaglie e deplorava la mania di Pons, aveva inculcato alla portiera il suo disprezzo per quelle anticaglie, difendendo così il museo Pons da ogni invasione, per molti anni.

Da quando Pons era costretto a letto, Schmucke lo sostituiva in teatro e nei collegi. Il povero tedesco, che vedeva il suo amico soltanto la mattina e a cena, cercava di mantenere ogni impegno per conservare la comune clientela; ma tutte le sue forze erano assorbite da questo compito, tanto il dolore lo affliggeva. Vedendo il pover'uomo così triste, le allieve e la gente di teatro, tutti da lui informati sulla malattia di Pons, gli chiedevano continuamente notizie, e il dispiacere del pianista era così grande che egli otteneva dagli indifferenti quella smorfia di compassione che a Parigi si accorda alle peggiori catastrofi. Il principio stesso della vita era colpito nel buon tedesco, esattamente come in Pons. Schmucke soffriva nello stesso tempo per il proprio dolore e per la malattia del suo amico. Così parlava di Pons per metà della lezione che dava; interrompeva così ingenuamente una spiegazione per chiedere a se stesso come potesse stare il suo amico, che la giovane allieva lo ascoltava mentre spiegava la malattia del suo amico. Tra una lezione e l'altra correva in rue de Normandie a vedere Pons per un quarto d'ora. Spaventato dal vuoto della cassa sociale, allarmato dalla Cibot che da quindici giorni faceva del suo meglio per aumentare le spese della malattia, il professore di pianoforte sentiva le proprie angosce dominate da un coraggio di cui non si sarebbe mai creduto capace. Per la prima volta in vita sua voleva guadagnare del denaro, perché non mancasse in casa.

Quando un'allieva, sinceramente colpita dalla situazione dei due amici, chiedeva a Schmucke come potesse lasciare Pons da solo, allora rispondeva, con il sublime sorriso dei babbei:

«Sighnorina, ma abbiamo la sighnora Zibod! un tesoro! una perla! Bons è curato come un principe!».

Ora, appena Schmucke trottava per le strade, la Cibot era la padrona dell'appartamento e del malato. In quale modo Pons, che non mangiava niente da quindici giorni, che giaceva privo di forze, che la Cibot doveva alzare e mettere in una poltrona per rifare il letto, in quale modo avrebbe potuto sorvegliare quel sedicente angelo custode? Naturalmente la Cibot era andata da Élie Magus mentre Schmucke era a pranzo.

Tornò proprio mentre il tedesco stava salutando il malato; infatti, dal momento della rivelazione della possibile ricchezza di Pons, la Cibot non lasciava più il suo scapolo, se lo covava! Si sprofondava in una buona poltrona, ai piedi del letto, e per distrarre Pons gli raccontava quei pettegolezzi in cui sono bravissime le donne di questo genere. Divenuta adulatrice, dolce, premurosa, apprensiva, s'insinuava nell'animo del buon Pons con un'abilità machiavellica, come stiamo per vedere.

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XXXVI • PETTEGOLEZZI E POLITICA DELLE VECCHIE PORTIERE

Spaventata dalla predizione del grande gioco della signora Fontaine, la Cibot si era ripromessa di riuscire, con le buone maniere, con una scelleratezza esclusivamente morale, a farsi inserire nel testamento del suo signore. Essendo stata all'oscuro per dieci anni del valore del museo Pons, la Cibot vedeva dinanzi a sé dieci anni di attaccamento, probità e disinteresse, e si proponeva di scontare quel magnifico valore. Dal giorno in cui, con parole piene d'oro, Rémonencq aveva liberato nel cuore di quella donna un serpente rinchiuso nel suo guscio per venticinque anni, il desiderio di essere ricca, quella creatura aveva nutrito il serpente di tutti i cattivi germi acquattati nel fondo dei cuori, e ora vedremo in quale modo quella donna seguisse i consigli che il serpente le sibilava.

«Ebbene, ha bevuto il nostro cherubino? Sta meglio?», chiese a Schmucke.

«Non molto bene, cara sighnora Zipod! non bene!», rispose il tedesco asciugandosi una lacrima.

«Ma siete anche voi che vi allarmate troppo, mio caro signore, bisogna prendere le cose come vengono... Se Cibot stesse per morire, non sarei desolata quanto voi. Su! il nostro cherubino è di buona costituzione. E poi, sembra che abbia avuto una vita morigerata... voi non sapete quanto vivono a lungo le persone morigerate! È molto malato, questo è vero, ma con l'attenzione che gli dedico vedrete che lo tiro fuori.

State tranquillo, andate per i vostri affari, ci penso io a tenergli compagnia, e a fargli bere le sue pinte d'acqua d'orzo».

«Senza di voi, morirei di ansia...», disse Schmucke stringendo tra le mani con un gesto di fiducia la mano della sua buona governante.

La Cibot entrò nella camera di Pons asciugandosi gli occhi.

«Che avete, signora Cibot?», chiese Pons.

«È il signor Schmucke che mi mette l'anima sottosopra... vi piange come se foste morto!», rispose lei. «È vero che non state bene, ma non ancora così male da piangervi; mi fa così impressione! Mio Dio, che stupida sono a voler tanto bene alla gente e ad essermi affezionata più a voi che a Cibot! Dopotutto non siete niente per me, siamo parenti soltanto per via di Eva; ebbene, ho il sangue in subbuglio perché si tratta di voi, parola d'onore. Mi farei tagliare una mano, la sinistra s'intende, davanti a voi, per vedervi andare e venire, mangiare, raggirare i negozianti, come fate di solito... Se avessi avuto un figlio, credo che gli avrei voluto bene come a voi! Su, adesso bevete, tesoro, coraggio, un bel bicchiere pieno! Su, bevete! È la prima cosa che ha detto il signor Poulain: «Se non vuole andare al Père-Lachaise, il signor Pons deve bere in una giornata tanta acqua quanta ne vende un alverniate». Su, bevete!...».

«Ma io bevo, signora Cibot... bevo così tanto che il mio stomaco è annegato...».

«Ecco, va bene!», disse la portiera prendendo il bicchiere vuoto. «In questo modo vi salverete! Il signor Poulain aveva un malato proprio come voi, che non era assistito da nessuno, abbandonato dai figli, ed è morto di questa stessa malattia, per non aver bevuto!... E allora bisogna bere, cocco mio!... quello è stato sepolto due mesi fa...

Sapete che se morite, caro il mio signore, vi portate dietro anche il bravo Schmucke?... È come un bambino, parola d'onore. Ah, quanto vi vuol bene quel caro agnellino d'uomo! No, una donna non ama così un uomo!... Ha smesso di bere e di mangiare, in quindici giorni è dimagrito quanto voi, che siete pelle e ossa... Questo mi rende gelosa, perché vi sono tanto affezionata ma non sono arrivata a quel punto, non ho perduto l'appetito, anzi! A forza di salire e scendere continuamente da un piano all'altro, ho una tale stanchezza nelle gambe che la sera cado giù come un pezzo di piombo. E così, per voi, trascuro il mio povero Cibot, ed è la signorina Rémonencq a fargli da mangiare, e lui mi brontola perché è tutto cattivo! Allora gli dico che bisogna saper soffrire per gli altri, e che voi siete troppo malato per lasciarvi solo...

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Innanzitutto non potete fare a meno di un'infermiera! Poi non sopporterei un'infermiera qui, quando sono io a occuparmi della vostra casa ormai da dieci anni...

Inoltre sono tutte golose, mangiano per dieci, pretendono il vino, lo zucchero, lo scaldino, tutti i loro comodi... E poi derubano i malati, quando non le mettono sul loro testamento... Fate entrare un'infermiera oggi, e domani troveressimo un quadro, qualche oggetto in meno...».

«Oh! signora Cibot!», esclamò Pons fuori di sé, «non mi lasciate!... Non devono toccare niente!...».

«Io sono qui!», disse la Cibot. «Finché ne avrò la forza, resterò qui... state tranquillo!

Il signor Poulain, che forse è interessato al vostro tesoro, voleva pensarci lui a un'infermiera... Come l'ho sistemato! «Il signore», gli ho detto, «vuole soltanto me; le sue abitudini sono le mie». Eh, allora si è zittito. Un'infermiera!.... sono tutte ladre! Le odio quelle donne!... Ma sentite come sono intriganti. Dunque, un vecchio signore...

notate che è stato il signor Poulain a raccontarmi questa storia.... Dunque, una certa signora Sabatier, una donna di trentasei anni, commerciante di pantofole vicino al Tribunale... conoscete senz'altro la galleria che è stata demolita...».

Pons annuì.

«... Bene... questa donna non è stata fortunata col marito, che si beveva tutto ed è morto di un'imbustione spontanea; ma è stata una bella donna, bisogna dirlo, ma le è servito poco, anche se dicono che abbia avuto degli avvocati come buoni amici...

Dunque, trovandosi in difficoltà si è messa a fare l'infermiera delle partorienti e abita in rue Barre-du-Bec. Ha anche assistito un vecchio signore che, con rispetto parlando, aveva una malattia delle vie lurinarie per cui lo sondavano come un pozzo artesiano, e aveva bisogno di tante di quelle cure che lei dormiva su una branda nella camera di quel signore. Sembra incredibile! Ma voi mi direte: «Gli uomini non hanno rispetto per nulla! sono talmente egoisti!». Insomma, ecco che parlando con lui, voi capite... lei era sempre lì, lo distraeva, gli raccontava delle storie, lo faceva chiacchierare come stiamo facendo noi due in questo momento... insomma, viene a sapere che i suoi nipoti, perché il malato aveva dei nipoti, erano dei mostri, che gli procuravano tanti dispiaceri e che, in fin dei conti, si era ammalato a causa di questi nipoti. Ebbene, mio caro signore, lei lo ha salvato dalla morte ed è divenuta sua moglie, e hanno un bellissimo bambino, e comare Bordevin, la macellaia della rue Charlot, che è parente di questa signora, gli ha fatto da madrina... Questa è fortuna!... Io, sono maritata, ma non ho figli e, posso dirlo, è per colpa di Cibot che mi ama troppo, perché se volessi...

Basta così. Che ci sarebbe accaduto con dei figli, a me e al mio Cibot, senza un soldo da parte dopo trent'anni di vita onesta, mio caro signore! Ma quello che mi consola è che non ho un solo centesimo di beni altrui. Non ho mai fatto un torto a nessuno...

Vedete, facciamo una semplice supposizione, che si può fare perché entro sei settimane starete sulle vostre gambe, a passeggiare sui boulevards; ebbene, se voi mi metteste nel vostro testamento, non smetterei un attimo di cercare i vostri eredi per restituire... tanto mi fa paura quello che non mi sono guadagnata col sudore della fronte. Mi direte: «Ma, comare Cibot, non tormentatevi in questo modo; ve lo siete guadagnato, avete accudito questi signori come fossero figli vostri, gli avete fatto risparmiare mille franchi l'anno...». Perché, al posto mio, signore, quante cuoche avrebbero già intascato almeno diecimila franchi!... «Ma allora è giusto che questo degno signore vi lasci un piccolo vitalizio!...», mi si potrebbe dire, sempre per supposizione. Ebbene, no! io sono disinteressata... Non so come ci siano delle donne che fanno il bene per interesse... Non è più fare il bene, vero, signore?... Non vado in chiesa, io! Mi manca il tempo. Ma la coscienza mi dice cosa è bene... Non vi agitate così, tesoro!... Mio Dio, come diventate giallo! Siete talmente giallo che sembrate bruno... Che strano, in soli venti giorni diventare giallo come un limone!... L'onestà è il tesoro della povera gente; bisogna pur possedere qualcosa! E poi, se arrivate, supponiamo, al limite estremo, sarei la prima a dirvi di donare tutto quello che 72/166

possedete al signor Schmucke. Dovete farlo, perché lui solo costituisce tutta la vostra famiglia! Vi vuol bene come un cane vuol bene al suo padrone».

«Ah! sì», disse Pons, «in tutta la mia vita, soltanto lui mi ha voluto bene...».

XXXVII • DOVE SI VEDE L'EFFETTO DI UN BEL BRACCIO

«Ah, signore», disse la Cibot, «non siete gentile; e io? Non vi voglio bene, io?...».

«Non dico questo, cara signora Cibot...».

«Bene! non mi prenderete mica per una serva, una cuoca qualunque, come se non avessi un cuore! Ah! mio Dio! fatevi in quattro per undici anni per due vecchi scapoli!

pensate solo a farli mangiare bene, io che mettevo a soqquadro le botteghe di dieci fruttivendole fino a farmi dire delle scemenze, per trovare del buon formaggio di Brie, e andavo fino alle Halles per farvi avere del burro fresco; e fate ogni cosa con attenzione, che in dieci anni non vi ho rotto nulla, neppure sbreccato... Siate dunque come una madre per i suoi bambini!... per poi sentirvi dire «cara signora Cibot»! È la prova che non c'è il minimo sentimento per voi nel cuore del vecchio signore che state accudendo come il figlio di un re, perché il piccolo re di Roma non è stato accudito come voi!... tant'è vero che è morto nel fiore degli anni... No, signor Pons, non siete giusto!... Siete un ingrato! E tutto questo perché non sono che una povera portiera.

Ah, mio Dio! credete dunque che noi siamo dei cani?...».

«Ma, cara signora Cibot...».

«Insomma, voi che siete istruito, spiegatemi perché siamo trattati così, noi portieri, che veniamo considerati privi di sentimenti, e veniamo presi in giro, in tempi in cui si parla di eguaglianza!... Dunque io non valgo quanto un'altra donna!... io che sono stata una delle donne più belle di Parigi, che venivo chiamata la bella ostricaia, e ricevevo sette o otto dichiarazioni al giorno!... e se lo volessi, ancora oggi! Avete presente, signor Pons, quella mezza cartuccia di ferravecchio che sta di fianco al portone? Bene, se fossi vedova - è una supposizione - mi sposerebbe ad occhi chiusi, tanto li tiene aperti su di me, e mi dice continuamente: «Che belle braccia che avete, comare Cibot!... stanotte ho sognato che erano pane e io ero burro, e mi ci spalmavo sopra!...». Guardate, signore, che braccia!...».

Rimboccò una manica e mostrò il più bel braccio del mondo, bianco e fresco quanto la mano era rossa e rovinata; un braccio grassoccio, rotondo, con le fossette, e che, estratto dal suo fodero di lana comune, come si estrae una lama dalla guaina, doveva abbagliare Pons, che non osò guardarlo a lungo.

«Queste braccia», continuò, «hanno aperto tanti cuori quante ostriche ha aperto il mio coltello! Ebbene, appartengono a Cibot, e io ho avuto il torto di trascurare quel caro uomo, che si getterebbe in un precipizio se glielo dicessi, per voi, signore, che mi chiamate «cara signora Cibot», quando per voi farei l'impossibile...».

«Sentite», disse il malato, «non posso chiamarvi «madre mia», né «moglie mia»...».

«No, per il resto della mia vita, non mi affezionerò mai più a nessuno!...».

«Ma lasciatemi dire!», riprese Pons. «Dunque, innanzitutto ho parlato di Schmucke».

«Il signor Schmucke! ecco uno di cuore!», disse la Cibot. «Lui sì che mi vuol bene...

perché è povero! È la ricchezza a rendere insensibili, e voi siete ricco! E allora chiamate un'infermiera, vedrete che vita vi farà fare! vi tormenterà come un insetto...

Il medico dirà che bisogna farvi bere, e lei vi darà solo da mangiare! Vi seppellirà per derubarvi! Non meritate d'avere una Cibot!... Bene, quando verrà il signor Poulain, chiedetegli un'infermiera!».

«Ma insomma, ascoltatemi!», esclamò il malato in collera. «Non parlavo di donne, 73/166

parlando del mio amico Schmucke!... So bene che non esistono altre persone che mi vogliano bene sinceramente come voi e Schmucke!...».

«Smettetela di irritarvi in questo modo!», esclamò la Cibot precipitandosi su Pons e facendolo sdraiare a forza.

«Come potrei non volervi bene?...», disse il povero Pons.

«Davvero mi volete bene?... Su, su, scusate, signore!», disse lei piangendo e asciugandosi le lacrime. «Ebbene, sì, voi mi volete bene, ma come si vuol bene a una domestica, ecco... una domestica a cui si getta un vitalizio di seicento franchi, come un tozzo di pane nella cuccia di un cane!...».

«Oh, signora Cibot!», esclamò Pons, «per chi mi prendete? Voi non mi conoscete!».

«Ah, dunque mi volete bene anche di più?», riprese a dire dopo uno sguardo di Pons;

«vorrete bene alla vostra buona e grassa Cibot come a una madre? E allora va bene; sono vostra madre, e voi siete i miei due figli!... Ah, se conoscessi chi vi ha fatto star male, mi farei portare in corte d'assise e perfino alla correzionale, perché gli strapperei gli occhi!... Quella gente merita di esser fatta morire alla porta Saint-Jacques! ed è ancora troppo poco per simili scellerati!... Voi che siete così buono, così tenero, che avete un cuore d'oro, eravate stato creato per rendere felice una donna...

Sì, voi l'averessite resa felice... è evidente, eravate tagliato per questo... All'inizio, vedendo come trattavate il signor Schmucke, mi dicevo: «Il signor Pons ha mancato la sua vita! Era fatto per essere un buon marito...». Confessatelo, le donne vi piacciono!».

«Ah! sì», disse Pons, «ma non ne ho mai avute!...».

«Veramente?», esclamò la Cibot con aria provocante, avvicinandosi a Pons e prendendogli una mano. «Non sapete cosa significa avere un'amante che fa i salti mortali per il suo amico? Possibile? Io, al vostro posto, non vorrei andarmene all'altro mondo senza aver conosciuto la più grande felicità che ci sia sulla terra!... Povero cocco! se fossi quella che sono stata, parola d'onore, lascerei Cibot per voi! Con un naso come questo, così fiero, come avete fatto, mio povero cherubino?... Voi mi direte: «Non tutte le donne s'intendono di uomini!...» ed è una disgrazia che si sposino così a caso, che fa proprio pena. Stando alle vostre assenze, ho creduto che aveste amanti a dozzine, ballerine, attrici, duchesse!... Quando vi vedevo uscire, dicevo sempre a Cibot: «Ecco il signor Pons che va a correre la cavallina!». Parola d'onore! dicevo così, tanto vi credevo amato dalle donne! Il cielo vi ha creato per l'amore!... Vedete, mio caro signore, me ne sono resa conto il giorno in cui avete mangiato qui per la prima volta. Oh! eravate commosso per il piacere che procuravate al signor Schmucke! E lui, che il giorno dopo piangeva ancora, dicendomi: «Sighnora Zibod, ha cenato qui!», e anch'io a piangere come una scema. E com'era triste quando avete ricominciato a scorrazzare per la città, e a mangiare fuori! Pover'uomo! non si era mai vista una desolazione simile! Ah, fate proprio bene a farlo vostro erede! È

tutta una famiglia per voi, quel degno e caro uomo!... Non dimenticatelo! altrimenti Dio non vi accoglierà in paradiso, dove deve lasciar entrare solo coloro che sono stati riconoscenti con gli amici, lasciandogli delle rendite».

XXXVIII • ESORDIO CON INSINUAZIONE

Pons si sforzava invano di rispondere, la Cibot parlava con la velocità del vento. Se si è trovato il modo di fermare le macchine a vapore, quello di «stoppare» la lingua di una portiera esaurirà il genio degli inventori.

«So cosa volete dire!», continuò la Cibot. «Fare testamento quando si è malati non 74/166

uccide mica; anzi, al vostro posto, nel timore di imprevisti, non vorrei abbandonare quel povero agnellino, che è proprio l'agnellino del buon Dio; non sa niente di niente; non vorrei lasciarlo tra le mani di rapaci uomini d'affari, e di parenti che sono tutti delle canaglie! Insomma, in questi venti giorni è forse venuto qualcuno a trovarvi?... E

voi vorreste lasciargli i vostri beni! Lo sapete che si dice che tutto quello che è qui ne vale la pena?».

«Ma sì», disse Pons.

«Rémonencq, che vi conosce come collezionista, e che commercia in cose vecchie, dice che vi offrirebbe volentieri trentamila franchi di rendita vitalizia per avere i vostri quadri dopo la vostra... Ecco un vero affare! Al vostro posto, io lo farei! Quando me lo ha detto, ho creduto che mi stesse prendendo in giro... Dovreste dirlo al signor Schmucke quanto vale tutta quella roba, perché è un uomo che si farebbe imbrogliare come un bambino; non ha la minima idea di quanto valgano le belle cose che avete!

Lo sospetta talmente poco, che le darebbe via per un pezzo di pane se, per amore vostro, non le conservasse per tutta la vita, sempre che viva dopo di voi, perché la vostra morte lo farà morire. Ma ci sono qua io! Lo difenderò contro tutti!... io e Cibot».

«Cara signora Cibot», rispose Pons intenerito da queste spaventose chiacchiere, nelle quali il sentimento sembrava sincero e ingenuo come è nella gente del popolo, «che ne sarebbe stato di me senza voi e Schmucke?».

«Ah, siamo veramente gli unici amici che avete in questo mondo! È proprio così! Ma due cuori affettuosi valgono tutte le famiglie... Non parlatemi della famiglia! È come la lingua, diceva quel vecchio attore, è tutto quello che c'è di meglio e di peggio... Dove sono finiti i vostri parenti? Ma ne avete di parenti?.... io non li ho mai visti...».

«Sono stati loro a farmi ammalare!...», esclamò Pons con profonda amarezza.

«Ah! avete dei parenti!...», disse la Cibot saltando in piedi come se la sua poltrona fosse stata di ferro improvvisamente incandescente. «Ah, bene! Sono gentili i vostri parenti! Ma come!... sono venti giorni, sì, stamani sono venti giorni, che state per morire, e non sono ancora venuti a prendere notizie! È il colmo!... Al vostro posto lascerei tutto all'ospizio dell'Infanzia abbandonata piuttosto che lasciare a loro un centesimo!».

«Ebbene, cara signora Cibot, io volevo lasciare tutto quello che possiedo alla mia cugina di secondo grado, la figlia del mio cugino carnale, il presidente Camusot....

sapete, il magistrato che è venuto una mattina, circa due mesi fa».

«Ah!, quel tipo basso e grasso, che vi aveva inviato i domestici a chiedervi perdono...

per la stupidità di sua moglie... e la cameriera mi fece delle domande su di voi, una vecchia talmente smorfiosa che avevo voglia di spolverarle la mantellina di velluto col manico della scopa. Si è mai vista una cameriera con una mantellina di velluto? No, parola d'onore, il mondo è capovolto! Perché si fanno delle rivoluzioni? Pranzate due volte al giorno, se ne avete i mezzi, pezzenti con i soldi! Ma io dico che le leggi sono inutili, che non c'è più niente di sacro se Luigi Filippo non mantiene le distanze tra i vari ceti; perché insomma, se siamo tutti eguali, non è vero signore?, una cameriera non deve avere una mantellina di velluto mentre io, comare Cibot, con trent'anni di vita onesta, non ce l'ho... Non sono belle queste cose! Si deve vedere chi siete. Una cameriera è una cameriera, come io sono una portiera! Perché dunque i militari si distinguono anche per le spalline? A ognuno il suo grado! Insomma, volete che vi dica fino in fondo come la penso? La Francia è perduta!... E sotto l'imperatore, non è vero signore? tutto era diverso. Così ho detto a Cibot: «Vedi caro mio, una casa dove ci sono cameriere in mantellina di velluto è una casa di gente senza cuore...»».

«Senza cuore! proprio così», rispose Pons.

E Pons raccontò le sue delusioni e i suoi dispiaceri alla Cibot, che fu generosa d'invettive contro i parenti, e dimostrò la più eccessiva tenerezza ad ogni frase del triste racconto. E alla fine pianse!

Per comprendere quest'improvvisa intimità tra il vecchio musicista e la Cibot, basta 75/166

immaginare la situazione di uno scapolo, gravemente malato per la prima volta in vita sua, steso su un letto di dolore, solo al mondo, costretto a passare la sua giornata in solitudine, che trova la giornata tanto più lunga quanto più è alle prese con le sofferenze indefinibili dell'epatite, capace di rattristare la più bella delle esistenze, e che, privato delle sue numerose occupazioni, cade nel marasma parigino e rimpiange tutto ciò che si vede gratis a Parigi.

Questa solitudine profonda e tenebrosa, questo dolore che colpisce più il morale che il fisico, il senso di inutilità della vita, tutto questo spinge uno scapolo, soprattutto se ha un carattere debole e un cuore sensibile, fiducioso, ad attaccarsi alla persona che lo assiste, come uno che sta per annegare si attacca a una tavola. Per questo Pons ascoltava rapito i pettegolezzi della Cibot. Schmucke, la Cibot e il dottor Poulain erano l'umanità intera, come la sua camera era l'universo. Se già tutti i malati concentrano la loro attenzione nella sfera delimitata dai loro sguardi, e il loro egoismo consiste nel subordinarsi agli esseri e alle cose di una camera, si può immaginare di cosa sia capace un vecchio scapolo, privo di affetti, che non ha mai conosciuto l'amore. In quei venti giorni, in certi momenti Pons era giunto a rimpiangere di non aver sposato Madeleine Vivet! Così, dopo venti giorni, la Cibot stava facendo immensi progressi nell'animo del malato, che senza di lei si sentiva perduto; infatti, per il povero malato, Schmucke era un secondo Pons. L'arte prodigiosa della Cibot consisteva, senza che lei se ne rendesse conto, nell'esprimere le idee dello stesso Pons.

«Ah! ecco il dottore», disse la Cibot sentendo dei colpi di campanello.

E lasciò Pons da solo, sapendo bene che stavano arrivando l'ebreo e Rémonencq.

«Non fate rumore, signori...», disse, «non deve accorgersi di niente; quando si tratta del suo tesoro, diventa intrattabile».