mercoledì 20 novembre 2024

IL FATTO NON È PIÙ NULLA Estratto da "Illusioni perdute" Honoré de Balzac

 


IL FATTO NON È PIÙ NULLA

Estratto da "Illusioni perdute"

Honoré de Balzac


"Il fatto non è più nulla in sé e per sé, è tutto nell'idea che gli altri se ne fanno".... scrive Honoré de Balzac in "Le illusioni perdute".

[...] In Francia, dunque, tanto la legge politica quanto quella morale, la collettività e i singoli, hanno smentito gli inizi con la conclusione, le opinioni con la condotta, o la condotta con le opinioni. Non c'è stata logica né nel governo né negli individui. Così voi non avete più morale. Attualmente, da voi, il successo è la ragione suprema di tutte le azioni, quali che siano. Perciò il fatto non è più nulla in sé e per sé, è tutto nell'idea che gli altri se ne fanno. Di qui, giovanotto, una seconda norma: abbiate un bell'aspetto! Nascondete il lato negativo della vostra vita, e presentate quello più brillante. La discrezione, che è la divisa degli ambiziosi, è anche quella del nostro Ordine: fatene la vostra divisa. I grandi commettono press'a poco tante vigliaccherie quante ne commettono i miserabili, ma le commettono nell'ombra ed esibiscono solo le loro virtù: perciò restano grandi. I piccoli invece professano le loro virtù nell'ombra ed espongono le miserie alla piena luce del giorno: perciò sono disprezzati. Voi avete nascosto le vostre grandezze e avete lasciato che si vedessero le vostre piaghe.[...]

IL SACRO E' IMPERSONALE. Estratto da "La persona e il sacro" Simone Weil

 


IL SACRO E' IMPERSONALE

Estratto da "La persona e il sacro"

Simone Weil

Simone Weil scrive nel pieno della seconda guerra mondiale (1942-43). Il sacro non e' la persona, perche' la parola «persona» e' ambigua, e non coincide con l'individuo collocato nello spazio e nel tempo e quindi nella societa'. Dice: «In ogni uomo vi è qualcosa di sacro. Ma non è la sua persona. E neppure la persona umana. E' semplicemente Lui, quell'uomo…». Il vero sacro è l'impersonale: «Il bene è l'unica fonte del sacro. Solo il bene è ciò che è relativo al bene è sacro».

3. LA PERSONA E IL SACRO

(1942-1943)

"Lei non m'interessa" Queste sono parole che un uomo non può rivolgere a un altro uomo senza commettere una crudeltà e ferire la giustizia.

"La Sua persona non m'interessa" Queste parole possono trovar posto in una conversazione affettuosa tra amici intimi senza ferire ciò che vi è di più delicatamente ombroso nell'amicizia. Nello stesso modo si dirà senza abbassarsi: "La mia persona non conta", ma non si dirà: "Io non conto"

Questa è la prova che il vocabolario della corrente di pensiero moderno detta personalista (1) è errato. E in questo campo, dove c'è un grave errore di vocabolario, è difficile che non vi sia un grave errore di pensiero.

C'è in ogni uomo qualcosa di sacro. Ma non è la sua persona. Non è neppure la persona umana. E' semplicemente lui, quest'uomo.


Ecco un passante per la strada che ha delle lunghe braccia, degli occhi celesti, una mente dove si agitano pensieri che ignoro ma che forse sono mediocri.


Non è né la sua persona, né la persona umana in lui che mi è sacra. E' lui. Lui tutto intero. Le braccia, gli occhi, i pensieri, tutto. Non violerei niente di tutto questo senza infiniti scrupoli..


Se la persona umana in lui corrispondesse a quanto per me è sacro, potrei facilmente cavargli gli occhi. Una volta cieco, sarà una persona umana esattamente quanto lo era prima. Non avrò assolutamente colpito in lui la persona umana. Avrò distrutto soltanto i suoi occhi.


E' impossibile definire il rispetto della persona umana. Non è solo impossibile da definire con le parole. E' il caso di tante nozioni luminose. Ma questa nozione non può neanche essere concepita; non può essere definita, delimitata da un'operazione muta del pensiero.


Assumere per regola della morale pubblica una nozione impossibile da definire e da concepire, significa aprire la strada ad ogni specie di tirannia.


La nozione di diritto, lanciata attraverso il mondo nel 1789, è stata, per sua insufficienza intrinseca, impotente ad esercitare la funzione che le veniva affidata.


Amalgamare due nozioni insufficienti parlando dei diritti della persona umana non ci porterà molto lontano. Che cosa di preciso m'impedisce di cavare gli occhi a quest'uomo, se ne ho la possibilità e ciò mi diverte?


Benché mi sia completamente sacro, non mi è sacro sotto ogni profilo, né da ogni punto di vista. Non mi è sacro perché le sue braccia sono lunghe, perché i suoi occhi sono celesti, perché i suoi pensieri sono forse mediocri. Né, se è duca, perché è duca. Né, se è straccivendolo, perché è straccivendolo. Non sarebbe niente di tutto questo a trattenere la mia mano.


Ciò che la potrebbe trattenere, è il fatto di sapere che se qualcuno gli cavasse gli occhi, avrebbe l'anima lacerata dall'idea che gli si fa del male.


C'è nell'intimo di ogni essere umano, dalla prima infanzia sino alla tomba e nonostante tutta l'esperienza dei crimini commessi, sofferti e osservati, qualcosa che si aspetta invincibilmente che gli si faccia del bene e non del male. E' questo, prima di tutto che è sacro in ogni essere umano.


Il bene è l'unica fonte del sacro. Solo il bene è sacro, e quanto è relativo al bene.


Non è questa parte profonda, infantile del cuore che si aspetta sempre il bene, ad essere in gioco nella rivendicazione. Il ragazzino che sorveglia gelosamente se suo fratello non ha avuto una porzione di dolce un po più grossa della sua, cede a un movente sorto in una parte assai più superficiale dell'anima. La parola giustizia ha due significati molto diversi che si riferiscono a queste due parti dell'anima. Importa solo la prima. Tutte le volte che sorge dal profondo di un cuore umano il lamento del fanciullo che il Cristo stesso non ha saputo trattenere: "Perché mi viene fatto del male?", vi è certamente ingiustizia. Perché se, come capita spesso, si tratta solo di un errore, l'ingiustizia consiste allora nell'insufficienza della spiegazione.


Quelli che infliggono i colpi capaci di provocare questo grido, cedono a moventi differenti a seconda dei caratteri e a seconda dei momenti. C'è chi in certi momenti trova voluttà in questo grido. Molti ignorano che viene cacciato. Perché è un grido silenzioso che echeggia soltanto nel segreto del cuore.


Questi due stati d'animo si assomigliano più di quanto sembri. Il secondo è solo un modo indebolito del primo. Tale ignoranza viene accuratamente coltivata, in quanto lusinga e contiene anch'essa voluttà. Non vi sono altri limiti ai nostri voleri se non le necessità della materia e l'esistenza degli altri esseri umani intorno a noi. Ogni estensione immaginaria di questi limiti è voluttuosa, e così vi è voluttà in tutto ciò che fa dimenticare la realtà degli ostacoli. Ecco perché gli sconvolgimenti, quali la guerra e la guerra civile, che svuotano le esistenze umane della loro realtà, facendole simili a burattini, sono talmente inebrianti. E' anche per questo che la schiavitù è così piacevole per i padroni.


In quelli che hanno subito troppi colpi, come gli schiavi, sembra morta quella parte del cuore che il male inflitto fa gridare di sgomento. Ma non lo è mai del tutto. Solo che non può più gridare. E' immobile in uno stato di gemito sordo e ininterrotto.


Ma anche in coloro nei quali il potere del grido è intatto, questo grido non giunge quasi mai ad esprimersi né interiormente né esteriormente con parole coerenti. Il più delle volte, le parole che cercano di tradurlo suonano completamente false.


Questo è tanto più difficile da evitare in quanto quelli che hanno più spesso occasione di sentire che gli si fa del male sono quelli che meno sanno parlare. Per esempio non c'è niente di più orribile che vedere in tribunale uno sventurato balbettare davanti a un magistrato che fa lo spiritoso in un linguaggio elegante.


Oltre all'intelligenza, la sola facoltà umana veramente interessata alla pubblica libertà di espressione è quella parte del cuore che grida contro il male. Ma siccome non sa esprimersi, la libertà per lei è poca cosa. Innanzitutto, bisogna che l'educazione pubblica sia tale che le fornisca il maggior numero di mezzi espressivi. Per la pubblica espressione delle opinioni ci vuole poi un regime che sia definito non tanto dalla libertà quanto da un'atmosfera di silenzio e di attenzione in cui questo grido debole e maldestro possa farsi sentire. Infine ci vuole un sistema di istituzioni che porti il più possibile alle funzioni di comando gli uomini capaci e desiderosi di intenderlo e di capirlo. E' chiaro che un partito occupato nella conquista o nella conservazione del potere governativo non può discernere che rumore in queste grida. Reagirà in maniera diversa a seconda che questo rumore interferisca con quello della sua propaganda o che invece contribuisca ad accrescerlo. Ma in nessun caso è capace di un'attenzione tenera e divinatrice per coglierne il significato.


Lo stesso vale a un grado minore per le organizzazioni che per contagio imitano i partiti, cioè, quando la vita pubblica è dominata dal gioco dei partiti, per tutte le organizzazioni, compresi, per esempio, i sindacati e anche le Chiese.


Naturalmente, i partiti e simili organizzazioni sono altrettanto estranei agli scrupoli dell'intelligenza.


Difatti quando la libertà di espressione si riduce alla libertà di propaganda per le organizzazioni di questo tipo, le uniche parti dell'anima umana che meritano di esprimersi non sono libere di farlo. Oppure lo sono a un grado infinitesimale, poco più che nel sistema totalitario.


E' quanto succede in una democrazia dove il gioco dei partiti regola la distribuzione del potere, cioè in quella che noi, Francesi, abbiamo finora chiamato democrazia. Perché non ne conosciamo altra. Quindi bisogna inventare qualcos'altro.


Lo stesso criterio applicato in modo analogo a ogni istituzione pubblica, può portare a conclusioni ugualmente manifeste.


Non è la persona a fornire tale criterio. Il grido di dolorosa sorpresa che suscita nel profondo dell'anima il male inflitto non è qualcosa di personale. Non basta un sopruso alla persona e ai suoi desideri per farlo sorgere. Sorge sempre dalla sensazione di un contatto con 1' ingiustizia attraverso il dolore. Costituisce sempre, nell'ultimo degli uomini come nel Cristo, una protesta impersonale.


Molto spesso si alzano anche grida di protesta personale, ma queste sono prive d'importanza; se ne possono provocare quante se ne vuole senza violare nulla di sacro.


Ciò che è sacro, ben lungi dall'essere la persona, è ciò che, in un essere umano, è impersonale. Tutto ciò che è impersonale nell'uomo è sacro, e soltanto quello.


Nella nostra epoca, in cui gli scrittori e gli scienziati hanno così stranamente usurpato il posto dei preti, il pubblico riconosce con una compiacenza priva di ogni ragionevole fondamento, che le facoltà artistiche e scientifiche sono sacre. Ciò è generalmente considerato evidente, nonostante sia ben lungi dall'esserlo. Quando si crede di dover allegare un motivo, si dice che il gioco di queste facoltà è tra le forme più alte della pienezza della persona umana.


In effetti, spesso, è soltanto questo. In tal caso, è facile rendersi conto di ciò che vale e di ciò che produce.


Questo produce atteggiamenti verso la vita come quello, così comune nel nostro secolo, espresso dall'orribile frase di Blake (2): "Meglio soffocare un bambino nella culla che conservare dentro di sé un desiderio non soddisfatto" O come quello che ha fatto nascere la concezione dell'atto gratuito. Ciò produce una scienza dove sono riconosciute tutte le specie possibili di norme, criteri, valori, eccetto la verità.


Il canto gregoriano, le chiese romaniche, l'"Iliade", l'invenzione della geometria, non sono stati, per gli esseri attraverso cui queste cose sono passate prima di arrivare fino a noi, occasioni di realizzazione.


La scienza, l'arte, la letteratura, la filosofia che sono soltanto forme di realizzazione della persona, costituiscono un campo in cui si realizzano successi clamorosi, gloriosi, che fanno vivere dei nomi per migliaia di anni. Ma al di sopra di questo, molto al di sopra, separato da un abisso, ve n'è un altro, in cui stanno le cose di primissimo ordine. Queste sono essenzialmente anonime.


E' un caso se il nome di quelli che vi sono penetrati, si è conservato o perduto; anche se si è conservato, sono entrati nell'anonimato. La loro persona è scomparsa.


La verità e la bellezza abitano il campo delle cose impersonali e anonime. E' questo che è sacro. L'altro non lo è, o se lo è, è soltanto come potrebbe esserlo una macchia di colore che, in un quadro, rappresentasse un'ostia.


Quel che è sacro nella scienza, è la verità. Quel che è sacro nell'arte, è la bellezza. La verità e la bellezza sono impersonali. Tutto questo è fin troppo evidente.


Se un bambino fa un'addizione, e si sbaglia, l'errore porta lo stampo della sua persona. Se procede in maniera perfettamente corretta, la sua persona è assente da tutta l'operazione.


La perfezione è impersonale. La persona in noi è la parte dell'errore e del peccato. Tutto lo sforzo dei mistici è sempre stato volto a ottenere che non ci fosse più nella loro anima nessuna parte che dicesse "io".


Ma la parte dell'anima che dice "noi" è ancora infinitamente più pericolosa.


Il passaggio nell' impersonale si opera solo tramite un'attenzione di una rara qualità, possibile soltanto nella solitudine. Non solo la solitudine di fatto, ma la solitudine morale. Non si compie mai in colui che pensa se stesso come membro di una collettività, come parte di un "noi"


Gli uomini in collettività non hanno accesso all'impersonale, neanche nelle sue forme inferiori. Un gruppo di essera umani non può neanche fare un'addizione. Un'addizione si effettua in una mente che dimentica momentaneamente che esiste qualsiasi altra mente.


Il personale è contrapposto all'impersonale, ma vi è passaggio tra l'uno e l'altro. Non vi è passaggio tra il collettivo e l'impersonale. Bisogna prima che una collettività si dissolva in persone distinte perché sia possibile entrare nell'impersonale. Soltanto in questo caso, la persona partecipa al sacro più della collettività.


Non solo la collettività è estranea al sacro, ma inganna dandone una falsa imitazione.


L'errore che attribuisce alla collettività un carattere sacro è l'idolatria; è in ogni tempo, in ogni paese il crimine più diffuso. Quello agli occhi del quale conta solo la realizzazione della persona ha perso del tutto il senso del sacro. E' difficile sapere quale dei due errori sia peggiore. Spesso si combinano nella stessa mente in misura differente. Ma il secondo errore ha molto meno energia e molto meno durata del primo.


Dal punto di vista spirituale, la lotta tra la Germania del 1940 e la Francia del 1940 era fondamentalmente una lotta non tra la barbarie e la civiltà, non tra il male e il bene, ma tra il primo errore e il secondo. La vittoria del primo non è sorprendente; è di per se stesso il più forte.


La subordinazione della persona alla collettività non è uno scandalo; è un fatto dell'ordine dei fatti meccanici, come quella del grammo al chilogrammo su una bilancia. Di fatto la persona è sempre sottomessa alla collettività, perfino in quella che viene chiamata la sua realizzazione.


Per esempio, sono proprio gli artisti e gli scrittori, i più inclini a considerare la loro arte come l'espressione della realizzazione della loro persona, quelli che difatti sono più sottomessi al gusto del pubblico. Hugo non aveva alcuna difficoltà a conciliare il culto di sé con il ruolo di "eco sonora" Esempi come Wilde, Gide o i surrealisti sono ancora più chiari. Gli scienziati collocati allo stesso livello sono anche loro asserviti alla moda, che esercita un maggior potere sulla scienza che sulla forma dei cappelli. L'opinione collettiva degli specialisti è pressoché sovrana su ciascuno di loro.


Poiché la persona è sottomessa al collettivo di fatto e per la natura delle cose, non esiste un diritto naturale relativo a essa. Si ha ragione quando si dice che l'antichità non aveva la nozione del rispetto dovuto alla persona. Pensava con troppa chiarezza per una concezione così confusa.


L'essere umano sfugge al collettivo solamente innalzandosi al di sopra del personale per penetrare nell'impersonale. In quel momento c'è qualcosa in lui, un frammento della sua anima, su cui niente di collettivo può avere alcuna presa. Se può radicarsi nel bene impersonale, cioè diventare capace di attingervi energia, è in grado, tutte le volte che pensa di averne l'obbligo, di opporre contro qualsiasi collettività senza appoggiarsi su nessun'altra, una forza sicuramente piccola ma reale.


Ci sono occasioni in cui una forza quasi infinitesimale è decisiva. Una collettività è molto più forte di un uomo solo; ma ogni collettività ha bisogno per esistere di operazioni, di cui l'addizione è l'esempio elementare, che si compiono soltanto in una mente in stato di solitudine.


Questo bisogno darebbe la possibilità di una presa dell'impersonale sul collettivo, se solo si sapesse studiare un metodo per farne uso.


Ognuno di quelli che sono penetrati nella sfera dell' impersonale vi incontra una responsabilità verso tutti gli esseri umani.


Quella di proteggere in loro, non la persona, ma tutto ciò che la persona racchiude di fragili possibilità di passaggio nell'impersonale.


E' a costoro innanzitutto che deve rivolgersi l'appello al rispetto per il carattere sacro degli esseri umani. Infatti perché un tale appello abbia un'esistenza, bisogna che sia rivolto a degli esseri suscettibili di comprenderlo.


E' inutile spiegare a una collettività che in ciascuna delle unità che la compongono c'è qualcosa che non deve essere violato. Prima di tutto una collettività non è un qualcuno, se non idealmente; non ha un'esistenza, se non astratta; parlarle è un'operazione fittizia. Poi, se fosse qualcuno, sarebbe qualcuno disposto a rispettare solamente se stesso.


Per di più, il pericolo maggiore non è la tendenza del collettivo a comprimere la persona, ma la tendenza della persona a precipitarsi, ad affogare nel collettivo. O forse il primo pericolo non è che l'aspetto apparente e ingannatore del secondo. Se è inutile dire alla collettività che la persona è sacra, è altrettanto inutile dire alla persona che essa stessa è sacra. Non può crederlo. Non si sente sacra. La causa che impedisce che la persona si senta sacra, è che di fatto non lo è.


Se ci sono esseri la cui coscienza testimonia diversamente, a cui la propria persona dà un certo senso del sacro che credono di potere, per generalizzazione, attribuire a ogni persona, sono in una duplice illusione.


Ciò che provano, non è l'autentico senso del sacro, bensì quella falsa imitazione prodotta dal collettivo. Se lo provano nei riguardi della propria persona, è perché questa contribuisce al prestigio collettivo attraverso la considerazione sociale di cui si trova essere la sede.


Così, è per errore che credono di poter generalizzare. Benché questa erronea generalizzazione derivi da un impulso generoso, non può avere sufficiente virtù perché ai loro occhi la materia umana anonima cessi realmente di essere materia umana anonima. Ma è difficile che abbiano l'occasione di rendersene conto, perché non hanno contatto con essa.


Nell'uomo, la persona è una cosa disperata, che ha freddo, che corre in cerca di un rifugio e di una fonte di calore.


Questo è ignorato da coloro in cui la persona è, sia pure temporaneamente in attesa, caldamente avvolta di considerazione sociale.


Perciò la filosofia personalista ha avuto origine e si è diffusa non negli ambienti popolari, ma negli ambienti di scrittori che, per professione, possiedono o sperano di acquisire un nome e una reputazione.


I rapporti tra la collettività e la persona devono essere stabiliti con l'unico obiettivo di scartare ciò che è suscettibile di impedire la crescita e la germinazione misteriosa della parte impersonale dell'anima.


A questo fine, bisogna che da un lato ci sia intorno a ogni persona dello spazio, un certo grado di tempo libero a disposizione, delle possibilità per il passaggio a gradi di attenzione sempre più elevati, della solitudine, del silenzio. Nello stesso tempo bisogna che sia in un'atmosfera di calore, perché la disperazione non la costringa ad affogare nel collettivo.


Se tale è il bene, sembra difficile andare in direzione del male molto più in là di quanto non faccia la società moderna, anche democratica. In particolare, una fabbrica moderna non è forse molto lontana dal limite dell'orrore. Ogni essere umano vi è continuamente assillato pungolato dall'intervento di volontà estranee, e nello stesso tempo l'anima è nel freddo, la disperazione e l'abbandono. All'uomo è necessario un silenzio caloroso, gli si offre un tumulto ghiacciato.


Il lavoro fisico, benché penoso, non è di per sé una degradazione. Non è arte; non è scienza; non è un'altra cosa che ha un valore assolutamente uguale a quello dell'arte e della scienza. Poiché procura una uguale possibilità di accesso a una forma impersonale dell'attenzione.


Cavare gli occhi a Watteau adolescente e fargli girare una macina non sarebbe stato un crimine più grande di quello di mettere un ragazzo che ha la vocazione di questa specie di lavoro a una catena di montaggio o a una macchina da manovale, pagato a cottimo. Solo che questa vocazione, a differenza di quella del pittore, non è individuabile.


Esattamente nella stessa misura dell'arte e della scienza, seppure in maniera diversa, il lavoro fisico è un certo contatto con la realtà, con la verità, con la bellezza di quest'universo e con la saggezza eterna che ne costituisce l'ordine.


Perciò avvilire il lavoro è un sacrilegio nello stesso senso in cui è un sacrilegio calpestare un'ostia.


Se quelli che lavorano lo sentissero, se sentissero che per il fatto che ne sono le vittime, ne sono anche i complici, la loro resistenza assumerebbe tutt'altro slancio rispetto a quello che può fornirgli il pensiero della loro persona e del loro diritto. Non sarebbe una rivendicazione; sarebbe una rivolta di tutto l'essere, violenta e disperata come in una ragazza che si vuol mettere a viva forza in una casa di tolleranza; e nello stesso tempo sarebbe un grido di speranza scaturito dal profondo del cuore.


Certo tale sentimento abita dentro di loro, ma talmente inarticolato che non lo possono percepire. I professionisti della parola sono incapaci di fornirgliene l'espressione.


Quando gli si parla della loro sorte, si sceglie generalmente di parlare di salari. Loro, sotto la fatica che li schiaccia e rende ogni sforzo d'attenzione doloroso, accolgono con sollievo la facile chiarezza delle cifre.


Così dimenticano che l'oggetto su cui si mercanteggia, di cui si lamentano che sono costretti a consegnarlo a ribasso, che gliene viene negato il prezzo giusto, non è altro che la loro anima. Immaginiamo che il diavolo stia comprando l'anima di uno sventurato, e che qualcuno, avendo pietà di questo sventurato, intervenga nel dibattito e dica al diavolo: "E' vergognoso da parte vostra offrire solo questo prezzo; l'oggetto vale almeno il doppio"


Questa sinistra farsa è quella recitata dal movimento operaio, con i suoi sindacati, i suoi partiti, i suoi intellettuali di sinistra.


Questo spirito di mercanteggiamento era già implicito nella nozione di diritto che le generazioni dell'89 hanno avuto l'imprudenza di mettere al centro dell'appello che hanno gridato in faccia al mondo. Significava distruggerne in anticipo la virtù. La nozione di diritto è legata a quella di divisione, di scambio, di quantità. Ha qualcosa di commerciale. Evoca di per sé il processo, l'arringa. Il diritto non si sostiene che col tono della rivendicazione; e quando questo tono è adottato, la forza non è lontana, è subito dietro, per confermarlo, se no sarebbe ridicolo. C'è una quantità di nozioni, tutte poste nella stessa categoria, che di per sé sono totalmente estranee al sovrannaturale, eppure sono un po al di sopra della forza bruta. Sono tutte relative ai costumi dell'animale collettivo, per usare il linguaggio di Platone, quando conserva alcune tracce di un ammaestramento imposto dall'operazione della grazia. Quando dal rinnovarsi di questa operazione non ricevono di continuo un rinnovamento dell'esistenza, quando ne rappresentano solo delle sopravvivenze, si trovano necessariamente soggette al capriccio dell'animale.


Le nozioni di diritto, di persona, di democrazia rientrano in questa categoria. Bernanos ha avuto il coraggio di osservare che la democrazia non oppone alcuna difesa contro i dittatori. La persona è per natura sottomessa alla collettività. Il diritto è per natura dipendente dalla forza. Le menzogne e gli errori che velano queste verità sono estremamente pericolosi, in quanto impediscono di ricorrere a ciò che si trova esclusivamente sottratto alla forza e da questa preserva; cioè un'altra forza, che è l'irraggiamento dello spirito. La materia pesante è capace di salire contro la pesantezza solo nelle piante, per l'energia del sole che il verde delle foglie ha captato e che opera nella linfa. La pesantezza e la morte si riapproprieranno progressivamente ma inesorabilmente della pianta priva di luce.


Fra queste menzogne si trova quella del diritto naturale, lanciato dal diciottesimo secolo materialista. Non da Rousseau, che era una mente lucida, possente, e d'ispirazione veramente cristiana, ma da Diderot e dagli ambienti dell' Enciclopedia.


La nozione di diritto ci viene da Roma, e come tutto ciò che viene dall'antica Roma, la donna gravida dei nomi della bestemmia di cui parla l'Apocalisse, è pagana e non battezzabile. I Romani che avevano capito, come Hitler, che la forza ha la pienezza dell'efficacia solo quando è rivestita di alcune idee, impiegavano la nozione di diritto a questo scopo. Ci si presta benissimo. Si accusa la Germania moderna di disprezzarla. Ma l'ha usata a sazietà nelle sue rivendicazioni di nazione proletaria. E' vero che non riconosce a coloro che soggioga altro diritto che quello di ubbidire. Anche l'antica Roma.


Lodare l'antica Roma per averci trasmesso la nozione di diritto è singolarmente scandaloso. Perché se si vuole esaminare ciò che tale nozione era in origine, al fine di determinarne la specie, si vede che la proprietà era definita dal diritto di usare e abusare. E in effetti la maggior parte di quelle cose di cui ogni proprietario aveva il diritto di usare e abusare erano esseri umani.


I Greci non avevano la nozione di diritto. Non avevano parole per esprimerla. Si accontentavano del nome giustizia.


E' per via di una singolare confusione che si è potuto assimilare la legge non scritta di Antigone al diritto naturale. Agli occhi di Creonte, non c'era assolutamente niente di naturale in quello che faceva Antigone. La giudicava pazza.


Non saremmo certo noi a dargli torto, noi che, in questo momento, pensiamo, parliamo e agiamo esattamente come lui. Lo si può verificare riferendosi al testo.


Antigone dice a Creonte: "Non era stato Zeus a pubblicare questa ordinanza; non è stata la compagna delle divinità dell'altro mondo, la Giustizia, a stabilire leggi simili fra gli uomini" Creonte prova a convincerla che i suoi ordini sono giusti; la accusa di aver oltraggiato uno dei suoi fratelli onorando l'altro, dal momento che lo stesso onore è stato accordato all'empio e al fedele, a colui che è morto cercando di distruggere la sua patria e a colui che è morto per difenderla.


Essa dice: "Nondimeno l'altro mondo richiede leggi uguali" Egli obbietta con buon senso: "Ma non vi è spartizione uguale per il prode e per il traditore" Lei non trova che questa risposta assurda: "Chi sa se nell'altro mondo questo è legittimo?"


L'osservazione di Creonte è perfettamente ragionevole: "Però mai un nemico, anche dopo che è morto, è un amico" Ma la piccola idiota ribatte: "Sono nata per partecipare all'amore, non all'odio"


Allora Creonte, sempre più ragionevole: "Va dunque nell'altro mondo, e poiché tu devi amare, ama quelli che stanno laggiù"


In effetti, era proprio quello il suo vero posto. Perché la legge non scritta a cui ubbidiva questa bambina, ben lungi dall'avere qualcosa in comune con un qualche diritto o con qualcosa di naturale non era altro che l'amore estremo, assurdo che ha spinto il Cristo sulla Croce.


La Giustizia, compagna delle divinità dell'altro mondo, prescrive quest'eccesso d'amore. Nessun diritto lo prescriverebbe. Il diritto non ha nessun legame diretto con l'amore.


Come la nozione di diritto è estranea allo spirito greco, è pure estranea all'ispirazione cristiana, laddove questa è pura, non frammista di eredità romane, ebraiche, o aristoteliche. Non è possibile immaginarsi San Francesco che parla di diritto.


Se si dice a qualcuno in grado di intendere: "Quel che mi fate non è giusto", si può scuotere e risvegliare alla sua sorgente lo spirito d'attenzione e d'amore. Non è la stessa cosa per parole come: "Ho il diritto di...", "Non ha il diritto di..."; racchiudono una guerra latente e svegliano uno spirito di guerra. La nozione di diritto, posta al centro dei conflitti sociali, rende impossibile sia da una parte che dall'altra ogni sfumatura di carità.


E' impossibile, quando se ne fa un uso quasi esclusivo, tenere lo sguardo fisso sul vero problema. Un contadino su cui un acquirente, in un mercato, fa indiscretamente pressione per indurlo a vendere le uova a basso prezzo può benissimo rispondere: "Ho il diritto di tenere le uova se non mi fate un buon prezzo.". Ma una ragazza che stanno mettendo a viva forza in una casa di tolleranza non parlerà dei suoi diritti. In una situazione simile, questa parola sembrerebbe ridicola tanto è insufficiente.


Perciò il dramma sociale, che è analogo alla seconda situazione, è apparso falsamente, per via dell'uso di questa parola, come analogo alla prima.


L'uso di questa parola ha fatto di ciò che avrebbe dovuto essere un grido scaturito dal profondo del cuore, un acre piagnisteo di rivendicazioni, senza purezza né efficacia.


La nozione di diritto trascina naturalmente dietro di sé, per via della sua stessa mediocrità, quella di persona perché il diritto è relativo alle cose personali. E' situato a questo livello. Aggiungendo alla parola diritto quella di persona, il che implica il diritto della persona a ciò che si chiama la propria realizzazione, si farebbe un male ancora più grave. Il grido degli oppressi scenderebbe ancora al di sotto del tono della rivendicazione, assumerebbe quello dell' invidia.


Perché la persona si realizza soltanto quando il prestigio sociale la gonfia; la sua realizzazione è un privilegio sociale. Non lo si dice alle folle parlando loro dei diritti della persona, gli si dice il contrario. Non dispongono di una sufficiente capacità di analisi per riconoscerlo chiaramente da sé; ma lo intuiscono, la loro esperienza quotidiana gliene fornisce la certezza.


Ciò non può essere per loro un motivo di respingere questa parola d'ordine. In questi tempi di intelligenza offuscata, non si ha nessuna difficoltà a chiedere per tutti una partecipazione uguale ai privilegi, alle cose che sono per essenza dei privilegi. E' una specie di rivendicazione insieme assurda e bassa; assurda, perché il privilegio per definizione è disuguale; bassa, perché non vale la pena di essere desiderato.


Ma la categoria degli uomini che formulano e le rivendicazioni e ogni cosa, che hanno il monopolio del linguaggio, è una categoria di privilegiati. Non saranno loro a dire che non vale la pena di desiderare il privilegio. Non lo pensano. Ma soprattutto sarebbe indecente da parte loro.


Molte verità indispensabili e che salverebbero gli uomini non vengono dette per una ragione di questo genere; coloro che potrebbero dirle, non possono formularle, coloro che potrebbero formularle non possono dirle. Il rimedio a questo male sarebbe uno dei problemi di una vera politica.


In una società instabile, i privilegiati hanno cattiva coscienza. Gli uni lo nascondono sotto un'aria di sfida e dicono alle folle: "E' del tutto legittimo che voi non abbiate privilegi, e che io ne abbia" Gli altri dicono loro con aria benevola: "Chiedo per tutti voi una parte uguale ai privilegi che possiedo io"


Il primo atteggiamento è odioso. Il secondo è privo di buon senso. E' anche troppo facile.


L'uno e l'altro spingono il popolo a correre sulla via del male, ad allontanarsi dal suo unico e vero bene, che non è nelle sue mani, ma che, in un certo senso, gli è così vicino. Il popolo è molto più vicino a un bene autentico, che sia fonte di bellezza, di verità, di gioia e di pienezza rispetto a coloro che gli accordano la loro pietà. Ma non essendoci, e non sapendo come andarci, tutto si svolge come se ne fosse infinitamente lontano. Coloro che parlano per lui, a lui, sono ugualmente incapaci di capire in che stato di disperazione si trovi e quale pienezza di bene si trovi quasi alla sua portata. In quanto a lui, gli è indispensabile essere capito.


La sventura è di per sé inarticolata. Gli sventurati supplicano in silenzio che gli vengano fornite le parole per esprimersi. Ci sono dei periodi in cui non sono esauditi. Ce ne sono altri in cui gli vengono fornite delle parole, ma scelte male, perché coloro che le scelgono sono estranei alla sventura che interpretano.


Il più delle volte ne sono lontani per il posto in cui le circostanze li hanno collocati. Ma anche se le sono vicini o vi sono stati dentro in un periodo della loro vita, anche recente, nondimeno le sono estranei, perché tali si sono resi appena hanno potuto.


Il pensiero ripugna a pensare la sventura quanto la carne vivente ripugna alla morte. L'offerta volontaria di un cervo che si fa avanti passo passo per presentarsi ai denti di una muta è possibile più o meno nella stessa misura di un atto d'attenzione diretto su una sventura reale e vicinissima, da parte di una mente che ha la facoltà di farne a meno.


Ciò che, essendo indispensabile al bene, è impossibile per natura, è sempre possibile in modo sovrannaturale.


Il bene sovrannaturale non è una specie di complemento al bene naturale, come ci vorrebbero fare credere, con l'aiuto di Aristotele, a nostro massimo conforto. Sarebbe piacevole se fosse così, ma non lo è. In tutti i problemi strazianti dell'esistenza umana, c'è da scegliere soltanto tra il bene sovrannaturale e il male.


Mettere in bocca agli sventurati parole che appartengono alla regione media dei valori, quali democrazia, diritto o persona, significa far loro un regalo che non è suscettibile di recare alcun bene e che inevitabilmente causa loro un gran male.


Tali nozioni non hanno il loro posto in cielo, sono sospese nell'aria, e per questa stessa ragione, sono incapaci di mordere la terra.


Solo la luce che cade in continuazione dal cielo fornisce a un albero l'energia che fa affondare nella terra le potenti radici.


In realtà l'albero è radicato in cielo.


Solo quello che viene dal cielo è suscettibile d'imprimere realmente un marchio sulla terra.


Se si vogliono armare efficacemente gli sventurati, occorre metter loro in bocca solo parole la cui sede si trovi in cielo, sopra il cielo, nell'altro mondo. Non bisogna temere che questo sia impossibile. La sventura predispone l'anima a ricevere avidamente, a bere tutto quanto viene da quel luogo. Sono i fornitori, non i consumatori, che mancano per questa specie di prodotti.


Il criterio per la scelta delle parole è facile da riconoscere e da impiegare. Gli sventurati, sopraffatti dal male, aspirano al bene. Bisogna dar loro soltanto parole che esprimono il bene, il bene allo stato puro. La discriminazione è facile. Le parole alle quali può aggregarsi qualcosa che indichi il male sono estranee al bene puro. Si esprime un biasimo quando si dice: "Mette la sua persona davanti a tutto" La persona è dunque estranea al bene. Si può parlare di un abuso della democrazia. La democrazia è dunque estranea al bene. Il possesso di un diritto implica la possibilità di farne un buono o un cattivo uso. Il diritto è dunque estraneo al bene. Al contrario, il compimento di un obbligo è un bene sempre, dovunque. La verità, la bellezza, la giustizia, la compassione, sono dei beni sempre, dovunque. Per essere sicuri di dire quel che occorre, basta limitarsi, quando si tratta delle aspirazioni degli sventurati, alle parole e alle frasi che esprimono sempre, dovunque, in ogni circostanza, unicamente del bene.


E' uno dei due soli servizi che gli si possa rendere con le parole. L'altro consiste nel trovare parole che esprimano la verità della loro sventura; che, attraverso le circostanze esterne, rendano sensibile il grido sempre cacciato nel silenzio: "Perché mi viene fatto del male?"


Non devono per questo contare sugli uomini di talento, sulle personalità, sulle celebrità, neppure sugli uomini di genio, nel senso in cui abitualmente viene usata la parola genio, di cui si confonde l'uso con quello della parola talento. Non possono contare che sui geni di primissimo ordine, il poeta dell"'Iliade", Eschilo, Sofocle, Shakespeare qual era quando scrisse "Lear", Racine qual era quando scrisse" Phedre" E non è un gran numero.


Ma c'è una quantità di esseri umani, i quali, essendo poco o mediocremente dotati dalla natura, appaiono infinitamente inferiori non solo a Omero, Eschilo, Sofocle, Shakespeare, Racine, bensì anche a Virgilio, Corneille, Hugo; e che tuttavia vivono nel regno dei beni impersonali dove questi ultimi non sono penetrati. L'idiota del villaggio, nel senso letterale della parola, che ama realmente la verità, quand'anche emettesse soltanto balbettìi, è per il pensiero infinitamente superiore ad Aristotele. E' infinitamente più vicino a Platone, di quanto non lo sia mai stato Aristotele. E' dotato di genio mentre ad Aristotele si addice soltanto la parola talento. Se una fata venisse a proporgli di scambiare la sua sorte con un destino analogo a quello di Aristotele, saggezza per lui sarebbe di rifiutare senza esitazione. Ma non ne sa nulla. Nessuno glielo dice. Tutti gli dicono il contrario. Bisogna dirglielo. Bisogna incoraggiare gli idioti, le persone prive di talento, le persone dal talento mediocre o poco più che medio, ma dotate di genio. Non c'è da temere di renderli orgogliosi. L'amore della verità è sempre accompagnato da umiltà. Il genio naturale non è altro che la virtù sovrannaturale dell'umiltà nel campo del pensiero.


Invece d'incoraggiare lo sbocciare dei talenti, come si erano prefissi nel 1789, bisogna amare teneramente e scaldare con tenero rispetto la crescita del genio; perché soltanto gli eroi realmente puri, i santi e i geni possono rappresentare un soccorso per gli sventurati. Tra gli uni e gli altri, la gente che ha talento, intelligenza, energia, carattere, forte personalità, fa da schermo e impedisce il soccorso. Non occorre far male allo schermo, bisogna metterlo tranquillamente da parte, facendo in modo che se ne accorga il meno possibile. E bisogna rompere lo schermo molto più pericoloso del collettivo, sopprimendo tutta la parte delle nostre istituzioni e dei nostri costumi in cui risiede una qualche forma dello spirito di partito. Né le personalità, né i partiti prestano mai attenzione sia alla verità che alla sventura.


C'è alleanza naturale tra la verità e la sventura, in quanto sia l'una che l'altra sono dei supplicanti muti, condannati in eterno a restare senza voce davanti a noi.


Come un vagabondo, accusato in tribunale di aver preso una carota in un campo, sta in piedi di fronte al giudice, il quale, comodamente seduto, infila elegantemente domande, commenti e scherzi, mentre l'altro non riesce neanche a balbettare; così sta la verità di fronte a un'intelligenza occupata ad allineare elegantemente opinioni.


Il linguaggio, anche nell'uomo che apparentemente tace, è sempre ciò che formula le opinioni. La facoltà naturale che viene nominata intelligenza è relativa alle opinioni e al linguaggio. Il linguaggio enuncia delle relazioni. Ma ne enuncia poche, perché si svolge nel tempo. Se è confuso, vago, poco rigoroso, senza ordine, se la mente che lo emette o l'ascolta ha una debole capacità di conservare un pensiero presente allo spirito, è vuoto o quasi vuoto di ogni contenuto reale di relazioni. Se è perfettamente chiaro, preciso, rigoroso, ordinato; se si rivolge a una mente capace, dopo aver concepito un pensiero, di conservarlo presente mentre ne concepisce un altro, di conservarli entrambi mentre ne concepisce un terzo, e così via; in tal caso, il linguaggio può essere relativamente ricco di relazioni. Ma come ogni ricchezza, questa ricchezza relativa è un'atroce miseria, in confronto alla perfezione che è sola desiderabile.


Anche considerando le cose nel modo migliore, una mente racchiusa nel linguaggio è in prigione. Il suo limite, è la quantità di relazioni che le parole possono rendere presenti contemporaneamente alla sua mente. Resta ignorante dei pensieri che implicano la combinazione di un maggior numero di relazioni; questi pensieri sono fuori del linguaggio, non formulabili, benché siano perfettamente rigorosi e chiari e benché ciascuna delle relazioni che li compone sia esprimibile con parole perfettamente precise. Così la mente si muove in uno spazio chiuso di verità parziale, che del resto può essere più o meno grande, senza poter mai gettare uno sguardo su ciò che è fuori.


Se una mente prigioniera ignora la propria prigionia, vive nell'errore. Se l'ha riconosciuta, sia pure per un decimo di secondo, e se si è affrettata a dimenticarla per non soffrire, vive nella menzogna. Uomini dall'intelligenza estremamente brillante possono nascere, vivere e morire nell'errore e nella menzogna. In questi l'intelligenza non è un bene e neanche un vantaggio. La differenza fra uomini più o meno intelligenti è come la differenza tra criminali condannati a vita alla galera le cui celle siano più o meno grandi. Un uomo intelligente e orgoglioso della sua intelligenza assomiglia a un condannato orgoglioso di avere una cella grande.


Una mente che sente la propria prigionia vorrebbe dissimularla. Ma se ha orrore della menzogna, non lo farà. Dovrà allora soffrire molto. Batterà la testa contro la muraglia fino allo svenimento; si sveglierà, guarderà la muraglia con timore, poi un giorno ricomincerà e sverrà di nuovo; e così di seguito, senza fine, senza alcuna speranza. Un giorno si sveglierà dall'altra parte del muro.


Forse è ancora prigioniero, in una cornice soltanto più spaziosa. Che importa? Ormai possiede la chiave, il segreto che fa cadere tutti i muri. E' al di là di ciò che gli uomini chiamano intelligenza, dove comincia la saggezza.


Ogni mente chiusa nel linguaggio è capace solo di opinioni. Ogni mente capace di afferrare pensieri inesprimibili a causa della molteplicità dei rapporti che vi si combinano, benché più rigorosi e più luminosi rispetto a ciò che esprime il linguaggio più preciso, ogni mente pervenuta a questo punto è già nella verità.


La certezza e la fede senz'ombra sono sue. E non importa che in origine abbia avuto poca o molta intelligenza, che sia stata in una cella stretta o larga. La sola cosa che importa, è, dopo avere raggiunto il limite della propria intelligenza, qualsiasi esso sia, essere andati oltre. L'idiota del villaggio è vicino alla realtà quanto un bambino prodigio. Solo che l'uno è separato dall'altro da una muraglia. Non si entra nella verità senza essere passati attraverso il proprio annientamento; senza aver soggiornato a lungo in uno stato di estrema e totale umiliazione. E' lo stesso ostacolo che si oppone alla conoscenza della sventura. Così come la verità è tutt'altra cosa rispetto all'opinione, la sventura è tutt'altra cosa rispetto alla sofferenza. La sventura è un meccanismo che stritola l'anima; l'uomo che vi rimane preso è come un operaio afferrato dai denti di una macchina. Non è più che una cosa lacerata e sanguinante.


Il grado e la natura della sofferenza che costituisce in senso proprio una sventura, differiscono molto secondo gli esseri umani. Questo dipende soprattutto dalla quantità di energia vitale posseduta inizialmente e dall'atteggiamento adottato di fronte alla sofferenza.


Il pensiero umano non può riconoscere la realtà della sventura. Se qualcuno riconosce la realtà della sventura deve dire a se stesso: "Un gioco di circostanze che non controllo può togliermi qualsiasi cosa in qualsiasi istante, comprese tutte quelle cose che sono talmente mie che le considero come parte di me stesso. Non c'è niente in me che io non possa perdere. Il caso può in qualsiasi momento abolire ciò che sono e mettere al suo posto qualsiasi cosa di vile e di dispregevole"


Pensare questo con tutta l'anima, significa sperimentare il nulla. Lo stato di estrema e totale umiliazione è anche la condizione del passaggio nella verità. E' una morte dell'anima. Perciò lo spettacolo della sventura nuda causa all'anima la stessa ritrazione che la vicinanza della morte causa alla carne.


Si pensa ai morti con pietà quando li si evoca soltanto con la mente, o quando si va sulle tombe, o quando li si vede convenientemente disposti su un letto. Ma la vista di alcuni cadaveri che sono come gettati su un campo di battaglia, con un aspetto insieme sinistro e grottesco, causa orrore. La morte appare nuda, non vestita, e il corpo rabbrividisce.


La sventura, quando la distanza materiale o morale permette di vederla soltanto in modo vago, confuso, senza distinguerla dalla semplice sofferenza, ispira alle anime generose una tenera pietà. Ma quando un qualche gioco di circostanze fa sì che d'improvviso si trovi da qualche parte messa a nudo, come qualcosa capace di distruggere, una mutilazione o una lebbra dell'anima, si rabbrividisce e si retrocede. E gli stessi sventurati provano lo stesso brivido di orrore davanti a se stessi.


Ascoltare qualcuno, significa mettersi al suo posto mentre parla. Mettersi al posto di un essere la cui anima è mutilata dalla sventura o in pericolo imminente di esserlo, significa annientare la propria anima. E' più difficile di quanto non sarebbe il suicidio per un bambino felice di vivere. Così gli sventurati non sono ascoltati. Sono nello stato in cui si troverebbe qualcuno a cui fosse stata tagliata la lingua e che a momenti dimenticasse la propria infermità. Le loro labbra si muovono, ma nessun suono viene a colpire le nostre orecchie. Loro stessi sono rapidamente colpiti d'impotenza nell'uso del linguaggio per la certezza di non essere sentiti.


E' la ragione per cui non c'è speranza per il vagabondo in piedi davanti al magistrato. Se attraverso i suoi balbettìi esce qualcosa di straziante, che trafigge l'anima, non verrà inteso né dal magistrato né dagli spettatori. E' un grido muto. E gli sventurati fra di loro sono quasi sempre altrettanto sordi gli uni nei confronti degli altri. E ogni sventurato, costretto dall' indifferenza generale, cerca con la menzogna o con l' incoscienza di rendersi sordo a se stesso.


Solo l'operazione sovrannaturale della grazia è in grado di condurre un'anima attraverso il proprio annientamento fino al luogo dove si coglie quella specie di attenzione che da sola permette di essere attenti alla verità e alla sventura. E' la stessa per i due oggetti. E' un'attenzione intensa, pura, senza moventi, gratuita, generosa. E quest'attenzione è amore.


Proprio perché la sventura e la verità hanno bisogno per essere sentiti della stessa attenzione, lo spirito di giustizia e quello di verità sono tutt'uno. Lo spirito di giustizia e di verità non è altro che una certa categoria di attenzione, la quale è puro amore.


Per una eterna disposizione della Provvidenza, tutto ciò che un uomo produce in ogni campo quando lo spirito di giustizia e di verità lo domina, è dotato dello splendore della bellezza.


La bellezza è su questa terra il mistero supremo. E' uno splendore che sollecita l'attenzione, ma non le fornisce alcun motivo per durare. La bellezza promette sempre e non dà mai nulla; suscita la fame, ma non c'è in essa nutrimento per quella parte dell'anima che quaggiù cerca di sfamarsi; ne ha soltanto per quella parte dell'anima che guarda. Suscita il desiderio, e fa sentire chiaramente che non c'è in lei niente da desiderare, poiché si vuole innanzitutto che niente in lei possa cambiare. Se non si cercano espedienti per uscire dal delizioso tormento che infligge, a poco a poco il desiderio si trasforma in amore, e si forma un germe di facoltà di attenzione gratuita e pura.


Tanto la sventura è orrenda quanto l'espressione vera della sventura è sovranamente bella. Si possono dare come esempi, anche nei secoli recenti, "Phedre", "L'Ecole des Femmes", "Lear", le poesie di Villon, ma meglio ancora le tragedie di Eschilo e di Sofocle; e meglio ancora l'"Iliade", il Libro di Giobbe, alcuni poemi popolari; e meglio ancora i racconti della Passione nei Vangeli. Lo splendore della bellezza si sparge sulla sventura grazie alla luce dello spirito di giustizia e d'amore, che solo permette a un pensiero umano di guardare e riprodurre la sventura qual è.


Anche ogni volta che un frammento di inesprimibile verità passa nelle parole che, senza poter contenere la verità che le ha ispirate, realizzano con questa, grazie alla loro connessione, una corrispondenza così perfetta, da fornire un supporto ad ogni mente desiderosa di ritrovarla, ogni volta che è così, un lampo di bellezza si riversa sulle parole.


Tutto ciò che procede dall'amore puro è illuminato dallo splendore della bellezza.


Benché molto confusamente e mescolata con tante false imitazioni, la bellezza è sensibile all'interno della cella in cui ogni pensiero umano si trova inizialmente imprigionato. La verità e la giustizia dalla lingua tagliata non possono sperare nessun altro soccorso. Non ha neppure un linguaggio; non parla; non dice niente. Ma ha una voce per chiamare. Chiama e indica la giustizia e la verità che sono prive di voce. Come un cane abbaia per far accorrere delle persone vicino al padrone che giace nella neve privo di sensi.


Giustizia, verità, bellezza sono sorelle e alleate. Con tre parole così belle, non c'è bisogno di cercarne altre.


La giustizia consiste nel badare che non venga fatto del male agli uomini. Viene fatto del male a un essere umano quando grida interiormente: "Perché mi viene fatto del male?" Spesso si sbaglia appena cerca di rendersi conto del male che subisce, di chi glielo infligge, del perché gli venga inflitto. Ma il grido è infallibile.


L'altro grido sentito così spesso: "Perché lui ha più di me?" è relativo al diritto. Bisogna imparare a distinguere i due gridi e a far tacere il più possibile il secondo, con meno brutalità possibile, aiutandosi con un codice, con tribunali ordinari e con la polizia. Per formare menti capaci di risolvere i problemi che si pongono in questo campo, basta la Scuola del Diritto.


Ma il grido: "Perché mi viene fatto del male?" pone tutt'altri problemi, per i quali è indispensabile lo spirito di verità, di giustizia e d'amore.


In ogni anima umana sorge di continuo la richiesta che non le venga fatto del male. Il testo del Pater rivolge questa richiesta a Dio. Ma Dio ha il potere di preservare dal male soltanto la parte eterna di un'anima entrata con lui in contatto reale e diretto. Il resto dell'anima, e l'anima tutta quanta in chiunque non abbia ricevuto la grazia del contatto reale e diretto con Dio, è abbandonato al volere degli uomini ed è in balia delle circostanze.


Così tocca agli uomini badare che non venga fatto del male agli uomini.


Quando si fa del male a qualcuno, in lui penetra veramente il male; non soltanto il dolore, la sofferenza, ma l'orrore stesso del male. Come hanno il potere di trasmettersi il bene gli uni agli altri, gli uomini hanno anche il potere di trasmettersi il male. Si può trasmettere del male a un essere umano lusingandolo, procurandogli del benessere, dei piaceri; ma il più delle volte gli uomini trasmettono il male agli uomini facendogli del male. Eppure la Saggezza eterna non lascia l'anima umana completamente alla mercé della casualità degli eventi e del volere degli uomini.


Il male inflitto dall'esterno a un essere umano sotto forma di ferita esaspera il desiderio del bene e così suscita automaticamente la possibilità di un rimedio. Quando la ferita è penetrata profondamente, il bene desiderato è il bene perfettamente puro. La parte dell'anima che chiede: "Perché mi viene fatto del male?" è la parte profonda che in ogni essere umano, anche il più depravato, è rimasta sin dalla prima infanzia perfettamente intatta e perfettamente innocente.


Preservare la giustizia, proteggere gli uomini da ogni male, significa prima di tutto impedire che gli venga fatto del male. Significa per quelli a cui è stato fatto del male, cancellarne le conseguenze materiali, mettere le vittime in una situazione in cui la ferita, se non è penetrata troppo profondamente, venga guarita naturalmente col benessere. Ma per quelli cui la ferita ha lacerato tutta l'anima, significa per di più e oltretutto calmare la sete dando loro da bere del bene perfettamente puro.


Si può essere obbligati a infliggere il male per suscitare questa sete allo scopo di estinguerla. E' proprio in ciò che consiste la punizione. Quelli che sono diventati tanto estranei al bene da cercare di spargere il male intorno a loro, non possono reintegrare il bene che infliggendo del male. Bisogna infliggergliene fino a che si svegli anche in fondo a loro quella voce perfettamente innocente che dice con stupore: "Perché mi viene fatto del male?" Bisogna che questa parte innocente dell'anima del criminale riceva nutrimento e che cresca, fino a costituirsi in tribunale all'interno dell'anima, per giudicare i crimini passati, per condannarli, e in seguito, con l'aiuto della grazia, per perdonarli. L'operazione del castigo è allora compiuta; il colpevole è reintegrato nel bene, e deve essere pubblicamente e solennemente reintegrato nella città.


Il castigo non è altro che questo. Perfino la pena capitale, benché escluda la reintegrazione nella città nel senso letterale, non dev'essere altro. Il castigo è unicamente un procedimento per procurare del bene puro a chi non lo desidera; l'arte di punire è l'arte di svegliare nei criminali il desiderio del bene puro grazie al dolore o anche alla morte.


Ma abbiamo perso completamente perfino la nozione di castigo. Non sappiamo più che esso serve a procurare il bene. Per noi si limita a infliggere il male. E' la ragione per cui c'è una cosa, un'unica cosa, nella società moderna, ancora più orrenda del crimine, la giustizia repressiva.


Fare dell'idea di giustizia repressiva il movente centrale nello sforzo della guerra e della rivolta è più pericoloso di quanto nessuno possa immaginare. E necessario usare la paura per diminuire l'attività criminale dei vili; ma è orribile fare della giustizia repressiva, quale oggi la concepiamo nella nostra ignoranza, il movente degli eroi.


Oggi tutte le volte che un uomo parla di castigo, di punizione, di retribuzione, di giustizia in senso punitivo, si tratta soltanto della più bassa vendetta.


Di questo tesoro della sofferenza e della morte violenta, che Cristo ha preso per sé e che offre tanto spesso a quelli che ama, facciamo così poco caso che lo gettiamo agli esseri più vili ai nostri occhi, ben sapendo che non ne faranno alcun uso e non avendo l'intenzione di aiutarli a trovarne l'uso.


Ai criminali, il vero castigo; agli sventurati che la sventura ha morso nel profondo dell'anima, un aiuto capace di portarli ad estinguere la loro sete alle fonti sovrannaturali; a tutti gli altri un po di benessere, molta bellezza, e la protezione contro quelli che potrebbero far loro del male; dappertutto la limitazione rigorosa del tumulto delle menzogne, delle propagande e delle opinioni; l'instaurazione di un silenzio in cui la verità possa germogliare e maturare; ecco quello che è dovuto agli uomini.


Per assicurare questo agli uomini, non si può contare che sugli esseri che sono andati oltre un certo limite. Si dirà che sono troppo poco numerosi. Probabilmente sono rari, eppure non si possono contare; la maggior parte sono nascosti. Il bene puro è mandato dal cielo quaggiù in quantità impercettibile, sia in ogni anima, sia nella società. "Il seme di senape è il più piccolo dei semi" Proserpina ha mangiato un solo chicco di melagrano. Una perla sepolta in un campo non è visibile. Non si nota il lievito mescolato all'impasto.


Ma come nelle reazioni chimiche i catalizzatori o i batteri, di cui il lievito è un esempio, analogamente nelle cose umane i semi impercettibili di bene puro operano in un modo decisivo con la loro sola presenza, se sono messi al posto giusto.


Come metterli al posto giusto?


Sarebbe già molto se fra quelli che hanno l'incarico di indicare al pubblico cose da lodare, da ammirare, da sperare, da ricercare, da chiedere, per lo meno alcuni decidessero in cuor loro di disprezzare recisamente e senza eccezione tutto ciò che non è il puro bene, la perfezione, la verità, la giustizia, l'amore.


Sarebbe ancora di più se la maggior parte di coloro che detengono oggi frammenti d'autorità spirituale si sentissero costretti a non proporre mai altro alle aspirazioni degli uomini se non bene reale e perfettamente puro.


Quando si parla del potere delle parole si tratta sempre di un potere d'illusione e di errore. Ma sotto l'effetto di una disposizione provvidenziale, esistono certe parole, che, se ne viene fatto un buon uso, hanno in se stesse la virtù di illuminare e di innalzare verso il bene. Sono le parole a cui corrisponde una perfezione assoluta e per noi inafferrabile. La virtù d'illuminazione e di trasmissione verso l'alto risiede in queste stesse parole, in queste parole come tali, non in un qualche concetto. Perché farne un buon uso, significa prima di tutto non far loro corrispondere alcun concetto. Ciò che esprimono è inconcepibile.


Dio e verità sono tra queste parole. Pure giustizia, amore, bene. Tali parole sono pericolose da usare. Il loro uso è un'ordalia. Perché ne venga fatto un uso legittimo, occorre da un lato non rinchiuderle in alcuna concezione umana, e dall'altro collegarle a concetti e azioni direttamente ed esclusivamente ispirati dalla loro luce. Se no, sono riconosciute subito da tutti come menzogne. Sono compagne scomode. Parole come diritto, democrazia e persona sono più comode. A questo titolo sono naturalmente preferibili agli occhi di chi, seppure ben intenzionato, ha assunto funzioni pubbliche. Le funzioni pubbliche non hanno altro significato che la possibilità di fare del bene agli uomini, e coloro che le assumono con buone intenzioni, vogliono spargere del bene sui loro contemporanei; ma generalmente commettono l'errore di credere che da prima potranno essi stessi acquistarlo a prezzo ridotto.


Le parole della zona intermedia, diritto, democrazia persona, sono di uso comune nella loro zona, quella delle istituzioni medie. L'ispirazione da cui tutte le istituzioni procedono, di cui sono come la proiezione, reclama un altro linguaggio.

La subordinazione della persona al collettivo è nella natura delle cose come quella del grammo al chilogrammo su una bilancia. Ma una bilancia può essere tale che il chilogrammo ceda al grammo. Basta che uno dei bracci sia più di mille volte più lungo dell'altro. La legge dell'equilibrio supera ampiamente la disuguaglianza dei pesi. Ma il peso inferiore non vincerà mai il peso superiore senza una relazione tra di loro dove sia cristallizzata la legge dell'equilibrio.

Nello stesso modo, la persona non può essere protetta contro il collettivo, e la democrazia assicurata, se non grazie a una cristallizzazione nella vita pubblica del bene superiore, che è impersonale e senza relazione con alcuna forma politica.

E' vero che la parola persona è applicata spesso a Dio. Ma nel passo dove il Cristo propone Dio stesso agli uomini come il modello di una perfezione che è comandato loro di compiere, non vi aggiunge soltanto l'immagine di una persona, ma soprattutto quella di un ordine impersonale: "Diventate i figli di vostro Padre, quello dei cieli, in quanto fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e cadere la sua pioggia sui giusti e sugli ingiusti" Questo ordine impersonale e divino dell'universo ha come immagine fra di noi la giustizia, la verità, la bellezza. Niente di inferiore a queste cose è degno di servire d'ispirazione agli uomini che accettano di morire.

Sopra le istituzioni destinate a proteggere il diritto, le persone, le libertà democratiche, bisogna inventarne altre destinate a discernere e ad abolire tutto ciò che, nella vita contemporanea, schiaccia le anime sotto il peso dell'ingiustizia, della menzogna e della bruttezza.

Bisogna inventarle, perché sono sconosciute, ed è impossibile dubitare che siano indispensabili.

NOTE.

1: Scritto a Londra fra il 1942 e il 1943, "La persona e il sacro" apparve, postumo, la prima volta in dicembre 1950 su "La Table Ronde"


2: Elementi cosiddetti personalistici si rintracciano nell'esistenzialismo religioso (Gabriel Marcel e Nicolas Berdjaev) Il personalismo sociale tende a unire l'istanza personalistica con quella comunitaria, superando i limiti dell'individualismo e del collettivismo. Suo organo fu la rivista "Esprit" fondata nel 1932 da Emmanuel Mounier.


3: William Blake (1757-1827), poeta, pittore, incisore inglese, denuncia la falsità della morale corrente, la natura divina dell'energia e dell'immaginazione, contro il pensiero meccanicista che si accompagna al sorgere del modo di produzione industriale. Negando una concezione dell'uomo diviso fra spirito e corpo, desiderio e repressione, realtà e fantasia, Blake esalta l'innocenza sensuale, l'attività creatrice e totalizzante dell'immaginazione attraverso la quale può essere ricomposta, in un tutto organico, la realtà scissa.

SICUREZZA PER TUTTI, ANCHE PER HEZBOLLAH Alessandra Libutti

 


SICUREZZA PER TUTTI, ANCHE PER HEZBOLLAH 

Alessandra Libutti   

Eccoci qua, con una nuova perla da aggiungere alla collana delle dichiarazioni indimenticabili della politica italiana. Il ministro Tajani, in un impeto di sincerità o forse in un momento di distrazione strategica, ci ha regalato un’affermazione che, letta di primo acchito, suona come una battuta da bar alle due del mattino: le truppe italiane in Libano, ci dice, “hanno garantito la sicurezza anche di Hezbollah.” Sì, proprio così. Non “anche la sicurezza di civili” o “anche la stabilità dell’area,” ma di Hezbollah.

Ora, possiamo aspettarci a breve il solito copione: qualche collaboratore zelante apparirà davanti alle telecamere per dirci che Tajani è stato frainteso. “Non intendeva dire che le nostre truppe unite all’UNIFIL stessero difendendo un’organizzazione terroristica riconosciuta tale dall’UE. È evidente che le sue parole vanno contestualizzate, meditate, decantate come un buon vino.” Certo, perché tutti sappiamo che Hezbollah è famosa per apprezzare la pace e non, diciamo, per lanciare razzi contro Israele.

Mica vorremo pensare che sia stato davvero uno di quei lapsus freudiani, quei momenti subdoli in cui il subconscio prende il controllo e ti fa dire ciò che sarebbe meglio tenere nascosto, specialmente in politica, dove le parole pesano come macigni. È quel tipo di scivolone che lascia intravedere quello che hai ben chiaro in testa ma che non avresti mai voluto far uscire, perché sennò ci fai una figura imbarazzante, di quelle che restano negli annali. È come se, per un istante, la tua diplomazia si fosse distratta e avesse permesso a una verità scomoda di affacciarsi al mondo, lasciando il pubblico interdetto e i tuoi collaboratori intenti a scrivere la smentita del secolo, a buttarla in caciara o addirittura a ridere.

È un po’ difficile però trovare divertente l’idea che le nostre truppe, che a tutti gli effetti dovrebbero essere lì per mantenere la pace, possano in qualche modo essere percepite come “protettori” di un’organizzazione il cui curriculum non proprio pacifico è ben noto. Tajani, forse nella sua mente, immaginava un plot twist diplomatico: “Italiani, i pacieri di tutti! Garantiamo sicurezza anche ai vostri nemici!” Il che, diciamocelo, sarebbe proprio da Tajani. In fondo noi non facciamo distinzioni: un bel ‘peace and love’ e siamo a posto.

Adesso, aspettiamoci l’altra grande specialità della politica contemporanea: il ribaltamento. Chiunque si permetta di sottolineare questa gigantesca uscita di strada verrà accusato di fare polemica sterile, di essere fazioso, di non capire il grande disegno strategico di Tajani. Qualcuno dirà che i veri colpevoli sono i giornalisti o i commentatori che “esasperano i toni.”

Nel frattempo, lo sforzo creativo del governo sarà concentrato nel trovare una formula verbale che giustifichi l’inciampo: “Non voleva dire Hezbollah-Hezbollah, capite? Si riferiva a una sicurezza generale che, in un certo senso, indirettamente… ecco…” (Inserire qui un lungo silenzio imbarazzato).

La verità è che ormai ci siamo abituati a questo eterno gioco delle parti. Si dice qualcosa di surreale, si nega di averlo detto, si accusa chi lo fa notare, e si passa oltre.

Intanto, però, forse è il caso di fare un piccolo promemoria: le parole hanno un peso, soprattutto quando si parla di missioni militari in aree tanto delicate. E no, ministro, non basta dire “sono stato frainteso”. Lei ha proprio detto che le truppe italiane stanno difendendo anche Hezbollah

SAI COSA SUCCEDERÀ A NOI DUE? (Attribuita a) Charles Bukowski

 

SAI COSA SUCCEDERÀ A NOI DUE?

(Attribuita a) Charles Bukowski 

Ci cercheremo, ancora.
Ci cercheremo nelle canzoni,
nelle citazioni, nei libri.
Ci cercheremo tra gli sguardi della gente.
Magari la sera, che ci frega sempre.
Avremo voglia di scriverci, ancora.
Magari nei sogni, di entrambi.
Nonostante tutte le litigate,
nonostante le brutte parole urlate contro,
nonostante i “con te ho chiuso, sei fuori dalla mia vita”
Ci penseremo, di nascosto, e fingeremo.
Fingeremo il mattino seguente di aver pensato ad altro.
Ci mancheremo, eccome.
E questa sarà la nostra punizione.
La punizione di non aver provato a tenerci
quando tutto tra noi stava per crollare.

martedì 19 novembre 2024

LABBRA CONTRO LABBRA Estratto da “Una bellezza russa e altri racconti.” Vladimir Nabokov


LABBRA CONTRO LABBRA
Estratto da “Una bellezza russa e altri racconti.” Vladimir Nabokov.

I violini piangevano ancora, eseguendo quello che sembrava un inno alla passione e all'amore, ma già Irina e un profondamente commosso Dolinin si stavano avviando velocemente verso l'uscita. Erano attratti dalla notte primaverile, dal mistero che si era eretto fra loro. I loro cuori battevano all'unisono.

«Dammi lo scontrino del guardaroba» fece Dolinin (cancellato).

«Ti prego, lasciami prendere il tuo cappello e mantello» (cancellato).

«Ti prego,» fece Dolinin «lasciami prendere le tue cose» («e le mie» inserito fra «tue» e «cose»).

Dolinin si avvicinò al guardaroba e dopo aver mostrato il suo piccolo scontrino (corretto in «i due piccoli scontrini»)…

Qui Il'ja Borisovic Tal' divenne pensieroso. Appariva goffo gingillarsi lì, al guardaroba. C'era appena stato uno slancio di sentimenti ispirati, un'improvvisa vampata d'amore fra il solitario, attempato Dolinin e la sconosciuta con la quale aveva diviso per caso il palco, una ragazza in nero, dopo di che avevano deciso di fuggire dal teatro, lontano, lontano dai décolleté e dalle divise militari. Da qualche parte, più in là, oltre il teatro, l'autore immaginava vagamente il Parco Kupeceski o il Parco Zarskij, robinie in fiore, precipizi, una notte stellata. L'autore era oltremodo impaziente di tuffarsi con il suo eroe e la sua eroina in quella notte stellata. Bisognava, però, cercare i soprabiti, e questo interferiva con l'incantesimo. Il'ja Borisovic rilesse quello che aveva scritto, gonfiò le guance, fissò il fermacarte di cristallo, e infine decise di sacrificare l'incantesimo al realismo. Il compito si rivelò tutt'altro che facile. Le sue inclinazioni erano rigorosamente liriche, le descrizioni della natura e delle emozioni gli venivano con sorprendente facilità, ma gli erano invece molto ostici i dettagli quotidiani come, per esempio, aprire o chiudere le porte o scambiare strette di mano se in una stanza c'erano numerosi personaggi e una o due persone dovevano salutarne molte altre. Inoltre Il'ja Borisovic lottava costantemente con i pronomi, come nel caso di «lei», che aveva un modo dispettoso di riferirsi, nella medesima frase, non solo alla protagonista ma anche a sua madre e a sua sorella, cosicché per evitare di ripetere un nome proprio si trovava costretto a scrivere «quella signora» o «la sua interlocutrice» benché di colloqui non ci fosse nemmeno l'ombra. Scrivere per lui significava una lotta impari contro oggetti indispensabili; i beni di lusso sembravano molto più docili, ma di quando in quando perfino loro si ribellavano, si inceppavano, ostacolavano la libertà di movimento – e ora che aveva laboriosamente messo fine al trambusto del guardaroba ed era in procinto di donare al suo protagonista un elegante bastone, Il'ja Borisovic si dilettava con innocente candore del luccichio del massiccio pomello, senza prevedere, ahimè!, quali pretese avrebbe avanzato quell'articolo di valore, con quanta molesta insistenza avrebbe chiesto di essere menzionato quando Dolinin si fosse risolto a portare in braccio Irina attraverso un ruscello primaverile, avvertendo sotto le sue mani le curve sinuose di quel giovane, agile corpo.

Dolinin era semplicemente «attempato»; Il'ja Borisovic stava per compiere cinquantacinque anni. Dolinin era «di una ricchezza enorme», senza precisazioni sulla provenienza dei suoi introiti; Il'ja Borisovic dirigeva una ditta specializzata nell'installazione di sale da bagno (ditta che quell'anno, fra l'altro, era stata incaricata di rivestire con piastrelle smaltate le pareti cavernose di alcune stazioni della metropolitana) ed era piuttosto benestante.

Dolinin viveva in Russia – Russia meridionale probabilmente – e aveva incontrato Irina molto prima della rivoluzione. Il'ja Borisovic abitava a Berlino dove era emigrato con la moglie e il figlio nel 1920. La sua produzione letteraria, benché iniziata molto tempo addietro, non era voluminosa: il necrologio di un commerciante locale, famoso per le sue vedute politiche liberali, che era uscito sul «Corriere di Char'kov» (1910), due poesie in prosa, ibid. (agosto 1914 e marzo 1917), e un libro costituito da quel medesimo necrologio più le due poesie in prosa – un volumetto grazioso varato nel bel mezzo della furibonda guerra civile. Infine, giunto a Berlino, Il'ja Borisovic scrisse un piccolo saggio, Viaggiatori di mare e di terra, che uscì su un umile quotidiano émigré pubblicato a Chicago; ma presto quel giornale svanì come fumo, mentre altri periodici non restituivano i manoscritti e non discutevano mai i rifiuti. Seguirono due anni di silenzio creativo: la malattia e la morte di sua moglie, Ylnflazionzeit, mille iniziative d'affari. Suo figlio terminò il liceo a Berlino e s'iscrisse all'Università di Friburgo. E adesso, nel 1925, avviandosi all'età senile, questa persona prospera e, tutto sommato, molto sola, fu soggetta a un tale attacco di prurito letterario, provò una tale bramosia – no, non di notorietà, ma semplicemente di un certo qual amichevole calore e di attenzione da parte dei lettori – che si risolse a cedere, a scrivere un romanzo e farlo pubblicare a sue spese.

Già quando il protagonista, Dolinin, triste e stanco del mondo, udiva gli squilli di tromba di una nuova vita e (dopo quella sosta quasi fatale al guardaroba) scortava la sua giovane compagna fuori, nella notte di aprile, il romanzo aveva trovato il suo titolo: Labbra contro labbra. Dolinin fece traslocare Irina nel suo appartamento, ma non era ancora successo nulla in senso amatorio, perché lui desiderava che lei venisse nel suo letto spontaneamente, esclamando:

«Prendimi, prendi la mia purezza, prendi il mio tormento. La tua solitudine è la mia solitudine, e, per breve o lungo che sia il tuo amore, sono pronta a tutto perché intorno a noi la primavera ci chiama all'umanità e al bene, perché il cielo e il firmamento irradiano bellezza divina, e perché ti amo».

«Un brano forte» osservò Eufratskij. «Firmamento» presumo «è un gioco su terra firma, vero? Molto forte».

«E non è noioso?» domandò Il'ja Borisovic Tal', lanciando uno sguardo al di sopra degli occhiali con la montatura di corno. «Eh? Me lo dica francamente».

«Immagino che la sverginerà» rifletté Eufratskij.

«Mimo, citatel', mimo! (sbagli, lettore, sbagli!)» rispose Il'ja Borisovic (travisando Turgenev). Sorrise con una certa sufficienza, riassettò con un colpetto il manoscritto, accavallò le sue grasse cosce, sistemandosi in modo più confortevole, e continuò la lettura.

Lesse il suo romanzo a Eufratskij man mano che lo scriveva. Eufratskij, piombato su di lui tempo addietro durante un concerto di beneficenza, era un giornalista émigré «con un nome», o, piuttosto, con una dozzina di pseudonimi. Fino a quel giorno le conoscenze di Il'ja Borisovic provenivano dagli ambienti industriali tedeschi; ora invece egli presenziava a incontri émigré, conferenze, spettacoli di dilettanti, e aveva imparato a riconoscere alcuni dei confratelli dediti alle belle lettere. Con Eufratskij era in rapporti particolarmente cordiali e apprezzava il suo parere in quanto veniva da un maestro di stile, anche se lo stile di Eufratskij apparteneva a quel genere di moda che noi tutti conosciamo. Il'ja Borisovic lo invitava spesso; sorseggiando cognac, discorrevano di letteratura russa, o, più precisamente era Il'ja Borisovic a parlarne, mentre l'ospite collezionava con avidità dettagli comici con cui divertire in seguito i vecchi amici. In effetti, i gusti di Il'ja Borisovic erano piuttosto grossolani. Naturalmente attribuiva a Puskin il giusto merito, ma lo conosceva soprattutto attraverso due o tre opere liriche e lo considerava, in genere, «di una serenità olimpica e incapace di commuovere il lettore». La sua conoscenza della poesia recente si limitava al ricordo di due poemi, entrambi politicamente orientati, Il mare di Vejnberg (1830-1908) e i famosi versi di Skitalec (Stepan Petrov, nato nel 1868) in cui «penzolava» (dalla forca) faceva rima con «s'immischiava» (in una congiura rivoluzionaria). Piaceva a Il'ja Borisovic prendere in giro, in modo blando, i «decadenti»? Sì, gli piaceva proprio, però non bisogna dimenticare che ammetteva francamente di non comprendere la poesia. In cambio amava discutere di narrativa russa: stimava Lugovoj (una mediocrità regionale del primo Novecento), apprezzava Korolenko, e riteneva che Arcybasev traviasse i giovani lettori. In quanto ai romanzi dei moderni scrittori émigré, usava dire, allargando le mani nel tipico gesto russo di impotenza, «Noioso, noioso!», il che mandava Eufratskij in trance, una specie di trance estatica.

«Un autore deve avere sentimento» Il'ja Borisovic era solito ripetere «e compassione, deve essere sensibile e leale. Sarò pure un moscerino, una nullità, ma ho un mio credo. Che anche una sola parola dei miei scritti possa fecondare l'anima di un lettore». Intanto Eufratskij lo fissava con occhi da rettile, pregustando con tenerezza straziante il resoconto mimico dell'indomani, accompagnato dalle grasse risate di A e dallo squittio ventriloquo di Z.

Finalmente venne il giorno in cui la prima stesura del romanzo si potè dire terminata. All'invito dell'amico ad andare a sedersi in un caffè, Il'ja Borisovic rispose con tono grave e misterioso: «Impossibile. Sto perfezionando le mie enunciazioni».

Il perfezionamento consisteva nel lanciare un attacco contro l'aggettivo molodaja, «giovane» (genere femminile), che ricorreva troppo di frequente, sostituendolo qua e là con «molto giovane», junaja, da lui pronunciato con un raddoppiamento provinciale della consonante, come se si scrivesse junnaja.

Il giorno seguente. Crepuscolo. Un caffè sul Kurfurstendamm. Divanetto di velluto rosso. Due signori. A un osservatore casuale sembrerebbero uomini d'affari. Uno di aspetto distinto, quasi maestoso, ha l'aria del non fumatore e un'espressione di fiducia e gentilezza sul viso paffuto; l'altro è magro, con sopracciglia ispide e due pieghe schizzinose che dalle narici triangolari arrivano fino agli angoli, volti all'ingiù, della bocca dalla quale pende obliqua una sigaretta non ancora accesa. La voce pacata del primo:

«La fine l'ho scritta di getto. Lui muore. Sì, muore».

Silenzio. Il divanetto rosso è piacevolmente morbido. Al di là della vetrata un tram traslucido passa fluttuando come un pesce dai colori vivaci in un acquario.

Eufratskij fece scattare l'accendino, buttò fuori il fumo dalle narici e disse: «Mi dica, Il'ja Borisovic, perché non farlo uscire a puntate su una rivista letteraria prima di pubblicarlo in volume?».

«Ma sa, non ho agganci in quel giro. Pubblicano sempre gli stessi».

«Sciocchezze. Ho un piccolo piano. Mi ci lasci pensare su».

«Sarei felice…» mormorò Tal' con aria sognante.

Alcuni giorni dopo, nell'ufficio di I.B. Tal', in ditta. Ecco che si svela il piccolo piano.

«Spedisca la sua cosa» (Eufratskij ammiccò abbassando la voce) «ad "Arion"».

«"Arion"? Che cos'è?» fece I.B., tamburellando nervosamente sul manoscritto.

«Niente di terrificante. È la migliore rivista émigré. Non la conosce? Ahi-ahi-ahi! Il primo numero è uscito questa primavera, il secondo è in programma per l'autunno. Lei dovrebbe seguire la letteratura un po' più da vicino, Il'ja Borisovic!».

«Ma come si fa a mettersi in contatto? Lo spedisco semplicemente per posta?».

«Esatto. Al direttore in persona. Esce a Parigi. E ora non mi dica che non ha mai sentito parlare di Galatov».

Con aria colpevole Il'ja Borisovic alzò la spalla robusta. Con una smorfia ironica sul viso, Eufratskij spiegò: uno scrittore, Galatov, un maestro, una nuova forma di romanzo, una struttura complessa, il Joyce russo.

«Djoys» ripeté umilmente Il'ja Borisovic.

«Per prima cosa lo faccia battere a macchina» continuò Eufratskij. «E per amor di Dio si familiarizzi con la rivista».

Lui si familiarizzò. In una delle librerie émigré russe gli porsero un paffuto volumetto rosa. Lo acquistò, pensando, per così dire, ad alta voce: «Iniziativa giovane. Bisogna incoraggiarla».

«É già finita, l'iniziativa giovane» commentò il libraio. «Ne è uscito un solo numero».

«Lei non è informato» rispose Il'ja Borisovic con un sorriso. «Io so per certo che il prossimo numero uscirà in autunno».

Tornato a casa, prese un tagliacarte d'avorio e tagliò con cura le pagine della rivista. Dentro trovò un incomprensibile brano in prosa di Galatov, due o tre novelle di autori che conosceva vagamente, versi fumosi, e un articolo assai competente, firmato «Tigris», sui problemi dell'industria tedesca.

«Ma non lo accetteranno mai» rifletté Il'ja Borisovic con angoscia. «Sono tutti della stessa cricca».

Tuttavia tra le inserzioni economiche di un giornale in lingua russa individuò una certa signora Lubanskij («stenografa e dattilografa»), la convocò nel suo appartamento e prese a dettare con enorme emozione, con l'anima in tumulto, alzando la voce – e sbirciando ogni tanto la signora per controllare come reagiva al romanzo. La matita continuava a volteggiare mentre lei si piegava sul suo blocchetto di fogli – era una donna mora, minuta, con un esantema sulla fronte – e Il'ja Borisovic passeggiava per lo studio descrivendo cerchi concentrici che si restringevano attorno a lei ogni qualvolta si approssimava qualche brano spettacolare. Verso la fine del primo capitolo la stanza vibrava tutta per gli urli che egli lanciava.

«E il suo intero preterito gli sembrò un orrendo errore» tuonò Il'ja Borisovic, aggiungendo poi, con la normale voce da ufficio: «Mi batta questo per domani, cinque esemplari, margini larghi, l'aspetterò qui alla stessa ora».

Quella notte, a letto, si mise a escogitare ciò che avrebbe scritto a Galatov come accompagnamento al romanzo («…in attesa del Suo severo giudizio… miei pezzi sono apparsi sia in Russia sia in America…»), e il mattino seguente – tale è l'affascinante compiacenza del destino – Il'ja Borisovic ricevette da Parigi questa lettera:

«Egregio Boris Grigor'evic,

«Apprendo da un comune amico che Lei ha terminato una nuova opera. Al comitato editoriale di "Arion" interesserebbe prenderne visione, poiché ci piacerebbe avere qualcosa di "fresco" per il prossimo numero.

Che strano! Solo l'altro giorno mi sono tornate in mente le Sue eleganti miniature sul "Corriere di Char'kov"!».

«Mi ricordano, mi vogliono» fece Il'ja Borisovic sbigottito. Dopo di che telefonò a Eufratskij e, buttandosi all'indietro nella poltrona, tutto di traverso – con la goffaggine del trionfo – e appoggiando sulla scrivania la mano che reggeva la cornetta mentre con l'altra descriveva un ampio gesto nell'aria, tutto raggiante disse con voce strascicata: «Pe-erò, vecchio mio, pe-erò» – e all'improvviso vari oggetti lucenti che stavano sulla scrivania si misero a tremare e a sdoppiarsi e a dissolversi in un umido miraggio. Sbatté le palpebre, ogni cosa tornò al suo posto, e la voce languida di Eufratskij rispose: «Suvvia! Solidarietà fra scrittori… Un banalissimo favore…».

Le cinque pile di pagine dattiloscritte diventavano sempre più alte. Dolinin, che fra una cosa e un'altra non aveva ancora posseduto la sua bella compagna, scoprì per caso che era infatuata di un altro, un giovane pittore. Talvolta I.B. dettava nel suo ufficio, e allora le dattilografe tedesche nelle altre stanze, sentendo quei ruggiti lontani, si chiedevano chi mai avesse fatto infuriare il capo, solitamente di indole gentile. Dolinin ebbe una conversazione a cuore aperto con Irina, lei gli disse che non l'avrebbe mai lasciato perché stimava troppo la sua anima bella e solitaria ma che, ahimè, il suo corpo apparteneva a un altro, e Dolinin silenziosamente si inchinò. Infine venne il giorno in cui egli fece un testamento a favore di lei, poi venne quello in cui lui si sparò (con una Mauser), e infine quello in cui Il'ja Borisovic, con un sorriso beato, chiese alla signora Lubanskij, che gli aveva portato l'ultima parte del dattiloscritto, quanto le doveva, e tentò di strapagarla.

In preda all'estasi rilesse Labbra contro labbra e ne consegnò una copia a Eufratskij per eventuali correzioni (una discreta opera di revisione era già stata compiuta dalla signora Lubanskij nei punti in cui le omissioni accidentali avevano alterato i suoi appunti stenografici). Il contributo di Eufratskij si limitò all'inserzione in una delle prime righe di una virgola impulsiva, vergata con una matita rossa. Il'ja Borisovic trascrisse religiosamente quella virgola nell'esemplare destinato ad «Arion», firmò il romanzo con uno pseudonimo coniato su «Anna» (il nome della sua defunta moglie), suddivise accuratamente i capitoli con eleganti fermagli, aggiunse una lunga lettera, inserì il tutto in un'enorme, solida busta, la pesò, andò lui stesso alla posta, e spedì il romanzo per raccomandata.

Con la ricevuta al sicuro nel portafoglio, Il'ja Borisovic si preparò a settimane e settimane di attesa trepidante. La risposta di Galatov giunse, invece – con sollecitudine sorprendente –, il quinto giorno.

«Caro Il'ja Grigor'evic,

«La redazione è veramente entusiasta del materiale da Lei inviato. Raramente abbiamo avuto occasione di leggere pagine che recavano così nitida l'impronta di un'"anima umana". Il Suo romanzo commuove il lettore con l'espressione singolare del volto che ci mostra, per parafrasare Baratynskij, cantore delle rupi finlandesi. Spira "amarezza e tenerezza". Alcune descrizioni, come per esempio quella del teatro, proprio all'inizio, possono competere con immagini analoghe nelle opere dei nostri autori classici e, in un certo senso, prendere su di essi il sopravvento. Affermo ciò nella piena consapevolezza della "responsabilità" che una simile dichiarazione comporta. Il suo romanzo sarebbe stato un autentico ornamento per la nostra rivista».

Non appena Il'ja Borisovic riacquistò la padronanza di sé, andò a piedi fino al Tiergarten – invece di farsi portare in ufficio – e rimase seduto su una panchina, tracciando degli archi sulla terra bruna, pensando a sua moglie e immaginando come avrebbe gioito insieme a lui. Un po' più tardi andò a trovare Eufratskij. Questi stava a letto e fumava. Analizzarono insieme ogni parola della lettera. Quando giunsero all'ultima, Il'ja Borisovic alzò mite gli occhi e chiese: «Mi dica, perché pensa che abbia messo "sarebbe stato" e non "sarà"? Forse non capisce che sono felicissimo di dare loro il mio romanzo? O è semplicemente un artificio stilistico?».

«Temo che la ragione sia un'altra» rispose Eufratskij. «Senza dubbio lo nascondono per puro orgoglio. Fatto sta che la rivista sta chiudendo bottega – sì, l'ho appena scoperto. Come sa, il pubblico émigré consuma ogni genere di porcherie, mentre "Arion" si rivolge al lettore raffinato. Ed ecco cosa capita».

«Anch'io ho sentito delle voci,» disse Il'ja Borisovic preoccupatissimo «ma pensavo fosse una calunnia dei concorrenti, oppure mera ottusità. Possibile che non sia destinato a uscire un secondo numero? É spaventoso!».

«Non hanno mezzi. La rivista è un'impresa disinteressata, idealistica. Purtroppo pubblicazioni del genere periscono».

«Ma come, come è possibile!» gridò Il'ja Borisovic, allargando le mani nel tipico gesto russo di disappunto. «Non avevano accettato la mia cosa, non la volevano stampare?».

«Sì, peccato» rispose Eufratskij con calma. «A proposito, mi dica…». E cambiò argomento.

Quella notte Il'ja Borisovic meditò seriamente, consultò il suo intimo, e il mattino dopo telefonò all'amico per porgli alcune domande di natura economica. Eufratskij rispondeva con tono svogliato ma con grande precisione. Il'ja Borisovic ponderò ancora e l'indomani fece a Eufratskij una proposta da trasmettere ad «Arion». La proposta fu accolta, e Il'ja Borisovic trasferì a Parigi una certa somma di denaro. Ricevette in risposta espressioni di profonda gratitudine e la notizia che il prossimo numero di «Arion» sarebbe uscito entro un mese. Nel postscriptum veniva avanzata una cortese richiesta: «Ci consenta di scrivere "un romanzo di Il'ja Annenskij", e non, come suggerisce Lei, "I. Annenskij", altrimenti si potrebbe ingenerare confusione con "l'ultimo cigno di Carskoe Selo", come lo definisce Gumilév».

Il'ja Borisovic rispose:

«Sì, certo, era solo perché non sapevo che ci fosse già un autore che scriveva sotto quel nome. Sono lietissimo che il mio lavoro venga stampato. Abbiate la gentilezza, per favore, di inviarmi cinque esemplari della vostra rivista appena esce».

(Aveva in mente una vecchia cugina e due o tre conoscenti d'affari. Suo figlio non sapeva leggere il russo).

Iniziò allora quel periodo della sua vita definito dagli spiritosi con l'espressione «a proposito». In una libreria russa, o a una riunione degli Amici delle Arti in Esilio o semplicemente su un marciapiede di Berlino Ovest, ti abbordava amabilmente («Ehi, come va?») una persona che conoscevi appena, un signore distinto e simpatico con occhiali dalla montatura di corno e bastone da passeggio, il quale attaccava casualmente discorso su questo e quello, per poi passare impercettibilmente da questo e quello alla letteratura, e infine sbottare all'improvviso:

«A proposito, ecco quel che mi scrive Galatov. Sì – Galatov, il Djoys russo».

Tu prendevi la lettera e davi un'occhiata:

«… La redazione è veramente entusiasta … i nostri autori classici… ornamento per la nostra rivista».

«Ha sbagliato il mio patronimico» aggiungeva Il'ja Borisovic con un risolino benevolo. «Sa come sono distratti gli scrittori! La rivista uscirà in settembre, potrà leggere il mio lavoretto». E rimettendo la lettera nel portafoglio ti salutava e se ne andava rapidamente con aria preoccupata.

I letterati falliti, i giornalisti da strapazzo, gli inviati speciali di quotidiani dimenticati lo deridevano con voluttà selvaggia. Simili urli di dileggio li lanciano i teppisti quando torturano un gatto; una simile scintilla arde nell'occhio di soggetti non più giovani e sessualmente sfortunati quando raccontano una storiella particolarmente sconcia. Naturalmente lo sbeffeggiavano dietro le spalle, ma con la massima disinvoltura, noncuranti della splendida acustica dei luoghi in cui si facevano pettegolezzi. Dato, però, che era sordo al mondo come un gallo cedrone durante il corteggiamento, probabilmente non coglieva neanche una parola di tutto questo. Era allegro, faceva passeggiare il suo bastone con atteggiamento nuovo, «romanzesco», cominciò a scrivere a suo figlio in russo, con traduzione tedesca interlineare di gran parte delle parole. In ufficio già si sapeva che I.B. Tal' era non solo un'eccellente persona, ma anche uno Schrifisteller, e alcuni dei suoi amici d'affari gli confidavano i loro segreti amatori da usare come eventuali temi narrativi. Intorno a lui, avvertendo un certo tiepido zefiro, cominciò a radunarsi, passando sia dall'ingresso principale sia dalla porta di servizio, la variopinta mendicità dell'emigrazione. I personaggi pubblici si rivolgevano a lui con rispetto. Era innegabile: Il'ja Borisovic era davvero circondato dalla stima e dalla fama. Non passava una sola festa, nell'ambiente dei russi colti, senza che fosse fatto il suo nome. Come si menzionava, con quale genere di risatina soffocata, ha poca importanza: la cosa in sé, non il modo, è importante, suggerisce la vera saggezza.

A fine mese Il'ja Borisovic dovette lasciare la città per un noioso viaggio d'affari e così perse gli annunci sui giornali di lingua russa riguardanti l'imminente pubblicazione di «Arion 2». Quando tornò a Berlino, lo aspettava sul tavolo del corridoio un grosso pacco di forma cubica. Senza togliersi il soprabito lo aprì all'istante. Tomi color rosa, paffuti e freschi. E in copertina, a caratteri purpurei, arion. Sei esemplari.

Il'ja Borisovic tentò di aprirne uno; il libro emise dei crepitìi deliziosi ma rifiutò di aprirsi. Cieco, neonato! Ritentò e vide di sfuggita versi altrui, altrui. Spostò la massa di fogli non tagliati da destra a sinistra e il suo occhio cadde sull'indice. Il suo sguardo scorse rapidamente nomi e titoli, ma lui non c'era, lui non c'era! Il volume tentò di chiudersi, lui lo contrastò e riuscì ad arrivare in fondo all'elenco. Nulla! Dio mio, com'era possibile? Non poteva essere! Il suo nome, per caso, doveva essere stato tralasciato nell'indice, sono cose che capitano, sì, capitano! Ora stava nello studio e, impugnando il suo bianco coltello, penetrò la carne spessa e lamellare del libro. Prima, naturalmente, c'era Galatov, poi delle poesie, poi due novelle, poi altre poesie, di nuovo prosa, e più avanti ancora solo trivialità: rassegne, recensioni, eccetera. Il'ja Borisovic fu sopraffatto, di colpo, da un senso di stanchezza e di futilità. Be', niente da fare. Forse avevano troppo materiale. Lo stamperanno nel prossimo numero. Sì, questo è certo! Però, un'altra attesa… E sia, aspetterò. E intanto continuava a far passare meccanicamente le morbide pagine fra indice e pollice. Carta fine. Bene, almeno un aiuto l'ho dato. Uno non può pretendere di essere stampato al posto di un Galatov o di… E qui, improvvisamente, balzarono fuori e cominciarono a piroettare, a saltellare, con una mano sul fianco, in una danza russa, quelle care, commoventi parole: «… il suo giovane seno, appena sbocciato … i violini piangevano ancora … i due piccoli scontrini … la notte di primavera li accolse con un carez-» e, sul retro, inevitabile come il proseguimento dei binari dopo una galleria: «zevole, passionale vento di passione…».

«Che stupido a non aver indovinato subito!» escalmò Il'ja Borisovic.

Era intitolato Prologo di un romanzo e firmato «A. Il'in». Alla fine, tra parentesi, c'era «continua». Un pezzetto esiguo, solo tre pagine e mezzo, ma che bel pezzetto! Un'ouverture. Elegante. «Il'in» è meglio di «Annenskij». Poteva esserci un qui prò quo anche se avessero messo «Il'ja Annenski». Ma perché Prologo e non semplicemente «Labbra contro labbra. Capitolo primo»? Oh, non ha alcuna importanza.

Rilesse il brano tre volte. Poi mise da parte la rivista e camminò su e giù per lo studio fischiettando con noncuranza come se non fosse accaduto nulla: sì, sì, c'è un volume là, un volume qualunque – che importanza ha? Dopo di che piombò su detto volume e si rilesse otto volte di fila. Infine consultò l'indice, trovò «A. Il'in, p. 205», cercò p. 205, e, gustando ogni parola, rilesse il suo Prologo un'altra volta. Continuò a giocare così per parecchio tempo.

La rivista sostituì la lettera. Il'ja Borisovic portava sempre un esemplare di «Arion» sotto il braccio, e quando si imbatteva in qualsiasi persona di sua conoscenza apriva il volume alla pagina che ormai si presentava abitualmente. «Arion» fu recensito sui giornali. La prima di queste recensioni non menzionava affatto Il'in. La seconda diceva: «Il Prologo di un romanzo del signor Il'in deve essere per forza uno scherzo di qualche genere». La terza constatò semplicemente che Il'in e un altro comparivano sulla rivista per la prima volta. Infine un quarto recensore (di un simpatico, modesto, piccolo periodico che usciva da qualche parte in Polonia) scrisse quanto segue: «Il brano di Il'in seduce per la sua sincerità. L'autore descrive la nascita dell'amore su uno sfondo musicale. Fra le indubbie qualità del brano bisogna menzionare l'eccellente stile narrativo». Incominciò una nuova èra (dopo il periodo dell'«a proposito» e quello del libro-sotto-il-braccio): Il'ja Borisovic che tirava fuori dal portafoglio quella recensione.

Era felice. Comprò altre sei copie. Era felice. Il silenzio si giustificava facilmente con l'inerzia, la denigrazione con l'ostilità. Era felice. «Continua». Poi, una domenica, arrivò una telefonata di Eufratskij:

«Indovini» disse «chi vuole parlarle? Galatov! Sì, è a Berlino per un paio di giorni. Glielo passo».

Risuonò una voce mai udita prima. Una voce scintillante, energica, pastosa, inebriante. Fissarono un appuntamento.

«Allora domani alle cinque a casa mia» disse Il'ja Borisovic. «Peccato che non possa venire stasera!».

«Mi dispiace molto,» rispose la voce scintillante «ma vede, degli amici mi trascinano a vedere La pantera nera – una commedia orrenda –, però è da tanto che non vedo la cara Elena Dmitrievna».

Elena Dmitrievna Garina, un'avvenente attrice già di una certa età, era arrivata da Riga per recitare parti di primo piano nel repertorio in lingua russa di un teatro berlinese. Lo spettacolo iniziava alle otto e mezzo. Dopo una cena solitaria, Il'ja Borisovic improvvisamente guardò l'orologio, fece un sorriso sornione, e partì in tassì per il teatro.

Il «teatro» era, in verità, un'ampia sala destinata più alle conferenze che alle commedie. Lo spettacolo non era ancora incominciato. Un cartellone fatto in casa raffigurava la Garina reclinata sulla pelle di una pantera uccisa dal suo amante, che più tardi avrebbe ucciso anche lei. La parlata russa crepitava nel freddo vestibolo. Il'ja Borisovic lasciò nelle mani di una vecchia vestita di nero il bastone, la bombetta e il soprabito, pagò ricevendo in cambio un gettone numerato, che infilò nel taschino del gilet, e si guardò intorno sfregandosi le mani lentamente. Vicino a lui c'era un gruppo di tre persone: un giovane giornalista che Il'ja Borisovic conosceva appena, la moglie di quest'ultimo (una signora spigolosa con un occhialino) e uno sconosciuto, con un abito vistoso, dalla carnagione pallida, barbetta nera, begli occhi ovini e una catenella d'oro che gli cingeva il polso peloso.

«Ma perché, perché,» gli diceva la signora vivacemente, «perché l'avete stampato? Sa, vero, che…».

«Ma lasci stare quel poveretto» rispose il suo interlocutore con una cangiante voce baritonale. «D'accordo, è di una mediocrità senza speranza, ma evidentemente c'erano delle ragioni…».

Aggiunse qualche cosa sottovoce e la signora, facendo scattare l'occhialino, replicò indignata: «Scusi tanto, ma secondo me, se lo stampate solo perché vi finanzia…».

«Doucement, doucement. Non diffonda i nostri segreti editoriali».

Qui Il'ja Borisovic incontrò lo sguardo del giovane giornalista, il marito della signora spigolosa, e questi rimase di stucco per qualche istante, poi emise un gemito facendo un movimento brusco e cominciò a spingere via la moglie con tutto il corpo, ma lei continuava a parlare a voce altissima: «Non mi interessa quel miserabile Il'in, mi interessano le questioni di principio…».

«Qualche volta bisogna sacrificare i princìpi» disse con molta calma il bellimbusto dalla voce opalescente.

Ma Il'ja Borisovic non ascoltava più. Vedeva le cose attraverso una cortina di nebbia, e, trovandosi in uno stato di estrema angoscia, senza essere ancora pienamente consapevole della mostruosità dell'accaduto, ma d'istinto cercando di ritrarsi al più presto da un che di ignobile, vergognoso, odioso, intollerabile, si mosse dapprima verso un luogo indistinto dove si vendevano posti a sedere, del pari indistinti, poi bruscamente tornò indietro, per poco non si scontrò con Eufratskij che si stava precipitando verso lui, e puntò sul guardaroba.

Vecchia in nero. Numero 79. Laggiù. Aveva una fretta disperata, un braccio era già proteso all'indietro per entrare nella manica restante del soprabito, ma a quel punto Eufratskij lo raggiunse, accompagnato dall'altro, quell'altro…

«Le presento il nostro direttore,» disse Eufratskij mentre Galatov, roteando gli occhi e cercando di impedire a Il'ja Borisovic di riprendersi, agguantava la manica fingendo di aiutarlo e intanto diceva in fretta: «Innokentij Borisovic, come sta? Felicissimo di conoscerla. Un'occasione gradita. Mi permetta di aiutarla».

«Per l'amor di Dio mi lasci in pace» borbottò Il'ja Borisovic, lottando con il soprabito e con Galatov. «Vada via. Una cosa ripugnante. Non posso. Ripugnante».

«Un ovvio malinteso» replicò velocissimo Galatov.

«Mi lasci in pace!» gridò Il'ja Borisovic, liberandosi con uno strattone, quindi afferrò la bombetta che stava sul banco e uscì mentre ancora cercava di indossare il soprabito.

Mormorava cose incoerenti mentre avanzava a passo spedito lungo il marciapiede; poi allargò le mani: aveva dimenticato il bastone!

Continuò a camminare automaticamente, ma di lì a poco incespicò, e allora si fermò di colpo, come se il meccanismo a molla si fosse scaricato.

Sarebbe tornato a prenderlo una volta iniziato lo spettacolo. Bisognava aspettare qualche minuto.

Le macchine passavano veloci, i tram scampanellavano, la notte era limpida, secca, agghindata di luci. Si incamminò lentamente verso il teatro. Considerò che era vecchio e solo, che le sue gioie erano poche, e che i vecchi devono pagarle, le gioie. Considerò che forse ancora quella sera stessa, ma in ogni caso l'indomani, Galatov sarebbe arrivato con spiegazioni, esortazioni, giustificazioni. Sapeva di dover perdonare tutto, altrimenti il «Continua» non si sarebbe mai avverato. Si disse anche che avrebbe avuto un pieno riconoscimento dopo morto, e ricordò, racimolò in un esiguo mucchietto, tutte le briciole di elogi ricevuti negli ultimi tempi, e camminò avanti e indietro lentamente, e dopo un po' andò a riprendersi il bastone.

'Labbra contro labbra'