martedì 5 novembre 2024

AMORE IMMAGINARIO P.b.


AMORE IMMAGINARIO
P.b.
Sogno di essere amato
Da chi non mi ama.
Cerco invano
Di incominciare una passione.
Faccio sogni dove
Posso incontrare
Il mio amore impossibile.

Henri Laborit "L'elogio della fuga". Mondadori. Pag. 24" Il solo amore davvero umano è un amore immaginario, che si insegue per tutta la vita, che generalmente trova origine nell’essere amato, ma che presto non ne avrà più né le proporzioni, né la forma palpabile, né la voce, per diventare una vera creazione, un’immagine senza realtà."

ALTERIAMO L'AMORE CON LA MEMORIA Estratto da "Dalla parte di Swann" Marcel Proust


ALTERIAMO L'AMORE CON LA MEMORIA
Estratto da "Dalla parte di Swann"
Marcel Proust

 "A quell'epoca della vita l'amore ci ha già colpiti parecchie volte; la sua evoluzione non segue più soltanto le proprie leggi ignote e fatali davanti al nostro cuore stupefatto e passivo. Noi gli andiamo in aiuto, lo alteriamo con la memoria, con la suggestione. Riconoscendo uno dei suoi sintomi ricordiamo, facciamo rinascere gli altri. Dal momento che la sua canzone, incisa per intero dentro di noi, ci è familiare, non occorre che una donna ce ne suggerisca l'attacco - pieno dell'ammirazione suscitata dalla bellezza - per recuperarne il seguito. E se comincia a metà [la canzone] - là dove i cuori si avvicinano, dove si parla di non vivere più che l'uno per l'altra - siamo abbastanza esperti di questa musica per poter subito raggiungere la nostra partner al punto esatto in cui ci aspetta."

DESIDERIO


DESIDERIO 
Nel romanzo 'Braci' Sándor Márai pone la domanda che verte sul rapporto indissolubile tra la forza del desiderio e il senso della vita:
"Non credi anche tu che il significato della vita sia semplicemente la passione che un giorno invade il nostro cuore, la nostra anima e il nostro corpo e che, qualunque cosa accada, continua a bruciare in eterno, fino alla morte? E non credi che non saremo vissuti invano, poiché abbiamo provato questa passione? E a questo punto mi chiedo: la passione è veramente così profonda, così malvagia, così grandiosa, così inumana? Non può essere che non si rivolga affatto a una persona precisa, ma soltanto al desiderio in sé? (Sándor Márai Braci)
Come tutte le domande che costituiscono il sale della vita, e che la grande letteratura ci porge con grande lucidità , anche questa è destinata a restare senza risposta. Questo perché il desiderio si fa  carico d'una responsabilità estrema,
senza, però, poterla convalidare, se non con il concreto vissuto.

MI HAI PORTATO P.b.


MI HAI PORTATO
P.b.

Mi hai portato 
Al di là di ogni limite
Sei stata il nuovo inizio
Ho cercato di dire 
Ciò che non ho  mai detto 
Ho trovato nelle tue parole 
Le risposte mai avute.

Cercavo chi ascoltasse
I segreti mai vissuti
Qualcuno come te 
Per vivere nel ricordo
Di desideri immaginati
Nel vuoto mai colmato
Dei silenzi della notte

Innamorarsi in modo diverso
Al tramonto del giorno
È nascere di nuovo
Per uscire al mondo
Non importa  come 
E  quanto ancora
Un respiro di vita



RICORDI "AL SOP" P.b.

RICORDI: "AL SOP"
P.b.
Mio fratello Roberto mi ha ricordato una piccola chicca di nostro padre.
Il "tabacchino"  (tabaccaio) di San Benedetto Po, (anonimo
e non riconoscibile) soprannominato "al Sop" (lo zoppo), la cui figlia Brunina piuttosto  caruccia era sua compagna di classe),  quel giorno si accorse che era sparita la sua bicicletta (con un pedale bloccato essendo zoppo) dalla rastrelliera davanti alla tabaccheria. Girava disperato per il paese chiedendosi chi potesse avergli preso la bicicletta, chi fosse a S.Benedetto l’altro disgraziato come lui.  
Nostro padre. 
Uscito dalla tabaccheria si era acceso al tuscan e si era diretto, bicicletta alla mano, a la Busa (taverna) dove l’aveva parcheggiata per la rituale briscola con Rumanu e Mignulin. 
Solo dopo cercando di tornare a casa si era accorto che non era il suo biciclun. 
La bicicletta giusta non la beccava mai come quella volta della sella rossa.
Una domenica era andato a messa (come al solito entrando in chiesa in ritardo e camminando tranquillo nell’andata centrale durante la predica di Monsignore) con la bicicletta della mamma perché forse al biciclun aveva una ruota a terra. 
Era tornato a pranzo un po’ tardi ed era stato sgridato da la Marieta (così chiamava nostra madre Maria) non solo perché era tardi ma perché era tornato con una bicicletta che non era della mamma.
"La mea la gà la sela rota!!" 
Malvolentieri, col caldo, affamato, era tornato da Maseula (Mazzola  il biciclettaio) Finalmente arriva con un’altra bicicletta e polemico "ecu, ag l'ala, claché, la sela rosa??" (Ce l'ha, questa, la sella rossa?)
Genitore era sicuro di sè, viste le sue non perfette abilità uditive, come quelle di  noi due fratelli (Udito dal pupà forse guastato dal cannone in guerra, le nostre forse da otite curata con l'olio).

RICORDI Da "LE LOGICHE DEL DELIRIO" Remo Bodei


RICORDI
Da "LE LOGICHE DEL DELIRIO" 
Remo Bodei


Noi rimaneggiamo di continuo, rivistitandoli, i nostri ricordi, per sintonizzarli con la nostra situazione del momento. Scrivendo a Fliess il 6 dicembre 1896, Freud riassume così le sue più recenti scoperte"....Ciò che è essenzialmente nuovo nella mia teoria è la tesi che la memoria non sia presente in forma unica ma molteplice e che venga codificata in diverse specie di segni."

Remo Bodei, in "Le logiche del delirio: Ragione, affetti, follia" (Laterza) commenta:" I nostri meccanismi psichici non sono dunque dati una volta per tutte, non si sviluppano in maniera continua e cumulativa. Si costruiscono per strati sovrapposti, la cui congruenza è normalmente assicurata dal periodico rimaneggiamento e riposizionamento dei ricordi, sulla base di un sistema segnico in grado di sintonizzarli, di volta in volta, con circostanze nuove.”

SO CHE UNA NOTTE P.b.



SO CHE UNA NOTTE
P.b.

So che una notte t'ho trovato
Dentro un sogno.
Fu all'improvviso
Dopo infiniti silenzi
Tra un pensiero e un sospiro
Un giorno vuoto
Era passato
Ascoltando il vento.


So che al mattino t'ho trovato
Al mio risveglio
In un'alba d'estate
Ci siamo presi per mano
E abbiamo inziato a volare
Sopra i monti e le valli
Mentre abbracciando il cielo
Abbiamo fatto l'amore.

lunedì 4 novembre 2024

EFFETTO SERRA E RISCALDAMENTO GLOBALE Fortunato Nardelli


 EFFETTO SERRA E RISCALDAMENTO GLOBALE

Fortunato Nardelli


1) L’effetto serra è causato principalmente dall’H2O e dalla CO2. Il vapore acqueo è responsabile per oltre il 90% dell’effetto serra. La CO2 e gli altre gas serra, per meno del 10%. 

2)La CO2 assorbe radiazioni infrarosse intorno ai 15micron (13-17) Ma a quella frequenza è in sovrapposizione con il vapore acqueo. La CO2 ne assorbe solo un 30% in quella zona. Il resto è opera del vapore acqueo

3) Le prime 20 ppm di CO2 costituiscono il 50% di tutto l’effetto serra della CO2. Le successive 20ppm dimezzano progressivamente l’effetto. Questo significa che l’incremento della T dovuto agli attuali valori di 420 ppm è quasi trascurabile. 

4) I modelli IPCC prevedono temperature più alte di quelle misurate effettivamente. Questo signidica che i parametri che prendono in considerazione non sono coretti. In particolare ipotizzano un effetto feedback sul vapore, cioè: 

secondo l’IPCC il riscaldamento della CO2 (seppure basso) provoca un aumento dell’evaporazione. Con l’evaporazione aumenta l’effetto serra del vapore acqueo che incrementa ulteriormente la temperatura e così via. 

5) Ma c’è qualcosa che non va. L’ipotesi del feedback del vapore acqueo non è corretta e ci sono dati sperimentali che confermano la sua inesistenza. Infatti, se fosse vera la tesi del feedback, dovremmo avere un aumento della quantità di vapore nel tempo, visto l’aumento della TGm. Ma la cosa non ha riscontro nei dati. Dal 1948 ad oggi, non c’è alcun aumento di vapore acqueo in atmosfera. 

In conclusione, senza l’ipotesi non dimostrata empiricamente del feedback sul vapore, l’effetto serra della sola CO2 è così basso che non è in grado di spiegare il riscaldamento globale dell’ultimo secolo. 

Questo vuol dire che ci sono altre cause naturali che provocano l’oscillazione delle temperature. Perché è più corretto parlare di oscillazioni piuttosto che di aumento. Basta vedere la storia dell’ultimo secolo.

Come si vede, non nego l’aumento della temperatura nell’ultimo secolo e non nego che la CO2 sia un gas serra; Quindi non mi si può dare del negazionista. 

Ho documentato e argomentato invece che la CO2 non può essere la manopola che regola la TGm Di conseguenza posso affermare che tutte le attuali politiche che mirano unicamente a eliminare la CO2, sono inutili per ridurre il riscaldamento globale e pericolose per l’umanità perché limitano l’uso dell’energia fossile su cui si fonda la nostra civiltà. 


sabato 2 novembre 2024

IL FOLLEMENTE CORRETTO Luca Ricolfi






IL FOLLEMENTE CORRETTO

Luca  Ricolfi

Recensione

[...]Se negro squalifica l’aggettivo nero che a sua volta squalifica l’aggettivo bianco. Se certi termini, come cieco e nano, non possono essere più usati nemmeno in ambito scientifico. Se certi divieti o certi obblighi (non usare parole come Natale, o fratellanza, o insediamento), inizialmente confinati in cerchie ristrette, vengono via via estesi ad ambiti sempre più ampi. Se le pressioni per alterare la lingua possono provenire da chiunque, senza alcun mandato collettivo. Se tutto ciò accade, vuol dire che il movimento di purificazione della lingua non incorpora alcuna regola di stop, alcun criterio condiviso per porre un limite alle innovazioni arbitrarie e soggettive.[...]


Ricolfi introduce il termine “follemente corretto” per descrivere questa nuova fase del politicamente corretto. Questo concetto non è solo una definizione; è un mezzo  attraverso cui osservare i fenomeni sociali e culturali odierni. Attraverso esempi concreti e casi emblematici, Ricolfi  in questo libro  unisce  l'analisi del fenomeno con  riflessioni più profonde sulle dinamiche sociali. Non si limita a descrivere il fenomeno; lo esamina, ne studia le origini e le implicazioni. Attraverso un’argomentazione ben strutturata, l’autore esplora le fratture sociali che si sono create in seguito all’adozione di una visione del mondo sempre più polarizzata.


“Vedendolo in azione, ho capito che la ragione per cui il follemente corretto mi pareva non definibile è che ne cercavo una definizione statica, mentre quel che lo caratterizza è il meccanismo della sua propagazione: quel che dobbiamo chiederci non è che cos’è, ma come funziona.” Luca Ricolfi

"Il follemente corretto è tante cose, ma fondamentalmente è una forma di isteria – individuale e collettiva – che si propaga attraverso meccanismi intimidatori e ricatti morali. In un certo senso è un mix di narcisismo etico, nella misura in cui rafforza l’autostima, di esibizionismo etico, nella misura in cui viene sbattuto in faccia al prossimo, e di bullismo etico, quando si accanisce su una o più vittime. Ne abbiamo avuto un esempio recente, quando l’assessore alla cultura del Comune di Livorno, Simone Lenzi, è stato sottoposto alla gogna e costretto alle dimissioni per alcuni post ironici sugli aspetti più ridicoli della dottrina woke. Il sindaco che l’ha licenziato ha illustrato in modo mirabile che cos’è il bullismo etico: ti caccio e ti punisco per mostrare a tutti la mia superiore moralità." Luca Ricolfi 

IL FOLLEMENTE CORRETTO 

Il cosiddetto politically correct è un muro, muraglia cinese di idiozia, in cui ognuno mette il suo mattone.

Emanuele Trevi


Per paura di non essere progressisti si finisce in un’ottica reazionaria.

Barbara Alberti


Al lettore

Questo libro è, in un certo senso, la conseguenza di una rinuncia. Avevo pensato, qualche anno fa, di scrivere un Dizionario del politicamente corretto. Mi sembrava utile non solo come fonte di conoscenza, ma come strumento di difesa della libertà di espressione, sempre più minacciata dall’invadenza delle nuove regole e dei nuovi tabù.


All’inizio, avevo pensato che poche centinaia di voci sarebbero bastate. E avevo anche iniziato a scrivere, arrivando a completarne una cinquantina.


Poi ho avuto un’illuminazione: il compito era impossibile. E questo non solo perché di voci ne sarebbero occorse alcune migliaia, ossia dieci volte tanto. Non solo perché il loro numero cresceva a dismisura di mese in mese, e avrebbe richiesto aggiornamenti almeno annuali del dizionario. Ma perché, con il passare del tempo, il politicamente corretto (d’ora in poi anche PC) stava diventando qualcosa di infinitamente più vasto, più vario, più estremo di quanto mai potessimo aver immaginato anche solo dieci o quindici anni fa. Era questo qualcosa, questa nebulosa caleidoscopica in espansione, questa entità gassosa che si alimenta sulla rete che meritava di essere raccontata.


Ma come farlo?


Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a darne una caratterizzazione precisa, a fissarne i contorni in modo logico e razionale. Una cosa soltanto mi era chiara: c’era della follia nelle nuove manifestazioni del politicamente corretto. In breve: forse avevo trovato un nome – follemente corretto – però mi mancava del tutto una definizione*.


E la storia del politicamente corretto non aiutava più di tanto. Certo, sappiamo che quando è nato, negli anni settanta in America, era essenzialmente e semplicemente una sorta di “politica degli eufemismi”: non devi dire negro, meglio se dici nero; non devi dire cieco, meglio se dici non vedente; non devi dire donna di servizio, meglio se dici colf. Sappiamo che è rapidamente approdato in Europa, e nei primi vent’anni della sua storia (1975-1995) è rimasto relativamente innocuo: la letteratura e il cinema dei primi anni novanta testimoniano che, fino a quell’epoca, ci si poteva scherzare tranquillamente su, senza suscitare scandalo. Sappiamo che è nei primi anni dieci di questo secolo che qualcosa è cambiato, di nuovo innanzitutto negli Stati Uniti, poi anche qui da noi. Sappiamo, infine, che un notevole impulso alla esasperazione del politicamente corretto è venuto da alcuni episodi specifici come l’elezione di Trump (2016), lo scandalo Weinstein (2017), l’uccisione di George Floyd (2020).


Tutte queste cose che sappiamo e sapevamo, però, non erano sufficienti a tracciare i confini del follemente corretto, a individuare esattamente quel che lo distingue dal politicamente corretto classico.


Ma era necessario darne una definizione astratta? E se una tale definizione fosse in realtà impossibile?


Di qui l’idea di raccontare il follemente corretto (d’ora in poi anche FC) semplicemente mediante la sua fenomenologia: una raccolta di esempi, un campionario che permetta di farsene un’idea osservandolo concretamente in azione, senza alcuna pretesa di ingabbiarlo in una definizione. È la prima parte di questo libro, che contiene una quarantina di storie, episodi, vicende che si possono leggere anche una indipendentemente dall’altra.


Poi ho riletto io stesso le pagine di questa raccolta, come un antropologo sfoglia le note etnografiche al ritorno da una ricerca sul campo. E sono successe due cose impreviste. La prima è che una quasi-definizione è emersa. Vedendolo in azione, ho capito che la ragione per cui il follemente corretto mi pareva non definibile è che ne cercavo una definizione statica, mentre quel che lo caratterizza è il meccanismo della sua propagazione: quel che dobbiamo chiederci non è che cos’è, ma come funziona.


Un po’ come le bolle di sapone. Ha senso domandarsi che forme, che sfumature di colore, che volteggi possono caratterizzare le bolle di sapone che escono dal cerchietto in cui soffia il bambino? O ha più senso chiedersi qual è il meccanismo fisico che trasforma un piccolo velo di sapone in una fantasmagoria di bolle che danzano in cielo?


La seconda cosa di cui mi sono reso conto è che il follemente corretto non si limita a minare la libertà di espressione, ma incide profondamente sulla coesione sociale, rivoluzionando i rapporti fra classi e ceti, un po’ come nell’Ottocento era successo con l’ascesa della borghesia e la formazione del proletariato.


L’avanzata del follemente corretto sta promuovendo l’ascesa di una nuova élite, che include soprattutto due grandi categorie. Da un lato le “vestali della Neolingua”, ossia il vasto mondo della comunicazione che presidia tutti i gangli del potere nell’informazione, nel cinema, nella TV, nell’editoria, nelle università, nelle grandi imprese, negli apparati pubblici. Dall’altro le “lobby del Bene”, ossia la rete più o meno organizzata degli attivisti che instancabilmente – in nome di qualche causa ritenuta superiore e indiscutibile – cercano di imporre i propri punti di vista ai poteri che contano, ma anche di portare la nuova religione tra la gente comune, come i missionari in Africa ai tempi del colonialismo. Un vero e proprio “esercito della salvezza con la bandiera del progressismo”, come lo ha definito la scrittrice Barbara Alberti.


E non è tutto. L’attenzione ossessiva che il FC riserva alla correttezza del linguaggio, nonché alle più improbabili rivendicazioni delle minoranze sessuali, ha finito – anche con l’ausilio dei media, vecchi e nuovi – per far perdere ogni senso delle proporzioni, ogni capacità di distinguere i grandi problemi sociali da quelli decisamente minori, o largamente soggettivi, o artificialmente amplificati.


Il risultato (che provo a descrivere nella seconda parte, analitica, del libro) è stato un allargamento di tutte le principali fratture sociali. Le donne hanno visto evaporare una parte delle loro conquiste, messe a repentaglio dall’attivismo trans. I drammi degli ipersfruttati – l’esercito di 3.5 milioni di para-schiavi che fanno girare la “società signorile di massa” – sono caduti nell’oblio più totale. In generale, si è enormemente ampliata la distanza fra i ceti istruiti, ipersensibili alle questioni di linguaggio e alle battaglie per i diritti civili, e i ceti popolari, spesso tuttora deprivati dei più elementari diritti sociali.


Soprattutto, la corsa del follemente corretto ha finito per infoltire i ranghi dell’élite, con l’annessione di nuove categorie di comunicatori, burocrati e attivisti, e la simultanea marginalizzazione di quanti – e sono i più – non sanno o non vogliono accedere alle sofisticate meraviglie del follemente corretto. In questo modo l’élite ha avuto l’opportunità di accentuare il proprio senso di superiorità morale verso i ceti più umili, invariabilmente bollati – quando non si adeguano al nuovo credo – come “la pancia del paese”.


In breve: grazie al follemente corretto, il sogno dell’inclusione si è capovolto nel suo contrario, aprendo la via ai più inattesi, indesiderati, e indesiderabili processi di esclusione. Non è una sorpresa per un sociologo, abituato a ragionare in termini di effetti perversi e di conseguenze non previste dell’azione sociale. Ma meriterebbe ugualmente qualche riflessione, almeno da parte di chi ha fatto dell’inclusione il mito centrale del nostro tempo.


Resta in piedi, naturalmente, l’interrogativo fondamentale: il follemente corretto è destinato a espandersi ulteriormente, fino a invadere tutti i recessi della vita sociale, o esistono meccanismi che possono rallentarne l’espansione, fino a invertire la tendenza? Qual è il futuro di questa follia?


È il problema che cerco di affrontare alla fine, mettendo a fuoco due di tali meccanismi. E azzardando una risposta.


Che, forse, è solo una speranza.


* A mia conoscenza, la prima occorrenza dell’espressione “follemente corretto” è nel catenaccio di un articolo, a firma Caterina Soffici, uscito sul Fatto Quotidiano del 12 gennaio 2017 e riguardante le proteste degli studenti inglesi per il peso eccessivo dei filosofi bianchi, come Platone e Kant, nei programmi universitari.


I. IL FOLLEMENTE CORRETTO IN AZIONE

1. La Neolingua

La guerra dei pronomi

Fino a qualche anno fa, la politica dei pronomi, promossa dalle vestali del politicamente corretto, colpiva quasi esclusivamente le istituzioni accademiche. All’atto pratico, si trattava – essenzialmente – di evitare il maschile quando il riferimento poteva essere anche a una donna. Se scrivevi una lettera o trasmettevi una comunicazione, non potevi iniziare con il solito “cari colleghi”, ma dovevi scrivere “care colleghe e cari colleghi”, o “car* collegh*”, o usare qualche diavoleria neutra (ad esempio il cosiddetto schwa: ö) per non discriminare le donne. Se mandavi un articolo alla solita rivista in lingua inglese dovevi stare attento a non usare, per riferirti a una persona che poteva essere maschio o femmina, il pronome “he” (lui), ma il pronome doppio “he or she”, o ancor meglio “she or he”.


Oggi non basta più, specie negli Stati Uniti. Oggi ci sono quattro novità sostanziali. La prima è che la politica dei pronomi pretende di includere non solo le donne, ma qualsiasi persona “non standard”: maschi che hanno cambiato sesso, maschi che si sentono femmine, donne che hanno cambiato sesso, femmine che si sentono maschi, persone intersessuali, maschi bisessuali, femmine bisessuali, persone che non vogliono avere un’identità sessuale o di genere, persone più o meno perennemente “fluide” eccetera. Non per nulla la vecchia sigla LGBT è evoluta in LGBTQIA+, che significa: Lesbian, Gay, Bisexual, Transgender, Queer, Intersexual, Asexual, e chi più ne ha ne metta.


La seconda novità è che la proliferazione delle minoranze sessuali (e quindi protette, in quanto diverse) non ha condotto alla ricerca di un unico pronome “inclusivo” (cosa già alquanto bizzarra, in quanto artificiosa), bensì a una esplosione di pronomi, ciascuno completo della sua più o meno cervellotica declinazione. Eccone un campione:



Nota esplicativa del sito qualtrics.com: “La prima riga indica due insiemi di pronomi distinti, ma pronunciati in modo simile.” (fonte primaria: Università del Wisconsin-Milwaukee)

La terza novità è che, secondo le numerose organizzazioni che pretendono di insegnarci come parlare, la scelta del pronome è completamente arbitraria e soggettiva: è l’individuo che deve decidere (liberamente) con quale pronome gli altri (obbligatoriamente) devono chiamarlo. Un transessuale FtM (femmina che diventa maschio) può pretendere di essere chiamato con il pronome “xe”, una transessuale MtF (maschio che diventa femmina) può esigere il pronome “per”, che a sua volta può essere scelto anche da una lesbica, o magari da un bisessuale.


La quarta novità è che le organizzazioni che, senza alcun mandato collettivo, promuovono la babele dei pronomi ora pretendono pure che in qualsiasi conversazione ci si presenti dichiarando i propri pronomi, si chieda all’interlocutore quali sono i suoi, e pure che – quando qualcuno sbaglia i pronomi di qualcun altro – lo si redarguisca “gentilmente”. Una volta ci si chiedeva come ti chiami, da dove vieni, che cosa fai, ora ci si chiede che pronome sei.


In un mondo in cui la maggior parte della popolazione ha problemi ben più seri, concreti, e drammatici, l’esito della guerra dei pronomi rischia di essere la creazione di nuove discriminazioni e stigmatizzazioni. Questa volta ai danni di quanti non vogliono o non possono adeguarsi ai molestatori della lingua. Perché il paradosso della battaglia per un linguaggio “inclusivo” e “non discriminatorio” è che gli unici a poterlo maneggiare con destrezza sono i membri delle classi alte: docenti, magistrati, operatori dell’editoria e dell’industria culturale, manager, tecnici, giornalisti della carta stampata e dei siti. La guerra dei pronomi è anche un formidabile amplificatore della frattura fra élite e popolo.


Cieco e nano

In un breve editoriale pubblicato sul portale dell’università di Padova, uno studioso che si occupa di biologia evoluzionistica racconta che sta per pubblicare negli Stati Uniti un testo di argomento scientifico (l’evoluzione), e che la redattrice (americana) della casa editrice gli ha chiesto di cambiare alcune parole. Due in particolare: cieco e nano.


La cosa non ci stupisce, i due aggettivi sono da anni considerati offensivi per i non vedenti e le persone di bassa statura, e quindi è invalso l’uso di evitarli. È il normale funzionamento del politicamente corretto.


La solita ipocrisia degli eufemismi, si potrebbe pensare. Ma se andiamo a vedere i sostantivi a cui erano collegati i due aggettivi, la questione non è così semplice: lo studioso usava l’aggettivo cieco per parlare della selezione naturale che è cieca (cioè non segue un piano); e usava la parola nano per parlare di una specie particolare di elefanti, detti elefanti nani, per cui l’essere di dimensioni ridotte può essere vantaggioso, in quanto abitanti di isole piccole.


Dunque?


Potrebbe trattarsi di uno scherzo. Magari l’autore è un dottorando burlone che si diverte a prenderci in giro o vuole denigrare gli Stati Uniti. Ma non è così. Lo studioso esiste, si chiama Telmo Pievani, ha studiato in Italia e negli Stati Uniti, attualmente è docente ordinario di Filosofia delle scienze biologiche, ha incarichi nazionali e internazionali prestigiosi, un mare di pubblicazioni, un curriculum accademico splendido.


Quindi una spiegazione dobbiamo trovarla. Se una redattrice di bozze non capisce che “evoluzione cieca” ed “elefante nano” sono espressioni che non possono offendere nessuno, una ragione deve esserci.


Ma quale può essere?


Sembra evidente. La correttrice ha reagito di fronte agli aggettivi cieco e nano considerandoli a sé, avulsi, staccandoli dal contesto e ignorando il collegamento ai sostantivi: li ha giudicati negativi, senza badare al contenuto. Ha applicato uno schema senza pensare, perché lo schema è ormai acquisito e agisce in automatico. Ha in mente un elenco di parole radioattive, per cui il suo compito è di eliminarle comunque, a prescindere dal contesto e dal significato: sono parole malate e dannose. Come i virus. Nel dubbio lavarsi le mani sempre.


In tal modo il politicamente corretto vince sul ragionamento e su ogni logica, per cui la correttrice può agevolmente chiedere all’autore qualcosa di assurdo. In effetti gli sta chiedendo di scrivere due affermazioni abnormi e grottesche: “L’evoluzione è non vedente”, “Esiste una particolare specie di elefanti, detti elefanti di dimensioni ridotte” (o “di bassa statura”, o “verticalmente svantaggiati”).


È questo il passaggio sottile, lo slittamento quasi inavvertito, dal politicamente corretto (non dire “nano” di una persona) al follemente corretto (non dire “nano” di un elefante). Se le correttrici e i correttori di bozze si atterranno al protocollo di sostituzione, ne usciranno modificati (e ridicolizzati) ogni genere di romanzi, racconti, saggi, opere scientifiche, manuali. Pensate al capolavoro Nel paese dei ciechi di Herbert George Wells. O alle ormai numerosissime parole che, in fisica, in ingegneria, in medicina, iniziano con “nano” (nanotecnologia, nanoparticelle, nanometro): dovremo redarguire chi ci dicesse “Arrivo subito, aspetta un nanosecondo”? E infine alla dea Fortuna, che già Cicerone nel De amicitia diceva cieca, e che ora dovremmo dire non vedente?


Ci sarebbe anche un’altra ipotesi: la colpevole non è la redattrice, che si limita a eseguire meccanicamente l’ordine di scovare ed espungere – ovunque siano – tutti i termini di una determinata lista di parole proibite. Sono i vertici delle case editrici, terrorizzati dal rischio che qualcuno – particolarmente stupido – inneschi una campagna denigratoria contro di loro, a pretendere tali correzioni. Considerando molto stupidi noi, pubblico di lettori.

Bullismo etico

Dilemmi è, a mio parere, uno dei più intelligenti e ben costruiti programmi della RAI. Ideato e condotto da Gianrico Carofiglio, si basa su un’idea tanto semplice quanto innovativa: scegliere una questione controversa, e invitare a discuterne due persone competenti, che la pensano in modo opposto ma sono disposte a confrontarsi in modo civile.


È quel che è successo, per esempio, con il recente confronto fra lo scrittore premio Strega Emanuele Trevi e la linguista Vera Gheno, paladina del linguaggio inclusivo (ma lei preferisce chiamarlo “ampio”) e sostenitrice dell’uso dello schwa (ö) per formare il plurale: anziché scrivere cari spettatori, oppure care spettatrici e cari spettatori, dovremmo scrivere: carö spettatorö (ma resta il “dilemma” di come pronunciarlo).


La discussione si è animata varie volte, ad esempio quando è stata richiamata la decisione del comune di Bologna di bandire parole “maschiliste” come “fratellanza” e “paternità” nel caso si riferiscano a donne, e di sostituirle con “solidarietà” e “maternità” (curioso parlare della “maternità” di un’opera d’arte o di un testo…).


Il passaggio più interessante, però, è stato allorché Trevi ha spiegato le ragioni per cui il linguaggio politicamente corretto ma artificiale non gli piace.


Una ragione riguarda il suo mestiere di scrittore: il rispetto delle prescrizioni dei guardiani della lingua politicamente corretta vincola, limita, impoverisce la scrittura.


Ma l’altra ragione ci riguarda tutti: quando qualcuno ci scrive facendo sfoggio di schwa, asterischi e artifici linguistici vari volti a includere e non offendere, in realtà ci sta anche dicendo che lui “si sente migliore, che sta facendo una cosa per il mondo”.


Detto in modo più crudo di quello di Trevi: il linguaggio politicamente corretto, specie se usato nei confronti di qualcuno che parla e scrive in modo naturale (non artificioso), funziona come una forma di bullismo etico, un modo per segnalare la propria sensibilità morale, o la propria superiore virtù (il cosiddetto virtue signalling).


Si potrebbe obiettare che, dopotutto, gruppi e minoranze che fanno esperimenti sulla lingua sono sempre esistiti. Pensiamo ai poeti ermetici, alla letteratura sperimentale, al Gruppo 63, per stare al contesto italiano. Ma proprio questi esempi storici mostrano la radicale differenza con ciò che succede oggi. In quei casi le istanze di cambiamento della lingua non poggiavano, come ora, su un progetto politico di cambiamento della società, e tantomeno pretendevano di uscire dall’ambito letterario, coinvolgendo la gente comune. Oggi al contrario la sperimentazione linguistica ha l’ambizione di propagarsi al resto della società, e grazie a Internet ha la possibilità tecnologica di farlo. Contemporaneamente, i suoi destinatari hanno ipso facto la chance di convertirsi, diventare essi stessi propagatori della neolingua, e infine ergersi a censori di chi non si converte.


Certo, per ora l’obbligo di adeguarsi alle regole della neolingua vige solo nelle grandi istituzioni come l’Unione Europea, in alcune università, nelle amministrazioni locali che vogliono fare sfoggio di virtù. Il singolo cittadino, nella vita come in rete, è liberissimo di non adeguarsi, e continuare a parlare come prima. Nessuno gli impone nulla. Ma il fatto di sapere che alle sue scelte linguistiche non verrà attribuito un significato stilistico, bensì una portata etica e morale, è già sufficiente a esercitare una formidabile pressione psicologica.


Soprattutto in rete, il rischio di finire in una shitstorm, coperto di improperi per un aggettivo sbagliato o una desinenza scorretta, è troppo forte. A quel punto, la tentazione dell’autocensura e dell’adeguamento può diventare irresistibile.


Benvenuti a bordo

Immaginiamo di prendere un aereo, e di sederci tranquillamente al nostro posto. Allacciamo la cintura di sicurezza, guardiamo dal finestrino, apriamo il giornale. A un certo punto, siamo raggiunti dalla voce del comandante che ci saluta con il consueto “gentili signore e signori, benvenuti a bordo”, seguito dall’inglese “ladies and gentlemen, welcome on board”.


Tutto normale, direi. L’intenzione della compagnia è di dare il benvenuto a tutti, con semplicità e cortesia. È sempre andata così, da quando esistono gli aerei. E nessuno ha mai avuto nulla da ridire, perché – ovviamente – non c’è nulla da ridire.


Ora non più. Dipende da che compagnia scegliamo. Se scegliamo Lufthansa, ad esempio, non ascolteremo più il classico “Sehr geehrte Damen und Herren, herzlich willkommen an Bord”, un saluto particolarmente gentile che – letteralmente – significa “stimatissime signore e signori, un sentito benvenuto a bordo”. Ora saremo accolti da un più secco “Guten Tag”, ossia “buongiorno”.


Che cos’è successo?


È successo che il nuovo politicamente corretto è arrivato al punto di convincere Lufthansa a eliminare questo tipo di saluto, per non offendere chi, eventualmente, non fosse certo di essere Dame o Herr. E il bello è che Lufthansa, come tutte le compagnie terrorizzate di finire in qualche polemica e di essere accusate di sessismo, razzismo, discriminazione, è stata al gioco. D’ora in poi il pilota non saluterà con l’escludente “care signore e cari signori”, ma con l’inclusivo “buongiorno”.


Anja Stenger, portavoce della compagnia, fa sapere:


Per noi è importante tenere in considerazione tutti al momento del saluto, la diversità non è una frase vuota, da ora vogliamo esprimere la nostra attenzione al linguaggio. 


L’importante non è migliorare il servizio, magari fornendo sedili più comodi, cibo di qualità, spazi per le valigie, code meno lunghe all’imbarco. L’importante è segnalare la virtù della compagnia aerea, proteggendola così da ogni accusa degli attivisti.


Pensate che il caso sia isolato, e rifletta la proverbiale rigidità teutonica?


Niente affatto. La decisione di Lufthansa, presa nel luglio del 2021, è stata imitata anche da Easy Jet, Air Canada e British Airways. Il portavoce di quest’ultima ha commentato così:


Celebriamo la diversità e l’inclusione e ci impegniamo a garantire che tutti i nostri clienti si sentano i benvenuti quando viaggiano con noi.


Soluzione: il neutro plurale passengers sostituirà il discriminatorio ladies and gentlemen.


Si ripete così, in forma grottesca, quel che già era accaduto con il politicamente corretto delle origini, quando parole un tempo innocenti come cieco e bidello cominciarono a essere considerate offensive. Là era per non offendere, qui ora è per includere; ma la cosa importante è sempre la stessa: essere virtuosi.


E il fatto che un manipolo di compagnie segnali la propria virtù abolendo il “signore e signori” rischia di imporre uno stigma del tutto ingiustificato a chiunque, istituzione o individuo, non faccia la medesima cosa. Una trasmissione TV che esordisca con “care spettatrici e cari spettatori”, un ufficio che invii una comunicazione iniziando con “gentili signore e signori”, un preside che si rivolga ai suoi insegnanti con “care colleghe e cari colleghi” potrebbero essere accusati di insensibilità, offensività, non inclusività, discriminazione.


Anche le cose si offendono

Supponete di essere un tecnico del suono, e di stare armeggiando con un amplificatore, perché dovete collegarlo a una cassa acustica. Vi rivolgete al vostro aiutante, e gli dite: “Passami il cavo con il jack maschio.” Oppure: “Non trovo il jack femmina, l’hai preso tu?”


Qualcuno può offendersi? Può accusarvi di sessismo? O di usare un linguaggio irrispettoso, o poco inclusivo?


Ovviamente no. Operai e tecnici del suono sono persone concrete, da almeno 70 anni maneggiano jack (spinotti) maschi e femmina, e nessuno si è mai turbato sentendo parlare di jack maschio e jack femmina. Almeno in Italia.


Ma supponete di essere negli Stati Uniti. L’associazione americana dei produttori di materiali audio (PAMA) ha pensato che, al giorno d’oggi, non si poteva continuare a parlare di jack “maschio” e jack “femmina”. E ha dato le sue direttive: d’ora in poi, in uno “spirito di inclusività e coerenza”, il jack maschio sarà chiamato plug (spina), quello femmina socket (presa). E chi dovesse ancora parlare di jack maschio e jack femmina sarà guardato di brutto.


Anziché affrontare i problemi concreti del settore, dai salari alle condizioni di lavoro, l’associazione dei produttori di materiali audio preferisce occuparsi di come operai e tecnici parlano dei cavi che maneggiano. E non esita a pavoneggiarsi della propria virtù.


Karrie Keyes, direttrice esecutiva delle “ragazze del suono” (SoundGirls), non riesce a nascondere la sua soddisfazione per le nuove regole promosse dall’associazione dei produttori audio. Ma deve ammettere che la strada è ancora lunga:


Un plauso per PAMA che cerca di introdurre un linguaggio neutro nell’industria audio. È un’impresa enorme, ma bisogna continuare a lavorare per portare cambiamenti significativi in questo settore.


La cosa interessante di questo caso è che non riguarda la tutela della sensibilità delle persone, di cui si occupava il politicamente corretto delle origini. Il nuovo politicamente corretto vede sessismo-razzismo-discriminazione anche nel modo in cui parliamo di oggetti inanimati. Per i suoi miliziani la sorveglianza sulla correttezza del linguaggio deve essere totale, la punizione e rieducazione dei reprobi devono essere puntuali, sistematiche. Le parole e le cose. Le cose e le persone. Come se l’offesa fosse trasmissibile – o magicamente evocabile – da cosa a persona (e viceversa).


E infatti la scure si abbatte non solo sugli innocenti jack, ma anche sui dispositivi elettronici e sui computer, dove da sempre si è parlato di architettura master-slave per caratterizzare un sistema con un dispositivo principale e uno ausiliario. D’ora in poi, per evitare di evocare il colonialismo, la schiavitù, l’oppressione dei neri, agli ingegneri e ai tecnici toccherà trovare dicotomie alternative, più democratiche e inclusive: primary/secondary; main/subordinate; director/performer; leader/follower, e così via.


Osservazione finale: se soldi, energie, personale, sforzi di comunicazione vengono spesi per togliere dalla circolazione espressioni come jack maschio, jack femmina, architettura master-slave, non stupisce che buona parte dei marxisti e tante femministe considerino le ossessioni linguistiche del politicamente corretto come un’arma di distrazione di massa, che permette all’establishment capitalista di distogliere l’attenzione della gente dalle vere diseguaglianze e dalle reali discriminazioni che ancora affliggono il nostro mondo.


Parole sconsigliate

Forse qualcuno ricorderà che qualche anno fa, in vista del Natale, la Commissione Europea aveva preparato una sorta di vademecum, a uso interno, con un minuzioso elenco di raccomandazioni linguistiche. Fra di esse, insieme a un nugolo di consigli curiosi, spiccava l’invito a non usare espressioni come le “vacanze di Natale”, perché non tutti in Europa sono cristiani. Il documento era così mal concepito che venne ritirato, in attesa di una versione più sensata (di cui per ora non c’è traccia).


A riempire il vuoto di linee guida ha recentemente provveduto l’università inglese di Brighton che – più o meno con le stesse motivazioni – ha consigliato a studenti, professori e personale di non parlare di Natale ma di “Periodo di chiusura invernale”.


E in Italia?


Anche in questo campo siamo all’avanguardia, specie nelle scuole. Da noi gli episodi di soppressione del presepe, cancellazione di recite natalizie, alterazione dei testi delle canzoni (Perù al posto di Gesù) si susseguono da anni, anche se – fortunatamente – toccano poche scuole, e sono promossi da pochi insegnanti iper-ideologizzati. Le motivazioni sono sempre le stesse, in Italia come nel resto di Europa: non offendere gli islamici, far sì che tutti “si sentano al sicuro, apprezzati e rispettati”.


Qui non ho la minima intenzione di entrare nella controversia fra difensori delle nostre radici cristiane e laici intransigenti. Ciò su cui vorrei attirare l’attenzione è una questione di natura fattuale: siamo sicuri che i musulmani si offendano?


A giudicare dalle innumerevoli prese di posizione pro-presepe delle famiglie e delle associazioni di fede musulmana direi proprio di no. E del resto esiste una controprova: nessun europeo sano di mente si indigna, si offende o si turba se – visitando un paese a maggioranza musulmana – incorre in simboli, riti o celebrazioni di quel credo; semplicemente prende atto che, in quel paese, la maggioranza aderisce a una religione diversa da quella prevalente in Europa.


O vogliamo essere così etnocentrici, presuntuosi, e pure un po’ razzisti da pensare che i non-europei siano incapaci di fare quel che con grande naturalezza facciamo noi, ovvero accettare che ogni popolo ha le sue tradizioni e tutto il diritto di seguirle?


Ed ecco che, allora, dobbiamo cambiare la domanda: perché, nelle nostre raccomandazioni, presumiamo che i musulmani possano offendersi, turbarsi, o non sentirsi al sicuro?


Per capirlo, dobbiamo spostarci di ambito, e occuparci di quello che, da una ventina d’anni, sta capitando nella scuola e nella famiglia. Ebbene, secondo un’imponente letteratura sociologica e soprattutto psicologica, il fenomeno emergente del nuovo millennio, in America come in Europa, è l’affacciarsi di una generazione di ragazze e ragazzi profondamente toccati da insicurezza, ansia, dipendenza (non solo da Internet), narcisismo, fragilità emotiva, suscettibilità, scarsa resilienza, incapacità di sostenere opinioni difformi dalle proprie. Generazione che, a sua volta, è il frutto di una generazione di genitori individualisti, iperprotettivi, iperindulgenti, sostanzialmente incapaci di educare. Il fenomeno è talmente vistoso che ha dato luogo a tutta una terminologia, perlopiù negativa, per descrivere genitori e figli: helicopter parenting (genitori-elicottero, ipersorveglianti), overparenting (genitori iperprotettivi), snowflake generation (generazione fiocco di neve), strawberry generation (generazione fragola), nation of wimps (nazione di schiappe). Chi vuol farsene un’idea, può leggere La generazione ansiosa, il documentatissimo e drammatico libro di Jonathan Haidt.


Ed ecco la risposta alla nostra domanda: se i funzionari europei presumono che i musulmani possano risentirsi per un presepe o per un augurio di Natale forse è perché proiettano su di loro le nostre nuove fragilità psicologiche e turbe ideologiche. Nel medesimo documento che invita a chiamare il Natale “periodo di chiusura invernale” compaiono raccomandazioni come: non parlare di colonizzazione di Marte (perché evoca il passato coloniale?), non parlare di insediamenti umani su Marte (perché vengono in mente gli insediamenti israeliani in Palestina?), non parlare della coppia Maria e Giovanni (troppo cristiano, meglio Malika e Julio), non dire “il ministro e la moglie” (meglio “la partner”, anche se è sua moglie). Ma, soprattutto, compare questo surreale invito: “Evitare un linguaggio che suggerisca che essere più vecchi sia uno stato non desiderabile.”


No, cari eurocrati: essere più vecchi è peggio che essere più giovani, e fingere che sia desiderabile – questo sì – è poco rispettoso, non tanto della vecchiaia ma dell’intelligenza di tutti.


2. Intimidire, disinvitare, escludere

Maometto e il calvario di Erika

Storicamente, una delle prime manifestazioni del follemente corretto fu l’imposizione, nelle università americane, dei cosiddetti trigger warning, espressione difficilmente traducibile in italiano. Letteralmente significa “avvisi di attivazione”, o “avvertimenti di innesco”. In concreto, nel contesto universitario in cui veniva e viene di solito usata, significa: attento, quel che sto per farti sentire o vedere potrebbe scatenare in te una reazione di timore, imbarazzo, turbamento, sofferenza eccetera (e quindi io, professore sensibile e illuminato, ti metto in guardia, così se non te la senti puoi uscire dall’aula).


Ma che cos’era così potenzialmente scatenante da richiedere un avvertimento? Film violenti, con sangue, torture, crudeltà verso bimbi innocenti? Materiale pornografico, con scene sadomaso e umiliazioni delle vittime? Racconti di rara crudezza o oscenità?


No, nulla di tutto questo. Nel mirino dei trigger warning, nell’università e fuori, sono finite opere come la Divina Commedia, i miti greci, i dipinti di Gauguin, Via col vento, Dumbo, i film western eccetera. Il tutto perché nei loro contenuti, o nella vita dei loro autori, qualcuno poteva trovare tracce di sessismo (Zeus e le dee), razzismo (Rossella O’Hara nel Sud schiavista), suprematismo bianco (cowboy contro indiani), islamofobia (Maometto nell’Inferno) eccetera.


Di qui la pratica, ampiamente diffusa negli Stati Uniti, di avvertire gli studenti, gli ascoltatori, gli spettatori dei pericoli che potrebbero correre esponendosi a certe opere; cosa che facciamo anche noi in Europa, ma solo con i bambini (ad esempio mediante l’istituto delle fasce orarie protette in TV).


Si potrebbe supporre che, se assume le dovute precauzioni mediante i trigger warning, un professore americano sia al riparo da ogni critica. Invece no. Alla fine del 2022, nell’università Hamline a Saint Paul (Minnesota), la professoressa Erika López Prater, docente (precaria) di storia dell’arte, sapendo che, per una parte del mondo musulmano, esporre l’immagine del Profeta è sacrilegio, si cautela avvisando gli studenti che, fra le immagini che si accinge a mostrare, ve ne sarebbe stata una di Maometto. Non solo, arrivata alla diapositiva critica, annuncia che sta per mostrarla, e che chi vuole può uscire. Nessuno obietta, e la lezione ha termine. Fin qui siamo al follemente corretto classico: gli studenti, per quanto maggiorenni, sono trattati come fanciulli iper-sensibili e iper-impressionabili.


Ma nei giorni successivi interviene un salto di qualità. Alcuni studenti musulmani si rivolgono all’amministrazione dell’università, accusando la professoressa López Prater di islamofobia. Qualcuno paragona l’esibizione del dipinto a una apologia di Hitler. Il presidente della università di Hamline si schiera contro la professoressa, affermando che “il rispetto per gli studenti musulmani avrebbe dovuto prevalere sulla libertà accademica”. E non le rinnova il contratto per il semestre successivo.


La storia mostra che il follemente corretto non conosce limiti, e incide pesantemente anche sulle carriere: prima bastavano i trigger warning, ora si pretende la censura, si blocca un contratto, si sospende un docente, domani chissà. Ma la vicenda è ancora più interessante per le reazioni che ha suscitato, alcune favorevoli, altre contrarie alla professoressa. Fra le reazioni pro-Erika spicca quella di una associazione musulmana, il Muslim Public Affairs Council (MPAC), che rilascia un lungo e intenso comunicato in cui afferma che:


(a) la questione dell’esposizione dei dipinti di Maometto è controversa nel mondo musulmano;

(b) il dipinto in questione non è islamofobico;

(c) la professoressa ha agito con correttezza, e dovrebbe essere ringraziata per il modo empatico e critico in cui ha educato gli studenti.


Le ultime parole del documento sono:


Sulla base dei nostri universali e condivisi valori islamici, noi affermiamo la necessità che nelle istituzioni universitarie vengano promossi spirito di libera indagine, pensiero critico, diversità dei punti di vista.


Niente da imparare, Occidente?


Parentesi e intimidazioni

La parola “donna” sta diventando problematica, anzi esplosiva. Se la usi, rischi di bruciarti. Specie se sei una donna.


La deflagrazione è avvenuta nel 2019, in particolare nel Regno Unito, dove tutta una serie di aziende, istituzioni, organizzazioni varie hanno iniziato a sostituire parole come donna con parole come persona con l’utero, persona con vagina, persona con cervice uterina, o addirittura menstruator, e parole come futura mamma con persona incinta. Il tutto per includere, nella pubblicità di prodotti per le donne o nelle linee guida di determinati servizi medici per le donne, anche i trans FtM ossia le persone femmine alla nascita ma successivamente transitate a un’identità di genere maschile.


In breve, l’idea era di cancellare la parola donna, nonché le immagini femminili largamente presenti sulle pubblicità e le confezioni dei prodotti, perché quella parola e quelle immagini escluderebbero chi è nato femmina ma è successivamente transitato al genere maschile (trans FtM). E, simmetricamente, di usare la parola “donne” in modo estensivo, ossia per designare chiunque si senta tale, anche se biologicamente maschio (trans MtF), il tutto secondo il motto trans women are women, che potremmo parafrasare in “anche i maschi che si sentono donne sono donne”.


Di qui una serie di conflitti e lotte acerrime, che hanno portato anche a una impressionante sequenza di contestazioni, allontanamenti, dimissioni, licenziamenti, minacce verso scrittrici, docenti, giornaliste, impiegate, lavoratrici accomunate dal fatto di difendere i diritti e gli spazi delle donne biologicamente tali, con conseguente esclusione dei maschi MtF.


Ne sa qualcosa Joanne Rowling, l’autrice di Harry Potter, che nel 2020 si beccò ogni sorta di improperio (a partire da TERF: Trans Exclusionary Radical Feminist) per aver ironizzato sulla campagna per bandire la parola donna dalle comunicazioni dirette a donne biologicamente tali.


Da allora, l’uso della parola donna è sempre più controverso, per non dire rischioso: una parte del mondo femminista lo rivendica, ed esige che la parola sia riservata a chi è biologicamente di sesso femminile (e tale rimane), mentre una parte del mondo LGBT+ lo contesta, e pretende che – per indicare chi è biologicamente di sesso femminile – non si parli di donne, ma si usi una delle tante espressioni inclusive adottate dalle aziende e organizzazioni più deferenti verso le rivendicazioni trans.


Ma non basta. Ultimamente, il termine donna è diventato controverso anche perché una parte del mondo LGBT+ contesta il cosiddetto binarismo, ossia la distinzione stessa fra maschi e femmine. Secondo questo modo di vedere, può risultare impossibile riconoscersi univocamente in uno dei due generi, e comunque gli “stati di genere” possibili, ossia i modi di autopercepirsi, sarebbero infiniti e cangianti nel tempo. Di qui la continua ricerca, nella pubblicità, sui media, nelle grandi corporation, di formulazioni inclusive, capaci di venire incontro alle suscettibilità di chiunque (salvo irritare chi non avesse speciali suscettibilità, o fosse dotato di sense of humour). La parola donna è diventata incandescente.


Poca attenzione, finora, è stata rivolta alle conseguenze che questa ossessiva vigilanza sugli usi della parola donna produce sulla qualità della scrittura delle donne stesse. Terrorizzate dalle guardie rosse della lingua corretta, timorose di incorrere in anatemi e scomuniche come quelle che hanno colpito la più celebre Rowling, molte giornaliste, studiose e scrittrici stanno perdendo la capacità di esporre limpidamente il loro pensiero.


Ed ecco che, in un articolo che parla d’altro, ci si sente in dovere di spiegare perché non si usa lo schwa, che pure sarebbe una cosa bellissima e giustissima. Oppure ci si scusa di usare la parola donne, e si perde tempo con parentesi giustificatorie e precisazioni ovvie.


Esempi?


Se ne potrebbero fare diversi, ma ne basta uno a illustrare il meccanismo.


Ecco tre parentesi, tutte inserite nel medesimo articolo di giornale, firmato dalla scrittrice e filosofa Michela Marzano:


Vorrei tanto che le donne della mia generazione (anche se dire “le donne” non mi piace, è un’espressione che non ha senso, non esiste alcuna entità omogenea capace di riassumere le mille sfumature dell’esistenza femminile) eccetera…


E se le donne (sebbene ritenga opportuno finirla con quest’opposizione binaria fra gli uomini e le donne) eccetera…


Noi donne (anche se la genericità del termine non mi piace) eccetera…


Se anche Michela Marzano, una scrittrice che stimo molto e leggo sempre con interesse (bellissimo il suo romanzo sul consenso, Sto ancora aspettando che qualcuno mi chieda scusa), ritiene indispensabile prendere le distanze dalla parola “donne”, dobbiamo riflettere.


Che cosa aggiungono le parentesi? La consapevolezza che qualsiasi termine generale – non solo le donne, ma anche gli uomini, i giovani, gli operai, i ricchi, gli idraulici, le attrici, i cani – non può che riferirsi a uno spettro di condizioni molto diverse? Qualcuno non lo sapeva già? E poi, perché ripetere per ben tre volte che sì, uso l’espressione “le donne” ma in realtà non la vorrei proprio usare?


La ragione potrebbe essere, semplicemente: mettere le mani avanti, proteggersi dal rischio che una esponente del mondo LGBT+, follemente corretta, possa chiamare l’autrice dell’articolo sul banco degli imputati, chiedendole conto dell’uso troppo disinvolto della parola donne. Insomma, non vorrei che, dietro lo schermo delle parentesi, ci fossero essenzialmente due cose: il potere intimidatorio dei guardiani della lingua, la (conseguente) mancanza di libertà di chi scrive.


Ironia della sorte: il titolo dell’articolo è “Meglio donne libere che donne di potere”.


La libertà di parola: il caso Stock

In Italia se ne è parlato poco, ma il caso Stock merita una riflessione. Kathleen Stock è (anzi era) una docente di filosofia dell’università del Sussex, femminista e lesbica, recentemente insignita del titolo di Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico per i suoi meriti accademici.


Alla fine del 2021 è stata costretta ad abbandonare la sua cattedra e l’insegnamento a causa delle minacce, intimidazioni, persecuzioni cui studenti e colleghi la avevano sottoposta per le sue idee, etichettate come “transfobiche”, in materia di sesso biologico e identità di genere. In un libro (Material Girls) aveva osato dire che la biologia conta, e sono donne solo le persone biologicamente tali.


Non si pensi, però, alle solite campagne denigratorie, basate su tweet e cancelletti, di cui ci dilettiamo in un paese comparativamente mite e tutto sommato ancora bonaccione come l’Italia: le cronache britanniche raccontano che le intimidazioni verso la professoressa Stock erano giunte a un punto tale da indurre la polizia a farle ingaggiare una guardia del corpo, installare camere di videosorveglianza davanti a casa, nonché ad assegnarle un numero di emergenza cui ricorrere in caso di pericolo.


Il caso della Stock è solo l’ultimo di una serie impressionante di episodi di censura e intimidazione che, specie nel mondo anglosassone e con crescente frequenza negli ultimi anni, hanno colpito la libertà di espressione nelle università, nelle scuole, nei giornali, nell’editoria, nella televisione, nel cinema, nello spettacolo. 


Ma la libertà di espressione di chi?


Un po’ di tutti, a quel che si apprende dalle cronache. Ma in misura assolutamente preponderante la libertà delle donne, specie se femministe e impegnate in lavori intellettuali, come scrittrice, giornalista, professoressa universitaria. La ragione di tale accanimento è semplice: i più radicali tra gli attivisti LGBT+, che legittimamente propagandano le proprie idee e rivendicazioni in materia di sesso e di genere, non tollerano che le donne si facciano portatrici di idee diverse, o opposte, rispetto a quelle prevalenti nei segmenti più estremi del loro mondo. Se ciò accade, scattano campagne di denigrazione, esortazioni alle università perché non invitino le reprobe (o le disinvitino, se già invitate), contestazioni e manifestazioni di protesta. Il tutto accompagnato dall’accusa suprema: essere delle TERF.


Questa vicenda presenta due aspetti sociologicamente interessanti. Il primo è che l’attacco alla libertà di espressione, pur minacciando tutti (se non altro come pressione all’autocensura), oggi colpisce soprattutto le donne, specie se femministe e/o impegnate in una professione intellettuale. Ed è paradossale che questo attacco alla libertà delle donne, tradizionalmente descritte come discriminate, avvenga proprio in nome dei diritti di una minoranza – i maschi transitati o transitanti a femmine – a sua volta discriminata.


Il secondo aspetto interessante è il fatto che l’accusa di transfobia, fuori luogo quando viene rivolta a donne che esprimono la loro opinione in materia di identità di genere, finisca per funzionare come una profezia che si autoavvera. Etimologicamente, transfobia non significa odio per i trans, ma paura (dal greco phobos) nei loro confronti, ed è quantomeno curioso che sia invalso l’uso di dire “paura” e intendere “odio”. Ma nel momento in cui una donna viene minacciata, fisicamente e moralmente, in nome dei diritti di una comunità (in questo caso quella trans), è normale che la medesima donna cominci davvero, quali che fossero i suoi sentimenti precedenti, a provare paura dei membri di quella comunità. Una paura che prima non provava, e che è stata suscitata dalle intimidazioni cui è stata sottoposta. La professoressa Stock, alla fine del 2021, ha lasciato l’università precisamente perché aveva paura degli studenti, dei colleghi e degli attivisti che la minacciavano per le sue idee. Con un singolare contrappasso: la lotta al fantasma della transfobia finisce per generare transfobia vera e letterale, pura e semplice paura fisica dei membri di una comunità. 


Come se ne esce?


Dipende da dove si vive. Nel Regno Unito, ad esempio è stato il governo stesso, anche sotto la pressione del caso Stock, a varare nel 2023 una legge per garantire la libertà di espressione nelle università esistenti, proteggendo professori e studenti dalla prepotenza degli attivisti e dalle campagne di deplatforming (disinvito di conferenzieri già invitati). La legge, denominata Higher Education Freedom of Speech Act, prevede tutta una serie di misure (compresi risarcimenti) a tutela di studenti, docenti e visitatori che difendono in pubblico idee controverse (ma l’entrata in vigore della legge è in dubbio, per l’ostilità del governo laburista da poco eletto).


Negli Stati Uniti molti professori ormai pensano che la battaglia per ripristinare la libertà di espressione nelle loro università sia perduta, e che per cambiare le cose occorrerebbe troppo tempo. Quando un’istituzione come un grande e prestigioso ateneo comincia a credere che la sua missione sia la “giustizia sociale”, anziché la ricerca disinteressata della verità e della conoscenza, è inutile sperare che sia in grado di proteggere la libertà di pensiero. Di qui l’idea di fondare università libere, in cui professori e studenti possano esprimere senza timore le loro idee, anche se radicali, eterodosse, controcorrente, abrasive. Sta succedendo a Austin, in Texas, e forse la professoressa Stock troverà rifugio proprio lì.


E in Italia?


Qui da noi i segnali di censura e di intimidazione si stanno moltiplicando. Forse il più inquietante è stato il mese di sospensione (dall’insegnamento e dallo stipendio) che l’università Statale di Milano ha inflitto al professore Marco Bassani – ordinario di Storia delle dottrine politiche – per aver condiviso sulla sua pagina Facebook una vignetta sarcastica su Kamala Harris, vice di Joe Biden (allora da poco eletto presidente degli Stati Uniti).


Non entro nel merito del contenuto della vignetta (che, a seconda dei punti di vista, può essere giudicato sessista o femminista) ma il punto è che un’istituzione pubblica – l’università di Milano – è intervenuta contro un atto di mera condivisione, compiuto al di fuori dell’università, in uno spazio semi-privato (la pagina Facebook è accessibile solo agli iscritti).


Nonostante queste circostanze, e in barba all’articolo 21 della Costituzione sulla libertà di manifestazione del pensiero, la magistratura ha avallato la decisione dei vertici accademici, la stampa progressista ha messo in croce il reprobo, e i colleghi (anche quelli solidali con lui) si sono ben guardati dal difenderlo in pubblico. Di qui la decisione di lasciare l’università pubblica di Milano per approdare in una più liberale e tollerante università telematica privata.


Dopo il caso Bassani, gli episodi di intimidazione si sono moltiplicati, non solo nelle università. Nel 2022 collettivi di estrema sinistra dell’università di Roma hanno impedito di parlare al giornalista Daniele Capezzone. Nel 2023 femministe e attivisti del clima hanno impedito alla ministra Roccella di presentare il suo libro Una famiglia radicale. L’anno dopo, sempre alla ministra Roccella è stato impedito di tenere il suo intervento agli “Stati generali della natalità”.


E le cose non hanno fatto che peggiorare dopo l’attacco terroristico di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023. Il 7 marzo 2024, alla libreria Odeon di Firenze, i contestatori anti-isrealiani hanno impedito alla giornalista Elisabetta Fiorito di presentare il suo libro su Golda Meir, premier israeliano durante la “guerra dei sei giorni”. Stessa sorte – all’università Federico II di Napoli e alla Sapienza di Roma – è toccata a Maurizio Molinari (direttore di Repubblica) e a David Parenzo (conduttore radio-TV).


La colpa di entrambi: essere ebrei.


La differenza con i casi inglese e statunitense è che, qui da noi, non si osserva alcuna reazione: nessuna nuova legge a difesa della libertà di espressione, nessun tentativo di fondare università nuove in cui la libertà di parola sia considerata il bene più prezioso.


Cambiare razza

Che si possa cambiare sesso è una eventualità ormai entrata nel senso comune. Le organizzazioni che promuovono i diritti LGBT+ sostengono che la scelta del sesso/genere debba essere individuale, completamente libera, rispettata e riconosciuta da tutti.


Non hanno però messo in conto che la medesima pretesa di scegliere – e far valere – la propria identità potesse essere avanzata in ambiti diversi dal genere: ad esempio quello della razza o del colore della pelle. Dopo quello dei trans-sessuali, è venuto il tempo dei trans-razziali.


Sono celebri, negli Stati Uniti, i casi di Rachel Dolezal, donna caucasica che si è finta di colore per anni (prima di fare outing, nel 2015); o di Korla Pandit, musicista afro-americano che si è fatto passare per indiano; o della professoressa Jessika Krug, figlia di genitori bianchi, che per tutta la vita lavorativa ha fatto credere di essere di colore.


Ma i casi più interessanti sono quelli di coloro che, anziché usare l’inganno, sono ricorsi alla medicina e alla chirurgia per modificare effettivamente il proprio corpo.


Il caso più famoso, naturalmente, è quello di Michael Jackson, icona della musica pop, nato negli Stati Uniti ma di origini afro-americane. Ma è un caso fasullo, perché in realtà Michael, che era nero di pelle, non desiderava affatto cambiare razza. Semplicemente, era affetto da vitiligine (una malattia della pelle che copre progressivamente di macchie bianche il corpo), ed era ricorso a tecniche di sbiancamento solo per uniformare il colore della sua pelle e nascondere le macchie bianche.


I tentativi effettivi di alterare la razza sono altri. Martina Big, donna tedesca bianca, è ricorsa a iniezioni di melanina per diventare nera. Oli London, ragazzo bianco inglese, si è sottoposto a 18 (diciotto) interventi chirurgici per diventare come un coreano (più esattamente: per somigliare alla popstar coreana Jimin dei BTS).


Il fenomeno sarebbe rimasto poco più che una curiosità folkloristica se non avesse attirato l’attenzione delle accademiche femministe. Tutto parte da un provocatorio saggio del 2017 di Rebecca Tuvel, giovane docente di filosofia, in cui si sostiene che, così come ammettiamo la possibilità di cambiare genere, per coerenza dovremmo ammettere quella di cambiare razza. Fra i due tipi di transizione, infatti, non sussistono differenze tali da autorizzarne una e negare l’altra.


La filosofa non aveva previsto, però, che la sua difesa del transrazzialismo può portare da tutt’altra parte. I paradossi connessi alla scelta soggettiva della razza (un bianco che diventa nero può godere dei diritti riservati ai neri?), anziché ampliare gli ambiti della autodeterminazione, hanno finito per accendere un faro sull’assurdità di ogni auto-identificazione, di genere o di razza che sia. Di qui una pioggia di contumelie a Rebecca Tuvel, e il contrordine: cambiare razza non si può, solo il genere può essere cambiato.


La lobby LGBT+ è, e deve restare, un club esclusivo, che non ammette nuovi membri.


Se, in nome dell’inclusione, aggiungesse la lettera R (da Race changing) per difendere i diritti di chi vuol cambiare razza, qualcuno potrebbe pensare che cambiar sesso/genere sia altrettanto strano che cambiar razza.


3. Tempi duri per l’arte

Riscrivere Roald Dahl

Sul fatto che il mondo dell’arte sia una delle vittime, forse la più illustre, del follemente corretto non vi sono molti dubbi. Sono molte centinaia, forse migliaia, le opere che sono entrate nel mirino dei censori per la loro presunta scorrettezza politica. In alcuni casi, ad esempio l’abbattimento di statue, la censura si è manifestata con la distruzione o rimozione fisica. In altri, ci si è accontentati del ritiro dal commercio o dalle grandi biblioteche: è successo per alcuni popolarissimi libri per ragazzi del dr. Seuss (l’inventore del Grinch, Sgruntolo in italiano), così come per Tintin in Congo del belga Hergé. In altri, si è manifestata sotto forma di estromissione dal canone: non far leggere Dante, non far eseguire i brani di determinati musicisti considerati “razzisti” sono parsi modi di purificazione del linguaggio dell’arte. In altri ancora la strada è stata quella di preavvertire il pubblico dei terrificanti rischi psicologici cui andava incontro ammirando certi dipinti, vedendo un certo film, guardando un certo cartone animato.


Il tratto comune di tutti questi atti censori è un elemento per così dire negativo: i censori non alterano il contenuto dell’opera, ma si limitano a rimuoverla più o meno compiutamente dallo spazio pubblico, al limite distruggendola (statue), senza avanzare la pretesa di modificarla. Chi pensa che Gauguin facesse male ad amare ragazze polinesiane minorenni non ne ridipinge le tele rimuovendo le ragazze indigene. Chi critica certe scene schiaviste di Via col vento non prova a girarne di alternative, magari con l’aiuto dell’intelligenza artificiale. Chi pensa che Le petit nègre di Debussy abbia “connotazioni razziste” non ne corregge lo spartito (anche se, va ricordato, non sono mancati ritocchi politicamente corretti ai testi delle opere liriche, ad esempio di Mozart e Rossini).


Però ci sono casi in cui proprio questo succede: i censori, in nome della correttezza politica, si sostituiscono all’autore, e si attribuiscono il diritto di modificarne l’opera. Attenzione: non mi sto riferendo a semplici cambiamenti del titolo, come accadde negli anni quaranta al celeberrimo Ten Little Niggers di Agatha Christie (più di 100 milioni di copie vendute), mutato in Dieci piccoli indiani o nel più neutro …E poi non rimase nessuno. E neppure a casi come quello del regista che fa un film ispirato a un romanzo, e ne altera più o meno radicalmente la trama, l’ambientazione, o il messaggio. O come quello di uno scrittore che – è il caso di Alessandro Baricco con l’Iliade e con Moby Dick – riscrive un classico in chiave moderna assumendo pienamente la paternità della nuova opera. Quello che ho in mente è quel che accade quando un’opera continua a essere attribuita al suo autore originario (nel frattempo scomparso), ma qualcuno si prende l’arbitrio di manipolarne il testo.


Un esempio classico è quello della Carmen di Bizet, opera andata in scena nel 2018 al Maggio musicale fiorentino. In quell’occasione il regista Leo Muscato pensò bene di trasformare la bella gitana da vittima di don José a sua assassina, per non mettere in scena un femminicidio (si era in pieno MeToo). La scelta ebbe il plauso del sindaco Nardella, curiosamente persuaso che il nuovo finale dell’opera veicolasse un “messaggio culturale, sociale ed etico che denuncia la violenza sulle donne, in aumento in Italia”. Come se l’arte avesse fini pedagogici, e ai posteri fosse lecito usurpare gli autori classici riscrivendo più o meno liberamente i loro testi.


Ma l’ambito su cui la manipolazione ha trovato il terreno più fertile è quello della letteratura per ragazzi. Qui non sono solo fiorite nuove versioni delle fiabe classiche, spesso del tutto snaturate, ma perlomeno non attribuite agli autori originari. Qui è accaduto che di un autore di straordinario successo e prestigio, il grandissimo Roald Dahl, amato dai bambini di tutto il mondo, venissero manipolate le opere in modo sistematico e pianificato. Allo scopo la casa editrice che ne pubblica le opere (Puffin) ha addirittura ingaggiato una società (Inclusive Minds) specializzata nella normalizzazione del linguaggio. Il tutto con il consenso degli eredi di Dahl, pronti a lasciar infierire sui testi.


In che cosa sono consistite le manipolazioni?


Fondamentalmente nella decaratterizzazione dei personaggi e delle situazioni. Dove c’è un personaggio vivido, o una situazione eccitante, o un’immagine forte, o un difetto fisico, o anche semplicemente una deviazione dalla norma, si interviene per smorzare, ammorbidire, smussare, neutralizzare.


Parole come ugly (brutto) o crazy (matto), o espressioni come “doppio mento”, vengono espunte. L’aggettivo fat (grasso) sostituito con enormous. Femmina con donna, mamma e papà con genitori. Queer con strano. Il femminile chambermaid (cameriera) con il neutro cleaner (persona che pulisce). Una “signora attraente di mezza età” con una “signora gentile di mezza età”.


Ma non è solo questione di lessico. Nel romanzo Matilda, la protagonista legge Rudyard Kipling, ma le Menti Inclusive considerano Kipling troppo crudo e preferiscono farle leggere Jane Austen.


Nel romanzo Le streghe, le Menti Inclusive superano se stesse. Nell’edizione originaria c’è un passaggio in cui la nonna spiega al nipote che le streghe indossano parrucche per nascondere di essere calve, e guanti per coprire gli orrendi artigli. Il ragazzino replica che allora, per riconoscerle, tirerà i capelli a tutte le donne. La replica della nonna è:


Non dire stupidaggini. Non puoi tirare i capelli a tutte le donne che incontri, anche se portano i guanti. Provaci e vedrai.


Alle Menti Inclusive questa nonna non piace. Troppo diretta. Troppo semplice. Troppo pratica. O forse troppo poco riflessiva, troppo poco educatrice. Ed ecco che la risposta, che nella versione originaria era secca e molto vivida (perché te li immagini, il ragazzino che si avventa sui capelli della donna e lei che reagisce), nella versione “inclusiva” diventa:


Non dire stupidaggini. Peraltro ci sono molte altre ragioni per cui una donna potrebbe indossare una parrucca senza che ci sia nulla di sbagliato.


Il gioco è fatto: grazie alle Menti Inclusive, da personaggio frizzante la nonna si è trasformata in una scialba figura di educatrice politicamente corretta dei giorni nostri.


Ed eccoci al punto. La riscrittura dei testi letterari o teatrali allo scopo di renderli del tutto inoffensivi equivale a svuotarli dall’interno. Un testo letterario passato al setaccio dei sensitivity readers è come un cibo a cui è stato tolto ogni gusto e sapore: latte senza lattosio, caffè senza caffeina, tè senza teina, biscotti senza zucchero, pesce senza sale, pasta senza glutine.


Certo, un’alimentazione sanissima, ma più insipida, incapace di suscitare il piacere che tutti ricaviamo dal cibo.


Ma non è solo questo. La pretesa di costruire TGM – testi geneticamente modificati – fraintende gravemente la natura della narrativa, tanto più se è rivolta a ragazzi e ragazze. Che non può essere né quella di rappresentare il mondo com’è, né tantomeno di rappresentarlo come dovrebbe essere. Ma semmai quella di offrire storie, caratteri e mondi che non ci attirano semplicemente per la trama, ma per il modo in cui sono raccontati, per le parole con cui sono dipinti.


Per questo le parole dell’autore sono sacre. Chi le modifica non aggiorna il testo, ma gli toglie l’anima. E non rispetta l’autore, la sua totale libertà in quanto scrittore, cioè creatore di storie e, soprattutto, di una forma sua peculiare, detta stile. Non è indifferente la forma, il modo di raccontare una storia, la scelta del lessico, della sintassi: è la cifra di un autore, ciò che lo differenzia dagli altri e lo rende unico e immediatamente riconoscibile.


È, in una parola, la letteratura. Non è alterando lo stile di un autore che “si purifica” il mondo. Ma è certamente rinunciando a collocare l’opera (e l’autore) nel suo tempo che si distrugge la letteratura.


La wokeness contro la musica

La politica, l’ideologia e il politicamente corretto inquinano tutto, dalla stampa alla TV, dalla letteratura alle scienze. Però non tutti gli ambiti sono ugualmente attaccabili. Ci sono ambiti ultra-permeabili, come il giornalismo, la letteratura, le scienze sociali, e ambiti quasi impenetrabili, come la fisica e la matematica. E la ragione è semplice: tutto dipende dal grado di neutralità intrinseca di ogni ambito culturale. Se scrivi un romanzo, le tue preferenze e i tuoi valori contano molto, quindi può avere senso (almeno per i fanatici) chiedersi quanto un dato testo è PC. Ma se dimostri un teorema, o scopri una nuova legge fisica, chiedersi quanto quel teorema o quella legge siano politicamente corretti è semplicemente assurdo (anche se qualche fanatico ci prova).


È per questo che il politicamente corretto è particolarmente invasivo in ambiti come l’informazione, il cinema, le discipline umanistiche, la letteratura, l’opera, e persino la mitologia e le arti figurative.


Si potrebbe supporre che, oltre alla matematica e alla fisica, lo scudo della neutralità protegga anche la musica. Dopotutto, una sequenza di note non è più politica di una sequenza di simboli matematici.


E invece no. Negli ultimi anni, anche a seguito dell’esplosione del movimento Black Lives Matter, la scure del politicamente corretto si è abbattuta pure sul mondo della musica. E lo ha fatto non solo là dove al testo musicale si accompagnano delle parole (come nelle canzoni o nell’opera lirica), ma dove la musica è per così dire linguisticamente muta, pura sequenza di note, senza parole né canto: per il teorico (nero) della musica Philip Ewell, ad esempio, la musica classica è razzista e discriminatoria per il fatto stesso di essere basata su un ordine rigoroso e gerarchie armoniche.


Negli Stati Uniti, questo politicamente corretto estremo, che vede ovunque razzismo e discriminazione, e invita a stare all’erta contro le ingiustizie sociali, è perlopiù designato con il termine woke (sveglio) e i suoi derivati wokeness (lo stare all’erta) e wokeism (la corrispondente ideologia).


Gli attacchi alla musica si possono utilmente ordinare lungo una scala di assurdità. Un testo musicale può cadere sotto gli strali del fanatismo woke per almeno 5 motivi, via via più demenziali.


Livello di


assurdità


Motivazione della censura


Oggetto della censura


(esempi)


1


Il titolo del brano contiene la parola “negro”


Le petit nègre, di Claude Debussy


2


Il compositore ha idee naziste


Richard Wagner (razzista e antisemita, ma morto prima che Hitler fosse nato)


3


Il compositore piaceva ai nazisti


Beethoven, Schubert, Mozart, Bach, Haydn, Wagner, Händel


4


Il compositore è europeo, quindi “è stato sostenuto dalla bianchezza (whiteness) e dalla mascolinità per duecento anni”.


La sua musica “rafforza il dominio dei maschi bianchi e sopprime le voci delle donne, dei neri e della comunità Lgbtq”


Compositori europei.


In particolare: Beethoven, Quinta Sinfonia (perché “è un simbolo della superiorità del maschio bianco”)


5


Il compositore è affetto da “bianchezza”, quindi colpevole di razzismo


Praticamente tutti i compositori e musicisti occidentali


La censura di opere e autori non è tutto, però. Accanto a essa proliferano anche altre pratiche. Ad esempio quella di scusarsi di essere bianchi da parte di dirigenti di grandi istituzioni musicali, come il presidente della Los Angeles Opera (Christopher Koelsch), o il capo della League of American Orchestra (Simon Woods), a quanto pare convinti che la whiteness sia una colpa. O il licenziare chi resiste alle intimidazioni dei censori (è successo a Dona Vaughn, direttrice dell’opera alla Manhattan School of Music).


Ma le pratiche più inquietanti sono quelle con cui si pretende di aumentare la presenza di musicisti neri nelle orchestre americane, da sempre molto sbilanciate a favore dei bianchi. Peccato che il rimedio usato – impedire ai giudici di vedere i musicisti, per evitare favoritismi pro-bianchi e discriminazioni – si sia rivelato un boomerang: il “daltonismo” dei giudici nelle “audizioni alla cieca” finiva per premiare il merito, non la razza bianca. Ora da taluni è considerato discriminatorio.


Musica razzista?

A proposito di libertà e censura nella musica, vale la pena soffermarsi sul caso di Claude Debussy. Chissà che cosa penserebbe lui, uno dei più grandi compositori di sempre, se per miracolo rinascesse oggi a New York. Scoprirebbe, in tal caso, che la prestigiosa Special Music School della città, che offre un insegnamento musicale intensivo durante l’intero percorso scolastico, nel 2021 ha invitato a depennare dai programmi due sue celebri composizioni per pianoforte, precisamente Le petit nègre (1909) e Golliwog’s Cakewalk, l’ultimo brano di Children’s Corner (1906-1908).


La ragione?


In entrambe le composizioni sarebbero presenti “connotazioni razziste”. Gli insegnanti non dovrebbero più eseguirle, né assegnarle agli allievi.


“Questi due pezzi non sono più accettabili nel nostro paesaggio culturale e artistico. Noi vogliamo rendere la Special Music School un posto in cui tutti gli studenti si sentano supportati, ed entrambi i pezzi hanno connotazioni razziste e superate. Fortunatamente il repertorio per piano è vasto – ci sono molte alternative.”


È interessante notare che l’accusa non è rivolta a Debussy, ma alla sua musica. Ma come fa una musica, priva di un testo orale, a essere definita “razzista”? Il comunicato della scuola non lo rivela, perciò mi sono messo a cercare, ed ecco i risultati.


Primo, le accuse sono decisamente recenti. A giudicare dalle date, si direbbe che il fenomeno sia successivo alla esplosione del movimento Black Lives Matter. Prima, nessuno aveva avuto niente da ridire.


Secondo, le accuse sono alquanto eterogenee, come se, non riuscendo a cogliere il punto, si provasse a sparacchiare un po’ qua e un po’ là. Vediamole.


1. Nazionalismo. “Durante la prima guerra mondiale Debussy firmava le sue composizioni ‘Claude Debussy, musicista francese’, per marcare la sua distanza da altre nazionalità, in particolare dalla Germania. In questo senso era virulentemente nazionalista, e quindi, in base agli standard odierni, un razzista.”


2. Appropriazione culturale. Tecnicamente, entrambi i brani incriminati risentono dell’influenza del Ragtime (precursore del jazz), nato dalla musica afroamericana di fine Ottocento, che Debussy aveva avuto modo di conoscere all’esposizione universale di Parigi nel 1889.


3. Le petit nègre descrive la danza, leggera e allegra, di un ragazzino di strada nero che balla a un ritmo incontenibile.


4. Golliwog’s Cakewalk si ispira alla travolgente danza afroamericana del cakewalk, che si immagina ballata da Golliwog, celebre bambola nera protagonista di favole per bambini (Debussy ne aveva regalata una all’adorata figlia Chouchou).


Proviamo a estrarre la ratio dell’accusa di razzismo.


1. Se l’autore di un brano musicale è un patriota, allora il brano è razzista.


2. Se in un brano di un compositore europeo echeggiano tecnicalità di origine afroamericana, allora il brano è razzista.


3. Se, come nel brano Le petit négre, il soggetto del brano è un ragazzino nero, allora il brano è razzista.


Ma i ragionamenti più contorti sono quelli dell’ultimo punto, che riguarda anche il Golliwog’s Cakewalk. Qui l’accusa di razzismo si appunta sia sulla “nerità” del cakewalk (una danza afroamericana che, in realtà, era nata per prendere in giro i bianchi), sia sulla “nerità” della bambola Golliwog, inventata nel 1895 dalla scrittrice per ragazzi Florence Kate Upton, e popolarissima fra i bambini europei e americani nei primi decenni del Novecento.


Ma perché un elemento nero (la bambolina) rende razzista la musica? Fondamentalmente perché l’anti-razzismo è anche una forma di pensiero magico, che si dipana per catene associative: un concetto A, inizialmente neutro, assume una valenza negativa A’, che così contamina un secondo concetto B a esso collegato, che a sua volta può contaminare un terzo concetto C, collegato a B ma che non ha niente a che fare con A:


A → A’ → B → C


Ad esempio: la bambolina Golliwog all’inizio è un simbolo perfettamente neutrale (A); poi il suo essere nera le conferisce un potenziale razzista (A’), che si trasferisce sul brano Golliwog’s Cakewalk (B), che contiene nel titolo il nome della bambolina; ma l’autore del brano è il musicista Debussy, sicché il potenziale razzista del brano si trasferisce sul suo autore (C), che a quel punto diventa ideologicamente radioattivo.


Alla faccia dei discorsi sul dovere di includere e sul dialogo fra culture.


La vita o le opere?

Il cosiddetto doppio standard, ovvero usare due pesi e due misure a seconda dell’appartenenza politica, è una delle maggiori piaghe del discorso pubblico, specie in Italia. Fatti analoghi vengono giudicati in modo opposto se al governo c’è la sinistra oppure la destra. O anche semplicemente perché i protagonisti ci stanno simpatici o antipatici.


Succede, immancabilmente, quando un politico in vista incappa in una inchiesta giudiziaria. Se è dei nostri, “noi siamo garantisti”, invochiamo la presunzione di innocenza, e diciamo che non deve dimettersi. Se è dei loro, continuiamo a proclamarci garantisti, ma scatta il discorso sull’opportunità politica: è meglio che si dimetta, per rispetto dell’istituzione di cui fa parte e per difendersi meglio davanti ai giudici.


Succede quando a qualche personaggio pubblico viene materialmente impedito di parlare: se è dei nostri è violenza squadrista, se è dei loro e chi interrompe è dei nostri, è legittima contestazione, è sacrosanto diritto di esercitare il dissenso, sale della democrazia.


Succede quando un politico denuncia per diffamazione qualcuno che lo ha insultato pubblicamente: se l’insultato è dei nostri, ha il sacrosanto diritto di difendersi querelando, ma se a essere dei nostri è chi insulta, allora è diritto di critica.


Non è tutto, però. A essere colpiti dal doppio standard non sono solo i gesti politici, come quelli di una campagna elettorale, ma anche quelli artistici e culturali, persino quando i loro autori sono morti da un pezzo.


Un bell’esempio è fornito dalla pretesa di giudicare le opere del passato in base alla vita dei loro autori, setacciata ai raggi X secondo gli standard etici del presente. Nel 2019, alla National Gallery di Londra, i dipinti di Gauguin sono stati contestati, e giudicati indegni di essere esposti, perché quando si era rifugiato a Tahiti aveva convissuto con una ragazza del luogo quattordicenne, da cui aveva anche avuto un figlio. Qui il punto di vista che squalifica senza appello i dipinti di un artista è una sorta di femminismo retroattivo, ringalluzzito dal MeToo, incapace di collocare le opere nel loro tempo (fine Ottocento) e nel luogo in cui sono state concepite (le isole della Polinesia).


Ma il caso di Gauguin è ancora fra i più innocenti, perché la politica c’entra molto alla lontana. Gauguin non era di destra o di sinistra, perché della politica non gli importava nulla.


I casi interessanti sono quelli in cui la tagliola che squalifica l’opera di un autore in base ai suoi costumi sessuali scatta a seconda delle convinzioni politiche dell’autore stesso.


Per un motivo analogo a quello addotto nel caso di Gauguin (aver avuto una moglie giovanissima e di colore), la statua di Indro Montanelli a Milano è stata fatta oggetto di ripetuti scempi, ed è tuttora bersaglio di polemiche politiche e pseudo-intellettuali. Come nel caso di Gauguin, le accuse si sono intensificate dopo lo scandalo Weinstein e il MeToo (2017). Qui però la matrice degli attacchi non è solo femminista, è anche politica, perché Montanelli è un grandissimo giornalista e saggista, ma è stato fascista e ha la colpa di essere un conservatore.


Si potrebbe pensare che, in materia di politicamente corretto applicato alle opere del passato, la faziosità sia una esclusiva della sinistra. Ma non è così. Un paio di anni prima del MeToo, una polemica feroce investì l’opera del grande poeta cileno Pablo Neruda, premio Nobel per la letteratura nel 1971. Nella sua autobiografia, Confesso che ho vissuto, uscita postuma nel 1974 (a un anno dalla morte), qualcuno, a distanza di 40 anni, ebbe a notare un passaggio in cui il grande poeta raccontava uno stupro (o perlomeno un rapporto non consensuale), da lui consumato ai danni di una giovane donna Tamil, nera, povera, e della casta paria. In questo caso gli attacchi trovarono schierati sul medesimo fronte femministe cilene e politici di destra, ostili alla proposta di intitolare a Neruda l’aeroporto di Santiago del Cile.


A difesa del sommo poeta, comunista e perseguitato politico, si schierò invece la sinistra, esattamente come – nel caso degli attacchi a Montanelli – a difendere il nostro più grande giornalista, conservatore e a suo tempo gambizzato dalle Brigate Rosse, si era schierata la destra.


Morale della favola: nessuna opera del passato è al sicuro, finché non impareremo a giudicare le opere in sé, separandole dai loro autori. Che poi è il grande insegnamento di Proust, quando scrive contro il critico Sainte-Beuve: “Un libro è il prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nelle nostre abitudini, nella vita sociale, nei nostri vizi.”


Nero di seppia

Supponete di aver invitato a cena per venerdì Angela, una vostra amica afroamericana di passaggio per l’Italia. Qualche giorno prima, diciamo martedì, cenate – sempre a casa vostra – con un’altra amica, Anna, bianca ed europea come voi. Anziché cucinarle il solito risotto al parmigiano, vi lanciate in uno spettacolare risotto al nero di seppia.


La cosa viene alle orecchie di Angela, l’amica nera d’oltreoceano, che dagli Stati Uniti vi fa sapere che no, lei a casa vostra non intende più mettere piede. Ha saputo della vostra cena con Anna e del risotto al nero di seppia, “una pratica razzista e arcaica, che non ha diritto di cittadinanza nella società moderna”. Lei da voi a cena non verrà più, per rappresaglia.


Se vi capitasse, che cosa fareste?


Personalmente penserei che la mia amica Angela ha perso la testa, o ha un esaurimento, o sta scherzando.


Invece no. Nel 2023 la Fondazione Arena di Verona, che organizza gli spettacoli nel meraviglioso anfiteatro di quella città, si è trovata in una situazione simile, ma ha preso molto sul serio la faccenda.


I fatti. Nel mese di luglio il soprano Anna Netrebko interpreta il ruolo di Aida, principessa etiope, nella celebre opera di Verdi. Come di consueto, dovendo mettere in scena un personaggio nero, ed essendo Anna Netrebko bianca, si ricorre al blackface, la pratica di scurire il volto. Un artifizio scenico quali ve ne sono innumerevoli nel teatro, come la gobba di Rigoletto messa indosso a baritoni con la schiena normale.


Pochi giorni dopo, dovrebbe andare in scena la Traviata, con il soprano Angel Blue, afroamericana nel ruolo di Violetta. Ma lei, come la vostra amica invitata a cena per venerdì, disdice sdegnosamente l’invito, perché qualche giorno prima l’Arena di Verona, in altra opera (Aida) e con altra interprete (Anna Netrebko), è ricorsa al blackface, come peraltro si è sempre fatto in casi simili.


La ragione? Secondo Angel Blue la pratica del blackface è razzista: “L’uso del blackface in qualsiasi circostanza, artistica o meno, è una pratica basata su tradizioni teatrali arcaiche che non hanno posto nella società moderna.”


La cosa curiosa, in tutta questa storia, è la reazione della Fondazione Arena di Verona. Anziché rivendicare l’autonomia artistica della regia (peraltro firmata da Zeffirelli), e il pieno diritto delle istituzioni di operare entro una tradizione culturale, arcaica o meno che essa risulti agli occhi di qualcuno, i responsabili della Fondazione hanno ritenuto di doversi giustificare, con argomenti invero penosi: non avevamo intenzione di offendere (come se una persona sana di mente potesse offendersi), l’allestimento è di 20 anni fa (e allora?), se vieni a Verona “potremo dialogare in modo costruttivo partendo proprio dalle tue riflessioni”.


Ma giustificarsi equivale ad ammettere che aver fatto il risotto con il nero di seppia ad Anna possa essere offensivo per Angela. Mentre la vicenda illustra solo tre cose molto semplici.


Primo, il politicamente corretto riesce a “scalare impensabili vette di stupidità”, come giustamente ha osservato Cesare Cavalleri su Avvenire.


Secondo, l’accusa di razzismo, per quanto pretestuosa, campata per aria, priva di sostanza o stupida sia, ha uno straordinario potere intimidatorio. Chiunque la subisca, si sente tenuto a fornire giustificazioni, se non a confessare la sua colpa, come accadeva nei processi staliniani.


Brutta faccenda. Non poter ridere del ridicolo è un segnale inquietante, e inequivocabile, di una civiltà che sta smarrendo se stessa.


Terzo, il teatro è finzione.


L’arte in generale è invenzione, e in quanto tale libera. Ma il teatro in particolare è proprio “tecnicamente” finzione: è recitazione, costumi di scena, scenografia. Un paesaggio campestre sul fondale è un cartone dipinto. Un uomo che ne uccide un altro non è un assassino, è un attore che recita la parte di un assassino, diventando quel che non è.


O dovremmo scegliere come attore un vero assassino? Chiedere alle carceri che ci prestino uno che ha ucciso l’amico davanti al bar e deve scontare vent’anni, e fargli fare l’attore per qualche sera? Questo vogliamo?


Pretendere che a recitare la parte di un nero sia un nero è la stessa cosa. Ed è esattamente questo: non capire cos’è il teatro, cos’è l’arte.