sabato 25 ottobre 2025

LO SCAMBIO SIMBOLICO E LA MORTE Jean Baudrillard


 LO SCAMBIO SIMBOLICO E LA MORTE

Jean Baudrillard

Recensione

P.b.

Al posto dell’enfasi di Marx sull’economia politica e sul primato dell’economia, per Baudrillard è il modello, la sovrastruttura, che genera il reale in una situazione che egli definisce come la “fine dell’economia politica”. Secondo lui, i segni-valore predominano sui valori d’uso e sui valori di scambio; la materialità dei bisogni e i valori d’uso dei beni che servono per soddisfare tali bisogni scompaiono nel suo immaginario semiologico, in cui i segni hanno la precedenza sul reale e sono in grado di ricostruire la vita umana. 

È la simulazione il simulacro al quale i rapporti sociali vengono ridotti e lo stesso avviene per la struttura politica della democrazia. Il suffragio universale è in realtà «il primo dei mass-media» in cui «propaganda e pubblicità si fonderanno sul medesimo marketing e merchandising di oggetti o di idee-forza» (pag. 77), nel quale le differenze tra programmi e progetti si annullano mediante la distribuzione statistica del 50% per ogni coalizione, tanto che «il voto rassomiglia al moto browniano delle particelle o al calcolo delle probabilità, è come se tutti votassero a caso, è come se votassero delle scimmie. A questo punto, poco importa che i partiti in causa esprimano storicamente e socialmente checchessia –bisogna anzi che non rappresentino più nulla: il fascino del gioco, dei sondaggi, la coazione formale e statistica è tanto maggiore» (pag. 81).

Baudrillard sintetizza tali dinamiche della politica contemporanea nella formula dura ma efficace «della leucemizzazione di tutta la sostanza sociale: sostituzione del sangue con la linfa bianca dei media» (pag. 79). Coinvolti in questa leucemizzazione, i partiti e i sindacati “rappresentanti dei lavoratori” sono in realtà diventati i loro nemici mentre –a livello di economia universale- il segno monetario si disconnette «da qualsiasi produzione sociale: esso entra allora nella speculazione e nell’inflazione illimitata» (pag. 35).

Baudrillard sostiene la causa dello ‘scambio simbolico’, che si oppone ai valori capitalisti di utilità e profitto monetario in favore di quelli culturali.

L’espressione ‘scambio simbolico’ deriva dalla nozione di Georges Bataille di un’‘economia generale’, in cui si ritiene che il consumo, la perdita, il sacrificio e la distruzione siano più fondamentali per la vita umana delle economie di produzione e di utilità. L’incessante scambio simbolico in cui la vita consiste comprende in sé anche la morte, soprattutto la morte, e solo in questa comprensione le può dare un significato né soltanto biologico né malinconicamente disperante né economicamente in perdita ma colmo della pienezza del dono che ogni presente è, anche quello della fine.

Presentazione

Non c'è più scambio simbolico al livello delle formazioni sociali moderne; non più come forma organizzatrice. Certamente, il simbolico le assilla come la loro morte; ma, proprio perché non ne regola più la forma sociale, esse non ne conoscono più che l'assillo, l'esigenza continuamente preclusa dalla legge del valore. E se, dopo Marx, una certa idea della Rivoluzione ha tentato di aprirsi un varco attraverso questa legge del valore, essa è da molto tempo ridiventata una Rivoluzione secondo la Legge. La psicoanalisi gira intorno a questo assillo, ma allo stesso tempo lo esclude circoscrivendolo nell'inconscio individuale, lo riduce, sotto la Legge del Padre, a un assillo della castrazione e del Significante. Sempre la Legge. Tuttavia, al di là delle topiche e delle economiche, libidiche e politiche, gravitanti tutte intorno a una produzione materiale o desiderante, sulla scena del valore, vi è lo schema d'un rapporto sociale fondato sullo sterminio del valore, il cui modello rinvia per noi alle formazioni primitive, ma la cui utopia radicale comincia a esplodere lentamente a tutti i livelli della nostra società, nella vertigine d'una rivolta che non ha più nulla a che vedere con la rivoluzione né con la legge della storia, e nemmeno (ma questo richiederà più tempo per apparire, perché il suo fantasma è troppo recente) con la 'liberazione' di un 'desiderio'.


In questa prospettiva, altri eventi teorici assumono un'importanza capitale: gli anagrammi di Saussure, lo scambio/dono di Mauss: ipotesi più radicali, a lungo termine, di quelle di Freud e di Marx, prospettive censurate proprio dall'imperialismo delle interpretazioni freudiana e marxista. L'anagramma e lo scambio/dono non sono episodi curiosi, ai confini delle discipline linguistiche e antropologiche, modalità subalterne rispetto alle grandi macchine dell'inconscio e della rivoluzione. In essi si vede profilarsi un'unica grande forma, dalla quale il marxismo e la psicoanalisi non fanno forse che derivare per sconoscenza; una forma che rinvia a spalla a spalla economia politica ed economia libidica - che designa dei qui, degli ora, un al di là del valore, un al di là della legge, un al di là della rimozione, un al di là dell'inconscio. Sono cose che accadono.


Per noi, un solo evento teorico ha il medesimo ordine di grandezza: l'enunciazione della pulsione di morte in Freud. A condizione di radicalizzarla contro lo stesso Freud. Nei tre casi, comunque, si tratta di una referenza contrariata: bisogna usare Mauss contro Mauss, Saussure contro Saussure, Freud contro Freud. Bisogna elevare il principio di reversione (contro-dono) contro tutte le interpretazioni economiciste, psicologiche o strutturaliste alle quali Mauss apre la via. Bisogna affermare il Saussure degli "Anagrammes" contro quello della linguistica, e persino contro la sua stessa ipotesi sugli anagrammi. Bisogna affermare il Freud della pulsione di morte contro tutto l'edificio precedente della psicoanalisi, e persino contro la versione freudiana della pulsione di morte.


A questo prezzo paradossale, che è quello della violenza teorica, si vedono le tre ipotesi descrivere nei loro rispettivi campi - ma proprio questa rispettività si abolisce nella forma generale del simbolico - un principio di funzionamento supremamente estraneo e antagonistico rispetto al nostro 'principio di realtà' economico.


Reversibilità del dono nel contro-dono, reversibilità del tempo nel ciclo, reversibilità della produzione nella distruzione, reversibilità della vita nella morte, reversibilità di ogni termine e valore linguistico nell'anagramma: un'unica grande forma, la stessa in tutti i campi: quella della reversibilità, della reversione ciclica, dell'annullamento; quella che ovunque mette fine alla linearità del tempo, a quella del linguaggio, a quella degli scambi economici e dell'accumulazione, a quella del potere. Ovunque essa prende per noi la forma della distruzione e della morte. É la forma stessa del simbolico. Né mistica né strutturale: ineluttabile.


Il principio di realtà ha coinciso con uno stadio determinato della legge del valore. Al giorno d'oggi, tutto il sistema precipita nell'indeterminazione, tutta la realtà è assorbita dall'iperrealtà del codice e della simulazione. É un principio di simulazione quello che ormai ci governa al posto dell'antico principio di realtà. Le finalità sono scomparse: sono i modelli che ci generano. Non c'è più ideologia, ci sono soltanto dei simulacri. É quindi tutta una genealogia della legge del valore e dei simulacri che bisogna ristabilire per cogliere l'egemonia e l'incantesimo del sistema attuale - rivoluzione strutturale del valore. Ed è in questa genealogia che si deve ricollocare l'economia politica: essa appare allora come un simulacro di secondo ordine, allo stesso titolo di quelli che non mettono in gioco che il reale - reale di produzione, reale di significazione, nella coscienza o nell'inconscio.


Il capitale non è più dell'ordine dell'economia politica: si serve dell'economia politica come modello di simulazione. Tutto il dispositivo della legge mercantile del valore è assorbito e riciclato nel dispositivo più vasto della legge strutturale del valore, e rientra così tra i simulacri di terzo ordine (vedi più avanti). All'economia politica è assicurata così una eternità seconda, nel quadro d'un dispositivo in cui ha perduto ogni propria determinazione, ma in cui essa considera la propria efficacia come referenziale di simulazione. Accadde esattamente la stessa cosa per il dispositivo precedente della legge naturale del valore, colto di nuovo come referenziale immaginario (la 'Natura') dal sistema dell'economia politica e dalla legge mercantile del valore: è il valore d'uso, che vive un'esistenza fantasma nel cuore del valore di scambio. Ma questo è a sua volta, nella spirale successiva, nuovamente colto come alibi nell'ordine dominante del codice. Ogni configurazione del valore è colta di nuovo da quella successiva in un ordine superiore di simulacro. E ogni fase del valore integra nel suo dispositivo quello precedente come referenza fantasma, referenza fantoccio, referenza di simulazione.


Una rivoluzione separa ciascun ordine da quello successivo: sono anzi le sole vere rivoluzioni. Il terzo ordine è il nostro; non è più dell'ordine del reale, ma dell'iperreale, e solo là teorie o pratiche, esse stesse fluttuanti e indeterminate, possono coglierlo e colpirlo a morte.


Le rivoluzioni attuali s'imperniano tutte sulla fase immediatamente precedente del sistema. Si armano tutte d'una resurrezione nostalgica del reale sotto tutte le forme, cioè dei simulacri di secondo ordine: dialettica, valore d'uso, trasparenza e finalità della produzione, 'liberazione' dell'inconscio, del senso rimosso (del significante o del significato chiamato desiderio), eccetera. Tutte queste liberazioni si offrono come contenuto ideale dei fantasmi che il sistema ha divorato nelle sue rivoluzioni successive, e che sottilmente risuscita come fantasmi di rivoluzione. Tutte le liberazioni non sono che una transizione verso la manipolazione generalizzata. La stessa rivoluzione non vuol più dire nulla allo stadio dei processi aleatori di controllo.


Alle macchine industriali corrispondevano le macchine della coscienza, razionali, referenziali, funzionali, storiche. Alle macchine aleatorie del codice rispondono le macchine aleatorie dell'inconscio, non-referenziali, trasferenziali, indeterminate, fluttuanti. Ma anche l'inconscio è rientrato nel gioco: è da molto che esso ha perduto il proprio principio di realtà per diventare simulacro operativo. Nel punto in cui il suo principio di realtà "psichica" si confonde con il suo principio di realtà "psicoanalitica", l'inconscio ridiventa, come l'economia politica, un modello di simulazione.


Tutta la strategia del sistema è in questa iperrealtà dei valori fluttuanti. Per l'inconscio accade come per le monete o le teorie. Il valore regna secondo l'ordine inafferrabile della generazione mediante modelli, secondo la concatenazione indefinita della simulazione.


L'operatività cibernetica, il codice genetico, l'ordine aleatorio delle mutazioni, il principio di indeterminazione, eccetera: tutto questo succede a una scienza deterministica, oggettivistica, a una visione dialettica della storia e della conoscenza. La stessa critica teorica, e la rivoluzione, fanno parte dei simulacri di secondo ordine, come tutti i processi determinati. L'insediamento dei simulacri di terzo ordine spazza via tutto questo, e contro di essi non serve a nulla voler risuscitare la dialettica, le contraddizioni 'oggettive', eccetera: è una regressione politica senza speranza. Non ci si può battere contro l'aleatorio a colpi di finalità, non ci si batte contro la dispersione programmata e molecolare a colpi di prese di coscienza e di superamenti dialettici, non ci si batte contro il codice a colpi di economia politica né di 'rivoluzione'. Tutte queste vecchie armi di primo ordine (quelle che si vanno a cercare nei simulacri di prim'ordine, nell'etica e nella metafisica dell'uomo e della natura, valori d'uso e altri referenziali di liberazione) sono via via neutralizzate dal sistema generale, che è di un ordine superiore. Tutto ciò che s'inserisce nello spazio-tempo definalizzato del codice, o cerca d'intervenirvi, è sconnesso dalle proprie finalità, disintegrato e assorbito: è l'effetto ben noto di recupero, di manipolazione, di ciclaggio e di riciclaggio a tutti i livelli. 'Ogni elemento di contestazione o di sovversione d'un sistema deve essere di un tipo logico superiore' (Anthony Wilden, "Système et Structure"). Ai simulacri di terzo ordine bisogna dunque opporre un gioco almeno pari: è possibile? Esistono una teoria o una pratica sovversive perché più aleatorie dello stesso sistema? Una sovversione indeterminata, che sia per l'ordine del codice ciò che la rivoluzione era per l'ordine dell'economia politica? É possibile battersi contro il DNA? Certamente non a colpi di lotta di classe. Oppure inventare dei simulacri d'un ordine logico (o illogico) superiore - al di là del terzo ordine attuale, al di là della determinazione e dell'indeterminazione - sarebbero ancora dei simulacri? La morte, forse, e soltanto essa, la reversibilità della morte è d'un ordine superiore a quello del codice. Solo il disordine simbolico può fare irruzione nel codice.


Ogni sistema che s'avvicina a un'operatività perfetta è prossimo alla sua perdita. Quando il sistema dice: 'A è A' o 'due più due fanno quattro', esso si avvicina, allo stesso tempo, al potere assoluto e al ridicolo totale, cioè alla sovversione immediata e probabile: basta una minima spintarella per farlo affondare. É nota la potenza della tautologia quando reitera la pretesa del sistema alla sfericità perfetta (la "gidouille" di Ubu).


L'identità è indefinibile: è la morte, perché non riesce a inscrivere la propria morte. É il caso dei sistemi chiusi e metastabilizzati, funzionali o cibernetici, che sono attesi al varco dalla derisione, la sovversione istantanea, in un batter d'occhio (e non più mediante un lungo lavoro dialettico) perché tutta l'inerzia del sistema gioca contro di esso. É l'ambivalenza che attende al varco i sistemi più perfezionati, quelli che sono riusciti a divinizzare il proprio principio di funzionamento, come il Dio binario di Leibniz. Il fascino che essi esercitano è reversibile all'istante, perché è fatto di negazione profonda, come nel feticismo.


D' onde la loro fragilità, che cresce proporzionalmente alla loro coerenza ideale. Questi sistemi, anche quelli che si fondano sull'indeterminazione radicale (la perdita di senso), ridiventano preda del senso. Crollano sotto il peso della propria mostruosità, come i mostri del carbonifero, e si decompongono subito. É il destino di ogni sistema votato per la sua stessa logica alla perfezione totale, e quindi all'imperfezione totale; all'assoluta infallibilità, e quindi al fallimento senza appello: tutte le energie legate tendono alla propria morte. É la ragione per cui l'unica strategia è "catastrofica", e nient' affatto dialettica. Bisogna spingere le cose al limite, dove del tutto naturalmente esse si capovolgono e si sfasciano. Poiché al culmine del valore si è più vicini all'ambivalenza, poiché al culmine della coerenza si è più vicini all'abisso di rivolgimento che assilla tutti i segni raddoppiati del codice, bisogna andare più lontano del sistema nella simulazione. Bisogna usare la morte contro la morte - tautologia radicale. Fare della logica propria del sistema l'arma assoluta. Contro un sistema iperrealista, l'unica strategia è patafisica: in qualche modo, 'una scienza delle soluzioni immaginarie', cioè una fantascienza del rivolgersi del sistema contro se stesso, all'estremo limite della simulazione, d'una simulazione reversibile in una iperlogica della distruzione e della morte.1


Una reversibilità scrupolosa, qual è l'obbligazione simbolica. Che ogni "termine" sia "s-terminato", che il valore sia abolito in questa rivoluzione del termine su se stesso: questa è l'unica violenza simbolica equivalente e trionfante sulla violenza strutturale del codice.


Alla legge mercantile del valore e delle equivalenze corrispondeva una dialettica della rivoluzione. All'indeterminazione del codice e alla legge strutturale del valore non risponde più che la reversione scrupolosa della morte.2


A dire il vero, non rimane nulla su cui fondarsi. Non ci resta più che la violenza teorica. La speculazione a morte, il cui unico metodo è la radicalizzazione di tutte le ipotesi. Anche il codice, il simbolico, sono ancora termini simulatori: bisognerebbe poterli ritirare a uno a uno dal discorso.

 

Capitolo primo - La fine della produzione

 


La rivoluzione strutturale del valore

 


Saussure diede due dimensioni allo scambio dei termini della "langue", assimilandoli a quelli del denaro: una moneta deve potersi scambiare contro un bene reale d'un certo valore, e d'altra parte deve poter essere messa in rapporto con tutti gli altri termini del sistema monetario.


É a quest'ultimo aspetto che egli riservava sempre più il termine di "valore": la relatività interna al sistema generale e fatta d' opposizioni distintive, di tutti i termini fra di loro - in opposizione all'altra possibile definizione del valore: la relazione di ciascun termine con ciò che esso designa, di ogni significante con il suo significato, come di ogni moneta con ciò che se ne può ottenere in cambio. Il primo aspetto corrisponde alla dimensione strutturale del linguaggio, il secondo alla sua dimensione funzionale. Le due dimensioni sono distinte, ma articolate; diciamo che lavorano insieme e sono coerenti, e che questa coerenza caratterizza la configurazione "classica" del segno linguistico, quella sottoposta alla legge mercantile del valore, dove la designazione appariva sempre come la finalità dell'operazione strutturale della "langue". Il parallelo è completo, a questo stadio 'classico' della designazione, con il meccanismo del valore nella produzione materiale, così come l'analizza Marx: il valore d'uso funge da orizzonte e finalità del sistema del valore di scambio - il primo qualifica l'operazione concreta della merce nel consumo (momento parallelo a quello della designazione per il segno), il secondo rinvia all'interscambiabilità di tutte le merci sotto la legge dell'equivalenza (momento parallelo a quello dell'organizzazione strutturale del segno) - i due si articolano nel corso di tutte le analisi di Marx e definiscono una configurazione razionale della produzione, governata dall'economia politica.


Una rivoluzione ha messo fine a questa economia "classica" del valore, una rivoluzione del valore stesso che, al di là della sua forma mercantile, lo porta alla sua forma radicale.


Questa rivoluzione consiste nel fatto che i due aspetti del valore, che si sono potuti credere coerenti ed eternamente legati come da una legge naturale, sono disarticolati, "il valore referenziale è annullato a vantaggio del solo gioco strutturale del valore". La dimensione strutturale si autonomizza a esclusione della dimensione referenziale, si istituisce sulla morte di quest'ultima. Finiti i referenziali di produzione, di significazione, d'affetto, di sostanza, di storia, tutta questa equivalenza a contenuti 'reali' che zavorravano ancora il segno d'una specie di carico utile, di gravità: la sua forma d'equivalente rappresentativo. É l'altro stadio del valore che la spazza via, quello della relatività totale, della commutazione generale, combinatoria e simulazione. Simulazione, nel senso che tutti i segni si scambiano ormai tra di loro senza scambiarsi più con qualcosa di reale (e non si scambiano bene, non si scambiano perfettamente tra di loro che "a condizione di" non scambiarsi più con qualcosa di reale). Emancipazione del segno: svincolato da quell'esigenza 'arcaica' che aveva di designare qualcosa, esso diventa infine libero per un gioco strutturale, o combinatorio, secondo una indifferenza e una indeterminazione totale, che succede alla precedente regola di equivalenza determinata. Medesima operazione al livello della forza-lavoro e del processo produttivo: l'annientamento di qualsiasi finalità dei contenuti di produzione permette a questa di funzionare come un codice, e al segno monetario, per esempio, di evadere in una speculazione indefinita, al di fuori di qualsiasi riferimento a un reale di produzione o persino a un tallone aureo. La fluttuazione delle monete e dei segni, la fluttuazione dei 'bisogni' e delle finalità della produzione, la fluttuazione dello stesso lavoro - la commutabilità di tutti questi termini che si accompagna a una speculazione e a un'inflazione senza limiti (si è veramente nella "libertà totale": disaffezione, disobbligazione, disincanto generale: è ancora una magia, una specie di obbligazione magica che teneva il segno incatenato al reale; il capitale ha liberato i segni da questa 'ingenuità' per abbandonarli alla circolazione pura) - tutto questo, né Saussure né Marx lo presentivano: essi sono ancora nell'età d'oro d'una dialettica del segno e del reale, che è allo stesso tempo il periodo 'classico' del capitale e del valore. La loro dialettica si è squartata e il reale è morto sotto il colpo di questa autonomizzazione fantastica del valore. La determinazione è morta, l'indeterminazione è sovrana. C'è stata una s-terminazione (nel senso letterale del termine) dei reali di produzione, del reale di significazione.3


 


Questa rivoluzione strutturale della legge del valore era indicata con il termine di 'economia politica del segno', ma quel termine è un ripiego perché:


1. Si tratta ancora d'economia politica? Sì, nel senso che si tratta pur sempre di valore e della legge del valore, ma la mutazione che la colpisce è tanto profonda, tanto decisiva, tutti i contenuti ne sono talmente cambiati, anzi annientati, che il termine non è più che allusivo, e più precisamente "politico", nella misura in cui è sempre la "distruzione" dei rapporti sociali governati dal valore che è in gioco. Ma da molto tempo si tratta di ben altro che di economia.


2. Il termine 'segno' non ha esso stesso che un valore allusivo. Poiché la legge strutturale del valore colpisce la significazione tanto quanto il resto, essa ha per forma non quella del segno in generale, ma una certa organizzazione che è quella del codice - ora un codice non governa segni qualsiasi. Né la legge mercantile del valore significa una qualunque istanza determinante, in un dato momento, della produzione materiale, né, inversamente, la legge strutturale del valore significa una qualsiasi preminenza del segno. Questa illusione viene dal fatto che l'una si è sviluppata con Marx all'ombra della merce, e l'altra con Saussure all'ombra del segno linguistico - ma bisogna infrangerla. La legge mercantile del valore è una legge delle equivalenze, e questa legge vale in tutte le sfere: essa designa altrettanto bene questa configurazione del segno dove l'equivalenza d'un significante e di un significato permette lo scambio regolato dei contenuti referenziali (altra modalità parallela: la linearità del significante, contemporanea del tempo lineare e cumulativo della produzione).


Questa legge classica del valore vale quindi simultaneamente su tutte le istanze (linguaggio, produzione, eccetera) ma quest' ultime restano distinte secondo la loro sfera referenziale.


Inversamente, la legge strutturale del valore significa l'indeterminazione di tutte le sfere tra di loro, e per quanto riguarda il loro contenuto (quindi anche il passaggio dalla sfera "determinata" dei segni alla "indeterminatezza" del codice). Dire che la sfera della produzione materiale e quella dei segni si scambiano il rispettivo contenuto è ancora lontano dal bersaglio: esse scompaiono letteralmente in quanto tali e perdono la loro specificità, di pari passo con la loro determinatezza, a vantaggio d'una forma del valore, d'un ordine ben più generale, in cui la designazione e la produzione s'annullano.


L''economia politica del segno' risultava ancora da un'estensione della legge mercantile del valore e della sua verifica alla scala dei segni. Mentre la configurazione strutturale del valore mette puramente e semplicemente fine sia al regime della produzione e dell'economia politica, sia a quella della rappresentazione e dei segni. Tutto questo, assieme con il codice, cade nella simulazione. Né l'economia 'classica' del segno né l'economia politica cessano, propriamente parlando, di esistere: esse conducono un'esistenza seconda, diventano una specie di principio fantasma di dissuasione.


Fine del lavoro. Fine della produzione. Fine dell'economia politica.


Fine della dialettica significante/significato che permetteva l'accumulazione del sapere e del senso, il sintagma lineare del discorso cumulativo.


Fine simultanea della dialettica valore di scambio/valore d'uso, che sola rendeva possibile l'accumulazione e la produzione sociale. Fine della dimensione lineare del discorso. Fine della dimensione lineare della merce. Fine dell'era classica del segno. Fine dell'era della produzione.


Non è la rivoluzione che mette fine a tutto questo. É lo stesso capitale che abolisce la determinazione sociale da parte del modo di produzione. É il capitale che sostituisce alla forma mercantile la forma strutturale del valore. Ed è quest'ultima che governa tutta la strategia attuale del sistema.


 


Questa mutazione storica e sociale è leggibile a tutti i livelli. L'era della simulazione è così ovunque aperta dalla commutabilità dei termini un tempo contraddittori o dialetticamente opposti. Ovunque la medesima 'genesi dei simulacri': commutabilità del bello e del brutto nella moda, della sinistra e della destra in politica, del vero e del falso in tutti i messaggi dei media, dell'utile e dell'inutile al livello degli oggetti, della natura e della culturale tutti i livelli della significazione. Tutti i grandi criteri umanistici del valore, quelli di tutta una civiltà del giudizio morale, estetico, pratico, si cancellano nel nostro sistema d'immagini e di segni. Tutto diventa indecidibile: è l'effetto caratteristico della dominazione del codice, che ovunque riposa sul principio della neutralizzazione e dell'indifferenza. 4 Questo è il bordello generalizzato del capitale; non il bordello della prostituzione, ma il bordello della sostituzione e della commutazione.


Questo processo, da lungo tempo operativo nella cultura, nell'arte, nella politica, anzi nella sessualità (nei campi chiamati 'sovrastrutturali') colpisce ora la stessa economia, l'intero campo chiamato 'infrastrutturale'. Vi regna la medesima indeterminazione. E certamente, con la determinazione dell'economico, svanisce ogni possibilità di concepirlo come istanza determinante.


Poiché attorno all'economico s'è intrecciata da due secoli (in ogni caso dopo Marx) la determinazione storica, là è importante cogliere anzitutto l'irruzione del codice.


 


La fine della produzione

 


Siamo alla fine della produzione. Questa forma coincide, in Occidente, con l'enunciazione della legge mercantile del valore, cioè con il regno dell'economia politica. In precedenza, niente è prodotto propriamente parlando: tutto è "dedotto", mediante la grazia (Dio) o la gratificazione (la natura), da una istanza che dà o rifiuta le sue ricchezze. Il valore emana dal regno delle qualità divine o naturali (esse si confondono per noi retrospettivamente). É ancora così che i fisiocrati vedono il ciclo della terra e del lavoro: quest'ultimo non ha un valore proprio. Ci si può chiedere se vi sia allora una vera "legge" del valore, dato che questo è "dispensato" senza che la sua espressione possa diventare razionale. La sua forma non è libera, perché legata a una sostanza referenziale inesauribile. Se legge c'è, è, in opposizione alla legge mercantile, una legge "naturale" del valore.


Una mutazione rovescia questo edificio - quello d'una distribuzione o dispensa naturale delle ricchezze - da quando il valore diventa "prodotto", la sua referenza diventa il lavoro, la sua legge l'equivalenza generalizzata di tutti i lavori. Il valore è ormai assegnato all'operazione distinta e razionale del lavoro umano (del lavoro sociale). Esso è misurabile, e di colpo lo è anche il plusvalore.


É la critica dell'economia politica che comincia, e che ha come referenza quella d'una produzione sociale e d'un modo di produzione. Soltanto il concetto di produzione permette di liberare, mediante l'analisi di quella merce particolare che è la forza-lavoro, un "plus" (il plusvalore), che governa la dinamica razionale del capitale e, al di là, quella, altrettanto razionale, della rivoluzione.


Ora tutto è di nuovo cambiato per noi. Produzione, forma mercantile, forza-lavoro, equivalenza e plusvalore designavano una configurazione quantitativa, materiale e misurabile, che è finita per noi. Le forze produttive designavano ancora una referenza - contraddittoria con i rapporti di produzione, ma tuttavia referenza - della ricchezza sociale. Un contenuto di produzione sottendeva ancora una forma sociale chiamata capitale e la sua critica interna chiamata marxismo. Ed è sull'abolizione della legge "mercantile" del valore che si fonda l'esigenza rivoluzionaria.


Ora siamo passati dalla legge mercantile alla legge strutturale del valore, e ciò coincide con la volatilizzazione della forma sociale chiamata produzione. Siamo ancora, da questo momento, in un modo capitalistico? Magari siamo in un modo ipercapitalistico, o in un ordine molto diverso. La forma capitale è legata alla legge del valore in generale, o a tale forma determinata del valore? (forse siamo già veramente in un modo socialista? forse questa metamorfosi del capitale sotto il segno della legge strutturale del valore non è che la sua conclusione socialista? Ahimè!) Se la vita e la morte del capitale si giocano sulla legge "mercantile" del valore - se la rivoluzione si gioca sul modo di produzione, allora non siamo più né nel capitale né nella rivoluzione. Se questa consiste in una liberazione della produzione sociale, allora non c'è più nessuna rivoluzione in prospettiva - perché non c'è più una produzione. Se invece il capitale è un "modo di dominazione", allora vi siamo sempre dentro, perché questa legge strutturale del valore è la forma di dominazione sociale più pura, illeggibile, come il plusvalore, senza referenze ormai in una classe dominante o in un rapporto di forze, senza violenza, interamente riassorbita senza una traccia di sangue nei segni che ci circondano, ovunque operativa nel codice in cui il capitale tiene infine il suo discorso più puro, al di là dei dialetti industriali, mercantili, finanziari, al di là dei dialetti di classe, che teneva nella sua fase 'produttiva'. Violenza simbolica ovunque inscritta nei segni, e persino nei segni della rivoluzione.


La rivoluzione strutturale del valore annienta le basi della "Rivoluzione". La perdita dei referenziali colpisce mortalmente anzitutto i referenziali rivoluzionari, che non trovano più in nessuna sostanza sociale di produzione, in nessuna verità della forza-lavoro la certezza d'un rovesciamento. Perché il lavoro non è più una "forza", è diventato "segno" tra i segni. Si produce e si consuma come tutto il resto. Si scambia con il non-lavoro, il tempo libero, secondo un'equivalenza totale, è commutabile con tutti gli altri settori della vita quotidiana. Né più né meno 'alienato', non è più il luogo d'una 'prassi' storica particolare che genera particolari rapporti sociali. Non è più, come la maggior parte delle pratiche, che un insieme di operazioni segnaletiche. Entra nel disegno generale della vita, cioè nell'inquadramento per mezzo dei segni. Non è più nemmeno quella sofferenza, quella prostituzione storica che suonava come promessa inversa d'una emancipazione finale (o, così in Lyotard, come spazio del "godimento operario", appagamento di desiderio accanito nell'abiezione del valore e della regola del capitale). Niente di tutto questo è più vero. La forma segno s'è impadronita del lavoro per svuotarlo di qualsiasi significato storico o libidico e assorbirlo nel processo della propria riproduzione: è caratteristica del segno quella di sdoppiarsi in se stesso, dietro l'allusione vuota a ciò che esso designa. Il lavoro ha potuto designare un tempo la realtà d'una produzione sociale, d'un obiettivo sociale cumulativo di ricchezza. Anche sfruttato nel capitale e nel plusvalore, proprio là conservava un valore d'uso, per la riproduzione allargata del capitale, e per la sua distruzione finale. Una finalità lo attraversava comunque: se il lavoratore s'assorbe nella riproduzione pura e semplice della sua forza-lavoro, non è vero che il processo di produzione sia vissuto come una ripetizione insensata. Il lavoro rivoluziona la società, attraverso la sua stessa abiezione, in quanto merce il cui potenziale eccede sempre la pura e semplice riproduzione del valore.


Al giorno d'oggi, no: il lavoro non è più produttivo, è diventato riproduttivo dell'"assegnazione al lavoro", come abito generale d'una società che non sa più nemmeno se ha voglia di produrre o no. Non più miti di produzione, non più contenuti di produzione: i bilanci nazionali non rappresentano più che uno sviluppo cifrato, statistico, privo di senso - un'inflazione di segni contabili sui quali non riesce più nemmeno a far fantasticare la volontà collettiva. Il pathos dello sviluppo è morto esso stesso, come il pathos della produzione, di cui era l'ultima erezione impazzita, paranoica - ora detumescente nelle cifre - nessuno ci crede più. Ma resta tanto più indispensabile riprodurre il lavoro come affettazione sociale, come riflesso, come morale, come consenso, come regolazione, come principio di realtà. Ma principio di realtà "del codice": è un gigantesco "rituale dei segni del lavoro" che si stende su tutta la società - poco importa se ciò produce ancora: ciò si riproduce. Socializzazione mediante il rituale, mediante i segni, ben più efficace di quella mediante le energie legate della produzione. Tutto ciò che vi si chiede non è di produrre, di superarvi nello sforzo (quest'etica classica sarebbe piuttosto sospetta), è di socializzarvi. É di non assumere nessuna parte di valore, secondo la definizione strutturale che assume qui tutta la sua portata "sociale", che come termini rispettivi gli uni degli altri. É di funzionare come segni nello scenario generale della produzione, esattamente come il lavoro e la produzione non funzionano più che come segni, come termini commutabili con il non-lavoro, il consumo, la comunicazione, eccetera. Relazione multipla, incessante, vorticosa, con tutta la rete degli altri segni. Il lavoro, svuotato così della sua energia e della sua sostanza (e generalmente disinvestito), risuscita come modello di simulazione sociale, trascinando con sé tutte le altre categorie dell'economia politica nella sfera aleatoria del codice.


Inquietante stranezza: quest'improvvisa caduta in una specie di esistenza seconda, separata da voi da tutto lo spessore d'una vita anteriore, perché c'era una familiarità, un'intimità del processo tradizionale di lavoro. Anche la concretezza dello sfruttamento, la socialità violenta del lavoro è un senso vicino a noi. Niente di simile, oggi: e ciò non vale tanto per l'astrazione "operatoria" del "processo" di lavoro - tanto spesso descritta - quanto per il passaggio di qualsiasi "significato" del lavoro in un campo operativo in cui diventa una variabile fluttuante, che trascina con sé tutto l'immaginario d'una vita anteriore.


 


Al di là dell'autonomizzazione della produzione come "modo" (al di là delle convulsioni, contraddizioni e rivoluzioni interne al modo), bisogna far risorgere il "codice" della produzione. É la dimensione che essa assume attualmente, al termine d'una storia 'materialistica' che è riuscita a legalizzarla come principio del movimento reale delle società (per Marx, l'arte, la religione, il diritto, eccetera non hanno una propria storia: soltanto la produzione ha una storia o, meglio, essa è la storia, essa "fonda" la storia. Incredibile affabulazione del lavoro e della produzione come ragione storica e come modello generico di realizzazione).


La fine di questa autonomizzazione religiosa della produzione lascia intravvedere che tutto questo potrebbe benissimo anche essere stato "prodotto" (questa volta nel senso della messinscena e dello scenario) non tanto tempo fa, e con finalità totalmente diverse dalle finalità interne (tra cui la rivoluzione) che la produzione secerne.


Analizzare la produzione come codice è attraversare l'evidenza materiale delle macchine, delle fabbriche, del denaro, e quella, più formale ma altrettanto 'oggettiva', del plusvalore, del mercato, del capitale, per scoprire la regola del gioco: distruggere la trafila logica delle istanze del capitale, e la stessa trafila critica delle categorie marxiste che l'analizzano e che non sono ancora che quelle d'una apparenza al secondo grado dei capitale, quelle della sua apparenza "critica", per scoprire i significanti elementari della produzione, il rapporto sociale che essa instaura, per sempre nascosto sotto l'illusione storica dei produttori (e dei teorici).


 


- Il lavoro


La forza-lavoro non è una forza, è una definizione, un assioma, e la sua attività 'reale' nel processo di lavoro, il suo 'valore d'uso' non è che lo sdoppiamento di questa definizione nel funzionamento del codice. É al livello del segno, mai al livello dell'energia, che la violenza è fondamentale. Il "meccanismo" del capitale (e non la sua legge) specula sul plusvalore, la non equivalenza del salario e della forza-lavoro. Ma se ci fosse equivalenza tra i due termini - fine del plusvalore -, ci sarebbe anche l'abolizione del salario (della vendita della forza-lavoro), l'uomo resterebbe segnato da questo assioma, da questo destino di produzione, da questo sacramento del lavoro che l'attraversa come un sesso. No, il lavoratore non è più un uomo, e nemmeno uomo o donna: ha un sesso suo particolare, questa forza-lavoro che lo assegna a un fine, è segnato da essa come la donna lo è dal suo sesso (la sua definizione sessuale), come il negro lo è dal colore della sua pelle - essi stessi segni, e niente altro che segni.


Bisogna distinguere ciò che non dipende che dal "modo" e ciò che dipende dal "codice" della produzione. Prima di diventare elemento della legge mercantile del valore, la forza-lavoro è innanzitutto uno statuto, una struttura d'obbedienza a un codice. Prima di diventare valore di scambio o valore d'uso, essa è già, come qualsiasi merce, il segno della trasformazione della natura in valore, ciò per cui si definisce la produzione, e che è l'assioma fondamentale della nostra cultura, e di nessun'altra. Ben più profondamente delle equivalenze quantitative, è questo messaggio che corre anzitutto sotto la merce: sradicamento della natura (e dell'uomo) dall'indeterminazione per sottometterlo alla determinazione del valore. Lo si può provare nella rabbia costruttiva dei bulldozer, delle autostrade, delle 'infrastrutture', nella rabbia civilizzatrice dell'era produttiva, questa rabbia di non lasciare improdotta nessuna parcella, di segnare tutto con la produzione, senza nemmeno la speranza d'un aumento di ricchezza: produrre per segnare, produrre per riprodurre l'uomo segnato. Cos'è altro la produzione al giorno d'oggi se non questo terrorismo del codice? Questo ridiventa altrettanto chiaro che per le prime generazioni industriali, che considerarono le macchine come dei nemici assoluti, portatori d'una destrutturazione totale, prima che si sviluppasse il dolce sogno d'una dialettica storica della produzione. Le pratiche luddiste che sorgono un po' ovunque, la furia selvaggia che se la prende con gli strumenti di produzione (e in primo luogo con se stessa in quanto forza produttiva), il sabotaggio endemico e la defezione la dicono lunga sulla fragilità dell'ordine produttivo.


Rompere le macchine è un atto aberrante se queste sono dei "mezzi" di produzione, se permane l'ambiguità del loro valore d'uso futuro. Ma se crollano i fini di questa produzione crolla anche il rispetto dovuto ai mezzi, e le macchine appaiono secondo il loro vero fine, come segni operatori diretti, immediati, del rapporto sociale di morte di cui vive il capitale. Nulla s'oppone allora alla loro distruzione immediata. In questo senso, i luddisti erano ben più lucidi di Marx sulla portata dell'irruzione dell'ordine industriale, e trovano oggi in qualche modo la loro rivincita, al termine "catastrofico" di questo processo, in cui lo stesso Marx ci ha fuorviato, nell'euforia dialettica delle forze produttive.


 


Dire che il lavoro è un segno non è nel senso delle connotazioni di prestigio che si possono annettere a tale tipo di lavoro, e nemmeno nel senso di promozione sociale che costituisce il lavoro salariato per l'immigrato algerino nei confronti della sua comunità tribale, per il ragazzo marocchino dell'Antiatlante, il cui unico sogno è di andare a lavorare alla Simca, per le donne anche qui da noi. In questo caso, il lavoro rinvia a un valore proprio: elevazione o differenza di statuto sociale. Nello scenario attuale, il lavoro non dipende più da questa definizione referenziale del segno. Non c'è più un significato proprio di quel tipo di lavoro, o del lavoro in generale, ma un sistema di lavoro in cui i posti si scambiano. Non più il "right man in the right place": vecchio adagio d'un idealismo scientifico della produzione. Ma sempre più individui intercambiabili, e purtuttavia indispensabili, in un processo di lavoro determinato. É lo stesso processo di lavoro che è diventato intercambiabile: struttura d'assistenza mobile, polivalente, intermittente, indifferente a qualsiasi obiettivo, indifferente allo stesso lavoro inteso nella sua funzione classica, destinata soltanto a localizzare ciascuno in un nesso sociale dove nulla converge in nessun luogo, se non nell'immanenza di questa distribuzione operativa, indifferentemente paradigma che declina tutti gli individui sulla medesima radice, o sintagma che li associa in un modo combinatorio indefinito.


Il lavoro (anche sotto forma di tempo libero) invade tutta la vita come repressione fondamentale, come controllo, come occupazione permanente in luoghi e tempi regolati, secondo un codice onnipresente. Bisogna "sistemare" la gente dappertutto, a scuola, in fabbrica, sulla spiaggia o davanti il televisore, o nel riciclaggio: mobilitazione generale permanente. Ma questo lavoro non è più produttivo nel senso originario: non è più che lo specchio della società, il suo immaginario, il suo principio fantastico di realtà. Pulsione di morte, forse.


É a questo che tende tutta la strategia attuale che gira intorno al lavoro: "job enrichment", orari variabili, mobilità, riciclaggio, educazione permanente, autonomia, autogestione, decentralizzazione del processo di lavoro, fino all'utopia californiana del lavoro cibernetizzato consegnato a domicilio. Non vi si strappa più selvaggiamente alla vostra vita per consegnarvi alla macchina: vi s'integra con la vostra infanzia, con i vostri tic, con le vostre relazioni umane, le vostre pulsioni inconsce e il vostro rifiuto stesso del lavoro: vi si troverà ben un posto con tutto questo, un "job" personalizzato o, almeno, un'indennità di disoccupazione calcolata secondo la vostra equazione personale, in ogni modo, non vi si abbandonerà mai più: l'essenziale è che ciascuno sia il terminale di tutta la rete, terminale infimo, ma purtuttavia termine - soprattutto, non un grido inarticolato, ma un termine del linguaggio, e al termine di tutta la rete strutturale del linguaggio. La scelta stessa del lavoro, l'utopia d'un lavoro a misura di ciascuno, significa che "les jeux sont faits", che la struttura d'assistenza è totale. La forza-lavoro non si vende più né si acquista brutalmente: si fa oggetto di design, di marketing, di merchandising - la produzione si riunisce al sistema di segni del consumo.


Un primo stadio dell'analisi fu quello di concepire la sfera dei consumi come una estensione della sfera delle forze produttive. É l'inverso che bisogna fare. Bisogna concepire tutta la sfera della produzione, del lavoro, delle forze-produttive come riversantesi nella sfera del 'consumo' intesa come quella d'una assiomatica generalizzata, d'uno scambio codificato dei segni, d'un disegno generale della vita. Così il sapere, le conoscenze, le attitudini (Verres: 'Per non considerare le attitudini del personale come una delle risorse che il padrone ha il ruolo di amministrare?'), ma anche la sessualità e il corpo, l'immaginazione (Verres: 'L'immaginazione è la sola a restare legata al principio di piacere, mentre l'apparato psichico è subordinato al principio di realtà [Freud]. Bisogna porre fine a questo spreco. Che l'immaginazione si attualizzi come forza produttiva, che si investa. L'immaginazione al potere: parola d'ordine della tecnocrazia'). E l'inconscio, e la Rivoluzione, eccetera. Sì, tutto questo sta per essere 'investito' e assorbito nella sfera del valore, ma non tanto il valore mercantile quanto il valore computabile: cioè, non mobilitato per la produzione, ma ancorato, assegnato, obbligato a fungere da variabile operativa, diventato non tanto forza produttiva quanto pezzi della scacchiera del codice, presi nella medesima regola del gioco. L'assioma della produzione tende ancora a ridurre tutto a dei "fattori"; l'assioma del codice riduce tutto a delle "variabili". L'uno porta a equazioni ed equilibri di forze. L'altro porta a insiemi mobili e aleatori, che neutralizzano ciò che resiste o sfugge loro per "connessione", e non per "annessione".


Ciò va ben più lontano dell'O.S.L., l'Organizzazione scientifica del lavoro, anche se l'apparizione di quest'ultima segna un passo essenziale dell'investimento da parte del codice. Si possono distinguere due fasi:


 


Alla fase 'prescientifica' del sistema industriale, caratterizzata dallo sfruttamento massimale della forza-lavoro, succede la fase del macchinario, della preponderanza del capitale fisso, in cui 'il lavoro oggettivato [...] si presenta [...] non solo nella forma del prodotto o del prodotto impiegato come mezzo di lavoro, ma della produttività stessa' ("Grundrisse", vol. secondo, pag. 392).5


Questa accumulazione di lavoro oggettivato, che soppianta il lavoro vivo come forza produttiva, si moltiplica poi all'infinito mediante l'accumulazione del sapere: 'L'accumulazione della scienza e dell'abilità, delle forze produttive generali del cervello sociale, rimane così, rispetto al lavoro, assorbita nel capitale, e si presenta perciò come proprietà del capitale, e più precisamente del capitale fisso' (Gr., secondo, 392).


Questa fase del macchinario, dell'apparato scientifico, dell'operaio collettivo e dell'O.S.L. è quella in cui 'il processo di produzione ha cessato di essere processo di lavoro nel senso che il lavoro lo soverchi come l'unità che lo domina' (Gr., secondo, 391). Non c'è più una forza produttiva, 'originaria', ma un macchinario generale che trasforma le forze produttive in capitale, o piuttosto un macchinario "che fabbrica la forza produttiva e il lavoro". Tutto l'apparato sociale del lavoro è svuotato da questa operazione: è il macchinario collettivo che si mette a produrre direttamente la finalità sociale: esso produce la produzione.


É l'egemonia del lavoro morto sul lavoro vivo. L'accumulazione primitiva non è che questo: accumulazione del lavoro morto fino a quando questo non sia in grado di riassorbire il lavoro vivo; meglio: di produrlo sotto controllo, per i propri fini. É per questo che la fine dell'accumulazione primitiva segna la svolta decisiva dell'economia politica: il passaggio alla preponderanza del lavoro morto, a un rapporto sociale cristallizzato e incarnato nel lavoro morto, che pesa su tutta la società come il codice stesso della dominazione. É un errore fantastico di Marx aver creduto, nonostante tutto, all'innocenza delle macchine, della tecnica, della scienza; che tutto questo potrebbe ridiventare lavoro sociale vivo una volta liquidato il sistema del capitale. Mentre invece è precisamente là che esso si fonda. Pia speranza, che ha sottovalutato la morte del lavoro morto, e pensato che il morto si superi nel vivo, al di là di un certo punto cruciale, per una specie di soprassalto storico della produzione.


Eppure Marx ne aveva avuto il sentore, quando segnala 'la proprietà del lavoro oggettivato di trasformarsi in capitale, cioè di trasformare i mezzi di produzione in mezzi di "comando" esercitato sul lavoro vivo.' É anche ciò che traspariva nella formula secondo la quale, a un certo stadio del capitale, 'l'uomo si colloca "accanto al processo di produzione", anziché esserne l'agente principale' (Gr., secondo, 401). Formula che va ben oltre l'economia politica e la sua critica, perché significa letteralmente che non si tratta più d'un processo di produzione, ma d'un processo di esclusione e di relegazione.


Bisogna ancora trarne tutte le conseguenze. Quando la produzione raggiunge questa circolarità e s'involve in se stessa, perde qualsiasi determinazione oggettiva. S'incanta essa stessa come mito per mezzo dei propri termini, diventati segni. Quando, simultaneamente, questa sfera dei segni (ivi compresi i media, l'informazione, eccetera) cessa d'essere una sfera specifica per rappresentare l'unità del processo globale del capitale, allora bisogna dire non soltanto con Marx che 'il processo di produzione cessa d'essere un processo di lavoro', ma che 'il processo del capitale cessa esso stesso d'essere un processo di produzione.'


Con l'egemonia del lavoro morto sul lavoro vivo è tutta la dialettica della produzione che crolla. Valore d'uso/valore di scambio, forze produttive/rapporti di produzione, tutte queste opposizioni sulle quali funziona il marxismo (in fondo secondo lo stesso schema del pensiero razionalista sulle opposizioni del vero e del falso, dell'apparenza e della realtà, della natura e della cultura) sono neutralizzate anch'esse, e allo stesso modo. Nella produzione e nell'economia tutto diventa commutabile, reversibile, scambiabile secondo la stessa specularità indefinita che si ritrova nella politica, nella moda o nei media. Specularità indefinita delle forze di produzione e dei rapporti di produzione, del capitale e del lavoro, del valore d'uso e del valore di scambio: è questa la dissoluzione della produzione nel codice. E ora la legge del valore non consiste tanto nella scambiabilità di tutte le merci sotto il segno dell'equivalente generale, quanto nella scambiabilità, tanto più radicale, di tutte le categorie dell'economia politica (e della sua critica) secondo il codice. Tutte le determinazioni del pensiero "borghese" furono neutralizzate e abolite dal pensiero materialista della produzione, che ha ricondotto tutto a un'unica grande determinazione storica. Ma essa è a sua volta neutralizzata e assorbita da una rivoluzione dei termini del sistema. E come altre generazioni hanno potuto sognare la società precapitalistica, noi cominciamo a sognare l'economia politica come un oggetto perduto, e il suo discorso non ha oggi una tale forza di referenza se non perché essa è un oggetto perduto.


 


Marx: 'I lavori che non possono essere utilizzati che come servizi, per il fatto che i loro prodotti non possono diventare delle merci autonome, rappresentano una massa irrisoria in rapporto a quella della produzione capitalistica. Si possono quindi scartare a questo punto, per rinviarne l'esame al capitolo sul lavoro salariato' ("Capitale", cap. sesto, pag. 234). 6 Questo capitolo del "Capitale" non è mai stato scritto: il problema che poneva questa distinzione, che conferma quella del lavoro produttivo e del lavoro improduttivo, è perfettamente insolubile. Le definizioni marxiste del lavoro scricchiolano da ogni parte, e questo fin dall'inizio. Nei "Grundrisse" (primo, 291): 'Il lavoro è produttivo solo in quanto produce il suo contrario [il capitale].' Da cui si può logicamente concludere che se il lavoro giunge a riprodurre se stesso, come è ora il caso, su tutta l'estensione del 'lavoratore collettivo', esso cessa d'essere produttivo. Conseguenza imprevista d'una definizione che non immagina nemmeno che il capitale possa attecchire in qualcosa di diverso dal 'produttivo', e forse precisamente in un lavoro svuotato della sua produttività, in un lavoro 'improduttivo', neutralizzato, in qualche modo, ma in cui il capitale giustamente elude la determinazione pericolosa del lavoro 'produttivo' e può cominciare a instaurare la sua dominazione reale, non più soltanto sul lavoro, ma sull'intera società. Disprezzando questo 'lavoro "im"produttivo', Marx è passato accanto alla vera "indefinizione" del lavoro sulla quale si fonda la strategia del capitale.


'La produzione destinata al consumo improduttivo è produttiva tanto quanto lo è quella destinata al consumo produttivo; sempre supposto che si produca o riproduca capitale' ("Grundrisse", primo, 292). Il paradosso è allora che, secondo la stessa definizione di Marx, una parte crescente del lavoro umano diventa improduttiva senza che ciò impedisca visibilmente al capitale di approfondire il proprio dominio. In effetti, tutto questo è truccato, non vi sono due o tre specie di lavoro, 7 è il capitale stesso che ha ispirato a Marx queste distinzioni sofistiche, il capitale non è mai stato tanto stupido da credervi, vi è sempre passato 'ingenuamente' attraverso. Vi è una sola specie di lavoro, una definizione in effetti fondamentale, e la sfortuna vuole che sia quella che Marx ha lasciato cadere. Se attualmente tutti i lavori s'allineano su un'unica definizione, è su quella del lavoro/servizio, su questa categoria bastarda, arcaica, non-analizzata, e non su quella classica, e supposta universale, del lavoro salariato 'proletario'.


Lavoro/servizio: non nel senso feudale, poiché questo lavoro ha perduto il senso di obbligo e di reciprocità che aveva nel contesto feudale, ma nel senso segnalato da Marx: nel servizio, la prestazione è inseparabile dal prestatore - aspetto arcaico nella visione produttivista del capitale, ma fondamentale se si coglie il capitale come sistema di dominazione, come sistema di 'infeudazione' a una società di lavoro, vale a dire a un certo tipo di società politica di cui esso è la regola del gioco. É esattamente dove siamo ora (se non ci si era già al tempo di Marx): il ribaltamento di tutto il lavoro sul servizio, il lavoro come pura e semplice presenza/occupazione, consumo di tempo, "prestazione" di tempo. Fare 'atto' di lavoro come si fa atto di presenza, come si fa atto di obbedienza. In questo senso, la prestazione è in effetti inseparabile dal prestatore. Il servizio reso è l'adesione di corpo, di tempo, di spazio, di materia grigia. Che ciò produca o meno è indifferente per quanto riguarda questo ancoramento personale. Il plusvalore s'invola, evidentemente, e il salario cambia di senso, ma su questo ritorneremo. Non è una 'regressione' del capitale verso il feudalismo, è il passaggio alla dominazione reale, cioè alla sollecitazione e alla requisizione totale delle persone. É verso questo che tendono tutti gli sforzi di 'ritotalizzare' il lavoro: tendono a farne un servizio totale, dal quale il prestatore sia sempre meno assente, sempre più implicato personalmente.


 


In questo senso, il lavoro non si distingue più dalle altre attività, e in particolare dal suo termine opposto, il tempo libero, che, giacché presuppone la medesima mobilitazione e il medesimo investimento (o il medesimo disinvestimento produttivo) è oggi allo stesso titolo un servizio reso 8 - che dovrebbe giustamente meritare un salario (il che d'altronde non è affatto impossibile 9). In breve, non è soltanto la distinzione immaginaria fra lavoro produttivo e improduttivo che salta, ma la stessa distinzione fra lavoro e tutto il resto. Semplicemente, non c'è più lavoro nel senso specifico del termine, e Marx ha fatto bene a non scrivere il suo capitolo del "Capitale": esso era condannato in anticipo.


É precisamente in questo momento che i lavoratori diventano degli 'operatori produttivi' ['"agents productifs"'] - gli slittamenti terminologici hanno la loro importanza: questo significa, per antifrasi, lo statuto di chi non produce più niente. Già l'O.S. [operaio salariato] non era più il lavoratore, era l'operaio di fronte all'indifferenziazione totale del lavoro; alle prese non più con un contenuto di lavoro né con un salario specifico, ma con la forma generalizzata del lavoro e del salario politico. Con l''operatore produttivo' si ha la liberazione della forma più astratta - ben più astratta del vecchio O.S. sfruttato a morte -: è il "manichino di lavoro" che compare, il minimo comune modulo, il servitore di base d'un principio di irrealtà del lavoro. Eufemismo geniale: non si lavora più, si fa 'atto di produzione': è la fine d'una cultura della produzione e del lavoro, d' onde l'apparizione "a contrario" del termine 'produttivo'. Ciò che caratterizza questo 'operatore produttivo' non è più il suo sfruttamento, non è più l'essere materia prima di un processo lavorativo: è la sua mobilità, la sua intercambiabilità, il suo carattere di desinenza inutile del capitale fisso. L''operatore produttivo' designa lo statuto ultimo dell''operaio accanto al processo di produzione' di cui parlava Marx.


 


Parallelamente, questa fase in cui 'il processo del capitale cessa d'essere esso stesso un processo di produzione' è quella della scomparsa del la fabbrica: è l'insieme della società che assume le sembianze della fabbrica. Bisogna che la fabbrica scompaia in quanto tale, che il lavoro perda la sua specificità, perché il capitale possa assicurare questa metamorfosi estensiva della sua forma alla società totale.


Bisogna quindi prendere atto della scomparsa dei luoghi determinati del lavoro, d'un soggetto determinato del lavoro, d'un tempo determinato di lavoro sociale; prendere atto della scomparsa della fabbrica, del lavoro e del proletariato, se si vuole analizzare l'attuale denominazione del capitale. 10 E finita la fase della società succursale o sovrastruttura della fabbrica, armata di riserva potenziale del capitale. Il principio della fabbrica e del lavoro esplode e si diffonde sull'intera società, in modo tale che la loro distinzione diventa 'ideologica': diventa un'insidia del capitale il mantenere (nell'immaginario rivoluzionario) una presenza specifica e privilegiata della fabbrica. Il lavoro è dappertutto, perché non c'è più lavoro. É allora che esso raggiunge la sua forma definitiva, la sua forma perfetta, il suo "principio", con il quale esso si ricongiunge con i principi elaborati nel corso della storia in quegli altri spazi sociali che hanno preceduto la manifattura e le hanno servito da modello: il manicomio, il ghetto, l'ospedale generale, la prigione - tutti i luoghi di reclusione e di concentramento che la nostra cultura ha secreto nella sua marcia verso la civilizzazione. Ora tutti questi luoghi determinati perdono d'altronde anch'essi i loro limiti, si diffondono nella società globale, perché la forma manicomiaria, la forma carceraria, la discriminazione, hanno ormai investito tutto lo spazio sociale, tutti i momenti della vita reale. 11 Qualcosa rimane ancora di tutto questo - fabbriche, manicomi, prigioni, scuole - e ne rimarrà indubbiamente sempre, come segni di dissuasione, per sviare verso una materialità immaginaria la realtà della dominazione del capitale. Ci sono sempre state delle chiese per nascondere la morte di Dio, o per nascondere che Dio era dovunque, il che è la medesima cosa. Ci saranno sempre riserve di animali e di indiani per nascondere che questi sono morti, e che siamo tutti degli indiani. Ci saranno sempre delle fabbriche per nascondere che il lavoro è morto, che la produzione è morta, o che essa è dovunque e in nessun luogo. Perché oggi non serva a nulla combattere il capitale sotto forme "determinate". In compenso, se diventa chiaro che esso non è più determinato da checchessia, e che la sua arma assoluta è di riprodurre il lavoro, come immaginario, allora è lo stesso capitale che è assai vicino a crepare.


 


- Il salario


Nella sua forma compiuta, in cui il lavoro è senza rapporto con una produzione determinata, esso è anche senza equivalenza con il salario. Quest'ultimo è l'equivalente (truccato, ingiusto, ma poco importa) della forza-lavoro solamente nella prospettiva della riproduzione "quantitativa" della forza-lavoro. Non ha più minimamente questo senso quando è la sanzione dello "statuto" di forza-lavoro, il segno dell'obbedienza alla regola del gioco del capitale. Non è più equivalente o proporzionale a checchessia, 12 è un sacramento come il battesimo (o l'estrema unzione) che fa di voi un vero cittadino della società politica del capitale. Al di là dell'investimento economico che costituisce per il capitale il salario-reddito del lavoratore (fine del salariato come sfruttamento, inizio del salariato come azionariato della società del capitale - slittamento della funzione strategica del lavoratore verso il consumo come servizio sociale obbligatorio), è l'altra accezione del termine 'investimento' che lo trascina nella fase attuale del salario/statuto: il capitale investe il lavoratore del salario come s'investe qualcuno d'una carica o d'una responsabilità. O ancora, lo investe come s'investe una città: l'occupa in profondità, e ne controlla tutti gli accessi.


Non soltanto per mezzo del salario/statuto il capitale incarica i produttori di far circolare il denaro e di diventare così veri riproduttori del capitale, ma più profondamente per mezzo del salario/statuto ne fa degli acquirenti di beni allo stesso titolo che lui, il capitale, è acquirente di lavoro. Ogni utente si serve degli oggetti di consumo, ridotti allo statuto funzionale di produzione di servizi, come il capitale si serve della forza-lavoro. Ciascuno è così investito della mentalità profonda del capitale.


Inversamente, a partire dal momento in cui il salario è sconnesso dalla forza-lavoro, nulla si oppone più (se non i sindacati) a una rivendicazione salariale massimalista, illimitata. Perché se c'è un 'giusto prezzo' per una certa "quantità" di forza-lavoro, non c'è più prezzo per il consenso e la partecipazione globale. La rivendicazione salariale tradizionale non è che la negoziazione della "condizione" di produttore. La rivendicazione massimalista è una forma offensiva di capovolgimento da parte del salariato dello "statuto" di riproduttore al quale è votato mediante il salario. É una sfida. Il salariato vuole tutto. É il suo modo, non solo d'approfondire la crisi economica del sistema, ma di rivolgergli contro l'esigenza politica totale che quello gli impone.


Salario massimo per un lavoro minimo: questa è la parola d'ordine. "Escalation" della rivendicazione il cui risultato politico potrebbe benissimo essere quello di far saltare il sistema dall'alto, secondo la sua stessa logica del lavoro come presenza forzata. Poiché allora non è più in quanto produttori che i salariati intervengono, ma in quanto non-produttivi, ruolo loro assegnato dal capitale, ed essi non intervengono più nel processo dialetticamente, ma catastroficamente.


Meno si ha da fare, più si deve esigere un salario elevato, poiché questo minore impiego è il segno d'una assurdità ancora più evidente della presenza forzata. Ecco la 'classe' come la trasforma il capitale in quanto tale: spossessata del suo stesso sfruttamento, dell'uso della sua forza-lavoro, non sarebbe far pagare troppo caro al capitale questa "negazione della produzione", questa perdita d'identità, questa corruzione. Sfruttata, essa non poteva che esigere il minimo. Declassata, è libera di esigere tutto. 13 E il più strano è che il capitale la segue relativamente bene su questo terreno. Non sono sufficienti tutti i sindacati per rendere ai salariati incoscienti la coscienza dell'equivalenza salario/lavoro, che lo stesso capitale ha abolita. Non sono sufficienti tutti i sindacati per incanalare questo ricatto salariale illimitato verso una sana trattativa. Senza i sindacati, gli operai esigerebbero di colpo un aumento del 50 per cento, del 100 per cento, del 200 per cento - e forse l'otterrebbero! Esistono degli esempi in questo senso negli Stati Uniti e in Giappone.14


 


- Il denaro


L'omologia posta da Saussure fra lavoro e significato da una parte, salario e significante dall'altra, è una specie di matrice da cui si può irradiare su tutta l'economia politica. Al giorno d'oggi essa si verifica all'inverso: disconnessione dei significanti con i significati, disconnessione del salario con il lavoro. Scalata parallela del gioco dei significanti e del salario. Saussure aveva ragione: l'economia politica è una lingua, e la medesima mutazione che colpisce i segni linguistici quando perdono il loro statuto referenziale colpisce anche le categorie dell'economia politica. Il medesimo processo si verifica nelle altre due direzioni:


1. Disconnessione della produzione con qualsiasi altra referenza o finalità sociale: essa entra allora nella fase della "crescita". Bisogna interpretare la crescita in questo senso, non come un'accelerazione, ma come qualcos'altro, che segna di fatto la "fine della produzione". Quest'ultima era caratterizzata da uno scarto significativo fra una produzione e un consumo relativamente contingente e autonomo. Ma a partire dal momento (la crisi del '29, e soprattutto la fine della seconda guerra mondiale) in cui il consumo diventa letteralmente diretto ["dirigé"], cioè prende forza contemporaneamente di mito e di variabile controllata, si entra in una fase in cui né la produzione né il consumo hanno più determinazioni proprie, né fini rispettivi, ma sono entrambi presi in un ciclo, o in una spirale, o in un groviglio che li supera, e che è quello della crescita. Quest'ultima si lascia molto indietro gli obiettivi sociali tradizionali della produzione e del consumo. É un processo a sé stante, fine a se stesso. Non mira più né ai bisogni né al profitto. Non è un'accelerazione della produttività, ma strutturalmente un'inflazione dei "segni" della produzione, uno "chassé-croisé" e una fuga in avanti di tutti i segni, compreso il segno monetario, ben inteso. É lo stadio dei programmi spaziali, del Concorde, dei programmi militari in tutte le direzioni, dell'inflazione del parco industriale, delle attrezzature d'infrastruttura sociali o individuali, dei programmi di formazione e di riciclaggio, eccetera. Bisogna produrre non importa che cosa, secondo una coazione a reinvestire a tutti i costi (e non in funzione del saggio del plusvalore). In questo "planning" riproduttivo, il capolavoro promette d'essere l'anti-inquinamento, in cui tutto il sistema 'produttivo' è in procinto di riciclarsi sull'eliminazione dei propri rifiuti - equazione gigantesca con un risultato nullo - e tuttavia non nullo, dato che con la 'dialettica' inquinamento/disinquinamento si profila la speranza d'una crescita senza fine.


2. Disconnessione del segno monetario da qualsiasi produzione sociale: esso entra allora nella speculazione e nell'inflazione illimitata. L'inflazione è per il denaro ciò che l'"escalation" dei salari è per la vendita della forza-lavoro (ciò che la crescita è per la produzione). In tutti questi casi, il medesimo sganciamento sblocca l' imballamento e la medesima crisi virtuale. Sganciamento del salario dal 'giusto' valore della forza-lavoro, sganciamento del denaro dalla produzione reale: medesima perdita di referenziale. In un caso il tempo di lavoro sociale astratto, nell'altro il tallone aureo, perdono il loro valore di indice e di criterio di equivalenza. Inflazione salariale e inflazione monetaria (e crescita) sono quindi dello stesso tipo e sono inseparabili.15


Svuotato delle finalità e degli "effetti" della produzione, il denaro diventa speculativo. Dal tallone aureo, che già non era più l'equivalente rappresentativo d'una produzione reale, ma ne conservava ancora la traccia in un certo equilibrio (poca inflazione, convertibilità delle monete in oro, eccetera), ai capitali fluttuanti e alla fluttuazione generalizzata, il denaro passa dal segno referenziale alla forma strutturale. Logica propria del significante 'fluttuante', non nel senso di Lévi-Strauss, cioè che non avrebbe ancora trovato un significato, ma nel senso che s'è sbarazzato di qualsiasi significato (d'una equivalenza nel reale) come d'un freno alla sua proliferazione e al suo gioco illimitato. Il denaro può così riprodursi secondo un semplice gioco di trasferimenti e di scritture, secondo uno sdoppiamento e raddoppiamento incessante della propria sostanza astratta.


"Hot-money": così vengono chiamati gli eurodollari, indubbiamente per caratterizzare questa ronda insensata del segno monetario. Ma più correttamente si dovrebbe dire che il denaro attuale è diventato "cool", indicando con questo termine (McLuhan e Riesman) una relatività intensa dei termini, ma senza effetti, un gioco che si nutre unicamente delle regole del gioco, della commutazione dei termini e dell'esaurimento di queste commutazioni. "Hot" caratterizza al contrario la fase referenziale del segno, con la sua singolarità e il suo spessore di significato reale, il suo affetto molto forte e la sua scarsa commutabilità. Noi siamo in piena fase "cool" del segno. L'attuale sistema del lavoro è "cool", il denaro è "cool", tutto l'assetto strutturale è "cool", e la produzione e il lavoro 'classici', processi "hot" per eccellenza, hanno ceduto il posto alla crescita illimitata legata al disinvestimento dei contenuti e del processo lavorativo, che sono processi "cool".


"Coolness", è il gioco puro dei valori di discorso delle commutazioni di scrittura, la disinvoltura, la distanza da ciò che non gioca veramente più che con cifre, segni e parole, è l'onnipotenza della simulazione operativa. Finché resta dell'affetto e del referenziale, si è nello "hot". Finché rimane un 'messaggio', si è nello "hot". Quando il medium diventa messaggio, si entra nell'era del "cool". Ed è appunto questo che è accaduto per il denaro. Arrivato a una certa fase di disconnessione, esso non è più un medium, un mezzo di circolazione delle merci, "è la circolazione stessa", vale a dire la forma realizzata del sistema nella sua vorticosa astrazione.


Il denaro è la prima 'merce' che passa allo statuto di segno e "si sottrae al valore d'uso". Da quel momento esso è un raddoppiamento del sistema del valore di scambio in un segno visibile, e a questo titolo esso è ciò che lascia vedere il mercato (e quindi anche la sua rarità) nella sua trasparenza. Ma al giorno d'oggi il denaro compie un altro passo: "esso si sottrae anche al valore di scambio". Liberato dallo stesso mercato, diventa un simulacro autonomo, alleggerito di qualsiasi messaggio e di qualsiasi significato di scambio, divenuto esso stesso messaggio e scambiandosi in se stesso. Esso non è più allora una merce, poiché non ha più in sé né valore d'uso né valore di scambio. Non è più equivalente generale, cioè ancora astrazione mediatrice del mercato. Esso è ciò che circola più rapidamente di tutto il resto, e senza misura comune con il resto. Certamente, si può dire che lo è sempre stato, che dopo l'alba dell'economia mercantile esso circola più rapidamente, e trascina tutti gli altri settori in questa accelerazione. E durante tutta la storia del capitale c'è una distorsione fra i diversi livelli (finanziario, industriale, agricolo, ma anche di consumo, eccetera) secondo la rapidità alla quale esso circola.


Ancor oggi queste distorsioni permangono, c'è ad esempio una resistenza delle monete nazionali (legate a un mercato, a una produzione, a un equilibrio locale) nei confronti della moneta speculativa internazionale. Ma è quest'ultima che conduce l'offensiva, perché circola più rapidamente, devia, fluttua: un semplice gioco di fluttuazione può fiaccare qualsiasi economia nazionale. Secondo una velocità di rotazione differenziale, tutti i settori sono quindi sovrastati da questa fluttuazione al vertice che, lungi dall'essere un processo epifenomenico e barocco ('a che serve la Borsa?'), è l'espressione più pura del sistema, il cui scenario si ritrova ovunque: inconvertibilità delle monete in oro o inconvertibilità dei segni nei loro referenti - convertibilità fluttuante e generalizzata delle monete fra di loro o mobilità, gioco strutturale indefinito dei segni - ma anche fluttuazione di tutte le categorie dell'economia politica dal momento che esse perdono il loro referente-oro, la forza-lavoro e la produzione sociale: lavoro e non-lavoro, lavoro e capitale diventano convertibili, ogni logica è dissolta; ma anche fluttuazione di tutte le categorie della coscienza dal momento che "l'equivalente mentale del tallone aureo", il soggetto, è perduto. Niente più istanze di riferimento sotto la cui giurisdizione i produttori potevano scambiare il loro valori secondo equivalenze controllate: è la fine del tallone aureo. Niente più l'istanza di riferimento sotto la cui egida il soggetto e l'oggetto potevano scambiarsi dialetticamente, scambiare le proprie determinazioni intorno a una identità stabile secondo regole sicure: è la fine del soggetto della coscienza. Si è tentati di dire: è il regno dell'inconscio. Conseguenza logica: se il soggetto della coscienza è l'equivalente mentale del tallone aureo, "l'inconscio è l'equivalente mentale del denaro speculativo e dei capitali fluttuanti". Al giorno d'oggi, in effetti, gli individui, disinvestiti come soggetti e spossessati dei loro rapporti oggettuali, derivano gli uni in rapporto agli altri da un modo incessante di fluttuazioni transferenziali: flusso, diramazioni, disconnessioni, transfert/contro-transfert: tutta la socialità si può benissimo descrivere in termini dell'inconscio deleuziano o di meccanica monetaria (anche in termini riesmaniani di "otherdirectedness:" l'"otherdirectedness" è già, in termini purtroppo anglosassoni e poco schizofrenici, questa fluttuazione delle identità). Perché ci sarebbe un privilegio dell'inconscio (pure orfano e schizofrenico)? L'Inconscio è la struttura mentale contemporanea della fase attuale, la più radicale dello scambio dominante, contemporanea della rivoluzione strutturale del valore.


 


- Lo sciopero.


Lo sciopero si giustificava storicamente in un sistema di produzione, come violenza organizzata per strappare alla violenza inversa del capitale una frazione del plusvalore, se non il potere. Ora, questo sciopero è morto:


1. Perché il capitale è in grado di lasciar marcire tutti gli scioperi - e questo perché non si è più in un sistema di produzione (massimizzazione del plusvalore). Perisca il profitto, purché la riproduzione "della forma del rapporto sociale" sia salva!


2. Perché questi scioperi in fondo non cambiano niente: il capitale ridistribuisce oggi da se stesso, è per lui una questione di vita o di morte. Nel migliore dei casi, lo sciopero strappa al capitale ciò che questo avrebbe comunque concesso a termine, secondo la propria logica.


Se quindi i rapporti di produzione, e con essi la lotta di classe, affondano nelle sabbie mobili dei rapporti sociali e politici orchestrati, è chiaro che può fare irruzione in questo ciclo solo ciò che sfugge all'organizzazione e alla definizione della classe come:


- istanza storica "rappresentativa";


- istanza storica "produttiva".


Solo quelli che sfuggono al mulinello della produzione e della rappresentazione possono guastarne i meccanismi e fomentare, dal fondo della loro condizione cieca, un capovolgimento della 'lotta di classe' che potrebbe essere la sua fine pura e semplice come luogo geometrico del 'politico'. É qui che l'intervento degli immigrati acquista il suo senso negli scioperi recenti.16


Poiché milioni di lavoratori, a causa del meccanismo della loro discriminazione, si trovano privi di qualsiasi istanza rappresentativa è, la loro irruzione sulla scena occidentale della lotta di classe a portare la crisi a livello cruciale della rappresentanza. Tenuti 'fuori classe' da tutta la società, ivi compresi i sindacati (e con la complicità economico-razziale della loro 'base' su questo punto: per la 'classe' proletaria organizzata, centrata sul proprio rapporto di forza economico politica con la classe borghese capitalistica, l'immigrato è 'oggettivamente' un nemico di classe), gli immigrati fungono, a causa di questa esclusione sociale, da analizzatori del rapporto fra lavoratori e sindacati e, più generalmente, del rapporto fra la 'classe' e qualsiasi istanza rappresentativa della 'classe'. Devianti per quanto riguarda il sistema della rappresentanza politica, essi infettano della loro devianza tutto il proletariato, che impara anch'esso a poco a poco a fare a meno del sistema della rappresentanza e di qualsiasi istanza pretenda di parlare in suo nome.


La situazione non durerà: i sindacati e i padroni hanno fiutato il pericolo e si danno da fare per reintegrare gli immigrati come 'comparse a pieno titolo' sulla scena della 'lotta di classe'.


 


- L'autopsia dei sindacati.


Lo sciopero del marzo-aprile 1973 alla Renault ha costituito una specie di prova generale di questa crisi. In apparenza confuso, non coordinato, manipolato, e in definitiva risoltosi in uno scacco (salvo la straordinaria vittoria terminologica di sostituire il termine O.S. [operaio salariato], ormai tabù, con quello di OP: 'operatore produttivo'!), in realtà una magnifica agonia dei sindacati, incastrati fra la base e il padronato. All'inizio, è uno sciopero 'selvaggio' scatenato dagli O.S. immigrati. Ma ora contro incidenti di questo genere la C.G.T. ha un'arma pronta: l'estensione dello sciopero ad altre fabbriche o ad altre categorie di personale, cogliendo così l'occasione per un'azione di massa primaverile ormai rituale. Ora anche questo meccanismo di controllo, che ha fatto le sue prove dopo il '68, e sul quale i sindacati contavano di potersi appoggiare per almeno una generazione, questa volta è loro mancato. Persino la base non selvaggia (Seguin, Flins, Sandouville) ha ora cessato, ora ripreso il lavoro (il che è altrettanto importante) senza tener conto dei 'consigli' dei loro sindacati. Questi sono stati costantemente presi in contropiede. Quello che ottenevano dalla direzione per farlo ratificare agli operai, questi ultimi non lo volevano. Le concessioni che strappavano agli operai per rilanciare le trattative con la direzione, questa le rifiuta e chiude le fabbriche. Essa fa appello ai lavoratori scavalcando i sindacati. In realtà, spinge deliberatamente alla crisi per espugnare i sindacati nelle loro trincee: sapranno controllare "tutti" i lavoratori? É la loro esistenza sociale, la loro legittimità che è in causa. Questa è la ragione dell''irrigidimento' del padronato (e del governo, a tutti i livelli). Non si tratta più d'una prova di forza fra proletariato organizzato (sindacato) e padronato, ma d'una "prova di rappresentatività" per il sindacato sotto la duplice pressione della base e del padronato - e questa prova è il risultato di tutti gli scioperi selvaggi degli ultimi anni, vale a dire che essa ha per detonatore gli operai non iscritti ai sindacati, i giovani refrattari, gli immigrati, tutti i fuoriclasse.


A questo livello, la posta in gioco è straordinaria. É tutto l'edificio sociale che minaccia di affondare assieme alla legittimità e la rappresentatività sindacale. Il parlamento e le altre mediazioni non hanno maggior peso. Nemmeno la polizia serve a nulla senza i sindacati, se questi ultimi sono incapaci di fare la polizia nelle fabbriche e altrove. Nel Maggio '68, sono loro che hanno salvato il regime. Adesso suona la loro ora. Essenzialmente, questa importanza della posta in gioco si esprime nella confusione stessa degli avvenimenti (e questo vale per l'azione dei liceali come per gli scioperi della Renault). Sciopero, non sciopero. A che punto siamo? Nessuno decide più di niente. Quali sono gli obiettivi? Dove sono gli avversari? Di che si parla? I contatori Geiger mediante i quali sindacati, partiti e gruppuscoli misurano la combattività delle masse, impazziscono. Il movimento liceale si liquefa nelle mani di coloro che vogliono strutturarlo secondo i propri obiettivi: non aveva quindi degli obiettivi? In ogni caso, non ha voluto "farsi obiettivare alle spalle". Gli operai riprendono il lavoro su un risultato nullo, quando si sono rifiutati di farlo otto giorni prima su dei vantaggi sensibili, eccetera. In realtà questa confusione è come quella del sogno: essa traduce una resistenza o una censura che opera sul contenuto stesso del sogno. Qui essa traduce un fatto capitale, e difficilmente accettabile da parte degli stessi proletari: è che la lotta sociale "s'è spostata" dal nemico di classe tradizionale, esterno, padroni e capitale, al vero nemico di classe interno, la istanza rappresentativa della classe: partito o sindacato. L'istanza alla quale gli operai delegano il loro potere, e che si rivolge contro di loro sotto forma di delega del potere padronale e governativo. Il capitale non aliena che la forza-lavoro e il suo prodotto, non ha il monopolio che della "produzione". Partiti e sindacati alienano il potere sociale degli sfruttati, e hanno il monopolio della "rappresentanza". La loro chiamata in causa è un progresso rivoluzionario storico. Ma questo progresso si paga con una minore chiarezza, una minore risoluzione, una regressione apparente, l'assenza di continuità, di logica, di obiettivi, eccetera. É che tutto di-diventa incerto, tutto resiste quando si tratta di affrontare la propria istanza repressiva, di cacciare il sindacato, il delegato, il responsabile, il portavoce "della propria testa". Ma questo "flou" della primavera del '73 indica precisamente che è stato toccato il fondo del problema: i sindacati e i partiti sono morti, gli resta da morire.


 


- La corruzione del proletariato.


Questa crisi della rappresentanza è l'aspetto "politico" cruciale degli ultimi movimenti sociali. Da sola, essa potrebbe tuttavia non essere mortale per il sistema, e si vede già profilarsi ovunque (presso gli stessi sindacati) il suo superamento formale (il suo recupero) in uno schema generalizzato dell'"autogestione". Non più delega di potere, tutti responsabili interamente in prima persona della produzione! La nuova generazione ideologica si leva! Ma avrà molto da fare, perché questa crisi si articola su un'altra ben più profonda, e che tocca la stessa produzione, il sistema stesso della produttività. E anche qui gli immigrati, indirettamente senza dubbio, sono in posizione di analizzatori. Nello stesso modo che analizzavano il rapporto del 'proletariato' con le sue istanze rappresentative, essi analizzano "il rapporto dei lavoratori con la propria forza-lavoro", il loro rapporto con se stessi in quanto forza produttiva (e non più soltanto con alcuni di loro in quanto istanza rappresentativa). E questo perché sono loro che sono stati strappati più di recente a una tradizione non produttivistica. Perché è stato necessario destrutturarli socialmente per gettarli nel processo lavorativo occidentale, e in cambio, sono loro che destrutturano in profondità questo processo generale e la morale produttivistica che domina le società occidentali.


Tutto accade come se il loro ingaggio forzato sul mercato europeo del lavoro provocasse una crescente corruzione del proletariato europeo di fronte al lavoro e alla produzione. Non si tratta più soltanto di pratiche 'clandestine' di resistenza al lavoro (frenatura, spreco, assenteismo, eccetera, che non sono mai cessate - ma questa volta: apertamente, collettivamente, spontaneamente degli operai smettono di lavorare, così, improvvisamente, non reclamano nulla, non negoziano nulla, con gran disperazione dei sindacati e dei padroni, e riprendono il lavoro altrettanto spontaneamente, e "insieme", il lunedì successivo. Né scacco né vittoria: questo non è uno sciopero, è un '"arresto del lavoro"'. Eufemismo che la dice più lunga del termine 'sciopero': è tutta la disciplina del lavoro che crolla, tutte le norme morali e pratiche, imposte dalla colonizzazione industriale in Europa nel corso di due secoli, che si disgregano e si dimenticano, senza sforzo apparente, senza 'lotta di classe' propriamente detta.


Discontinuità, lassismo, indisciplina oraria, indifferenza per il "forcing" salariale, per l'eccedenza, per la promozione, per l'accumulazione, per la previsione: si fa esattamente ciò che è necessario, poi ci si ferma, e si ritorna più tardi. Sono esattamente i comportamenti che i coloni rimproverano ai 'sottosviluppati': impossibile educarli al valore/lavoro, al tempo razionale e continuo, al concetto di guadagno salariale, eccetera. Solo esportandoli oltremare si riesce infine a integrarli al processo lavorativo. Ed è a questo momento che i lavoratori occidentali 'regrediscono' sempre più verso dei comportamenti da 'sottosviluppati'. Non è la minore rivincita sulla colonizzazione e sulla sua forma più avanzata (l'importazione di manodopera) vedere il proletariato occidentale venire esso stesso 'corrotto' - anche se forse un giorno bisognerà esportarlo a sua volta nei paesi sottosviluppati per fargli riapprendere i valori storici e rivoluzionari del lavoro.


C'è uno stretto rapporto fra questa ultra-colonizzazione dei lavoratori immigrati (poiché le colonie non erano redditizie sul posto, le si importa) questa decolonizzazione industriale che colpisce tutti i settori della società (ovunque, scuola, fabbrica, si passa dalla fase "hot" d'investimento del lavoro "alla pratica cool e cinica dei cottimi"). Sono loro, gli immigrati (e gli O.S. giovani o rurali), perché usciti più recentemente dall'indifferenza 'selvaggia' al lavoro 'razionale', che analizzano la società occidentale in ciò che può avere di recente, di fragile, di superficiale e di arbitrario questa collettivizzazione forzata del lavoro, questa paranoia collettiva, della quale si è talmente fatto una morale, una cultura, un mito, da dimenticare che non sono nemmeno due secoli che questa disciplina industriale è stata imposta, al prezzo di sforzi inauditi, allo stesso Occidente - che essa non è mai veramente riuscita e che comincia a scricchiolare pericolosamente (in fondo non sarà affatto durata più dell'altra colonizzazione, quella oltremare).


 


- Lo sciopero per lo sciopero.


Lo sciopero per lo sciopero è la verità attuale della lotta. Senza motivazione, senza obiettivo né referenziale politico, esso risponde opponendosi a una produzione essa stessa senza motivazione, senza referenziale, senza valore d'uso sociale, senz'altra finalità che essa stessa - "a una produzione per la produzione", in breve, a un sistema che non è più che un sistema di "riproduzione", e che gira su se stesso in una gigantesca tautologia del processo lavorativo. Lo sciopero per lo sciopero è la tautologia inversa, ma sovversiva perché svela questa nuova forma del capitale, che corrisponde all'ultimo stadio della legge del valore.


Lo sciopero cessa infine d'essere un mezzo, e soltanto un mezzo, per poggiare sul rapporto di forze "politiche" e sul gioco del potere. Esso diventa un fine. Nega, parodiandola radicalmente sul suo stesso terreno, quella sorta di finalità senza fine che è diventata la produzione.


Nella produzione per la la produzione non esiste più "spreco". Questo termine, valido in un'economia ristretta dell'uso, è per noi inutilizzabile. Esso deriva da una critica pietosa del sistema. Il Concorde, il programma spaziale, eccetera non sono uno spreco; al contrario. Perché ciò che il sistema, giunto a questo elevato punto d'inutilità 'oggettiva', produce e riproduce "è il lavoro stesso". É d'altronde questo che tutti (lavoratori e sindacati compresi) esigono in primo luogo. Tutto ruota intorno all'occupazione - il sociale: è la creazione dell'impiego - per conservare l'occupazione, i sindacati britannici sono pronti a trasformare il Concorde in bombardiere supersonico - inflazione o disoccupazione: viva l'inflazione, eccetera. Il lavoro è diventato, come la sicurezza sociale, come i beni di consumo, un bene di ridistribuzione sociale. Paradosso enorme: il lavoro è sempre meno una forza produttiva e sempre più un "prodotto". Questo aspetto non è il meno caratteristico della mutazione attuale del sistema del capitale, della rivoluzione mediante la quale esso passa dallo stadio specifico della produzione a quello della riproduzione. Ha sempre meno bisogno di forza-lavoro per funzionare e allargarsi, e si esige che esso fornisca, che esso 'produca' sempre più lavoro.


A questa assurda circolarità d'un sistema in cui si lavora per produrre lavoro, corrisponde la rivendicazione dello sciopero per lo sciopero (e d'altronde è là che finiscono oggi la maggior parte degli scioperi 'rivendicativi'). 'Pagateci le giornate di sciopero' - vale a dire, in fondo: pagateci perché possiamo "riprodurre" lo sciopero per lo sciopero. Rovesciamento dell'assurdità del sistema generale.


Al giorno d'oggi, in cui i prodotti, "tutti" i prodotti e lo stesso lavoro, sono al di là dell'utile e dell'inutile, non c'è più lavoro produttivo, c'è soltanto lavoro "riproduttivo". Nello stesso modo, non ci sono più consumi 'produttivi' né consumi 'improduttivi': ci sono soltanto consumi riproduttivi. Il tempo libero è altrettanto 'produttivo' del lavoro, il lavoro di fabbrica altrettanto 'improduttivo' del tempo libero o del lavoro terziario: poco importa l'una o l'altra formula, e "proprio questa indifferenza contrassegna la fase raggiunta dall'economia politica". Sono tutti riproduttivi, cioè hanno perduto la finalità concreta che li distingueva. Nessuno produce più. La produzione è morta. Viva la riproduzione!


 


- Genealogia della produzione.


Ciò che è riprodotto nel sistema attuale è il capitale nella sua definizione più rigorosa: come "forma del rapporto sociale", e non nell'accezione volgare, come denaro, profitto e sistema economico. Si è sempre intesa la riproduzione come riproduzione 'allargata' del modo di produzione, e determinata da quest'ultimo. Mentre sarebbe necessario concepire il modo di produzione come modalità (e non la sola) del "modo di riproduzione". Forze produttive e rapporti di produzione - altrimenti detta la sfera della produttività materiale - può darsi non siano che una delle congiunture possibili, e quindi storicamente relativa, del processo di riproduzione. La riproduzione è una forma che supera di gran lunga lo sfruttamento economico. Il gioco delle forze produttive non ne è quindi la condizione necessaria.


Storicamente, lo statuto del 'proletariato' (del salariato industriale) non è forse all'inizio quello della reclusione, della concentrazione e dell'esclusione sociale?


La reclusione manifatturiera è l'allargamento fantastico della reclusione descritta da Foucault nel diciassettesimo secolo. Il lavoro 'industriale' (non artigianale, collettivo, privato dei mezzi di produzione, sotto controllo) non è forse nato nei primi grandi ospedali generali? In un primo tempo, una società in via di razionalizzazione rinchiude i suoi oziosi, i suoi vagabondi, i suoi devianti, li occupa, li sistema, impone loro il suo principio razionale di lavoro. Ma la contaminazione è reciproca, e questa frattura mediante la quale la società ha istituito il suo principio di razionalità rifluisce sull'intera società di lavoro: la reclusione è il micromodello che verrà più tardi generalizzato, come sistema industriale, a tutta la società, divenuta, sotto il segno del lavoro, della finalità produttivistica, un campo di concentramento, di detenzione, di reclusione.


Invece di esportare il concetto di proletariato e di sfruttamento nel campo dell'oppressione razziale, sessuale, eccetera, bisogna chiedersi se non sia l'inverso. Se l'operaio non è in primo luogo come il folle, il morto, la natura, gli animali, i bambini, i negri, le donne - se il suo statuto fondamentale non è questo - non uno statuto di "sfruttamento" ma uno statuto di "scomunicazione" - non uno statuto di spogliazione e di sfruttamento, ma uno statuto di discriminazione e di bollatura.


Azzardo l'ipotesi che l'unica vera lotta di classe è esistita solamente sulla base di questa discriminazione: la lotta dei sotto-uomini contro il loro statuto di bestie, contro l'abiezione di questa frattura di casta che li vota alla sotto-umanità del lavoro. Questo è dietro a ogni sciopero, dietro a ogni rivolta, ancor oggi dietro alle azioni più 'salariali': la loro virulenza deriva da questo. Il proletario è oggi un essere 'normale', il lavoratore è stato promosso alla dignità di 'essere umano' a pieno diritto, ma d'altronde a questo titolo riprende tutte le discriminazioni dominanti a suo tornaconto: è razzista, sessista, repressivo. Rispetto agli attuali devianti, ai discriminati di tutti i tipi, egli è dalla stessa parte della borghesia: dalla parte dell'umano, dalla parte del normale. Tant'è vero che la legge fondamentale di questa società non è la legge dello sfruttamento ma il "codice della normalità".


 


- Maggio '68: L'illusione della produzione.


La prima onda d'urto di questo passaggio dalla produzione alla pura e semplice riproduzione è stata il Maggio '68. Essa ha toccato dapprima l'università, e in primo luogo le facoltà di scienze umane, perché qui è diventato più evidente (pur senza una chiara coscienza 'politica') che "non vi si produceva più nulla", e che non si faceva più che riprodurre (degli insegnanti, della scienza e della cultura, essi stessi fattori di riproduzione del sistema generale). É questo, vissuto come inutilità totale, irresponsabilità ('Perché dei sociologi?'), relegazione, che ha fomentato il movimento studentesco del '68 (e non la mancanza di sbocchi: di sbocchi ve ne sono sempre molti "nella riproduzione": ciò che non esiste più sono luoghi, spazi in cui si "produca" veramente qualcosa).


Quest'onda d'urto corre sempre. Non può che propagarsi fino alle estremità del sistema, nella misura in cui settori interi della società decadranno dal rango di "forze produttive" al puro e semplice statuto di "forze riproduttive". Se questo processo ha dapprima toccato i settori della cultura, della scienza, della giustizia, della famiglia - cioè i settori cosiddetti 'sovrastrutturali' - è chiaro che ora colpisce progressivamente tutto il settore cosiddetto 'infrastrutturale': una nuova generazione di scioperi dopo il '68 - parziali, selvaggi, episodici: poco importa - testimonia non più della 'lotta di classe' d'un proletariato assegnato alla produzione, ma della rivolta di coloro che, nelle stesse fabbriche, sono assegnati alla riproduzione.


Però, anche in questo settore, sono le categorie marginali, anomiche, a essere toccate per prime: giovani O.S. importati direttamente dalla campagna alla fabbrica, immigrati, non iscritti ai sindacati, eccetera Per tutte le ragioni indicate, il proletariato 'tradizionale', organizzato e iscritto ai sindacati, ha in effetti ogni probabilità di essere l'ultimo a reagire, poiché può conservare più a lungo "l'illusione del lavoro 'produttivo'". Questa coscienza d'essere, in confronto a tutti gli altri, veri 'produttori', di essere, sia pure al prezzo dello sfruttamento, alla fonte della ricchezza sociale, questa coscienza 'proletaria', rafforzata e sanzionata dall'organizzazione, costituisce certamente il più sicuro baluardo "ideologico" contro la destrutturazione del sistema attuale che, lungi dal proletarizzare degli strati interi della popolazione - cioè dall'elargire lo sfruttamento del lavoro 'produttivo', come vuole la buona teoria marxista - allinea tutti al medesimo statuto di lavoratore riproduttivo.


I lavoratori 'produttivi' manuali vivono, più di tutti gli altri, nell'"illusione della produzione" - esattamente come vivono il loro tempo libero nell'illusione della libertà.


Fintantoché le cose sono vissute come fonte di ricchezza o di soddisfazione, "come valore d'uso", foss' anche il peggiore lavoro alienato e sfruttato, esse sono sopportabili. Fintantoché si può ancora individuare una 'produzione' corrispondente (sia pure immaginariamente) a bisogni individuali o sociali (è per questo che il concetto di bisogno è tanto fondamentale e tanto mistificatore), le peggiori situazioni individuali o storiche sono sopportabili, perché l'"illusione della produzione è sempre l'illusione di far coincidere quella con il suo ideale valore d'uso". E coloro che oggi credono al valore d'uso della loro forza-lavoro - i proletari - sono virtualmente i più mistificati, i meno suscettibili di questa rivolta che coglie le persone dal fondo della loro totale inutilità, della manipolazione circolare che li rende puri contrassegni d'una riproduzione insensata.


Il giorno in cui questo processo si generalizzerà in tutta la società, il maggio '68 assumerà la forma d'una esplosione generale, e il problema del collegamento studenti/lavoratori non si porrà più: esso non faceva che tradurre il fossato che separa coloro che, nell'attuale sistema, credono ancora nella propria forza-lavoro e quelli che non ci credono più.


 


L'economia politica come modello di simulazione.

 


L'economia politica è ormai per noi il "reale", vale a dire esattamente ciò che è il referente nel segno: l'orizzonte di un ordine defunto, ma la cui simulazione conserva un equilibrio 'dialettico' dell'insieme. Il reale, "quindi" l'immaginario. Perché anche qui le due categorie, un tempo distinte, si sono fuse e derivano insieme. Il codice (la legge strutturale del valore) rappresenta la riattivazione sistematica dell'economia politica (la legge ristretta e mercantile del valore) come reale/immaginario delle nostre società, e la manifestazione della forma ristretta del valore equivale all'occultamento della sua forma radicale.


Profitto, plusvalore, meccanica del capitale, lotta di classe: tutto il discorso critico dell'economia politica è prodotto sulla scena (certamente, il mistero ha semplicemente cambiato di valore: è il valore strutturale che è diventato misterioso): tutti sono d'accordo sull''istanza determinante' dell'economico, essa ne diviene 'oscena'. 17 É una provocazione.


Il capitale non va più a cercare i suoi alibi nella natura, Dio o la morale ma direttamente nell'economia politica, nella sua "critica", e vive della propria denuncia interna: stimolo dialettico e "feedback". D' onde il ruolo essenziale svolto dall'analisi marxista nel disegno del capitale.


Funziona qui il medesimo copione descritto da Bourdieu/Passeron per il sistema scolastico: è la sua pretesa autonomia che gli permette di riprodurre efficacemente la struttura d'una società di classe. Anche qui è la pretesa autonomia dell'economia politica (meglio: il suo valore d'istanza determinante) che le permette di riprodurre efficacemente la regola del gioco simbolico del capitale, la sua dominazione reale della vita e della morte, quella fondata sul codice, che fomenta continuamente l'economia politica come medium, come alibi, come "cache-sexe".


Una macchina deve funzionare, se si vuole che riproduca i rapporti di produzione. Una merce deve avere un valore d'uso per poter alimentare il sistema del valore di scambio. Questo era il copione al primo livello. Oggi la simulazione è al secondo livello: una merce deve funzionare come valore di scambio per meglio nascondere che circola come segno, e riproduce il codice. 18 La società deve prodursi come società di classe, come lotte di classe, deve 'funzionare' al livello marxista/critico per meglio mascherare la vera legge del sistema e la possibilità della sua distruzione simbolica. Marcuse ha segnalato da molto tempo questo "dérapage" della dialettica materialistica: i rapporti di produzione, lungi dall'essere decostruiti dalle forze produttive, si assoggettano ormai le forze produttive (scienza, tecnica, eccetera) e vi trovano "una nuova legittimità". Anche qui bisogna passare al secondo livello: sono i rapporti sociali di dominazione simbolica che si assoggettano l'intero modo di produzione (forze produttive "e" rapporti di produzione tutti insieme) e che trovano là, nel movimento apparente dell'economia politica "e della sua rivoluzione", una nuova legittimità e il migliore degli alibi.


Di qui la necessità di risuscitare, di drammatizzare l'economia politica come struttura schermo. Di qui il tipo di crisi, di perpetuo simulacro di crisi con il quale abbiamo a che fare attualmente.


Allo stadio estetico dell'economia politica, che è quello d'una finalità senza fine della produzione, il mito etico, ascetico dell'accumulazione e del lavoro sprofonda. Il capitale, che rischia di crepare di questa liquefazione dei valori, ridiventa quindi nostalgico del suo grande periodo "etico", quello in cui produrre aveva un senso, l'età d'oro della penuria e dello sviluppo delle forze produttive. Per rimettere in piedi le finalità, per riattivare il principio dell'economico, bisogna rigenerare la penuria. Di qui l'ecologia, in cui la minaccia della scarsità assoluta restituisce un'etica della conservazione dell'energia. Di qui la crisi energetica e delle materie prime, vera benedizione per un sistema al quale lo specchio della produzione non rinviava più che una forma vuota e impazzita. La crisi permette di restituire al codice dell'economia il suo referenziale perduto, al principio di riproduzione una gravità che gli sfuggiva. Si comincia a ritrovare il gusto dell'ascesi, l'investimento patetico che nasce dalla mancanza e dalla privazione.


Tutta la svolta ecologica degli ultimi anni aveva già introdotto questo processo di rigenerazione mediante la crisi - una crisi che non è più di sovrapproduzione come quella del 1929, ma d'involuzione del sistema e di riciclaggio della sua identità perduta. 19 Crisi non più della "produzione", ma della "riproduzione" (donde l'impossibilità di capire cosa c'è, in questa crisi, di verità e di simulacro). L'ecologia è la produzione che si resuscita nello spettro della penuria, che ritrova una necessità naturale in cui rinvigorire la legge del valore. Ma l'ecologia è troppo lenta. Una crisi improvvisa, come quella del petrolio, costituisce una terapia più energica. Meno petrolio c'è, più ci si accorge che c'è una produzione. A partire dal momento in cui il posto della materia prima ridiventa marcato, anche la forza-lavoro riprende il suo posto, e tutto il meccanismo della produzione ridiventa intelligibile. Ha inizio un nuovo giro.


Quindi, niente panico. Nell'ora in cui la mobilitazione intensiva della forza-lavoro, l'etica della forza-lavoro minacciano di sprofondare, la crisi dell'energia materiale viene a puntino per mascherare la distruzione veramente catastrofica della "finalità" della produzione, e spostarla su una semplice "contraddizione interna" (ora si sa che questo sistema vive delle sue contraddizioni).


 


É ancora un'illusione pensare che il sistema del capitale, a una certa soglia di riproduzione allargata, passi irreversibilmente da una strategia della penuria a una strategia dell'abbondanza. La crisi attuale dimostra che questa strategia è reversibile. L'illusione derivava ancora da una fede ingenua in una "realtà" della penuria o in una "realtà" dell'abbondanza, e quindi dall'illusione d'una opposizione reale tra i due termini. Mentre questi due termini sono semplicemente "alternativi" e la definizione strategica del neocapitalismo non è quella di passare alla fase dell'abbondanza (dei consumi, della desublimazione repressiva, della liberazione sessuale eccetera), ma alla fase dell'"alternanza sistematica" tra i due termini - penuria e abbondanza - perché essi non hanno più nessuna referenza, né quindi una realtà antagonistica, e perché quindi il sistema può servirsi indifferentemente dell'uno e dell'altro. Questo rappresenta lo stadio perfetto della riproduzione. Nel campo politico, questo stadio è raggiunto quando, neutralizzato qualsiasi antagonismo fra la destra e la sinistra, l'esercizio del potere può servirsi dell'alternanza dell'una e dell'altra.


É questa indeterminazione dei termini, questa neutralizzazione "d'una opposizione dialettica in una pura e semplice alternanza strutturale" che produce questo effetto così caratteristico d'"incertezza sulla realtà della crisi". Questo effetto insopportabile di simulacro - caratteristico di tutto ciò che procede dal funzionamento sistematico d'un codice - tutti cercano di esorcizzarlo in termini di complotto. La crisi sarebbe fomentata dal 'grande capitale': questa ipotesi è rassicurante, perché ripristina un'istanza economico-politica "reale" e la presenza d'un "soggetto" (occulto) della crisi, quindi d'una verità della storia. Il terrore del simulacro è rimosso: qualsiasi cosa è meglio - meglio la fatalità economico-politica onnipresente del capitale, purché abbia una chiara realtà: il profitto, lo sfruttamento; meglio questa atrocità "economica" del capitale che riconoscere la situazione in cui siamo, in cui tutto si fa e si disfà per l'effetto del codice. Il misconoscimento di questa 'verità' della dominazione mondiale, se ve n'è una, è proporzionato alla stessa crisi che la rivela per la prima volta in tutta la sua ampiezza.


Perché la crisi del '29 era ancora una crisi del capitale commisurato al suo saggio di reinvestimento, di plusvalore e di profitto, una crisi della (sovrap)-produzione commisurata alle finalità sociali del consumo. Ed è la regolazione della domanda che risolve questa crisi, in uno scambio senza fine di finalità fra produzione e consumo. Ormai (e definitivamente, dopo la seconda guerra mondiale), l'una e l'altro cessano di essere due poli opposti ed eventualmente contraddittori. Di colpo, tutto il campo dell'economia perde, con la possibilità stessa della crisi, qualsiasi determinazione interna. Non sussiste più che come processo di simulazione economica ai confini d'un processo di riproduzione che l'assorbe completamente.20


Ma c'è mai stata una penuria "reale" - e quindi una realtà del principio economico - perché oggi si possa dire che essa sparisce e funziona oramai soltanto come mito, e di colpo mito alternativo a quello dell'abbondanza? C'è stato storicamente un "valore d'uso" della penuria, e quindi una finalità irriducibile dell'economico, tale che oggi si possa dire che esso è scomparso nel ciclo della riproduzione a vantaggio della sola egemonia d'un codice, d'una regolazione per mezzo del codice che è una vera sentenza di vita e di morte? Noi diciamo: per prodursi (e non produce mai che se stessa) l'economia ha bisogno di questa tensione dialettica fra penuria e abbondanza - ma il sistema, per riprodursi, non ha ora più bisogno che dell'"operazione mitica dell'economia".


 


Giacché tutta la sfera dell'economico è svuotata tutto si può dire in termini d'economia politica e di produzione. L'economia diventa il discorso esplicito di tutta una società, la vulgata di qualsiasi analisi, e di preferenza nella sua variante marxista. Al giorno d'oggi, tutti gli ideologici hanno trovato la loro lingua materna nell'economia politica. Tutti i sociologi, gli "human scientists", eccetera tendono al marxismo, come discorso di riferimento. Anche i cristiani, soprattutto i cristiani, certamente. E tutta la nuova sinistra divina che si alza. Tutto è diventato 'politico' e quindi 'ideologico', per la medesima operazione d'integrazione senza limiti. Il fatto di cronaca è politico, lo sport è politico, l'arte non ne parliamo: la ragione è ovunque dalla parte della lotta di classe. Tutto il discorso latente del capitale è diventato manifesto, e si nota ovunque un certo giubilo in questa assunzione di 'verità'.


Il Maggio '68 ha segnato la tappa decisiva in questa "naturalizzazione dell'economia politica". Poiché il terremoto del Maggio '68 ha scosso il sistema nelle profondità della sua organizzazione simbolica, ha reso urgente, vitale, il passaggio dalle ideologie 'sovrastrutturali' (morali, culturali, eccetera) a una ideologizzazione della stessa infrastruttura. Il capitale, ufficializzando il discorso della sua contestazione, comincia a raddoppiare il suo potere dietro questa legalizzazione dell'economico e del politico. É l'economia politica che ha turato la falla del '68, l'economia politica "marxista", così come i sindacati e i partiti di sinistra hanno 'negoziato' la crisi sul campo. Il referente nascosto dell'economia e della politica non è quindi stato dissotterrato che per salvare una situazione catastrofica, e continua ora a essere diffuso, generalizzato, disperatamente riprodotto perché la situazione catastrofica aperta dal Maggio '68 non è terminata.


Se si osasse, si direbbe che l'economia, e la sua critica, non è che una sovrastruttura - ma non si oserà, perché non sarebbe che rivoltare questa vecchia pelle come un guanto. Dove sarebbe allora l'infrastruttura, eccetera? E significherebbe offrire all'economico l'occasione di risorgere un giorno secondo un gioco d'altalena che è in esso stesso un effetto del codice. Ci hanno fatto troppo spesso il colpo dell'infrastruttura perché rilanciamo questo gioco di maschere. Il sistema stesso ha messo fine a queste determinazioni infra e sovrastrutturali. Esso finge ora di assumere l'economico come infrastruttura perché Marx gli ha genialmente ispirato questa strategia di ricambio, ma in realtà il capitale non ha mai veramente funzionato in base a questa distinzione immaginaria: non è tanto ingenuo. La sua potenza gli deriva esattamente dal suo sviluppo simultaneo a tutti i livelli, e dal fatto di non essersi mai posto "in sostanza" la questione della determinazione, della distinzione astuta delle istanze, e dell''ideologia' - di non essersi mai in fondo confuso con la produzione, come ha fatto Marx, e tutti i rivoluzionari dopo di lui, che soli hanno creduto e credono ancora alla produzione, che vi hanno mescolato i loro fantasmi e la loro più folle speranza. Il capitale si accontenta di estendere la sua legge con una sola mossa, occupando inesorabilmente tutto lo spazio della vita, senza occuparsi di priorità. E ha messo la gente al lavoro, e l'ha messa anche alla cultura, l'ha messa ai bisogni, l'ha messa al linguaggio e agli idiomi funzionali, all'informazione e alla comunicazione, l'ha messa al diritto, alla libertà, alla sessualità, l'ha messa all'istinto di conservazione e l'ha messa all'istinto di morte: l'ha ammaestrata ovunque contemporaneamente secondo miti opposti e indifferenti. E la sua sola legge: l'indifferenza. Gerarchizzare delle istanze? Gioco troppo pericoloso, che rischia di ritorcerglisi contro. No: livellare, neutralizzare, incasellare, indifferenziare, ecco cosa sa fare, ecco come procede secondo la sua legge. Ma anche dissimulare questo processo fondamentale sotto la maschera 'determinante' dell'economia politica.


Nel capitale attuale, gigantesca macchina polimorfa, il simbolismo (dono e controdono, reciprocità e reversione, spesa e sacrificio) non è più nulla; la natura (il grande referenziale d'origine e di sostanza, la dialettica soggetto/oggetto, eccetera) non è più nulla; la stessa economia politica non vi sopravvive se non in coma superato; ma tutti questi fantasmi vagano ancora nel campo operativo del valore. Forse c'è qui, a una scala gigantesca, l'eco di ciò che Marx segnalava: ogni evento passa dapprima attraverso un'esistenza storica, per risuscitare come forma parodistica. Senonché per noi le due fasi s'incastrano l'una nell'altra, poiché la buona vecchia storia materialistica è diventata essa stessa un processo di simulazione, essa non offre più nemmeno la possibilità d'una parodia teatrale e grottesca: al giorno d'oggi il terrore fondato sulle cose svuotate della loro sostanza si esercita direttamente; immediatamente i simulacri prevedono la nostra vita in tutte le sue determinazioni. Non si tratta più di teatro e di immaginario: è una tattica feroce di neutralizzazione, che non lascia più molto spazio alla buffonata tipo Napoleone Terzo, farsa storica che la storia "reale", nello spirito di Marx, supera senza sforzo. I simulacri sono altra cosa, e sono essi che ci liquidano, insieme alla storia. O forse questo libera da un'illusione generale in Marx sulle possibilità di "rivoluzione" del sistema. Egli aveva ben visto che già nel capitale del suo tempo circolava una capacità di distruggere le proprie basi e di passare 'in sovramoltiplicata'. Vedeva bene che il capitale tendeva a ridurre, se non a eliminare totalmente dal suo processo, la forza-lavoro e a sostituirla con una gigantesca forza-lavoro morta. Ma poiché pensava che la forza-lavoro viva fosse il fondamento oggettivo, storico e necessario del capitale, poteva solamente pensare che quest'ultimo si scavasse così la propria fossa. Illusione: il capitale ha sotterrato la forza-lavoro, ma in una maniera più sottile: ne ha fatto il termine secondo d'una opposizione regolata con il capitale. Di questa energia in rottura, che doveva far scoppiare i rapporti di produzione, ha fatto un termine omogeneo ai rapporti di produzione, in una simulazione d'opposizione sotto il segno del lavoro morto. Ormai è una unica istanza egemonica, quella del lavoro morto, che si sdoppia in capitale e lavoro vivo: risolto l'antagonismo, mediante un dispositivo binario di funzionamento codificato. Ma, si dirà, il plusvalore, la produzione?


Ebbene, il capitale se ne fotte. Senza attribuirgli un'intuizione marxista (sebbene Marx abbia fatto di tutto per "illuminare" il capitale su quello che lo attendeva: se si ostinava a giocare sul terreno della produzione, andava incontro alla sua morte a breve scadenza: l'economia era una trappola mortale per il capitale), tutto accade come se esso avesse ben compreso Marx su questo punto, e di conseguenza 'scelto' di liquidare la produzione per passare a un altro tipo di strategia. Dico 'tutto accade come se' perché non è del tutto certo che il capitale abbia mai avuto di se stesso questa visione produttivistica (in fondo, solo Marx l'avrebbe avuta, e proiettato questo fantasma come verità storica); è più verosimile che il capitale non abbia mai fatto che "servirsi" della produzione, pronto ad abbandonarla più tardi, quando questa lo trascina in contraddizioni mortali. Il capitale ha mai preso sul serio la produzione? Mica scemo: nel pieno della serietà della produzione, indubbiamente il capitale non è già che simulazione.


É per questa ragione che gli unici atti che attentano alla sua dominazione reale sono quelli che si situano nel campo di questa indeterminazione radicale e che infrangono questa strategia economica di dissuasione.


 


Non si distruggerà mai il sistema con una rivoluzione diretta, dialettica, dell'infrastruttura economica o politica. Tutto ciò che produce una contraddizione, un rapporto di forze, dell'energia in generale, non fa che ritornare al sistema e dargli nuovo impulso, secondo una distorsione circolare simile all'anello di M”bius. Non lo si vincerà mai secondo la sua stessa logica, quella dell'energia, del calcolo, della ragione e della rivoluzione, quella della storia e del potere, quella di qualsivoglia finalità o contro-finalità: a questo livello la peggiore violenza non ha presa, e si rivolge contro se stessa. Non si vincerà mai il sistema sul piano "reale": il peggior errore di tutti i nostri strateghi rivoluzionari è quello di credere di mettere fine al sistema sul piano reale: questo è il loro immaginario, quello che impone loro lo stesso sistema, che non vive e non sopravvive che trascinando incessantemente quelli che lo attaccano a battersi sul terreno della realtà, "che è pur sempre il suo". É qui che tutti gettano le loro energie, la loro violenza immaginaria, che una logica implacabile rivolge a favore del sistema. Quest'ultimo non ha bisogno di violenza o di contro-violenza reale, esso vive di violenza simbolica. Non nel senso degradato in cui questa formula ha fatto fortuna: una violenza 'mediante i segni', per cui il sistema raddoppierebbe, o 'maschererebbe' la sua violenza materiale. No: la violenza simbolica si deduce da una "logica" del simbolo (che non ha nulla a che vedere con il segno o l'energia): reversione, reversibilità incessante del contro-dono e, inversamente, presa del potere mediante l'esercizio unilaterale del dono.21


Ciò che occorre fare è quindi spostare tutto nella sfera del simbolico, dove la legge è quella della sfida, della reversione, del rilancio. 22 "Tale che alla morte non si può rispondere che con una morte uguale o superiore". Qui non è questione né di violenza né di forza reali, è una questione di sfida e di logica simbolica. Se la dominazione proviene dal fatto che il sistema detiene l'esclusiva del dono senza contro-dono-dono del lavoro al quale si può rispondere soltanto con la distruzione o il sacrificio, se non nel consumo, che non è che una spirale di più del sistema di gratificazione senza sbocco, quindi una spirale di più della dominazione; dono dei media e dei messaggi, ai quali, dato il monopolio del codice, nulla permette di replicare; dono, ovunque e ad ogni istante, del "sociale", dell'istanza di protezione, di sicurezza, di gratificazione e di sollecitazione del sociale, al quale nulla permette più di sfuggire -, allora l'unica soluzione è di ritorcere contro il sistema il principio stesso del suo potere: l'impossibilità di risposta e di ritorsione. "Sfidare il sistema con un dono al quale non possa rispondere, se non con la propria morte e il proprio crollo". Perché nulla, nemmeno il sistema, sfugge all'obbligazione simbolica, ed è in questa trappola che sta l'unica possibilità della sua catastrofe. Scorpionizzazione del sistema accerchiato dalla sfida della morte. Bisogna che il sistema stesso "si suicidi in risposta alla sfida moltiplicata della morte e del suicidio".


Così per la presa d' ostaggi. Sul piano simbolico, che è quello del sacrificio, in cui qualsiasi considerazione morale sull'innocenza delle vittime è esclusa, l'ostaggio è il sostituto, l'alter ego del 'terrorista': la sua morte è là per quella del terrorista, esse possono d'altronde confondersi nel medesimo atto sacrificale. La posta in gioco è quella d'una morte senza possibilità di negoziato, e che quindi rinvia a un rilancio obbligatorio. Certamente, tutto il sistema del negoziato tenta di dispiegarsi, e gli stessi terroristi entrano spesso in questo copione di scambio, in termini di equivalenza calcolata (la vita degli ostaggi in cambio d'un determinato riscatto, o della liberazione, persino per il solo prestigio dell'operazione). Da questo punto di vista, la presa d' ostaggi non è affatto originale, essa crea semplicemente un rapporto di forze imprevisto, esatto, solubile con la violenza tradizionale o il negoziato. É un'azione tattica. Ma è in gioco ben altro, è si è ben visto che ne era all'Aia, nel corso di dieci giorni di negoziati incredibili: nessuno sapeva cosa si poteva negoziare, né se ci s'accordava sui termini o sulle possibili equivalenze di scambio. Oppure, se vengono formulate, le 'richieste dei terroristi' sono tali che equivalgono a un rifiuto radicale di negoziare. Ed è appunto questo che è in gioco: l'impossibilità di qualsiasi negoziato, e quindi il passaggio all'ordine simbolico, che ignora totalmente questo tipo di calcolo e di scambio (il sistema, invece, non vive che di negoziati, foss' anche nell'equilibrio della violenza). A questa irruzione del simbolico (che è la cosa più grave che gli possa capitare, e in fondo la sola 'rivoluzione'), il sistema non può, non sa rispondere che con la morte fisica, la morte reale dei terroristi - ma questa è la sua disfatta, perché questa morte era esattamente la "loro" posta in gioco, e perché, così facendo, il sistema non ha fatto che infilzarsi sulla propria violenza "senza veramente rispondere alla sfida che gli è stata lanciata". Perché qualsiasi morte è facilmente computabile nel sistema, anche le carneficine della guerra, ma non la morte-sfida, la morte simbolica, perché questa non ha più un equivalente contabile: essa dà accesso a un rilancio inespiabile se non con un'altra morte. Nessun'altra "risposta" alla morte che la morte. Ed è ciò che accade in questo caso: "il sistema è chiamato a suicidarsi a sua volta" - cosa che esso fa manifestamente con il suo smarrimento e il suo fallimento. L'apparato colossale del potere si liquefa in questa situazione, infinitesimale in termini di rapporto di forze, ma in cui tutto lo scherno (la sua stessa dismisura) si ritorce contro di lui. La polizia, l'esercito, tutte le istituzioni e la violenza mobilitata del potere non possono nulla contro la morte infima, ma simbolica, di uno solo o di alcuni. Perché questa lo trascina su un piano sul quale non c'è per lui nessuna risposta possibile (così la liquefazione improvvisa, strutturale, del potere nel '68, non perché esso fosse meno forte, ma per il semplice spostamento simbolico messo in pratica dagli studenti). Il sistema non può che morire in cambio, disfarsi per raccogliere la sfida. La sua morte in questo istante è una risposta simbolica - ma di cui esso crepa.


La sfida è d'una efficacia micidiale. Tutte le società diverse dalla nostra lo sanno, o lo sapevano. La nostra lo sta riscoprendo. Le vie d'una politica alternativa sono quelle dell'efficacia simbolica.


Così l'asceta che si mortifica sfida Dio a rendergli mai l'equivalente. Dio fa tutto quello che può per rendergli 'cento volte di più', sotto forma di prestigio, di potere spirituale, persino di egemonia mondana. Ma il sogno segreto dell'asceta è di giungere a un punto tale di mortificazione che Dio stesso non possa più raccogliere la sfida, né cancellare questo debito. L'asceta avrà allora trionfato su Dio, e sarà Dio lui stesso. É per questo che l'asceta è sempre vicino all'eresia e al sacrilegio, e come tale condannato dalla Chiesa, che è là apposta per preservare Dio da questo confronto simbolico, da questa sfida mortale in cui Dio è chiamato a morire, a sacrificarsi per accogliere la sfida del mortificato. In ogni tempo la Chiesa ha avuto il ruolo di evitare questo genere di confronto catastrofico (per essa, in primo luogo) e di sostituirvi uno scambio regolato di penitenze e di gratificazioni, un sistema di equivalenze fra Dio e gli uomini, di cui essa stessa sia l'impresario.


Lo stesso accade per il nostro rapporto con il sistema di potere. Tutte le istituzioni, tutte le mediazioni sociali, economiche, politiche, psicologiche esistono affinché nessuno abbia mai più l'occasione di questa sfida simbolica, di questa sfida a morte, di questo dono irreversibile che, come la mortificazione assoluta dell'asceta, fa trionfare su qualsiasi potere, per quanto potente sia la sua istanza. Non bisogna che questa possibilità diretta di confronto simbolico abbia mai luogo. Bisogna che tutto si negozi. Ed è questa la fonte della nostra profonda afflizione.


É per questo che la presa di ostaggi e altri atti analoghi risuscitano qualcosa di fascinoso: per il sistema, sono allo stesso tempo lo specchio esorbitante della propria violenza repressiva e il modello d'una violenza simbolica che gli è interdetta, della sola violenza che esso non possa esercitare: quella della sua stessa morte.


 


Il lavoro e la morte

 


Altre società hanno conosciuto poste in gioco molteplici: sulla nascita e la parentela, sull'anima e il corpo, sul vero e il falso, sulla realtà e l'apparenza. L'economia politica le ha tutte ribattute su una sola: la produzione - ma allora fu una posta in gioco formidabile, la violenza e la speranza furono smisurate. Al giorno d'oggi, è finito: il sistema ha svuotato la produzione di qualsiasi posta reale. Ma una verità più radicale si fa luce, ed è il trionfo stesso del sistema che permette d'intravvedere questa posta fondamentale. Diventa persino possibile analizzare retrospettivamente tutta l'economia politica come qualcosa che non ha nulla a che vedere con la produzione. Come una posta di vita e di morte. Come posta simbolica.


Tutte le poste sono simboliche. Ci sono sempre state solamente poste simboliche. Questa dimensione è ovunque in filigrana nella legge strutturale del valore, ovunque immanente nel codice.


La forza-lavoro si fonda sulla morte. Bisogna che un uomo muoia per diventare forza-lavoro. É questa morte che egli monetizza nel salario. Ma la violenza economica che gli è inflitta dal capitale nell'inequivalenza del salario e della forza-lavoro non è nulla rispetto alla violenza simbolica che gli è inflitta nella sua stessa definizione di forza produttiva. La falsificazione di questa equivalenza è nulla di fronte all'equivalenza, "come segno", del salario con la morte.


La possibilità stessa dell'equivalenza quantitativa presuppone la morte. Quella del salario e della forza-lavoro presuppone la morte dell'operaio; quella di tutte le merci fra di loro presuppone lo sterminio simbolico degli oggetti. É la morte che ovunque rende possibile il calcolo d'equivalenza e la regolazione mediante l'indifferenza. Questa morte non è violenta e fisica, è la commutazione indifferente della vita e della morte, la neutralizzazione rispettiva della vita e della morte nella sopravvivenza, o la morte "differita".


Il lavoro è una morte lenta. La s'intende generalmente nel senso dell'estenuazione fisica. Ma bisogna intenderla altrimenti: il lavoro non si oppone, come una specie di morte, alla 'realizzazione della vita' - questa è la concezione idealistica - il lavoro si oppone "come una morte lenta alla morte violenta". Questa è la realtà simbolica. Il lavoro si oppone come morte differita alla morte immediata del sacrificio. Contro qualsiasi concezione pietosa e 'rivoluzionaria' del tipo 'il lavoro (o la cultura) è l'opposto della vita', si deve sostenere che la sola alternativa al lavoro non è il tempo libero o il non-lavoro: è il sacrificio.


Tutto questo si chiarisce nella genealogia dello schiavo. In un primo tempo, il prigioniero di guerra è puramente e semplicemente messo a morte (è un onore che gli si fa). Più tardi egli è 'risparmiato' e conservato (uguale "servus"), a titolo di bottino e di bene di prestigio: diventa schiavo e passa alla condizione di domestico suntuario. É soltanto molto dopo che passa al lavoro servile. Non è tuttavia ancora un 'lavoratore', perché il lavoro non appare che nella fase del servo o dello schiavo "emancipato", liberato infine dall'ipoteca della messa a morte, e liberato perché? precisamente per il lavoro.


Il lavoro s'ispira quindi ovunque alla morte differita. Esso è una morte differita. Lenta o violenta, immediata o differita, la scansione della morte è decisiva: è essa che distingue radicalmente i due tipi d'organizzazione: quella dell'economia, quella del sacrificio. Noi viviamo irreversibilmente nella prima, che non ha cessato di radicarsi nella '"differenza"' della morte.


Il copione non è mai cambiato. Colui che lavora resta "colui che non è stato messo a morte", al quale è stato rifiutato questo onore. E il lavoro è in primo luogo il segno di questa abiezione di non essere giudicato degno che della vita. Il capitale sfrutta a morte i lavoratori? Paradossalmente, la cosa peggiore che infligge loro è di rifiutare loro la morte. É differendo la loro morte che li rende schiavi, e li vota all'abiezione indefinita della vita nel lavoro.


In questa relazione simbolica, la sostanza del lavoro e dello sfruttamento è indifferente: il potere del padrone gli deriva sempre anzitutto da questa sospensione della morte. Il potere non è quindi mai, contrariamente a quanto s'immagina, quello di mettere a morte, ma proprio all'opposto quello di lasciare in vita - una vita che lo schiavo non ha il diritto di rendere. Il padrone confisca la morte dell'altro, e conserva il diritto di rischiare la propria. Ciò è rifiutato allo schiavo, che è votato alla vita senza contraccambio, quindi senza espiazione possibile.


E, sottraendolo alla morte, il padrone sottrae lo schiavo alla circolazione dei beni simbolici: è questa la violenza che gli fa, e che vota l'altro alla forza-lavoro. É qui il segreto del potere (Hegel, nella dialettica del padrone e dello schiavo, a derivare così la dominazione del padrone dalla minaccia di morte differita sullo schiavo). Lavoro, produzione, sfruttamento non saranno che uno degli "avatar" possibili di questa struttura di potere, che è una struttura di morte.


Questo cambia tutte le prospettive rivoluzionarie sull'abolizione del potere. Se il potere è morte "differita", non sarà eliminato finché non sarà eliminata la "sospensione" di questa morte. E se il potere, di cui è ovunque e sempre la definizione, risiede nel fatto di dare senza che vi sia reso, è chiaro che il potere che il padrone detiene di concedere unilateralmente la vita sarà abolito solamente se questa vita potrà essergli restituita "in una morte non differita". Non c'è altra alternativa: non è conservando la vita che si abolirà mai questo potere, perché non ci sarà stata reversione di ciò che è stato donato. Solo la resa di questa vita, la ritorsione con la morte immediata della morte differita, costituisce una risposta radicale, e l'unica possibilità di abolire il potere. Qualsiasi strategia rivoluzionaria non può partire che dalla rimessa in gioco da parte dello schiavo della propria morte, la cui sottrazione, la differenza, è messa a profitto dal padrone per assicurarsi il potere. Rifiuto di non essere messo a morte, di vivere nella dilazione mortale del potere rifiuto di dovere la vita e di non essere mai sdebitato di questa vita, e d'essere in realtà nell'obbligo di saldare questo credito a lungo termine, nella morte lenta del lavoro, senza che questa morte lenta cambi nulla ormai alla dimensione abietta, alla fatalità del potere.


La morte violenta cambia tutto, la morte lenta non cambia nulla, perché c'è un ritmo, una scansione necessaria allo scambio simbolico: una cosa dev'essere resa nel medesimo movimento e secondo il medesimo ritmo, altrimenti non c'è reciprocità, ed essa non è affatto resa. É la strategia del sistema di potere quella di "spostare" il tempo di scambio, di sostituire la continuità, la linearità mortale del lavoro alla torsione, alla ritorsione immediata della morte. Quindi non serve a nulla allo schiavo (all'operaio) restituire a poco a poco, a dosi infinitesimali, sul filo del lavoro che lo uccide, la propria vita al padrone o al capitale, perché questo 'sacrificio' a piccole dosi non è più propriamente un sacrificio, non tocca la "differenza" della morte, che è l'essenziale, e non fa che stillare un processo la cui struttura resta la stessa.


Si può in effetti fare l'ipotesi che nel lavoro lo sfruttato "renda" la propria vita allo sfruttatore, e riconquisti con ciò, attraverso il suo stesso sfruttamento, un potere di risposta simbolica. Vi sarebbe un contro-potere nel processo lavorativo come messa in gioco da parte dello sfruttato della propria morte (lenta). Questo concorderebbe con l'ipotesi di Lyotard sul piano dell'economia libidica: l'intensità di godimento dello sfruttato nell'abiezione stessa del suo sfruttamento. E Lyotard ha ragione: l'intensità libidica, la carica di desiderio e di resa della morte, è sempre là presso lo sfruttato, 23 ma essa non è più al ritmo, propriamente simbolico, della ritorsione immediata, e quindi d'una risoluzione totale. Il godimento dell'impotenza (a condizione di non essere un fantasma mirante a ricostituire il trionfo del desiderio al livello del proletario) non abolirà mai il potere.


La modalità stessa della risposta mediante la morte lenta del lavoro lascia al padrone la possibilità di rendere di nuovo e incessantemente allo schiavo la vita nel lavoro, mediante il lavoro. Il conto non è mai regolato, è sempre a vantaggio del potere, di questa "dialettica" del potere che punta sullo scostamento dei poli della morte, dei poli dello scambio. Lo schiavo rimane prigioniero della dialettica del padrone, e della propria morte, in cui la sua vita distillata serve alla riproduzione indefinita della dominazione.


Ciò tanto più che il sistema s'incarica di neutralizzare questa ritorsione simbolica "riscattandola con il salario". Se lo sfruttato cerca di restituire la propria morte allo sfruttatore nel lavoro, questi scongiura tale restituzione mediante il salario. Anche qui bisogna rifare una radiografia simbolica. Contro tutte le apparenze vissute (il capitale compra la forza-lavoro dal lavoratore e gli estorce il pluslavoro), è il capitale che dà lavoro al lavoratore (quanto al lavoratore, egli rende capitale al capitalista). "Arbeitgeber": in tedesco, l'imprenditore è 'datore di lavoro'; l'operaio è "Arbeitnehmer", 'prenditore di lavoro'. In materia di lavoro, è il capitalista che dà, che ha l'iniziativa del dono, il che gli assicura, come in qualsiasi ordine sociale, una preminenza e un potere ben al di là di quello economico. "Il rifiuto del lavoro, nella sua forma radicale, è il rifiuto di questa dominazione simbolica", di questa umiliazione della cosa concessa. Dare e prendere lavoro funziona direttamente come codice del rapporto sociale dominante, come codice di discriminazione. E il salario è il contrassegno di questo regalo avvelenato, il segno che riassume tutto il codice. Esso sanziona questo dono unilaterale del lavoro, o ancora "il salario riscatta simbolicamente la dominazione che il capitale esercita attraverso il dono del lavoro". É contemporaneamente la possibilità per il capitale di circoscrivere l'operazione di una dimensione di contratto, di stabilizzare il confronto nel l'economico. Più ancora, il salario fa del salariato un 'prenditore di beni', il che significa raddoppiare il suo statuto di 'prenditore di lavoro' e rafforzare il suo deficit simbolico. Rifiutare il lavoro, contestare il salario, è quindi rimettere in causa il processo di dono, di riscatto e di compensazione economica, è quindi mettere a nudo il processo simbolico fondamentale.


Al giorno d'oggi, il salario non è più strappato. Vi si "dona" il salario così, non in cambio del lavoro, ma affinché voi lo spendiate, il che è un altro tipo di lavoro. E il prenditore di salario si trova a riprodurre nel consumo, nell'uso degli oggetti, esattamente "lo stesso rapporto simbolico di morte lenta che egli subisce nel lavoro". L'utente vive esattamente della stessa morte "differita" dell'oggetto (egli non lo sacrifica, lo 'usa', ne 'usa' funzionalmente) di quella del lavoratore nel capitale. E dal momento che il salario riscatta questo dono unilaterale del lavoro, il prezzo pagato per l'oggetto non è che il riscatto da parte del consumatore di questa morte differita dell'oggetto. Ne è prova la regola simbolica che vuole che ciò che vi tocca in sorte gratis (lotteria, regalo, denaro guadagnato al gioco) non sia destinato all'uso, ma speso in pura perdita.


Qualsiasi dominazione dev'essere riscattata. Essa lo fu un tempo mediante la morte sacrificale (la morte rituale del re o del capo), o ancora mediante l'inversione rituale (festa e altri riti sociali: ancora una forma di sacrificio). Fino a questo momento, il potere si gioca ancora apertamente, direttamente. Questo gioco sociale della reversione cessa con la dialettica del padrone e dello schiavo, in cui la reversibilità del potere cede il posto a una dialettica della riproduzione del potere. Tuttavia, il riscatto del potere dev'essere sempre simulato. É il dispositivo del capitale, in cui il riscatto formale si fa attraverso l'immensa macchina del lavoro, del salario e del consumo. L'economico è per eccellenza la sfera del riscatto, quella in cui la dominazione del capitale riesce a riscattarsi senza rimettersi veramente in gioco - al contrario: sviando il processo di riscatto verso la propria riproduzione indefinita. La necessità dell'economico, e della sua apparizione storica, è forse qui: nell'urgenza, al livello di società ben più vaste e mobili dei gruppi primitivi, d'un sistema di riscatto che sia allo stesso tempo misurabile, controllabile, estensibile all'infinito (cosa che non sono invece i rituali), e che soprattutto non rimetta in causa l'esercizio e l'eredità del potere: produzione e consumo sono una soluzione originale e senza precedenti di questo problema. Lo slittamento dal simbolico all'economico permette, simulando il riscatto sotto questa nuova forma, di assicurare l'egemonia definitiva della potenza politica sulla società.


All'economico riesce il miracolo di mascherare la vera struttura del potere rovesciando i termini della sua definizione. Mentre il potere è di donare unilateralmente (la vita, in particolare, vedi sopra), si è riusciti a imporre l'evidenza opposta: il potere sarebbe di prendere e di appropriarsi unilateralmente. Al riparo di questo trucco geniale, la vera dominazione simbolica può continuare a realizzarsi, poiché tutti gli sforzi dei dominati cadono nella trappola di 'riprendere' al potere ciò che questo gli ha preso, anzi di 'prendere il potere' stesso - spingendo così ciecamente nel senso della loro dominazione.


In realtà, lavoro, salario, potere, rivoluzione, bisogna rileggere tutto all'inverso:


- il lavoro non è sfruttamento, esso è donato dal capitale;


- il salario non è strappato, è anch'esso donato: non acquista una forza-lavoro, riscatta il potere del capitale 24;


- la morte lenta del lavoro non è subita, è un tentativo disperato, una sfida al dono unilaterale del lavoro da parte del capitale;


- l'unica replica efficace al potere è di rendergli ciò che esso vi dona, e questo è possibile simbolicamente solo con la morte.


Ma se il sistema stesso, come abbiamo visto, destituisce l'economico, gli toglie la sua sostanza e la sua credibilità, non mette forse in causa, in questa prospettiva, la sua stessa dominazione simbolica? No, perché il sistema fa regnare ovunque la sua strategia del potere, quella del dono senza contro-dono, che si confonde con la morte differita. Il medesimo rapporto sociale s'istituisce nei media e nel consumo, dove abbiamo visto ("Requiem pour les Media") che non esiste una risposta, un contro-dono possibile all'emissione unilaterale dei messaggi. Si è potuto interpretare (progetto del CERFI sugli incidenti automobilistici) l'ecatombe automobilistica come 'il prezzo che la collettività paga alle sue istituzioni [...] i doni dello Stato iscrivono nella contabilità collettiva un "debito". La morte gratuita non è allora che un tentativo di cancellare questo deficit. Il sangue sulle strade è una forma disperata di compensare i doni in macadam dello Stato. L'incidente si pone così in questo spazio che istituisce il debito simbolico verso lo Stato. É probabile che più questo debito cresce, più s'accentui la tendenza all'incidente. Tutte le strategie "razionali" per stroncare questo fenomeno (prevenzione, limiti di velocità, organizzazione dei soccorsi, repressione) sono in realtà irrisorie. Esse simulano la possibilità di integrare l'incidente in un sistema razionale, sono perciò stesso incapaci di cogliere il problema alla radice: la liquidazione d'un debito simbolico che fonda, legittima e rafforza la dipendenza della collettività nei confronti dello Stato. Al contrario, queste strategie "razionali" accentuano il fenomeno. Per contrastare gli effetti degli incidenti, esse propongono l'instaurazione di altri dispositivi, di altre istituzioni statali, di "doni" supplementari, che sono altrettanti mezzi per aggravare il debito simbolico.'


Così ovunque la lotta opponga una società e un'istanza politica (confronta Pierre Clastres, "La Società contro lo Stato") che la sovrasta con tutto il potere che essa trae dai doni di cui la colma, dalla sopravvivenza in cui la mantiene, dalla morte che le toglie - per accantonarla e stillarla in seguito ai propri fini. Nessuno accetta mai in fondo questa gratificazione, ricambia come può, 25 ma il potere dona sempre di più, per meglio asservire, e la società, o gli individui, possono giungere fino alla propria distruzione per mettervi fine. É la sola arma assoluta, e la sua semplice minaccia collettiva può far crollare il potere. Davanti a questo solo 'ricatto' simbolico (barricate del '68, presa di ostaggi) il potere si disunisce: dato che vive della mia morte lenta, gli oppongo la mia morte violenta. Ed è perché viviamo della morte lenta che sogniamo la morte violenta.

Questo stesso sogno è insopportabile al potere.

 


Capitolo secondo - L'ordine dei simulacri

 


I tre ordini di simulacri

 


Tre ordini di simulacri si sono succeduti dopo il Rinascimento, parallelamente alle mutazioni della legge del valore:


- La "contraffazione" è lo schema dominante dell'epoca 'classica', dal Rinascimento alla rivoluzione industriale.


- La "produzione" è lo schema dominante dell'era industriale.


- La "simulazione" è lo schema dominante della fase attuale retta dal codice.


Il simulacro di primo ordine specula sulla legge naturale del valore, quello di secondo ordine sulla legge mercantile del valore, quello di terzo ordine sulla legge strutturale del valore.


 


L'angelo di stucco

 


La contraffazione (e la moda nello stesso tempo) nasce con il Rinascimento, con la destrutturazione dell'ordine feudale da parte dell'ordine borghese e l'emergere d'una competizione aperta al livello dei segni distintivi. Non esiste moda in una società di caste o di ranghi, poiché l'assegnazione è totale e la mobilità di classe è nulla. Una interdizione protegge i segni e assicura loro una chiarezza totale: ciascuno rinvia senza equivoco a uno statuto. Non c'è contraffazione possibile nel cerimoniale, se non come magia nera e sacrilegio, ed è appunto così che la mescolanza dei segni è punita: come grave infrazione all'ordine stesso delle cose. Se ci sorprendiamo ancora a sognare - oggi soprattutto - di un mondo di segni sicuri, d'un 'ordine simbolico' forte, non facciamoci illusioni: quest'ordine è esistito, e fu quello d'una gerarchia feroce, perché la trasparenza e la crudeltà dei segni vanno di pari passo. Nelle società di caste, feudali o arcaiche, società "crudeli", i segni sono in numero limitato, di diffusione ristretta, ciascuno ha il suo pieno valore d'interdizione, ciascuno è una obbligazione reciproca fra caste, clan o persone: non sono quindi arbitrari. L'arbitrario del segno comincia quando, invece di legare due persone con una reciprocità inviolabile, esso si mette, significando, a rinviare a un universo disincantato del significato, denominatore comune del mondo reale nei confronti del quale nessuno ha più degli obblighi.


Fine del segno "obbligato", regno del segno emancipato, in cui cominciano a poter giocare indifferentemente tutte le classi. La democrazia concorrenziale succede all'endogamia dei segni propria degli ordini statutari. Al medesimo tempo si entra necessariamente, con il passaggio dei valori/segni di prestigio da una classe all'altra, nella "contraffazione". Perché da un ordine limitato di segni, di cui una interdizione colpisce la produzione 'libera', si passa alla proliferazione dei segni secondo la domanda. Ma il segno moltiplicato non ha più nulla a che vedere con il segno obbligato a diffusione ristretta: esso ne è la contraffazione non attraverso la snaturazione d'un 'originale', ma per l'estensione d'un materiale di cui tutta la chiarezza derivava dalla restrizione che lo colpiva. Non discriminante (non è più che competitivo), sgravato da qualsiasi vincolo, disponibile universalmente, il segno moderno simula tuttavia ancora la necessità spacciandosi per legato al mondo. Il segno moderno sogna il segno precedente e vorrebbe, con la sua referenza al reale, ritrovare una "obbligazione": non ritrova che una "ragione": questa ragione referenziale, questo reale, questo 'naturale' di cui esso vive. Ma questo legame di designazione non è più che un simulacro dell'obbligazione simbolica: non produce più che valori neutri, quelli che si scambiano in un mondo oggettivo. Il segno subisce qui il medesimo destino del lavoro. Il lavoratore 'libero' non è libero che di produrre equivalenze - il segno 'libero ed emancipato' non è libero che di produrre significati equivalenti.


É dunque nel simulacro d'una 'natura' che il segno moderno trova il suo valore. Problematica del 'naturale', metafisica della realtà e dell'apparenza: sarà quella di tutta la borghesia dal Rinascimento in poi, specchio del segno borghese, specchio del segno classico. Ancor oggi la nostalgia d'una referenza naturale del segno è duratura, nonostante le numerose rivoluzioni che hanno infranto questa configurazione, tra cui quella della produzione, nella quale i segni cessano di riferirsi alla natura, ma soltanto alla legge dello scambio, e passano sotto la legge mercantile del valore. Simulacri di secondo ordine, sui quali ritorneremo più avanti.


É dunque nel Rinascimento che è nato il falso, assieme al naturale. Questo va dal falso gilet sul davanti alla forchetta protesi artificiale, agli interni di stucco e ai grandi macchinari teatrali barocchi. Perché tutta quest'era classica è per eccellenza quella del teatro. Il teatro è una forma che s'impadronisce di tutta la vita sociale e di tutta l'architettura a partire dal Rinascimento. É là, nei virtuosismi dello stucco e dell'arte barocca, che si decifra la metafisica della contraffazione, e le nuove ambizioni dell'uomo rinascimentale sono quelle d'una "demiurgia mondana", d'una transustanziazione di tutta la natura in una sostanza unica, teatrale come la socialità unificata sotto il segno dei valori borghesi, al di là della differenze di sangue, di rango o di casta. Lo stucco è la democrazia trionfale di tutti i segni artificiali, l'apoteosi del teatro e della moda, e che traduce la possibilità per la nuova classe di fare tutto, da quando ha potuto spezzare l'esclusività dei segni. É la vita aperta a delle combinazioni inaudite, a tutti i giochi, a tutte le contraffazioni - perché la mira prometeica della borghesia s'è riversata nell'"imitazione della natura", prima di lanciarsi nella "produzione". Nelle chiese e i palazzi, lo stucco sposa tutte le forme, imita tutte le materie, i tendaggi di velluto, le cornici di legno, le rotondità carnali dei corpi. Lo stucco esorcizza l'inverosimile confusione delle materie in una sola nuova sostanza, specie di equivalente generale di tutte le altre, e propizia a tutti i prestigi teatrali perché essa stessa sostanza rappresentativa, specchio di tutte le altre.


Ma i simulacri non sono che giochi di segni, implicano rapporti sociali e un potere sociale. Lo stucco può apparire come l'esaltazione d'una scienza e d'una tecnologia in sviluppo, esso è anche e soprattutto legato al barocco, e questo all'impresa della controriforma e l'egemonia del mondo politico e mentale che tentarono d'istituire, per la prima volta secondo una concezione moderna del potere, i gesuiti.


C'è una stretta connessione fra l'obbedienza mentale dei gesuiti ("perinde ac cadaver") e l'ambizione demiurgica d'esorcizzare la sostanza naturale delle cose per sostituirvi una sostanza sintetica: come l'uomo sottomesso all'organizzazione, le cose assumono allora la funzionalità ideale del cadavere. Tutta la tecnologia, tutta la tecnocrazia, sono già presenti: la presunzione d'una contraffazione ideale del mondo, che si esprime nell'invenzione d'una sostanza universale, e d'una combinatoria universale delle sostanze. Riunificare il mondo disunito (dopo la Riforma) in una dottrina omogenea, universalizzare il mondo sotto una sola parola (dalla Nuova Spagna al Giappone: le Missioni), costituire un'élite politica "di Stato": questi sono gli obiettivi dei gesuiti. Per questo, bisogna creare dei simulacri efficaci: la macchina dell'organizzazione ne è uno, ma anche quello dell'apparato e del teatro (è il grande teatro dei cardinali e delle eminenze grige), e così quello dell'educazione e dell'istruzione che mira, per la prima volta in maniera sistematica, a rimodellare una natura ideale del bambino. Il drappeggio architettonico dello stucco e del barocco è una grande macchina dello stesso ordine. Tutto questo precede la razionalità produttivistica del capitale, ma testimonia già - non nella produzione, ma nella contraffazione - del medesimo progetto di controllo e di egemonia universali, d'uno schema sociale in cui interviene già a fondo la coerenza interna di un sistema.


Un tempo viveva nelle Ardenne un vecchio cuoco: in lui la costruzione delle "pièces montées" [torte a più piani] e l'arte della plastica pasticciera avevano destato l'ambizione di riprendere il mondo là dove Dio lo aveva lasciato... al suo stato naturale - per eliminarne la spontaneità organica e sostituirvi una materia unica e polimorfa, il cemento armato: mobili di cemento, sedie, cassettiere, macchine per cucire di cemento, e fuori nel cortile un'intera orchestra, violini compresi, cemento, cemento, alberi di cemento coperti di vere foglie, un cinghiale di cemento armato, ma con all'interno un vero cranio di cinghiale, delle pecore di cemento coperte di vera lana. Finalmente Camille Renault aveva ritrovato la sostanza originaria, la pasta in cui le cose diverse non si distinguono che per sfumature 'realistiche': il cranio del cinghiale, le foglie degli alberi - ma non si trattava indubbiamente che d'una concessione del demiurgo per i visitatori... perché era con un sorriso adorabile che questo buon dio di ottant'anni faceva visitare la sua creazione. Non se la prendeva con la creazione divina, semplicemente la rifaceva per renderla più intelligibile. Nulla d'una rivolta luciferina, d'una volontà parodistica, o del partito preso d'un' arte 'naif'. Il cuoco delle Ardenne regnava semplicemente su una sostanza mentale unificata (perché il cemento è una sostanza "mentale", esso consente, come il concetto, di ordinare i fenomeni e di ricavarveli a volontà). Il suo progetto non era lontano da quello dei costruttori di stucco dell'arte barocca, né molto diverso dalla proiezione sul terreno d'una comunità urbana nei "grands ensembles" attuali. La contraffazione non opera ancora che sulla sostanza e la forma, non ancora sulle relazioni e le strutture ma essa aspira già, a quel livello, al controllo d'una società pacificata, modellata in una sostanza sintetica che sfugga alla morte: un artefatto indistruttibile che garantirà l'eternità del potere. Il miracolo dell'uomo non è forse d'aver inventato, con la plastica, una materia non-degradabile - interrompendo così il ciclo che, attraverso la putrefazione e la morte, trasferiva dall'una all'altra tutte le sostanze del mondo? Una sostanza fuori ciclo, di cui anche il fuoco lascia un residuo indistruttibile: c'è in questo qualcosa di inaudito, simulacro in cui si condensa l'ambizione d'una semiotica universale. Questo non ha più nulla a che vedere con un 'progresso' tecnologico o una mira razionale della scienza. É un progetto di egemonia politica e mentale, il fantasma d'una sostanza mentale chiusa, come quegli angeli di stucco barocchi le cui estremità si ricongiungevano in uno specchio curvo.


 


L'automa e il robot

 


Un mondo intero separa questi due essere artificiali. Uno è la contraffazione teatrale, meccanica e orologiaia dell'uomo; la tecnica vi è completamente sottomessa all'"analogia" e all'effetto di simulacro. L'altro è dominato dal principio tecnico, è la macchina che lo trascina, e con la macchina è l'"equivalenza" che s'installa. L'automa funziona come l'uomo di corte e di buona compagnia, partecipa al gioco teatrale e sociale di prima della Rivoluzione. Il robot, invece, come indica il suo nome, 26 lavora: finito il teatro, ha inizio la meccanica umana. L'automa è l'"analogon" dell'uomo e rimane il suo interlocutore (gioca a scacchi con lui!). La macchina è l'"equivalente" dell'uomo e se lo annette come equivalente nell'unità d'un processo operativo. Questa è tutta la differenza tra un simulacro di primo ordine e un simulacro di secondo ordine. Non bisogna quindi ingannarsi sulla somiglianza 'figurativa'. L'automa è un interrogativo sulla natura, sul mistero dell'anima o no, sul dilemma delle apparenze e dell'essere - è come Dio: cosa c'è sotto, cosa c'è dentro, cosa c'è dietro? Solo la contraffazione dell'uomo permette di porre questi problemi. Tutta la metafisica dell'uomo come protagonista del "teatro naturale" della creazione s'incarna nell'automa, prima di sparire con la Rivoluzione. E l'automa non ha altra destinazione che quella d'essere incessantemente messo a confronto con l'uomo vivente - intende essere più naturale di lui, di cui è la figura ideale. Doppio perfetto dell'uomo persino nella scioltezza dei gesti, persino nel funzionamento degli organi e della sua intelligenza - fino a rasentare l'angoscia che ci sarebbe ad accorgersi che non c'è nessuna differenza, che quindi è finita per l'anima a vantaggio d'un corpo idealmente naturalizzato. Sacrilegio. Questa differenza è quindi sempre mantenuta, come nel caso di quell'automa così perfetto che l'illusionista, sulla scena, mimava i suoi movimenti a scatti, affinché almeno, anche se i ruoli erano invertiti, la confusione fosse impossibile. Così l'interrogativo dell'automa rimane aperto, il che fa di lui una meccanica ottimista, anche se la contraffazione implica sempre una connotazione diabolica.27


Nulla di simile con il robot. Il robot non interroga più le apparenze, la sua sola verità è la sua efficacia meccanica. Non è più volto verso la somiglianza con l'uomo, al quale d'altronde non si confronta più. L'infima differenza metafisica che costituiva il mistero e il fascino dell'automa non esiste più: il robot l'ha assorbita a suo vantaggio. L'essere e l'apparenza si sono fusi in un'unica sostanza di produzione e di lavoro. Il simulacro di primo ordine non abolisce mai la differenza: presuppone sempre la divergenza sempre sensibile del simulacro e del reale (gioco particolarmente sottile nella pittura "en trompe-l'oeil"). Il simulacro di secondo ordine, invece, semplifica il problema assorbendo le apparenze, o liquidando il reale, come si vorrà - erige in ogni caso una realtà senza immagine, senz' eco, senza specchio, senza apparenza: tale è appunto il lavoro, tale la macchina, tale l'intero sistema di produzione industriale in quanto si oppone radicalmente al principio dell'illusione teatrale. Non più somiglianza né dissomiglianza, di Dio o dell'uomo, ma una logica immanente del principio operativo.


A partire da questo, i robot e le macchine possono proliferare, è anzi la loro legge - cosa che gli automi non hanno mai fatto, essendo meccanici sublimi e singolari. Gli uomini stessi non hanno cominciato a proliferare che quando hanno assunto lo statuto di macchine, con la rivoluzione industriale: liberati da qualsiasi somiglianza, liberati persino del loro doppio, crescono come il sistema produttivo, di cui non sono più che l'equivalente miniaturizzato. La rivincita del simulacro, che alimenta il mito dell'apprendista stregone, non si realizza con l'automa - essa è invece la legge del secondo ordine: c'è sempre l'egemonia del robot, della macchina, del lavoro morto sul lavoro vivo, che ne deriva. Questa egemonia è necessaria al ciclo della produzione e della riproduzione. É con questo capovolgimento che si esce dalla contraffazione per entrare nella (ri)-produzione. Si esce dalla legge naturale e dai suoi giochi di forme per entrare nella legge mercantile del valore e dei suoi calcoli di forze.


 


Il simulacro industriale

 


Una nuova generazione di segni e di oggetti sorge con la rivoluzione industriale. Segni senza tradizione di casta, che non avranno mai conosciuto le restrizioni di statuto - e che non dovranno quindi più essere "contraffatti", perché saranno fin dall'inizio prodotti su una scala gigantesca. Il problema della loro singolarità e della loro origine non si pone più: la tecnica è la loro origine, non hanno senso che nella dimensione del simulacro industriale.


Cioè la serie. Cioè la stessa possibilità di due o di "n" oggetti identici. Tra di essi, la relazione non è più quella tra un originale e la sua contraffazione, né analogia né riflesso, ma l'equivalenza, l'indifferenza. Nella serie, gli oggetti diventano simulacri indefiniti gli uni degli altri e, con gli oggetti, gli uomini che li producono. Solo l'estinzione della referenza originale permette la legge generalizzata delle equivalenze, cioè "la possibilità stessa della produzione".


Tutta l'analisi della produzione crolla se non vi si vede più un processo originale, cioè quello che è all'origine di tutti gli altri, ma al contrario un processo di riassorbimento di qualsiasi essere originale e d'introduzione a una serie di esseri identici. Fin qui si è considerato la produzione e il lavoro come potenziale, come forza, come processo storico, come attività generica: mito energetico-economico proprio della modernità. Bisogna chiedersi se la produzione non interviene, "nell'ordine dei segni", come una fase "particolare" - se essa non è in fondo che un episodio nella discendenza dei simulacri: quello, precisamente, di produrre, grazie alla tecnica, degli esseri (degli oggetti/segni) potenzialmente identici in serie indefinite.


Le energie favolose che sono in gioco nella tecnica, l'industria e l'economia, non devono nascondere che si tratta in fondo soltanto di giungere a questa riproducibilità indefinita che è certo una sfida all'ordine 'naturale', ma in definitiva un simulacro 'di secondo ordine' e una soluzione immaginaria molto povera al dominio del mondo. Rispetto all'era della contraffazione, del doppio, dello specchio, del teatro, del gioco delle maschere e delle apparenze, l'era seriale e tecnica della produzione è, tutto sommato, un'era di minore levatura (quella che segue, l'era dei modelli di simulazione, quella dei simulacri di terzo ordine, è d'una dimensione ben più notevole).


Walter Benjamin, ne "L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica", ha tratto per primo le implicazioni essenziali di questo principio di riproduzione. Egli dimostra che la riproduzione assorbe il processo produttivo, ne cambia le finalità, altera lo statuto del prodotto e del produttore. Lo dimostra nel campo dell'arte, dal cinema e dalla fotografia, perché qui si aprono, nel ventesimo secolo, territori nuovi, senza tradizione di produttività 'classica', posti fin dall'inizio sotto il segno della riproduzione - ma noi sappiamo che oggi tutta la produzione materiale rientra in questa sfera. Noi sappiamo oggi che al livello della riproduzione - moda, media, pubblicità, reti d'informazione e di comunicazione - al livello di quelli che Marx chiamava negligentemente i "faux frais" del capitale (si può misurare l'ironia della storia), cioè nella sfera dei simulacri e del codice, si stabilisce l'unità del processo d'assieme del capitale. Per primo, Benjamin (e più tardi McLuhan) coglie la tecnica non come 'forza produttiva' (là dove si rinchiude l'analisi marxista) ma come medium, come forma e principio di tutta una nuova generazione del senso. Il solo fatto che una cosa qualsiasi possa essere semplicemente riprodotta, tale quale, in duplice esemplare, è già una rivoluzione: basta pensare allo sbalordimento dei negri al vedere per la prima volta due libri identici. Che questi due prodotti della tecnica siano "equivalenti" sotto il segno del lavoro sociale necessario è meno essenziale, a lungo termine, della ripetizione seriale del medesimo oggetto (che è anche quella dell'individuo come forza-lavoro). La tecnica come medium prevale non soltanto sul 'messaggio' del prodotto (il suo valore d'uso) ma anche sulla forza-lavoro, della quale Marx vuol fare il messaggio rivoluzionario della produzione. Benjamin e McLuhan hanno visto più chiaro di Marx: hanno visto che il vero messaggio, "il vero ultimatum era nella produzione stessa". E che la produzione non ha senso: la sua finalità sociale si perde nella serialità. I simulacri prevalgono sulla storia.


D'altronde, questo stadio della riproduzione seriale (quello del meccanismo industriale, della catena di montaggio, della riproduzione allargata, eccetera) è effimero. Dal momento in cui il lavoro morto prevale sul lavoro vivo, cioè dalla fine dell'accumulazione primitiva, la produzione seriale cede il passo alla produzione mediante i modelli. E qui si tratta d'un capovolgimento d'origine e di finalità, perché tutte le forme cambiano a partire dal momento in cui non sono più meccanicamente riprodotte ma "concepite a partire dalla loro stessa riproducibilità", diffrazione a partire da un nocciolo centrale chiamato modello. Qui siamo nei simulacri di terzo ordine. Non c'è più contraffazione d'un originale come nel primo ordine, ma nemmeno serie pura come nel secondo: ci sono dei modelli dai quali procedono tutte le forme secondo modulazioni di differenze. Solo l'affiliazione al modello ha senso, e nulla procede più secondo il suo fine, ma procede dal modello, 'significante di riferimento' che è come una finalità anteriore, e l'unica verosimiglianza. Siamo nella simulazione nel senso moderno del termine, nella quale l'industrializzazione non è che la forma primaria. In definitiva, non è la riproduzione seriale fondamentale, bensì la modulazione; non le equivalenze quantitative, bensì le opposizioni distintive; non più la legge delle equivalenze, bensì la commutazione dei termini - non più la legge mercantile, bensì la legge strutturale del valore. E non solo non bisogna cercare nella tecnica o nell'economia i segreti del codice, è al contrario la possibilità stessa della produzione che va cercata nella genesi del codice e dei simulacri. Ogni ordine si sottomette all'ordine precedente. Come l'ordine della contraffazione è stato afferrato da quello della produzione seriale (si veda come l'arte è passata interamente nella 'macchinalità'), così tutto l'ordine della produzione è in procinto di riversarsi nella simulazione operativa.


Le analisi di Benjamin, e quelle di McLuhan, si situano a questi confini della riproduzione e della simulazione. Al punto in cui la ragione referenziale sparisce, e in cui la produzione è presa dalla vertigine. É in questo che esse segnano un progresso decisivo sulle analisi di Veblen e Goblot: questi, descrivendo ad esempio i segni di moda, si riferiscono ancora alla configurazione classica: i segni costituiscono un materiale distintivo, hanno una finalità e un uso di prestigio, di statuto, di differenziazione sociale. Manifestano una strategia contemporanea a quella del profitto e della merce in Marx, in un momento in cui si può ancora parlare d'un valore d'uso del segno o della forza-lavoro, in cui semplicemente si può ancora parlare d'economia, perché c'è ancora una Ragione del segno, e una Ragione della produzione.


 


La metafisica del codice

 


"Il matematico Leibniz vedeva addirittura nell'eleganza mistica del sistema binario di zero e uno l'immagine della creazione. Secondo lui infatti l'unità dell'Essere Supremo che agisce nel nulla mediante funzione binaria sarebbe stata sufficiente a far sgorgare dal nulla tutti gli esseri."


McLuhan.


 


I grandi simulacri costruiti dall'uomo passano da un universo di leggi naturali a un universo di forze e di tensioni di forze, oggi a un universo di strutture e di opposizioni binarie. Dopo la metafisica del l'essere e delle apparenze, dopo quella dell'energia e della determinazione - quella dell'indeterminismo e del codice. Controllo cibernetico, generazione mediante i modelli, modulazione differenziale, retroazione, domanda/risposta, eccetera: questa è la nuova configurazione "operativa" (i simulacri industriali non essendo che "operatori"). La digitalità è il suo principio metafisico (il Dio di Leibniz) e il DNA è il suo profeta. É infatti nel codice genetico che la 'genesi dei simulacri' trova oggi la sua forma perfetta. Al limite d'uno sterminio sempre più spinto delle referenze e delle finalità, d'una perdita delle somiglianze e delle designazioni, si trova il segno digitale e programmatico, il cui 'valore' è puramente "tattico", all'intersezione di altri segnali (corpuscoli d'informazione/test), e la cui struttura è quella d'un codice micromolecolare di comando e di controllo.


A questo livello, la questione dei segni, della loro destinazione razionale, del loro reale e del loro immaginario, della loro rimozione, del loro deviamento, dell'illusione che essi designano, di ciò di cui tacciono o dei loro significati paralleli - tutto questo è cancellato. Abbiamo già visto i segni del primo ordine, segni complessi e ricchi d'illusione, trasformarsi, con le macchine, in segni bruti, opachi, industriali, ripetitivi, senza echi, operatori ed efficaci. Quale trasformazione ancora più radicale con i segnali del codice, illeggibili, senza interpretazione possibile, sepolti come matrici programmatiche a distanza di anni-luce nel fondo del corpo 'biologico' - scatole nere dove si alimentano tutti i comandi, tutte le risposte. Finito il teatro della rappresentazione, lo spazio dei segni, del loro conflitto, del loro silenzio: soltanto la scatola nera del codice, la molecola che emette segnali di cui siamo irradiati, attraversati da domande/risposte come da radiazioni segnaletiche, controllati senza interruzione dal nostro stesso programma inscritto nelle cellule. Cellule carcerarie, cellule elettroniche, cellule di partito, cellule microbiologiche: è sempre la ricerca del più piccolo elemento indivisibile, la cui sintesi organica si farà secondo i dati del codice.


Ma il codice stesso non è che una cellula genetica, generatrice, nella quale miriadi d' intersezioni producono tutte le domande e le soluzioni possibili, a condizione (per chi?) di scegliere. Queste 'domande' (impulsi informatici e segnaletici) non hanno altra finalità che la risposta, geneticamente immutabile, o modulata da differenze minime e aleatorie. Spazio ancor più lineare o unidimensionale: spazio "cellulare" di generazione indefinita dei medesimi segnali, che sono come i tic d'un prigioniero pazzo di solitudine e di ripetizione. Tale è il codice genetico: un disco inceppato, immutabile, di cui non siamo più che le cellule di lettura. Tutta l'aura del segno, la significazione stessa è risolta con la determinazione tutto è risolto nell'inscrizione e la decodificazione.


Tale è il simulacro di terzo ordine, il nostro tale è l''eleganza mistica del sistema binario, dello zero e dell'uno', da cui procedono tutti gli esseri, tale è lo statuto del segno, che è così la fine della significazione: il DNA o la simulazione operativa.


Tutto questo è perfettamente riassunto da Sebeok:


 


"Numerosissime osservazioni sostengono l'ipotesi che l'intero mondo organico sia disceso in linea retta dalle forme primordiali di vita; il fatto più notevole è l'ubiquità della molecola DNA. Il materiale genetico di tutti gli organismi conosciuti sulla terra è in gran parte composto dagli acidi nucleici DNA e RNA, che contengono nelle loro strutture l'informazione che viene trasmessa per riproduzione da una generazione all'altra, e che è inoltre dotata della capacità di autoriprodursi ed imitare. In breve, il codice genetico 'è universale o quasi'; la sua decifrazione è stata una scoperta sbalorditiva, in quanto ha mostrato che 'i due linguaggi dei grandi polimeri, il linguaggio dell'acido nucleico e il linguaggio delle proteine, sono strettamente collegati' (Crick, 1966; particolari in Clarck e Marcker, 1968). Il matematico sovietico Liapunov ha dimostrato inoltre (1963) che tutti i sistemi viventi trasmettono attraverso canali prescritti in modo preciso, piccole quantità di energia o di materia contenenti un grande volume di informazione, che è responsabile del successivo controllo di grandi quantità di energia e di materia. In questo modo, numerosissimi fenomeni sia biologici che culturali (immagazzinamento, "feedback", incanalazione dei messaggi e simili) possono essere intesi come aspetti del trattamento dell'informazione. In ultima analisi, l'informazione viene in gran parte intesa come ripetizione di informazione, o anche come un'altra specie di informazione, una sorta di controllo che sembra essere una proprietà universale della vita terrestre, indipendentemente dalla forma o dalla sostanza.


Cinque anni fa, io richiamai l'attenzione su una prospettiva nuova e sorprendente: la convergenza della genetica con la linguistica, e osservai che entrambe si distinguono 'come discipline autonome ma parallele nel più ampio campo delle scienze della comunicazione, del quale fa parte, più in generale, anche la zoosemiotica' (Sebeok, 1963). La terminologia della genetica è piena di espressioni prese dalla linguistica e dalla teoria della comunicazione, come è stato recentemente notato da Jakobson (1968), che ha anche sottolineato sia le principali somiglianze che le importanti differenze tra le strutture e le funzioni rispettivamente dei codici genetici e verbali [...] oggi è chiaro che il codice genetico dev'essere considerato la più fondamentale tra tutte le reti semiotiche, e quindi il prototipo di tutti gli altri sistemi di segnalazione usati dagli animali, compreso l'uomo. Da questo punto di vista, le molecole che sono sistemi di quanti e si comportano come veicoli stabili di informazione fisica, i sistemi zoosemiotici e i sistemi culturali, compreso il linguaggio, costituiscono una catena continua di stadi, con livelli energetici sempre più complessi, entro un'unica evoluzione universale. É quindi possibile descrivere sia il linguaggio che i sistemi viventi dal punto di vista cibernetico unitario. Per il momento, tuttavia, questa è forse soltanto un'utile analogia o, come è auspicabile, una previsione [...] un reciproco avvicinamento tra genetica, studi sulla comunicazione animale e linguistica può condurre a una completa conoscenza della dinamica della semiosi, e tale conoscenza può rivelarsi, in ultima analisi, nientemeno che una definizione della vita."28


 


Così si delinea il modello strategico attuale, che ovunque dà il cambio al grande modello ideologico che fu a suo tempo l'economia politica.


Lo si ritroverà, sotto il segno rigoroso della 'scienza', ne "Il caso e la necessità" di Jacques Monod. Finita l'evoluzione dialettica, è l'indeterminismo discontinuo del codice genetico che governa la vita - il principio teleonomico: la finalità non è più al termine, non c'è più un termine, né una determinazione - la finalità è là fin dall'inizio, inscritta nel codice. Come si vede, nulla è cambiato - semplicemente l'ordine dei fini cede al gioco delle molecole, e l'ordine dei significati al gioco dei significanti infinitesimali, ridotti alla loro commutabilità aleatoria. Tutte le finalità trascendenti ridotte a un pannello di comando. E tuttavia sempre il ricorso a una natura, all'iscrizione in una natura 'biologica': in effetti una natura fantasticata, come lo è sempre stata, santuario metafisico non più dell'origine e delle sostanze, ma questa volta del codice: bisogna che il codice abbia una base 'oggettiva'. Che c'è di meglio per questo della molecola e la genetica? Di questa trascendenza molecolare, Monod è il teologo severo, Edgar Morin il sostenitore estasiato (A.D.N. uguale Adona‹!). Ma nell'uno come nell'altro il fantasma del codice, che equivale alla realtà del potere, si confonde con l'idealismo della molecola.


Si ritrova l'illusione delirante di riunificare il mondo sotto un unico principio - quello d'una sostanza omogenea nei gesuiti della Controriforma, quello del codice genetico nei tecnocrati della scienza biologica (ma anche linguistica), con Leibniz e la sua divinità binaria come precursore. Perché il programma qui preso di mira non ha nulla di genetico, è un programma sociale e storico. Ciò che è ipostatizzato nella biochimica è l'ideale d'un ordine sociale governato da una sorta di codice genetico, di calcolo macromolecolare, di P.P.B.S. (Planning Programming Budgeting System) irradiante il corpo sociale dai suoi circuiti operativi. La tecnocibernetica trova qui la sua 'filosofia naturale', come dice Monod. Il fascino del biologico, del biochimico, è sempre stato presente fin dagli inizi della scienza. Esso interveniva nell'organicismo spenceriano (biosociologismo) al livello delle strutture di secondo e terzo ordine (classificazione di Jacob ne "La logica del vivente"), esso gioca al giorno d'oggi con la biologia moderna, al livello delle strutture di quarto ordine.


Similitudini e dissimilitudini codificate: è esattamente l'immagine dello scambio sociale cibernetizzato. Basta aggiungervi un 'complesso stereospecifico' per ri-iniettare una comunicazione intracellulare, che Morin trasformerà in Eros molecolare.


Praticamente e storicamente, ciò significa la sostituzione al controllo sociale mediante il "fine" (e la "provvidenza" più o meno dialettica che veglia al compimento di questo fine) di un controllo sociale mediante la previsione, la simulazione, l'anticipazione programmatrice, la mutazione indeterminata, ma governata dal codice. Invece d'un processo finalizzato secondo il suo sviluppo ideale, si ha a che fare con una generazione da parte del "modello". Invece di una profezia, si ha diritto a una 'iscrizione'. Non c'è una differenza radicale tra le due. Solo mutano e, bisogna dirlo, si perfezionano fantasticamente, gli schemi di controllo. Da una società capitalistica produttivistica a un ordine neo-capitalistico cibernetico: questa è la mutazione alla quale la teorizzazione biologica del codice presta le sue armi. Questa mutazione non ha nulla di 'indeterminato': è la conclusione di tutta una storia in cui, successivamente, Dio, l'Uomo, il Progresso, la Storia stessa muoiono a vantaggio del codice, in cui la trascendenza muore a vantaggio dell'immanenza, dove quest'ultima corrisponde a una fase ben più avanzata nella manipolazione vertiginosa del rapporto sociale.


 


Nella sua riproduzione indefinita, il sistema mette fine al suo mito d'origine, e a tutti i valori referenziali che esso stesso ha emanato lungo il suo processo. Mettendo fine al suo mito d'origine, esso mette fine alle sue contraddizioni interne (non più un reale o un referenziale a cui confrontarlo) - e mette fine anche al mito della sua fine: la rivoluzione stessa. Ciò che si profilava con la rivoluzione era la vittoria delle referenza umana e generica, del potenziale originale dell'uomo. Ma se il capitale cancella dalla lista lo stesso uomo generico (a vantaggio dell'uomo genetico)? L'epoca d'oro della rivoluzione fu quella del capitale, in cui i miti dell'origine e della fine circolavano ancora. Una volta cortocircuitati i miti (e l'unico rischio che abbia corso storicamente il capitale gli è venuto da questa esigenza "mitica" di razionalità che lo ha attraversato fin dall'inizio) in una operatività di fatto, una operatività senza discorso, una volta diventato il suo stesso mito, o piuttosto una macchina indeterminata, aleatoria, qualcosa come un codice genetico sociale, il capitale non lascia più nessuna possibilità a un capovolgimento determinato. É questa la sua vera violenza. Resta da sapere se questa operatività non è essa stessa un mito, se il DNA non è esso stesso un mito.


Una volta per tutte si pone in effetti il problema dello statuto della scienza come discorso. Buona occasione di porlo qui, dove questo discorso s'assolutizza con tale candore. 'É evidente che, da Platone a Whitehead, e da Eraclito a Hegel e Marx, tali costruzioni ideologiche, presentate come se fossero a priori, lo erano in realtà a posteriori e volte a giustificare una teoria etico-politica preconcetta. Per la scienza esiste un solo a priori, il postulato di oggettività, che le evita, o piuttosto le vieta, di partecipare a tale diatriba' (Monod). 29 Ma questo postulato deriva esso stesso da una decisione, mai innocente, di oggettivare il mondo e il 'reale'. Di fatto, è quello della coerenza d'un certo discorso, e tutta la scientificità non è indubbiamente che lo spazio di questo discorso, che non si dà mai come tale, e il cui simulacro 'oggettivo' copre la parola politica, strategica. Un po' più avanti, d'altronde, Monod ne esprime molto bene l'arbitrarietà: 'Ci si può chiedere naturalmente se tutte le invarianze, conservazioni e simmetrie che formano la trama del discorso scientifico non siano finzioni che si sono sostituite alla realtà per darne un'immagine operativa [...] logica anch'essa fondata su un principio d'identità puramente astratto, forse "convenzionale". Convenzione di cui tuttavia la ragione umana sembra incapace di fare a meno.' Non si saprebbe dire meglio di così che la scienza decide di se stessa come formula generatrice, come discorso modello, sulla fede d'un ordine convenzionale (non importa quale, d'altronde: quello d'una riduzione totale). Ma Monod accenna rapidamente a questa ipotesi pericolosa d'un principio d'identità 'convenzionale'. É meglio fondare la scienza sul solido, su una realtà 'oggettiva'. La fisica è là a testimoniare che l'identità non è soltanto un postulato - essa è "nelle cose", perché c'è una 'assoluta identità di due automi che si trovino nello stesso stato quantico' - Allora? Convenzione o realtà oggettiva? La verità è che la scienza s'organizza, come qualsiasi discorso, su una logica convenzionale, ma che essa esige per la sua giustificazione, come qualsiasi discorso ideologico, una referenza reale, 'oggettiva', in un processo sostanziale. Se il principio d'identità è 'vero' in qualche posto, fosse pure al livello infinitesimale di due atomi, allora tutto l'edificio convenzionale della scienza che ad esso s'ispira sarebbe anch'esso 'vero'.


L'ipotesi del codice genetico, il DNA, è anch'essa vera, e insuperabile. Così va la metafisica. La scienza rende conto delle cose preliminarmente scelte e formalizzate per obbedirle - l''oggettività' non è nient'altro che questo, e l'etica che viene a sanzionare questa conoscenza oggettiva non è mai che il sistema di difesa e di disconoscimento che vuole preservare questo circolo vizioso. 30 'Abbasso tutte le ipotesi che hanno permesso la credenza in un mondo vero', diceva Nietzsche.


 


Il tattile e il digitale

 


Questa regolazione sul modello del codice genetico non si limita affatto a degli effetti di laboratorio o a delle visioni esaltate di teorici. É la vita più banale che è investita da questi modelli. La digitalità è tra di noi. É essa che assilla tutti i messaggi, tutti i segni delle nostre società, poiché la forma più concreta sotto la quale la si può ritrovare è quella del test, della domanda/risposta, dello stimolo/risposta. Tutti i contenuti sono neutralizzati da una procedura continua d' interrogazioni dirette ["dirigées"], di verdetti e di ultimatum da decodificare, che non vengono più questa volta dal fondo del codice genetico, ma che ne hanno la medesima indeterminazione tattica - dato che il ciclo del senso è infinitamente abbreviato in quello della domanda/risposta, del bit, o quantità minima d'energia/informazione che ritorna al suo punto di partenza, ciclo che non descrive che la riattualizzazione perpetua dei medesimi modelli. L'equivalente della neutralizzazione totale dei significati da parte del codice è l'istantaneità del giudizio di moda, o di ogni messaggio pubblicitario o mediatico. E ovunque l'offerta divora la domanda, la domanda divora la risposta, o l'assorbe e la rigurgita sotto forma decodificabile, o l'inventa e l'anticipa sotto forma prevedibile. Ovunque il medesimo '"copione"', copione dei 'tentativi ed errori' (quelli delle cavie nei test di laboratorio), copione del ventaglio di scelte offerto dovunque ('Fate un test della vostra personalità') - ovunque il test come forma sociale fondamentale di controllo, per divisibilità infinita delle pratiche e delle risposte.


Noi viviamo sul modo del "referendum", proprio perché non c'è più un referenziale. Ogni segno, ogni messaggio (tanto gli oggetti d'uso 'funzionale' quanto una trovata di moda o una qualsiasi informazione televisiva, sondaggio o consultazione elettorale) ci si presenta come domanda/risposta. Tutto il sistema di comunicazione è passato da una struttura sintattica complessa di linguaggio a un sistema binario e segnaletico di domanda/risposta - di "test" perpetuo. Ora i test e i referendum sono, come si sa, delle forme perfette di simulazione: la risposta è indotta dalla domanda, è "design"-ata in anticipo. Il "referendum non è quindi mai che un ultimatum": unilateralità della domanda, che non è propriamente più una interrogazione, ma l'imposizione immediata d'un senso in cui il ciclo si compie tutto d'un colpo. Ogni messaggio è un verdetto, come quello che cade dalle statistiche d'un sondaggio. Il simulacro di distanza (anzi di contraddizione) tra i due poli non è, come l'effetto di reale all'interno stesso del segno, che una allucinazione tattica.


Benjamin analizza concretamente, al livello dell'apparato tecnico, questa operazione del test:


 


"La prestazione artistica dell'attore cinematografico viene presentata attraverso un'apparecchiatura. Quest'ultimo elemento ha due conseguenze diverse. L'apparecchiatura che propone al pubblico la prestazione dell'interprete cinematografico non è tenuta a rispettare questa prestazione nella sua totalità. Manovrata dall'operatore, essa prende costantemente posizione nei confronti della prestazione stessa. La serie di prese di posizione che l'autore del montaggio compone sulla base del materiale che gli viene fornito costituisce il film definitivo. [...] Così la prestazione dell'interprete viene sottoposta a una serie di test ottici. [...] Seconda conseguenza [...] il pubblico [non avendo più un contatto personale con l'attore] viene così a trovarsi nella posizione di chi è chiamato a esprimere una valutazione senza poter essere turbato da alcun contatto personale con l'interprete. Il pubblico s'immedesima all'interprete soltanto immedesimandosi all'apparecchio. Ne assume quindi l'atteggiamento: fa un test.31


[...] L'ampliamento del campo di ciò che è certificabile mediante test, ampliamento che l'apparecchiatura realizza nella persona dell'interprete cinematografico, corrisponde allo straordinario ampliamento del campo del certificabile mediante test, intervenuto, per l'individuo, in conseguenza delle circostanze economiche. Così cresce costantemente l'importanza delle prove volte a stabilire le attitudini professionali. In queste prove professionali si verificano frammenti della prestazione dell'individuo. La ripresa cinematografica e la prova di attitudine professionale nascono dallo stesso grembo, costituito dagli esperti. Il direttore di scena negli studi cinematografici occupa esattamente la stessa posizione che nelle prove professionali è occupata dal direttore dell'esperimento.32


Coi dadaisti [...] l'opera d'arte diventò un proiettile. Venne proiettata contro l'osservatore. Assunse una qualità tattile. In questo modo ha favorito l'esigenza di cinema, il cui elemento diversivo è appunto in primo luogo di ordine tattile, si fonda cioè sul mutamento dei luoghi d'azione e delle inquadrature, che investono gli spettatori a scatti."33


 


La contemplazione è impossibile, le immagini frammentano la percezione in sequenze successive, in stimoli ai quali non vi è risposta se non istantanea mediante dei 'sì' o dei 'no' - reazione abbreviata al massimo. Il film non permette più che vi interroghiate su di esso: vi interroga in diretta. É in questo senso che i media moderni esigono, secondo McLuhan, una maggiore partecipazione immediata, 34 una risposta incessante, una plasticità totale (Benjamin paragona l'operazione del cameramen a quella del chirurgo: tattilità e manipolazione). Il ruolo dei messaggi non è più d'informazione, ma di test e di sondaggio, e in definitiva di controllo ('contro-ruolo', nel senso che tutte le vostre risposte sono già iscritte sul 'ruolo', sul registro anticipato del codice). Il montaggio e la codificazione esigono in effetti che il ricevente smonti e decodifichi secondo il medesimo processo. Ogni lettura del messaggio non è quindi che un esame perpetuo del codice.


Ogni immagine, ogni messaggio mediatico, ma anche qualsiasi oggetto funzionale circostante, è un test - cioè, in tutto il rigore del termine, libera dei meccanismi di risposta secondo stereotipi o modelli analitici. Al giorno d'oggi, l'oggetto non è più 'funzionale' nel senso tradizionale del termine, non vi serve: vi sottopone a un test. Non ha più nulla a che vedere con l'oggetto anteriore, non più che l'informazione mediatizzata con una 'realtà' dei fatti. Entrambi, oggetti e informazioni, risultano già da una selezione, da un montaggio, da una 'ripresa'; hanno già sottoposto a un test la 'realtà' e non le hanno posto che le domande che loro 'rispondevano', hanno analizzato la realtà in elementi semplici che hanno ricomposto in copioni di opposizioni regolate, esattamente come il fotografo impone al suo soggetto i suoi contrasti, le sue luci, le sue angolazioni (qualsiasi fotografo ve lo dirà: si può fare di tutto, basta cogliere l'originale sotto la buona angolazione, nell'istante o nell'inflessione che faranno di lui la "risposta esatta" al test istantaneo dell'apparecchio e del suo codice) - esattamente come il test o il referendum quando traducono qualsiasi conflitto o problema in un gioco di domanda/risposta - e la realtà così messa alla prova vi mette alla prova a sua volta secondo la medesima griglia, e vi decodifica secondo il medesimo codice, inscritto in essa in ogni messaggio, in ogni oggetto, come un codice genetico miniaturizzato.


Il fatto che tutto si presenti oggi secondo un ventaglio o una gamma, questo solo fatto vi sottopone già a un test, perché vi impone di scegliere. Ciò si avvicina all'uso globale che noi abbiamo del mondo circostante della "lettura", e della decifrazione selettiva - noi viviamo meno come utenti che come lettori e selettori, cellule di lettura. Ma attenzione: nel medesimo istante siete costantemente selezionati anche voi, e sottoposti a test dal medium stesso. Come si seleziona un campione per un'indagine, tutti i media inquadrano e ritagliano mediante i loro fasci di messaggi, che sono in realtà un fascio di domande selezionate, dei campioni di ricevitori. Mediante un'operazione circolare d'aggiustamento sperimentale, d'interferenza incessante, come quelli d'influsso nervosi, tattili e retrattili, che esplorano un oggetto a forza di brevi sequenze percettive, fino a localizzarlo e controllarlo - ciò che essi così localizzano e strutturano non sono dei gruppi reali e autonomi, ma dei campioni, vale a dire socialmente e mentalmente modellizzati mediante un fuoco di batterie di messaggi. L''opinione pubblica' è evidentemente il più bello di questi campioni - non una sostanza politica irreale, ma iperreale, l'iperrealtà fantastica che non vive che di montaggio e di manipolazione testuale.


L'irruzione dello schema binario domanda/risposta ha una portata incalcolabile: essa disarticola ogni discorso, cortocircuita tutto ciò che fu, in un'età dell'oro ormai tramontata, dialettica d'un significante e d'un significato, d'un rappresentante e d'un rappresentato. Finiti gli oggetti il cui significato sarebbe la funzione, finita l'opinione il cui suffragio andrebbe a dei rappresentanti 'rappresentativi', finita l'interrogazione reale alla quale risponde la risposta (finite soprattutto le domande alle quali non esiste risposta). Tutto questo processo è disarticolato: il processo contraddittorio del vero e del falso, del reale e dell'immaginario è abolito in questa logica iperreale del montaggio. Michel Tort, nel suo libro sul "Quotient Intellectuel", l'analizza molto bene: 'Ciò che determina la risposta alla domanda non è la domanda in quanto tale, nella forma in cui è stata posta: è il senso che a tale domanda attribuisce colui al quale essa è stata posta, è quindi l'idea che il soggetto interrogato si fa sulla tattica più appropriata da adottare per rispondere in funzione dell'idea che egli si fa delle aspettative dell'interrogazione.' E ancora: 'L'artefatto è una cosa completamente diversa da una trasformazione controllata dell'oggetto al fine di conoscerlo: è un intervento selvaggio sulla realtà, al termine del quale è impossibile distinguere ciò che, nella realtà, dipende da una conoscenza oggettiva e ciò che dipende dall'intervento tecnico (medium). Il Q.I. è un artefatto.' Nulla è più né vero né falso, poiché non esiste più uno scarto fra domanda e risposta. Alla luce dei test, l'intelligenza - come l'opinione, e più generalmente tutti i processi di significazione - si riduce alla 'capacità di produrre delle reazioni contrastate a una gamma crescente di stimoli adeguati.'


Tutta questa analisi rinvia direttamente alla formula di McLuhan: '"Medium is message"'. É in effetti il medium, il modo stesso di montaggio, di sceneggiatura, d'interpretazione, di sollecitazione, di ingiunzione da parte del medium, che regola il processo di significazione. Si comprende perché McLuhan vedeva nell'era dei grandi media elettronici un'era della comunicazione "tattile". In questo processo, si è infatti più vicini all'universo tattile che a quello visuale, dove la distanziazione è maggiore, la riflessione sempre possibile. Nel momento in cui il tatto perde per noi il suo valore sensoriale, sensuale ('il tatto è un'interazione dei sensi piuttosto che un semplice contatto della pelle e d'un oggetto') è possibile che esso ridiventi lo schema d'un universo della comunicazione - ma come campo di simulazione "tattile" e "tattica", dove il messaggio diventa 'massaggio', sollecitazione tentacolare, test. Ovunque vi si sottopone a un test, vi si tasta, il metodo è 'tattico', la sfera della comunicazione è 'tattile'. Per non parlare dell'ideologia del 'contatto', che in tutte le sue forme mira a sostituirsi all'idea di rapporto sociale. C'è tutta una configurazione strategica che ruota intorno al test (la cellula domanda/risposta) come intorno a un codice molecolare di comando.


 


É tutta la sfera politica che perde la propria specificità quando entra nel gioco dei media e dei sondaggi, cioè nella sfera del circuito integrato domanda/risposta. La sfera elettorale è in ogni caso la prima grande istituzione in cui lo scambio sociale si riduce all'ottenimento d'una risposta. É grazie a questa semplificazione segnaletica che essa è la prima a universalizzarsi: il suffragio universale è il primo dei massmedia. Tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, la pratica politica e la pratica economica si riuniranno sempre più in un medesimo tipo di discorso. Propaganda e pubblicità si fonderanno sul medesimo "marketing" e "merchandising" di oggetti o di idee-forza. Questa convergenza di linguaggio tra l'economico e il politico è, d'altronde ciò che contrassegna una società come la nostra, dove l''economia politica' è pienamente realizzata. Ma è anche allo stesso tempo la sua fine, poiché le due sfere si aboliscono in una realtà, o iperrealtà, completamente diversa, che è quella dei media. A questo punto, ancora, elevazione di ogni termine alla potenza superiore, quella dei simulacri di terzo ordine.


'Che molti lamentino la 'corruzione' della politica da parte dei media, deplorando che la manopola della TV e i pronostici P.M.U. (i sondaggi) abbiano sostituito allegramente la formazione d'una opinione, testimonia semplicemente che essi non hanno compreso nulla della politica' ("Le Monde").


Ciò che caratterizza questa fase dell'iperrealismo politico è la congiunzione necessaria tra il sistema bipartitico e l'entrata in gioco dei sondaggi come specchio di questa equivalenza alternativa del gioco politico.


I sondaggi si situano al di là di qualsiasi "produzione" sociale d'opinione. Non si riferiscono più che al simulacro dell'opinione pubblica. Specchio dell'opinione analogo, nel suo genere, a quello del P.N.L.: specchio immaginario delle forze produttive, senza alcun riguardo alla loro finalità o controfinalità sociale - l'essenziale è che 'ciò' si riproduca - lo stesso vale per l'opinione pubblica: l'essenziale è che essa si raddoppi incessantemente nella propria immagine: è qui il segreto di una rappresentazione di massa. Non occorre più che qualcuno "produca", bisogna che tutti "riproducano" l'opinione pubblica, nel senso che tutte le opinioni si riversano in questa specie di equivalente generale, e ne derivano di nuovo (lo riproducono, qualunque ne abbiano, al livello della scelta individuale). Per le opinioni, come per i beni materiali, la produzione è morta, viva la riproduzione!


Se c'è un posto dove la scelta di McLuhan ha un senso è proprio qui. 35 L'opinione pubblica, per eccellenza, è contemporaneamente medium e messaggio. E i sondaggi che l'informano sono l'imposizione incessante del medium come messaggio. In quanto sono del medesimo genere della TV e dei media elettronici, di cui abbiamo visto che sono anch'essi un gioco perpetuo di domande/risposte, uno strumento di sondaggio perpetuo.


I sondaggi manipolano l'"indecibile". Influiscono sul voto? Vero? Falso? Danno una fotografia esatta della realtà, o delle semplici tendenze, o la rifrazione di questa realtà in un iperspazio della simulazione di cui non si conosce nemmeno la curvatura? Vero, falso? Indecidibile. La più estrema sofisticazione della loro analisi lascia sempre spazio alla reversibilità delle ipotesi. La statistica non è che casuistica. Questa indecidibilità è tipica di tutti i processi di simulazione (si veda sopra l'indecidibilità della crisi). La logica interna di queste procedure (statistiche, probabilità, cibernetica operativa) è certamente rigorosa e 'scientifica', in qualche modo tuttavia non si appoggia a nulla, è una finzione favolosa il cui indice di rifrazione in una realtà (vera o falsa) è nullo. E proprio questo che costituisce la forza di questi "modelli", ma è anche ciò che non lascia loro che la verità dei test proiettivi paranoici d'una casta, o d'un gruppo, che sognano un'adeguazione miracolosa del reale ai loro modelli, e quindi una manipolazione assoluta.


Ciò che è vero per il copione statistico lo è anche per la partizione regolata della sfera politica: alternanza delle forze in causa, maggioranza/minoranza sostitutive, eccetera. A questo limite della rappresentazione pura, 'ciò' non rappresenta più nulla. La politica muore del gioco troppo ben regolato delle sue opposizioni distintive. La sfera politica (e più generalmente quella del potere) si svuota. É in qualche modo il prezzo dell'appagamento del desiderio della classe politica: quello d'una manipolazione perfetta della rappresentanza sociale. Furtivamente e senza far rumore, qualsiasi sostanza sociale se n'è andata da questa macchina nel momento stesso della sua riproduzione perfetta.


Lo stesso accade per i sondaggi: gli unici a crederci sono in definitiva i membri della classe politica, come gli unici a credere veramente alla pubblicità e alle ricerche di mercato sono i "marketers" e i pubblicitari. Questo non per una particolare stupidità (che non è esclusa), ma perché i sondaggi sono omogenei al funzionamento attuale della politica. Essi assumono quindi un valore tattico 'reale', funzionano come un fattore di regolazione della classe politica, secondo la sua stessa regola del gioco. Essa ha quindi fondate ragioni per crederci, e ci crede. Ma chi altro, in fondo? E lo spettacolo burlesco di questa sfera politica, iper-rappresentativa di niente del tutto, che le persone gustano attraverso i sondaggi e i media. C'è un giubilo proprio della nullità spettacolare, e l'ultima forma che esso assume è quella della "contemplazione statistica". Quest'ultima è d'altronde accompagnata sempre, lo si sa, da una delusione profonda - il tipo di disillusione che provocano i sondaggi assorbendo qualsiasi parola pubblica, cortocircuitando qualsiasi processo d'espressione. Il fascino che essi esercitano è proporzionale a questa neutralizzazione da parte del vuoto, della vertigine che essi creano mediante l'anticipazione dell'immagine su tutta la realtà possibile.


Il problema dei sondaggi non è dunque affatto quello del loro influsso oggettivo. Come per la propaganda, come per la pubblicità, questo, lo si sa, è in gran parte annullato dalle resistenze o dalle inerzie individuali o collettive. Il loro problema è quello della simulazione operativa che essi istituiscono su tutta l'estensione delle pratiche sociali, quello della "leucemizzazione" di tutta la sostanza sociale: sostituzione del sangue con la linfa bianca dei media.


 


La circolarità domanda/risposta trova dei prolungamenti In tutti i campi. Ci si accorge lentamente che tutto il campo delle inchieste, dei sondaggi, delle statistiche dev'essere riveduto in funzione di questo sospetto radicale che pesa sul loro metodo. Ma il medesimo sospetto grava sull'etnologia: a meno di ammettere che gli indigeni siano dei perfetti esseri naturali incapaci di simulazione, il problema è sempre il medesimo: impossibilità di ottenere a una domanda "diretta" ["dirigée"] una risposta che non sia "simulata" (che non riproduca la domanda). Non è nemmeno certo che si possano interrogare le piante, le bestie, la materia inerte nelle scienze esatte con una probabilità di ottenere una risposta 'oggettiva'. Quanto alla risposta degli intervistati agli intervistatori, degli indigeni agli etnologi, dell'analizzando all'analista, si può essere certi che la circolarità è totale: gli interrogati si dipingono sempre come la domanda li immagina e li sollecita a essere. Anche il transfert e il contro-transfert psicoanalitico cadono al giorno d'oggi sotto il colpo di questa risposta stimolata, simulata, anticipata; che non è che una modalità della "selffulfilling prophecy". 36 Si giunge allora a uno strano paradosso: la parola degli intervistati, degli analizzati, degli indigeni è irrimediabilmente cortocircuitata e perduta, ed è sulla base di questa forclusione che le rispettive discipline - etnologia, psicoanalisi, sociologia - possono svilupparsi meravigliosamente. Ma esse lo fanno a vuoto, perché è là dove la risposta circolare degli intervistati, degli analizzati, degli indigeni è nonostante tutto una sfida e una rivincita: il fatto è che essi rinviano la domanda a se stessa, la isolano tendendole questo specchio della risposta che essa si aspetta - senza speranza per essa di uscire mai da questo circolo vizioso, che è in effetti "domanda sempre più ostinata (benché anche sempre insoddisfatta) della presenza e della parola dei genitori o degli educatori. Infine soli, liberi e responsabili, gli sembra bruscamente che gli 'altri' abbiano forse conseguito la vera libertà in questa operazione. Inoltre, nemmeno pensarci di lasciarli in pace: li si va a importunare, non per un'esigenza affettiva o materiale spontanea, ma per un'esigenza riveduta e corretta dal sapere edipico implicito. Iperdipendenza (ben maggiore dell'altra) distorta con l'ironia e il rifiuto, "parodia dei meccanismi libidici originali". Domanda senza contenuto, senza referenziali, infondata, ma nondimeno più feroce - domanda nuda senza possibile risposta. Il contenuto di sapere (insegnamento) o di relazioni affettive (famiglia), il referenziale pedagogico o familiare liquidato nell'atto di emancipazione, non resta più che una domanda legata alla forma vuota dell'istituzione - domanda perversa, e nondimeno più ostinata. Desiderio 'transferenziale' (cioè non referenziale irreferenziale), desiderio alimentato dalla mancanza, dal posto vacante 'liberato', desiderio preso alla propria immagine vertiginosa, desiderio di desiderio '"en abyme"' anche qui, iperreale. Privo di sostanza simbolica, si raddoppia in se stesso, trae la propria energia dal proprio riflesso e dalla propria decezione. É questa che è oggi letteralmente la 'domanda', ed è chiaro che, contrariamente alle relazioni oggettuali o transferenziali 'classiche', questa è insolubile e interminabile.


 


L'Edipo simulato.


Fran‡ois Richard: 'Gli studenti chiedono di essere sedotti dal corpo o dalla parola. Ma sanno anche che si tratta di questo, e se ne prendono gioco, ironici: 'da' il tuo sapere, la tua presenza sei tu che hai la parola, parla, sei là per questo. Contestazione, certo, ma non solo: più l'autorità è contestata, derisoria, più c'è una domanda d'una autorità in sé. Recitano anche l'Edipo, per meglio negarlo. Il professore, è papà, lo si dice è buffo, si recita l'incesto, l'eccitazione, il "noli me tangere", il disagio, per desessualizzare finalmente.' Come il paziente che ridomanda l'Edipo, che racconta dei trucchi 'edipici', che fa dei sogni 'analitici', per rispondere alla supposta domanda dell'analista o per resistergli? Allo stesso modo l'insegnante fa il suo numero edipico, il suo numero di seduzione, dà del tu sfiora, s'avvicina, domina - ma non è desiderio, è simulazione. Psicodramma edipico di simulazione (né meno reale né meno drammatico, per questo). Molto diverso da una vera posta in gioco libidica di sapere e di potere oppure da un vero lavoro di lutto sul sapere o sul potere (come ha potuto aver luogo dopo il'68 nelle università). Adesso è la fase della riproduzione disperata, e dove la posta in gioco è nulla, il simulacro è massimo - simulazione esacerbata e parodistica allo stesso tempo - altrettanto interminabile che la psicoanalisi, e per le stesse ragioni.


 


La psicoanalisi interminabile


C'è tutto un capitolo da aggiungere alla storia del transfert e del controtransfert: quello della loro liquidazione per simulazione. Quello del transfert insolubile della psicoanalisi impossibile perché ormai è essa stessa che produce e riproduce l'inconscio come propria sostanza istituzionale. La psicoanalisi muore anch'essa dello scambio dei "segni" dell'inconscio. Esattamente come la rivoluzione muore dello scambio dei segni critici dell'economia politica. Questo cortocircuito era stato pur intravisto da Freud sotto la forma del dono del sogno analitico o, nei pazienti 'pre-didattizzati', del dono del loro sapere analitico. Ma questo s'interpretava ancora come resistenza, come "détour", e non rimetteva sostanzialmente in questione il processo analitico né il processo del transfert. La cosa è diversa quando l'inconscio stesso, il discorso dell'inconscio diventa irreperibile - secondo il medesimo copione dell'anticipazione simulatrice che abbiamo visto funzionare a tutti i livelli delle macchine di terzo ordine. L'analisi allora non può più sciogliersi, diventa logicamente e storicamente interminabile, perché si stabilizza su una sostanza fantoccio di riproduzione, un inconscio programmato dalla domanda - istanza intangibile a partire dalla quale si ridistribuisce tutta l'analisi. Anche qui, i 'messaggi' dell'Inc sono stati cortocircuitati dal 'medium' psicoanalisi. É un iperrealismo libidico. Alle celebri categorie del reale, del simbolico e dell'immaginario, bisognerà aggiungere quella dell'iperreale, che capta e svia il gioco delle altre tre."Quello del potere. Esattamente come nel sistema elettorale, dove i rappresentanti non rappresentano più nulla a forza di controllare tanto bene le risposte del corpo elettorale: da qualche parte tutto gli sfugge. É per questo che la risposta dominata dei dominati è nonostante tutto in qualche modo una vera risposta, una vendetta disperata: quella di lasciare che il potere seppellisca il potere.


 


I sistemi 'democratici avanzati' si stabilizzano sulla formula dell'alternanza bipartitica. Il monopolio di fatto rimane quello d'una classe politica omogenea, dalla sinistra alla destra, ma non deve esercitarsi come tale: il regime del partito unico, del totalitariato, - una forma instabile - essa smorza la scena politica, non assicura più il "feedback" dell'opinione pubblica, il flusso minimale nel circuito integrato che costituisce la macchina transistorizzata del politico. L'alternanza è invece il "non plus ultra" dell'equazione concorrenziale perfetta fra i due partiti. Questo è logico: la democrazia realizza nell'ordine politico la legge dell'equivalenza, e questa legge si realizza nel gioco d'altalena dei due termini, che riattiva la loro equivalenza ma permette, mediante questo minimo scarto, di captare il consenso pubblico e di richiudere il ciclo della rappresentazione. Teatro operativo dove non recita più che il riflesso fuligginoso della Ragione politica. La 'libera scelta' degli individui, che è il credo della democrazia, sbocca in realtà esattamente nell'opposto: il voto è diventato sostanzialmente "obbligatorio": se non lo è di diritto, lo è per la costrizione statistica, strutturale dell'alternanza, rafforzata dai sondaggi. 37 Il voto è diventato sostanzialmente "aleatorio": quando la democrazia raggiunge uno stadio formale avanzato, essa si distribuisce intorno a delle percentuali uguali (50/50). Il voto rassomiglia al moto browniano delle particelle o al calcolo delle probabilità, è come se tutti votassero a caso, è come se votassero delle scimmie.


A questo punto, poco importa che i partiti in causa esprimano storicamente e socialmente checchessia - "bisogna" anzi che non rappresentino più nulla: il fascino del gioco, dei sondaggi, la coazione formale e statistica è tanto maggiore.


Il suffragio universale 'classico' implica già una certa neutralizzazione del campo politico, da parte del consenso sulla regola del gioco. Ma vi si distinguono ancora dei rappresentanti e dei rappresentati, sulla base d'un antagonismo sociale reale delle opinioni. É la neutralizzazione di questo referenziale contraddittorio sotto il segno d'una opinione pubblica ormai uguale a se stessa, mediatizzata e omogeneizzata dall'anticipazione (i sondaggi) che comincia a rendere possibile l'alternanza 'al vertice': simulazione d'opposizione fra due partiti, assorbimento dei loro obiettivi rispettivi, reversibilità di ogni discorso dall'uno all'altro.


É, al di là del rappresentante e del rappresentato, la forma pura della rappresentazione - esattamente come la simulazione caratterizza, al di là del significante e del significato, la forma pura dell'economia politica del segno - esattamente come la fluttuazione delle monete e la loro deriva contabile caratterizzano, al di là del valore d'uso e del valore di scambio, al di là di qualsiasi sostanza di produzione, la forma pura del valore.


 


Può sembrare che il movimento storico del capitale lo porti dalla libera concorrenza verso l'oligopolio, poi verso il monopolio - che il movimento della democrazia vada dal pluripartitismo verso il bipartitismo, poi verso il partito unico. Non è affatto vero: l'oligopolio, o duopolio, attuale deriva dallo "sdoppiamento tattico del monopolio". In tutti i campi, il duopolio è lo stadio raggiunto dal monopolio. Non è la volontà politica (intervento dello stato, leggi anti-trust, eccetera) a spezzare il monopolio del mercato - è che qualsiasi sistema unitario, se vuole sopravvivere, deve trovare una "regolazione binaria". Questo non cambia nulla del monopolio: al contrario, il potere è assoluto solo se sa diffrangersi in varianti equivalenti, se sa sdoppiarsi per moltiplicarsi. Questo va dalle marche di detersivo alla coesistenza pacifica. Ci vogliono due superpotenze per mantenere un universo sotto controllo: un unico impero crollerebbe da se stesso. E l'equilibrio del terrore non è che quello che permette d'instaurare l'opposizione regolata, poiché la strategia è strutturale, non mai atomica. Questa opposizione regolata può d'altronde ramificarsi in un copione più complesso, ma la matrice resta binaria. Non si tratterà più ormai di duello o di lotta concorrenziale aperta, ma di coppie d' opposizioni simultanee.


Dalla più piccola unità disgiuntiva (la particella domanda/risposta) fino al livello macroscopico dei grandi sistemi d'alternanza che governano l'economia, la politica, la coesistenza mondiale, la matrice non cambia: è sempre lo 0/1, la scansione binaria che s'afferma come la forma metastabile, o omeostatica, dei sistemi attuali. Essa è il nocciolo dei processi di simulazione che ci dominano. Essa può organizzarsi in un gioco di variazioni instabili, dalla polivalenza alla tautologia, senza che sia rimessa in causa la forma strategica del dipolo: è la forma divina della simulazione.38


 


Perché ci sono due torri al World Trade Center di New York? Tutti i grandi "buildings" di Manhattan si sono sempre accontentati di affrontarsi in una verticalità concorrenziale, da cui risultava un panorama architettonico a immagine del sistema capitalistico: una giungla piramidale, tutti i "buildings" all'assalto gli uni degli altri. Il sistema stesso si profilava nella celebre immagine che si aveva di New York arrivando dal mare. In alcuni anni questa immagine è completamente cambiata L'effigie del sistema capitalistico è passata dalla piramide alla scheda perforata. I "buildings" non sono più degli obelischi, ma si affiancano gli uni agli altri, senza più sfidarsi, come le colonne d'un grafico statistico. Questa nuova architettura incarna un sistema non più concorrenziale, ma contabile, e in cui la concorrenza è scomparsa a vantaggio delle correlazioni. (New York è l'unica città al mondo, a rappresentare così lungo tutta la sua storia, con una fedeltà prodigiosa e in tutta la sua portata, la forma attuale del sistema del capitale - essa cambia istantaneamente in funzione di quest'ultimo - nessuna città europea l'ha fatto.) Questo grafismo architettonico è quello del monopolio: le due torri del W.T.C., parallelepipedi perfetti di 400 metri d'altezza su base quadrata, vasi comunicanti perfettamente equilibrati e ciechi - il fatto che ve ne siano due identiche "significa" la fine di qualsiasi concorrenza, la fine di qualsiasi referenza originaria.


Paradossalmente, se non ce ne fosse che una, il monopolio non sarebbe incarnato, poiché abbiamo visto che esso si stabilizza su una forma duale. Affinché il segno sia puro, occorre che si raddoppi in se stesso: è il raddoppiamento del segno a mettere veramente fine a ciò che esso designa. Tutto Andy Warhol è qui: le repliche moltiplicate del viso di Marilyn sono allo stesso tempo la morte dell'originale e la fine della rappresentazione. Le due torri del W.T.C. sono il segno visibile della chiusura d'un sistema nella vertigine del raddoppiamento, mentre gli altri grattacieli sono ciascuno il momento originale d'un sistema che si supera continuamente nella crisi e la sfida.


C'è un fascino particolare in questa riduplicazione. Per alte che siano, e più alte di tutte le altre, le due torri significano tuttavia un arresto della verticalità. Esse ignorano gli altri "buildings", non sono della stessa razza, non li sfidano più e non vi si confrontano più, esse si specchiano l'una nell'altra e culminano in questo prestigio della similitudine. Ciò che esse si rinviano è l'idea di modello, che esse sono l'una per l'altra, e la loro altitudine gemella non è più un valore di superamento - essa significa soltanto che la strategia dei modelli e delle commutazioni prevale ormai storicamente nel cuore stesso del sistema - e New York ne è veramente il cuore - sulla strategia tradizionale della concorrenza. I "buildings" del Rockefeller Center specchiavano ancora le loro facciate di vetro e d'acciaio, le une nelle altre, in una specularità indefinita della città. Le torri, invece, sono cieche, non hanno più una facciata. Qualsiasi referenziale di abitazione, di facciata come viso, di interno e di esterno, che si ritrova ancora fino nella Chase Manhattan Bank o nei più audaci "buildings"/specchio degli anni'60, è cancellato. Contemporaneamente alla retorica della verticalità, scompare la retorica dello specchio. Non rimane più che una serie chiusa sulla cifra due, come se l'architettura, a immagine del sistema, non derivasse più che da un codice genetico immutabile, da un modello definitivo.


 


L'iperrealismo della simulazione

 


Tutto questo definisce uno spazio digitale, un campo magnetico del codice, con polarizzazioni, diffrazioni, gravitazioni di modelli e sempre, sempre il flusso delle più piccole unità disgiuntive (la cellula domanda/risposta, che è come l'atomo cibernetico di significazione). É opportuno misurare la differenza di questo campo di controllo con lo spazio repressivo tradizionale, lo spazio poliziesco che corrispondeva ancora a una violenza "significativa". Spazio di condizionamento reazionale che si ispirava a tutto il dispositivo pavloviano di aggressioni programmate, ripetitive, e che si ritrovava a una scala moltiplicata nella pubblicità 'martellante' e nella propaganda politica degli anni '30. Violenza artigianale e industriale, mirante a indurre dei comportamenti di terrore e di obbedienza animale. Tutto ciò non ha più senso.


La concentrazione totalitaria, burocratica è uno schema che risale all'era della legge mercantile del valore. Il sistema delle equivalenze impone in effetti la forma d'un equivalente generale, e quindi la centralizzazione d'un processo globale. Razionalità arcaica in rapporto a quella della simulazione: qui non è più un unico equivalente generale, ma una diffrazione di modelli che svolge un ruolo regolatore - non più la forma dell'equivalente generale, ma quella dell'opposizione distintiva. Dall'ingiunzione si passa alla disgiunzione per mezzo del codice, dall'ultimatum si passa alla sollecitazione, dalla passività richiesta si passa a dei modelli costruiti senza difficoltà sulla 'risposta attiva' del soggetto, sulla sua implicazione, la sua partecipazione 'ludica', eccetera, verso un: modello di "feedback" gioioso e di contatti irradiati. É la 'concretizzazione dell'atmosfera generale', secondo Nicolas Schoffer. É la grande festa della Partecipazione: essa è fatta di miriadi di stimoli, di test miniaturizzati, di domande/risposte divisibili all'infinito, tutti magnetizzati da alcuni grandi modelli nel campo luminoso del codice.


Ecco arrivare la grande Cultura della comunicazione tattile, sotto il segno dello spazio tecno-lumino-cinetico e del teatro totale spaziodinamico!


É tutto un immaginario del contatto, del mimetismo sensoriale, del misticismo tattile, è tutta l'ecologia in fondo che viene a innestarsi su questo universo di simulazione operativa, multistimolazione e multirisposta. Si comincia a naturalizzare questo test incessante d'adattamento riuscito assimilandolo al mimetismo animale: 'L'adattamento degli animali ai colori e alle forme del loro ambiente è un fenomeno valido per gli uomini' (Nicolas Schoffer), e perfino agli indiani, con 'il loro senso innato dell'ecologia'! Tropismi, mimetismi, empatia: tutto il vangelo ecologico dei sistemi aperti, con retroazione negativa o positiva, si riversa in questa breccia, con una ideologia della regolazione mediante l'informazione che non è che l'"avatar", secondo una razionalità più flessibile, del riflesso di Pavlov. Così si è passati dall'elettroshock all'espressione corporea come condizionamento della salute mentale.


Ovunque i dispositivi di forza e di forzatura lasciano il posto ai dispositivi ambientali, con l'operativizzazione delle nozioni di bisogno, di percezione, di desiderio, eccetera. Ecologia generalizzata, mistica della 'nicchia' e del contesto, simulazione dell'ambiente fino ai 'Centri di rianimazione estetica e culturale' previsti dal Settimo Piano (perché no?) e al Centro di svaghi sessuali, costruito a forma di seno, che offrirà 'un'euforia superiore grazie a un ambiente pulsato [...] Il lavoratore di qualsiasi classe potrà penetrare in questi centri stimolanti'. Fascinazione spaziodinamica, come quel 'teatro totale', costruito 'secondo un dispositivo circolare iperbolico ruotante intorno a un fuso cilindrico': niente più scena, niente più taglio, niente più 'sguardo': fine dello spettacolo, e fine dello spettacolare, verso l'ambiente totale, fusionale, tattile, estesico (e non più estetico) eccetera. Non si può che pensare con un humour nero al teatro totale di Artaud, al suo teatro della crudeltà, di cui questa simulazione spaziodinamica è l'abietta caricatura. Qui la crudeltà è sostituita dalle 'soglie di stimolazione' minima e massima, dall'invenzione di 'codici percettivi calcolati a partire dalle soglie di saturazione'. Anche la buona vecchia 'catarsi' del teatro classico delle passioni è diventata oggi omeopatia per simulazione. Così va la creatività.


É così il crollo della realtà nell'iperrealismo, nella reduplicazione minuziosa del reale, di preferenza a partire da un altro medium riproduttivo - pubblicità, foto, eccetera - di medium in medium il reale si volatilizza, diventa allegoria della morte, ma si rafforza anche con la sua stessa distruzione, diventa il reale per il reale, feticismo dell'oggetto, perduto - non più oggetto di rappresentazione, ma estasi di negazione e della propria sterminazione rituale: iperreale.


Il realismo inaugurava già questa tendenza. La retorica del reale segnala già che lo statuto di quest'ultimo è già gravemente alterato (l'età d'oro è quella dell'innocenza del linguaggio, dove esso non deve raddoppiare ciò che dice con un effetto di realtà). Il surrealismo è ancora solidale con il realismo che contesta, ma raddoppia con la sua irruzione nell'immaginario. L'iperreale rappresenta una fase ben più avanzata, nella misura in cui anche questa contraddizione del reale e dell'immaginario vi è cancellata. L'irrealtà non è più quella del sogno o del fantasma, d'un al-di-là o d'un al-di-qua, è quella dell'"allucinante somiglianza del reale a se stesso".


Per uscire dalla crisi della rappresentazione, bisogna imprigionare il reale nella pura ripetizione. Prima di emergere nella pop-art e il neo-realismo pittorico, questa tendenza si legge già nel "nouveau roman". Il progetto è già di fare il vuoto intorno al reale, di estirpare tutta la psicologia, tutta la soggettività, per restituirlo alla pura oggettività. Di fatto, questa oggettività non è che quella del puro sguardo-oggettività finalmente liberata dall'oggetto, che non è più che il relè cieco dello sguardo che lo esplora. Seduzione circolare in cui si può facilmente scoprire l'impresa incosciente di non essere più visto.


É proprio l'impressione che fa il neo-romanzo: questa furia di elidere il senso in una realtà minuziosa e cieca. Sintassi e semantica sono scomparse - non c'è più apparizione, ma comparizione dell'oggetto, interrogatorio accanito dei suoi sparsi frammenti - né metafora né metonimia: immanenza successiva sotto l'istanza poliziesca dello sguardo. Questa microscopia 'oggettiva' suscita una vertigine di realtà, vertigine di morte ai confini della rappresentazione per la rappresentazione. Finite le vecchie illusioni di rilievo, di prospettiva e di profondità (spaziali e psicologiche) legate alla percezione dell'oggetto: è tutta l'ottica, la scopica diventata operativa alla superficie delle cose, è lo sguardo diventato codice molecolare dell'oggetto.


Sono possibili diverse modalità di questa vertigine di simulazione realistica:


1. La decostruzione del reale nei suoi dettagli - declinazione paradigmatica chiusa dell'oggetto - messa in piano, linearità e serialità degli oggetti parziali.


2. Visione in profondità: tutti i giochi di sdoppiamento e di raddoppiamento dell'oggetto nel suo dettaglio. Questa demoltiplicazione si ottiene mediante una profondità, anzi mediante un metalinguaggio critico, ed era indubbiamente vero in una configurazione riflessiva del segno, in una dialettica dello specchio. Ormai questa rifrazione indefinita non è più che un altro tipo di serialità: il reale non vi si riflette più, s'involve in se stesso fino all'estenuazione.


3. La forma propriamente seriale (Andy Warhol). Qui non è abolita soltanto la dimensione sintagmatica, ma anche la dimensione paradigmatica, perché non c'è più flessione di forme, e nemmeno riflessione interna, ma contiguità del medesimo - flessione e riflessione zero. Come quelle due sorelle gemelle di una foto erotica: la realtà carnale del loro corpo è annullata da questa somiglianza. Come investire quando la bellezza dell'una è immediatamente ripetuta da quella dell'altra? Lo sguardo non può che andare dall'una all'altra, tutta la visione è chiusa in questo va-e-vieni. Modo sottile di omicidio dell'originale, ma anche seduzione singolare, in cui ogni mira dell'oggetto è intercettata dalla sua diffrazione infinita in se stesso (copione inverso del mito platonico e della riunione delle due metà separate d'un simbolo - qui il segno si demoltiplica come i protozoi). Questa seduzione è forse quella della morte, nel senso che per noi esseri sessuati la morte non è forse il nulla, ma semplicemente il modo di riproduzione anteriore alla sessuazione. La generazione da parte del modello secondo una catena indefinita somiglia in effetti a quella dei protozoi e si oppone a quella attraverso il sesso, che per noi si confonde con la vita.


4. Ma questa pura macchinalità non è certamente che un limite paradossale: la vera formula generatrice, quella che ingloba tutte le altre, e che in qualche modo è la forma stabilizzata del codice, è quella della binarità, della digitalità - non la pura ripetizione, ma lo scarto minimo, l'inflessione minima tra i due termini, cioè il 'minimo paradigma comune' che possa sostenere la finzione del senso. Combinatoria della differenziazione interna all'oggetto pittorico come all'oggetto di consumo, questa simulazione si restringe nell'arte contemporanea fino a non essere più che la minima differenza che separa ancora l'iperreale dall'iperpittura. Questa pretende di estenuarsi fino alla cancellazione sacrificale davanti al reale, ma si sa come tutti i prestigi della pittura risuscitino in questa minima differenza: tutta la pittura si rifugia nel bordo che separa la superficie dipinta dal muro. E nella firma: segno metafisico della pittura e di tutta la metafisica della rappresentazione, al limite in cui essa prende se stessa per modello (il 'puro sguardo') e gira su se stessa nella ripetizione coattiva del codice.


La definizione stessa del reale è: "ciò di cui è possibile fare una riproduzione equivalente". Essa è contemporanea della scienza, che postula che un processo possa essere riprodotto esattamente nelle condizioni date, e della razionalità industriale, che postula un sistema universale di equivalenze (la rappresentazione classica non è equivalenza, è trascrizione, interpretazione, commentario). Al termine di questo processo di riproduttibilità, il reale è non soltanto ciò che può essere riprodotto, ma "ciò che è sempre già riprodotto". Iperreale.


Allora: fine del reale e fine dell'arte per riassorbimento totale dell'uno e dell'altra? No: l'iperrealismo è il colmo dell'arte e il colmo del reale per scambio rispettivo, al livello del simulacro, dei privilegi e dei pregiudizi che li fondano. L'iperreale è al di là della rappresentazione (confronta J. F. Lyotard ne "L'Art Vivant", numero sull'iperrealismo) soltanto perché è completamente nella simulazione. Il mulinello della rappresentazione in esso diventa folle, ma d'una follia implosiva, che, lungi dall'essere eccentrica, guarda verso il centro, verso la propria ripetizione in profondità. Analogo a l'effetto di distacco interno al sogno, che si fa dire che si sta sognando, ma questo non è che un gioco di censura e di perpetuazione del sogno, l'iperrealismo è parte integrante d'una realtà codificata che esso perpetua è della quale non cambia nulla.


In realtà, bisogna interpretare l'iperrealismo all'inverso: "oggi è la realtà stessa che è iperrealistica". Il segreto del surrealismo era già che la realtà più banale poteva diventare surreale, ma solo in degli istanti privilegiati, e che mettevano ancora in evidenza dell'arte e dell'immaginazione. Adesso è tutta la realtà quotidiana, politica, sociale, storica, economica, eccetera, che fin d'ora ha incorporato la dimensione simulatrice dell'iperrealismo: noi viviamo già ovunque nell'allucinazione 'estetica' della realtà. Il vecchio slogan 'La realtà supera la finzione', che corrisponde ancora allo stadio surrealista di questa estetizzazione della vita, è superato: niente più finzione alla quale la vita possa confrontarsi, sia pure vittoriosamente - è la realtà intera passata al gioco della realtà - disincantamento radicale, stadio "cool" e cibernetico che succede alla fase "hot" e fantasmatica.


É così che alla colpevolezza, all'angoscia e alla morte si può sostituire il godimento totale dei segni della colpevolezza, della disperazione, della violenza e della morte. É l'euforia stessa della simulazione, che si vuole abolizione della causa e dell'effetto, dell'origine e della fine, a cui essa sostituisce il raddoppiamento. In questo modo qualsiasi sistema chiuso si protegge contemporaneamente dal referenziale e dall'angoscia del referenziale - come anche da qualsiasi metalinguaggio, che esso previene giocando al proprio metalinguaggio, cioè duplicandosi nella propria critica. Nella simulazione, l'illusione metalinguistica raddoppia e completa l'illusione referenziale (l'allucinazione patetica del segno e l'allucinazione patetica del reale).


'É un circo', 'É un teatro', 'É un cinema', vecchi adagi, vecchie denunce naturalistiche. Non si tratta più di questo, si tratta questa volta della "satellizzazione del reale", della messa in orbita di una realtà indecidibile e senza metro comune con i fantasmi che l'illustravano un tempo. Questa satellizzazione s'è d'altronde trovata come materializzazione nel due-pezzi-cucina-doccia che è stato realmente mandato in orbita, alla potenza spaziale si potrebbe dire, con l'ultimo modulo lunare. La stessa quotidianità dell'habitat terrestre elevato al rango di valore cosmico, di scenario assoluto - ipostatizzato nello spazio - è la fine della metafisica, è l'era dell'iperrealtà che comincia. 39 Ma la trascendenza spaziale della banalità del due-pezzi, come la sua raffigurazione "cool" e macchinale nell'iperrealismo 40 dicono soltanto una cosa: questo modulo, così com'è, fa parte d'un iperspazio della rappresentazione in cui ciascuno è già tecnicamente in possesso della riproduzione istantanea della propria vita, in cui i piloti del Tupolev schiantatosi al Bourget si sono potuti veder morire in diretta sulle loro telecamere. Non è nient'altro che il cortocircuito della risposta da parte della domanda nel test, processo di riconduzione istantanea mediante il quale la realtà è immediatamente contaminata dal suo simulacro.


In precedenza, esisteva una classe specifica di oggetti allegorici e un po' diabolici: gli specchi, le immagini, le opere d'arte (i concetti?) - simulacri, ma trasparenti, ma manifesti (non si confondeva mai il modo [fa‡on] con la contraffazione [contrefa‡on]), che avevano il loro stile e il loro "savoir-faire" caratteristico. E il piacere consisteva allora piuttosto nello scoprire qualcosa di 'naturale' in ciò che era artificiale e contraffatto. Adesso che il reale e l'immaginario sono confusi in una medesima totalità operativa, il fascino estetico è ovunque: è la percezione sublimale (una specie di sesto senso) del trucco, del montaggio, della sceneggiatura, della sovraesposizione della realtà all'illuminazione dei modelli, - non più uno spazio di produzione, ma una banda di lettura, banda di codifica e decodifica, banda magnetizzata dai segni-realtà estetica, non più attraverso la premeditazione e il distacco dell'arte, ma attraverso la sua elevazione al secondo livello, alla seconda potenza, attraverso l'anticipazione e l'immanenza del codice. Una specie di parodia non deliberata plana su tutto, una specie di simulazione tattica, di gioco indecidibile al quale è inerente un godimento estetico, quello stesso della lettura e della regola del gioco. Carrellata dei segni, dei media, della moda e dei modelli, dell'atmosfera cieca e brillante dei simulacri.


Da molto tempo l'arte ha prefigurato la svolta che oggi è quella della vita quotidiana. Molto presto l'opera si raddoppia in se stessa come manipolazione dei segni dell'arte: sovrasignificazione dell'arte, 'accademismo del significante', come direbbe Lévi-Strauss, che l'introduce veramente alla forma-segno. Allora l'arte entra nella sua "riproduzione" indefinita: tutto ciò che si duplica in se stesso, fosse pure la realtà quotidiana e banale, cade allo stesso tempo sotto il segno dell'arte, e diventa estetico. Lo stesso vale. per la produzione, di cui si può dire che entra oggi nella sua duplicazione estetica, in quella fase in cui, espellendo qualsiasi contenuto e qualsiasi finalità, essa diventa in qualche modo astratta e non figurativa. Essa esprime allora la forma della produzione, assume anch'essa, come l'arte, un valore di finalità senza fine. L'arte e l'industria possono allora scambiare i loro segni: l'arte può diventare macchina riproduttrice (Andy Warhol), senza cessare di essere arte, perché la macchina non è più che segno. E la produzione può perdere qualsiasi finalità sociale per realizzarsi ed esaltarsi infine nei segni prestigiosi, iperbolici, estetici che sono i grandi combinat industriali, le torri oltre 400 metri o i misteri cifrati del P.N.L.


Così l'arte è ovunque, poiché l'artificio è al centro della realtà. Così l'arte è morte, perché non soltanto la sua trascendenza critica è morta, ma perché la stessa realtà, interamente impregnata d'una estetica che dipende dalla sua stessa strutturalità, s'è confusa con la propria immagine. Essa non ha più nemmeno il tempo di acquistare valore dì realtà. Non supera nemmeno più la finzione: essa capta qualsiasi sogno prima che esso acquisti valore di sogno. Vertigine schizofrenica di questi segni seriali, senza contraffazione, senza sublimazione possibile, immanenti nella loro ripetizione - chi potrà dire dove sia la realtà di ciò che essi simulano? Essi non rimuovono nemmeno più nulla (è per questo che la simulazione introduce alla sfera della psicosi, se si vuole): anche i processi primari vi si aboliscono. L'universo "cool" della digitalità assorbe quello della metafora e della metonimia. Il principio di simulazione ha ragione del principio di realtà come del principio di piacere.


 


Kool killer o l'insurrezione mediante i segni

 


Nella primavera del '72 ha cominciato a infrangersi su New York un'ondata di graffiti che, partiti dai muri e dalle palizzate dei ghetti, hanno finito per impadronirsi delle metropolitane e degli autobus, dei camion e degli ascensori, dei corridoi e dei monumenti, coprendoli interamente di grafismi rudimentali o sofisticati, il cui contenuto non e né politico, né pornografico: non sono che dei nomi, dei soprannomi tratti dai fumetti underground: "duke sprit superkool koolkiller ace vipere spider eddie kola", eccetera, seguiti dal numero della loro strada: "eddie 135 woodie 110 shadow 137", eccetera, oppure da un numero in cifre romane, indice di filiazione o di dinastia: "snake Primo snake Secondo snake Terzo", eccetera fino al cinquanta, secondo che il nome, l'appellativo totemico è ripreso da nuovi graffitisti.


Tutto questo è fatto con il Magic Marker o con la bombola spray, che permette delle iscrizioni alte un metro o più su tutta la lunghezza d'un vagone. I giovani s'introducono di notte nei depositi degli autobus o della metropolitana, e fino all'interno delle vetture, e si scatenano graficamente. L'indomani, tutti questi convogli attraversano Manhattan nei due sensi. Si cancellano le scritte (è difficile), si arrestano i graffitisti, li si mette in prigione, si proibisce la vendita dei marker e delle bombolette: non serve a nulla, essi ne fabbricano artigianalmente e ricominciano tutte le notti.


Adesso il movimento è terminato, almeno in questa violenza straordinaria. Non poteva essere che effimero, e d'altronde si è molto evoluto in un anno di storia. I graffiti si sono fatti più sapienti, con grafismi barocchi incredibili, con ramificazioni di stile e di scuola legate alle diverse bande che operavano. All'origine del movimento sono sempre giovani negri o portoricani. I graffiti sono peculiari di New York. Nelle altre città con forti minoranze etniche, si trovano molti muri dipinti, opere improvvisate e collettive di contenuto etnopolitico, ma pochi graffiti.


Una cosa è sicura: gli uni e gli altri sono nati dopo la repressione delle grandi sommosse urbane degli anni 1966-1970. Offensiva selvaggia come le sommosse, ma d'un altro tipo, che ha mutato di contenuto e di terreno. Nuovo tipo d'intervento sulla città, non più come luogo del potere economico e politico, ma come spazio/tempo del potere terroristico dei media, dei segni e della cultura dominante.


 


La città, l'urbano, è nello stesso tempo uno spazio neutralizzato, quello dell'indifferenza, e quello della crescente segregazione dei ghetti urbani, della relegazione dei quartieri, delle razze, di certe classi d'età: lo spazio sminuzzato dei segni distintivi. Ogni pratica, ogni istante della vita quotidiana è assegnato da codici multipli a uno spazio-tempo determinato. I ghetti razziali alla periferia o nel centro delle città non sono che l'espressione limite di questa configurazione dell'urbano: un immenso centro di smistamento e di reclusione dove il sistema si riproduce non solo economicamente e nello spazio, ma anche in profondità, mediante la ramificazione dei segni e dei codici, mediante la distruzione simbolica dei rapporti sociali.


C'è un'espansione orizzontale e verticale della città, a immagine del sistema economico medesimo. Esiste una terza dimensione dell'economia politica - quella dell'investimento, del "quadrillage" e dello smantellamento di tutta la socialità per mezzo dei segni. Contro questo, né l'architettura né l'urbanistica possono nulla, perché derivano esse stesse da questa nuova svolta presa dall'economia generale del sistema. Ne sono la semiologia operativa.


La città fu in precedenza il luogo della produzione e della realizzazione della merce, della concentrazione e dello sfruttamento industriali. Ora essa è in prevalenza il luogo d'esecuzione del segno come d'una sentenza di vita e di morte.


Non siamo più nella città delle cinture rosse delle fabbriche e delle periferie operaie. In quella città s'inscriveva ancora, nello stesso spazio, la dimensione storica della lotta di classe, la negatività della forza-lavoro, una specificità sociale irriducibile. Al giorno d'oggi, la fabbrica, in quanto modello di socializzazione da parte del capitale, non è scomparsa, ma cede il posto, nella strategia generale, alla città intera come spazio del codice. La matrice dell'urbano non è più quella della realizzazione d'una "forza" (la forza-lavoro), ma quella della realizzazione d'una "differenza" (l'operazione del segno). La metallurgia è diventata semiurgia.


Questo scenario dell'urbano lo si trova materializzato nelle nuove città, uscite direttamente dall'analisi operativa dei bisogni e delle funzioni/segni. Tutto vi è concepito, progettato e realizzato sulla base d'una definizione analitica: abitazione, trasporto, lavoro, tempo libero, gioco, cultura - altrettanti termini commutabili sulla scacchiera della città, in uno spazio omogeneo, definito come ambiente totale. É qui che la prospettiva urbana raggiunge il razzismo, perché non c'è differenza tra il fatto di parcheggiare le persone in uno spazio omogeneo chiamato ghetto sulla base d'una definizione razziale e quello di omogeneizzarle in una nuova città sulla base d'una definizione funzionale dei loro bisogni. É un'unica e medesima logica.


La città non è più il poligono politico-industriale che è stata nel Diciannovesimo secolo, è il poligono dei segni, dei media, del codice. Di colpo, la sua verità non è più in un luogo geografico, come la fabbrica oppure il ghetto tradizionale. La sua verità, la reclusione nella forma/segno, è ovunque. É il ghetto della televisione, della pubblicità, il ghetto dei consumatori/consumati, dei lettori letti in anticipo, dei decodificatori codificati in tutti i messaggi, dei circolanti/circolati della metropolitana, dei sollazzatori/sollazzati del tempo libero, eccetera. Ogni spazio/tempo della vita urbana è un ghetto, e tutti sono connessi tra di loro. Al giorno d'oggi la socializzazione, o piuttosto la desocializzazione, passa per questa distribuzione strutturale attraverso i codici multipli. L'era della produzione, quella della merce e della forza-lavoro, equivale ancora a una solidarietà del processo sociale fino nello sfruttamento - è su questa socializzazione, in parte realizzata dallo stesso capitale, che Marx fonda la sua prospettiva rivoluzionaria. Ma questa solidarietà storica è scomparsa: solidarietà della fabbrica, del quartiere e della classe. Ormai tutti sono separati e indifferenti sotto il segno della televisione e dell'automobile, sotto il segno dei modelli di comportamento inscritti ovunque nei media o nel tracciato della città. Tutti allineati nel loro rispettivo delirio d'identificazione con dei modelli direttori, a dei modelli di simulazione orchestrati. Tutti commutabili come questi stessi modelli. É l'era degli individui a geometria variabile. Ma la geometria del codice invece, resta fissa e centralizzata. É il monopolio di questo codice, diffuso ovunque nel tessuto urbano, che è la vera forma del rapporto sociale


Si può prevedere che la produzione, la sfera della produzione materiale si decentralizzi, e che abbia fine la relazione storica fra la città e la produzione mercantile. Il sistema può fare a meno della città industriale, produttrice, spazio/tempo della merce e dei rapporti sociali mercantili. Vi sono segni di questa evoluzione. Ma non può fare a meno dell'urbano come spazio/tempo del codice e della riproduzione, perché la centralità del codice è la definizione stessa del potere.


 


É quindi politicamente essenziale ciò che si batte al giorno d'oggi contro questa semiocrazia, contro questa nuova forma della legge del valore: commutabilità totale degli elementi in un insieme funzionale, ciascuno dei quali non assume un senso che come termine strutturale variabile secondo il codice. Per esempio, i graffiti.


La rivolta radicale, in queste condizioni, è infatti innanzitutto dire 'Esisto, sono il tale, abito in tale o tale via, vivo qui e ora.' Ma questo non sarebbe ancora che la rivolta dell'identità: combattere contro l'anonimato rivendicando un nome e una propria realtà. I graffiti vanno più lontano: all'anonimato non oppongono dei nomi, ma degli pseudonimi. Non cercano di uscire dalla combinatoria per riconquistare un'identità comunque impossibile, ma per ritorcere l'indeterminazione contro il sistema - capovolgere l'"indeterminazione" in "sterminazione". Ritorsione, reversione del codice secondo la sua stessa logica, e sul suo stesso terreno, e vittoriosa su di esso perché lo supera nell'irreferenziale.


"Superbee spix cola 139 kool guy crazy cross 136", ciò non vuol dire nulla, non è nemmeno un nome proprio, è una matricola simbolica, fatta per disorientare il sistema comune delle denominazioni. Questi termini non hanno nessuna originalità: provengono tutti dai disegni a fumetti dov'erano rinchiusi nella finzione, ma ne escono esplosivamente per essere proiettati nella realtà come un grido, come interiezione, come anti-discorso, come rifiuto di qualsiasi elaborazione sintattica, poetica, politica, come minimo elemento radicale imprendibile da qualsiasi discorso organizzato. Irriducibili grazie alla loro stessa povertà, resistono a qualsiasi interpretazione, a qualsiasi connotazione, e non denotano più nulla né nessuno: né denotazione né connotazione, è così che sfuggono al principio di significazione e, in quanto "significanti vuoti", fanno irruzione nella sfera dei "segni pieni" della città, che essi dissolvono con la loro sola presenza.


Nomi senza intimità, come il ghetto è senza intimità, senza vita privata, ma vive d'un intenso scambio collettivo. Ciò che questi nomi rivendicano non è una identità, una personalità, è l'esclusività radicale del clan, della banda, della gang, della classe di età, del gruppo o dell'etnia, che, come si sa, passa per la devoluzione del nome e la fedeltà assoluta a questo nome, a questo appellativo totemico, anche se questo proviene dritto dritto dai fumetti underground. Questa forma di denominazione simbolica è negata dalla nostra struttura sociale, che impone a ciascuno il suo nome "proprio" e una individualità "privata", infrangendo qualsiasi solidarietà nel nome d'una socialità urbana astratta e universale. Questi nomi, al contrario, queste denominazioni tribali hanno una vera carica simbolica: sono fatti per darsi, per scambiarsi, per trasmettersi, per darsi il cambio indefinitamente nell'anonimato, ma un anonimato collettivo, in cui questi nomi sono come i termini d'una iniziazione che corre dall'uno all'altro e si scambiano tanto bene che non sono, non più della lingua, proprietà di nessuno.


É la vera forza d'un rituale simbolico e, in questo senso, i graffiti vanno nella direzione opposta a tutti i segni mediatici e pubblicitari, che potrebbero dare l'illusione, sui muri delle nostre città, dello stesso incantesimo. Si è parlato di festa a proposito della pubblicità: senza di questa, l'ambiente urbano sarebbe tetro. Ma essa non ne fa che un'animazione fredda, simulacro di richiamo e di calore, essa non fa segno a nessuno, e non può essere ripresa da una lettura autonoma o collettiva, non crea delle reti simboliche. Più che i muri che le fanno da supporto, la pubblicità è essa stessa un muro, un muro di segni funzionali fatti per essere decodificati, e il cui effetto si esaurisce con la decodificazione.


Tutti i segni mediatici procedono da questo spazio senza qualità, da questa superficie d'iscrizione che si drizza come un muro fra produttori e consumatori, fra mittenti e destinatari di segni. Corpo senza organi della città, direbbe Deleuze, dove s'incrociano i flussi canalizzati. I graffiti, invece, sono dell'ordine del territorio. Essi territorializzano lo spazio urbano decodificato - è questa strada, questo muro, questo quartiere che prende vita attraverso essi, che ridiventa territorio collettivo. Ed essi non si circoscrivono al ghetto, esportano il ghetto in tutte le arterie della città, invadono la città bianca e rivelano che questa è il vero ghetto del mondo occidentale.


Con essi, è il ghetto linguistico che fa irruzione nella città, una specie di sommossa dei segni. Nella segnalizzazione della città, i graffiti finora hanno sempre costituito il bassofondo - il bassofondo sessuale e pornografico -, l'iscrizione vergognosa, rimossa, dei pisciatoi e dei terreni abbandonati. Avevano conquistato i muri in un modo offensivo solo gli slogan politici, propagandistici, dei segni pieni, per i quali il muro è ancora un supporto e il linguaggio un medium tradizionale. Essi non prendono di mira il muro in quanto tale, né la funzionalità dei segni in quanto tale. Indubbiamente solo i graffiti e i manifesti del Maggio'68 in Francia sono dilagati in un altro modo, attaccando il supporto stesso, restituendo i muri a una mobilità selvaggia, a una subitaneità dell'iscrizione che equivaleva ad abolirli. Le scritte e gli affreschi di Nanterre erano appunto sottrazione del muro come significante del "quadrillage" terroristico e funzionale dello spazio, questa azione anti-media. Prova ne è che l'amministrazione è stata tanto sottile da non cancellarli né far ridipingere i muri: sono stati gli slogan politici di massa, i manifesti che l'hanno fatto. Nessun bisogno di repressione: i media stessi, i media d'estrema sinistra hanno restituito i muri alla loro funzione cieca. Si conosce, poi, il muro della contestazione di Stoccolma: libertà di contestare su una certa superficie, divieto di scrivere accanto.


C'è stata così l'effimera offensiva dello sviamento pubblicitario. Limitata dal suo stesso supporto, ma che utilizzava già gli assi tracciati dagli stessi media: metropolitana, stazioni, manifesti. E l'offensiva di Jerry Rubin e della controcultura americana alla televisione. Tentativo di appropriazione politica d'un grande medium di massa, ma al livello del contenuto soltanto, e senza modificare il medium stesso.


Per la prima volta con i graffiti di New York i tracciati urbani e i supporti mobili sono stati utilizzati con tale ampiezza, e con una tale libertà offensiva. Ma, soprattutto, per la prima volta i media sono stati attaccati nella loro stessa forma, cioè nel loro modo di produzione e di diffusione. E questo proprio perché i graffiti non hanno un contenuto, non hanno un messaggio. É questo vuoto che costituisce la loro forza. E non è un caso se l'offensiva totale sulla forma s'accompagna a una recessione dei contenuti. Questo deriva da una specie d'intuizione rivoluzionaria - e cioè che l'ideologia profonda non funziona più al livello dei significati politici, ma al livello dei significanti - e che là il sistema è vulnerabile e dev'essere smantellato.


Si spiega così il significato politico dei graffiti. Essi sono nati dalla repressione delle sommosse urbane nei ghetti. Sotto il colpo di questa repressione, la rivolta si è sdoppiata: in una organizzazione politica marxista-leninista pura e dura da una parte, e dall'altra in questo processo culturale selvaggio al livello dei segni, senza obiettivi, senza ideologia, senza contenuto. Alcuni vedranno nella prima la vera prassi rivoluzionaria, e tacceranno i graffiti di folclore. É il contrario: lo scacco del '70 ha provocato una regressione verso l'attivismo politico tradizionale, ma ha anche obbligato la rivolta a radicalizzarsi sul vero terreno strategico, quello della manipolazione totale dei codici e delle significazioni. Non è quindi affatto una fuga nei segni, è al contrario un progresso straordinario in teoria e in pratica - due termini che qui non sono più giustamente dissociati dall'organizzazione.


Insurrezione, irruzione nell'urbano come luogo della riproduzione e del codice - a questo livello, non è più il rapporto di forze che conta, perché i segni non puntano sulla forza, ma sulla differenza, ed è quindi con la differenza che bisogna attaccare - smantellare la rete dei codici, delle differenze codificate mediante la differenza assoluta, non-codificabile sulla quale il sistema viene a cozzare e a disfarsi. Per questo, non c'è bisogno di masse organizzate, né d'una chiara coscienza politica. Basta un migliaio di giovani armati di "markers" e di bombole di vernice per ingarbugliare la segnaletica urbana, per disfare l'ordine dei segni. I graffiti che ricoprono tutti i piani della metropolitana di New York come i cecoslovacchi cambiavano i nomi delle strade di Praga per sviare i russi: medesima guerriglia.


 


Malgrado le apparenze, i City Walls, i muri dipinti, non hanno nulla a che vedere con i graffiti. Sono d'altronde anteriori a quelli e gli sopravviveranno. L'iniziativa di questi muri dipinti viene dal vertice, è un'impresa d'innovazione e di animazione urbana realizzata con sovvenzioni municipali. La City Wall Incorporated è un'organizzazione fondata nel 1960 'per promuovere il programma e gli aspetti tecnici dei muri dipinti'. Budget coperto dal Dipartimento degli affari culturali della città di New York, e da diverse fondazioni fra cui quella di David Rockefeller. La sua ideologia artistica: 'L'alleanza naturale fra gli edifici e la pittura monumentale.' Suo scopo: 'Fare dono dell'arte al popolo di New York.' Oppure il progetto di pannelli artistici ("billboard-art-project") di Los Angeles: 'Questo progetto fu realizzato per promuovere delle rappresentazioni artistiche che utilizzino il medium "bill-board" nell'ambiente urbano. Grazie alla collaborazione di Foster e di Kleiser (due grandi agenzie pubblicitarie), gli spazi di affissione pubblica sono così diventati delle vetrine d'arte per i pittori di Los Angeles. Essi creano un medium dinamico e fanno uscire l'arte dalla cerchia ristretta delle gallerie e dei musei.'


Certamente, queste operazioni sono affidate a dei professionisti, degli artisti raggruppati a New York in un consorzio. Nessuna ambiguità possibile: si tratta esattamente d'una politica ambientale, design urbano di grande levatura - la città ne guadagna, e l'arte anche. Perché né la città esplode per l'irruzione dell'arte 'all'aperto', nella strada, né l'arte esplode al contatto della città. É tutta la città che diventa galleria d'arte, è l'arte che riscopre tutto un terreno di manovra nella città. Né l'una né l'altra hanno cambiato struttura, non hanno fatto che scambiare i loro privilegi.


'Fare dono dell'arte al popolo di New York!' Basta confrontare questa formula con quella di "superkool": 'Ce ne sono ai quali questo non piace, amico, ma che gli piaccia o no, siamo noi che abbiamo fatto il movimento artistico più forte per colpire la città di New York'.


Qui sta tutta la differenza. Alcuni dei muri dipinti sono belli, ma questo non c'entra per nulla. Resteranno nella storia dell'arte per aver saputo creare uno spazio sui muri ciechi e nudi, soltanto con la linea e il colore - i più belli sono sempre dei "trompe-l'oeil", quelli che creano un'illusione di spazio e di profondità, quelli che 'allargano l'architettura con l'immaginazione', secondo la formula di uno degli artisti. Ma è proprio là il loro limite. Essi fanno "giocare" l'architettura, ma senza infrangere le regole del gioco. Riciclano l'architettura nell'immaginario, ma conservano il sacramento dell'architettura (dal supporto tecnico alla struttura monumentale, e persino il suo aspetto sociale di classe, poiché la maggior parte dei City Walls di questo tipo si trovano nella parte bianca e civilizzata delle città).


Ora l'architettura e l'urbanistica, sia pure trasfigurate dall'immaginazione, non possono cambiare nulla, perché sono esse stesse dei mass media e, persino nelle loro concezioni più audaci, riproducono il rapporto sociale di massa, vale a dire lasciano collettivamente le persone senza risposta. Tutto ciò che possono fare è dell'animazione, della partecipazione, del riciclaggio urbano, del design nel senso più ampio. Cioè una simulazione di scambio e di valori collettivi, una simulazione di gioco e di spazi non funzionali. Così i terreni d'avventura per i bambini, gli spazi verdi, le case di cultura, così i City Walls e i muri della contestazione, che sono gli spazi verdi della parola.


I graffiti, invece, non si curano dell'architettura, la imbrattano, la dimenticano, vi passano attraverso. L'artista murale rispetta il muro come rispettava il quadro sul suo cavalletto. Il graffito corre da una casa all'altra, da un muro all'altro degli immobili, dal muro sulla finestra o la porta, o il finestrino della metropolitana, o il marciapiede, s'accavalla, vomita, si sovrappone (la sovrapposizione equivale all'abolizione del supporto come piano, esattamente come il debordamento equivale alla sua abolizione come quadro) - il suo grafismo è come la perversione poliforma dei bambini, che ignorano il limite dei sessi e la delimitazione delle zone erogene. Curiosamente, d'altronde, i graffiti rifanno dei muri e delle facce della città, o delle vetture della metropolitana e degli autobus, un "corpo", un corpo senza fine né principio, interamente erogenizzato dalla scrittura come il corpo può esserlo nell'iscrizione primitiva del tatuaggio. Il tatuaggio, che si fa su un corpo, è, nelle società primitive, ciò che, assieme ad altri segni rituali, fa del corpo quello che è: un materiale di scambio simbolico - senza il tatuaggio, come senza le maschere, il corpo non sarebbe che quello che è: nudo e inespressivo. Tatuando i muri, "supersex" e "superkool" li liberano dall'architettura, e li restituiscono alla materia viva, ancora sociale, al corpo che si muove della città, prima della marcatura funzionale e istituzionale. Finita la quadratura dei muri, quando sono tatuati come delle effigi arcaiche. Finito lo spazio/tempo repressivo dei trasporti urbani, quando le vetture della metropolitana passano come dei proiettili o delle idre viventi tatuate fino agli occhi. Qualcosa della città ridiventa tribale, parietale, anteriore alla scrittura, con degli emblemi molto forti, ma spogliati di senso - incisione nelle carni di segni vuoti, che non dicono l'identità personale, ma l'iniziazione e l'effiliazione di gruppo: '"A biocybernetic self-fulfilling prophecy world orgy I".'


É quanto meno stupefacente vedere ciò dilagare in una città quaternaria, cibernetica, dominata dalle due torri d'alluminio e di vetro del World Trade Center, megasegni invulnerabili dell'onnipotenza del sistema.


Ci sono anche affreschi murali dei ghetti, opere di gruppi etnici spontanei che decorano i propri muri. Socialmente e politicamente, l'impulso è lo stesso di quello dei graffiti. Sono dei muri dipinti selvaggi, non finanziati dall'amministrazione urbana. Sono per altro tutti centrati su dei temi politici, su un messaggio rivoluzionario: l'unità degli oppressi, la pace mondiale, la promozione culturale della comunità etnica, la solidarietà, raramente la violenza e la lotta aperta. In breve, al contrario dei graffiti, hanno un senso, un messaggio. E, al contrario dei City Walls che s'ispirano all'arte astratta, geometrica o surrealista, sono sempre d'ispirazione figurativa e idealista. Si ritrova qui la differenza fra un'arte d'avanguardia, sapiente, colta, che ha superato da molto tempo l'ingenuità figurativa, e le forme popolari realistiche, con un forte contenuto ideologico, ma formalmente 'meno avanzate' (sebbene l'ispirazione sia molteplice, dai disegni dei bambini all'affresco messicano, da un'arte sapiente alla Doganiere Rousseau o alla Fernand Léger fino alla semplice immagine d'ìpinal, l'illustrazione sentimentale delle lotte popolari). In ogni modo, si tratta d'una controcultura nientaffatto underground, ma riflessiva, articolata sulla presa di coscienza politica e culturale del gruppo oppresso.


Ancora una volta, alcuni di questi muri sono belli, altri meno. Che questo criterio estetico possa entrare in gioco è in un certo modo un segno di debolezza. Voglio dire che, seppure selvaggi, collettivi, anonimi, essi sono rispettosi del loro supporto, e del linguaggio pittorico, sia pure per articolare un atto politico. In questo senso, essi possono immediatamente figurare come un'opera decorativa, alcuni sono già concepiti come tali, e adocchiano il loro stesso valore. Per la maggior parte saranno protetti da questa museificazione dalla rapida distruzione delle palizzate e dei vecchi muri, qui la municipalità non protegge l'arte, e la negritudine del supporto è a immagine del ghetto. Tuttavia la loro mortalità non è la stessa di quella dei graffiti che, invece, sono sistematicamente votati alla repressione poliziesca (è perfino proibito fotografarli). Il fatto si è che i graffiti sono più offensivi, più radicali - fanno irruzione nella città bianca e, soprattutto, sono transideologici, transartistici. É quasi un paradosso: mentre i muri negri e portoricani, anche se non sono firmati, portano sempre virtualmente una firma (una referenza politica o culturale, se non artistica), i graffiti, che non sono tuttavia che dei nomi, sfuggono a qualsiasi referenza, a qualsiasi origine. Essi soltanto sono selvaggi, in quanto il loro messaggio è nullo.


 


Si vedrà d'altronde meglio ciò che essi significano analizzando i due tipi di recupero di cui sono l'oggetto (a parte la repressione poliziesca):


1. Li si recupera in quanto arte - Jay Jacoks: 'Una forma primitiva, millenaristica, comunitaria, non elitaria di espressionismo astratto.' O ancora: 'Le vetture passavano rombando l'una dopo l'altra attraverso la stazione, come altrettanti Jackson Pollock scendendo urlanti i corridoi della storia dell'arte.' Si parla di 'artisti graffiti', di 'eruzione d'arte popolare', creata dai giovani, e 'che resterà una delle manifestazioni più importanti e caratteristiche degli anni 70', eccetera. Sempre la riduzione estetica, che è la forma stessa della nostra cultura dominante.


2. Li si interpreta (e parlo qui delle interpretazioni più ammirative) in termini di rivendicazioni d'identità e di libertà personali, di nonconformismo: 'Sopravvivenza indistruttibile dell'individuo in un ambiente inumano' (Mitzi Cunliffe nel "New York Times"). Interpretazione umanista borghese, che parte dal "nostro" senso di frustrazione nell'anonimato delle grandi città. Ancora Cunliffe: 'Ciò dice [i graffiti dicono]: io sono, esisto, sono reale, ho vissuto qui. Ciò dice: "kiki", o "duke", o "mik", o "gino", è vivo, sta bene e abita a New York'. Molto bene, ma 'ciò' non parla così, è il nostro romanticismo esistenziale borghese che parla così, l'essere unico e incomparabile che è ciascuno di noi, e che è stritolato dalla città. I giovani negri, invece, non hanno una personalità da difendere, difendono innanzitutto una comunità. La loro rivolta ricusa allo stesso tempo l'identità borghese e l'anonimato, "cool coke superstrut snake soda virgin" - bisogna intendere questa litania di sioux, questa lintania sovversiva dell'anonimato, l'esplosione simbolica di questi nomi di battaglia nel cuore della metropoli bianca.

Capitolo terzo - La moda o la fantasmagoria del codice

 


Frivolezza del déjà-vu

 


Lo straordinario privilegio della moda le deriva dal fatto che in essa la risoluzione del mondo è definitiva. L'accelerazione del solo gioco differenziale dei significanti diventa in essa sfolgorante fino alla fantasmagoria-fantasmagoria e vertigine che sono quelli della perdita di qualsiasi referenziale. In questo senso, la moda è la forma compiuta dell'economia politica, il ciclo nel quale si abolisce la linearità della merce.


Non c'è più determinazione interna ai segni della moda, e quindi essi diventano liberi di commutare, di permutare senza limiti. Al termine di questa emancipazione inaudita, essi obbediscono come logicamente a una ricorrenza folle e minuziosa. Questo per la moda del vestire, del corpo, degli oggetti - la sfera dei segni 'leggeri'. Nella sfera dei segni 'pesanti' - politica, morale, economia, scienza, cultura, sessualità - in nessun luogo il principio di commutazione opera con la stessa libertà. Si potrebbe classificare questi diversi campi in ordine di 'simulazione' decrescente, ma resta il fatto che tutte le sfere tendono inegualmente, ma simultaneamente, ad avvicinarsi ai modelli di simulazione, al gioco differenziale e indifferente, al gioco strutturale del valore. In questo senso, si può dire che sono tutte assillate dalla moda. Perché quest'ultima si può intendere allo stesso tempo come il gioco più superficiale e come la forma sociale più profonda - l'investimento inesorabile di tutti i campi da parte del codice.


Nella moda come nel codice, i significati si defilano, e le sfilate del significante non conducono più da nessuna parte. La distinzione del significato e del significante si abolisce come la differenza dei sessi (H. P. Jeudy, "Le signifiant est hermaphrodite"), il sesso passa nelle opposizioni distintive, e comincia qualcosa di simile a un immenso feticismo, collegato a un godimento e a una desolazione particolare. Fascino della pura manipolazione e disperazione dell'indeterminazione radicale. É sostanzialmente la rottura d'un ordine immaginario che ci impone la moda: quello della Ragione referenziale in tutte le sue forme, e se possiamo godere dello smantellamento della ragione, godere della liquidazione del senso (particolarmente al livello del nostro corpo - d'onde l'affinità del vestito e della moda), godere di questa finalità senza fine della moda, soffriamo altrettanto profondamente di questa corruzione della razionalità che essa implica, mentre la ragione cade sotto il colpo dell'alternanza pura e semplice dei segni.


C'è una veemente resistenza a vedere tutti i settori cadere nella sfera della merce, ce n'è una ancora più veemente a vederli cadere nella sfera dalle moda. Il fatto si è che qui la liquidazione dei valori è più radicale. Sotto il segno della merce, tutti i lavori si scambiano e perdono la loro singolarità - sotto il segno della moda, sono il lavoro e il tempo libero stessi che scambiano i loro segni. Sotto il segno della merce, la cultura s'acquista e si vende - sotto il segno della moda, sono tutte le culture che giocano come simulacri in una promiscuità totale. Sotto il segno della merce, l'amore diventa prostituzione - sotto il segno della moda, è il rapporto oggettuale stesso che scompare, ventilato in una sessualità "cool" e senza ritegno. Sotto il segno della merce, il tempo s'accumula come denaro - sotto il segno della moda esso è rotto e interrotto in cicli ingrovigliati.


Al giorno d'oggi tutto è intaccato nel suo principio d'identità dalla moda. Precisamente dalla potenza che essa ha di trasferire tutte le forme all'inorigine e alla ricorrenza. La moda è sempre retrograda, ma sulla base dell'abolizione del passato: morte e resurrezione spettrale delle forme. É la sua peculiare "attualità", che non è riferimento al presente, ma riciclaggio totale e immediato. La moda è, paradossalmente, l'"inattuale". Essa presuppone sempre un tempo morto delle forme, una specie d'astrazione grazie alla quale esse diventano, come al riparo dal tempo, dei segni efficaci che come per una distorsione del tempo, potranno ritornare ad assillare il presente con la loro inattualità, con tutto il fascino del ritorno in opposizione al divenire delle strutture. Estetica del ricominciamento: la moda è quella che trae frivolità dalla morte e modernità dal "déjà-vu". Essa è la disperazione che niente dura, e il godimento inverso di sapere che, al di là di questa morte, qualsiasi forma ha sempre la possibilità d'una seconda esistenza, mai innocente, perché la moda divora in anticipo il mondo e il reale: "essa è il peso di tutto il lavoro morto dei segni sulla significazione viva" - e questo in un meraviglioso oblio, in un'ignoranza fantastica. Ma non dimentichiamo che il fascino esercitato dal macchinario industriale e dalla tecnica deriva esso stesso dal fatto che tutto questo è del lavoro "morto", che veglia sul lavoro vivo e lo divora man mano. La nostra ignoranza accecata è proporzionale a questa operazione di sequestro del vivo da parte del morto. Solo il vero morto ha la perfezione e l'estraneità del "déjà-vu". Così il godimento della moda è quello d'un mondo spettrale e ciclico di forme passate, ma risuscitate senza fine come segni efficaci. C'è come un desiderio di suicidio, dice K”nig, che rode la moda e si realizza nel momento in cui essa raggiunge il suo apogeo. Questo è vero, ma si tratta di un desiderio contemplativo di morte, collegato allo spettacolo dell'abolizione incessante delle forme. Voglio dire che il desiderio di morte è esso stesso riciclato nella moda, che lo svuota di qualsiasi fantasma sovversivo e lo coinvolge, come tutte le altre cose, nelle sue rivoluzioni inoffensive.


Avendo espurgato questi fantasmi che conferiscono alla ripetizione, nelle profondità dell'immaginario, la suggestione e il fascino d'una vita anteriore, la moda trova la sua vertigine soltanto sulla superficie, nella pura attualità. Ritrova essa nondimeno quell'innocenza che Nietzsche attribuiva ai greci: 'Loro sì sapevano "vivere"; per vivere occorre arrestarsi animosamente alla superficie, all'increspatura, alla scorza, adorare l'apparenza, credere a forme, suoni, parole [...] Questi Greci erano superficiali - "per profondità"! ("La gaia scienza") 41?. L'innocenza del divenire: la moda non ne è che la simulazione. Il ciclo delle apparenze: non ne è che il riciclaggio. Prova ne è che lo sviluppo della moda è contemporaneo a quello del museo. Paradossalmente, l'esigenza museale d'inscrizione eterna delle forme e quella di pura attualità funzionano simultaneamente nella nostra cultura. Il fatto si è che l'una e l'altra sono rette dal medesimo statuto moderno del segno.


Mentre gli stili si escludono l'un l'altro, il museo si definisce attraverso la coesistenza virtuale di tutti gli stili, la loro promiscuità in una stessa super-istituzione culturale; meglio: per la loro comparabilità valutativa sotto il segno del grande tallone aureo della cultura. La moda fa lo stesso secondo il suo ciclo: commuta e fa giocare fra di loro assolutamente tutti i segni. La temporalità delle opere da museo è quella del 'perfetto', della perfezione: è il particolarissimo stato di ciò che è stato, e non è mai attuale. Ma nemmeno la moda è mai attuale: essa punta sulla ricorrenza delle forme a partire dalla loro morte e dal loro stoccaggio, come segni, in una riserva atemporale. La moda elabora da una annata all'altra ciò che 'è stato', con una grandissima libertà combinatoria. D' onde anche il suo effetto di 'perfezione' istantanea. Perfezione museale anch'essa; ma delle forme effimere. Nel museo, inversamente, c'è del "design", che fa giocare tra di loro le opere come i valori d'un insieme. Moda e museo sono contemporaneamente, complici, e insieme s'oppongono a tutte le culture precedenti, fatte di segni non-equivalenti e di stili incompatibili.


 


La 'struttura' di moda

 


La moda esiste solamente nel quadro della modernità. Cioè in uno schema di rottura, di progresso e d'innovazione. In qualsiasi contesto culturale, l'antico e il 'moderno' s'alternano significativamente. Ma soltanto per noi, dal tempo dell'Illuminismo e della Rivoluzione industriale, esiste una struttura storica e polemica di mutamento e di crisi. Sembra che la modernità instauri simultaneamente un tempo lineare - quello del progresso tecnico, della produzione e della storia - e un tempo ciclico, quello della moda. Contraddizione apparente, perché in effetti la modernità non è mai rottura radicale. La tradizione non è maggiormente la preminenza dell'antico sul nuovo: essa non conosce né l'uno né l'altro - è la modernità che li inventa entrambi, simultaneamente, all'improvviso, essa è sempre allo stesso tempo nuova e retrograda, moderna e anacronistica. Dialettica della rottura, essa diventa subito dinamica dell'amalgama e del riciclaggio. In politica, nella tecnica, nell'arte, nella cultura, essa si definisce per il tasso di mutamento tollerabile dal sistema senza che nulla sia cambiato sul piano essenziale. Così la moda non lo contraddice affatto: essa enuncia simultaneamente e chiarissimamente il "mito" del mutamento, lo fa vivere come valore supremo negli aspetti più quotidiani, e la "legge" strutturale del mutamento: questo è costituito dal gioco dei modelli e delle opposizioni distintive, quindi da un ordine che non è in nulla inferiore al codice della tradizione. Perché è la logica binaria che è l'essenza della modernità. É essa che dà impulso alla differenziazione infinita e agli effetti 'dialettici' di rottura. La modernità non è la transmutazione di tutti i valori, è la commutazione di tutti i valori, è la loro combinatoria e la loro ambiguità. La modernità è un codice, e la moda è il suo emblema.


Questa prospettiva soltanto permette di tracciare i limiti della moda: di saper vincere i due pregiudizi simultanei che consistono:


1. Nell'estendere il suo campo fino ai limiti dell'antropologia, anzi nel comportamento animale.


2. Nel restringere al contrario la sua sfera attuale a quella del vestire e dei segni esteriori.


La moda non ha nulla a che vedere con l'ordine rituale (né, "a fortiori", con la livrea animale) - per la ragione che questo non conosce né l'equivalenza/alternanza dell'antico e del nuovo, né i sistemi di opposizioni distintive, né i modelli con la loro diffrazione seriale e combinatoria. Viceversa, la moda è al centro di tutta la modernità, perfino nella scienza e nella rivoluzione, perché tutto l'ordine della modernità, dal sesso ai media, dall'arte alla politica, è attraversato da questa logica. Persino l'aspetto della moda che sembra più vicino al rituale - la moda come spettacolo, come festa, come spreco - non fa che rafforzare maggiormente la loro differenza: perché ciò che ci permette di assimilare la moda e il cerimoniale è precisamente la prospettiva "estetica" (come ciò che ci permette di assimilare certi processi attuati con alcune strutture primitive è precisamente il concetto di festa), che deriva essa stessa dalla modernità (da un gioco d' opposizioni distintive utilità/gratuità, eccetera) e che noi proiettiamo sulle strutture arcaiche per meglio annetterle nelle nostre analogie. La nostra moda è spettacolo, socialità raddoppiata e godimento estetico di se stessa, gioco di mutamento per il mutamento. Nell'ordine primitivo, l'ostentazione dei segni non ha mai questo effetto 'estetico'. Parimenti la nostra festa è una "'estetica' della trasgressione", ciò che non è affatto lo scambio primitivo, in cui ci compiaciamo di trovare un riflesso o il modello delle nostre feste - riscrittura 'estetica' del "potlàc", riscrittura etnocentrica.


Come si deve distinguere la moda dall'ordine rituale, così bisogna radicalizzare l'analisi della moda, nel nostro sistema. La definizione minimale, superficiale, della moda si limita a dire (Edmond Radar in "Diogène"): 'Nel linguaggio l'elemento sottomesso alla moda non è il significato del discorso ma il suo supporto mimetico, cioè il suo ritmo, la sua tonalità, la sua articolazione; nella scelta delle parole e dei giri di frase [...] nella mimica [...] Questo è vero anche per le mode intellettuali: esistenzialismo o strutturalismo - è il vocabolario che è preso a prestito e non una ricerca...' Così viene preservata una struttura profonda invulnerabile dalla moda. Ora, è nella produzione stessa del senso, nelle strutture più 'oggettive' che bisogna andarla a cercare, nel senso che anche queste obbediscono al gioco della simulazione e dell'innovazione combinatoria. Medesimo approfondimento che per l'indumento e il corpo: è ora il corpo stesso, nella sua identità, nel suo sesso, nel suo statuto, che è diventato materiale di moda - l'indumento non è che un caso particolare. E così di seguito. La volgarizzazione scientifica e culturale è certamente un buon terreno per gli '"effetti"' di moda. Ma ciò che si deve esaminare sono la scienza e la cultura stesse, nell''originalità' del loro processo, per vedere se esse sono soggette alla '"struttura"' di moda. Se per l'appunto è possibile una volgarizzazione - il qual caso non si dà in nessuna altra cultura (il facsimile, il digest, la contraffazione, la simulazione, la diffusione moltiplicata in forme semplificate è impensabile al livello della parola rituale, del testo o del gesto sacro) - è proprio perché alla fonte stessa dell'innovazione in queste materie una manipolazione di modelli analitici, di elementi semplici e di opposizioni regolate che rendono i due livelli, quello dell''originale' e quello della volgarizzazione, sostanzialmente omogenei, e la distinzione tra di essi puramente tattica e morale. Così Radar non s'accorge che, al di là della 'mimica' del discorso, il senso stesso del discorso cade sotto il colpo della moda dal momento che, in un campo culturale interamente referenziato su se stesso, i concetti si generano e si rispondono gli uni agli altri per pura specularità. Lo stesso può accadere per le ipotesi scientifiche. E la psicoanalisi non sfugge a questo destino di moda nel centro stesso della sua pratica teorica e clinica. Anch'essa passa così alla fase della riproduzione istituzionale, sviluppando quanto c'era di modelli di simulazione nei suoi concetti fondamentali. Se c'è stato un tempo un "lavoro" dell'inconscio, e quindi una determinazione della psiconanalisi da parte del suo oggetto, oggi questa determinazione è diventata pian piano "quella dell'inconscio da parte della stessa psicoanalisi". Ormai essa "riproduce" l'inconscio, nel mentre si prende per referenza (si significa essa stessa "come la moda"). L'inconscio rientra allora nel costume, ce n'è molta richiesta, e la psicoanalisi ottiene un potere sociale come lo ottiene il codice - esso si accompagna a una straordinaria sofisticazione delle teorie sull'inconscio, tutte commutabili e sostanzialmente indifferenti.


Esiste una mondanità della moda: sogni, fantasmi, psicosi alla moda, teorie scientifiche, scuole linguistiche alla moda, per non parlare dell'arte e della politica - ma tutto questo non è che moneta spicciola. É ben più profondamente che la moda ossessiona le discipline "modello", proprio nella misura in cui esse sono riuscite a rendere autonomi i loro assiomi per la loro maggiore gloria, e sono passate allo stadio "estetico", ludico quasi, in cui conta soltanto, come per certe formule matematiche, la perfetta specularità dei modelli d'analisi.


 


La fluttuazione dei segni

 


Contemporanea dell'economia politica, la moda, come il mercato, è una forma universale. Tutti i segni vengono a scambiarvisi, così come tutti i prodotti vengono a operare in modo equivalente sul mercato. É l'unico sistema di segni universalizzabile, che riassorbe pertanto tutti gli: altri, come il mercato elimina tutti gli altri modi di scambio. E se, nella sfera della moda, non è possibile trovare un equivalente generale, è perché la moda si situa di primo acchito in una astrazione ancora più formale, di quella dell'economia politica, a un livello in cui non c'è nemmeno più bisogno d'un equivalente generale visibile (l'oro o il denaro) perché non sussiste più che "la forma" dell'equivalenza generale, che è la moda stessa. Oppure: è necessario un equivalente generale per lo scambio "quantitativo" del valore, per lo scambio delle differenze sono necessari dei "modelli". I modelli sono questa specie di equivalente generale difratto in matrici che governano i campi differenziati della moda. Sono essi gli "shifters", gli effettori, i "dispatchers", i media della moda; è attraverso essi che la moda si riproduce indefinitamente. Esiste una moda a partire dal momento in cui una forma non è più prodotta secondo le proprie determinazioni, "ma a partire dal modello stesso" - vale a dire che essa non è mai prodotta, ma sempre e immediatamente "riprodotta". L'unico referenziale è diventato il modello stesso.


La moda non è una "deriva" dei segni - ne è la "fluttuazione", nel senso in cui al giorno d'oggi fluttuano i segni monetari. Questa fluttuazione nell'ordine dell'economico è recente: per questo è necessario che l''accumulazione primitiva' sia ovunque compiuta, che sia portato a termine tutto un ciclo del lavoro morto (dietro al denaro, è tutto l'ordine dell'economico che comincia a entrare in questa relatività generale). Ora questo processo è terminato da molto tempo nell'ordine dei segni. Qui l'accumulazione primitiva è ben anteriore, se non sempre già data, e la moda esprime lo stadio già raggiunto d'una circolazione accelerata e senza limiti, d'una combinazione fluida e ricorrente dei segni, che equivale all'equilibrio istantaneo e mobile delle monete fluttuanti. Tutte le culture, tutti i sistemi di segni, vengono a scambiarvisi, a combinarvisi, a contaminarvisi, a contrarre degli equilibri effimeri, il cui apparato si disfà, il cui senso non è in nessun luogo. La moda è lo stadio speculativo puro nell'ordine dei segni - nessun vincolo di coerenza né di referenza, non più che una parità fissa o una convertibilità/oro nelle monete fluttuanti - questa indeterminazione implica per la moda (e indubbiamente ben presto per l'economia) la dimensione caratteristica del ciclo e della ricorrenza, mentre la determinazione (dei segni o della produzione) implica un ordine lineare e continuo. Così il destino dell'economia viene a profilarsi nella forma della moda, che precede di molto il denaro e l'economia sulla strada delle commutazioni generali.


 


La 'pulsione' di moda.

 


Il fatto che la moda veicoli un inconscio e un desiderio - e che si tenti di spiegarla attraverso questo - non vuol dire nulla, se il desiderio stesso è alla moda. C'è in effetti una 'pulsione' di moda che non ha molto a che vedere con l'inconscio individuale - qualcosa di tanto violento che nessuna interdizione ne è mai venuta a capo, desiderio di abolire il senso e di immergersi nei segni puri, verso una socialità bruta, immediata. In rapporto ai processi sociali mediatizzati, economici, eccetera, la moda conserva qualcosa d'una socialità radicale, non al livello dello scambio psicologico dei contenuti, ma al livello immediato della divisione dei segni. Già La Bruyère diceva: 'Il collezionismo non è un gusto per tutto ciò che è buono o che è bello, ma per ciò che è raro, per ciò che si ha e gli altri non hanno. Non è un attaccamento a ciò che è perfetto, ma a ciò che è in voga, a ciò che è alla moda. Non è un divertimento, ma una passione, e talvolta tanto violenta da non essere inferiore all'amore e all'ambizione che per la piccolezza del suo oggetto.'


In La Bruyère, la passione della moda si avvicina alla passione collezionistica e all'oggetto-assione: tulipani, uccelli, stampe di Callot. La moda si avvicina in effetti alla collezione (come indicano i termini) per dei "détours" sottili. Per Oscar Wilde, 'entrambe conferiscono all'uomo una sicurezza che nemmeno la religione gli ha mai dato.'


Trovare salvezza nella moda. Passione collettiva, passione dei segni, passione del ciclo (anche la collezione è un ciclo), che fa sì che un fatto di moda circoli, si diffonda con una velocità vertiginosa per tutto il corpo sociale, suggellandone l'integrazione e riunificando tutte le identificazioni (come un fatto di collezione unifica il soggetto in un medesimo processo ciclico ripetuto indefinitamente).


Questa potenza, questo godimento hanno radici nel segno di moda stesso. La semiurgia della moda si oppone alla funzionalità della sfera economica. All'etica della produzione 42 si oppone l'estetica della manipolazione, del raddoppiamento e della convergenza sul solo specchio del modello: 'Senza contenuto, [la moda] diventa allora lo spettacolo che gli uomini danno a se stessi della loro capacità di far significare l'insignificante' (Barthes, "Sistema della moda"). 43 Il fascino e l'incantesimo della moda derivano da questo: dal decreto che essa pronuncia senz'altra giustificazione che se stessa. Godimento dell'arbitrario come di una grazia di elezione, e solidarietà di casta che dipende dalla discriminazione del segno. É in questo che essa diverge radicalmente dall'economia, di cui è purtuttavia il coronamento. In rapporto alla finalità spietata della produzione e del mercato, di cui è purtuttavia la messinscena, la moda è una festa. Essa riassume tutto ciò che censura il regime dell'astrazione economica. Rovescia tutti gli imperativi categorici.


In questo senso essa è spontaneamente contagiosa, mentre il calcolo economico isola le persone le une dalle altre. Essa, che disinveste i segni di qualsiasi valore e di qualsiasi affetto, ridiventa una passione - passione dell'artificiale. É la stessa assurdità, l'inutilità formale del segno della moda, la perfezione d'un sistema in cui nulla si scambia più contro qualcosa di reale, è l'arbitrario di questo segno e al tempo stesso la sua assoluta coerenza, la sua esigenza di relatività totale con gli altri segni, che rende contagiosa la sua virulenza, al tempo stesso del godimento collettivo. Al di là del razionale e dell'irrazionale, al di là del bello e del brutto, dell'utile e dell'inutile, è questa immoralità rispetto a tutti i criteri, questa frivolezza che conferisce talvolta alla moda la sua forza sovversiva (nei contesti totalitari, puritani o arcaici) e che ne fa, contrariamente all'economia, un fatto sociale totale - per il quale si è costretti a risuscitare, come faceva Mauss per lo scambio, un approccio totale.


La moda, come il linguaggio, mira di primo acchito alla socialità (il dandy, nella sua provocante solitudine, ne è la prova "a contrario"). Ma a differenza del linguaggio, che mira al senso e si cancella davanti ad esso, la moda mira a una socialità teatrale, e si compiace di se stessa. Di colpo, essa diventa per ciascuno un luogo intenso - specchio d'un certo desiderio della propria immagine. Contrariamente al linguaggio che mira alla comunicazione, essa "imita" la comunicazione, ne fa la posta senza fine d'una significazione senza messaggio. D'onde il suo piacere estetico, che non ha nulla a che vedere con la bellezza o la bruttezza. É dunque una specie di festa, di eccesso raddoppiato della comunicazione?


É soprattutto la moda vestiaria e quella che punta sui segni del corpo ad apparire come 'festiva', per il suo aspetto di "wasteful consumption, di potlàc". Questo è vero soprattutto per la "haute couture". É ciò che permette a 'Vogue' di fare questa gustosa professione di fede: 'Cosa c'è di più anacronistico, di ancor più carico di sogno che la navigazione a vela? La "Haute Couture". Essa scoraggia l'economista, prende in contropiede le tecniche di rendimento, è un affronto alla democratizzazione. Un massimo di persone altamente qualificate eseguono con una lentezza superba un minimo di modelli dal taglio complicato, che saranno ripetuti, sempre con la stessa lentezza, una ventina di volte nel migliore dei casi, o nessuna nel peggiore... vestiti da due milioni... Ma perché questo spreco di sforzi? direte. Perché no? rispondono i creatori, gli artigiani, le operaie e le 4000 clienti, tutti posseduti dalla medesima passione nella ricerca della perfezione. I sarti sono gli ultimi avventurieri del mondo moderno. Essi coltivano l'atto gratuito... Perché la "Haute Couture"? pensano certi detrattori. E perché lo champagne?' E ancora: 'Né la pratica né la logica saprebbero giustificare la stravagante avventura del vestiario. Superflua, quindi necessaria, la moda appartiene alla religione'. "Potlàc", religione, anzi magia rituale d'espressione come quella degli ornamenti e delle danze animali: tutto è buono per esaltare la moda contro l'economico, come trasgressione verso una socialità ludica.


Ma sappiamo che la pubblicità vuole anche essere una 'festa del consumo' i media una 'festa dell'informazione', le fiere una 'festa della produzione', eccetera. Il mercato della pittura, le corse dei cavalli possono anch'essi passare per un "potlàc". Perché no? direbbe 'Vogue'. Dappertutto si vorrebbe far passare lo spreco funzionale per una distruzione simbolica. Poiché l'economia ha talmente imposto il suo principio utilitaristico, le sue catene funzionali, tutto ciò che l'eccede assume facilmente un sentore di gioco e d'inutilità. É male riconoscere che la legge del valore va ben al di là dell'economico, e che la sua vera estensione adesso è quella della giurisdizione dei modelli. Ovunque ci siano modelli, c'è l'imposizione della legge del valore, repressione mediante i segni e repressione dei segni stessi. Per questo c'è una differenza radicale tra rituali simbolici e segni della moda.


Nelle culture primitive, i segni circolano apertamente su tutta l'estensione delle 'cose', non c'è ancora stata la 'precipitazione' d'un significato, né quindi d'una ragione o d'una verità del segno. Il reale - la più bella delle nostre connotazioni - non esiste. Il segno è senza un retromondo, "senza inconscio" (che è l'ultima e la più sottile delle connotazioni e razionalizzazioni). I segni vi si scambiano senza fantasmi, senza allucinazione della realtà.


Essi non hanno quindi niente in comune con i segni moderni, dei quali Barthes definisce così il paradosso: 'Da un lato sembra che ogni società dispieghi un'attività instancabile per penetrare il reale di significazione e costituire dei sistemi semiologici fortemente e sottilmente organizzati, convertendo le cose in segni, il sensibile in significante; e dall'altro, una volta questi sistemi costituiti (o più esattamente, via via che questi si costituiscono), gli uomini dedicano altrettanta attività a mascherare la loro natura semantica, a riconvertire il rapporto semantico in rapporto naturale o razionale'. 44 Con la simulazione, i segni non fanno più che secernere il reale e il referenziale come un supersegno, come la moda non fa che secernere, inventare la nudità come supersegno dell'indumento. Il reale è morto, viva il segno realistico! Questo paradosso del segno moderno introduce una scissione incolmabile con il segno magico o rituale, quello stesso che si scambia nella maschera, il tatuaggio o la festa.


Anche se la moda è magica, essa rimane l'aspetto magico della merce e, ancora più lontano, l'aspetto magico della simulazione, del codice e della legge.


 


Il sesso modificato

 


Niente è meno certo del fatto che la sessualità investa l'indumento, il maquillage, eccetera - o piuttosto è una sessualità "modificata" quella che opera al livello della moda. Se la condanna della moda assume questa violenza puritana, non è tuttavia il sesso che è preso di mira. Il tabù verte sulla futilità, su questa passione della futilità e dell'artificiale che è forse più fondamentale della pulsione sessuale. Nella nostra cultura ben salda al principio d'utilità, la futilità interviene come trasgressione, come violenza, e la moda è condannata per questo potere, che c'è in essa, del segno puro che non significa nulla. La provocazione sessuale è secondaria rispetto a questo principio che nega tutti i fondamenti della nostra cultura.


Beninteso, il medesimo tabù grava anche sulla sessualità 'futile' e non riproduttiva. Ma, fissandoci sul sesso, c'è il pericolo di protrarre l'inganno del puritanesimo, che mira a stornare la posta sul sessuale - mentre è al livello dello stesso "principio di realtà", del principio referenziale di cui fanno ancora parte l'inconscio e la sessualità, e contro il quale la moda solleva il suo puro gioco di differenze. Mettere in primo piano la sessualità in questa storia è ancora una volta "neutralizzare il simbolico mediante il sesso e l'inconscio". Secondo la medesima logica l'analisi della moda è tradizionalmente ripiegata su quella del vestiario, perché qui opera più facilmente la metafora sessuale. Contraccolpo di questa deviazione: il gioco si riduce a una prospettiva di 'liberazione' sessuale, la quale si riduce molto semplicemente a una liberazione dall'indumento. Ed è un nuovo ciclo della moda che ricomincia.


La moda è certamente ciò che neutralizza più efficacemente la sessualità (la donna truccata è quella che non si tocca - confronta "Il corpo o il carnaio dei segni") - proprio perché è una passione, non complice, ma concorrente del sesso, e vittoriosa su di esso, come ha visto bene La Bruyère. É dunque sul corpo nella sua confusione con il sesso che la moda interviene in tutta la sua ambiguità.


La moda s'approfondisce quando diventa messinscena del corpo stesso, quando il corpo diventa medium della moda. 45 Un tempo santuario rimosso ma indecifrabile nella sua rimozione, il corpo è ormai investito esso stesso. Il gioco dell'indumento si cancella davanti al gioco del corpo e, questo si cancella davanti al gioco dei modelli. 46 Di colpo l'indumento perde il suo carattere cerimoniale (che aveva ancora nel Settecento) legato all'uso dei segni in quanto segni. Eroso dai significati del corpo, da questa trasparenza del corpo come sessualità e come natura, il vestito perde quell'esuberanza fantastica che aveva presso le società primitive. Perde la sua forza di pura maschera, è neutralizzata da questa necessità di dover significare il corpo, si rassegna.


Ma anche il corpo è neutralizzato in questa operazione. Anch'esso perde la forza di maschera, che aveva nel tatuaggio e nell'ornamento. Gioca esclusivamente con la "propria" verità, che è anche la sua linea di demarcazione: la sua nudità. Nell'ornamento, i segni del corpo operavano apertamente mescolati ai segni del non-corpo. Poi l'ornamento si fa indumento, e il corpo si fa natura. É un altro gioco che s'instaura - l'opposizione dell'indumento e del corpo, - designazione e censura (stessa frattura che tra significante e significato, medesimo gioco di spostamento e d'allusione). La moda propriamente detta comincia con questa partizione del corpo rimosso e significato in modo allusivo - è essa anche che vi mette fine nella simulazione della nudità, nella "nudità come modello di simulazione del corpo". Per l'indigeno, tutto il corpo è volto, cioè promessa e prodezza simbolica, al contrario della nostra nudità, che è solo strumentalità sessuale.


Questa nuova realtà del corpo come sesso nascosta s'è confusa di primo acchito con il corpo della donna Il corpo nascosto è femminile (non biologicamente, certamente: mitologicamente). La congiunzione della moda e della donna, a partire dall'epoca borghese e puritana, è quindi rivelatrice d'un doppio ancoramento: quello della moda su un corpo nascosto, quello della donna su un sesso rimosso. Questa congiunzione non esisteva affatto (o meno) fino al Settecento (e certamente nient' affatto nelle società cerimoniali) - e comincia a sparire oggi per noi. Quando si toglie, come per noi, questo destino di sesso nascosto e di verità interdetta del corpo, quando la moda stessa neutralizza l'opposizione dell'indumento e del corpo, allora l'affinità della donna e della moda cessa progressivamente 47 - la moda si generalizza e diventa sempre meno l'appannaggio d'un sesso o d'una classe d'età. Ma attenzione: non si tratta né d'un progresso né d'una liberazione. Opera sempre la medesima logica, e se la moda si generalizza e lascia il supporto privilegiato della donna per aprirsi a tutti, ciò significa che l'interdizione sul corpo è essa stessa generalizzata, in una forma più sottile che la repressione puritana: sotto forma di desessualizzazione generale. Perché il corpo era un forte potenziale sessuale solo nella rimozione: appariva allora come esigenza prigioniera. Liberato ai segni della moda, il corpo è sessualmente disincantato, diventa "mannequin", termine la cui indistinzione sessuale dice bene ciò che vuol dire. La (o il) "mannequin" è tutto sesso, ma sesso senza qualità. La moda è il suo sesso. O piuttosto: nella moda il sesso si perde come differenza, ma si generalizza come referenza (come simulazione). Niente è più sessuato, ma tutto è sessualizzato. Maschile e femminile ritrovano anch'essi, una volta perduta la loro singolarità, la possibilità d'una seconda esistenza illimitata. Solo nella nostra cultura la sessualità impregna così tutte le significazioni, ed è perché i segni, da parte loro, hanno investito tutta la sfera sessuale.


Si chiarisce così il paradosso attuale: si assiste contemporaneamente all''emancipazione' della donna e a una recrudescenza della moda. Il fatto si è che la moda ha a che vedere solo con il Femminino, e non con le donne. L'intera società si femminilizza man mano che le donne escono dalla loro discriminazione (lo stesso accadde per i pazzi, i bambini, eccetera; è la normale conseguenza della logica dell'esclusione). Così '"prendre son pied"', espressione del godimento femminile, s'è ora generalizzata, nello stesso momento in cui comincia a significare qualsiasi cosa. Ma bisogna anche osservare che la donna può essere 'liberata' ed 'emancipata' solo in qualità di 'forza-piacere' e 'forza-moda', esattamente come il proletario non è mai liberato che in qualità di forza-lavoro. L'illusione a questo proposito è radicale. La definizione storica del Femminino si fa su un destino di corpo e di sesso legato alla moda. La liberazione storica del Femminino non può essere che la realizzazione allargata del medesimo destino (che di colpo diventa quello di tutti, ma senza cessare d'essere discriminatorio). Nel momento in cui la donna accede al lavoro come tutti, sul modello del proletario, sono anche tutti che accedono all'emancipazione del sesso e della moda, sul modello delle donne. Si vede meglio all'improvviso come la moda è un lavoro, e come bisogna mettere su un piano d'eguaglianza d'importanza storica lavoro 'materiale' e lavoro di moda. É anche d'importanza capitale (ciò fa parte allo stesso titolo del capitale!) produrre le merci secondo il mercato, e produrre il proprio corpo secondo la regola del sesso e della moda. La divisione del lavoro non passa per dove si pensa, o piuttosto non c'è affatto divisione del lavoro: produzione del corpo, produzione della morte, produzione di segni, produzione di merci - non sono che delle "modalità" d'un medesimo sistema. É indubbiamente ancor peggio per la moda: perché se il lavoratore è separato da se stesso sotto il segno dello sfruttamento e del principio di realtà, la donna è separata da se stessa e dal suo corpo sotto il segno della bellezza e del principio di piacere!


 


L'insovvertibile

 


La storia dice che la critica della moda (O. Burgelin) è nell'Ottocento un pensiero di destra, ma è ora diventata, dopo il socialismo, un pensiero di sinistra. Il primo derivava dalla religione, il secondo deriva dalla rivoluzione. La moda corrompe i costumi, la moda abolisce la lotta di classe. Ma il fatto che la critica della moda sia passata a sinistra non significa necessariamente una inversione storica: significa forse che, per quanto riguarda la morale e il costume, la sinistra ha semplicemente dato il cambio alla destra ed ha ereditato, nel nome della rivoluzione, un ordine morale e dei pregiudizi classici. Da quando il principio di rivoluzione è entrato nel costume, come un imperativo categorico, tutto l'ordine politico, anche a sinistra, è diventato un ordine morale.


La moda è immorale, questo è il guaio, e qualsiasi potere (o coloro che lo sognano) la detestano necessariamente. Ci fu un tempo in cui l'immoralità era riconosciuta, da Machiavelli a Stendhal, e in cui qualcuno, come Mandeville, poteva dimostrare, nel Settecento, che una società si rivoluziona solo mediante i suoi vizi, che è la sua immoralità a renderla dinamica. La moda conserva ancora questa immoralità: essa non sa nulla dei sistemi di valori, né dei criteri di giudizio: il bene o il male, il bello e il brutto, il razionale/l'irrazionale - essa opera al di qua o al di là, opera quindi come sovversione di qualsiasi ordine, ivi compresa la razionalità rivoluzionaria. É come l'inferno del potere, quell'inferno che è la relatività di tutti i segni, e che qualsiasi potere è costretto a infrangere per assicurare i propri segni. A questo titolo è oggi ripresa dai giovani, come una resistenza a qualsiasi imperativo, resistenza senza ideologia, senza obiettivo.


Inversamente, non è possibile una sovversione della moda, perché essa non ha un referenziale con il quale metterla in contraddizione (il suo referenziale è essa stessa). Non si può sfuggire alla moda (perché la moda stessa fa del rifiuto della moda un fatto di moda - i blue-jeans ne sono un esempio storico). Tant'è vero che, se si può sempre sfuggire al principio di realtà del contenuto, non si può mai sfuggire al principio di realtà del codice. É anzi rivoltandosi contro i contenuti che si obbedisce sempre meglio alla logica del codice. E allora? É il diktat della 'modernità'. La moda non lascia spazio alla rivoluzione, salvo a ritrattare la genesi stessa del segno che la costituisce. E l'alternativa alla moda non è una 'libertà' o un superamento qualsiasi verso una verità del mondo e dei referenziali. É in una destrutturazione della forma del segno di moda, e del principio stesso della significazione, come l'alternativa all'economia politica non può consistere che nella decostruzione della forma/merce e del principio stesso della produzione.


Capitolo quarto - Il corpo o il carnaio di segni.

"Il Sesso è un carnaio di Segni.

Il Segno è un Sesso disincarnato."

 


Il corpo marcato

 


Tutta la storia attuale del corpo è quella della sua demarcazione, della rete di marchi e di segni che lo suddividono, lo sminuzzano, lo negano nella sua differenza e la sua ambivalenza radicale per organizzarlo in un materiale strutturale di scambio/segno, al pari della sfera degli oggetti, per ridurre la sua virtualità di gioco e di scambio simbolico (che non si confonde con la sessualità) in una sessualità assunta come istanza determinante - istanza fallica interamente organizzata intorno alla feticizzazione del fallo come equivalente generale. É in questo senso che il corpo, sotto il segno della sessualità nella sua accezione attuale, cioè sotto il segno della sua 'liberazione', è preso in un processo il cui funzionamento e la cui strategia sono quelli stessi dell'economia politica.


Moda, pubblicità, nude-look, teatro nudo, strip-tease: ovunque è lo scenodramma dell'erezione e della castrazione. Esso è d'una varietà e d'una monotonia assolute. Gli stivali, i cosciali, i calzoncini corti sotto il mantello lungo, i guanti fin sopra il gomito o le calze a metà coscia, la ciocca di capelli sull'occhio o il cache-sexe della spogliarellista, ma anche i braccialetti, le collane, gli anelli, le cinture, i gioielli e le catene - ovunque lo scenario è lo stesso: un marchio che assume valore di segno e con questo anche una funzione erotica perversa, una linea di demarcazione che simboleggia la castrazione, che "parodia" la castrazione come articolazione simbolica della "mancanza", sotto la forma strutturale d'una barra che articola due termini "pieni" (che fungono allora da entrambe le parti come il significante e il significato nell'economia classica del segno). Ciò che la barra fa fungere qui da termini rispettivi è una zona del corpo – nient' affatto una zona erogena, ma una zona erotica, erotizzata, una parte elevata a significante fallico d'una sessualità diventata puro e semplice concetto, puro e semplice significato.


In questo schema fondamentale, analogo a quello del segno linguistico, la castrazione è "significata" (passa allo stato di segno) e quindi disconosciuta. Il nudo e il non-nudo giocano in una opposizione strutturale e contribuiscono così alla "designazione" del feticcio. Così la linea della calza sulla coscia: la potenza erotica di questa immagine le deriva non dalla vicinanza del sesso reale e della sua promessa "positiva" (in questa ingenua prospettiva funzionalista, la coscia nuda dovrebbe svolgere il medesimo ruolo), ma dal fatto che l'apprensione del sesso (il riconoscimento panico della castrazione) vi è "fermata su una messinscena della castrazione" - questo marchio inoffensivo della linea della calza: al di là della quale, invece della mancanza, dell'ambivalenza e dell'abisso, non c'è più che un pieno sessuale - la coscia nuda e, metonimicamente, il corpo intero diventato, grazie a questa cesura, "effigie fallica", oggetto feticcio di contemplazione e di manipolazione spogliata di qualsiasi minaccia. 48 Come nel feticismo, il desiderio può allora appagarsi al prezzo dello scongiuro della castrazione e della pulsione di morte.


L'erotizzazione consiste quindi ovunque nell'erettilità d'un frammento di corpo sbarrato, in questa fantasmatizzazione fallica di tutto ciò che è al di là della barra in posizione di significante, e nella simultanea riduzione della sessualità al rango di significato (di valore "rappresentato"). Operazione strutturale tranquillizzante di scongiuro, grazie alla quale il soggetto può riconquistarsi come fallo: questo frammento di corpo o questo intero positivizzato, feticcizzato, egli può identificarsi con esso e riappropriarsene, nell'appagamento d'un desiderio che disconoscerà per sempre la propria perdita.


Questa operazione si legge nei minimi dettagli. Il braccialetto che serra il braccio o la caviglia, la cintura, la collana, l'anello istituiscono il piede, la vita, il collo, il dito come "eretti". Al limite, non c'è d'altronde affatto bisogno di un tratto o di un segno visibile: spogliato di segni, è comunque sulla base d'una separazione fantasticata, quindi d'una castrazione simulata e sventata, che gioca l'eroticità del corpo intero "nella nudità". Anche non strutturalizzato da qualche tratto (gioiello, belletto o ferita, tutto può servire a tal fine), anche non sminuzzato - la barra è sempre là nei vestiti che cadono, segnalando l'emergere del corpo come fallo, sia pure il corpo della donna, soprattutto se è il corpo della donna: è tutta l'arte dello strip-tease, sulla quale ritorneremo.


Bisognerebbe reinterpretare in questo senso la 'simbolica' cosiddetta freudiana. Che il piede, il dito, il naso o qualche altra parte del corpo possano fungere da metafora del pene non è grazie alla loro forma saliente (secondo uno schema di analogia fra questi diversi significanti e il pene reale): essi hanno una valenza fallica solo sulla base di questo taglio fantasmatico che li erige - peni castrati, peni "perché" castrati. Termini pieni, fallificati, designati da questa barra che li autonomizza - tutto ciò che è al di là di questa barra è fallo, tutto si risolve nell'equivalenza fallica, foss' anche il sesso femminile, foss' anche un organo o un oggetto aperto, tradizionalmente inventariato come 'simbolo' femminile. Il corpo non si distribuisce in 'simboli' maschili o femminili: è ben più profondamente, il luogo di questo gioco e di questo diniego della castrazione, illustrato dall'uso cinese (citato da Freud ne "Il feticismo") di cominciare col mutilare il piede della donna, poi di venerare come un feticcio questo piede mutilato. Il corpo intero è disponibile, in innumerevoli forme, per questa marchiatura/mutilazione 49 seguita da una venerazione fallica (esaltazione erotica). É qui il suo segreto, e non nell'anamorfosi degli organi genitali.


Così la bocca imbellettata è fallica (rossetto e maquillage fanno eminentemente parte dell'arsenale della valorizzazione strutturale del corpo). Una bocca imbellettata non parla più: labbra beate, semi-aperte, semi-chiuse, non hanno più la funzione di parlare, né di mangiare, né di vomitare, né di baciare. Al di là di queste funzioni di scambio, d'introiezione e di reiezione, e sulla base della loro negazione, s'istalla la funzione erotica e culturale perversa, la bocca affascinante come segno artificiale, lavoro culturale, gioco e regola del gioco - quella che non parla, che non mangia, che non si abbraccia -, la bocca imbellettata, oggettivata come "bijou", il cui intenso valore erotico non deriva affatto, come si immagina, dalla sua accentuazione come orificio erogeno, ma al contrario dalla sua chiusura - il rossetto è in qualche modo il tratto fallico, il marchio che l'istituisce come "valore di scambio fallico" - bocca erettile, tumescenza sessuale mediante la quale la donna si erige, e dove il desiderio del maschio verrà a prendersi a propria immagine.50


Mediatizzato da questo lavoro strutturale, il desiderio, da irriducibile qual è quando si fonda sulla perdita, sull'apertura dell'uno all'altro, diventa "negoziabile", in termini di segni e di valori fallici scambiati, ancorati a un'equivalenza fallica generale - ciascuno giocando contrattualmente e monetizzando il proprio godimento in termini di accumulazione fallica - situazione perfetta d'una "economia politica" del desiderio.


La stessa cosa vale per lo sguardo. Ciò che opera la ciocca di capelli sull'occhio (e qualsiasi altro artificio erotico degli occhi) è la negazione dello sguardo come dimensione perpetua della castrazione allo stesso tempo che offerta amorosa. Occhi metamorfizzati dal maquillage, è la riduzione estatica di questa minaccia, dello sguardo dell'altro in cui il soggetto può vedersi nella propria mancanza, ma in cui può anche abolirsi vertiginosamente se essi si aprono su di lui. Questi occhi sofisticati, medusizzati 51 non guardano nessuno, non s'aprono su nulla. Presi nel lavoro del segno, hanno la ridondanza del segno: s'esaltano del proprio fascino, e la loro seduzione deriva loro da questo onanismo perverso.


Si potrebbe continuare: ciò che vale per quei luoghi privilegiati dello scambio simbolico che sono la bocca e lo sguardo, vale anche per qualsiasi altra parte o dettaglio del corpo preso in questo processo di significazione erotica. Ma l'oggetto più bello, quello che riassume ovunque questa messinscena, e appare come la chiave di volta dell'economia politica del corpo, è il corpo della donna. Il corpo scoperto della donna, nelle mille varianti dell'erotismo, è certamente l'emergere del fallo, dell'oggetto feticcio, è un gigantesco lavoro di simulazione fallica e allo stesso tempo lo spettacolo incessantemente rinnovato della castrazione. Dall'immensa diffusione delle immagini al rituale minuzioso dello strip tease, ovunque la potenza liscia e senza difetti del corpo femminile scoperto funge da manifesto fallico, potenza incantata in un'esigenza fallica senza tregua (è qui che è l'affinità immaginaria profonda fra l'"escalation" erotica e quella della credenza produttivistica).

Il privilegio erotico del corpo femminile funziona per le donne come per gli uomini. In effetti, una medesima struttura perversa opera per tutti: imperniata sul diniego della castrazione, essa si serve di preferenza del corpo femminile come con l'imminenza della castrazione. 52 Così la progressione logica del sistema (ancora una volta, omologa di quella dell'economia politica) porta a una recrudescenza erotica del corpo femminile perché quest'ultimo, privo di pene, si presta meglio all'equivalenza generale fallica. Se il corpo maschile non permette, minimamente, il medesimo rendimento erotico, è perché non consente né il richiamo fascinante della castrazione, né lo spettacolo del suo continuo superamento. Non può mai diventare veramente oggetto liscio, chiuso, perfetto: marcato del 'vero' "marchio" (quello valorizzato dal sistema generale), esso è meno disponibile per la "demarcazione", per questo lungo lavoro di derivazione fallica. Ancora non è certo che anch'esso non possa un giorno essere attualizzato come variante fallica. Fino a nuovo ordine, niente pubblicità erettile, niente nudità erettile: è a questo prezzo che l'erettilità può essere trasferita sotto controllo a tutto il ventaglio degli oggetti e del corpo femminile. Ma, al limite, la stessa erezione non è incompatibile con il sistema.53

Bisognerebbe vedere che ruolo ha, in questo 'privilegio' erotico della donna, la soggezione storica e sociale. Non mediante qualche meccanismo di 'alienazione' sessuale che raddoppi l''alienazione' sociale, ma cercando di vedere "se non agisce, nei riguardi di qualsiasi discriminazione politica, il medesimo processo di disconoscimento che agisce nei riguardi della differenza dei sessi nel feticismo" - portando a una feticizzazione della classe o del gruppo dominato, a una sua sovravalorizzazione sessuale per meglio scongiurare l'interrogativo cruciale che fa pesare sull'ordine del potere. Se si riflette bene, tutto il materiale significante dell'ordine erotico non è fatto altro che della panoplia degli schiavi (catene, collari, fruste, eccetera), dei selvaggi (negritudine, abbronzatura, nudità, tatuaggi), di tutti i segni delle classi e delle razze dominate. Così per la donna nel suo corpo, annesso a un ordine fallico la cui espressione politica la condanna all'inesistenza.54

La nudità seconda

Qualsiasi corpo o parte può servire funzionalmente allo stesso modo, purché sia assoggettato alla medesima "disciplina" erotica: è necessario e sufficiente che sia il più chiuso, il più liscio possibile, senza pecche, senza orifizi, senza 'difetti', qualsiasi differenza erogena essendo scongiurata dalla barra strutturale che designa questo corpo (nel duplice senso della designazione e del design), barra visibile nel vestito, nel gioiello o nel belletto, invisibile nella nudità totale, ma sempre presente, perché avvolge allora il corpo come una "seconda pelle".

Caratteristica è in questo senso l'onnipresenza nel discorso pubblicitario del 'quasi nuda', del 'nuda senza esserlo, come se lo foste', dei collant nei quali 'siete ancora più nuda che al naturale' tutto questo per riconciliare l'ideale naturalistico di vivere il proprio corpo 'in diretta' con l'imperativo commerciale del plusvalore. Sorvoliamo. La cosa più interessante è che la vera nudità trova qui la sua definizione come nudità seconda: è quella del collant X o Y, del velo trasparente 'tale che la sua trasparenza vi cambia in voi stessa'. Molto spesso, d'altronde, questa nudità è sostituita dallo specchio - in ogni modo, è nella duplicazione che la donna lega 'il corpo di cui sogna: il suo'. E, una volta tanto, il mito pubblicitario ha qui rigorosamente ragione: non c'è nessun'altra nudità che quella che si raddoppia nei segni, che s'avvolge nella sua verità significata e che restituisce, come uno specchio, la regola fondamentale del corpo in materia erotica: quella di diventare, per essere celebrata fallicamente, la sostanza diafana, liscia, depilata, d'un corpo glorioso e asessuato.

L'esempio perfetto ne è la donna dipinta d'oro del film "Goldfinger" (James Bond): tutti gli orifizi tappati, è il maquillage radicale, che fa del suo corpo un fallo impeccabile (che sia d'oro non fa che sottolineare l'omologia con l'economia politica), e che certamente equivale alla morte. La "play girl" nuda verniciata d'oro morirà per aver incarnato fino al limite dell'assurdo il fantasma dell'erotico. Ma accade lo stesso a qualsiasi pelle nell'estetica funzionale, nella cultura di massa del corpo. Collant, guaine, calze, guanti, vestiti e indumenti 'aderenti al corpo', senza contare l'abbronzatura: è sempre il leitmotiv della 'seconda pelle', è sempre la pellicola trasparente che vetrifica il corpo.

Di per sé, la pelle non si definisce come 'nudità', ma come zona erogena: medium sensuale di contatto e di scambio, metabolismo dell'assorbimento e dell'escrezione. Questa pelle porosa, forata, orifiziale, nella quale il corpo non finisce e che solo la metafisica istituisce come linea di demarcazione del corpo, è negata a vantaggio d'una seconda pelle non porosa, senza essudazione né escrezione, 55 né calda né fredda (è 'fresca', è 'tiepida': climatizzazione ottimale), senza grana né asperità (è 'dolce', è 'vellutata'), senza spessore proprio (la 'trasparenza della tinta'), soprattutto senza orifizi (è 'liscia'). Funzionalizzata come un rivestimento di cellofan. Tutte queste qualità (freschezza, morbidezza, trasparenza, levigatezza) sono delle qualità di "chiusura" - grado zero risultante dalla negazione degli estremi ambivalenti. Anche la sua 'giovinezza': il paradigma giovane/vecchio vi si neutralizza in una immortale giovinezza di simulazione.

Questa vetrificazione della nudità va accostata alla funzione ossessiva di rivestimento protettivo degli oggetti: cerati, plastificati, eccetera, e del lavoro di spazzolatura, di ripulitura, che mira a rimetterli perpetuamente in stato di purezza, d'astrazione impeccabile - e quindi a sbarrare la loro secrezione (patina, ossidazione, polvere), a impedire loro di crollare e a mantenerli in una specie di immortalità astratta.

Nudità '"design"-ata', essa non sottintende nulla dietro la rete di segni che tesse, soprattutto non un corpo: né un corpo di lavoro, né un corpo di piacere; né un corpo erogeno, né un corpo straziato - essa supera formalmente tutto questo in un simulacro di corpo pacificato, come B. B. che è 'bella perché riempie esattamente il suo vestito' - equazione funzionale senza incognita. Rispetto alla pelle dello scorticato, sotto la quale palpitano i muscoli, il corpo moderno rientra molto di più nella sfera del gonfiabile, tema illustrato da una sequenza umoristica di 'Lui', in cui si vedeva la spogliarellista, al termine del suo spogliarello, fare un ultimo gesto: si stappava l'ombelico e si sgonfiava immediatamente - mucchietto di pelle sul palcoscenico.

Utopia della nudità, del corpo "presente" nella sua verità: è tutt'al più l'ideologia del corpo che può essere "rappresentato". Un indigeno (non ricordo più quale) diceva: 'Il corpo nudo è una maschera inespressiva che nasconde la vera natura di ciascuno.' Con ciò intendeva dire che il corpo ha senso solo quando è marcato, rivestito d' iscrizioni. Il rajah d'Alphonse Allais, fanatico della denotazione e della verità, traduceva tutto questo nella maniera inversa: non contento di aver fatto spogliare la baiadera, la fa scorticare viva.

Da nessuna parte il corpo è questa superficie dell'essere, questa spiaggia vergine e senza tracce, questa natura. Non ha assunto questo valore 'originale' che nella rimozione - e "liberarlo in quanto tale, secondo l'illusione naturalistica, significa liberarlo in quanto rimosso". La sua stessa nudità si ritorce allora contro di lui e lo aureola d'una censura aerea e ineluttabile: la seconda pelle. Perché la pelle, come qualsiasi segno che assume valore di segno, si raddoppia nella significazione: essa è sempre già la seconda pelle. Non è l'ultima, ma è sempre l'unica.

In questa ridondanza della nudità-segno, che lavora a restituire il corpo come fantasma di totalizzazione, ritroviamo la speculazione infinita del soggetto della coscienza attraverso la sua immagine nello specchio - che capta e risolve formalmente nella duplicazione la divisione irriducibile del soggetto. I segni inscritti sul corpo, e in cui si exinscrive la pulsione di morte, non fanno mai che ripetere sul materiale corporeo questa operazione metafisica del soggetto della coscienza. 'É attraverso la pelle che si fa rientrare la metafisica degli spiriti', come dice Artaud.

Chiusura dello specchio, raddoppiamento fallico del marchio: in entrambi i casi il soggetto seduce se stesso. Seduce il proprio desiderio, e lo scongiura nel proprio corpo raddoppiato dai segni. Dietro lo scambio dei segni, dietro il lavoro del codice, che funge da fortificazione fallica, il soggetto può nascondersi e riscoprirsi: nascondersi al desiderio dell'altro (alla propria mancanza), e in qualche modo vedere (vedersi) senza essere visto. La logica del segno si ricongiunge con la logica della perversione. É qui importante fare una distinzione radicale fra il lavoro d'iscrizione e di marchio al livello del corpo nelle società 'primitive' e nel nostro sistema contemporaneo. Troppo facilmente li si confonde nella categoria generale dell''espressione simbolica' del corpo. Come se il corpo fosse sempre stato quello che è, come se il tatuaggio arcaico avesse il medesimo senso del maquillage, come se esistesse, al di là di tutte le rivoluzioni del modo di produzione, un modo di significazione immutato dall'inizio dei tempi fino nella sfera dell'economia politica. Al contrario delle nostre, "dove i segni si scambiano sotto il regime d'un equivalente generale", o dove hanno valore di scambio in un sistema d'astrazione fallica e di saturazione immaginaria del soggetto, la marcatura del corpo e la pratica delle maschere nella società arcaica hanno come funzione l'attualizzazione immediata dello scambio simbolico, dello scambio/dono con gli dei o all'interno del gruppo - scambio che non è "negoziazione da parte del soggetto della propria identità" dietro la maschera o la manipolazione dei segni, ma in cui al contrario "esso consuma la sua identità", si mette in gioco come soggetto nell'appropriazione/espropriazione - il corpo intero diventando, alla stessa stregua dei beni e delle donne, materiale di scambio simibolico - dove, per dirla tutta, non è ancora emerso (non più che l'astrazione del denaro) lo schema standard della significazione, il nostro Significante/Significato trascendentale, Fallo/Soggettività, che governa tutta la nostra economia politica del corpo.

Quando l'indigeno (lo stesso, forse) dice: 'in noi dappertutto è il volto', rispondendo alla domanda del bianco sulla nudità del suo corpo, egli dice con questo che tutto il corpo (il quale d'altronde non è mai nudo, come abbiamo visto) è lasciato allo scambio simbolico, mentre questo, presso di noi, tende a ridursi soltanto al viso e allo sguardo. Presso gli indigeni, i corpi si guardano e si scambiano tutti i loro segni, che si consumano in una relazione incessante e non si riferiscono né a una legge trascendentale del valore né a una appropriazione privata del soggetto. Presso di noi, il corpo si rinchiude sui suoi segni si valorizza mediante un calcolo di segni ch' esso scambia sotto la legge dell'equivalenza e della riproduzione del soggetto. Quest'ultimo non si abolisce più nello scambio: esso specula. É lui, e non il selvaggio, a essere in pieno feticismo: attraverso lo sfruttamento del suo corpo è lui a essere feticizzato dalla legge del valore.

Lo striptease

Bernardin (direttore del Crazy Horse Saloon) (Lui):

"Non si "strip" né "tease" [,..] si fa della parodia [...] Io sono un mistificatore: si dà l'impressione di mostrare la verità tutta nuda, la mistificazione non potrebbe andare più lontano.

É il contrario della vita. Perché, quando lei è nuda, è molto più adornata ["parée"] che vestita. I corpi sono truccati con dei fondo tinta speciali estremamente belli, che rendono la pelle satinata.. Lei ha dei guanti che le tagliano le braccia, il che è sempre molto bello, delle calze verdi, rosse o nere, che le tagliano analogamente le gambe all'altezza della coscia...

"Strip-tease" di sogno: la donna dello spazio. Danzerebbe nel vuoto. Perché più una donna si muove lentamente, più è erotica. Credo quindi che il non plus ultra sarebbe una donna nell'assenza di gravità.

La nudità delle spiagge non ha nulla a che vedere con la nudità del palcoscenico. Sul palcoscenico, esse sono delle dee, sono intoccabili... L'ondata di nudi, al teatro e altrove, è superficiale, si limita a un atto mentale: sto per mettermi nuda, sto per mostrare degli attori e delle attrici nude. É privo d'interesse per i suoi stessi limiti. Altrove si presenta la realtà: qui, io non suggerisco che l'impossibile.

La realtà del sesso che si mette in mostra dappertutto sminuisce la soggettività dell'erotismo.

Iridata di luci vivide, messa in risalto da gioielli, ornata d'una voluminosa parrucca arancio, Usha Barock, una sanguemista austro-polacca, continuerà la tradizione del Crazy Horse: creare colei che non si prende tra le braccia."

Lo striptease è una danza: l'unica forse, e la più originale del mondo occidentale contemporaneo. Il suo segreto è la celebrazione autoerotica da parte di una donna del proprio corpo, che diventa desiderabile in questa stessa misura. Senza questo miraggio narcisistico che è la sostanza di tutti i gesti, senza questo gestuale di carezze che avvolgono questo corpo e l'emblematizzano come oggetto fallico, niente effetto erotico. Masturbazione sublime la cui lentezza, come dice Bernardin, è fondamentale. É questa lentezza a marcare che i gesti di cui la ragazza si avvolge (denudare, carezzare, fino a mimare il godimento) sono quelli dell''altro'. I suoi gesti le tessono intorno il fantasma del partner sessuale. Ma di colpo quest'altro è escluso, poiché lei si sostituisce a lui e s'appropria dei suoi gesti secondo un processo di condensazione che in realtà non è lontano dal lavoro del sogno. Tutto il segreto (e il lavoro) erotico dello spogliarello è in questa evocazione e revocazione dell'altro, mediante dei gesti la cui lentezza è poetica, come lo è il film al rallentatore d'una esplosione o di una caduta, perché allora qualche cosa, prima di realizzarsi, ha "il tempo di mancarvi", il che costituisce, se esiste, la perfezione del desiderio.56

É buono solo lo spogliarello che riflette il corpo in questo specchio di gesti e secondo questa rigorosa astrazione narcisistica - il gestuale essendo l'equivalente mobile di quella panoplia di segni, di marchi d'altronde all'opera nella messinscena erettile del corpo a tutti i livelli: della moda, del maquillage, della pubblicità. 57 Il cattivo spogliarello è evidentemente quello dello svestimento puro e semplice, che non fa che restituire una nudità - questa pretesa finalità dello spettacolo - e manca questa ipnosi del corpo, per renderlo direttamente alla concupiscenza diretta del pubblico. Non è che il cattivo spogliarello non sappia captare il desiderio della sala - al contrario, ma il fatto è che la ragazza non ha saputo ricreare "per se stessa" il suo corpo come oggetto incantato, non ha saputo operare questa transustanziazione della i nudità profana (realistica, naturalistica) in nudità sacra, quella d'un corpo che descrive se stesso, che palpa se stesso (ma sempre attraverso una specie di vuoto sottile, di distanza sensuale, di circonlocuzione che ancora una volta come in un sogno, riflette il fatto che i gesti sono allo specchio, che il corpo ritorna su se stesso attraverso lo specchio dei gesti).

Il cattivo spogliarello è quello insidiato dalla nudità, o dall'immobilità (o l'assenza di 'ritmo', la bruschezza del gesto): allora sul palcoscenico non ci sono più che una donna e un corpo 'osceni'; nel senso stretto del termine, non la sfera chiusa d'un corpo che, grazie a quest'aura di gesti, designa se stesso come fallo e preferisce: se stesso come "segno" del desiderio. Riuscire non è quindi affatto 'fare l'amore con la sala', come si pensa generalmente, è anzi esattamente il contrario. La spogliarellista è una dea, secondo Bernardin, e l'interdetto lanciato su di lei, quello che essa traccia intorno a se stessa, non significa che non si possa "prenderle" nulla (non poter passare all'"acting-out" sessuale: questa situazione repressiva è quella del cattivo spogliarello), ma piuttosto che non si può "darle" nulla, perché essa si dà tutta a se stessa, d' onde le deriva quella perfetta trascendenza che costituisce il suo fascino.

La lentezza dei gesti è quella del sacerdozio, e della transustanziazione. Non quella del pane e del vino, ma quella del corpo in fallo. Ogni indumento che cade non avvicina al nudo, alla 'verità' nuda del sesso (sebbene tutto lo spettacolo sia anche alimentato da questa pulsione scopofilica, ossessionata dal denudamento violento e dalla pulsione di stupro, ma questi fantasmi sono contrari allo spettacolo) - cadendo esso designa come fallo ciò che denuda - ne svela un altro e il medesimo gioco s' approfondisce, il corpo emerge sempre meglio come l' effigie fallica al ritmo dello spogliarello. Non è quindi un gioco di spogliamento di segni verso una 'profondità' sessuale, è al contrario un gioco ascendente di costruzione di segni - dove ogni marchio assume un valore erotico grazie al suo lavoro di segno, cioè di capovolgimento che esso opera da ciò che non è mai stato (la perdita e la castrazione) a ciò che esso designa al suo posto e in sua vece: il fallo. 58 Per questo lo spogliarello è lento: se il suo fine fosse il denudamento sessuale, dovrebbe andare il più velocemente possibile, ma è lento perché è discorso, costruzione di segni, elaborazione minuziosa d'un senso differito. Anche lo sguardo è testimone di questa trasfigurazione fallica. La fissità dello sguardo è un "atout" essenziale della buona spogliarellista. La s'interpreta abitualmente come tecnica di distanziamento, di "coolness" destinata a marcare i limiti di questa situazione erotica. Sì e no: lo sguardo fisso solo a marcare l'interdetto trasformerebbe ancora una volta lo spogliarello in una specie di pornodramma repressivo. Il buon spogliarello non è niente di questo, la padronanza dello sguardo non è quella della freddezza deliberata: se è "cool", come quello delle mannequin, lo è a condizione di ridefinire il "cool" come una qualità particolarissima di tutta la cultura attuale dei media e del corpo, e che non è più dell'ordine del caldo e del freddo. Questo sguardo è lo sguardo neutralizzato della fascinazione autoerotica, quello della donna/oggetto che si guarda e, i grandi occhi aperti, sgranati, richiude gli occhi su se stessa. Qui non è l'effetto d'un desiderio censurato: è il culmine della perfezione e della perversione. É la realizzazione di tutto il sistema sessuale che vuole la donna non così pienamente se stessa, e quindi così seducente, se non quando accetta in primo luogo di piacersi, di compiacersi, di non avere nessun desiderio né trascendenza se non della propria immagine.

Il corpo ideale delineato da questo statuto è quello del "mannequin". Il mannequin offre il modello di tutta questa strumentazione fallica del corpo. Lo dice anche la parola: "manne-ken", 'ometto' - bambino o pene - qui proprio il corpo che la donna circonda d'una manipolazione sofisticata, d'una disciplina narcisistica intensa, senza debolezze, fa di lei e del suo corpo sacralizzato un pene vivente, che è "la vera castrazione della donna" (anche dell'uomo, ma secondo un modello che si cristallizza di preferenza intorno alla donna). Essere castrato significa essere coperto di sostituti fallici. La donna ne è coperta, è costretta a farsi fallo nel suo corpo, a pena di non essere forse mai desiderabile. E se le donne non sono feticiste è perché fanno su se stesse questo continuo lavoro di feticizzazione, si fanno "bambole". É noto che la bambola è un feticcio, fatta per essere continuamente vestita e svestita. Questo gioco di coprire e di scoprire costituisce il valore simbolico per l'infanzia; inversamente in questo gioco regredisce qualsiasi rapporto oggettuale e simbolico quando la donna "si fa" bambola, diventa il proprio feticcio, e il feticcio, dell'altro.59

Freud: 'I capi di biancheria intima, eretti così spesso a feticci, fissano l'attimo della spoliazione, l'ultimo in cui si poteva ancora credere alla donna fallica.'60

Il fascino dello spogliarello come spettacolo della castrazione deriverebbe quindi dall'imminenza di scoprire, o piuttosto di cercare di non arrivare mai a scoprire, o meglio ancora di cercare con tutti i mezzi di non scoprire che non c'è nulla. '... come "stigma indelebile" dell'avvenuta rimozione, rimane anche un senso di estraneità - che nei feticisti non manca mai - rispetto al vero e proprio genitale della donna' (ibid.). Assenza impensabile - esperienza che in seguito resta alla base di qualsiasi 'rivelazione', di qualsiasi 'svelamento' (e in particolare dello statuto sessuale della 'verità') - l'ossessione del foro si trasforma nel fascino inverso del fallo. É il mistero dell'apertura, negata, sbarrata, d' onde sorge tutta una popolazione di feticci (oggetti, fantasmi, corpo/oggetto). Il corpo stesso della donna, feticizzato, sbarra questo punto d'assenza d' onde esso risuscita, sbarra questa vertigine con tutta la sua presenza erotica, 'segno di una vittoria trionfante sulla minaccia di evirazione e una protezione contro quella minaccia' (ibid.)

Dietro i veli successivi, non c'è niente, non c'è mai niente, e il moto che spinge sempre più avanti per scoprirlo è esattamente il processo della castrazione - non il riconoscimento della mancanza, ma la vertigine affascinata di questa sostanza nulla. Tutto il comportamento occidentale, che sbocca in una coazione realistica vertiginosa, è affetto da questo strabismo della castrazione: sotto l'apparenza di ricostruire il 'fondo delle cose', si guarda incoscientemente sul vuoto. Invece di riconoscere la castrazione, si alza ogni sorta di alibi fallici, poi, secondo una coazione affascinata, si cerca di scartare a uno a uno tutti questi alibi per scoprire la 'verità' - che è sempre la castrazione, ma in definitiva rivela sempre di essere la castrazione "negata".

Il narcisismo diretto

Tutto questo conduce a porre la questione del narcisismo in termini di controllo sociale. Un passo di Freud ("Introduzione al narcisismo") evoca ciò di cui abbiamo finora parlato: 'Interviene in esse [le donne] una sorta di autosufficienza che le compensa dei sacrifici che la società impone alla loro libertà di scegliersi il proprio oggetto. A rigore queste donne amano, con intensità paragonabile a quella con cui sono amate dagli uomini, soltanto se stesse. In verità i loro bisogni non le inducono ad amare, ma piuttosto ad essere amate; e si compiacciono degli uomini che soddisfano questa loro esigenza [...] Esse esercitano un enorme fascino sugli uomini non solo per ragioni estetiche (di regola sono le più belle), ma anche in virtù di alcune interessanti costellazioni psicologiche'. 61 Si tratta inoltre 'dei bambini, dei gatti di certi animali' che noi invidiamo per 'un assetto libidico inattingibile', per 'la coerenza narcisistica' che sanno mostrare. Nel sistema erotico attuale, non si tratta però di questo narcisismo primario, collegato a una specie di 'perversione polimorfa'. Si tratterebbe piuttosto dello spostamento di 'quel narcisismo di cui godeva nell'infanzia l'Io reale sull'Io ideale', più esattamente della proiezione della 'perfezione narcisistica dell'infanzia' come ideale dell'Io, il quale, come è noto, è collegato con la rimozione e la sublimazione. Questa gratificazione che la donna si dà del proprio corpo, questa retorica della bellezza riflette in realtà una disciplina feroce, un'etica che corre parallelamente a quella che regna nell'ordine economico. Nulla può d'altronde distinguere, nel quadro di questa Estetica funzionale del corpo, il processo mediante il quale il soggetto si sottomette al suo ideale narcisistico dell'Io da quello mediante il quale la società gli impone di conformarvisi, né gli lascia altra alternativa che quella di amare se stesso, di investire se stesso secondo le regole che essa impone. Questo narcisismo è quindi radicalmente distinto da quello del gatto o del bambino "in quanto esso è posto sotto il segno del valore". É un narcisismo "diretto" ["dirigé"], un'esaltazione diretta e funzionale della bellezza a titolo di sfruttamento e di scambio dei segni. Questa autoseduzione ha soltanto l'apparenza di essere gratuita in realtà ogni particolare ne è finalizzato da una norma di gestione ottimale del corpo sul mercato dei segni. Quali che siano i fantasmi che mette in gioco l'erotica moderna, è un'economia razionale del valore che li impone, e in questo sta tutta la differenza con il narcisismo primario o infantile.

Tutta la moda e la pubblicità tracciano così la carta del paese dell'Amore autoerotico e la sua esplorazione diretta: siete responsabili del vostro corpo e dovete valorizzarlo, dovete investirlo - non secondo l'ordine del godimento - ma di "segni" riflessi e mediati dai modelli di massa, e secondo un organigramma di prestigio, eccetera. Ha qui luogo una strana strategia: c'è uno sviamento e una traslazione dell'investimento dal corpo e dalle zone erogene "alla messinscena del corpo e dell'erogenità". La seduzione narcisistica viene ormai attribuita al corpo o a parti del corpo oggettivate mediante una tecnica, degli oggetti, dei gesti, un gioco di marchi e di segni. Questo "neo-narcisismo" perviene alla "manipolazione" del corpo come valore. É un'economia diretta del corpo fondata su uno schema di destrutturazione libidica e simbolica, di smantellamento e di ristrutturazione diretta degli investimenti, di 'riapropriazione' del corpo secondo dei modelli direttivi, e quindi sotto il controllo del senso, di traslazione dell'appagamento di desiderio sul codice. 62 Tutto questo istituisce una specie di narcisismo 'sintetico', che si dovrebbe distinguere dalle due forme classiche di narcisismo:

1. Primario: fusionale.

2. Secondario: investimento del corpo come distinto, Io-specchio. Integrazione dell'Io mediante il riconoscimento speculare e attraverso lo sguardo dell'altro.

3. Terziario: 'sintetico'. Riscrittura del corpo decostruito come Eros 'personalizzato', cioè ancorato a modelli funzionali collettivi. É il corpo omogeneizzato come luogo della produzione industriale di segni e di differenze, mobilitato sotto il segno della seduzione programmatica. Intercettazione dell'ambivalenza a vantaggio d'una positivizzazione totale del corpo come schema di seduzione, di soddisfazione e di prestigio. Il corpo come "sommazione" d'oggetti parziali il cui soggetto è il 'voi' della "consumazione". 63 Intercettazione del rapporto del soggetto con la propria mancanza nel suo corpo mediante il corpo stesso diventato medium di totalizzazione, come appariva mirabilmente nel film "La Mépris", in cui Brigitte Bardot descriveva dettagliamente il proprio corpo in uno specchio, ne proponeva ogni parte all'approvazione erotica dell'altro, e il tutto finiva in un'addizione formale in quanto oggetto: 'Allora, mi ami tutta?' Il corpo diventato sistema totale di segni ordinati mediante modelli, sotto l'equivalente generale del culto fallico, come il capitale diventa sistema totale del valore di scambio, sotto l'equivalente generale del denaro.

La manipolazione incestuosa

La 'liberazione' attuale del corpo passa attraverso questo narcisismo obbligatorio. Il corpo 'liberato' è un corpo in cui la legge e l'interdizione, che censuravano un tempo il sesso e il corpo dall'esterno, si sono in qualche modo interiorizzate come variabile narcisistica. I vincoli esterni si sono trasformati in una circoscrizione di segni, in una simulazione chiusa. E se la legge puritana si esercitava in primo luogo, nel nome del Padre, sulla sessualità genitale, e in modo violento, la fase attuale corrisponde a un mutamento di tutte queste caratteristiche:

- non è più violenta: è una repressione pacificata;

- non prende più di mira fondamentalmente la sessualità genitale, ormai ufficializzata nei costumi. Ciò che è preso di mira, in questo stadio ben più sottile e radicale di repressione e di controllo, è "il livello stesso del simbolico". Vale a dire che la repressione, superando lo stadio della sessualità secondaria (genitalità e modello sociale bisessuale) raggiunge quello della sessualità primaria (differenza erogena e ambivalenza, rapporto tra il soggetto e la propria mancanza che fonda la virtualità di qualsiasi scambio simbolico 64);

- essa non si fa più nel nome del Padre, ma in qualche modo nel nome della Madre. Lo scambio simbolico essendo fondato sulla proibizione dell'incesto, qualsiasi abolizione (censura, rimozione, destrutturazione) di questo livello dello scambio simbolico significa un processo di regressione incestuosa. Abbiamo visto che l'erotizzazione e la manipolazione fallica del corpo si caratterizzano come feticizzazione: ora il perverso feticista si definisce per il fatto che non è mai uscito dal desiderio della madre, che ha fatto di lui il sostituto di ciò che le mancava. Fallo vivente della madre, tutto il lavoro del soggetto perverso consiste nell'installarsi in questo miraggio di se stesso e di trovarvi l'appagamento del suo desiderio - in realtà "appagamento del desiderio della madre" (mentre la repressione genitale tradizionale significa "l'appagamento della parola del Padre"). Si vede che si è creata propriamente una situazione incestuosa: il soggetto non si divide più (non si separa più dalla sua identità fallica), e non divide più (non si priva più di qualcosa di se stesso in una relazione di scambio simbolico). L'identificazione con il fallo della madre lo definisce pienamente. Processo identico a quello nell'incesto: non si esce più dalla famiglia.

Al giorno d'oggi, accade molto generalmente così per il corpo: se la legge del Padre, la morale puritana vi è (relativamente) elusa, ciò accade secondo un'economia libidica caratterizzata dalla destrutturazione del simbolico e dalla rimozione della barriera dell'incesto. Massmediaticamente diffuso, questo modello generale d'appagamento del desiderio non è esente da una qualità d'ossessione e di angoscia ben differente: dalla nevrosi puritana a base isterica. Non si tratta più dell'angoscia collegata all'interdizione edipica, ma di quella connessa al fatto di non essere, al 'seno' stesso della soddisfazione e del godimento fallico moltiplicato, in 'seno' a questa società gratificante, tollerante, lenificante, permissiva, di non essere che la marionetta vivente del desiderio della madre. Angoscia più profonda di quella della frustrazione genitale, perché è quella dell'abolizione del simbolico e dello scambio, quella della posizione incestuosa in cui la mancanza stessa del soggetto viene a mancargli - angoscia che si traduce oggi dappertutto nella fobia e nell'ossessione della "manipolazione".

Viviamo tutti, a tutti i livelli, questa forma sottile di repressione di alienazione: le fonti ne sono irraggiungibili, la presenza insidiosa e totale, le forme di lotta ritrovate, e forse introvabili. Il fatato che questa manipolazione rimanda a quella, originale, del soggetto da parte della madre come del proprio fallo. A questa pienezza fusionale e manipolatoria, a questa espropriazione, non è più possibile opporsi come alla legge trascendente del Padre. Qualsiasi rivoluzione futura deve tener conto di questa condizione fondamentale, e ritrovare - fra la legge del Padre e il desiderio della madre, fra il 'ciclo' repressione/ trasgressione e il ciclo regressione/manipolazione - la forma d'articolazione del simbolico.65

Modelli del corpo

1. Per la medicina, il corpo di riferimento è il "cadavere". In altre parole, il cadavere è il limite ideale del corpo nel suo rapporto con il sistema della medicina. É esso che produce e riproduce la medicina nel suo pieno esercizio, sotto il segno della preservazione della vita.

2. Per la religione, la referenza ideale del corpo è l'"animale" (istinti e appetiti della 'carne'). Il corpo come carnaio, e il risuscitato al di là della morte come metafora carnale.

3. Per il sistema dell'economia politica, il tipo ideale del corpo il "robot". Il robot è il modello perfetto della 'liberazione' funzionale del corpo come forza-lavoro, è l'estrapolazione della produttività razionale assoluta, asessuata (può essere un robot cerebrale: l'elaboratore elettronico, è sempre l'estrapolazione del cervello della forza-lavoro).

4. Per il sistema dell'economia politica del segno, la referenza modello del corpo è il "mannequin" (con tutte le sue varianti). Contemporaneo del robot (è il tandem ideale della fantascienza: Barbarella), il "mannequin" rappresenta anch'esso un corpo totalmente funzionalizzato sotto la legge del valore, ma questa volta come luogo di produzione del valore/"segno" Ciò che è prodotto non è più una forza-lavoro, sono dei modelli di significazione - non solo dei modelli d'appagamento, ma la "sessualità stessa come modello".

Ogni sistema rivela così di volta in volta, dietro l'idealità dei suoi fini (salute, resurrezione, produttività razionale, sessualità liberata), il fantasma riduttore sul quale si articola, la visione delirante del corpo che costituisce la sua strategia. Il cadavere, l'animale, la macchina o il "mannequin" - questi sono i tipi ideali negativi del corpo, le riduzioni fantastiche sotto le quali esso si produce e si scrive nei sistemi successivi.

Lo strano è che il corpo non è nient'altro che questi modelli in cui i differenti sistemi lo hanno rinchiuso, e allo stesso tempo è tutt'altra cosa: la loro alternativa radicale, la differenza irriducibile che li nega. Si può ancora chiamare corpo questa virtualità inversa. Ma per questa - per il corpo in quanto materiale di scambio simbolico - "non c'è nessun modello", nessun codice, nessun tipo ideale, nessun fantasma direttore, "poiché non potrebbe esserci sistema" del corpo come antioggetto.

'Phallus exchange standard'

Dopo la Rivoluzione industriale, una medesima grande mutazione coinvolge i beni materiali, il linguaggio e la sessualità (il corpo), secondo un processo che contrassegna la progressiva generalizzazione dell'economia politica, o ancora l'approfondimento della legge del valore.

1. I prodotti diventano merci: valore d'uso e valore di scambio. Votati da una parte alla finalità astratta dei 'bisogni' che essi 'soddisfano', dall'altra parte alla forma strutturale che regola la loro produzione e il loro scambio.

2. Il linguaggio diventa mezzo di comunicazione, campo di significazione. Si ordina in significanti e significati. Medesima dissociazione, come per la merce, in una finalità referenziale, che il linguaggio come medium ha per fine di esprimere: l'ordine dei significati; e una forma strutturale che regola lo scambio dei significanti: il codice della "langue".

In entrambi i casi, il passaggio alla finalità funzionale, l'assegnazione razionale a un contenuto 'oggettivo' (valore d'uso o significato/ referente) suggella l'assegnazione a una forma strutturale che è la forma stessa dell'economia politica. Nel quadro 'neocapitalistico' (tecno- o semiocratico), questa forma si sistematizza a spese della referenza 'oggettiva': significati e valori d'uso scompaiono progressivamente a solo vantaggio del funzionamento del codice e del valore di scambio. Al termine di questo processo, termine che si delinea per noi soltanto adesso, i due 'settori' della produzione e della significazione convergono. Prodotti e merci si producono come segni e messaggi e si regolano sulla configurazione astratta del linguaggio: veicolando contenuti, valori, finalità (i loro significati), essi circolano secondo una forma generale astratta, ordinata dai "modelli". Merci e messaggi culminano nel medesimo statuto di segni. Qui, d'altronde, la loro referenza sfuma davanti al solo gioco dei significanti, che può giungere così alla perfezione strutturale: accelerazione, proliferazione dei messaggi, delle informazioni, dei segni, dei modelli - è la "moda" come "ciclo" totale nel quale giunge a compimento il mondo "lineare" della merce.

Il corpo e la sessualità si possono analizzare in tutti i termini precedenti: valore d'uso/valore di scambio, significante/significato.

1. Si può mostrare come la sessualità si risolve, "nel suo modo di 'liberazione' attuale", in valore d'uso (soddisfazione dei 'bisogni' sessuali) e in valore di scambio (gioco e calcolo dei segni erotici comandato dalla circolazione dei modelli). Mostrare che la sessualità si autonomizza come "funzione": da quella, collettiva, di riproduzione della specie, passa a quelle, individuali, di equilibrio fisiologico (parte d'una igiene generale), di equilibrio mentale, di 'espressione della soggettività', di emanazione dell'inconscio, di etica del piacere sessuale - che altro? In ogni modo, la sessualità diventa "un elemento dell'economia del soggetto", diventa una finalità oggettiva del soggetto e obbedisce essa stessa a un ordine di finalità, quale che sia.

2. Nella misura in cui essa si funzionalizza (si sottomette a qualche referenza trascendentale che parla "attraverso essa" - fosse pure il proprio principio idealizzato, la libido, ultimo sotterfugio del significato) la sessualità assume una forma strutturale (come i prodotti dell'industria o il linguaggio della comunicazione). Essa rientra in grandi opposizioni (Maschile/Femminile), la cui disgiunzione la circonda, cristallizzando, sull'esercizio di tale "modello" sessuale attestato da tale organo sessuale e chiudendo il gioco dei significanti del corpo.

3. La "struttura" Maschile/Femminile si confonde con il privilegio attribuito alla "funzione" genitale (riproduttiva o erotica). Questo privilegio della genitalità su tutte le virtualità erogene del corpo si ripercuote nella struttura d'un ordine sociale di dominanza maschile. Perché la strutturalità si serve della differenza biologica; ma non è affatto per mantenere una vera differenza: è al contrario per fondare una "equivalenza generale" - il Fallo che diventa il significante assoluto, al quale si vengono a misurare e a ordinare, nel quale si vengono ad astrarre e a equivalere tutte le possibilità erogene. Questo "Phallus exchange standard" governa tutta la sessualità attuale, ivi compresa la sua 'rivoluzione'.

4. L'emergere del fallo come equivalente generale della sessualità, l'emergere della stessa sessualità come equivalente generale delle virtualità simboliche di scambio - tutto questo definisce l'emergere d'una "economica politica del corpo" che si instaura sulle rovine della sua economia simbolica. La 'rivoluzione' attuale, l'esaltazione sessuale nel quadro d'una liberalizzazione generalizzata, non è che la manifestazione dell'accesso del corpo e della sessualità allo stadio dell'economia politica, della loro integrazione alla legge del valore e dell'equivalenza generale.


5. Sotto l'uno e l'altro aspetto - promozione della "sessualità come funzione", promozione della "sessualità come discorso strutturale" - il soggetto si trova rinviato alla norma fondamentale dell'economia politica: si pensa e si orienta sessualmente in termini di "equilibrio" (equilibrio delle funzioni sotto il segno dell'identità dell'Io) - e di "coerenza" (la coerenza strutturale d'un discorso sotto il segno della riproduzione indefinita del codice).


Come gli oggetti '"design"-ati' - ripresi dall'economia politica del segno -obbediscono a un imperativo di spogliamento, che riflette un'economia ascetica di calcolo di funzione, come il segno in generale tende a spogliarsi funzionalmente per tradurre nel modo più stretto possibile l'adeguazione del significante e del significato che è la sua legge e il suo principio di realtà, così il corpo preso dall'economia politica tende anch'esso alla nudità formale come al suo imperativo assoluto. Questa nudità, nella quale si riassume tutto il lavoro d'iscrizione di marchi, di moda, di maquillage e allo stesso tempo tutta la prospettiva idealistica di 'liberazione', non ha nulla d'una 'scoperta', o d'una 'riscoperta' del corpo: essa traduce la metamorfosi logica del corpo nel processo storico delle nostre società. Essa traduce lo statuto moderno del corpo nel suo rapporto con l'economia politica. Come lo spogliamento degli oggetti caratterizza la loro assegnazione a una funzione, cioè "la loro neutralizzazione da parte della funzione" - così la nudità del corpo definisce la sua assegnazione alla "funzione/sesso", la sua destinazione al sesso come funzione, cioè "la neutralizzazione reciproca del corpo e del sesso".


 


Demagogia del corpo

 


Sotto il segno della rivoluzione sessuale, trasfigurazione della pulsione come sostanza rivoluzionaria, dell'inconscio come soggetto della storia. Liberare i processi primari come principio 'poetico' di realtà sociale, "liberare l'inconscio come valore d'uso": questo è l'immaginario che cristallizza sotto la parola d'ordine del corpo. Si vede perché il corpo e il sesso sostengono tutte queste speranze: è perché, rimossi sotto qualunque ordine che abbiano rivestito nelle nostre società 'storiche' essi sono diventati "metafore della negatività radicale". Da metafora, li si vuol far passare allo stato di "fatto" rivoluzionario. Errore: prendere le parti del corpo è illusorio. Non si può passare dalla parte del processo primario, è ancora un'illusione secondaria (J. F. Lyotard).


Nella migliore delle ipotesi, il corpo resterà, anche teoricamente, eternamente ambivalente. Oggetto e anti-oggetto: che attraversa e annulla le discipline che pretendono di unificarlo - luogo e non-luogo: luogo dell'inconscio come non-luogo del soggetto, eccetera. É ancora in suo nome, dopo la partizione fra corpo anatomico e corpo erogeno, che la psicoanalisi attuale (Leclaire) pone il movimento del desiderio, sotto il regime della lettera. Sempre il corpo. Perché non c'è un termine per dire il non-luogo: il migliore è ancora indubbiamente quello che, durante tutta una storia, ha designato ciò che non ha avuto luogo, ciò che fu rimosso. Ma bisogna essere coscienti dei rischi di questa eredità. Il privilegio sovversivo che conferiva al corpo il suo statuto di rimozione cessa con la sua emancipazione attuale 66 (che non è semplicemente il fatto d'una politica di desublimazione repressiva, la psicoanalisi ha anch'essa la sua parte nell'ufficializzazione del corpo e del sesso: qui ancora c'è un groviglio inestricabile fra il corpo e il sesso come "evento" cruciale del soggetto, come processo, come lavoro, e gli stessi come "avvento" storico nell'ordine dei concetti e dei valori). Occorre chiedersi se il corpo che si 'libera' non sia quello che nega per sempre le potenzialità simboliche dell'antico corpo rimosso, se il corpo 'di cui si parla' non sia esattamente il contrario di quello che parla. Al corpo come luogo dei processi primari s'oppone nel sistema attuale il corpo come processo secondario: valore d'uso e valore di scambio erotico, razionalizzazione sotto il segno del valore. Al corpo pulsionale assillato dal desiderio s'oppone il corpo semiurgizzato, strutturalizzato, teatralizzato nella nudità, funzionalizzato dalla "sessualità operativa".


Questo corpo secondario, quello dell'emancipazione sessuale e della 'desublimazione repressiva', è quello che è posto sotto "il solo segno dell'Eros". C'è una confusione del corpo e del solo principio dell'Eros - cioè "neutralizzazione dell'uno da parte dell'altro con l'exinscrizione" della pulsione di morte. Il principio di piacere s'installa allora come ragione d'una soggettività 'liberata', d'una 'nuova economia politica' del soggetto. 'Eros ridetermina la ragione nei suoi propri termini. Ragionevole è ciò che sostiene l'ordine della soddisfazione' (Marcuse). 67 La soggettività 'liberata' si sforza ormai a inscriversi come positività nell'esercizio d'un principio di piacere, Eros, che non è più che la reificazione della libido come modello di realizzazione. C'è qui una nuova "ragione" che apre la via a una finalità illimitata del soggetto, e non c'è allora più nessuna differenza fra l'"escalation" sessuale e lo schema di credenza indefinito delle società di 'liberazione' delle forze produttive - che entrambe si evolvono secondo il medesimo movimento, entrambe egualmente votate allo scacco, secondo il riflusso ineluttabile d'una pulsione di morte che esse hanno creduto di poter scongiurare.


Il corpo collocato sotto il segno dell'Eros rappresenta una fase più avanzata dell'economia politica. Il riassorbimento dello scambio simbolico è in essa altrettanto radicale che l'alienaziane del lavoro umano nel sistema classico dell'economia politica. E se Marx ha descritto la fase storica in cui l'alienazione della forza-lavoro e la logica della merce portavano necessariamente a una "reificazione delle coscienze", si può dire che aggi l'inscrizione del corpo (e di tutti i domini simbolici) nella logica del segno s'accompagna necessariamente a una "reificazione dell'inconscio".


Laddove la nudità sia divisa dal desiderio, essa funge da equivalenza e messinscena del desiderio. Laddove il corpo sia diviso dal sesso, esso funge da significante ed equivalente del sesso. Laddove la sessualità sia divisa dall'ambivalenza, essa funge, attraverso l'espediente strutturale del 'maschile' e del 'femminile', da equivalente di questa ambivalenza! Il dipolo sessuale funge da copione della differenza. La libido strutturalmente sdoppiata in due termini funge da equivalente riduttore della pulsione di morte. Così ovunque la nudità, il corpo, il sesso, l'inconscio, eccetera, invece di aprirsi sulla differenza approfondita, si concatenano come equivalenti rappresentativi gli uni degli altri, si metonimizzano e costellano per definire, di termine in termine, "una logica discorsiva della sessualità". Stessa operazione che nella psicometafisica, dove il soggetto come referente ideale non è fatto che di una circolazione, di uno scambio metonimico ininterrotto dei termini di coscienza, di volontà, di rappresentazione, eccetera.


 


Apologo

"Ah, perché mai ci sono due sessi?

- Di che ti lamenti? Ne vorresti dodici o uno

solo?"

"Romanzo moderno"

Si può allargare il ventaglio: perché non zero sessi o un'infinità? La questione della 'cifra' è qui assurda (mentre ci si può chiedere logicamente perché non sei dita per ciascuna mano?). Assurda perché la sessuazione è precisamente la partizione che traversa ogni soggetto, ciò che rende impensabile l''uno' o i 'molti' - ma anche il 'due', perché il 'due' è già una cifra (è d'altronde sul due come cifra che gioca il dialogo assurdo dianzi citato). Ora il sesso, nella sua accezione radicale, non potrebbe accedere allo stadio di numero intero né allo statuto contabile: è una "differenza", e i due 'lati' della differenza, che non sono dei "termini", non potrebbero sommarsi né far parte d'una serie. Non possono essere presi in conto come "unità".

Per contro, questo dialogo è logico nel quadro del modello bisessuale imposto (Maschile/Femminile), perché questo pone d'un tratto il sesso come due "termini" strutturalmente opposti. La possibilità del passaggio al limite assurdo della numerazione seriale, "al sesso come accumulazione", è implicata dalla struttura bisessuale, a partire dal momento in cui il maschile e il femminile sono posti come termini interi.

Così l'"ambivalenza" del sesso è ridotta dalla "bivalenza" (dei due poli e ruoli sessuali). Adesso che questa equivalenza passa per la metamorfosi della 'rivoluzione sessuale' e che vediamo, si dice, sfumare le differenze fra maschile e femminile, l'ambivalenza del sesso è ridotta dall'ambiguità dell'"unisex".

Contro la metafora sessualista.

Oggi si sa molto bene, troppo bene, alla luce  teoria freudiana, discernere dietro qualsiasi pratica sociale, etica, politica, la sublimazione, la razionalizzazione secondaria di processi pulsionali. É diventato un cliché culturale descrivere tutti i discorsi in termini di rimozione e di "determinazione" fantasmatica.

Ma per l'appunto: non sono più che dei "termini", e l'inconscio non è più che un linguaggio di riferimento. Il discorso sessuale diventa altrettanto fantasmatico quando il sesso, da riduzione critica che era della mistificazione morale e sociale, diventa esso stesso il "modo di razionalizzazione" d'un problema che si situa al livello della "distruzione simbolica totale dei rapporti sociali" - problema che il discorso sessualista contribuisce a circoscrivere in un codice rassicurante. Al giorno d'oggi è facile leggere su "France Dimanche" che la frigidità di tante donne deriva dalla loro eccessiva fissazione sul padre, e che esse si puniscono di questo proibendosi il piacere: questa 'verità' psicoanalitica fa ormai parte della cultura e della razionalizzazione "sociale" (d' onde l'"impasse" sempre maggiore della cura analitica).

L'interpretazione sessuale o analitica non ha nessun privilegio. Anch'essa può essere fantasticata come verità definitiva - e quindi immediatamente anche come tema rivoluzionario. É quanto sta accadendo ora - la collusione fra rivoluzione e psicoanalisi dipendendo dallo stesso immaginario, dalla medesima distorsione da cui dipende il recupero 'borghese' della psicoanalisi - e dipendendo entrambe dall'"inscrizione del sesso e dell'inconscio come istanza determinante", cioè dalla loro riduzione a una causalità razionalistica.

C'è mistificazione a partire dal momento in cui c'è razionalizzazione nel nome di una qualsiasi istanza. Quando il sessuale è sublimato e razionalizzato nel politico, nel sociale, nel morale - ma anche quando il simbolico è censurato e sublimato in una parola sessuale dominante.

Il cuoco di Chuang-tzu

"'Perfetto!', esclamò il principe Wen Hui, 'Come sei giunto a tanta abilità?'

Il cuoco depose il coltello e rispose: 'Il vostro servo ama il Tao, che è superiore all'abilità! Al tempo in cui iniziai a tagliare buoi, vedevo soltanto il bue. Dopo tre anni non vedevo più il bue intero. Ora mi affido allo spirito e non guardo più con gli occhi: ho messo da parte l'esperienza dei sensi e agisco secondo i moti dello spirito, seguendo le regole del cielo. Colpisco nei grandi interstizi guido [il coltello] nei grandi vuoti, secondo la conformazione naturale [dell'animale]. Per passare attraverso i punti di articolazione, e ancor più attraverso le grandi ossa, non basta l'abilità. Un buon cuoco cambia coltello [ogni] anno, [perché] taglia. Un cuoco mediocre cambia coltello [ogni] mese, [perché] lo usa come fosse una scure. Ora il mio coltello [ha] diciannove anni! Ho tagliato migliaia di buoi, ma il filo del coltello è come appena uscito dalla cote. Nelle giunture vi sono dei vuoti, mentre il filo del coltello non ha spessore: inserendo [la parte] senza spessore nei vuoti, c'è spazio più che sufficiente per il coltello. Per questo [lo uso da] diciannove anni e il suo filo è come appena uscito dalla cote. Però, ogni volta [che devo tagliare] una giuntura, osservo i suoi punti difficili, faccio molta attenzione, smetto di guardare, procedo molto lentamente, muovo il coltello appena appena, e all'improvviso [la parte] cede, come [un mucchio] di terra che si sgretola al suolo. [Allora] ritraggo il coltello e mi fermo'."

("Chuang-tzu", cap. terzo, "Yang sheng chu").68

Esempio perfetto di analisi, e della sua prodigiosa operazionalità quando essa supera la visione piena, sostanziale, opaca, dell'oggetto ('all'inizio vedevo soltanto il bue'), la visione anatomica del corpo come edificio pieno, divisibile a piacimento, di ossa, di carne e di organi, unificato dalla rappresentazione esteriore, e sul quale lavora il cuoco mediocre, il quale non fa che tagliare con la forza - per giungere a riconoscere l'articolazione del vuoto, della struttura di vuoti in cui si articola il corpo ('guido il coltello nei grandi vuoti...') Il coltello di Chuang-tzu non è un pieno che attraversa un pieno, è esso stesso un vuoto ('il filo del coltello non ha spessore') che si articola su un vuoto ('nei vuoti, c'è spazio più che sufficiente per il coltello...'). Il coltello che opera in tal modo al livello dello spirito analitico, non lavora sullo spazio che riempie il bue, quello attestato dai sensi, dagli occhi, ma secondo l'organizzazione logica interna del ritmo e degli intervalli. Se esso non si consuma, è perché non si dà uno spessore d'osso o di carne, una sostanza da vincere - è differenza pura che opera su una differenza - qui per disarticolare un corpo, operazione pratica, ma di cui si vede benissimo che si basa su un'economia simbolica che non è né quella di una conoscenza 'oggettiva, né quella d'un rapporto di forze, ma quella d'una struttura di scambio: il coltello e il corpo si "scambiano", il coltello "articola" la mancanza di questo corpo, e con ciò stesso lo decostruisce secondo il proprio ritmo.

Questo coltello è anche la lettera di Leclaire, che divide erogenicamente quel luogo del corpo secondo la logica del piacere. Disponibilità 'inconsumabile' dell'inscrizione simbolica, quando la lettera, per' l'estrema tenuità del suo filo, separa il corpo anatomico e opera sul vuoto articolato del corpo - mentre il discorso pieno, quello del cuoco mediocre, non fa che incidere anatomicamente in una evidenza materiale.

Fratello millenario del coltello di Lichtenberg, 69 il cui paradosso logico (il coltello senza lama al quale manca il manico) metteva in opera, invece del fallo pieno e della sua evidenza fantas(ma)tica, la configurazione simbolica di un fallo "assente" - questo coltello non opera sul corpo: lo risolve, vi circola attentamente e con aria sognante (l'attenzione fluttuante: 'faccio molta attenzione, smetto di guardare, procedo molto lentamente'), vi avanza "anagrammaticamente" - cioè non avanza da un termine all'altro, da un organo all'altro giustapposti, collegati come le parole al filo d'una sintassi funzionale: così fanno i il cuoco mediocre e il linguaggio della significazione. Qui il filo del senso è diverso: esso scarta il corpo manifesto e segue il corpo sotto; il corpo, come fa l'anagramma secondo il suo modello di dispersione e di risoluzione d'un termine, d'un "corpus princeps" il cui segreto è l'articolazione diversa che corre sotto il discorso e tratteggia qualcosa - un nome, una formula - la cui assenza assilla il testo. Questa formula del corpo, che sfida il corpo anatomico, il coltello la descrive e la risolve. É certo che l'efficacia del segno, la sua efficacia simbolica nelle società primitive, lungi dall'essere 'magica', è collegata a questo lavoro di "risoluzione anagrammatica". Lo stesso vale per l'architettura del corpo erogeno, che non è mai che l'articolazione anagrammatica d'una formula 'perduta senza mai essere stata', formula di cui il filo del desiderio rifà la sintesi disgiuntiva, che esso tratteggia senza dirla: il desiderio stesso non è che questa risoluzione del significante nella dispersione orfica del corpo, nella dispersione anagrammatica del poema secondo il ritmo musicale, che è quello del coltello del cuoco di Chuang-tzu.

Capitolo quinto - L'economia politica e la morte

 

L'estradizione dei morti

 

Da quando i selvaggi chiamavano 'uomini' soltanto i membri della loro tribù, la definizione dell''Umano' si è notevolmente allargata: è diventata un concetto universale. É anzi quella che si chiama cultura. Al giorno d'oggi tutti gli uomini sono uomini. In realtà l'universalità non si fonda in nient'altro che nella tautologia e nel raddoppiamento: è qui che l''Umano' assume vigore di legge morale e di principio d'esclusione. Perché l''Umano' è fin dall'inizio l'istituzione del suo doppio strutturale: l'Inumano. Non è anzi che questo, e il progresso dell'Umanità, della Cultura, sono soltanto la catena delle discriminazioni successive che colpiscono gli 'Altri' d'inumanità, quindi di nullità. Per i selvaggi che si dicono 'uomini', gli altri sono un'altra cosa. Per noi invece, sotto il segno dell'Umano come concetto universale, gli altri non sono nulla. Altrove, essere 'uomo' è una sfida, come essere gentiluomo: differenza vissuta di viva forza, non soltanto questa "qualità", questo statuto lascia spazio a uno scambio con gli esseri differenti - dei, antenati, stranieri, animali, natura - ma "impone" d'essere ovunque messa in gioco, esaltata e difesa. Noi ci accontentiamo d'una promozione all'universale, d'un valore generico astratto ancorato all'equivalenza della specie, a esclusione di tutto il resto. In un certo modo, quindi, la definizione dell'Umano è, al livello della cultura, inesorabimente ristretta: ogni progresso 'oggettivo' della civilizzazione verso l'universale ha corrisposto a una discriminazione più stretta, al punto che si può intravvedere il tempo dell'universalità definitiva dell'Uomo, che coinciderà con la scomunica di tutti gli uomini - e in cui la purezza del concetto splenderà da sola nel vuoto.

Il razzismo è moderno. Le culture o le razze precedenti si sono ignorate o annientate, ma mai sotto il segno d'una Ragione universale. Non c'è un criterio dell'Uomo, non la divisione dell'Inumano, soltanto delle differenze che possono affrontarsi a morte. Ma è il "nostro" concetto indifferenziato dell'Uomo che fa sorgere la discriminazione. Bisogna leggere il racconto d'un uomo del Sedicesimo secolo, Jean de Léry, "Histoire d'un voyage en la terre du Brésil", per vedere che al tempo in cui l'Idea dell'Uomo non sovrasta ancora, in tutta la sua purezza metafisica, la cultura occidentale, il razzismo non esiste: il gentiluomo riformato e puritano di Ginevra, che sbarca in Brasile tra i cannibali, non è razzista. In seguito lo siamo diventati, perché abbiamo fatto molti progressi. E non soltanto nei confronti degli indiani e dei cannibali - la nostra cultura, approfondendo la sua razionalità, ha estradato successivamente nell'inumano la natura inanimata, gli animali, le razze inferiori, 70 poi questo cancro dell'Umano ha investito quella stessa società che esso pretendeva di circoscrivere nella sua assoluta superiorità. Michel Foucault ha analizzato l'estradizione dei pazzi all'alba della modernità occidentale, ma noi sappiamo anche che ne è dell'estradizione dei bambini, della loro progressiva reclusione, sul filo stesso della Ragione, nel loro statuto idealizzato d'infanzia, nel ghetto dell'universo infantile, nell'abiezione dell'innocenza. Ma anche i vecchi sono diventati inumani, respinti alla periferia della normalità. E tante altre 'categorie', che sono appunto diventate 'categorie' solo sotto il segno di segregazioni successive che segnano lo sviluppo della cultura. I poveri, i sottosviluppati, i subnormali, i pervertiti, i transessuali, gli intellettuali, le donne - folclore del terrore, folclore della scomunica sulla base d'una definizione sempre più razzista dell''uomo normale'. Quintessenza della normalità: al limite, tutte le 'categorie' saranno escluse segregate, proscritte, in una società finalmente universale, in cui il normale e l'universale saranno infine confusi sotto il segno dell'umano.71

L'analisi di Foucault è uno dei pezzi forti di questa vera storia della cultura, di questa Genealogia della discriminazione in cui lavoro e produzione assumeranno essi stessi, a partire dal Diciannovesimo secolo, un posto decisivo. É tuttavia una esclusione che precede tutte le altre, più radicale di quella dei pazzi, dei bambini, delle razze inferiori, un'esclusione che le precede tutte e serve loro da modello, che è alla base stessa della 'razionalità' della nostra cultura: quella dei morti e della morte.

Dalle società selvagge alle società moderne, l'evoluzione è irreversibile: a poco a poco "i morti cessano di esistere". Sono respinti fuori della circolazione simbolica del gruppo. Non sono più esseri a pieno titolo, partner degni di scambio, e glielo si fa ben vedere proscrivendoli sempre più lontano dal gruppo dei vivi, dall'intimità domestica al cimitero, primo raggruppamento ancora al centro del villaggio o della città, poi primo ghetto e prefigurazione di tutti i ghetti futuri, respinti sempre più lontano dal centro verso la periferia, infine in nessun posto come nel le nuove città o nelle metropoli contemporanee, in cui nulla è più previsto per i morti, né nello spazio fisico né nello spazio mentale. Perfino i pazzi, i delinquenti, gli anormali possono trovare una struttura di assistenza nelle nuove città, cioè nella razionalità di una società moderna - solo la funzione-morte non può esservi programmata né localizzata. A dire il vero, non si sa più che farne. Perché al giorno d'oggi "non è normale essere morti", e questo è un fatto nuovo. Essere morto è un'anomalia impensabile, rispetto alla quale tutte le altre sono inoffensive. La morte è una delinquenza, una devianza incurabile. Non più un luogo o uno spazio/tempo destinato ai morti, la loro dimora è irreperibile, eccoli respinti nell'utopia radicale - nemmeno più parcheggiati: volatilizzati.

Ma noi sappiamo cosa significano questi luoghi introvabili: se la fabbrica non esiste più, è che il lavoro è ovunque - se la prigione non esiste più, è che il sequestro e la reclusione sono ovunque nello spazio/tempo - se il manicomio non esiste più, è perché il controllo psicologico e terapeutico si è generalizzato e banalizzato - se la scuola non esiste più, è che tutte le fibre del processo sociale sono impregnate di disciplina e di formazione pedagogica - se il capitale non esiste più (né la sua critica marxista), è che la legge del valore è passata nell'autogestione della sopravvivenza in tutte le sue forme, eccetera, eccetera. Se il cimitero non esiste più, è che le città moderne tutte intere ne assumono la funzione: sono città morte e città di morte. E se la grande metropoli operativa è la forma perfetta di un'intera cultura, allora la nostra è semplicemente una cultura di morte.72

 

"La sopravvivenza o la morte equivalente".

É giusto dire che i morti cacciati e separati dai vivi, ci condannano, noi vivi, a una "morte equivalente": perché la legge fondamentale dell'obbligazione simbolica opera comunque, per il meglio o per il peggio. Così la pazzia è esclusivamente questa linea di divisione tra pazzi e normali, linea che la normalità "divide" con la follia e grazie alla quale essa si definisce. Qualsiasi società che interna i suoi pazzi è una società investita in profondità dalla pazzia, che sola e ovunque finisce per scambiarsi simbolicamente sotto i segni legali della normalità. Questo lungo lavoro della pazzia sulla società che la reclude è durato molti secoli; adesso i muri del manicomio sono aboliti, non per qualche miracolosa tolleranza, ma perché il lavoro di normalizzazione di questa società mediante la pazzia è stato "portato a termine" - la pazzia è diventata ambiente, pur restando messa al bando. Il manicomio viene riassorbito in seno al campo sociale perché la normalità ha raggiunto il punto perfetto in cui riunisce in sé le caratteristiche del manicomio, perché il virus della reclusione è passato in tutte le fibre dell'esistenza 'normale'.

Lo stesso vale per la morte. In definitiva, la morte non è altro se non questa linea di demarcazione "sociale" che separa i 'morti' dai 'vivi' essa quindi colpisce egualmente gli uni e gli altri. Contro l'illusione insensata dei vivi di volersi vivi a esclusione dei morti, contro l'illusione di ridurre la vita a un "plusvalore assoluto" sopprimendone la morte, la logica indistruttibile dello scambio simbolico ristabilisce l'equivalenza del la vita e della morte - nella fatalità indifferente della sopravvivenza. Rimossa la morte nella sopravvivenza - la vita stessa non è allora, secondo un ben noto riflusso, che una sopravvivenza determinata dalla morte.

 

"Il ghetto d'oltretomba".

Parallelamente alla segregazione dei morti, si sviluppa il concetto d'immortalità. Perché l'aldilà della morte, questo statuto eminente che è il marchio dell''anima' e delle spiritualità 'superiori', è solo l'affabulazione che copre l'estradizione reale dei morti e la rottura dello scambio simbolico con essi. Quando i morti sono là, differenti ma viventi e partner dei vivi in molteplici scambi, non hanno bisogno di essere immortali, "non bisogna" che lo siano, perché questa qualità fantastica infrangerebbe qualsiasi reciprocità. Solo via via che sono esclusi dai vivi essi diventano pian piano immortali, e questa sopravvivenza idealizzata non è che il marchio del loro esilio sociale.

Bisogna finirla con l'idea d'un "progresso" delle religioni che porterebbe dall'animismo al politeismo e poi al monoteismo, con una progressiva liberazione di un'anima immortale. É di pari passo con la reclusione dei morti che viene loro attribuita l'immortalità, un po' come vediamo crescere simultaneamente nelle nostre società la speranza di vita e la segregazione dei vecchi come asociali.

Perché l'immortalità è progressiva; è questa una delle cose più strane. Nel tempo: essa passa da una sopravvivenza limitata alla sopravvivenza eterna - nello spazio sociale: l'immortalità si democratizza e passa dal privilegio di alcuni al diritto virtuale di tutti. Ma questo è relativamente recente. In Egitto, lentamente, certi membri del gruppo (i faraoni, poi i sacerdoti, i capi, i ricchi, gli iniziati della classe dominante), in funzione stessa del loro potere, spiccano come immortali, mentre gli altri non hanno diritto che alla morte e al doppio. 73 Verso l'anno 2000 avanti Cristo, tutti accedono all'immortalità: è una specie di conquista sociale, forse strappata a viva forza; senza fare della fantastoria sociale, si possono facilmente immaginare, nell'Egitto dell'Antico Impero, delle rivolte e dei movimenti sociali rivendicanti il diritto all'immortalità per tutti.

Si tratta quindi fin dall'inizio d'un emblema del potere e di trascendenza sociale. Laddove, nei gruppi primitivi, non esistono strutture di potere politico, non c'è nemmeno una immortalità personale. Un anima 'relativa', una immortalità 'ristretta' corrispondono in seguito, nelle società meno segmentali, a una trascendenza essa stessa relativa delle strutture di potere. Poi l'immortalità si generalizza e si eternizza con le società dispotiche in cui esiste una trascendenza totale del potere, i Grandi Imperi. Dapprima è il re o il faraone a beneficiare di questa promozione, poi, a uno stadio più avanzato, Dio stesso, l'immortalità per eccellenza, d'onde deriva, per ridistribuzione, l'immortalità per ognuno. Ma questa fase del Dio immortale, che coincide con le grandi religioni universaliste, e particolarmente con il cristianesimo, è già quella d'una grandissima astrazione del potere sociale, nell'"imperium" romano. Se gli dei greci sono mortali, è che essi sono legati a una cultura specifica, e non ancora universale.

Gli stessi inizi del cristianesimo non sono concordi sull'immortalità, che è un'acquisizione tardiva. I Padri della Chiesa ammettono ancora l'annientamento provvisorio dell'anima in attesa della resurrezione. E l'idea stessa della resurrezione, quando san Paolo la predica, i pagani la deridono, ma anche i cristiani e i Padri della Chiesa vi resistono profondamente. Nell'Antico Testamento (Daniele), la resurrezione è promessa solo a coloro che non hanno ricevuto da vivi la loro retribuzione "in bene o in male". L'aldilà della vita, la sopravvivenza non è che il saldo di tutti i conti, non esiste che in funzione del residuo di ciò che non è stato scambiato da vivi. Bell'esempio di ripiego la resurrezione o l'immortalità, rispetto alla possibilità simbolica del gruppo arcaico di regolare tutti i conti "immediatamente", di saldare il suo debito simbolico senza rimettersi a una vita ulteriore.

In origine emblema distintivo del potere, l'immortalità dell'anima opera lungo tutto il cristianesimo come mito egalitarista, come democrazia dell'aldilà di fronte all'ineguaglianza mondana prima della morte. Non è che un mito. Anche nella versione cristiana più universalista, l'immortalità non appartiene che "di diritto" a tutti gli esseri umani. Di fatto, è concessa col contagocce, resta appannaggio d'una cultura e, all'interno di questa cultura, d'una determinata casta sociale e politica. I missionari hanno mai creduto all'anima immortale degli indigeni? La donna ha veramente un'anima nella cristianità 'classica'? E i pazzi, i bambini, i criminali? Di fatto, si ritorna sempre a questo punto: solo i potenti e i ricchi hanno un'anima. La disuguaglianza innanzi alla morte, sociale, politica, economica (speranza di vita, prestigio dei funerali, gloria e sopravvivenza nel ricordo degli uomini), non è mai che una ricaduta di questa discriminazione fondamentale: gli uni, soli veri 'esseri umani', hanno diritto all'immortalità, gli altri hanno diritto solo alla morte. Nulla è in sostanza cambiato dall'Egitto dell'Antico Impero.

Immortalità o no, dirà il materialista ingenuo, che importa: tutto questo è puramente immaginario. Sì, ed è avvincente vedere che la discriminazione sociale reale si fonda là, e che non c'è un altro luogo, né più eminente, dove si stabiliscano il potere e la trascendenza sociale, se non l'immaginario. Il potere economico del capitale non è meno fondato nell'immaginario di quello delle Chiese. Non ne è che la secolarizzazione fantastica.

Si vede anche che la democrazia qui non cambia nulla. Ci si è potuti battere un tempo per l'immortalità dell'anima per tutti, come generazioni di proletari si sono battute per ottenere l'eguaglianza dei beni e della cultura. Medesima lotta, gli uni per la sopravvivenza dell'aldilà, gli altri per la sopravvivenza attuale - medesima trappola: l'immortalità personale di alcuni risulta, come si è visto, dalla frattura del gruppo: a che serve rivendicarla per tutti? Non è che generalizzare l'immaginario. La rivoluzione può consistere solo nell'abolizione della separazione dalla morte, e non nell'eguaglianza della sopravvivenza.

L'immortalità non è che una specie di equivalente generale legato all'astrazione del tempo lineare (essa prende forma nella misura in cui il tempo diventa questa dimensione astratta legata al processo d'accumulazione dell'economia politica e all'astrazione della vita "tout court").

 

"Death power".

L'emergere della sopravvivenza si può quindi analizzare come l'operazione fondamentale della nascita del potere. Non solo perché questo dispositivo permetterà l'esigenza del sacrificio di questa vita e il riscatto della ricompensa nell'altra - tutta la strategia delle caste sacerdotali - ma più ancora per l'istituzione d'un'"interdizione della morte" e simultaneamente dell'istanza che vigila su questa interdizione: il potere. Spezzare l'unione dei morti e dei vivi, infrangere lo scambio della vita e della morte, districare la vita dalla morte, e colpire d' interdetto la morte e i morti, ecco il primissimo punto d'emergenza del controllo sociale. Il potere è possibile solo se la morte non è più in libertà, solo se i morti sono posti sotto sorveglianza, in attesa della futura reclusione della vita intera. Questa è la Legge fondamentale, e il potere è il guardiano delle porte di questa Legge. La rimozione fondamentale non è quella delle pulsioni inconsce, d'una qualche energia, d'una libido, e non è antropologica - è la rimozione della morte, ed è "sociale" - nel senso che è essa ad attuare la svolta verso la socializzazione repressiva della vita.

Storicamente, è noto che il potere sacerdotale si fonda sul monopolio della morte e sul controllo esclusivo dei rapporti con i morti. 74 I morti sono il primo dominio riservato, e restituito allo scambio attraverso una mediazione obbligata: quella dei sacerdoti. Il potere s'installa su questa barriera della morte. In seguito si alimenterà di altre separazioni ramificate all'infinito: quella dell'anima e del corpo, del maschile e del femminile, del bene e del male, eccetera, ma la prima separazione è quella della vita e della morte.75 Quando si dice che il potere 'tiene la barra', non è una metafora: esso "è" questa barra tra la vita e la morte, questo decreto che interrompe lo scambio della vita e della morte, questo pedaggio e questo controllo tra le due rive.

É nello stesso modo che il potere s'istituirà più tardi tra il soggetto e il suo corpo separato, tra l'individuo e il corpo sociale separato, tra l'uomo e il suo lavoro separato: dalla separazione nasce l'istanza di mediazione e di rappresentanza. Ma bisogna capire che l'archetipo di questa operazione è quello che separa un gruppo dai suoi morti, o ciascuno di noi al giorno d'oggi dalla propria morte. Tutte le forme di potere avranno sempre intorno a sé qualcosa di questo odore, perché nella manipolazione, nell'amministrazione della morte il potere si fonda in ultima istanza.

É nella sospensione tra una vita e la sua fine, cioè nella produzione d'una temporalità letteralmente fantastica e artificiale (perché ogni vita è già là in ogni istante, con la propria morte, cioè con la sua finalità realizzata nel medesimo istante), è in questo spazio diviso che s'istallano tutte le istanze di repressione e di controllo. Per la prima volta il sociale astratto s'installa in questa frattura dell'unità indivisibile della vita e della morte (molto prima del tempo del lavoro sociale astratto!). Tutte le future alienazioni, separazioni, astrazioni, che saranno quelle dell'economia politica denunciate da Marx, hanno radici in questa separazione della morte.

La morte sottratta alla vita, è la stessa operazione dell'economia politica - è la vita residua, ormai leggibile in termini operativi di calcolo e di valore. Come ne "L'uomo senza ombra ["Peter Schlemihl"] di Chamisso: una volta perduta l'ombra (sottratta la morte), Peter Schlemihl diventa ricco, potente, capitalista - il patto con il diavolo non è mai altro che il patto dell'economia politica.

La vita restituita alla morte, è l'operazione stessa del simbolico.

 

Lo scambio della morte nell'ordine primitivo

 

I selvaggi non hanno un concetto biologico della morte. O piuttosto: il fatto biologico - morte, nascita o malattia - tutto ciò che è naturale e a cui noi accordiamo un privilegio di necessità e di oggettività, per essi semplicemente non ha senso. É il disordine assoluto, perché ciò non si può scambiare simbolicamente, e ciò che non si può scambiare simbolicamente costituisce un pericolo mortale per il gruppo. 76 Sono le forze inconciliate, inespiate, stregate, ostili, che vagano intorno all'anima e al corpo, che aspettano al varco il vivo e il morto, le energie defunte e cosmiche che il gruppo non ha saputo dominare nello scambio.

"Noi" abbiamo desocializzato la morte trasferendola alle leggi bio-antropologiche, accordandole l'immunità della scienza, autonomizzandola come fatalità individuale. Ma la materialità fisica della morte, che ci paralizza con il credito 'oggettivo' che le accordiamo, non arresta i primitivi. Questi non hanno mai 'naturalizzato' la morte, sanno che la morte (come il corpo, come l'evento naturale) è un "rapporto sociale", che la sua definizione è sociale. In ciò sono molto più 'materialisti' di noi, perché la vera materialità della morte per essi, come quella della merce per Marx, è nella sua forma, che è sempre quella d'un rapporto sociale. Mentre tutto il nostro idealismo converge sull'illusione d'una materialità biologica della morte: discorso della '"realtà"', che di fatto è quello dell'immaginario, e che i primitivi superano nell'intervento del "simbolico".

Questo tempo forte dell'operazione simbolica è l'iniziazione. Essa non mira a scongiurare la morte né a 'superarla', ma ad articolarla socialmente. Così la descrive R. Jaulin ne "La Mort Sara": il gruppo degli antenati 'inghiottono i koy' (giovani candidati all'iniziazione), che muoiono '"simbolicamente"' per rinascere. Soprattutto non bisogna intenderlo secondo il nostro senso degradato, ma nel senso che la loro morte diventa la posta in gioco d'uno scambio reciproco/antagonistico fra gli antenati e i vivi e, invece d'una frattura, instaura un rapporto sociale tra dei partner, una circolazione di doni e di contro-doni altrettanto intensa della circolazione dei beni preziosi e delle donne - gioco di risposte incessanti in cui la morte non può più installarsi come fine o come istanza. Mediante l'offerta della polpetta, il fratello dona la moglie a un morto della famiglia, al fine di farlo rivivere. Mediante il cibo, il morto è incluso nella vita del gruppo. Ma lo scambio è reciproco. Il morto dona sua moglie, la terra del clan, a un vivo della sua famiglia, al fine di rivivere assimilandosi a lui e di farlo rivivere assimilandolo a se stesso. Il momento importante è l'uccisione, da parte dei "moh" (i grandi sacerdoti), dei "koy" (gli iniziati), che sono inghiottiti dai loro antenati; poi la terra li partorisce come li aveva partoriti la loro madre. Dopo essere stati 'uccisi', gli iniziati sono lasciati nelle mani dei loro genitori iniziatici, 'culturali', che li istruiscono, li curano e li educano (nascita iniziatica).

É chiaro che l'iniziazione consiste nell'instaurazione d'uno scambio là dove non c'era che un fatto bruto: dalla morte naturale, aleatoria e irreversibile, si passa a una morte "data e ricevuta", quindi reversibile nello scambio. Nel medesimo tempo sparisce l'opposizione tra nascita e morte: anch'esse possono "scambiarsi" in tutte le forme della reversibilità simbolica. L'iniziazione è questo momento cruciale, questo nesso sociale, questa camera oscura in cui nascita e morte, cessando d'essere i "termini" della vita, reinvolvono l'una nell'altra - non verso qualche fusione mistica, ma per fare così dell'iniziato un vero essere sociale. Il bambino non iniziato non ha fatto che nascere biologicamente, non ha ancora che un padre e una madre '"reali"'; per diventare un essere sociale deve passare attraverso l'evento "simbolico" della nascita/morte iniziatica per entrare nella realtà simbolica dello scambio.

Nella prova iniziatica, non si tratta di mettere in scena una seconda nascita che eclisserebbe la morte. Lo stesso Jaulin pende verso questa interpretazione: la società 'scongiurerebbe' la morte, oppure le opporrebbe 'dialetticalmente', nell'iniziazione, un termine di sua invenzione che la utilizza e la 'supera': 'Alla vita e alla morte che sono loro date, gli uomini hanno aggiunto l'iniziazione, mediante la quale trascendono il disordine della morte'. Formula a un tempo molto bella e molto ambigua, perché l'iniziazione non si 'aggiunge' agli altri termini, e non gioca la vita "contro" la morte, verso una rinascita (diffidiamo di tutti coloro che trionfano sulla morte!). É la "scissione" della nascita e della morte che l'iniziazione scongiura, e con essa la fatalità a quella unita che grava sulla vita quando è in tal modo divisa. Perché allora essa diventa questa irreversibilità biologica, questo destino fisico assurdo, allora la vita è perduta in partenza, perché votata a declinare con il corpo. D' onde l'idealizzazione di uno dei due termini, la nascita (e la sua duplicazione nella resurrezione) alle spese dell'altro, la morte. Ma questo non è che uno dei nostri profondi pregiudizi sul 'senso della vita'. Perché la nascita, in quanto evento individuale irreversibile, è altrettanto traumatizzante della morte. La psicoanalisi l'ha espresso in un altro modo: la nascita è una specie di morte. E il cristianesimo non ha fatto altro, con il battesimo, che circoscrivere mediante un sacramento collettivo, mediante un atto sociale, questo evento "mortale" che è la nascita. Questa specie di "crimine" che è l'avvento della vita, se non è ripreso, espiato mediante un simulacro collettivo di morte. La vita non è un vantaggio di per sé se non nell'ordine contabile del valore. Nell'ordine simbolico, la vita, come qualunque altra cosa, è un "crimine" se sopraggiunge unilateralmente - se non è ripresa e distrutta, data e restituita, 'restituita' alla morte. É l'iniziazione che cancella questo crimine, risolvendo l'evento "separato" della nascita e della morte in un medesimo atto sociale di scambio.

 

"Simbolico / reale / immaginario".

Il simbolico non è né un concetto, né una istanza o una categoria, né una 'struttura', ma un atto di scambio e "un rapporto sociale che mette fine al reale", che risolve il reale, e allo stesso tempo l'opposizione tra il reale e l'immaginario.

L'atto iniziatico è l'inverso del nostro principio di realtà. Esso mostra che la "realtà" della nascita proviene esclusivamente dalla separazione della nascita e della morte. Che la "realtà" della stessa vita deriva solo dalla disgiunzione della vita e della morte. L'"effetto di realtà" non è quindi ovunque che l'effetto strutturale di disgiunzione tra due termini, e il nostro famoso principio di realtà, con ciò che esso implica di normativo e di repressivo, non è che la generalizzazione di questo codice disgiuntivo a tutti i livelli. La realtà della natura, la sua 'oggettività', la sua 'materialità' deriva dalla separazione dell'uomo e della natura - d'un corpo e d'un non-corpo, direbbe Octavio Paz. La stessa realtà del corpo, il suo statuto materiale, deriva dalla disgiunzione d'un principio spirituale, dalla discriminazione di un'anima e di un corpo, eccetera.

Il simbolico è ciò che mette fine a questo codice della disgiunzione e ai suoi termini separati. "Esso è l'utopia che mette fine alle topiche dell'anima e del corpo, dell'uomo e della natura, del reale e del non-reale, della nascita e della morte". Nell'operazione simbolica, i due termini perdono il loro principio di realtà. 77 Ma questo principio di realtà non è mai che l'immaginario dell'altro termine. Nella partizione uomo/natura, la natura (oggettiva, materiale) non è che l'immaginario dell'uomo così concettualizzato. Nella partizione sessuale maschile/femminile, distinzione strutturale e arbitraria che fonda il principio di 'realtà' (e di repressione) sessuale, la 'donna' così definita non è mai che l'immaginario dell'uomo. Ogni termine della disgiunzione esclude l'altro, che diventa il suo immaginario.

Lo stesso vale per la vita e per la morte nel sistema nel quale ci troviamo: il prezzo che paghiamo per la 'realtà' di questa vita, per viverla come valore positivo, è il fantasma continuo della morte. Per noi vivi, così definiti, la morte è il nostro immaginario. 78 Ora, tutte le disgiunzioni che fondano le diverse strutture del reale (questo non è del tutto astratto: è proprio questo che separa l'insegnante dall'insegnato, e che fonda il sapere come principio di realtà della loro relazione - e così via in tutti i rapporti sociali che conosciamo) hanno il loro archetipo nella disgiunzione fondamentale della vita e della morte. É per questo che, quale che sia il campo di 'realtà', ogni termine separato, per il quale l'altro è il suo immaginario, è assillato da quest'ultimo "come dalla propria morte".

Così il simbolico è dappertutto ciò che mette fine a questo incantesimo reciproco del reale e dell'immaginario, a questa chiusura del fantasma che la psicoanalisi rintraccia, ma in cui essa si rinchiude allo stesso tempo, in quanto istituisce anch'essa, mediante considerevoli disgiunzioni (processi primari/secondari, eccetera) un principio di realtà psichica dell'Inc-inseparabile dal suo principio di realtà psicoanalitica (l'Inc come principio di realtà della psiconanalisi!) - ciò in cui il simbolico non può che mettere fine anche alla psicoanalisi.79

 

"Lo scambio ineluttabile".

L'evento reale della morte è un immaginario.

Là dove questo immaginario crea un disordine simbolico, l'iniziazione ristabilisce l'ordine simbolico. La proibizione dell'incesto fa altrettanto nel campo della filiazione: all'evento reale, naturale, 'asociale', della filiazione biologica, il gruppo risponde con un sistema d'alleanza e di scambio delle donne. L'essenziale è che tutto (qui le donne, altrove la nascita e la morte) diventi disponibile per lo scambio, passi cioè sotto la giurisdizione del gruppo. In questo senso, la proibizione dell'incesto è solidale e complementare all'iniziazione: nell'una, sono i giovani iniziati che circolano tra gli adulti vivi e gli antenati morti - essi sono dati e restituiti, e con ciò accedono al riconoscimento simbolico. Nell'altra, sono le donne che circolano: anch'esse non accedono a un vero statuto sociale che una volta date e ricevute, invece di essere conservate dal padre o dai fratelli per il loro uso. 'Colui che non dà nulla, foss'anche sua figlia o sua sorella, è morto.' 80La proibizione dell'incesto è alla base dell'alleanza dei vivi tra di loro. L'iniziazione è alla base dell'alleanza tra vivi e morti. Questo è il fatto fondamentale che ci separa dai primitivi: lo scambio non cessa con la vita. Lo scambio simbolico non ha fine, né tra i vivi, né con i morti (né con le pietre, né con le bestie). É una legge assoluta: obbligazione e reciprocità sono inviolabili. Nulla può sottrarvisi, nei confronti di chiunque o di checchessia, sotto pena di morte.

La morte non è d'altronde che questo: essere sottratto al ciclo degli scambi simbolici (Marcel Mauss, "Effet physique chez l'individu de l'idée de mort suggérée par la collectivité", in "Sociologie et Anthropologie").81

Ma si potrebbe anche dire che questo non ci separa affatto dai primitivi, e che "la stessa cosa vale esattamente anche per noi". Attraverso tutto il sistema dell'economia politica, la legge dello scambio simbolico non è cambiata d'uno iota: noi continuiamo a scambiare con i morti, anche se negati e messi al bando - semplicemente paghiamo con la nostra morte continua e con la nostra angoscia della morte la rottura degli scambi simbolici con essi. Lo stesso vale sostanzialmente anche per la natura inanimata e le bestie. Soltanto un'assurda teoria della libertà può pretendere che ne siamo esenti, il debito è universale e incessante, non riusciamo mai a 'rendere' per tutta questa 'libertà' che abbiamo preso. Questo contenzioso enorme, fatto di tutte le obbligazioni e le reciprocità che noi abbiamo denunciato, è propriamente l'inconscio. Non c'è nessun bisogno di libido, di desiderio, di energetica e di destini delle pulsioni per renderne conto. L'Inc è sociale nel senso che è fatto di ciò che non si è potuto scambiare socialmente o simbolicamente. Così per la morte: essa si scambia comunque - o meglio, si "scambierà" secondo un rituale sociale, come presso i primitivi, nel peggiore dei casi, si "riscatterà" in un lavoro individuale del lutto. L'inconscio è interamente nella distorsione della morte da un processo simbolico (scambio, rituale) a un processo economico (riscatto, lavoro, debito, individuale). Ne segue una notevole differenza nel godimento: noi commerciamo con i nostri morti con la moneta della malinconia, i primitivi vivono con i loro sotto gli auspici del rituale e della festa.

 

"L'inconscio e l'ordine primitivo".

Questa reciprocità della vita e della morte, quali si scambiano in un "ciclo" sociale invece di stagliarsi secondo la "linearità" biologica o la "ripetizione" del fantasma, questo riassorbimento dell'interdetto che separa i vivi e i morti e si riflette tanto violentemente sui vivi - tutto questo rimette in causa l'ipotesi stessa dell'inconscio.

'Sposare la madre', 'uccidere il padre', che cosa vuol dire? chiede E. Ortigues in "Oedipe africain". 'Il verbo sposare non ha lo stesso senso nei due contesti, non ha il medesimo contenuto sociale e psicologico. Quanto al verbo 'uccidere', apparentemente così chiaro, siamo ben sicuri che non ci riservi delle sorprese? Cos'è dunque un 'padre morto' in un paese in cui gli antenati sono tanto vicini ai vivi? [...] É la totalità che è cambiata e ci obbliga a esaminare di nuovo il senso di ciascun termine.

'In una società sottomessa alla legge dell'antenato, non c'è nessuna possibilità per l'individuo di uccidere questo padre sempre già morto e sempre ancor vivo nel costume dei vecchi... Prendere su di sé la morte del padre o individualizzare la coscienza morale riducendo l'autorità paterna a quella d'un mortale, d'una persona sostituibile, separabile dall'altare degli antenati e dal 'costume', "significherebbe uscire dal gruppo", prendersela con i fondamenti della società tribale.

'Quando parliamo della dissoluzione del complesso di Edipo, pensiamo a un dramma vissuto individualmente. Ma che ne sarà in una società tribale in cui la religione della 'fecondità' e degli 'antenati' propone come base esplicita della tradizione collettiva ciò che da noi il giovane Edipo è condannato a vivere nei suoi fantasmi personali?'

Così la 'funzione simbolica' nelle società primitive non si articola sulla legge del Padre e il principio di realtà psichica individuale, ma immediatamente su un principio collettivo, sul movimento collettivo degli scambi. Nell'iniziazione, abbiamo visto come si risolvevano, mediante un processo sociale, le figure biologiche della filiazione, per lasciare il posto a dei parenti iniziatici - figure simboliche che rinviano al "socius", cioè a tutti i padri e tutte le madri del clan, e al limite ai padri morti, gli antenati, e alla terra-madre del clan. L'istanza del Padre non compare, è risolta nella collettività dei fratelli rivali (iniziati). 'L'aggressività si sposterà in linea orizzontale, in rivalità tra i fratelli, sovraccompensata da una fortissima solidarietà' (Ortigues) (perché si 'sposterà'? Come se dovesse 'normalmente' dirigersi verso il Padre?). Al principio dell'Edipo, che corrisponde all'aspetto "negativo" dell'interdizione dell'incesto (interdizione sulla madre imposta dal padre) si oppone, nel senso "positivo", un principio di scambio delle sorelle da parte dei fratelli - è la sorella, non la madre, che è al centro del dispositivo, ed è al livello dei fratelli e delle sorelle che si organizza tutto il gioco sociale degli scambi. Quindi, niente triangolo edipico desocializzato, niente struttura familiare chiusa sanzionata dall'interdizione e dalla Parola dominante del Padre, ma un principio di scambio tra "pari", sulla base della sfida e della reciprocità - principio autonomo d'organizzazione sociale. 'L'apparizione del concetto di dono avviene in seno d'una medesima classe d'età in un'atmosfera di uguaglianza. Il sacrificio al quale il bambino acconsente nella "nursery" a vantaggio d'un altro bambino non è dello stesso ordine della separazione dalla madre.'

Dunque qui tutto parla d'un principio sociale dello scambio opposto al principio psichico dell'interdizione. Tutto parla d'un processo simbolico opposto a un processo inconscio. Ciò che non emerge da nessuna parte nell'ordine primitivo, perché tutto vi è suddiviso e risolto socialmente, è la triade "biologica" della famiglia, sovradeterminata "psichicamente", raddoppiata nello psichico dal nodo dei fantasmi, il tutto coronato da questo quarto termine puramente 'simbolico': il fallo - 'rigorosamente necessario per introdurre la relazione al livello della parola, e per farne una legge di riconoscenza reciproca tra i soggetti.' É là in effetti che s'inscrive per noi (almeno nella teoria psicoanalitica) il Nome del Padre, significante della Legge, che sola introduce allo scambio. Il famoso trucco della Parola del Padre che protegge contro la fusione mortale e l'assorbimento da parte del desiderio della madre. Fuori del fallo, nessuna salvezza. Necessità di questa Legge, e d'una istanza simbolica che sbarri il soggetto, grazie alla quale avvenga la rimozione primaria che è alla base della formazione dell'inconscio, e che per ciò stesso fa accedere il soggetto al proprio desiderio. Senza questa istanza che ordina gli scambi, senza questa mediazione del fallo, il soggetto, incapace di rimozione, non accede più nemmeno al simbolico e sprofonda nella psicosi.

Ecco perché si è potuto dire che le società primitive erano delle società 'psicotiche' - "perché in effetti esse non conoscevano l'operazione di questa Legge né la struttura di rimozione e d'inconscio che ne deriva". Beninteso, questo non è che il nostro modo feroce di rinviarle nella loro dolce follia (salvo poi accorgersi - cosa che si comincia a fare nello stesso Occidente psicoanalitico - che la psicosi potrebbe nascondere un senso più radicale, una simbolicità più radicale di quella che abbiamo mai intravisto sotto il segno della psicoanalisi). Sì, queste società hanno accesso al simbolico. 82 No, non vi hanno accesso per intercessione di una Legge immutabile, la cui figura rappresenta lo stesso ordine sociale, quello del Padre, del Capo, del Significante e del Potere. Il simbolico non è una "istanza", tale che l'accesso ne sia retto dalla mediazione d'un Fallo, d'una figura maiuscola in cui verrebbero a incarnarsi tutte le figure metonimiche della Legge. Il simbolico è il ciclo stesso degli scambi, il ciclo del dare e del rendere, un ordine che nasce dalla reversibilità stessa, e che sfugge alla duplice giurisdizione e d'una istanza psichica rimossa e d'una istanza sociale trascendente.83

Quando i padri si scambiano, cioè quando sono dati e ricevuti e trasmessi da una generazione all'altra sotto forma di antenati già morti e sempre vivi (il padre biologico, invece, è interscambiabile, non si può che sostituirsi a lui, e la sua figura simbolica, la sua parola, è immutabile, nemmeno essa si scambia, è una parola senza risposta) - quando la madre è "donata" dai padri (è la terra degli antenati, ogni volta rimessa in gioco nell'iniziazione), e ricevuta e trasmessa (è anche la lingua della tribù, la lingua segreta alla quale accede l'iniziato), allora tutto questo, il padre, la madre, la parola perdono il loro carattere d'istanze fatali indecifrabili, oppure di posizioni in una struttura governata dall'interdizione - esattamente come la morte e la nascita perdono il loro statuto di eventi fatali, il loro statuto di necessità e di legge nel superevento simbolico dell'iniziazione.

Se si può parlare di società senza rimozione né inconscio, non è affatto per ritrovare qualche innocenza miracolosa in cui i flussi di 'desiderio' errerebbero liberamente, in cui i 'processi primari' si realizzerebbero senza interdizione - un "ordine del disinibito", idealismo del desiderio e della libido quale assilla le immaginazioni freudo-reichiane, freudo-marxiste e persino schizo-nomadi. Questo fantasma d'un desiderio e d'un inconscio naturalizzato (o macchinizzato) per essere 'liberato': fantasma d'una 'libertà' che è oggi trasferita dalle sfere del pensiero razionale a quelle dell'irrazionale, del bruto, del 'primario', dell'inconscio senza peraltro cessare d'essere una problematica "borghese" (e precisamente la problematica cartesiana e kantiana della necessità e della libertà).

Rimettere in causa la teoria dell'inconscio significa rimettere in causa anche quella del Desiderio, in quanto non si tratta mai qui, al livello di tutta una civiltà, che del fantasma negativo d'un ordine del razionale. In questo il Desiderio fa interamente parte del nostro regno dell'interdizione, la sua materialità sognata fa parte del nostro immaginario. Sia dialettizzato con l'interdizione, come nell'Edipo e la psicoanalisi, sia esaltato nella sua produttività bruta, come nell'Anti-Edipo, è sempre la promessa d'una naturalità selvaggia, il fantasma d'una energia pulsionale "oggettiva", liberatrice e da liberare - forza-desiderio erede, nel campo mutevole delle rivoluzioni, della vecchia buona forza-lavoro. Come è noto, l'effetto di forza è sempre l'effetto della rimozione, l'effetto di realtà sempre dell'ordine dell'immaginario. Bisognerà scrivere lo Specchio del Desiderio come si è scritto lo Specchio della Produzione.

Un esempio: il cannibalismo primitivo. Al di là dell'alimentazione, il problema è quello della 'pulsione orale' di divorare, sulla quale graverebbe per noi un'interdizione fondamentale, fors' anche la più fondamentale, mentre certi primitivi la trasgredirebbero ingenuamente e appagherebbero il loro 'desiderio' senz'altra forma di processo. Postulato: ogni uomo desidera mangiare il suo simile, e quando una squadra di rugby cattolica fa altrettanto, per forza di cose, nella Cordigliera delle Ande, in occasione d'un incidente aereo, tutti si sono meravigliati di questa riapparizione divina d'una natura che si credeva sepolta. Persino il papa l'ha benedetta e discolpata, non per diffondere l'esempio; ma comunque: non è più un crimine "assoluto" - e perché - se non in riferimento a una "natura" il cui sacro (inconscio e psicoanalitico), il cui sacro "libidico" fa oggi vittoriosamente concorrenza al sacro divino e religioso? I cannibali, invece, non pretendono affatto di vivere allo stato di natura, o secondo il loro desiderio; pretendono semplicemente, con il loro cannibalismo, di "vivere in società". Il caso più interessante è quello in cui essi mangiano i propri morti. Ciò non accade né per necessità vitale né perché non li tengano ormai in nessun conto, tutt'al contrario - è per rendere loro omaggio ed evitare in tal modo che, abbandonati all'ordine biologico della putrefazione, essi sfuggano all'ordine sociale e si ritorcano contro il gruppo per perseguitarlo.

Questo divoramento è un atto sociale, un atto "simbolico", mirante a mantenere una rete di legami con il morto, o con il nemico che si divora - in ogni modo, come è noto, colui che si mangia è sempre qualcuno di valore, non si mangia uno qualsiasi, ed è sempre un segno di rispetto il divorarlo, facendolo con ciò stesso diventare sacro. "Noi" disprezziamo quello che mangiamo, non possiamo mangiare che ciò che disprezziamo, cioè un essere morto, inanimato, animale o vegetale votato all'assimilazione biologica - ed è così che pensiamo che l'antropofagia sia disprezzabile, spregevole, nella prospettiva del nostro disprezzo per ciò che mangiamo, per l'atto di mangiare e infine in definitiva per il nostro corpo. Il divoramento primitivo non conosce l'attivo e il passivo, questa separazione astratta di chi mangia e chi è mangiato. Tra i due, c'è un modo duale, d'onore e di reciprocità, può essere anche una sfida o un duello, che il mangiato può eventualmente vincere (confronta tutto il rituale di propiziazione nei confronti del cibo), in ogni caso mai un'operazione meccanica di assorbimento. 84 Nemmeno un assorbimento di 'forze vitali', come pretende comunemente l'antropologia, passando semplicemente da un funzionalismo alimentare a un funzionalismo magico (gli psicoanalisti, invece, si attengono al funzionalismo psichico della pulsione). Non più che un atto di sostentamento, il divoramento non è transustanziazione di "mana" a vantaggio di chi mangia - è un atto "sociale", un processo sacrificale in cui è in gioco tutto il metabolismo del gruppo. Né appagamento di desiderio, né assimilazione di checchessia, è al contrario un atto di elargizione, di consumazione e di trasmutazione della carne in relazione simbolica, trasformazione del corpo morto in scambio sociale. La medesima cosa si ritrova nell'eucarestia, ma sotto forma d'un sacramento astratto, e nell'equivalenza generale del pane e del vino. La parte maledetta che si consuma qui è già notevolmente sublimata ed evangelizzata.

Anche l'uccidere non ha il medesimo senso che per noi. L'uccisione rituale del re non ha nulla a che vedere con l'uccisione 'psicoanalitica' del padre. Dietro l'obbligo di espiare con la morte il privilegio detenuto dal re, il suo omicidio mira anche qui a mantenere nel flusso degli scambi, nella sfera della reciprocità del gruppo ciò che rischiava di accumularsi e di fissarsi sulla persona del re (statuti, ricchezze, donne, potere). La sua morte previene questo incidente. É qui l'essenza e la funzione del sacrificio: far sparire ciò che rischia di cadere fuori del controllo simbolico del gruppo e di gravare su di esso con tutto il peso del morto.

Bisogna quindi uccidere il re (di tanto in tanto), e con lui la legge e la specie di fallo che cominciava a governare la vita sociale. Non è quindi dal fondo dell'inconscio e dalla figura del padre che proviene l'uccisione del re, al contrario, sono il nostro inconscio e le sue peripezie che derivano dalla perdita dei meccanismi sacrificali. Noi non concepiamo più l'omicidio che in un'economia chiusa, come uccisione fantasmatica del padre, cioè come saldo della rimozione e della legge, come appagamento di desiderio e come regolamento di conti. La posta in gioco è fallica, e sulla base della rimozione entra in gioco, con la morte del padre, la peripezia fallica della presa di potere. Questa è una riscrittura affatto semplificata della morte e dell'omicidio come aggressione rimossa, come violenza equivalente alla violenza della rimozione. Nell'ordine primitivo, l'omicidio non è né violenza né "acting-out" dell'inconscio; per coloro che uccidono il re non c'è quindi nessun beneficio di potere né aumento di colpevolezza, come nel mito freudiano. Il re stesso non la subisce: egli dona la sua morte, restituisce la sua morte in cambio, e questa morte è contrassegnata dalla festa, mentre l'omicidio fantasmatico del padre è vissuto nella colpevolezza e nell'angoscia.

Così, né l'uccidere né il mangiare hanno lo stesso senso che per noi: non derivano da una pulsione omicida, da un sadismo orale o da una struttura di rimozione che sola ha conferito loro il senso che essi hanno ora per noi. Sono degli atti sociali che seguono in tutto il dispositivo dell'obbligo simbolico. Tra l'altro, non hanno mai quel senso unilaterale nel quale si esprime tutta l'aggressività che è alla base della nostra cultura: uccidere mangiare - io uccido io mangio - tu sei ucciso, tu sei mangiato - tutto l'inconscio e i suoi fantasmi (e la loro teoria psicoanalitica) presuppongono l'accettazione di questa disgiunzione, la rimozione dell'ambivalenza, la cui restituzione sotto qualsiasi forma, nel processo simbolico, mette fine alla giurisdizione dell'inconscio.

"uccidere possedere divorare" - tutto il nostro inconscio individuale si organizza intorno a questi termini e ai fantasmi che lo circondano, sotto il segno della rimozione.

"donare rendere scambiare" - tutto si svolge presso i primitivi nello scambio collettivo manifesto intorno a questi tre termini, nel rituale e nei miti che lo sostengono.

Ciascuno dei 'verbi' dell'inconscio presuppone un taglio, una frattura, la barra che si ritrova ovunque in psicoanalisi, e il senso di colpa che essa scatena, il gioco e la ripetizione dell' interdetto. I 'verbi' del simbolico presuppongono al contrario una reversibilità, una transizione ciclica indefinita.

Ma la differenza radicale è soprattutto nell'autonomizzazione d'una sfera psichica: nelle società primitive si svolge collettivamente qualcosa la cui rimozione soltanto dà accesso all'istanza dello psichico e dell'inconscio. Tutte le analogie sulle quali giocano allegramente l'antropologia e la psicoanalisi sono una profonda mistificazione.

La distorsione che la psicoanalisi fa subire alle società primitive è dello stesso ordine, ma di senso opposto, di quella che esse subiscono da parte dell'analisi marxista.

1. Per gli antropomarxisti, l'istanza dell'economico è altrettanto presente e determinante in questo tipo di società, semplicemente è nascosta, latente, mentre presso di noi è manifesta - ma questa differenza è giudicata secondaria, l'analisi non vi si arresta e passa senza colpo ferire al suo discorso materialistico.

2. Per gli antropopsicoanalisti, l'istanza dell'inconscio è altrettanto presente e determinante in questo tipo di società, semplicemente è manifesta, esteriorizzata, mentre presso di noi è latente, rimossa - ma questa differenza non tocca l'essenziale, e l'analisi continua senza scomporsi il suo discorso in termini d'inconscio.

Da entrambi i lati, è il medesimo disconoscimento di questa differenza apparentemente infima: per una medesima struttura - economia o inconscio - si passa, dalle formazioni primitive alle nostre, ora dal manifesto al nascosto, ora viceversa. Soltanto la nostra metafisica può trascurare questo particolare, nell'illusione che il contenuto resti lo stesso. Ma ciò è radicalmente falso: quando l'economico 'si nasconde dietro' altre strutture, cessa semplicemente di esistere - non rende conto di nulla, non è nulla. Inversamente, quando l'inconscio si 'manifesta', quando diventa una struttura manifesta e articolata, non è più per niente inconscio - una struttura psichica e un processo fondato sulla rimozione non hanno alcun senso in quest'altra configurazione, rituale e non psichica, d'una risoluzione manifesta dei segni. Tutto cambia quando si passa dal latente al manifesto, dal manifesto al latente. 85 Per questo, contro il disconoscimento marxista e psicoanalitico, bisogna riprendere tutto "a partire da" questo spostamento.

Ci si accorgerà che l'impossibilità di trovare, di specificare l'economico è esattamente il simbolico. E che la possibilità di manifestare apertamente qualcosa che sarebbe l'inconscio, ma che perciò stesso cessa di esserlo, è anch'esso il simbolico.

 

- "Il doppio e lo sdoppiamento".

La figura del doppio, strettamente legata a quella della morte e della magia, pone da sola tutti i problemi dell'interpretazione psicologica o psicoanalitica.

Ombra, spettro, riflesso, immagine, spirito materiale ancora quasi visibile, il doppio primitivo passa generalmente per una prefigurazione grossolana dell'anima e della coscienza, secondo un processo di crescente sublimazione e di 'ominazione' spirituale alla Teilhard de Chardin: verso l'apogeo del Dio unico e d'una morale universale. Ora, il Dio unico ha tutto a che vedere con la forma d'un potere politico unificato, e nulla a che vedere con gli dei primitivi. Analogamente, l'anima e la coscienza hanno tutto a che vedere con un principio d'unificazione del soggetto, e nulla a che vedere con il doppio primitivo. Al contrario, è l'avvento storico dell''anima' che metterà fine al ricco scambio con gli spiriti e i doppi - suscitando per contraccolpo l'apparizione di un'altra figura del doppio, quella che corre diabolicamente in filigrana nella regione occidentale - ma che, ancora una volta, ha tutto a che vedere con la figura occidentale dell'alienazione, e nulla a che vedere con il doppio primitivo. La sovrapposizione dei due sotto il segno della psicologia (conscia o inconscia) non è che una riscrittura abusiva.

Fra il primitivo e il suo doppio non c'è una relazione di rispecchiamento o d'astrazione come tra il soggetto e il suo principio spirituale, l'anima o tra il soggetto e il suo principio morale e psicologico, la coscienza. Da nessuna parte affiora questa ragione indivisa, questa relazione di equivalenza ideale che struttura per noi il soggetto persino nel suo sdoppiamento. Il doppio non è in primo luogo questo ectoplasma fantastico, questa riapparizione arcaica venuta dalle profondità dell'inconscio e del senso di colpa (ritorneremo su questo punto). Il doppio, come il morto (il morto è il doppio del vivo, il doppio è la figura vivente e familiare della morte) è un partner con il quale il primitivo ha una relazione personale e concreta, relazione ambivalente, fausta o infausta secondo i casi, un certo tipo di scambio visibile (parola, gesto e rituale) con una parte invisibile di se stesso "senza che si possa parlare di alienazione". Perché il soggetto è alienato - come noi lo siamo - solo quando interiorizza una istanza astratta, venuta dal retromondo, come direbbe Nietzsche - psicologica (l'Io e l'ideale dell'Io), religiosa (Dio e l'anima), morale (la coscienza e la legge) - istanza inconciliabile alla quale tutto il resto è subordinato. Così, storicamente, l'alienazione comincia con l'interiorizzazione del Padrone da parte dello schiavo "emancipato": niente alienazione fintanto che dura la relazione "duale" del padrone e dello schiavo.

Il primitivo ha una relazione duale, e non alienata, con il suo doppio. Esso può realmente - ciò che ci è sempre interdetto - avere commercio "con la sua ombra" (l'ombra reale, senza metafora) come con qualcosa di originale, di vivo, per parlarle, proteggerla, propiziarsela, ombra tutelare o ostile - propriamente non un riflesso dell''originale' del corpo, ma ombra a pieno titolo, e allo stesso tempo non una parte 'alienata' del soggetto, ma una delle figure dello scambio. É d'altronde ciò che ritrovano i poeti nell'interpretazione del loro corpo, o delle parole del linguaggio. Parlare al proprio corpo, parlare al linguaggio in un modo duale, al di là dell'attivo e del passivo (il corpo mi parla, il linguaggio mi parla), autonomizzare ogni frammento di corpo, ogni frammento di lingua come un essere vivente, capace di risposta e di scambio - è la fine della separazione e dello sdoppiamento, che non è che l'equivalenza sottomessa di ogni parte del corpo al principio del soggetto, l'equivalenza sottomessa di ogni frammento di linguaggio al codice della "langue".

Lo statuto del doppio in una società primitiva (e degli spiriti e degli dei, perché questi sono anch'essi degli altri reali, viventi e differenti, e non un'essenza idealizzata), è quindi l'inverso della nostra alienazione: l'essere vi si demoltiplica in innumerevoli altri, altrettanto vivi di lui, mentre il soggetto unificato, individuato, non può che affrontare se stesso nell'alienazione e nella morte.

Con l'interiorizzazione dell'anima e della coscienza (del principio di identità e d'equivalenza con se stesso) il soggetto subisce una vera e propria reclusione, simile a quella dei pazzi nel Diciassettesimo secolo descritta da Foucault. É allora che si perde il pensiero primitivo del doppio come pensiero della continuità e dello scambio e che sorge l'ossessione del doppio come discontinuità del soggetto nella follia e nella morte. 'Chi vede il suo doppio vede la propria morte.' Doppio vampiro, doppio vendicatore, anima inconciliata, il doppio diventa la morte prefigurata del soggetto, che lo assilla nel cuore stesso della sua vita. É il Doppio di Dostoievski, o di Peter Schlemihl, l'uomo che ha perduto la sua ombra - si è sempre interpretata quest'ombra come metafora dell'anima, della coscienza, della terra natale, eccetera, incurabile idealismo: il racconto è ben più straordinario se è inteso fuor di metafora. Noi abbiamo perduto tutti la nostra ombra reale, quella che ci fa il sole, perché essa non esiste più per noi, non le parliamo più, e con essa è il nostro corpo che ci ha lasciato - perdere la propria ombra è già dimenticare il proprio corpo. Inversamente, quando l'ombra ingrandisce e diventa una potenza autonoma, come l'immagine dello specchio dello Studente di Praga, è un effetto del demonio e della demenza, è per divorare il soggetto che l'ha perduta, è l'ombra omicida, immagine di tutti i morti respinti e dimenticati e che, è del tutto naturale, non accettano mai di non essere più nulla per i vivi.

Tutta la nostra cultura è piena di questa ossessione del doppio separato, fin sotto la forma più sottile che le ha dato Freud in "Das Unheimliche" ("Il perturbante"), nell'angoscia che scaturisce dalle cose più familiari, dove sorge con intensità tanto maggiore in quanto nella sua forma più semplice: la "vertigine della separazione". Viene infatti il momento in cui le cose più vicine, che sono come il nostro corpo, e questo stesso corpo, la nostra voce, la nostra immagine, cadono nella separazione, nella stessa misura in cui interiorizziamo quel principio di soggettività ideale che è l'anima (o qualsiasi altra istanza o astrazione equivalente). É essa che uccide questa proliferazione dei doppi e degli spiriti, che li respinge nelle trame larvali, spettrali, del folclore inconscio, come gli antichi dei trasformati in demoni dal cristianesimo - "verteufelt".

É ancora essa che, con un ultimo artificio della spiritualità, li "psicologizza". In effetti l'ultima forma della "Verteufelung", della corruzione demoniaca e della liquidazione del doppio primitivo, è l'interpretazione in termini di "psichismo" arcaico. Proiezione della colpevolezza annessa all'omicidio fantasmatico dell'Altro (del parente prossimo), secondo la magia dell'onnipotenza delle idee ("Allmacht der Gedanken"), ritorno del rimosso, eccetera Freud:

 

"la nostra analisi di esempi di situazioni perturbanti ci ha ricondotto alla vecchia concezione animistica dell'universo, la quale era caratterizzata dall'idea che il mondo fosse popolato dagli spiriti degli uomini, dalla sopravvalutazione narcisistica dei processi psichici, dalla fede nell'onnipotenza del pensiero e dalle tecniche magiche fondate su questa fede, dall'attribuzione a diverse persone e cose esteriori di poteri magici esattamente scalari, o "mana" e, inoltre, da tutte le altre creazioni, ricorrendo alle quali l'uomo lottava, nello scatenato narcisismo di quello stadio evolutivo, per sconfiggere i manifesti impedimenti della realtà.

Sembrerebbe come se ognuno di noi attraversasse una fase del suo sviluppo individuale corrispondente a questo stadio animistico degli uomini primitivi, che nessuno può superare, senza che in lui persistano taluni residui o tracce tuttora capaci di manifestarsi, e che quel che oggi ci colpisce col suo carattere 'perturbante' riesca a tanto perché va a stimolare questi residui di un'attività psichica a carattere animistico, riportandoli alla luce."86

 

Ed ecco la psicologia, la nostra istanza delle profondità, il nostro retromondo - questa onnipotenza delle idee, questo narcisismo magico, questa paura dei morti, 87 questo animismo o psichismo primitivo che rifiliamo discretamente ai selvaggi per recuperarli in seguito tra noi come 'sedimenti arcaici'. Freud non crede di dire altrettanto bene parlando di 'sopravvalutazione narcisistica dei processi psichici'. Se c'è qualcuno che sopravvaluta i propri processi psichici (al punto d'esportarne la teoria, come abbiamo fatto della nostra morale e della nostra tecnica, al centro di tutte le culture) è proprio Freud stesso e tutta la nostra cultura psicologistica. La giurisdizione del discorso psicologico su tutte le pratiche simboliche (quelle, eclatanti, dei selvaggi - la morte, il doppio, la magia - ma anche quelle nostre, attuali) è ancora più pericolosa di quella del discorso economicistico - è dello stesso ordine della giurisdizione repressiva dell'anima o della coscienza su tutte le virtualità simboliche del corpo. La reinterpretazione del simbolico da parte dello psicoanalitico è un'operazione riduttiva. Poiché viviamo sotto il regime dell'inconscio (ma ci viviamo davvero? non è il nostro mito, che designa la rimozione, ma ne partecipa ancora - pensiero rimosso della rimozione), ci sentiamo autorizzati a estendere questa giurisdizione, quella della storia psichica, come d'altronde quella della storia senz' altri aggettivi, a tutte le configurazioni possibili. L'inconscio, l'ordine psichico in generale, diventa l'istanza insuperabile che conferisce uno "jus primae noctis" su tutte le formazioni individuali e sociali precedenti. Ma il cui immaginario prolifera anche nel futuro: se l'inconscio è il nostro mito moderno e la psicoanalisi il suo profeta, la liberazione dell'inconscio (la Rivoluzione del Desiderio) ne è l'eresia millenaristica.

Ora il pensiero dell'inconscio, "come quello della coscienza", è ancora un pensiero della discontinuità e della frattura. Esso sostituisce semplicemente alla positività dell'oggetto e del soggetto della coscienza l'irreversibilità d'un oggetto perduto e d'un soggetto che sfugge per sempre. Decentrato, esso rimane tuttavia nell'orbita del pensiero occidentale, con le sue '"topiche"' successive (l'inferno/il paradiso - il soggetto/la natura - la coscienza/l'inconscio), in cui il soggetto diviso non può che sognare una continuità perduta. 88 Esso non raggiunge mai l'"utopia" - che non è affatto il fantasma d'un ordine perduto ma, contro tutte le topiche della discontinuità e della rimozione, il pensiero d'un ordine duale, d'un ordine della reversibilità, d'un ordine simbolico (nel senso forte ed etimologico del termine), dove per esempio la morte non è uno spazio separato, dove il proprio corpo e la sua ombra non sono per il soggetto degli spazi separati, dove non c'è una morte che metta fine alla storia del corpo, dove non c'è una barra che metta fine all'ambivalenza del soggetto e dell'oggetto, dove non c'è né aldilà (la sopravvivenza e la morte, né aldiqua (l'inconscio e l'oggetto perduto), ma la realizzazione immediata, e non fantasmatica, della reciprocità simbolica. Questo pensiero utopistico non è funzionale: solo la nostalgia genera delle utopie fusionali. Qui, nulla è nostalgico, perduto, separato, inconscio. Tutto è già presente, e reversibile, e sacrificato.

 

L'economia politica e la morte

 

 

"Non si muore perché bisogna morire: si muore perché è un'abitudine alla quale un tempo, non tanto remoto, ci ha costretto la coscienza."

 

VANEGHEM.

 

 

"Den G”ttern ist der Tod immer nur ein Vorurteil." ["Per gli dei la morte è sempre soltanto un pregiudizio"].

 

NIETZSCHE.

 

La morte, in quanto universale della condizione umana, non esiste che da quando c'è una discriminazione sociale dei morti. L'istituzione della morte, come quella della sopravvivenza e dell'immortalità, è una conquista tardiva del razionalismo politico delle caste sacerdotali e della Chiesa: è sulla gestione di questa sfera immaginaria della morte che esse fondano il loro potere. Quanto alla scomparsa della sopravvivenza religiosa, essa è una conquista, ancora più tardiva, d'un razionalismo politico di Stato. Quando la sopravvivenza sparisce davanti ai progressi della ragione 'materialistica', è semplicemente che è passata nella vita stessa: ed è sulla gestione "della vita come sopravvivenza oggettiva" che lo Stato fonda il suo potere. Più forte della Chiesa: non è sull'immaginario dell'aldilà, ma sull'immaginario di questa stessa vita che s'ingrandisce lo Stato e il suo potere astratto. É sulla morte secolarizzata, la trascendenza del sociale, che esso si basa, e la sua forza gli deriva dall'astrazione mortale che esso incarna. Come la medicina è quella del cadavere, così lo Stato è la gestione del corpo morto del "socius".

La Chiesa s'è istituita d'un tratto sulla separazione della sopravvivenza dalla vita, del mondo terreno dal Regno dei Cieli. Essa la vigila gelosamente, perché se questa distanza sparisse, sarebbe la fine del suo potere. La Chiesa vive "dell'eternità differita" (come lo Stato vive della società differita, come i partiti rivoluzionari vivono della rivoluzione differita: tutti vivono della morte) - ma ha fatto fatica ad imporla. Tutto il cristianesimo primitivo, e più tardi il cristianesimo popolare, messianico ed eretico vive della speranza della parusia, dell'esigenza della realizzazione immediata del Regno dei Cieli (confronta Mìhlmann: "Les Messianismes révolutionnaires"). Le folle cristiane non credono all'inizio a un cielo né a un inferno dell'aldilà: la loro visione implica la risoluzione pura e semplice della morte nella volontà collettiva di un'"eternità immediata". Le grandi eresie manichee, che minacceranno i fondamenti della Chiesa, s' attengono al medesimo principio poiché interpretano questo mondo come dualità agonistica, "quaggiù", del principio del bene e di quello del male - fanno discendere l'inferno sulla terra, il che è altrettanto empio che farvi discendere il cielo. Per aver cancellato questo punto fermo dell'aldilà, esse verranno ridotte ferocemente, come lo saranno le eresie spiritualistiche del tipo di quelle di san Francesco d'Assisi e di Gioacchino da Fiore, la cui carità radicale equivaleva a stabilire in questa terra una comunità totale e a fare l'economia del Giudizio universale. I catari miravano anch'essi un po' troppo alla perfezione "realizzata", all'indistinzione dello spirito e del corpo, all'immanenza della salvezza nella fede collettiva, il che significava ridersene del potere di morte delle Chiese.

Lungo tutta la sua storia, la Chiesa ha dovuto smantellare la comunità primitiva, perché quest'ultima ha la tendenza a trovare da sola la propria salvezza, basandosi sulla propria energia, sulla intensa reciprocità che l'attraversa. Contro l'università astratta di Dio e della Chiesa, sette e comunità praticano l''autogestione' della salvezza, che consiste allora nell'esaltazione simbolica del gruppo, e termina alla fine in una vertigine di morte. L'unica condizione di possibilità delle Chiese è la liquidazione incessante di questa esigenza simbolica - che è anche l'unica condizione di possibilità dello Stato. É qui che entra in scena l'economia politica.

Contro l'abbagliamento terreno delle comunità, la Chiesa impone una "economia politica della salvezza individuale". Dapprima mediante la fede (ma diventata rapporto "personale" dell'anima con Dio invece dell'effervescenza d'una comunità), poi mediante l'accumulazione delle opere e dei meriti, cioè un'economia nel senso proprio del termine, con il suo bilancio finale e le sue equivalenze. É allora, come sempre quando appare un processo d'accumulazione, 89 che la morte sorge veramente all'orizzonte della vita. É allora che il Regno passa veramente dall'altra parte della morte - davanti alla quale ognuno si ritrova solo. Se il cristianesimo si trascina dietro un fascino della sofferenza, della solitudine e della morte, è nella misura stessa della sua universalità, che implica la distruzione delle comunità arcaiche. Nella forma compiuta dell'universale religioso, come in quella dell'universale economico (il capitale), ciascuno si ritrova solo.

É con il Cinquecento che questa figura moderna della morte si generalizza. Con la Controriforma e i giochi funebri e ossessivi del Barocco, ma soprattutto con il protestantesimo che, individualizzando le coscienze davanti a Dio, disinvestendo il cerimoniale collettivo, accelera il processo d'angoscia individuale della morte. É da esso inoltre che sorgerà l'immensa impresa moderna di scongiuro della morte: l'etica del l'accumulazione e della produzione materiale, la santificazione mediante l'investimento, il lavoro e il profitto che si chiama comunemente lo 'spirito del capitalismo' (Max Weber, "L'etica protestante e lo spirito del capitalismo") - questa macchina di salvezza da cui l'ascesi intramondana s'è a poco a poco ritirata a vantaggio dell'accumulazione mondana e produttiva, senza mutare di finalità: la protezione contro la morte.

Prima di questa svolta storica del Cinquecento, la visione e l'iconografia della morte nel Medioevo è ancora folcloristica e gioiosa. C'è un "teatro collettivo" della morte, questa non si è ancora ritirata nella coscienza individuale (e più tardi nell'inconscio). Nel Quattrocento, la morte alimenta ancora quella grande festa messianica ed egalitaria che fu la Danza della Morte: re, vescovi, principi, borghesi, plebei, - tutti uguali davanti alla morte, in sfida all'ordine inegalitario della nascita, della ricchezza e del potere. Ultimo grande momento in cui la Morte poté apparire come mito offensivo, come parola collettiva. Poi, come si sa, la morte è diventata un pensiero 'di destra', individuale e tragico, 90 'reazionario' rispetto ai movimenti di rivolta e di rivoluzione sociale.

La morte, la nostra, è veramente nata nel Sedicesimo secolo. Essa ha perduto la sua falce e il suo orologio, ha perduto i Cavalieri dell'Apocalisse e i giochi grotteschi e macabri del Medioevo. Tutto questo era ancora un folclore e una festa, attraverso la quale la morte si scambiava ancora, certo non con l''efficacia simbolica' dei primitivi, ma almeno come fantasma "collettivo" sul frontone delle cattedrali o i giochi condivisi dell'inferno. Si può perfino dire: finché esiste un inferno, esiste un piacere. La sua scomparsa nell'immaginario non è che il segno della sua interiorizzazione psicologica, quando la morte cessa d'essere la grande mietitrice per diventare l'angoscia della morte. Su questo inferno psicologico, cresceranno altre generazioni di sacerdoti e di stregoni, più sottili e più specifici.

Con la disintegrazione delle comunità tradizionali, cristiane e feudali, da parte della Ragione borghese e del nascente sistema dell'economia politica, la morte non si condivide più. Essa è a immagine dei beni materiali, che circolano sempre meno, come negli scambi precedenti, fra dei partner inseparabili (è sempre più o meno una comunità o un clan che scambia), e sempre più sotto il segno d'un equivalente generale. Nel modo capitalistico, ognuno è solo davanti all'equivalente generale. Allo stesso modo, ciascuno si ritrova solo davanti alla morte - e questa non è una coincidenza. Perché "l'equivalente generale è la morte".

A partire da quel momento, è l'ossessione della morte e la volontà di abolire la morte che diventa il motore principale della razionalità dell'economia politica. Accumulazione del valore, e in particolare del tempo come valore, nel fantasma d'un rapporto della morte al termine d'un infinito lineare del valore. Anche coloro che non credono più in una eternità personale credono nell'infinito del tempo come in un capitale della specie a interesse composto. É l'infinito del capitale che passa nell'infinito del tempo, l'eternità d'un sistema produttivo che non conosce più la reversibilità dello scambio/dono, ma soltanto l'irreversibilità della crescita quantitativa. L'accumulazione del tempo impone l'idea del progresso, come l'accumulazione della scienza impone l'idea della verità: in entrambi i casi, ciò che si accumula non si scambia più simbolicamente e diventa una dimensione "oggettiva". Al limite, l'oggettività totale del tempo, come l'accumulazione totale, è l'impossibilità totale di scambiare simbolicamente - è la morte. D' onde l'"impasse" assoluta dell'economia politica: essa vuole abolire la morte mediante l'accumulazione - ma il tempo stesso dell'accumulazione è quello della morte. Non esiste una rivoluzione dialettica in cui sperare al termine di questo processo, è un'esaltazione a spirale.

Si sapeva già che la razionalizzazione economica degli scambi (il mercato) è la forma sociale che "produce" la scarsità (Marshall Sahlins, "La prima società dell'abbondanza", in "Stone Age Economics"). Allo stesso modo, l'accumulazione indefinita del tempo come valore sotto il segno dell'equivalenza generale si trascina dietro "quella scarsità assoluta del tempo che è la morte".

Contraddizione del capitalismo? No, il comunismo è in questo solidale con l'economia politica, dato che anch'esso mira all'abolizione della morte, secondo il medesimo fantasma di progresso e di liberazione, secondo il medesimo schema fantastico d'una eternità di accumulazione e di forze produttive. Soltanto il suo disconoscimento totale della morte (se non come d'un orizzonte ostile da vincere con la scienza e la tecnica) l'ha protetto finora dalle peggiori contraddizioni. Perché non serve a nulla voler abolire la legge del valore se si vuole allo stesso tempo abolire la morte, cioè conservare la vita come valore assoluto. É la vita stessa che deve uscire dalla legge del valore e arrivare a scambiarsi contro la morte. Di tutto questo i materialisti non si preoccupano affatto, nel loro idealismo d'una vita espurgata della morte, d'una vita finalmente 'liberata' di qualsiasi ambivalenza.91

Tutta la nostra cultura non è che un immenso sforzo per dissociare la vita dalla morte, scongiurare l'ambivalenza della morte a solo vantaggio della riproduzione della vita come valore, e del tempo come equivalente generale. Abolire la morte - è il nostro fantasma che si ramifica in tutte le direzioni: quella della sopravvivenza e dell'eternità per le religioni, quella della verità per la scienza, quella della produttività e dell'accumulazione per l'economia.

Nessun'altra cultura conosce questa opposizione distintiva della vita e della morte a vantaggio della vita come positività: la vita come accumulazione, la morte come scadenza.

Nessun'altra cultura conosce questo vicolo cieco: quando cessa l'"ambivalenza" della vita e della morte, quando cessa la "reversibilità" simbolica della morte, si entra in un processo di accumulazione della vita come valore - ma allo stesso tempo si entra anche nel campo della produzione equivalente della morte. Così questa vita diventata valore è costantemente "pervertita" della morte equivalente. La morte diventa, ad ogni istante, l'oggetto d'un desiderio perverso. La separazione stessa della vita e della morte è investita dal desiderio. Allora soltanto si può parlare d'inconscio, perché "l'inconscio non è che l'accumulazione della morte equivalente" - quella che non si scambia più e non può che monetizzarsi nel fantasma. Il simbolico è il sogno inverso d'una fine dell'accumulazione e d'una reversibilità possibile della morte nello scambio. La morte "simbolica", quella che non ha subito questa disgiunzione "immaginaria" della vita e della morte che è all'origine della "realtà" della morte, quella si scambia in un rituale sociale di festa. La morte reale/immaginaria (la nostra) non può che riscattarsi in un lavoro individuale del lutto, che il soggetto compie sulla morte degli altri, e su se stessi fin dalla propria vita. É questo lavoro del lutto che alimenta la metafisica occidentale della morte a partire dal cristianesimo, e fino nel concetto metafisico pulsione di morte.

 

La pulsione di morte

 

Con Freud, si passa dalla morte filosofica, dal dramma della coscienza, alla morte come processo pulsionale, inscritto nell'ordine inconscio - da una metafisica dell'angoscia a una metafisica della pulsione. Tutto accade come se la morte, "liberata dal soggetto", trovasse infine il suo statuto di finalità "oggettiva": energia pulsionale di morte o principio di funzionamento psichico.

Diventando pulsione, la morte non cessa di essere un fine (è anzi l'unico, a partire da quel momento: l'enunciazione della pulsione di morte significa una straordinaria semplificazione delle finalità, poiché anche l'Eros le è subordinato), ma questa finalità diventa più profonda, fino a inscriversi nell'inconscio. Ora, questo approfondimento della morte nell'inconscio coincide con l'approfondimento del sistema dominante: la morte diventa allo stesso tempo un 'principio di funzionamento psichico' e il 'principio di realtà' delle nostre formazioni sociali, attraverso l'immensa mobilitazione repressiva del lavoro e della produzione. Oppure: con la pulsione di morte, Freud colloca il processo di "ripetizione" al centro delle determinazioni obiettive al momento stesso del passaggio del sistema generale dalla produzione alla pura e semplice "riproduzione".

Questa coincidenza è straordinaria, per poco che ci s'interessi, al di là del suo statuto metapsicologico, a una "genealogia" del concetto di pulsione di morte. É questa una 'scoperta' d'ordine antropologico che cancella tutte le altre (e che può servire perciò da principio universale di spiegazione: si può immaginare tutta l'economia politica come dominata e generata dalla pulsione di morte) - oppure questo concetto è "prodotto" in un dato momento, in relazione con tale configurazione del sistema? In questo caso, la sua radicalità non è che quella del sistema stesso, e il concetto non fa che sanzionare una cultura di morte, dandole l'etichetta d'una pulsione metastorica. Operazione che è quella di tutto il pensiero idealistico, ma che noi rifiutiamo di ammettere in Freud. Con Freud (come con Marx), la ragione occidentale smetterebbe di razionalizzare, di idealizzare i propri principi, di idealizzare la realtà stessa con il suo effetto 'critico' di 'oggettività' - essa designerebbe infine le strutture insuperabili, pulsionali o economiche: quindi la pulsione di morte come il processo "eterno" del desiderio. Ma perché questa enunciazione non rileverebbe, pur essa, dei processi di elaborazione secondaria?

É vero che, in un primo tempo, la pulsione di morte rompe bruscamente con il pensiero occidentale. Dal cristianesimo al marxismo e all'esistenzialismo: la morte o è francamente negata e sublimata, oppure è dialettizzata. Nella teoria e nella pratica marxiste, la morte è fin d'ora vinta nell'essere di classe, oppure è integrata come negatività storica. Più generalmente, tutta la pratica occidentale di dominazione della natura e di sublimazione dell'aggressività nella produzione e l'accumulazione si caratterizza come Eros costruttivo: Eros asservisce ai suoi fini l'aggressività sublimata e, nel movimento del divenire (dell'economia politica dopotutto), la morte è diffusa come negatività a dosi omeopatiche.

Perfino i filosofi moderni dell''essere-per-la-morte' non invertono questa tendenza: la morte serve qui da rilancio tragico del soggetto, suggella la sua assurda libertà.92

Tutt'altra cosa con Freud. Non più sublimazione, sia pure tragica, non più dialettica possibile con la pulsione di morte. Per la prima volta, la morte compare come "principio" indistruttibile, opposto all'Eros. E questo indipendentemente dal soggetto, dalla classe o dalla storia: è la dualità irriducibile di due pulsioni, Eros e Thanatos, che, in un certo modo richiama l'antica versione manichea del mondo, quella dell'antagonismo senza fine dei due principi del bene e del male. Visione molto potente, derivata dai culti arcaici nei quali viveva ancora l'intuizione fondamentale d'una specificità del male e della morte. Visione insopportabile per la Chiesa, che ci metterà dei secoli per sterminarla e imporre finalmente la preminenza del principio del Bene (Dio), abbassando il male e la morte a un principio negativo dialetticamente subordinato all'altro (il Diavolo). Ma l'incubo d'una autonomia dell'Arcangelo del Male, Lucifero (in tutte le sue forme, dalle eresie popolari e dalle superstizioni, che hanno sempre la tendenza a prendere alla lettera l'esistenza d'un principio del male, e quindi a rendergli un culto, fino alla magia nera e alla teoria giansenista, senza contare i Catari) assillerà sempre i giorni e le notti della Chiesa. A un pensiero radicale della morte, al pensiero dualistico e manicheo, essa opporrà sempre la dialettica come teoria istituzionale e arma di dissuasione. E la storia vedrà la vittoria della Chiesa e della dialettica (ivi compresa la dialettica 'materialistica'). In questo senso, Freud rompe molto profondamente con la metafisica cristiana e occidentale.

La dualità degli istinti di vita e di morte corrisponde esattamente alla posizione di Freud in "Al di là del principio di piacere". Ne "Il disagio della civiltà", la dualità termina in un ciclo della sola pulsione di morte. Eros non è più che un immenso "détour" della cultura verso la morte, che subordina tutto ai propri fini. Ma quest'ultima versione non ritorna tuttavia al di qua della dualità, verso una dialettica inversa. Perché esiste soltanto una dialettica del divenire costruttivo, dell'Eros, il cui fine è quello di 'istituire delle unità sempre più grandi, di legare e ordinare le energie.' A questo la pulsione di morte s'oppone per due caratteristiche principali:

1. Essa è ciò che dissolve gli assemblaggi, slega le energie, disfà il discorso organico dell'Eros per riportare le cose all'inorganico, all'"ungebunden", all'utopico in un certo modo, in opposizione alle topiche articolate e costruttive dell'Eros. Entropia della morte, negentropia dell'Eros.

2. Questa potenza di disaggregazione, di disarticolazione, di defezione implica una controfinalità radicale sotto forma d'involuzione verso lo stato anteriore e inorganico. La coazione a ripetere ("Wiederholungszwang"), o 'tendenza alla riproduzione, che fa sorgere e rivivere anche eventi passati che non comportavano la minima soddisfazione', è in primo luogo la tendenza a riprodurre quel non-evento per eccellenza che fu, per qualsiasi essere vivente, lo stato precedente e inorganico di cosa, cioè la morte. É quindi sempre come ciclo ripetitivo che la morte smantella le finalità costruttive, lineari o dialettiche, dell'Eros. Viscosità della pulsione di morte, elasticità dell'inorganico che resiste ovunque vittoriosamente alla strutturazione della vita.

C'è dunque nell'enunciazione della pulsione di morte - sia nella sua forma duale o nella controfinalità incessante e distruttrice della ripetizione - qualcosa d'irriducibile a tutti i dispositivi intellettuali del pensiero occidentale. Il pensiero di Freud opera anch'esso, in definitiva, come pulsione di morte nell'universo teorico occidentale. Ma allora, certamente, è assurdo conferirgli uno statuto costruttivo di 'verità': la 'realtà' dell'istinto di morte è indifendibile - per restare fedeli all'intuizione della pulsione di morte, bisogna mantenerla nel l'ipotesi decostruttiva, cioè assumerla soltanto nei limiti della decostruzione che essa opera su tutte le idee precedenti, ma anche, e subito, decostruirla essa stessa come concetto. Sarebbe impensabile - se non come ultimo sotterfugio della ragione - che il principio di decostruzione fosse l'unico a sottrarvisi.

Ciò contro cui bisogna difendere la pulsione di morte è contro tutti i tentativi di ridialettizzarla in un nuovo edificio costruttivo. Marcuse ne è un bel esempio. Egli parla della repressione per mezzo della morte: 'Oggigiorno la teologia e la filosofia concorrono nell'esaltare la morte come una categoria esistenziale: trasformando un fatto biologico in un'essenza ontologica, danno la loro benedizione trascendente a quella colpa dell'umanità che si perpetua con il loro contributo' ("Eros e civiltà"). 93 Questo per quanto riguarda la 'repressione addizionale'. Quanto alla repressione fondamentale: 'Il crudo fatto della morte nega una volta per sempre la realtà di un'esistenza non repressiva. Infatti, la morte è la definitiva negatività del tempo, ma "la gioia vuole l'eternità"[...] Il tempo non ha potere sull'Es [...] Ma l'Io [...] è integralmente soggetto al tempo. La pura anticipazione di una fine inevitabile presente in ogni istante, introduce un elemento repressivo in ogni rapporto libidico. 94 Sorvoliamo sul 'crudo fatto della morte': solo un rapporto sociale è repressivo, mai un crudo fatto. Ma la cosa più curiosa è il modo in cui questa repressione fondamentale della morte cambia di segno con la 'liberazione' dell'Eros:. 'L'istinto di morte opera sotto il principio del Nirvana: esso tende a uno stato [...] senza bisogni. Questa tendenza dell'istinto implica che le sue manifestazioni "distruttive" diventerebbero sempre minori quanto più esso si avvicinasse a questa condizione. Se l'obiettivo fondamentale dell'istinto non è la fine della vita ma la fine del dolore - la mancanza di tensione -, paradossalmente, in termini di istinto, il conflitto tra la vita e la morte si riduce tanto più quanto più la vita si avvicina allo stato di soddisfazione [...] l'Eros, liberato dalla repressione addizionale, verrebbe rafforzato, e quest'Eros rafforzato assorbirebbe per così dire l'obiettivo dell'istinto di morte. "Il valore istintuale della morte si trasformerebbe".' 95 In tal modo si potrebbe trasformare l'istinto e trionfare sul 'crudo fatto', secondo la vecchia buona filosofia idealistica della necessità e della libertà: 'La morte può diventare un segno di libertà. La necessità della morte non contraddice la possibilità di una liberazione finale. Come ogni altra necessità, essa può essere resa razionale - senza sofferenza." 96 La dialettica marcusiana implica quindi il deprezzamento totale della pulsione di morte (ora questo passo di "Eros e civiltà" è immediatamente seguito dalla 'critica del revisionismo neofreudiano'!). Si ha una misura di quali resistenze provochi questo concetto nelle anime pie. Anche qui, non basta tutta la dialettica - qui della 'liberazione' dell'Eros, altrove delle forze produttive - per venire a capo della morte.

La pulsione di morte è imbarazzante, perché non permette più nessuna ricostruzione dialettica. In questo consiste la sua radicalità. Ma il panico che essa provoca non le conferisce uno statuto di verità: ci si deve chiedere se non sia essa stessa, in ultima istanza, una razionalizzazione della morte

É all'inizio la convinzione che traspare dalle parole di Freud (altrove egli parlerà di una ipotesi speculativa): 'La nostra convinzione che la vita psichica [...] sia dominata dalla tendenza a ridurre, a mantenere costante, a eliminare la tensione interna provocata dagli stimoli (il principio del Nirvana, per usare un'espressione di Barbara Low), è in effetti uno dei più forti argomenti che ci inducono a credere nell'esistenza delle pulsioni di morte'. ("Al di là del principio di piacere"). 97 Perché allora tutti gli sforzi di Freud per fondare il suo istinto di morte nella razionalità biologica (analisi di Weissmann, eccetera) - tentativo positivista che generalmente si deplora, un po' come il tentativo di dialettizzare la natura in Engels, e che si riesce concordemente a lasciar perdere per affetto nei suoi confronti. Eppure: 'Se ammettiamo, come un dato dell'esperienza che non sopporta eccezioni, che tutto ciò che ha avuto vita torna allo stato inorganico, muore per ragioni interne, possiamo dire: il fine cui tende tutta la vita è la morte; e inversamente: il non-vivere è anteriore al vivere [...] quei guardiani della vita che sono gli istinti sono stati in un primo tempo satelliti della morte.'98

É difficile liberare qui la pulsione di morte dal positivismo per farne una 'ipotesi speculativa' o un 'puro e semplice principio di funzionamento psichico' (Pontalis, nella rivista "L'Arc"). D'altronde non c'è più, a questo livello, una vera dualità di pulsioni: soltanto la morte è finalità. Ma è questa finalità che pone a sua volta un problema cruciale, perché essa inscrive la morte in una tale anteriorità, come destino inorganico e psichico, quasi come programmazione e codice genetico - in breve, in una tale "positività" che, salvo a credere nella realtà scientifica di questa pulsione, non si può più prenderla come un mito. Non si può più che opporre a Freud ciò che dice lui stesso: 'La dottrina delle pulsioni è, per così dire, la nostra mitologia. Le pulsioni sono entità mitiche, grandiose nella loro indeterminatezza' ("Introduzione alla psicoanalisi - seconda serie di lezioni").99

Se la pulsione di morte è un mito, allora interpretiamolo. Interpretiamo la pulsione di morte, e lo stesso concetto d'inconscio, come miti, e non teniamo più conto del loro effetto, o del loro sforzo di 'verità'. Un mito "racconta" qualcosa: non tanto nel suo contenuto quanto nella forma del suo discorso. Facciamo la scommessa che, sotto le categorie metaforiche della sessualità e della morte, la psicoanalisi racconta qualcosa sull'organizzazione fondamentale della nostra cultura. É quando il mito non si racconta più, quando trasforma le sue favole in assiomi, che esso perde quella 'grandiosa indeterminatezza' di cui parla Freud. 'Il concetto non è che il residuo d'una metafora', diceva Nietzsche. Scommettiamo quindi sulla "metafora" dell'inconscio, sulla metafora della pulsione di morte.

Eros al servizio della morte, tutta la sublimazione culturale come un lungo "détour" verso la morte, la pulsione di morte che alimenta la violenza repressiva e presiede alla cultura come un feroce Super-io, le forze della vita che s'inscrivono nella coazione a ripetere - tutto questo è vero, ma vero della "nostra" cultura - impresa di morte che cerca di abolire la morte e che per ciò stesso erige morte su morte ed è assillata da essa come la propria fine. Questo, il termine 'pulsione' lo dice metaforicamente, e designa in ciò la fase contemporanea del sistema dell'economia politica (è ancora l'economia politica?) in cui la legge del valore, nella sua forma strutturale più terroristica, si realizza nella pura e semplice riproduzione coattiva del codice - in cui la legge del valore sembra una finalità altrettanto irreversibile che una pulsione, tale da assumere per la nostra cultura la figura di destino. Stadio dell'immanenza ripetitiva d'una medesima legge in tutte le istanze della vita. Stadio in cui il sistema tende alla propria fine, preso tra l'investimento totale da parte della morte come finalità oggettiva e la sovversione totale da parte della pulsione di morte come processo di decostruzione. La metafora della pulsione di morte dice tutto questo simultaneamente - perché la pulsione di morte è a un tempo il sistema e il "doppio" del sistema, il suo sdoppiamento in una controfinalità radicale (confronta il Doppio e la sua 'inquietante estraneità', "Das Unheimliche").

Ecco cosa racconta il mito. Ma vediamo come funziona la morte quando si dà come discorso oggettivo di 'pulsione'.

Con il termine 'pulsione', la cui definizione è a un tempo biologica e psichica, la psicoanalisi mette radici in categorie uscite dritto dritto dall'immaginario d'una certa ragione occidentale: lungi dal contraddirlo radicalmente, essa deve allora interpretarsi come un momento del pensiero occidentale. Per quanto riguarda il biologico: è chiaro che è una razionalità scientifica a produrre la distinzione del vivente e del non-vivente sulla quale si fonda la biologia. Letteralmente, la scienza, riproducendosi essa stessa come codice, produce la morte, il non-vivente, come oggetto concettuale, e la separazione del morto come assioma a partire dal quale essa può legiferare. Non c'è un buon oggetto (scientifico), come non c'è buon indiano, che morto. Ora, è a questo stato inorganico che si riferisce la pulsione di morte, a questo statuto di non-vivente che risulta esclusivamente dal decreto arbitrario della scienza, e per dirla tutta, dal suo fantasma di repressione e di morte. Non essendo in definitiva che il ciclo di ripetizione del non-vivente, la pulsione di morte partecipa di questa arbitrarietà della biologia, la raddoppia attraverso un percorso psichico. Ora, tutte le altre culture non producono il concetto separato del non-vivente, soltanto la nostra lo produce sotto il segno della biologia. Basterebbe quindi che questa discriminazione fosse tolta per invalidare al tempo stesso il concetto di pulsione di morte. Quest'ultimo non è in definitiva che un ordinamento teorico fra il vivente e il non-vivente, senza più successo di tutti i tentativi di articolazione in cui si perde la scienza. In definitiva, è sempre il non-vivente che la vince, l'assiomatica d'un sistema di morte (confronta J. Monod, "Il caso e la necessità").

Il problema è lo stesso per quanto riguarda lo psichico - e qui è in causa tutta la psicoanalisi. Ci si deve chiedere quando e perché il nostro sistema comincia a produrre dello 'psichico'. L'autonomizzazione dello 'psichico' è recente. Essa raddoppia, a un livello superiore quella del biologico. La linea questa volta passa tra l'organico, il somatico e... l'altro. Lo psichico esiste solo sulla base di questa distinzione. D' onde l'inestricabile difficoltà in seguito per riarticolare l'insieme – d' onde deriva precisamente il concetto di pulsione, che vuol gettare un ponte tra i due, e partecipa semplicemente dell'arbitrarietà dell'uno e dell'altro. La metapsicologia della pulsione si riunisce qui alla metafisica dell'anima e del corpo: ne è la riscrittura a uno stadio più avanzato.

L'ordine separato dello psichico deriva dalla precipitazione, nel nostro 'foro interiore', cosciente o inconscio, di tutto ciò di cui il sistema interdisce lo scambio collettivo e simbolico. É un ordine del rimosso. Nulla di strano che sia dominato dalla pulsione di morte - poiché non è che il precipitato individuale d'un ordine di morte. E la psicoanalisi, che lo teorizza in quanto tale, non fa, come ogni disciplina nel suo ordine, che sanzionare questa discriminazione mortale.

Coscienza, inconscio, Super-io, senso di colpa, rimozione, processi primari e secondari, fantasma, nevrosi e psicosi - sì, così funziona, "se si ammette" la circoscrizione dello psichico in quanto tale, che produce il nostro sistema (e non importa quale) come forma immediata e fondamentale dell'intelligibilità, cioè come codice. L'onnipotenza del codice è precisamente questa inscrizione di sfere separate, tutte soggette in seguito a una indagine specializzata e d'una scienza sovrana - ma lo psichico è indubbiamente quello che ha il più bell' avvenire. Tutti i processi selvaggi, erranti, trasversali, simbolici, verranno a inscriversi per esservi addomesticati, "nel nome stesso dell'inconscio" - che, per una straordinaria derisione, figura oggigiorno come "leitmotiv" della 'liberazione' radicale! La stessa morte vi sarà addomesticata sotto il segno della pulsione di morte!

Infatti, è contro lo stesso Freud e contro la psicoanalisi che si deve interpretare la pulsione di morte se si vuole salvaguardare la sua radicalità. La pulsione di morte dev'essere intesa come qualcosa che opera contro tutta la positività scientifica dell'apparato psicoanalitico quale lo ha elaborato Freud. Essa non ne è la formulazione limite né la conclusione più radicale, ne è invece il capovolgimento, e coloro che ne hanno rifiutato il concetto hanno in un certo modo visto più giusto di quelli che l'accettano sulle orme della psicoanalisi, seguendo in ciò Freud stesso, senza forse intendere quello che dice. La pulsione di morte rende in effetti virtualmente inutili, supera di gran lunga tutti i punti di vista e i dispositivi precedenti: economico, energetico, topico, persino psichico. Ha maggior ragione certamente la logica pulsionale alla quale essa si richiama, ereditata dalla mitologia scientifica dell'ottocento. Lacan l'ha forse intuito, quando parla dell''ironia' di questo concetto, del paradosso inaudito e insolubile che esso pone. La psicoanalisi ha preso storicamente il partito di riconoscere in esso il suo figlio più strano, ma la morte non si lascia prendere allo specchietto della psicoanalisi. Essa funziona come principio totale, radicale, di funzionamento, e non ha bisogno per questo né della rimozione, né quindi d'una economia libidica. Essa non sa che farsene dell'espediente delle topiche successive, dei calcoli d'energia; essa rappresenta al limite l'economia dello stesso inconscio - denunciando "anche" tutto questo come una macchina costruttiva dell'Eros, come macchina positiva d'interpretazione, che essa disfà e smantella come qualsiasi altra Principio di controfinalità, ipotesi speculativa radicale, metaeconomica, metapsichica, metaenergetica, metapsicoanalitica, la (pulsione di) morte è al di là dell'inconscio - dev'essere strappata alla psicoanalisi e rivolta contro di essa.

 

La morte in Bataille

 

La visione psicoanalitica della morte è ancora, nella sua radicalità, una visione "per difetto": coazione pulsionale a ripetere, prospettiva d'equilibrio finale nel continuum inorganico, abolizione delle differenze, delle intensità secondo una involuzione verso il punto più basso, entropia della morte, conservatorismo della pulsione, equilibrio per difetto del Nirvana: questa teoria presenta delle affinità sicure con l'economia politica. Malthusiana come quest'ultima, il cui obiettivo è di difendersi contro la morte. Perché l'economia politica non esiste che per difetto: in essa la morte è quel punto cieco, l'assenza che assilla tutti i calcoli. E soltanto l'assenza della morte permette lo scambio dei valori e il gioco delle equivalenze. "L'immissione infinitesimale della morte creerebbe immediatamente un tale eccesso, una tale ambivalenza che tutto il gioco del valore crollerebbe". L'economia politica è un'economia di morte, perché fa l'economia della morte e la seppellisce sotto il suo discorso. La pulsione di morte cade nell'opposto: è il discorso della morte, come finalità insuperabile. Discorso inverso ma complementare, perché se l'economia politica è proprio questo nirvana (accumulazione e riproduzione indefinita del valore morto), allora la pulsione di morte ne denuncia la verità, e allo stesso tempo lo scherno assoluto - ma lo fa nei termini stessi del sistema, idealizzando la morte come pulsione (finalità oggettiva). Così com'è, la pulsione di morte è il negativo più radicale del sistema attuale, ma non fa ancora che tendere uno specchio all'immaginario funebre dell'economia politica.

Invece d'istituire la morte come regolazione delle tensioni e funzione d'equilibrio, come "economia" di pulsione, Bataille l'introduce al contrario come parossismo degli scambi, sovrabbondanza ed eccesso. La morte come sovrappiù sempre presente e prova che la vita è difettiva soltanto quando la morte ne è sottratta, che la vita esiste soltanto nell'irruzione e nello scambio con la morte, altrimenti è votata alla discontinuità del valore, e quindi al deficit assoluto. 'Volere che non vi sia altro che vita, significa fare che non vi sia altro che morte.' L'idea che la morte non è affatto una mancanza della vita, che essa è voluta dalla vita stessa, e che il fantasma delirante di abolirla (quello dell'economia) equivale a installarla al centro della vita stessa - ma questa volta come nulla di tetro e senza fine. Biologicamente: 'Il pensiero d'un mondo in cui l'organizzazione artificiale assicurerebbe il prolungamento della vita umana evoca la possibilità d'un incubo' ("L'erotismo"). 100 Ma soprattutto simbolicamente - e qui l'incubo non è più una semplice possibilità, è la realtà che viviamo in ogni istante: la morte (l'eccesso, l'ambivalenza, il dono, il sacrificio, il dispendio, e il parossismo), e quindi la vera vita ne è assente. Noi rinunciamo a morire, e accumuliamo invece di perderci: 'Annettiamo l'oggetto del desiderio, che in realtà era quello di morire, l'annettiamo alla nostra vita durevole. Arricchiamo la nostra vita anziché perderla.' Preminenza del lusso e della prodigalità sul calcolo funzionale, preminenza della morte sulla vita come finalità unilaterale di produzione e d'accumulazione: 'Se si considera la vita umana nel suo complesso, si constaterà come questa aspiri fino all'angoscia allo spreco; fino all'angoscia, fino al limite in cui l'angoscia non è più tollerabile. Tutto il resto, son chiacchiere di moralisti... Una agitazione febbrile che c'è in noi, chiede alla morte di esercitare a nostre spese le sue capacità rovinose.'

La morte e la sessualità, invece di affrontarsi come principi antagonistici (Freud), si scambiano nel medesimo ciclo, nella medesima "rivoluzione" ciclica della continuità. La morte non è il 'prezzo' della sessualità - specie d'equivalenza che si trova ovunque nella teoria degli esseri viventi complessi (l'infusorio, invece, è immortale e asessuato) - né la sessualità è il semplice "détour" della morte, come ne "Il disagio della civiltà": esse scambiano le loro energie, si esaltano l'un l'altra. Non c'è un'economia specifica dell'una o dell'altra: è soltanto separate che la vita e la morte cadono sotto il colpo di un'economia - confuse, esse passano assieme al di là dell'economia, nella festa e nella perdita (l'erotismo per Bataille): 'Non possiamo più trovare differenze tra la morte e la sessualità. La sessualità e la morte non sono che le fasi culminanti d'una ridda cui partecipa l'infinità delle creature viventi; e l'una e l'altra hanno il senso dello spreco illimitato che la natura contrappone al desiderio di sopravvivere, proprio di ogni essere.' Una festa, quindi, e festa perché restituzione del "ciclo", laddove la penuria impone l'economia "lineare" della durata - perché restituzione d'una rivoluzione ciclica della vita e della morte, laddove Freud non presagisce altro esito che l'involuzione ripetitiva della morte.

C'è dunque in Bataille una visione della morte come principio eccessivo, e come anti-economia. D'onde la metafora del lusso, del carattere lussuoso della morte. Solo la spesa suntuaria e inutile ha un senso - l'economia, invece, non ha senso, non è che un residuo, di cui si è fatto la legge della vita, mentre la ricchezza è nello scambio lussuoso della morte: il sacrificio, la 'parte maledetta', quella che sfugge all'investimento e alle equivalenze, e che non può che essere annientata. Se la vita non è che un bisogno di durare a qualsiasi prezzo allora l'annientamento è un lusso senza prezzo. In un sistema in cui la vita è governata dal valore e dall'utilità, la morte diventa un lusso inutile, e l'unica alternativa.

Questa congiunzione lussuosa del sesso e della morte figura in Bataille sotto il segno della "continuità", in opposizione all'economia discontinua delle esistenze individuali. La finalità appartiene all'ordine del discontinuo, sono gli esseri discontinui che esprimono la finalità, qualsiasi specie di finalità, che si riduce a una sola: la loro "propria" morte. Noi siamo esseri frammentari, individui che muoiono isolatamente nel corso di un'avventura inintelligibile, ma abbiamo la nostalgia della perduta continuità.' La morte, invece, è senza finalità, è ciò che mette in discussione la finalità dell'essere individuale nell'erotismo: 'Che cosa significa infatti l'erotismo dei corpi, se non violazione dell'essere dei partecipanti all'atto? [...] La messa in opera dell'erotismo ha come principio la distruzione della struttura dell'essere chiuso, che allo stato normale, all'inizio, era l'altro, l'individuo partecipe dell'atto.' La messa a nudo erotica è uguale alla messa a morte, nella misura in cui inaugura uno stato di comunicazione, di perdita d'identità e di fusione. Fascino della dissoluzione delle forme costituite: tale è l'Eros - all'inverso di Freud, per il quale l'Eros lega le energie, le confedera in unità sempre più grandi. Nella morte, come nell'Eros, si tratta d'introdurre nella discontinuità tutta la continuità possibile: è un gioco con la continuità totale. É in questo senso che 'la morte, rottura di quella discontinuità individuale a cui ci inchioda l'angoscia, si presenta a noi come una verità più eminente della vita.' Freud dice esattamente la stessa cosa, ma "per difetto". E non si tratta più della stessa morte.

Ciò che è mancato a Freud, non è di vedere nella morte la curvatura stessa della vita, è di averne mancato la vertigine, l'eccesso, il rovesciamento di tutta l'economia della vita che essa opera - è di averne fatto, sotto forma di pulsione finale, un'equazione a effetto ritardato della vita. É d'averne enunciato l'economia finale sotto il segno della ripetizione, e d'averne mancato il parossismo. La morte non è né risoluzione né involuzione, è reversione e sfida simbolica.

 

"Oblioso di sé, pronto sempre il desio

Degli dei a compiere, troppo docile

Ciò ch'è mortale, ad occhi aperti

Correndo rapido per il suo sentiero,

 

Prende la via più breve del ritorno nel tutto;

Così precipita il fiume in cerca di pace, lo strappa,

Lo trae contro sua voglia, di scoglio

In scoglio, giù, senza alcun freno,

 

La brama meravigliosa d'inabissare;

La sfrenatezza affascina e popoli interi

Il desiderio della morte afferra

….

Sullo Xanto c'era, al tempo dei greci,

Una città...

….

Li provocò la clemenza di Bruto

Che, quando l'incendio iniziò, si offrì

D'aiutarli, sebbene, come duce,

Stesse in assedio davanti alle porte.

 

Ma dalle mura gettarono i servi

Che aveva inviato. Più vivo divampò

Il fuoco, ed essi ne gioivano,

E Bruto tendeva loro le mani

 

Ed eran tutti fuori di sé. Clamore

Si levava, e giubilo. Nelle fiamme

Uomini e donne si gettavano, e i bimbi

Chi dal tetto, chi sulla spada del padre.

 

Non è saggio sfidare gli eroi Da molto

Era però preparato. Anche i lor padri,

Essendo stati sorpresi, una volta, e

Violento incalzava il nemico persiano,

 

Cercando scampo, con le canne del fiume,

Appiccarono fuoco alla città. E case

E templi, al sacro etere volando,

E uomini portò con sé la fiamma.

 

Così i figli avevano udito narrare..."

 

H™LDERLIN.101

 

L'affermazione secondo la quale la vita e la morte si scambiano, secondo la quale la vita si scambia al suo prezzo più alto nella morte, non appartiene più all'ordine della verità scientifica - è una 'verità' per sempre interdetta alla scienza. Quando Bataille dice dell'erotismo 'Se l'unione di due amanti è effetto di un travolgimento passionale, l'unione stessa richiamerà la morte, come desiderio di omicidio o di suicidio [...] violazione continua dell'individualità discontinua [...] questi orifici, queste aperture e questi abissi attraverso i quali gli esseri si riassorbono nella continuità e che l'assimilano in qualche modo alla morte...' - non c'è nessuna relazione oggettiva, nessuna legge, nessuna necessità naturale in tutto questo. Il lusso e l'eccesso non sono delle funzioni e non sono inscritte né nel corpo né nel mondo. Nemmeno la morte, questa morte simbolica, suntuosa, che appartiene all'ordine della sfida, non è inscritta, contrariamente alla morte biologica, in nessun corpo né in nessuna natura. Il simbolico non si confonde mai con il reale né con la scienza.

Ora, lo stesso Bataille commette questo errore: 'Il desiderio di produrre a basso costo, è miseramente umano. La natura, invece prodiga senza contare, "sacrifica" allegramente.' Perché cercare la cauzione d'una natura idealmente prodiga, contro quella degli economisti idealmente calcolatrice? Il lusso non è più 'naturale' dell'economia. Il sacrificio e il dispendio sacrificale non appartengono all'ordine delle cose. Questo errore induce anche Bataille a mescolare sessualità riproduttiva e dispendio erotico: 'L'eccesso da cui procede la riproduzione, e quell'eccesso che è la morte, non possono essere compresi che l'uno mediante l'altro.' Ora, la riproduzione in quanto tale è senza eccesso - anche se implica la morte dell'individuo, si tratta ancora d'una economia positiva e d'una morte funzionale - a vantaggio della specie. La morte sacrificale, invece, è antiproduttiva e antiriproduttiva. Essa mira a una continuità, come dice Bataille, ma non a quella della specie, che non è che la continuità d'un ordine della vita, mentre la continuità radicale, quella in cui il soggetto s'inabissa nel sesso e nella morte, significa sempre la dispersione favolosa d'un ordine. Essa non si basa sull'atto di riproduzione, non più che il desiderio sul bisogno, non più che la spesa suntuaria prolunghi la soddisfazione dei bisogni - essa nega nell'erotismo questa funzionalità biologica. Cercare nella legge della specie il segreto del sacrificio è ancora funzionalizzare tutto questo. Non c'è nemmeno continuità tra le due cose. Non c'è niente in comune tra l'eccesso erotico e la funzione sessuale e riproduttiva. Non c'è niente in comune tra l'eccesso simbolico della morte e la dispersione biologica dei corpi.102

Bataille subisce qui la tentazione naturalistica, se non biologistica, il che lo porta a naturalizzare sull'altro versante una specie di tendenza alla discontinuità: 'Il desiderio di durare è proprio di ogni essere.' Contro una natura che sarebbe spreco di energie vive e orgia d'annientamento, l'essere si protegge mediante interdizioni, resiste con tutti i mezzi a questa pulsione di eccesso e di morte che gli proviene dalla natura (tuttavia, la sua resistenza non è mai che provvisoria, 'mai gli uomini hanno saputo opporre alla violenza e alla morte un no definitivo'). Così in Bataille, sulla base di una definizione "naturale" del dispendio (la natura come modello di prodigalità) e di una definizione anch'essa sostanziale e ontologica dell'economia (è il soggetto che vuole conservarsi nel suo essere - ma d' onde gli viene questo desiderio fondamentale?), s'installa una specie di "dialettica soggettiva" dell'interdizione e della trasgressione, in cui l'allegria iniziale del sacrificio e della morte si perde nelle delizie del cristianesimo e della perversione 103 - una specie di "dialettica oggettiva" tra continuità e discontinuità, nella quale la sfida lanciata dalla morte all'organizzazione economica si cancella davanti a una grande alternanza metafisica.

Ma nella visione eccessiva e lussuosa della morte in Bataille rimane qualcosa che la strappa alla psicoanalisi, alla dipendenza individuale e psichica dalla psicoanalisi - la possibilità d'un disordine di tutta l'economia, di infrangere non solo lo specchio oggettivo dell'economia politica, ma anche lo specchio psichico inverso della rimozione, dell'inconscio e dell'economia libidica. Al di là di tutti gli specchi, o nei loro sparsi frammenti, come quelli dello specchio in cui lo Studente di Praga ritrova la sua immagine reale nell'istante della morte - altra cosa appare oggi per noi: una dispersione fantastica del corpo, dell'essere e delle ricchezze, di cui la figura della morte in Bataille è il presentimento più prossimo.

 

La mia morte ovunque, la mia morte che sogna

 

"Morte puntiforme morte biologica."

L'irreversibilità della morte, il suo carattere oggettivo e puntiforme, è un fatto scientifico moderno. Essa è peculiare della nostra cultura. Tutte le altre affermano che la morte comincia prima della morte, che la vita continua dopo la vita, che è impossibile discriminare la vita dalla morte. Contro la rappresentazione che vede nell'una il "termine" dell'altra, bisogna cercare di vedere l'"indeterminatezza" radicale della vita e della morte, e l'impossibilità di autonomizzarle nell'ordine simbolico. La morte non è una scadenza, è una sfumatura della vita - oppure la vita è una sfumatura della morte. Ma la nostra idea moderna della morte è governata da un sistema di rappresentazione del tutto diverso: quello della macchina e del funzionamento. Una macchina funziona o non funziona. Così la macchina biologica è morta "o" viva. L'ordine simbolico non conosce questa digitalità astratta. E la stessa biologia ammette che si comincia a morire fin dalla nascita, ma questo rimane nel quadro di una definizione funzionale. 104 Altra cosa è dire che la morte articola la vita, si scambia con la vita, è l'apogeo della vita - perché allora diventa assurdo fare della vita un processo che trova la sua scadenza nella morte, più assurdo ancora che equiparare la morte a un deficit e a una decadenza. Né la vita né la morte possono più essere assegnate a un qualsiasi "fine": non è quindi più possibile né una puntualità né una "definizione" della morte.

Noi viviamo interamente in un pensiero evoluzionistico, che afferma che si va dalla vita alla morte: è l'illusione del soggetto, che sostiene congiuntamente la biologia e la metafisica (la biologia si proclama rovesciamento della metafisica: non ne è che il prolungamento). Ora, non c'è nemmeno un soggetto che muoia a un dato momento. É più reale dire che intere parti di 'noi stessi' (del nostro corpo, dei nostri oggetti, del nostro linguaggio) cadono dalla vita nella morte, subiscono da vive il lavoro del lutto. Alcune giungono così a dimenticare esse stesse da vive, a poco a poco - come Dio dimentica la ragazza annegata che scende lungo la corrente, nella canzone di Brecht:

 

"Geschah es (sehr langsam), dass Gott sie allm„hlich vergass

Erst ihr Gesicht, dann die H„nde und zuletzt das Haar..."

 

[Parve, ma lentamente, che Iddio ne perdesse memoria.

Il viso per primo, le mani più tardi, alla fine i capelli... ]105

 

L'identità del soggetto si disfà ad ogni istante, cade nella dimenticanza di Dio. Ma questa morte non ha nulla di biologico. A uno dei due poli, quello biochimico, i protozoi asessuati non conoscono la morte, si dividono e si ramificano (nemmeno il codice genetico conosce la morte: si trasmette immutato al di là del destino degli individui). All'altro polo, quello del simbolico, la morte/nulla non esiste nemmeno, la vita e la morte vi sono reversibili.

Solo nello spazio infinitesimale del soggetto individuale della coscienza la morte assume un senso irreversibile. Nemmeno un evento, d'altronde: un mito vissuto anticipatamente. Il soggetto ha bisogno, per la sua identità, d'un mito della propria fine, come ha bisogno d'un mito d'origine. In realtà, il soggetto non è mai là - come il viso, le mani, i capelli, e anche prima indubbiamente, è sempre già altrove, preso in una distribuzione insensata, in un ciclo senza fine spinto dalla morte. Questa morte che è ovunque nella vita, bisogna scongiurarla, localizzarla in "un" punto del tempo e in un luogo preciso: il corpo.

Nella morte biologica, la morte e il corpo, invece di esaltarsi reciprocamente, si neutralizzano. La biologia presuppone "fondamentalmente" la dualità dell'anima e del corpo. Questa dualità è in qualche modo la morte stessa, perché è essa che oggettiva il corpo come residuo - oggetto cattivo che si vendica morendo. É in funzione dell'anima che il corpo diventa questo fatto bruto, oggettivo, questo destino di sesso, d'angoscia e di morte. É in funzione di questa frattura immaginaria, l'anima, che il corpo diventa questa 'realtà', che esiste solamente per essere votata alla morte.

Il corpo mortale non è quindi più 'reale' dell'anima immortale: entrambi risultano simultaneamente dalla medesima astrazione e, con essi, le due grandi metafisiche complementari: quella idealistica del l'anima (con tutte le sue metamorfosi morali) e quella 'materialistica' del corpo, con i suoi prolungamenti biologici. La biologia vive della separazione dell'anima e del corpo come qualunque metafisica, cristiana o cartesiana, ma non lo dice più - l'anima non si dice più, è passata tutt'intera, come principio ideale, nella disciplina morale della scienza, nel principio di legittimità dell'operazione tecnica sul reale e sul mondo, nei principi del materialismo 'oggettivo'. Coloro che tenevano il discorso sull'anima, nel Medioevo, erano meno lontani dai 'segni del corpo' (Octavio Paz, "Conjonctions et Disjonctions") della scienza biologica, che è passata interamente, tecnica e assiomi, dalla parte del 'non-corpo'.

 

"L'Accidente e la catastrofe".

C'è un paradosso della razionalità moderna e borghese sulla morte. Concepire quest'ultima come naturale, profana e irreversibile costituisce il segno stesso dei 'Lumi' e della Ragione, ma entra in acuta contraddizione con i principi della razionalità borghese - valori individuali, progresso illimitato della scienza, dominio della natura in ogni cosa. Neutralizzata come 'fatto naturale', la morte diventa sempre più uno "scandalo". É ciò che Octavio Paz ha analizzato molto bene nella sua teoria dell'Accidente ("Conjonctions et Disjonctions"):

 

"La scienza moderna è venuta a capo delle epidemie e ci ha fornito spiegazioni plausibili delle altre catastrofi naturali: la natura ha cessato di essere la depositaria del nostro senso di colpa; allo stesso tempo la tecnica ha esteso e allargato la nozione di accidente, e gli ha conferito un carattere completamente diverso... L'Accidente fa parte della nostra vita quotidiana e il suo spettro visita le nostre insonnie... Il principio d'indeterminazione in fisica e la prova di G”del in logica sono l'equivalente dell'Accidente nel mondo storico... I sistemi assiomatici e deterministici hanno perduto la loro consistenza e rivelano un difetto intrinseco. Questo difetto non è tale in realtà: è una proprietà del sistema, qualcosa che gli appartiene in quanto sistema. L'Accidente non è né una eccezione né una malattia dei nostri regimi politici, non è nemmeno un difetto correggibile della nostra civiltà: è la conseguenza naturale della nostra scienza, della nostra politica e della nostra morale. L'Accidente fa parte della nostra idea del Progresso... L'Accidente è diventato un paradosso della necessità: esso possiede la fatalità di quest'ultima e l'indeterminatezza della libertà. Il non-corpo, trasformato in scienza materialistica, è sinonimo del terrore: l'Accidente è uno degli attributi della ragione che noi adoriamo... La morale cristiana gli ha ceduto i suoi poteri di repressione, ma allo stesso tempo qualsiasi pretesa morale è scomparsa da questo potere sovrumano. É il ritorno all'angoscia degli aztechi, sia pure senza presagi né segni celesti. La catastrofe diventa banale e irrisoria, perché l'Accidente, in fin dei conti, non è che un accidente."

 

Come la società, normalizzandosi, fa nascere alla sua periferia i pazzi e gli anormali, così la ragione e il dominio tecnico della natura, approfondendosi, fanno nascere intorno a sé la catastrofe e la crisi come sragione del 'corpo organico della natura', sragione insopportabile perché la ragione pretende di essere sovrana e non può più nemmeno pensare ciò che le sfugge - insolubile perché non esistono più per noi dei rituali di propiziazione o di riconciliazione: l'accidente, come la morte, è assurdo, punto e basta. É un "sabotaggio". Un demone maligno è all'opera per far sì che questa macchina tanto bella si guasti sempre. Così questa cultura razionalista è affetta, come nessun'altra, da paranoia collettiva. Il minimo incidente, la minima irregolarità, la minima catastrofe, un terremoto, una casa che crolla, il cattivo tempo-bisogna che ci sia un responsabile - tutto è un "attentato". Così la recrudescenza del sabotaggio, del terrorismo, del banditismo è meno interessante del fatto che tutto quello che succede sia "interpretato" in questo senso. Accidente o no? Difficile decidere. Ed è senza importanza, perché la categoria dell'Accidente, analizzata da Octavio Paz, è scivolata in quella dell'Attentato. E questo è normale in un sistema razionale: il caso non può essere lasciato che a una volontà "umana", quindi qualsiasi guasto viene interpretato come "maleficio" - oppure, politicamente, come attentato all'ordine sociale. 106 É vero: una catastrofe naturale è un pericolo per l'ordine costituito, non solo per il disordine reale che provoca, ma anche per il colpo che dà a qualsiasi 'razionalità' sovrana, anche a quella politica. Di qui lo stato d'assedio per un terremoto (Nicaragua), di qui i servizi d'ordine sui luoghi delle catastrofi (più imponente che per una manifestazione, al tempo di quella del DC-10 a Ermenonville). Perché nessuno sa fino a che punto la 'pulsione di morte', innescata dall'accidente o la catastrofe, può scatenarsi in questa occasione e rivolgersi contro l'ordine politico.

É notevole che siamo ritornati, in pieno sistema della ragione, e in piena conseguenza logica di questo sistema, alla concezione 'primitiva' di imputare qualsiasi evento, e in particolare la morte, a una volontà ostile. Ma siamo noi, e soltanto noi, che siamo in piena primitività (proprio quella che affibbiamo ai primitivi per esorcizzarla), perché presso i 'primitivi' questa concezione corrispondeva alla logica dei loro scambi reciproci e ambivalenti con ciò che li attorniava, circondava tanto che persino le catastrofi naturali e la morte erano intelligibili nel quadro delle loro strutture sociali - mentre da noi essa è francamente paralogica, è la paranoia della ragione, i cui assiomi fanno sorgere ovunque l'inintelligibile assoluto, la Morte come inaccettabile e insolubile, l'Accidente come persecuzione, come resistenza assurda e malvagia d'una materia, d'una natura che non vuole mettersi in ordine sotto le leggi 'oggettive' in cui è stata cacciata. D'onde il fascino sempre più vivo per la catastrofe, l'accidente, l'attentato: è la ragione stessa, braccata dalla speranza d'una rivincita universale contro le sue stesse norme e i suoi privilegi.

 

"La morte naturale'".

Alla definizione biologica della morte e alla volontà logica della ragione corrisponde una forma ideale e standard di morte, che è la morte 'naturale'. É una morte 'normale' perché arriva 'al termine della vita'. Il suo stesso concetto nasce dalla possibilità di far arretrare i limiti della vita: vivere diventa un processo di accumulazione, e la scienza e la tecnica entrano in gioco in questa strategia quantitativa. Scienza e tecnica non hanno affatto appagato un desiderio originale di vivere il più a lungo possibile - è solo il passaggio dalla vita al capitale-vita (a una valutazione quantitativa), attraverso una districazione simbolica della morte, che fa sorgere una scienza e una tecnica biomedica del prolungamento della vita.

La morte naturale non significa quindi l'accettazione d'una morte che sarebbe nell''ordine delle cose', ma una negazione sistematica della morte. La morte naturale è quella che dipende giurisdizionalmente dalla scienza, e che ha la vocazione a essere sterminata dalla scienza. Questo significa in chiaro: la morte è inumana, irrazionale, insensata, come la natura quando non è addomesticata (il concetto occidentale di 'natura' è sempre quello d'una natura rimossa e addomesticata). La buona morte è solo quella vinta e sottomessa alla legge: questo è l'ideale della morte naturale.

A ciascuno dovrebbe essere possibile andare fino al termine del suo 'capitale' biologico, godere 'fino al termine' della sua vita, senza violenza né morte precoce. Come se ognuno avesse impresso il suo piccolo schema di vita, la sua 'speranza normale' di vita, un 'contratto di vita' in fondo – d' onde la rivendicazione "sociale" di questa qualità di vita di cui fa parte la morte naturale. Nuovo contratto sociale: è tutta la società, con la sua scienza, la sua tecnica che diventa solidalmente responsabile della morte di ogni individuo. 107 Questa rivendicazione può d'altronde significare una messa in causa dell'ordine esistente, dello stesso tipo delle rivendicazioni salariali e quantitative: è l'esigenza d'una "giusta" durata della vita, come d'una giusta retribuzione della forza-lavoro. Essenzialmente, questo diritto come tutti gli altri, nasconde una giurisdizione repressiva. Ognuno ha il diritto, ma allo stesso tempo il dovere di una morte naturale. Perché questa è la morte caratteristica del sistema d'economia politica, il suo tipo di morte "obbligatoria":

1. Come sistema di massimizzazione delle forze produttive (in un sistema 'estensivo' della manodopera, niente morte naturale per gli schiavi: li si fa crepare sul lavoro).

2. Molto più importante: che ciascuno abbia "diritto" alla sua vita ("habeas corpus" - "habeas vitam") - è la giurisdizione sociale estesa alla morte. La morte è socializzata come tutto il resto: essa non può che essere naturale, perché una morte diversa è uno scandalo "sociale": non s'è fatto ciò che si doveva. Progresso sociale? No: progresso del sociale, che si annette persino la morte. Ciascuno ne è spossessato, non gli sarà mai più possibile morire come vuole. Non sarà mai più libero che di vivere il più a lungo possibile. Ciò significa tra l'altro il divieto di consumare la propria vita senza considerazione di limiti. Il principio della morte naturale equivale a una neutralizzazione della vita "tout court".108 Lo stesso per la questione dell'uguaglianza davanti alla morte: bisogna ridurre la vita alla quantità (e quindi la morte a nulla) per adattarla alla democrazia e alla legge delle equivalenze.

 

"Vecchiaia e terza età."

Anche qui, questa conquista della scienza sulla morte entra in contraddizione con la razionalità del sistema: la terza età diventa un considerevole peso morto nella gestione sociale. Tutta una parte della ricchezza sociale (denaro e valori morali) vi si riversa senza poterle dare un senso. Un terzo della società viene così messo in uno stato di parassitismo economico e di segregazione. Le terre conquistate su questa marca della morte sono socialmente desertiche. Colonizzata di fresca data, la vecchiaia dei tempi moderni grava su questa società con lo stesso peso con cui gravavano un tempo le popolazioni indigene colonizzate. La Terza Età esprime bene ciò che vuol dire: è una specie di Terzo Mondo.

Non è più che una fetta di vita, marginale, asociale al limite - un ghetto, una dilazione, uno spazio vuoto prima della morte. É propriamente la liquidazione della vecchiaia. Man mano che i vivi vivono più a lungo, man mano che 'guadagnano' sulla morte, cessano d'essere riconosciuti simbolicamente. Condannata a una morte che arretra sempre più, questa età perde il suo statuto e le sue prerogative. In altre formazioni sociali, la vecchiaia, invece, esiste veramente, come cardine simbolico del gruppo. Lo statuto di vecchio, che completa quello di antenato, è il più prestigioso. Gli 'anni' sono una ricchezza reale, che si trasforma in autorità, in potere, mentre ora gli anni 'guadagnati' non sono che degli anni contabili, accumulati senza potersi scambiare. La prolungata speranza di vita non ha quindi portato che a una discriminazione della vecchiaia: questa discende logicamente dalla discriminazione della stessa morte. Il 'sociale' anche qui ha lavorato bene. Ha fatto della vecchiaia un territorio 'sociale' (che compare nei giornali sotto questa rubrica, con gli immigrati e l'aborto), ha socializzato questa parte della vita chiudendola su se stessa. Sotto il segno 'benefico' della "morte naturale", ne ha fatto una "morte sociale" anticipata.

 

"... in quanto la vita del singolo individuo civilizzato, inserita nel progresso, all'infinito, per il suo stesso significato immanente non può avere alcun termine. Giacché c'è sempre un ulteriore progresso da compiere per chi c'è dentro; nessuno muore dopo esser giunto al culmine, che è situato all'infinito. Abramo o un qualsiasi contadino dei tempi antichi moriva 'vecchio e sazio della vita' perché si trovava nell'ambito della vita organica, perché la sua vita, anche per il suo significato, alla sera della sua giornata gli aveva portato ciò che poteva offrirgli, perché non rimanevano per lui enigmi da risolvere ed egli poteva perciò averne 'abbastanza'. Ma un uomo incivilito, il quale partecipa all'arricchimento della civiltà in idee, conoscenze, problemi, può diventare 'stanco della vita' ma non sazio [...] quindi la sua morte è per lui un accadimento assurdo. Ed essendo la morte priva di senso, lo è anche la vita civile come tale." (Max Weber, "Il lavoro intellettuale come professione").109

 

"Morte naturale e morte sacrificale."

Perché la morte di vecchiaia, attesa, prevista, la morte in famiglia - la sola che abbia avuto un senso pieno per la collettività tradizionale, da Abramo ai nostri nonni, non ha più alcun senso al giorno d'oggi? Non è più nemmeno commovente, è quasi ridicola, in ogni caso socialmente insignificante. Perché viceversa la morte violenta, accidentale, aleatoria, che un tempo era un nonsenso per la comunità (era temuta e maledetta come per noi lo è il suicidio) ha tanto senso per noi: è la sola che fa parlare di sé i giornali, che affascina, che scuote l'immaginazione. Ancora una volta, la nostra cultura è quella dell'Accidente, come dice Octavio Paz.

Abietto sfruttamento della morte da parte dei media? No: questi si limitano a puntare sul fatto che gli unici avvenimenti che hanno immediatamente un significato per noi tutti, senza calcoli né preamboli, sono quelli che mettono in gioco, in un modo o nell'altro, la morte. In questo senso i media più abietti sono anche quelli più oggettivi. E anche qui, l'interpretazione in termini di pulsioni individuali rimosse, di sadismo inconscio, eccetera, è frivola e priva d'interesse - perché si tratta d'una passione "collettiva". La morte violenta o catastrofica non soddisfa il piccolo inconscio individuale manipolato dagli immondi mass media (questa è una concezione secondaria e già moralmente truccata) - essa smuove tanto profondamente soltanto perché mette in gioco il gruppo stesso, la passione del gruppo per se stesso, che in un modo o nell'altro essa trasfigura e riscatta ai propri occhi.

La morte 'naturale' è vuota di senso perché il gruppo non vi ha più alcuna parte. Essa è banale perché è legata al soggetto individuale banalizzato, alla cellula familiare banalizzata, perché non è più lutto e gioia collettivi. Ognuno seppellisce i suoi morti. Non esiste morte 'naturale' per i primitivi: qualsiasi morte è sociale, pubblica, collettiva, ed è sempre effetto d'una "volontà" avversa che dev'essere riassorbita dal gruppo (niente biologia). Questo riassorbimento avviene mediante la festa e i riti. La festa è scambio di volontà (non si vede come la festa potrebbe riassorbire un evento "biologico"). Volontà malvage e riti d'espiazione si scambiano sulla testa del morto. La morte si gioca, e si guadagna simbolicamente - la morte vi guadagna il suo statuto, e il gruppo s'arricchisce di un partner.

La nostra morte, è qualcuno che se la svigna. Non ha più nulla da scambiare. É già un residuo prima di morire. Al termine d'una vita di accumulazione, è lui che è sottratto dal totale: operazione economica. Non diventa effigie: tutt'al più serve da alibi per i vivi, per la loro evidente superiorità di vivi sui morti. É la morte piatta, unidimensionale, fine d'un percorso biologico, saldo d'un credito: 'rendere l'anima' come uno pneumatico, contenitore svuotato del suo contenuto. Che banalità!

Tutta la passione si rifugia allora nella morte violenta, che sola manifesta qualcosa come il sacrificio, cioè come una trasmutazione reale "mediante la volontà del gruppo". E questo, che la morte sia accidentale, delittuosa o catastrofica poco importa - a partire dal momento in cui essa sfugge alla ragione 'naturale', in cui è una sfida alla natura, essa ridiventa affare del gruppo, esige una risposta collettiva e simbolica - in una parola desta la "passione dell'artificiale", che è allo stesso tempo la passione sacrificale. La natura è piatta e non ha senso, non bisogna che una morte sia 'resa alla natura', bisogna che essa si scambi secondo rigorosi riti convenzionali, affinché la sua energia, l'energia del morto e l'energia della morte, si ripercuota nel gruppo, sia assorbita e dispensata dal gruppo, invece di lasciare soltanto un residuo di 'natura'. Per noi che non abbiamo più un rito efficace di riassorbimento della morte e della sua energia di rottura, ci resta il fantasma del sacrificio, dell'artificio violento della morte. Di qui la soddisfazione intensa, e profondamente "collettiva", della morte automobilistica. Ciò che affascina nell'incidente mortale è l'artificialità della morte. Tecnica, non naturale, quindi "voluta" (dalla vittima stessa eventualmente), quindi di nuovo interessante - perché la morte voluta ha un senso. É questa artificialità della morte che permette, analogamente al sacrificio, il suo raddoppiamento "estetico" nell'immaginazione, e il godimento che ne deriva. L''estetica' vale evidentemente soltanto per noi, che siamo votati alla contemplazione. Il sacrificio non è affatto 'estetico' per i primitivi, ma contrassegna sempre un rifiuto delle successioni naturali e biologiche, un intervento d'ordine iniziatico, una violenza controllata, socialmente ordinata - violenza antinaturale che noi non possiamo più ritrovare che nella casualità dell'incidente e della catastrofe. Noi viviamo quindi questi eventi come avvenimenti sociali "simbolici" della massima importanza, come sacrifici. In definitiva, l'Accidente è accidentale, cioè assurdo, esclusivamente per la ragione ufficiale - per l'esigenza simbolica, che non ci abbandona mai, l'accidente è sempre ben altra cosa.

La presa di ostaggi si staglia sul medesimo scenario. Unanimemente condannata, essa suscita un terrore e una gioia profonda. Ed è sulla strada di diventare un rituale politico di prima grandezza, nel momento in cui la politica sprofonda nell'indifferenza. L'ostaggio ha un rendimento simbolico cento volte superiore a quello della morte automobilistica, esso stesso cento volte già superiore a quello della morte naturale. Il fatto è che qui si ritrova una specie di "tempo" del sacrificio, di rituale d'esecuzione, è l'imminenza della morte attesa collettivamente - totalmente immeritata, quindi totalmente artificiale, quindi perfetta dal punto di vista sacrificale, e il cui officiante, il 'criminale', accetta generalmente di morire in contraccambio, il che è nelle regole d'uno scambio simbolico al quale aderiamo tutti molto più profondamente che all'ordine economico.

L'incidente sul lavoro, invece, dipende dall'ordine economico e non ha nessun rendimento simbolico. É altrettanto indifferente per l'immaginazione collettiva che per l'imprenditore capitalista, perché è un guasto alla macchina, non un sacrificio. Esso è l'oggetto d'un rifiuto di principio, d'una rivolta di principio, fondata sui diritti alla vita e alla sicurezza - non è né l'oggetto né la causa d'un terrore "ludico". 110 Soltanto l'operaio, lo si sa, gioca con la propria sicurezza, troppo facilmente secondo i sindacati e i padroni, che non comprendono nulla di questa sfida.

Noi siamo tutti degli ostaggi, è questo il segreto della presa d'ostaggi, e sogniamo tutti, invece di morire stupidamente per logoramento, di ricevere la morte, e di dare la morte. Perché dare e ricevere è un atto simbolico (è l'atto simbolico per eccellenza), e sottrae alla morte tutta la negatività indifferente che essa ha per noi nell'ordine 'naturale' del capitale. Allo stesso modo, il nostro rapporto con gli oggetti non è più vivo e mortale, ma strumentale - non sappiamo più distruggerli, e non ne attendiamo più la nostra morte - per questo sono veramente degli oggetti morti, e finiranno per ucciderci, ma allo stesso modo dell'incidente sul lavoro, come un oggetto ne rompe un altro. Soltanto l'incidente automobilistico ristabilisce in qualche modo l'equilibrio sacrificale. Perché la morte è qualcosa che si divide, e noi dobbiamo saperla dividere con i nostri oggetti come con gli altri uomini. La morte ha senso soltanto se è data e ricevuta, cioè se è socializzata mediante lo scambio. Nell'ordine primitivo, tutto è fatto affinché questo accada. Nell'ordine della nostra cultura, al contrario, tutto è fatto affinché la morte non capiti mai a nessuno da "qualcun" altro, ma soltanto dalla 'natura', come una scadenza impersonale del corpo. Noi viviamo la nostra morte come fatalità 'reale' inscritta nel nostro corpo, ma perché non sappiamo più inscriverla in un rituale simbolico di scambio. Ovunque l'ordine del 'reale', quello dell''oggettività' del corpo come altrove quello dell'economia politica, risulta dalla rottura di questo scambio. Il nostro stesso corpo comincia a esistere da qui, come luogo di reclusione della morte inscambiabile, e noi finiamo per credere a questa essenza biologica del corpo, sulla quale vigila la morte, e sulla morte vigila la scienza. La biologia è circondata dalla morte, il corpo che essa rappresenta è circondato dalla morte, dalla quale nessun mito viene più a liberarla. Il mito, il rituale che potrebbe liberare il corpo da questa supremazia della scienza è perduto, o non è ancora stato trovato.

É per questo che cerchiamo di circoscrivere gli altri, i nostri oggetti, il nostro stesso corpo, in un destino di strumentalità - per non riceverne mai più la morte. Ma non possiamo farci nulla - per la morte accade come per il resto: a non volerla più dare né ricevere, è lei che ci accerchia nel simulacro biologico del nostro stesso corpo.

 

"Fino al Diciottesimo secolo, s'impiccavano, dopo una condanna formale, gli animali colpevoli d'aver causato la morte d'un uomo. Si impiccavano anche i cavalli."

AUTORE IGNOTO.

 

"La pena di morte."

Ci deve essere una ragione ben particolare della repulsione che c'ispirano le punizioni di animali, perché dovrebbe essere più grave condannare un uomo che un animale, e più odioso farlo soffrire. Ora, in un modo o nell'altro, l'impiccagione di un cavallo o d'un porco ci sembra più odiosa, come quella d'un pazzo o d'un bambino, perché essi sono 'irresponsabili'. Questa segreta eguaglianza delle coscienze nella giustizia, che fa sì che il condannato conservi sempre il privilegio di negare il diritto dell'altro a giudicarlo, la possibilità di questa sfida, che è cosa diversa dal diritto alla difesa, e che ristabilisce un minimo di contropartita simbolica, non esiste più assolutamente nel caso dell'animale o del pazzo. E proprio l'applicazione d'un rituale simbolico a una situazione che esclude qualsiasi possibilità di risposta simbolica costituisce il carattere particolarmente odioso di questo tipo di punizione.

A differenza dalla liquidazione fisica, la giustizia è un atto sociale, morale e rituale. Il carattere odioso della punizione di un bambino o di un folle proviene dall'aspetto "morale" della giustizia - se l''altro' deve essere convinto di essere colpevole e condannato in quanto tale, la punizione perde ogni senso, poiché in questi 'criminali' non è possibile né la coscienza della colpa, e nemmeno l'umiliazione. É quindi altrettanto stupido che crocifiggere dei leoni. Ma nella punizione d'un animale c'è una altra cosa, che viene questa volta dal carattere "rituale" della giustizia. Più che la morte inflitta è l'applicazione d'un cerimoniale "umano" a una bestia ciò che costituisce la stravaganza atroce della scena. Tutti i tentativi di vestire in modo strambo gli animali, di travestirli e di ammaestrarli secondo la commedia umana sono sinistri e malsani - nella morte, ciò diventa francamente insopportabile.

Ma perché questa repulsione a veder trattare l'animale come un essere umano? É che allora l'uomo è trasformato in bestia. Nella bestia che s'impicca, in virtù del segno e del rituale è un uomo che viene impiccato, ma un uomo tramutato in bestia come per magia nera. Una significazione riflessa - venuta dal fondo della reciprocità che opera ovunque, sempre, qualunque cosa ne pensiamo, tra l'uomo e l'animale, tra il carnefice e la sua vittima - si mescola alla rappresentazione visiva in una confusione terribile, e il disgusto nasce da questa ambiguità malefica (come ne "La metamorfosi" di Kafka). Fine della cultura, fine del sociale, fine della regola del gioco. Uccidere una bestia nelle forme umane scatena una mostruosità equivalente nell'uomo, che diventa vittima del suo stesso rituale. L'istituzione della giustizia, con la quale l'uomo pretende di tracciare una linea tra se stesso e la bestialità, si ritorce contro di lui. Certamente, la bestialità è un mito - linea di cesura che implica un privilegio assoluto dell'umano e respinge l'animale nel 'bestiale'.

Questa discriminazione, tuttavia, si giustifica relativamente quando implica, contemporaneamente al privilegio, anche tutti i rischi e gli obblighi dell'umano, in particolare quello della giustizia e della morte "sociali" - nel cui ambito di competenza, invece, secondo la medesima logica, l'animale non entra assolutamente. Imporgli questa forma, significa cancellare il limite tra i due, a abolire di colpo anche l'umano. Allora l'uomo è puramente la caricatura immonda del mito dell'animalità che lui stesso ha istituita.

Nessun bisogno di psicoanalisi, di figura-del-padre, di erotismo sadico e di senso di colpa per spiegare la nausea del supplizio animale. Qui tutto è sociale, tutto ha attinto alla linea di demarcazione "sociale" che l'uomo traccia attorno a se stesso, secondo un codice mitico di differenze - e alla ritorsione che spezza questa linea, secondo la legge che vuole che "la reciprocità non cessi mai": tutte le discriminazioni sono sempre e solo immaginarie, e la reciprocità simbolica le attraversa sempre, per il meglio e per il peggio.

Beninteso, questa nausea, legata alla perdita del privilegio dell'umano, è propria quindi anche a un ordine sociale in cui il taglio netto tra l'uomo e l'animale, e quindi l'astrazione dell'umano, è definitiva. Questa repulsione ci distingue: segna che la Ragione umana ha fatto dei progressi, il che ci permette di relegare nella 'barbarie' tutto questo 'medioevo' di supplizi, umani o animali. 'Ancora nel 1906, in Svizzera, un cane è giudicato e giustiziato per aver partecipato a un furto e omicidio.' Nel leggere questa notizia, siamo ben rassicurati: non siamo più a quei tempi. Sottinteso: al giorno d'oggi siamo 'umani' con gli animali, li rispettiamo. Ora, è esattamente l'inverso: il disgusto che ci ispira l'esecuzione d'un animale è "esattamente proporzionale al disprezzo in cui lo teniamo". É in proporzione alla sua relegazione, propria della nostra cultura, nell'irresponsabilità, nell'inumano, che l'animale diventa indegno del rituale umano: è allora sufficiente che quest'ultimo sia applicato per darci la nausea, non secondo un progresso morale, ma a causa dell'approfondimento del razzismo dell'umano.

Coloro che un tempo sacrificavano ritualmente gli animali non li consideravano delle bestie. E anche la società medievale che li condannava e li puniva secondo le regole ne era più vicina di noi a cui questa pratica fa orrore. Li ritenevano colpevoli: era far loro un onore.

 

L'innocenza in cui noi li releghiamo (di conserva con i pazzi, i ritardati, e i bambini) è significativa della distanza radicale che ci separa da essi, dell'esclusione razziale in cui li mantiene la definizione rigorosa dell'Umano. In un contesto in cui tutti gli esseri viventi sono partecipi dello scambio, gli animali hanno 'diritto' al sacrificio e all'espiazione rituale. Il sacrificio primitivo dell'animale è legato al suo statuto sacro ed eccezionale di divinità, di totem. 111 Noi non li sacrifichiamo più, non li puniamo nemmeno più, e ne siamo fieri, ma il fatto è semplicemente che li abbiamo addomesticati, che ne abbiamo fatto un mondo razzialmente inferiore, non più degno nemmeno della nostra giustizia; e, così, sono sterminabili come animali da macello. In altre parole, il pensiero razionale liberale si prende carico di coloro che scomunica: gli animali, i pazzi, i bambini, che 'non sanno quello che fanno' - quindi nemmeno degni del castigo e della morte, appena appena della carità sociale: protezionismo di ogni genere, società per la protezione degli animali, psichiatria 'aperta', pedagogia moderna - tutte le forme di inferiorizzazione definitiva, ma con delicatezza, in cui si trincera la Ragione liberale. Commiserazione razziale grazie alla quale l'umanesimo raddoppia il suo privilegio sugli 'esseri inferiori'.112

Alla luce di tutto questo si pone la questione della pena di morte, che è anche quella dell'ingenuità o dell'ipocrisia di qualsiasi umanesimo liberale della questione.

Presso i primitivi, il 'criminale' non è un essere inferiore, anormale, irresponsabile. É su lui, come sul 'pazzo' e sul 'malato' che si articolano numerosi meccanismi simbolici - di ciò rimane qualcosa nella formula di Marx sul criminale come funzione essenziale dell'ordine borghese. Il re è colui al quale è riservato il crimine per eccellenza di infrangere il tabù dell'incesto - per questo è re, e per questo sarà messo a morte. La sua espiazione gli conferisce lo statuto supremo, perché è essa che rilancia il ciclo degli scambi. Esiste tutta una filosofia della crudeltà (nel senso di Artaud) che noi non conosciamo più, e che esclude tanto l'infamia sociale quanto la pena: la morte del criminale-re non è una sanzione, non separa né elimina qualcosa di putrido dal corpo sociale, al contrario, è festa e apice, è su essa che si rinnovano le solidarietà, che si sciolgono le separazioni. Il folle, il buffone, il bandito, l'eroe e tanti altri personaggi delle società tradizionali hanno svolto, fatte le debite proporzioni, il medesimo ruolo di fermenti simbolici. La società si articolava sulla loro "differenza". I morti per primi hanno svolto questo ruolo. Non toccate ancora dal principio della Ragione sociale, le società tradizionali si adattavano benissimo al criminale, sia pure mediante la sua morte rituale e collettiva, 113 esattamente come la società paesana ai suoi idioti del villaggio, sia pure come oggetti rituali di derisione.

Finita questa cultura della crudeltà in cui la differenza si esalta e si espia nel medesimo atto sacrificale. Nei confronti dei devianti noi non conosciamo più che lo sterminio o la terapeutica. Non sappiamo più che tagliare, epurare e respingere nelle tenebre sociali. E questo a misura stessa della nostra 'tolleranza', della nostra concezione sovrana della libertà. 'Se le società contemporanee sono progredite al livello dei costumi, non è escluso che esse siano regredite al livello delle mentalità' ("Encyclopaedia Universalis"). Normalizzandosi, cioè estendendo a tutti la logica delle equivalenze - ciascuno uguale e libero davanti alla norma - la società finalmente socializzata esclude tutti gli anticorpi. É allora che crea, nel medesimo movimento, le istituzioni specifiche per accoglierli - É così che fioriscono nel corso dei secoli le prigioni, i manicomi, gli ospedali, le scuole, senza dimenticare le fabbriche, che hanno anch'esse cominciato a fiorire con i Diritti dell'Uomo - è così che bisogna intendere il lavoro. La "socializzazione" non è nient'altro che questo immenso passaggio dallo scambio simbolico delle differenze alla logica sociale delle equivalenze. Qualsiasi 'idea sociale' o socialista non fa che raddoppiare questo processo di socializzazione, e il pensiero liberale che vuole abolire la pena di morte non fa che prolungarlo anch'esso. Pensiero di destra o pensiero di sinistra sulla pena di morte - isteria reazionaria o umanesimo razionale: nessuna differenza - l'una e l'altro sono altrettanto lontani dalla configurazione simbolica nella quale il crimine, la follia, la morte sono una modalità dello scambio, la 'parte maledetta' attorno alla quale gravitano tutti gli scambi. Reintegrare il criminale nella società - farne un uomo equivalente, normale? Ma è esattamente l'inverso. Come dice Gentis: 'Non si tratta di restituire il pazzo alla verità della società, ma di restituire la società alla verità della follia' ("Les Murs de l'asile"). Tutto il pensiero umanistico vien meno di fronte a questa esigenza-manifestamente realizzata nelle società precedenti, sempre presente, ma occulta e violentemente rimossa, nelle nostre (perché il crimine e la morte provocano sempre il medesimo giubilo segreto, ma degradato e osceno).

Se in un primo tempo l'ordine borghese si sbarazza del crimine e della follia con la liquidazione o la reclusione, in un secondo tempo esso neutralizza tutto questo sulla base della terapeutica. É la fase della progressiva assoluzione del criminale e del suo riciclaggio come essere sociale, con tutti gli espedienti della medicina e della psicologia. Ma bisogna comprendere che questa svolta liberale si compie sulla base d'uno spazio sociale interamente repressivo, in cui i meccanismi "normali" hanno assorbito la funzione repressiva un tempo riservata a delle istituzioni speciali.114

Il pensiero liberale non crede di dire tanto pretendendo che 'il diritto penale è chiamato a svilupparsi nel senso d'una medicina sociale preventiva e d'una assistenza sociale curativa' ("Encyclopaedia Universalis"). Esso sottintende con questo che il diritto penale è chiamato a scomparire in quanto "penale". Ma nient' affatto: è la penalità stessa che è chiamata a realizzarsi nella sua forma più pura nel grande riciclaggio terapeutico, psicagogico e psichiatrico. É la violenza penale che trova il suo equivalente più sottile nella risocializzazione e la rieducazione (altrove nell'autocritica o il pentimento, secondo il sistema sociale dominante) - e a partire da questo momento siamo tutti assegnati alla vita normale medesima: siamo tutti dei pazzi e dei criminali.115

La pena di morte e la violenza penale non solo "possono" sparire in questa società, ma anzi "devono" farlo, e gli abolizionisti non fanno che andare nel senso del sistema, ma in piena contraddizione con se stessi. Vogliono abolire la pena di morte, ma senza abolire la responsabilità (perché, senza responsabilità, niente coscienza né dignità dell'uomo, quindi niente pensiero liberale!). Illogico. Ma soprattutto inutile: perché è da molto tempo che la responsabilità è morta. Vestigio individuale dell'età dei Lumi, essa è stata liquidata dallo stesso sistema man mano che questo diventava "più razionale". A un capitalismo che si fondava sul merito, l'iniziativa, l'impresa individuale e la concorrenza, occorreva un ideale di responsabilità, e quindi l'equivalente repressivo: nel bene e o nel male, ciascuno, imprenditore o criminale, riceveva la sanzione secondo il proprio merito. A un sistema che si fonda sulla programmazione burocratica e l'esecuzione d'un piano, occorrono degli esecutori "irresponsabili", quindi tutto il sistema di valori della responsabilità crolla da se stesso: non è più operativo. Che si lotti o no per abolirla, è indifferente: la pena di morte è inutile. La giustizia crolla anch'essa: irresponsabilizzato dappertutto, l'individuo, qualunque cosa accada, si fa un pretesto delle strutture burocratiche e non accetta più d'essere giudicato da nessuno, nemmeno dall'intera società. Anche il problema della responsabilità collettiva è un falso problema: la responsabilità è semplicemente scomparsa.

Il beneficio secondario della liquidazione dei valori umanistici è la decomposizione dell'apparato repressivo, fondato sulla possibilità di distinguere 'in coscienza' il bene dal male, e di giudicare e condannare secondo questo criterio. Ma l'ordine ha buon gioco rinunciando alla pena di morte: ci guadagna ancora, e le prigioni possono aprirsi. Perché la morte e la prigione erano la verità della giurisdizione sociale d'una società ancora eterogenea e divisa. La terapeutica e il riciclaggio sono la verità della giurisdizione sociale d'una società omogenea e normalizzata. Il pensiero di destra si riferisce piuttosto alla prima, il pensiero di sinistra alla seconda - ma entrambi obbediscono a un medesimo sistema di valori.

Entrambi parlano d'altronde il medesimo linguaggio medico: asportazione d'un membro imputridito, dice la destra - guarigione d'un organo malato, dice la sinistra. Da una parte e dall'altra la morte si gioca al livello delle equivalenze. La procedura primitiva non conosce che reciprocità: clan contro clan - morte "contro" morte (dono contro dono). Noi non conosciamo che un sistema di equivalenze (morte per morte) tra due termini altrettanto astratti che nello scambio economico: la società e l'individuo, sotto la giurisdizione d'una istanza morale 'universale' e del diritto.

Morte per morte, dice la destra, niente per niente, hai ucciso e devi morire, è la legge del contratto. Intollerabile, dice la sinistra, il criminale dev'essere risparmiato: "non è veramente responsabile". Il principio dell'equivalenza è salvo: semplicemente, tendendo a zero uno dei termini (la responsabilità), tende a zero anche l'altro (la sanzione). L'ambiente l'infanzia, l'inconscio, 116 la condizione sociale delineano una nuova equazione della responsabilità, ma sempre in termini di causalità e di contratto. Al termine di questo nuovo contratto, il criminale non merita più che la pietà (cristiana) o la sicurezza sociale. Anche qui il pensiero di sinistra non fa quindi che inventare delle forme neocapitalistiche più sottili, in cui la repressione diventa diffusa, come altrove il plusvalore. Ma è proprio degli "equivalenti" della morte che si tratta nella cura psichiatrica, la cura ergonomica. L'individuo vi è trattato come superstite funzionale, come oggetto di riciclaggio - le cure e la sollecitudine di cui lo si circonda, di cui lo si "investe", sono altrettanti segni della sua anomalia. La tolleranza di cui gode è dello stesso ordine di quella che abbiamo visto esercitarsi sulle bestie: è un'operazione grazie alla quale l'ordine sociale esorcizza e controlla le proprie ossessioni. Il sistema ci rende tutti irresponsabili? Ciò è sopportabile solo a patto di circoscrivere una categoria di irresponsabili "notori", che si prendono in cura in quanto tali - questo ci restituirà, per effetto di contrasto, l'illusione di responsabilità. I delinquenti, i criminali, i bambini, i pazzi sopporteranno le spese di questa operazione clinica.

 

Un semplice esame in termini 'materialistici' (di profitto e di classe) dell'evoluzione della pena di morte dovrebbe lasciare perplessi coloro che vogliono abolirla. É sempre mediante la scoperta di sostituti economici più vantaggiosi - razionalizzati poi come 'più umani' - che la pena di morte è stata storicamente ridotta. Così i prigionieri di guerra risparmiati per farne degli schiavi, così i criminali nelle miniere di sale a Roma, così la proibizione del duello nel Diciassettesimo secolo, l'istituzione del lavoro forzato come soluzione riparatrice, e l'estorsione variabile della forza-lavoro, dai lager nazisti al riciclaggio ergoterapeutico. In nessun caso si tratta di un miracolo: la morte scompare o s'attenua quando il sistema, per un motivo o per l'altro, ne ha l'interesse (1830: prime circostanze attenuanti in un processo implicante un borghese). Non conquista sociale né progresso: ma logica del profitto, o del privilegio.117

Ma questa analisi è del tutto insufficiente: non fa che sostituire una razionalità economica a una razionalità morale. É in gioco ben altro, una ipotesi 'pesante', rispetto alla quale l'interpretazione materialistica appare come un'ipotesi 'leggera'. Perché il profitto può essere un effetto del capitale, non è mai la legge profonda dell'ordine sociale. La sua legge profonda è il controllo progressivo della vita e della morte. Il suo obiettivo è dunque di strappare anche la morte alla differenza radicale per sottometterla alla legge delle equivalenze. E l'ingenuità del pensiero umanistico (liberale o rivoluzionario) è di non accorgersi che il suo rifiuto della morte è sostanzialmente lo stesso di quello del sistema: il rifiuto di qualcosa che sfugge alla legge del valore. É solo in questo senso che la morte è un male. Ma il pensiero umanistico, invece, ne fa un male "assoluto". A partire da ciò esso s'ingarbuglia nelle peggiori contraddizioni. 118 Claude Glayman (in "Le Monde", a proposito dell'esecuzione di Buffet e Bontemps): 'La convinzione irrimediabilmente umana che nessun uomo ha il diritto di dare volontariamente la morte ["irrimediabilmente" è una specie di lapsus: l'umanista non ha l'aria di essere irresistibilmente convinto di questa evidenza]... La vita è sacra. Anche senza una fede religiosa, se ne è profondamente persuasi... Nella società dei consumi, che tende a bandire la scarsità, la morte è, se così si può dire, ancora più intollerabile [la vita come bene di consumo, la morte come scarsità: incredibile banalità - ma il comunismo, e lo stesso Marx, concorderebbero con questa equazione]. [...] Anche qui prevale l'impressione d'una specie di permanenza del Medioevo... In che società viviamo? Verso quali lidi stiamo andando? eccetera. Perché non bisogna voltare le spalle alla vita! Quale che essa sia!' (esattamente l'ingresso nella morte 'a ritroso', principio di base delle anime pie - sono gli stessi che entrano nella rivoluzione a ritroso, volgendo comunque le spalle alla vita, acrobazia inverosimile, ma caratteristica della torsione del pensiero logico su se stesso per soddisfare il suo rifiuto della morte).

Si vede chiaramente d'onde parte la contestazione umanistica: dal sistema di valori individualistici di cui essa è il coronamento: 'L'istinto di conservazione delle società, e quindi degli individui, dice Camus, esige che sia postulata la responsabilità individuale.' Ma precisamente questi postulati definiscono la banalità della vita e della morte nei nostri sistemi dominati dall'equivalenza.

All'infuori di questo, l'uomo non sa che farsene dell'istinto di conservazione o della responsabilità (due pregiudizi complementari nella visione astratta e razionalistica del soggetto). La morte riassume il suo senso di scambio sacrificale, di momento collettivo, di intensa liberazione del soggetto. 'Non c'è passione tanto debole che non possa affrontare e dominare la paura della morte', dice Bacone. Ma questo è troppo poco: "la morte stessa è una passione". E a questo livello la differenza tra sé e gli altri scompare: 'il desiderio di uccidere coincide spesso con il desiderio di morire o di annientarsi' - 'l'uomo desidera vivere, ma desidera anche non essere nulla, vuole l'irreparabile, e la morte per se stessa. In questo caso, non soltanto la prospettiva d'una condanna a morte non potrebbe fermare il criminale, ma è anche probabile che essa faccia aumentare ulteriormente la vertigine nella quale egli si perde.' É noto che il suicidio e l'omicidio sono molto spesso sostituibili, con una forte predilezione per il suicidio.

Questa morte, passionale, sacrificale, accetta apertamente lo "spettacolo della morte" - di cui noi abbiamo fatto, come di tutte le funzioni organiche, una funzione "morale", quindi vergognosa e clandestina. Le anime buone insistono molto sul carattere vergognoso delle esecuzioni "pubbliche", ma non comprendono che l'odiosità di questo tipo di esecuzione gli deriva dal suo carattere "contemplativo": la morte dell'altro vi è assaporata a una distanza spettacolare. Tale non è la violenza sacrificale, che non solo esige la presenza totale della comunità, ma che è anche una delle forme della sua presenza a se stessa. Qualcosa di questa festività contagiosa si ritrova in quell'episodio del 1807 in Inghilterra, quando 40000 persone venute ad assistere a una esecuzione sono prese da un tale delirio che sul terreno rimangono cento morti. Niente in comune tra questo atto collettivo e lo spettacolo dello sterminio. A mescolare le due cose nella medesima riprovazione astratta della violenza e della morte ci si confonde con l'idea di Stato, ossia la pacificazione della vita. Ora, se la destra si serve piuttosto del ricatto repressivo, la sinistra da parte sua si distingue nell'immaginazione e la messa in opera di modelli futuri di socializzazione pacificata.

Si giudica così il progresso d'una civiltà soltanto in base al suo rispetto della vita come valore assoluto. Che differenza rispetto alla morte pubblica, la morte festeggiata, la morte-supplizio - la risata del negro dell'Alto Volta davanti ai fucili che lo abbattono, il cannibalismo dei tupinamba - e anche rispetto all'omicidio e la vendetta, la morte-passione e il suicidio! Si accusa la società, quando essa uccide con premeditazione, di barbara vendetta, degna del Medioevo. Questo significa farle molto onore. Perché la vendetta è ancora una "reciprocità" mortale. Non è né primitiva né 'puro moto di natura', niente di più falso.

É una forma molto elaborata di obblighi e di reciprocità, una forma simbolica. Niente a che vedere con la nostra morte astratta, sottoprodotto d'una istanza morale e burocratica allo stesso tempo (la nostra pena capitale, i nostri campi di concentramento) - morte contabile, morte statistica, che ha tutto a che vedere invece con il sistema dell'economia politica. Ne è la stessa astrazione, che non è mai quella della vendetta, o dell'omicidio, o dello spettacolo sacrificale. Giudiziaria, concentrazionaria, etnocidiaria: questa è la morte che noi abbiamo prodotto, quella che la nostra cultura ha messo a punto. Al giorno d'oggi, tutto è cambiato, e nulla è cambiato: sotto il segno dei valori della vita e della tolleranza, è sempre lo stesso sistema di sterminio, ma con delicatezza, che governa la vita quotidiana - e questo non ha nemmeno più bisogno della morte per realizzare i suoi obiettivi.

 

Perché lo stesso obiettivo che s'inscrive nel monopolio della violenza istituzionale e della morte si realizza altrettanto bene nella sopravvivenza forzata, nel "forcing" della vita per la vita (reni artificiali, rianimazione intensiva dei bambini malformati, agonie prolungate a qualsiasi costo, trapianti d'organo, eccetera). Tutte procedure che equivalgono a disporre della morte e a imporre la vita - secondo quale finalità? Quella della scienza e della medicina? Ma allora è una paranoia scientifica senza alcun rapporto con qualsiasi obiettivo umano. Quella del profitto? No: la società vi riversa delle somme enormi. Questa 'terapeutica eroica' è caratterizzata da dei costi crescenti e dei 'vantaggi decrescenti': si fabbricano dei sopravvissuti improduttivi. Se la Previdenza sociale può ancora riassumersi come 'riparatrice di forza-lavoro a vantaggio del capitale', qui questo argomento è senza alcun valore. Sicché il sistema si ritrova qui davanti alla stessa contraddizione che per la pena di morte: rilancio sulla preservazione della vita come valore perché questo sistema di valori è essenziale all'equilibrio strategico dell'insieme - ma questo rilancio squilibra economicamente l'insieme. Che fare? S'impone una scelta economica in cui si vede profilarsi l'eutanasia come dottrina e pratica semiufficiale. Si decide di far sopravvivere il 30 per cento di uremici gravi in Francia (36 per cento negli USA!).

L'eutanasia è già presente ovunque, e l'ambiguità di farne una rivendicazione umanistica (stessa cosa per la 'libertà' di abortire) è clamorosa: essa s'inscrive nella logica a medio e lungo termine del sistema. Tutto questo va nella direzione d'un allargamento del controllo sociale. Perché, dietro tutte le contraddizioni apparenti, l'obiettivo è certo: assicurare il controllo su tutta l'estensione della vita e della morte. Dal "birth-control" al "death-control", che si giustizino le persone o le si obblighino a sopravvivere - e la proibizione di morire è la forma caricaturale, ma logica, del progresso della tolleranza - l'essenziale è che la possibilità di decidere venga loro sottratta, che non siano mai libere della loro vita e della loro morte, ma che muoiano e vivano su vidimazione sociale. É già troppo che siano ancora lasciate al caso biologico della morte, perché è sempre una forma di libertà. Allo stesso modo che la morale ordina: 'Non ucciderai', oggigiorno essa ordina: 'Non morirai' - in ogni caso non importa come, e solo se la legge e la medicina lo permettono. E se Ia morte ti sarà concessa, sarà ancora dietro ordinazione. In breve, la morte decente è abolita a vantaggio del "death-control" e dell'eutanasia: a parlare propriamente, non è nemmeno più una morte, è qualcosa d'altro, di completamente neutralizzato, che s'inscrive in alcune regole, in alcuni calcoli di equivalenza: "rewriting-planning-programming-system". La morte deve poter essere "assicurata" come servizio sociale, integrata come la salute e la malattia sotto il segno del Piano e della Previdenza sociale. É la storia di quei "motels-suicide" negli USA dove, contro una somma confortevole, ci si può procurare la morte nelle condizioni più gradevoli (come qualsiasi bene di consumo, servizio perfetto, tutto è previsto, perfino le "Entraineuse" che vi fanno riprendere il gusto della vita, poi si immette gentilmente, con ogni scrupolo professionale, il gas nella vostra camera, senza tormenti né colpo ferire). É un servizio che assicurano questi "motels-suicide", giustamente retribuito (eventualmente rimborsato?). Perché la morte non dovrebbe diventare un servizio sociale dal momento che, come tutto il resto, è funzionalizzata, come consumo individuale e computabile nell'"input-output" sociale?

Perché il sistema consenta tali sacrifici economici nella resurrezione artificiale dei suoi rifiuti viventi, bisogna che esso abbia un interesse fondamentale a sottrarre alla gente persino il caso biologico della loro morte. 'Morite, noi faremo il resto' non è già più che un vecchio slogan pubblicitario dei "funeral homes". Al giorno d'oggi, "morire fa già parte del resto", e i "Thanatos centers" s'incaricheranno della morte come gli "Eros centers" s'incaricano del sesso. É la caccia alle streghe che continua.

Bisogna delegare la giustizia, la morte, la vendetta a un'istanza trascendente 'oggettiva'. Bisogna che la morte e l'espiazione siano strappate al circuito, monopolizzate al vertice e ridistribuite. Occorre una burocrazia della morte e della punizione, così come occorre un'astrazione degli scambi economici, politici e sessuali: altrimenti è tutta la struttura del controllo sociale che crolla.

Perciò qualsiasi morte o violenza che sfugga a questo monopolio di stato è sovversiva - prefigurazione dell'abolizione del potere. Il fascino esercitato dai grandi omicidi, banditi o fuorilegge deriva da questo, e raggiunge in effetti quello proprio delle opere d'arte: qualcosa della morte e della violenza è strappato al monopolio di stato per essere trasferito a una reciprocità selvaggia, diretta, simbolica, della morte - come qualcosa nella festa e nella dispensa è ripreso all'economico per essere trasferito a uno scambio inutile e sacrificale - come qualcosa, nel poema e nell'opera d'arte, è ripreso all'economia terroristica della significazione per essere trasferito al consumo dei segni. Soltanto questo è affascinante nel nostro sistema. É affascinante soltanto ciò che non si scambia in valore: sesso, morte, follia, violenza, e che per questa ragione è ovunque represso. I milioni di morti della guerra si scambiano in valore, secondo una equivalenza generale: 'la morte per la patria' - sono riconvertibili in oro, se così si può dire, non sono perduti per tutti. L'omicidio, la morte, l'infrazione sono ovunque legalizzati, se non legali, purché siano convertibili in valore, secondo il medesimo processo che mediatizza il lavoro. Soltanto certe morti, certe pratiche sfuggono a questa convertibilità; soltanto esse sono sovversive, e molto spesso sono dell'ordine del fatto diverso.

Tra di esse, il suicidio, che ha assunto nelle nostre società un'estensione e una definizione differente, fino a diventare, nel quadro della reversibilità offensiva della morte, la forma stessa della sovversione. Si giustizia sempre meno nelle prigioni, ma vi si suicida sempre più: atto di "sottrazione" della morte istituzionale e di ritorsione contro il sistema che l'impone: con il suicidio, l'individuo giudica la società che l'ha condannato, secondo le proprie regole, invertendone le istanze - esso istituisce nuovamente una reversibilità là dove era completamente scomparsa e, allo stesso tempo, riprende il vantaggio. Anche i suicidi fuori dalle prigioni diventano tutti politici in questo senso (il hara-kiri mediante il fuoco non ne è che la forma più spettacolare): fanno tutti una breccia infinitesimale, ma inespiabile, perché è una disfatta totale per un sistema non poter raggiungere la perfezione totale - basta che la minima cosa sfugga alla sua razionalità.

La proibizione del suicidio corrisponde all'avvento della legge del valore. Religiosa, morale o economica, è sempre la medesima legge che dice: nulla ha il diritto di sottrarre capitale e valore. Ora, ogni individuo è una particella di capitale (come ogni cristiano è un'anima che bisogna salvare), non ha quindi il diritto di distruggere se stesso. É contro questa ortodossia del valore che il suicidio si ribella, distruggendo la particella di capitale di cui dispone. É imperdonabile: si arriverà a impiccare il suicida per esserci riuscito. É quindi sintomatico che il suicidio aumenti in una società di saturazione della legge del valore, come sfida alla sua regola fondamentale. Ma allo stesso tempo bisogna rivederne la definizione: se ogni suicidio diventa sovversivo in un sistema molto integrato, qualsiasi sovversione e resistenza a questo sistema è inversamente di natura suicida. Almeno quelle che lo colpiscono nelle sue parti vitali. Perché la maggior parte delle pratiche, anche quelle cosiddette 'politiche' e 'rivoluzionarie', si contentano di scambiare la loro sopravvivenza, cioè a "monetizzare la loro morte" con il sistema. Rare sono quelle che fanno insorgere contro la produzione e lo scambio controllato della morte, con il "valore di scambio della morte", non il suo valore d'uso (perché la morte è forse l'unica cosa che non ha un valore d'uso, non rimanda mai a un bisogno, ed è in questo che può ridiventare un'arma assoluta) ma il suo valore di rottura, di dissoluzione contagiosa e di negazione.

Suicida l'azione dei palestinesi o dei negri in rivolta che appiccano il fuoco al loro stesso quartiere, suicida la resistenza alla sicurezza in tutte le sue forme, suicidi i comportamenti nevrotici, i guasti multipli con i quali sfidiamo il sistema a integrarci, suicide tutte le pratiche politiche (manifestazioni, disordini, provocazioni, eccetera) il cui obiettivo è quello di far emergere la repressione, la 'natura repressiva del sistema' non come conseguenza secondaria, ma come immediatezza della morte: è il gioco della morte che smaschera la funzione di morte del sistema stesso. L'ordine detiene la morte, ma non può "giocarla" - vince soltanto chi gioca la morte contro di esso.

 

Il sistema della proprietà è tanto assurdo che porta la gente a rivendicare la propria morte come un loro bene - l'appropriazione privata della morte. Il guasto mentale dell'appropriazione è tale che porta all'investimento 'immobiliare' della morte, non soltanto nella preoccupazione di quella 'terza residenza' che è diventato il loculo o la tomba (molti acquistano allo stesso tempo una casa in campagna e una concessione nel cimitero del villaggio), ma anche nella rivendicazione d'una 'qualità della morte'. Una morte personalizzata, "design"-ata, confortevole, una morte 'naturale': diritto inalienabile che è diventato la forma perfetta del diritto borghese individuale. L'immortalità non è mai d'altronde che la proiezione nell'infinito di questo diritto naturale e personale - appropriazione della sopravvivenza e dell'eternità del soggetto - inalienabile nel suo corpo, inalienabile nella sua morte. Quale disperazione nasconde questa rivendicazione assurda, analoga a quella che alimenta il nostro delirio di accumulazione di oggetti e di segni, al collezionismo maniacale del nostro universo privato: bisogna ancora che la morte ridiventi l'ultimo oggetto della collezione e, invece di attraversare questa inerzia come l'unico evento possibile, rientri essa stessa nel gioco dell'accumulazione e dell'amministrazione delle cose.

Contro questa distorsione che il soggetto imprime alla propria perdita, c'è liberazione esclusivamente nella morte violenta, inattesa, che restituisce la possibilità di sfuggire al controllo nevrotico del soggetto.119

Ovunque emerge una resistenza ostinata, feroce, a questo principio di accumulazione, di produzione e di conservazione del soggetto, in cui esso può leggere la propria morte programmata. Ovunque si gioca la morte contro la morte. In un sistema che mira a vivere e a capitalizzare la vita, la pulsione di morte è l'unica alternativa. In un universo regolato minuziosamente, un universo della morte realizzata, l'unica tentazione è quella di normalizzare tutto mediante la distruzione.

 

"Il riscatto della sicurezza."

Altra forma di controllo sociale sotto forma di ricatto alla vita e alla sopravvivenza: la sicurezza. Oggi essa è sempre presente per noi, e le 'forze di sicurezza' vanno dall'assicurazione sulla vita e dalla Sicurezza sociale alla cintura automobilistica, passando per le Compagnies Républicaines de Sécurité [reparti celeri]. 'Allacciatela', dice uno slogan pubblicitario sulla cintura di sicurezza. La sicurezza è un'impresa industriale, come l'ecologia che ne è l'estensione al livello della specie: ovunque è in gioco una convertibilità della morte, dell'incidente, della malattia, dell'inquinamento, in plusprofitto capitalistico. Ma si tratta soprattutto della peggiore delle repressioni che consiste nello spossessarvi della vostra morte, quella che ciascuno sogna dal profondo del suo istinto di conservazione. Necessità di spossessare ciascuno dell'ultima possibilità di "darsi" la morte - ultima 'scampata bella' della vita assediata dal sistema. Anche qui, è lo scambio-"dono" che è braccato a morte, in questo cortocircuito simbolico che è la sfida a se stesso e alla propria morte. Non perché esso esprimerebbe la rivolta sociale d'un individuo - la defezione di uno o di milioni di individui non viola minimamente la legge del sistema - ma perché porta in esso un principio di socialità radicalmente antagonistico al principio sociale repressivo che è il nostro. É lo scambio-dono che bisogna uccidere seppellendo la morte sotto il mito opposto della sicurezza.

Uccidere l'esigenza di morte. Perché vivano gli uomini? No: perché muoiano dell'unica morte autorizzata dal sistema - esseri vivi separati dalla loro morte, e che scambiano solo la forma della loro sopravvivenza, sotto il segno dell'assicurazione contro tutti i rischi. Così per l'assicurazione automobilistica. Mummificato nel suo casco, le sue cinture, i suoi attributi della sicurezza, il guidatore non è più che un cadavere, chiuso in un'altra morte, non mitica questa: neutra e oggettiva come la tecnica, silenziosa e artigianale. Saldato alla sua macchina, inchiodato su di essa, non corre più il rischio di morire, perché è "già morto". Qui è il segreto della sicurezza, come della bistecca sotto cellofan: "avvolgervi in un sarcofago per impedirvi di morire".120

Tutta la nostra cultura tecnica crea un ambiente artificiale di morte. Non soltanto gli armamenti, che rimangono ovunque l'archetipo della produzione materiale, ma anche le macchine e i minimi oggetti che ci circondano costituiscono un orizzonte di morte, e d'una morte omai indissolubile perché cristallizzata e al sicuro: capitale fisso di morte, in cui il lavoro vivo della morte è congelato, come la forza-lavoro è congelata nel capitale fisso e nel lavoro morto. O ancora: tutta la produzione materiale non è che una gigantesca 'corazza caratteriale' grazie alla quale la specie vuole tenere a rispetto la morte. Beninteso, è la morte stessa che sovrasta la specie e la chiude in questa corazza nella quale essa credeva di proteggersi. Ritroviamo qui, alla dimensione d'un intera cultura, l'immagine del sarcofago automobilistico: la corazza di sicurezza è la morte miniaturizzata, diventata un prolungamento tecnico del vostro stesso corpo. Biologicizzazione del corpo e tecnicizzazione dell'ambiente vanno di pari passo nella medesima nevrosi ossessiva. L'ambiente tecnico è la nostra sovrapproduzione d' oggetti inquinanti, fragili, obsolescenti. Perché la produzione viva, tutta la sua logica e la sua strategia si articolano sulla fragilità e l'obsolescenza. Un'economia di prodotti stabili e di buoni oggetti è impensabile: l'economia non si sviluppa che scernendo pericolo, inquinamento, usura, delusione, assillo. L'economia vive esclusivamente di questa sospensione della morte che essa mantiene "attraverso la produzione materiale" - rinnovando lo "stock di morte disponibile", pronta a scongiurarlo con un rilancio di sicurezza: ricatto e repressione. La morte è definitivamente secolarizzata nella produzione materiale - è là che essa si riproduce in modo allargato come il capitale. E il nostro stesso corpo, diventato macchina biologica, si modella su questo corpo inorganico, e diventa allo stesso tempo un "oggetto cattivo", votato alla malattia, all'incidente e alla morte.

Vivendo della produzione di morte, il capitale ha buon gioco a produrre la sicurezza: è la medesima cosa. "La sicurezza è il prolungamento industriale della morte", esattamente come l'ecologia è il prolungamento industriale dell'inquinamento. Qualche bendarella in più sul sarcofago. Questo vale anche per le grandi istituzioni che costituiscono la gloria della nostra democrazia: la Previdenza sociale è la protesi sociale d'una società morta ('La Previdenza sociale è la morte'- Maggio'68), cioè precedentemente sterminatasi in tutti i suoi meccanismi simbolici, nel suo sistema di reciprocità e di obbligazioni in profondità per cui "né il concetto di sicurezza né quello di 'sociale' avevano lo stesso senso". Il 'sociale' comincia con la presa in carico della morte. Stesso copione per le culture distrutte, che vengono risuscitate e protette come folclore (confronta M. de Certeau, "La Beauté du Mort"). Stessa cosa per l'assicurazione sulla vita: è la variante domestica d'un sistema che presuppone ovunque la morte come assioma. Traduzione sociale della morte di gruppo - ognuno si materializza per l'altro solo come capitale sociale indicizzato sulla morte.

Dissuasione della morte al prezzo d'una continua mortificazione: questa è la logica paradossale della sicurezza. In un contesto cristiano, l'ascesi ha svolto il medesimo ruolo. L'accumulazione di sofferenza e di penitenza ha potuto svolgere il medesimo ruolo di corazza caratteriale, di sarcofago protettivo contro l'inferno. E la nostra coazione ossessiva di sicurezza può essere interpretata come una gigantesca ascesi collettiva, un'anticipazione della morte nella stessa vita: di protezione in protezione, di difesa in difesa, attraverso tutte le giurisdizioni, le istituzioni, i dispositivi materiali moderni, la vita non è più che una tetra contabilità difensiva, chiusa nel suo sarcofago contro tutti i rischi. Contabilità della sopravvivenza, invece della radicale compatibilità della vita e della morte.

Il nostro sistema vive della produzione di morte e pretende di fabbricare una sicurezza. Voltafaccia? Per nulla. Semplice torsione nel ciclo le cui due estremità si ricongiungono. Che una fabbrica d' automobili si ricicli sulla sicurezza (come l'industria sull'inquinamento, senza mutare gamma, obiettivo, né prodotto, dimostra che la sicurezza è soltanto una questione di sostituzione di termini. La sicurezza non è che una condizione interna di riproduzione dei sistema giunto a un certo stadio di espansione, come il "feedback" non è che una procedura interna di regolazione dei sistemi giunti a un certo grado di complessità.

Dopo aver esaltato la produzione, bisogna quindi adesso eroicizzare la sicurezza. 'In un'epoca in cui chiunque si uccide all volante di una qualsiasi automobile, a una qualsiasi velocità, il vero eroe è colui che si rifiuta di morire' (Manifesto della Porsche: 'Uccidiamo una certa glorificazione della morte'). Ora questo è difficile, "perché la gente è indifferente nei confronti della sicurezza": non l'hanno voluta quando la Ford e la General Motors gliel'hanno proposta negli anni 1955-1960. "Dappertutto è stato necessario imporla". Irresponsabili e ciechi? No: bisogna ricollegare questa resistenza a quella opposta ovunque dai gruppi tradizionali ai progressi sociali 'razionali': vaccinazione, medicina, sicurezza nel lavoro, educazione scolastica, igiene, controllo delle nascite e tante altre cose. Quasi sempre, le resistenze sono state vinte, e oggi si può contare su un bisogno 'naturale', 'eterno', 'spontaneo' di sicurezza, e di tutte quelle buone cose che la nostra civiltà ha prodotto. Si è riusciti a intossicare la gente con il virus della conservazione della sicurezza, tanto che si batterebbero a morte per ottenerla. In realtà, la cosa è più complicata: ciò per cui si battono, è per il "diritto" alla sicurezza, che è una cosa sostanzialmente diversa.

Quanto alla sicurezza in quanto tale, tutti se ne fottono. É stato necessario intossicarli durante intere generazioni perché finissero per credere che ne avevano 'bisogno': questo successo è un aspetto essenziale dell'addomesticamento e della colonizzazione 'sociali'. Il fatto che dei gruppi interi abbiano preferito crepare piuttosto che vedersi destrutturare dall'intervento terroristico della medicina, della ragione, della scienza e del potere centrale - ecco ciò che viene dimenticato, represso dietro la legge morale universale dell''istinto' di conservazione - ecco ciò che pur sempre risorge, se non altro negli operai che rifiutano di applicare le norme di sicurezza nelle officine: cosa vogliono con questo, se non salvare una particella di controllo sulla propria vita, sia pure a proprio rischio, sia pure ai prezzo d'un aumento dello sfruttamento (perché producono di più e più in fretta)? Non sono dei proletari 'razionali'. Ma combattono a modo loro, e sanno che lo sfruttamento economico è meno grave di questa 'parte maledetta', di questa frazione maledetta che non bisogna soprattutto lasciarsi strappare, questa parte di sfida simbolica, che è allo stesso tempo sfida della sicurezza e sfida alla propria vita. Il padrone può sfruttarli a morte, ma non li domina veramente se non arrivando a far sì che ognuno s'identifichi con il suo interesse individuale e diventi il contabile e il capitalista della propria vita. Allora egli sarebbe veramente il Padrone, e l'operaio lo schiavo. Finché mediante questa sola infima resistenza, lo sfruttato conserva la scelta di vita e di morte, è lui che vince, sul proprio terreno: simbolico.

La resistenza dell'automobilista nei confronti della sicurezza è dello stesso ordine, e deve essere liquidata come immorale: così ovunque il suicidio è stato proibito o condannato, perché significa in primo luogo una sfida che la società non può accettare, e che quindi assicura la preminenza d'uno solo su tutto l'ordine sociale. Sempre la parte maledetta - la piccola cosa che ognuno prende sul proprio corpo per donarla - e che può essere la propria morte, a condizione che qualcuno se la "dia" - quella piccola cosa che è tutto il segreto dello scambio simbolico, perché è data e ricevuta, e restituita, e quindi "imprendibile" da parte dello scambio dominante, irriducibile alla sua legge, e mortale per esso: in verità il suo unico avversario, l'unico che esso deve sterminare.

 

"A forza di lavare, insaponare, forbire, spazzolare pettinare, spugnare, pomiciare, pulire e ripulire, succede che tutto il sudiciume delle cose lavate passa alle cose viventi."

VICTOR HUGO.

 

"Funeral homes e catacombe."

Così per la morte: a forza d'essere lavata e spugnata, pulita e ripulita, negata e scongiurata, succede che essa passa in tutte le cose della vita. Tutta la nostra cultura è igienica: essa mira a epurare la vita dalla morte. É la morte che prendono di mira i detersivi nel più piccolo bucato. Sterilizzare la morte a ogni costo, vetrificarla, criogenizzarla, climatizzarla, truccarla, '"design"-arla', braccarla con lo stesso accanimento della sporcizia, del sesso, dei residui batteriologici o radioattivi. "Make up" della morte: la formula di Hugo fa pensare a quei "funeral homes" americani dove la morte è immediatamente sottratta al lutto e alla promiscuità dei vivi per essere '"design"-ata' secondo le più pure regole dello "standing", dello "smiling" e del "marketing" internazionale.

La cosa più inquietante non è che si rifaccia al morto una bellezza e che gli si dia un'aria di rappresentanza. Tutte le società lo hanno sempre fatto. Hanno sempre evitato l'abiezione della morte naturale, l'abiezione sociale della decomposizione, che priva il corpo dei suoi segni, della sua forza sociale di significare, per non essere più che una sostanza - e immediatamente precipita il gruppo nel terrore della propria decomposizione simbolica. Bisogna adornare la morte, coprirla di artificialità, per evitare quel momento insopportabile della carne che è restituita soltanto a se stessa, e che ha cessato di essere segno. Già le ossa spolpate e lo scheletro suggellano la possibile riconciliazione del gruppo, perché ritrovano la forza della maschera e del segno. Ma, tra i due momenti, c'è questo passaggio abietto attraverso la natura e il biologico, che bisogna scongiurare ad ogni costo mediante pratiche sarcofagiche (divoratrici di carne) che sono in realtà pratiche semiurgiche. Tutta la tanatoprassia, anche nelle nostre società, si riassume quindi come volontà di scongiurare questa improvvisa perdita di segni che s'è abbattuta sul morto, d'impedire che rimanga, nella carne "asociale" del morto, qualcosa che non significa nulla.121

In breve, la sarcofagia rituale si ritrova in qualsiasi società, e l'imbalsamazione, la conservazione artificiale della carne, ne è una variante. Le pratiche dei "funeral homes", che ci sembrano tanto ridicole e fuori luogo, a noi idealisti della morte naturale, sono quindi in questo fedeli alla più remota tradizione. Dove esse diventano assurde è nella loro connotazione di "naturalezza". Quando il primitivo sovraccarica il morto di segni, è per farlo passare il più rapidamente possibile al suo statuto di morto - al di là dell'ambiguità tra il morto e il vivo di cui testimonia appunto la carne che si decompone. Non è questione di far recitare al morto la parte del vivo: il primitivo rende il morto alla sua differenza, perché è a tale prezzo che i morti potranno diventare nuovamente dei partner e scambiare i loro segni. Il copione dei "funeral homes" è esattamente l'inverso. Si tratta di conservare al morto un'aria di vita, la "naturalezza" della vita: esso vi sorride ancora, con i medesimi colori, la stessa pelle, sembra al di là della morte, è persino un po' più fresco che da vivo, non gli manca che la parola (ma lo si può riascoltare in stereofonia). Morte truccata e idealizzata con i colori della vita: l'idea segreta è che la vita è naturale, la morte contro natura - bisogna dunque "naturalizzarla", impagliarla in un simulacro di vita. In tutto questo c'è dunque il rifiuto di lasciare che la morte significhi, assuma valore di segno, ed anche, dietro questo feticismo sentimentale della naturalezza, una grande ferocia nei confronti del morto stesso: divieto di imputridire, divieto di mutare - invece di essere portato allo statuto di morto, e quindi alla riconoscenza simbolica dei vivi, è mantenuto come fantoccio nell'orbita dei vivi per servire come alibi e simulacro della loro vita. Relegato nella naturalezza, il morto perde i suoi diritti alla differenza e qualsiasi possibilità di statuto "sociale".

Si ritrova qui tutto ciò che separa le società che non hanno paura del segno, né della morte, perché la fanno significare apertamente, e le nostre società 'ideologiche', in cui tutto è sepolto sotto la naturalezza, in cui i segni non sono più che "design", che mantiene l'illusione d'una ragione naturale. La morte è la prima vittima di questa ideologizzazione: irrigidita nel simulacro banale della vita, essa diventa vergognosa e oscena.

Quale differenza tra questi santuari, questi "drug-stores" della morte sorridente e sterilizzata, e i corridoi del convento dei Capuccini di Palermo, dove tre secoli di cadaveri dissepolti, che l'argilla del cimitero ha accuratamente fossilizzato, con la pelle, i capelli e le unghie, coricati o appesi per le spalle, in ranghi serrati, seguendo i lunghi corridoi riservati - corridoio dei religiosi, corridoio degli intellettuali, corridoio delle donne, dei bambini eccetera - ancora vestiti d'un rude panno o al contrario di costumi, di guanti e di mussoline polverose: ottomila cadaveri nella fioca luce degli spiragli, in un'incredibile molteplicità di atteggiamenti, beffardi, illanguiditi, tentennanti, feroci o timidi - danza macabra che per molto tempo, prima di diventare museo delle cere per turisti, fu un luogo di passeggiata domenicale per i parenti e gli amici dei defunti, che venivano a vederli, a riconoscerli, a mostrarli ai bambini, secondo una familiarità vivente, una 'domenicalità' della morte simile a quella della messa o del teatro. Barocco della morte (i primi corpi dissepolti datano dal Sedicesimo secolo e dalla Controriforma). Solidità d'una società capace di esumare i suoi morti, di frequentarli a metà strada fra l'intimità e lo spettacolo, di sopportare senza paura né curiosità oscena - cioè senza gli effetti di sublimazione e di gravità che ci sono abituali - il teatro della morte, dove la crudeltà si fa ancora segno, anche se questi non sono più i riti cruenti dei tarahumara. Quale contrasto con le nostre società incapaci di affrontare la morte se non di sbieco attraverso un tetro humour o un fascino perverso. Quale contrasto con gli ansiosi scongiuri dei "funeral homes".

 

"La morte sconsacrata."

Il culto dei morti va diminuendo. C'è una prescrizione sulle tombe, non più una concessione perpetua. I morti entrano nella mobilità sociale. La devozione per la morte permane soprattutto nelle classi popolari e medie, ma oggi molto più come variabile di "standing" (seconda residenza) che come pietà tribale. Si parla sempre meno dei morti, si abbrevia, si fa silenzio - discredito della morte. Finita la morte solenne e circostanziata, in famiglia: si muore all'ospedale - extraterritorialità della morte. Il morente perde i suoi diritti, compreso quello di sapere che sta morendo. La morte è oscena e imbarazzante - e altrettanto lo diventa il lutto, il buon gusto è quello di nascondere: ciò che può offuscare il benessere degli altri. La buona creanza vieta qualsiasi riferimento alla morte. La cremazione è il punto limite di questa liquidazione discreta e del minimo vestigio. Non più vertigine della morte: sconsacrazione. E l'immenso traffico mortuario non è più dell'ordine della pietà, è il segno stesso della sconsacrazione - consumo della morte. Esso cresce quindi proporzionalmente al disinvestimento della morte.

Noi non abbiamo più esperienza della morte degli altri. L'esperienza spettacolare e televisiva non ha niente a che vedere con questa. La maggior parte non ha mai più l'occasione di vedere morire qualcuno. É qualcosa d'impensabile in tutt'altro tipo di società. Siete presi in carico dall'ospedale e dalla medicina - l'estrema unzione tecnica ha sostituito tutti gli altri sacramenti. L'uomo scompare ai suoi prossimi prima d'essere morto. É d'altronde di questo che muore.

L'idea della svizzera Ross di andare a parlare ai moribondi della loro morte, di farli parlare. Idea oscena, negazione generale: nessuno sta morendo in nessun reparto dell'ospedale (è il personale che ha un problema). Poi la si prende per folle, provocatrice, la si fa cacciare via dall'ospedale. Quando trova un moribondo a cui parlare, lei va a cercare i suoi allievi; quando ritorna, l'altro è morto (qui, lei s'accorge che sono lei e i suoi studenti ad avere un problema). In seguito, ha successo - presto avrà uno staff di psicologi per vegliare e parlare ai moribondi. Neospiritismo delle scienze umane e psicosociali.

Prete ed estrema unzione erano ancora una traccia di quella comunità di parola intorno alla morte. Al giorno d'oggi, "black-out". In ogni modo, se il prete non era che un avvoltoio, adesso questa funzione è largamente coperta dalla medicina, che chiude a tutti la bocca sovraccaricandoli di cure e di sollecitudine tecnica. Morte infantile, che non parla più, morte inarticolata, guardata a vista. I sieri e i laboratori, la guarigione non è che l'alibi del divieto di parola.

 

"Lo scambio della malattia."

In ogni modo, non si muore più a casa propria, si muore all'ospedale. Per un mucchio di buone ragioni 'materiali' (mediche, urbane, eccetera), ma soprattutto: in quanto corpo "biologico", il moribondo o il malato non ha più posto che in un ambiente "tecnico". Con il pretesto di curarlo, è quindi deportato in uno spazio-tempo funzionale che s'incarica di neutralizzare la malattia e la morte nelle loro differenze simboliche.

Proprio là dove la finalità è l'eliminazione della morte, l'ospedale (e la medicina in generale) prende a carico il malato come virtualmente morto. Scientificità ed efficacia terapeutica presuppongono l'oggettivizzazione radicale del corpo, la discriminazione del malato, quindi un processo di mortificazione. Conclusione logica della genealogia medica del corpo: 'É con il cadavere che la medicina diventa moderna [...] Rimarrà probabilmente decisivo per la nostra cultura il fatto che il primo discorso scientifico da essa svolto sull'individuo abbia dovuto passare attraverso questo momento della morte' (Michel Foucault, "Nascita della clinica"). 122 Mortificato, il malato è altrettanto mortifero - si vendica come può: tutta l'istituzione ospedaliera, attraverso il suo funzionamento, la sua specializzazione, la sua gerarchia, cerca di preservarsi da questa contaminazione simbolica del già morto. Ciò che è pericoloso nel malato è questa morte anticipata alla quale lo si è condannato, è questa neutralità nella quale lo si reclude in cambio della guarigione - ma il corpo morto non sa che farsene di questa parentesi e di questa guarigione, esso irradia così com'è, da ora, da tutta la sua differenza di malato, da tutto il suo potenziale di morte diventato maleficio - non sarà sufficiente tutta la manipolazione tecnica, tutto l''ambiente umano', nemmeno all'occasione della sua morte reale, per farlo tacere.

Il pericolo più grave costituito dal malato, ciò in cui questo è veramente asociale e come un pazzo pericoloso, è la sua esigenza profonda di essere riconosciuto come tale e di "scambiare la sua malattia". Esigenza aberrante e inaccettabile del malato (e del morente) di fondare uno scambio su questa differenza - non di farsi curare e rettificare, ma di "dare" la sua malattia, e che essa sia "ricevuta", quindi simbolicamente riconosciuta e scambiata, invece d'essere neutralizzata nella morte tecnica ospedaliera e in quella sopravvivenza strettamente funzionale che si chiama salute e guarigione.

Nessun perfezionamento della relazione umana o terapeutica nell'ospedale o nell'esercizio generale della medicina può cambiare nulla a questo "black-out", a questo "lock-out" simbolico. Chiamato a guarire il malato, votato a guarire il medico e i curanti, esclusivamente attrezzato per guarire l'intera istituzione fino nei suoi muri, nelle sue macchine chirurgiche e nella sua apparecchiatura psicologica (freddezza e sollecitudine alternate, e adesso 'umanizzazione' dell'ospedale): nulla in tutto questo infrange l'interdizione fondamentale d'un altro statuto della malattia e della morte. Nel migliore dei casi, si lascerà al malato la possibilità di 'esprimersi', di parlare della sua malattia, di parlare della sua vita e di ricontestualizzarsi, in breve, di non vivere troppo negativamente questa anomalia passeggera. Ma quanto a riconoscere come differenza questa follia che è la malattia, come senso e ricchezza di senso, come materiale "a partire dal quale" ristrutturare uno scambio, senza cercare affatto di 'restituire il malato alla vita normale' - questo presuppone la liquidazione totale della medicina e dell'ospedale, di tutto il sistema di reclusione del corpo nella sua 'verità' funzionale - al limite, di tutto l'ordine sociale dominante, per il quale la semplice esigenza della malattia come "struttura di scambio" è un pericolo assoluto.123

 

"Morte sessualizzata sesso mortifero."

Parlare di morte fa ridere, d'un riso forzato ed osceno. Parlare di sesso non provoca più nemmeno questa reazione: il sesso è legale, solo la morte è pornografica. La società, 'liberando' la sessualità, la sostituisce progressivamente con la morte nella funzione di rito segreto e d'interdetto fondamentale. In una fase precedente, religiosa, la morte è rivelata, riconosciuta, è la sessualità che è interdetta. Al giorno d'oggi è l'inverso. Ma tutte le società 'storiche' si accontentano di qualsiasi modo per dissociare il sesso e la morte, e giocare la liberazione dell'uno contro l'altra - il che è un modo di neutralizzarli entrambi.

C'è un equilibrio esatto in questa strategia, o la priorità di uno dei due termini? Per quanto riguarda la fase che ci interessa, tutto accade come se la messa all'indice della morte fosse l'obiettivo prioritario, collegato a una strategia di esaltazione della sessualità: la 'Rivoluzione sessuale' è interamente orientata in questo senso, sotto il segno dell'Eros unidimensionale e della "funzione" di piacere. É d'altronde ciò che costituisce la sua ingenuità, il suo pathos, la sua sentimentalità, e allo stesso tempo il suo terrorismo 'politico' (l'imperativo categorico del desiderio). La parola d'ordine della sessualità è solidale con l'economia politica, in quanto mira anch'essa all'abolizione della morte. Non avremo fatto altro che cambiare l'interdetto. Forse anzi avremo stabilito, con questa 'rivoluzione', l'interdetto fondamentale, che è quello della morte. Con questo, la Rivoluzione sessuale divora se stessa, perché la morte è la vera sessuazione della vita.

 

"La mia morte ovunque la mia morte che sogna."

Ovunque braccata e censurata, la morte risorge dappertutto. Non più come folclore apocalittico, quale ha potuto assillare l'immaginario "vivente" di certe epoche - ma precisamente svuotata di qualsiasi sostanza immaginaria, essa passa nella realtà più banale, assume per noi il volto "del principio stesso di razionalità" che domina la nostra vita. La morte, è che tutto funziona e serve a qualcosa, è la funzionalità assoluta, segnaletica, cibernetica, dell'ambiente urbano, come in "Play-time", il film di Jacques Tati, il parametraggio assoluto dell'uomo sulla sua funzione, come in Kafka: l'epoca del funzionario è quella d'una cultura di morte. É il fantasma della programmazione totale, questo rilancio di prevedibilità, d'esattezza, di finalità non solo nelle cose materiali, ma nell'appagamento del desiderio. In una parola, "la morte si confonde con la legge del valore". E particolarmente con il valore strutturale mediante il quale tutto è assegnato come differenza codificata in un nesso universale di relazioni. É il vero volto della morte ultramoderna, fatta della connessione oggettiva, senza difetto, ultrarapida, di tutti i termini d'un sistema. Le nostre vere necropoli non sono più i cimiteri, gli ospedali, le guerre, le ecatombi, la morte non è affatto là dove si pensa - non è più biologica, psicologica, metafisica, non è nemmeno più omicida - le sue necropoli sono le cantine o le sale degli elaboratori elettronici, spazi bianchi, epurati di qualsiasi rumore umano - bara di vetro dove si congela tutta la memoria sterilizzata del mondo - solo i morti si ricordano di "tutto" - qualcosa come un'eternità immediata del sapere, una quintessenza del mondo che oggigiorno si sogna di seppellire sotto forma di microfilm e d'archivi, archiviare il mondo intero affinché sia ritrovato da qualche generazione futura - criogenizzazione di tutto il sapere nell'immortalità come valore/segno. Contro il nostro sogno di perdere tutto, di obliare tutto, eleviamo una muraglia inversa di relazioni, di connessioni, di informazioni, una memoria artificiale densa e inestricabile, e ci seppelliamo vivi all'interno di questa speranza fossile d'essere riscoperti un giorno.

Gli elaboratori elettronici, è questa morte miniaturizzata alla quale ci sottoponiamo nella speranza di sopravvivere. I musei esistono già per sopravvivere a tutta questa civiltà - per testimoniare... di che? Poco importa. Il solo fatto che esistano testimonia di una cultura che non ha più senso per se stessa e che non può che sognare d'averne uno più tardi per qualcun altro. Tutto diventa così ambiente di morte da quando ciò non è più che un segno miniaturizzato in un insieme gigantesco. Come il denaro al suo punto di non ritorno, in cui non è più che un sistema di scrittura.

In fondo, l'economia politica non si costruisce - al prezzo di sacrifici inauditi - che nel disegno d'essere riconosciuta come immortale da una civiltà futura, o da un'istanza di verità - inimmaginabile, come per la religione, se non in un giudizio universale in cui Dio riconoscerà i suoi. Ma il Giudizio universale è qui, già realizzato: è lo spettacolo definitivo della nostra morte cristallizzata. Lo spettacolo è, bisogna dirlo, grandioso. Dagli insiemi geroglifici della Difesa o del World Trade Center ai grandi insiemi informatici dei media, dai complessi siderurgici ai grandi apparati politici, dalle megalopoli al "quadrillage" insensato dei minimi atti quotidiani - ovunque, come dice Benjamin, l'umanità è diventata un oggetto di contemplazione per se stessa. 'La sua autoestraniazione ha raggiunto un grado che le permette di vivere il proprio annientamento come un godimento estetico di prim'ordine' ("L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica"). 124 Era per lui la forma stessa del fascismo. Vale a dire una certa forma esacerbata di ideologia - una perversione estetica del politico, che spinge fino al giubilo l'accettazione d'una cultura di morte. Ed è vero che tutto il sistema dell'economia politica diventa oggi per noi questa finalità senza fine, questa vertigine estetica della produttività che è soltanto vertigine contrastata della morte. É proprio per questo che l'arte è morta: a questo punto di saturazione e di sofisticazione, tutta la gioia è passata nello spettacolo stesso della complessità, tutto il fascino estetico è monopolizzato dal sistema nel proprio raddoppiamento (che non fa altro, con le sue torri gigantesche, i suoi satelliti, i suoi calcolatori giganti, se non raddoppiarsi nei segni). Siamo tutti vittime della produzione diventata spettacolo, del godimento estetico della produzione della riproduzione delirante - e non siamo pronti a distaccarcene, perché in tutto lo spettacolo c'è l'imminenza della catastrofe. Noi facciamo adesso l'esperienza al livello del sistema generale della produzione della vertigine del politico, che Benjamin denuncia nel fascismo, del suo godimento estetico e perverso. Facciamo l'esperienza d'una vertigine depoliticizzata, deideologicizzata - vertigine dell'amministrazione razionale delle cose, d'un' esaltazione senza fine delle finalità. La morte è immanente all'economia politica. É per questo che essa si vuole immortale. La Rivoluzione si fissa anch'essa un obiettivo immortale, nel nome del quale esige una sospensione della morte, a vantaggio dell'accumulazione. Ora, l'immortalità è sempre quella, monotona, dei paradisi sociali. La Rivoluzione non riscoprirà mai la morte, se non la esige immediatamente. Il suo "impasse" è d'essersi fissata la fine dell'economia politica come scadenza "progressiva", mentre è fin d'ora che si pone l'esigenza della fine dell'economia politica, nell'esigenza di vita e di morte immediata. In ogni modo la morte e il godimento cacciati, di cui sarà stato necessario pagare il prezzo durante tutta l'economia politica, si ritroveranno come problemi, insolubili, all''indomani' della Rivoluzione. Quest'ultima non fa che aprire il problema della morte, e senza la minima probabilità di risolverlo. In realtà, non c'è nessun domani: sono sempre quelli dell'amministrazione delle cose. La morte, invece, esige d'essere vissuta immediatamente, nell'accecamento totale, nell'ambivalenza totale. Ma è rivoluzionaria? Se l'economia politica è il tentativo più rigoroso di mettere fine alla morte, è chiaro che solo la morte può mettere fine all'economia politica.


Capitolo sesto - La sterminazione del nome di Dio

  


L'anagramma

 


Anche nel campo del linguaggio esiste il modello d'uno scambio simbolico, qualcosa come il nocciolo di un'anti-economia politica, luogo di sterminazione del valore e della legge: il linguaggio poetico. In questo campo di un'antidiscorsività, d'un al di là dell'economia politica del linguaggio, "Les Anagrammes" di Saussure costituiscono la scoperta fondamentale. Colui stesso che fornì più tardi alla scienza linguistica le sue armi concettuali, aveva in precedenza, nei suoi "Cahiers d'anagrammes", individuato la forma antagonistica d'un linguaggio senza espressione, al di là delle leggi, degli assiomi e delle finalità che gli assegna la linguistica - la forma d'una operazione "simbolica" del linguaggio, vale a dire non d'una operazione strutturale di rappresentazione mediante segni, ma, proprio all'inverso, di decostruzione del segno e della rappresentazione.


Il principio di funzionamento individuato da Saussure non pretende d'essere rivoluzionario. Solo la passione ch'egli mette nell'identificarlo come struttura accertata e cosciente di testi remoti, vedici, germanici, saturni, solo la passione ch'egli mette nell'accertarne la "prova" è proporzionata alla portata fantastica della sua ipotesi. Lui stesso non ne tira alcuna conseguenza radicale o critica, né pensa mai per un istante a generalizzarla sul piano speculativo, e quando la prova gli farà difetto, abbandonerà questa intuizione rivoluzionaria per passare all'edificazione della "scienza" linguistica. Forse è soltanto adesso, al termine di mezzo secolo di sviluppo ininterrotto di questa scienza, che noi possiamo trarre le conseguenze dell'ipotesi abbandonata da Saussure, 125 e comprendere in quale misura essa getti anticipatamente le basi d'un decentramento di tutta la linguistica.


Le regole del poetico individuate da Saussure sono le seguenti 126:


 


"Legge dell'accoppiamento [couplaison]".


 


"1. Una vocale può figurare nel saturnio solo se ha la sua "controvocale" in un posto qualsiasi del verso (cioè la vocale identica, e senza transazione sulla quantità [...]). Ne risulta che, se il verso ha un numero pari di sillabe, le vocali si accoppiano esattamente, e devono sempre dare come resto zero, con un numero pari per ogni tipo di vocale [...].


2. Legge delle consonanti. É identica, e non meno rigorosa [...] c'è sempre un numero pari per qualsiasi consonante [...]. Ma la cosa va tanto lontano che:


3. Se c'è un qualsiasi residuo irriducibile, sia nelle vocali [versi pari] sia nelle consonanti [...] contrariamente a ciò che si potrebbe credere, questo residuo non è affatto 'assolto', foss' anche una semplice "e" [...]; lo si vede allora riapparire nel verso successivo, come nuovo residuo corrispondente al troppopieno del verso precedente."


 


"Legge della parola-tema".


 


Nella composizione del verso, il poeta mette in opera il materiale fonico fornito da una parola-tema... Uno (o più) versi anagrammano un'unica parola (in generale un nome proprio, quello d'un dio o d'un eroe), costringendosi a riprodurne in primo luogo la sequenza vocalica. 'All'ascolto di uno o due versi saturni latini, F. de Saussure sente elevarsi a poco a poco i fonemi principali d'un nome proprio" (Starobinski).


Saussure: 'Si tratta, nell'ipogramma, di sottolineare un nome, una parola, ingegnandosi a ripeterne le sillabe, e dandogli così un secondo modo d'essere, artificioso, aggiunto per così dire all'originale della parola.'


 


TAURASIA CISAUNA SAMNIO CEPIT (SCIPIO).


AASEN ARGALEON ANEMON AMEGARTOS AUTME (AGAMEMNON).


 


Queste semplici regole si ripetono incessantemente in molteplici varianti. A proposito dell'allitterazione, regola alla quale si credeva di poter riferire tutta la poesia arcaica, Saussure afferma che non è che un aspetto 'd'un fenomeno più vasto e importante', dato che '"tutte" le sillabe allitterano, o assonano, o sono comprese in una qualche armonia fonica'. I gruppi fonici 'si fanno eco' - 'interi versi sembrano un anagramma d'altri versi precedenti, anche a grande distanza nel testo' - 'i polifoni riproducono visibilmente, quando ne hanno l'occasione, le sillabe d'una parola o d'un nome importante, che o figura nel testo, o si presenta naturalmente alla mente grazie al contesto' - 'la poesia analizza la sostanza fonica delle parole sia per farne delle serie acustiche, sia per farne delle serie significative, quando si allude a un certo nome' (il nome anagrammato). In breve, 'nel verso, tutto corrisponde, in un modo o nell'altro': i significanti, i fonemi, corrispondono tra loro lungo il verso, o il significato nascosto, la parola-tema, si fa eco da un polifono all'altro, 'sotto' il testo 'manifesto'. Le due regole possono d'altronde coesistere: 'Ora congiuntamente all'anafonia, ora fuori da qualsiasi nome che si imita, c'è una corrispondenza di tutti gli elementi, che si traduce in un esatto "accoppiamento", cioè una ripetizione in numero pari.'


Saussure esiterà fra i termini 'anagramma', 'antigramma', 'ipogramma', 'paragramma', 'paratesto', per designare questa 'variazione sviluppata che lascerebbe intravvedere, a un lettore perspicace, la presenza evidente, mai dispersa, dei fonemi conduttori' (Starobinski). Nella prosecuzione di Saussure, si potrebbe proporre il termine '"ANATEMA"', che è originalmente l'equivalente di un ex voto, d'una offerta votiva: quel nome divino che corre sotto il testo è proprio la dedica del testo, il nome di chi lo dedica e di colui al quale è dedicato.127


Queste due leggi sono apparentemente molto povere rispetto a tutto ciò che si è potuto dire sull''essenza' del poetico. Inoltre, esse non tengono alcun conto dell''effetto' poetico, del godimento proprio dei testi, o del loro 'valore' estetico. Saussure non sa che farsene dell''ispirazione' del poeta né dell'estasi del lettore. Forse non avrebbe nemmeno mai preteso l'esistenza di un qualche rapporto tra le regole che scopriva (credeva di osservarle, punto e basta) e l'eccezionale intensità che si è sempre stati d'accordo nel riconoscere alla poesia. Limitando la sua prospettiva a una logica formale del significante, egli sembra lasciare agli altri - psicologi, linguisti, poeti - l'incarico di cercare il segreto del godimento poetico - ciò che essi hanno sempre fatto unanimemente - nella ricchezza del "significato", nella profondità dell''espressione'. É tuttavia Saussure, e soltanto lui, che ci dice che ne è del godimento che ci proviene dal poetico - godimento in quanto esso viola le 'leggi fondamentali della parola umana'.


Davanti a questa sovversione della loro disciplina, i linguisti si sono rifugiati in un paradosso insostenibile. Riconoscono, con Roman Jakobson, che 'l'anagramma poetico infrange le due leggi fondamentali della parola umana, proclamate da Saussure, quella del legame codificato tra significante e significato, e quella della linearità dei significanti' ('I mezzi del linguaggio poetico sono in grado di farci uscire dall'ordine lineare', o, come riassume Starobinski, 'si esce dalla consecutività propria del linguaggio abituale') - e affermano allo stesso tempo che 'Saussure apre, nelle sue ricerche, delle prospettive inaudite allo studio "linguistico" della poesia.'


Modo elegante di recuperare il poetico come campo particolare del discorso, di cui la linguistica conserva il monopolio. Che importa se il poetico nega tutte le leggi della significazione: lo si neutralizzerà conferendogli diritto di cittadinanza linguistica, imponendogli di obbedire al medesimo principio di realtà. Ma che cos'è un significante o un significato che non sono più governati dal codice d'equivalenza? Che cos'è un significante che non è più governato dalla legge di linearità? E che cos'è una linguistica senza tutto questo? Nulla (ma si vedranno le contorsioni che essa fa per riparare questa violenza).


Dalla prima legge di Saussure (accoppiamento), se la cava adducendo la ridondanza del significante, cioè la frequenza di un determinato fonema o polifono, superiore nel linguaggio poetico alla media del linguaggio corrente, eccetera; dalla seconda legge (propriamente anagrammatica), se la cava invocando il nome 'latente' (Agamemnon) come secondo 'significato' d'un testo che lo 'esprime' e lo 'rappresenta' pur sempre, congiuntamente al significato 'manifesto' ('uno stesso significante sdoppia i suoi significati', dice Jakobson): tentativo disperato di salvare, sia pure attraverso un gioco più complesso, la legge del valore linguistico e le categorie essenziali del modo di significazione (significante, significato, espressione, rappresentazione, equivalenza). L'immaginario della linguistica cerca di annettersi il poetico e pretende anzi di arricchirne la sua economia, quella del "termine" e del valore. Ma contro di essa, e restituendo alla scoperta di Saussure tutta la sua importanza, bisogna dire che il poetico è al contrario un processo di "sterminazione del valore".


La legge del poema è in realtà di far sì, secondo un processo rigoroso, "che non resti nulla". In questo si oppone al discorso linguistico che, invece, è un processo di accumulazione, di produzione e distribuzione del linguaggio come valore. Il poetico è irriducibile al modo di significazione, che è semplicemente il modo di produzione dei valori linguistici. Essendo irriducibile alla linguistica, esso costituisce la scienza di questo modo di produzione.


Il poetico è l'insurrezione del linguaggio contro le sue stesse leggi. Lo stesso Saussure non ha mai formulato questa conseguenza sovversiva. Ma gli altri hanno ben valutato ciò che c'era di pericoloso nella semplice formulazione di un'altra operazione possibile del linguaggio. É per questo che hanno fatto di tutto per restaurare quest'ultimo secondo il loro codice (calcolo del significante come termine, calcolo del significato come valore).


 


"Il poetico come sterminazione del valore."


1. La prima legge di Saussure - quella dell'accoppiamento - non è affatto - vi insiste lui stesso - quella dell'allitterazione o ridondanza espressiva illimitata di questo o quel fonema.


 


"Pour qui sont ces serpents qui sifflent sur nos tˆtes?"


 


Questi serpenti sono i serpenti a sonagli d'una linguistica della ricorrenza e dell'accumulazione del significante, sempre finalizzata da non si sa quale effetto di significato: s-s-s s- 'A' [ciò] fischia anch'esso nel significante - e più 's' ci sono, più fischia, più è minaccioso, tanto meglio 'esprime'. Così ancora:


 


"... the faint fresh flame of the young year flushes


from leaf to flower and flower to fruit..."


 


'Nei versi di Swinburne - dice Ivan Fonagy - sentiamo passare la brezza, senza che di essa venga fatta menzione (Diogène, 1965, 51, pag. 90). 128 L'accoppiamento di Saussure è la duplicazione calcolata, cosciente e rigorosa, che rimanda a "uno statuto completamente diverso della ripetizione" - la ripetizione non come accumulazione di termini come (com)pulsione accumulativa o allitterativa, ma come "annullamento ciclico dei termini a due a due, sterminazione mediante il ciclo del raddoppiamento". 'Le vocali si accoppiano sempre esattamente, e devono sempre dare come resto zero' (Saussure). E nella citazione emblematica che dà a questa legge: "numero deus pari gaudet" - Dio gode del numero pari - è detto che, in un modo o nell'altro, lo stesso godimento è inseparabile non dall'ammucchiamento dell'identico, dal rafforzamento di senso mediante l'addizione dell'identico, ma proprio dall'inverso, dal suo annullamento mediante il "doppio", mediante il ciclo dell' anti-vocale, dell' anti-gramma in cui l'elemento fonematico si annulla come in uno specchio.


2. La seconda legge di Saussure, quella che riguarda la parola-tema, o quell''anatema' che corre sotto il testo, dev'essere analizzata nello stesso senso. Si deve comprendere che non si tratta affatto di ripetere il significante originale, di riprodurne le componenti fonematiche in un testo.


'Aasen argale“n anem“n amegartos autmè' non 'riproduce' il nome 'agamemnon', sebbene su questo punto Saussure sia ambiguo: 'Si tratta, nell'ipogramma, di sottolineare un nome, una parola, ingegnandosi a ripeterne le sillabe, e dandogli così un secondo modo d'essere, artificioso, aggiunto per così dire all'originale della parola.' In realtà, il nome-tema si "diffrange" attraverso il testo. É in qualche modo 'analizzato' dal verso e dal poema dissolto nei suoi elementi semplici, decomposto come la luce d'uno spettro, i cui raggi difratti analizzano poi il testo. In altre parole, il corpus originale è disperso in 'oggetti parziali'. Non si tratta quindi d'un altro modo d'essere dell'identico, d'una reiterazione o d'una parafrasi, d'un "avatar" clandestino del nome originale del dio. Ma piuttosto d'una esplosione, d'uno smembramento in cui questo nome è annientato. Non un 'doppio artificiale' (a che scopo, se è per ridire la medesima cosa?), ma di un doppio smembrato, un corpo fatto a pezzi come quello di Osiride e di Orfeo. Lungi dal rafforzare il significante nel suo essere, di ripeterlo positivamente, questa metamorfosi nelle sue membra sparse equivale alla sua morte in quanto tale, al suo annientamento. Per dirla tutta, c'è qui, "sul piano del significante, del nome che lo incarna, I'equivalente dell'uccisione del dio o dell'eroe nel sacrificio". É disarticolato, disintegrato nella sua morte nel sacrificio (eventualmente fatto a pezzi e mangiato) che l'animale totemico, il dio e l'eroe circola poi, come materiale simbolico dell'integrazione del gruppo. Fatto a pezzi, disperso nei suoi elementi fonematici dentro questa uccisione del significante, il nome del dio assilla il poema e lo riarticola al ritmo dei suoi frammenti, senza mai ricostituirsi in quanto tale.


L'atto simbolico non consiste mai nella ricostituzione del nome del dio dietro perifrasi e distribuzione nel testo, mai nella resurrezione del significante. Starobinski ha torto quando dice: 'Si tratterà di riconoscere e di riunire le sillabe direttrici, come Iside riuniva il corpo smembrato di Osiride.' Lacan ha torto nella sua teoria del simbolismo ("Psychanalyse", V, pag. 15) quando dice: 'Se [...] l'uomo si trova aperto a desiderare altrettanti altri in se stesso quanti sono i nomi delle sue membra fuori di lui, se deve riconoscere altrettante membra disgiunte dalla sua unità, perduta senza mai essere stata, quanti sono gli essenti che di tali membra sono la metafora - si vede anche che è risolta la questione di sapere quale valore di conoscenza abbiano i simboli, perché sono queste stesse membra che gli fanno ritorno dopo aver errato per il mondo in una forma alienata.' 129 L'atto simbolico non è mai in questo 'ritorno', in questa ritotalizzazione dopo l'alienazione, in questa resurrezione d'una identità; è sempre, al contrario, in questa volatilizzazione del nome, del significante, in questa "sterminazione del termine", in questa dispersione senza ritorno - è questa che rende possibile quella circolazione intensa all'interno del poema (come nel gruppo primitivo in occasione della festa e del sacrificio), che restituisce il linguaggio al godimento, e di cui anche qui "non resta né risulta nulla". Non è sufficiente tutta la turba delle categorie linguistiche per cancellare questo scandalo della perdita e della morte del significante, di questa agitazione febbrile del linguaggio che, come dice Bataille della vita, 'chiede alla morte di esercitare a sue spese le sue devastazioni.'


Qui, certamente, i limiti che s'impone Saussure esplodono: questo principio poetico non vale soltanto per le poesie vediche, germaniche, latine, e non serve a nulla cercare, come ha fatto lui, una generalizzazione ipotetica della "prova": è evidente che i poeti moderni non si sono mai dati una parola-tema generativa, se pure i poeti antichi l'hanno mai fatto - ma questa non è un'obiezione, perché è chiaro che, per tutte le lingue e per tutte le epoche, la forma individuata da Saussure è sovrana. É chiaro per tutti - è l'evidenza del godimento - che "il buon poema è quello di cui non resta nulla", in cui tutto il materiale fonico messo in gioco è consumato, e che viceversa il cattivo poema (o la non-poesia) è quello in cui c'è un residuo, in cui ogni fonema o diono o sillaba o termine significante non è stato ripreso dal suo doppio, in cui tutti i termini non si sono volatilizzati né consumati in una reciprocità (o in un antagonismo) rigoroso, come nello scambio/dono primitivo, in cui sentiamo pesare ciò che resta, che non ha trovato il suo corrispondente, né quindi la sua morte e la sua assoluzione, che non ha trovato da "scambiarsi" nell'operazione stessa del testo: è in proporzione a questo residuo che noi sappiamo che un poema è cattivo, che è scoria di discorso, qualcosa che non ha divampato, che non s'è perso né consumato nella festa d'una parola reversibile.


"Il resto, è il valore". É il discorso della significazione, il "nostro" linguaggio retto dalla linguistica. Tutto ciò che non è stato ripreso dall'operazione simbolica del linguaggio, dalla sterminazione del simbolico, e su questo che si basa l'"economia" della significazione e della comunicazione. É qui che produciamo e ci scambiamo dei termini, dei valori di senso, sotto la legge del codice.


Allo stesso modo s'inaugura il processo dell'economico: ciò che rientra nel circuito dell'accumulazione e del valore è ciò che "resta" del consumo sacrificale, ciò che non si esaurisce nel ciclo incessante del dono e del contro-dono. É questo resto che si accumula, è su questo resto che si specula, è qui che ha origine l'economico.


 


Da questa nozione di 'resto' si può identificare una terza dimensione del nostro modo di significazione. É noto che l'operazione poetica 'viola le due leggi fondamentali del linguaggio':


1. L'equivalenza significante/significato.


2. La linearità del significante (Saussure: 'Che gli elementi che formano una parola "si susseguano", è una verità che in linguistica sarebbe meglio non considerare come una cosa senza interesse perché evidente, ma al contrario come quella che dà in anticipo il principio centrale di ogni riflessione utile sulle parole.'


3. La terza dimensione, di cui non si è mai veramente tenuto conto, è strettamente solidale con le altre due, è quella della "illimitatezza, della produzione senza limiti del materiale significante". Esattamente come l'equivalenza e l'accumulazione definiscono una dimensione dell'economico che è quella della produzione illimitata, della riproduzione indefinita del valore, così l'equivalenza significante/significato e la linearità del significante definiscono un campo della "discorsività" illimitata.


Noi non avvertiamo nemmeno più, tanto ciò ci è 'naturale', questa proliferazione del nostro linguaggio discorsivo, che tuttavia ci distingue da tutte le altre culture. Noi usiamo e abusiamo di parole, di fonemi, di significanti, senza nessuna restrizione rituale, religiosa o poetica di alcun tipo, in tutta 'libertà', senza obblighi né responsabilità rispetto all'immenso materiale che 'produciamo' a nostro piacimento. Ognuno è libero di usare senza fine, di attingere senza fine al materiale fonico, in nome di ciò che vuole 'esprimere', e tenendo in considerazione soltanto ciò che ha da dire.


Questa 'libertà' del discorso, questa possibilità di "prenderlo" e di usarlo senza mai "renderlo" né risponderne, né sacrificarne sia pure una parte come si faceva dei beni primitivi per assicurarne la riproduzione simbolica, "questa idea del linguaggio come d'un medium tuttofare" e d'una natura inesauribile, come d'un luogo dove sarebbe fin d'ora realizzata l'utopia dell'economia politica: 'a ciascuno secondo i suoi bisogni' - fantasma d'uno stock inaudito, d'una materia prima che si riprodurrebbe magicamente via via che se ne usa (nemmeno bisogno d'una accumulazione primitiva), e quindi della libertà d'uno sperpero fantastico, - questo statuto, che è quello della nostra comunicazione discorsiva, quello d'una disponibilità folle del materiale significante, non è pensabile fuori da una configurazione generale in cui gli stessi principi governano la riproduzione dei beni materiali, e quella della stessa specie: una mutazione simultanea fa passare dalle formazioni sociali in cui i beni, il numero degli individui e la proliferazione delle parole sono, in modo più o meno rigoroso, contingentati, limitati, controllati all'interno d'un ciclo simbolico, alle formazioni sociali 'moderne', le nostre, caratterizzate da una produttività indefinita, tanto economica che linguistica e demografica - società prese su tutti i piani in un'"escalation" senza fine: dell'accumulazione materiale - dell'espressione linguistica - della proliferazione della specie.130


Questo modello di produttività - crescita esponenziale, demografica galoppante, discorsività illimitata - dev'essere analizzato simultaneamente su tutti i piani. Sul solo piano del linguaggio, di cui si tratta qui, è chiaro che a questa libertà sfrenata di usare i fonemi in numero illimitato ai fini dell'espressione, senza un processo inverso di annientamento, di espiazione, di riassorbimento, di distruzione - poco importa il termine - si oppone radicalmente questa semplice legge enunciata da Saussure che in poesia non una vocale, non una consonante, non una sillaba dev'essere profferita senza essere raddoppiata, cioè in qualche modo esorcizzata, senza completarsi nella ripetizione che l'annulla.


Da questo momento, non è più questione d'un uso illimitato. Il poetico, come lo scambio simbolico, mette in opera un corpus strettamente limitato e contingentato, ma si fa carico "di venirne a capo", mentre la nostra economia del discorso mette in gioco un corpus illimitato, senza preoccuparsi di risolverlo.


Cosa diventano le parole, i fonemi, nel nostro sistema discorsivo? Non bisognerebbe credere che spariscano gentilmente dopo che sono serviti, o ritornino in qualche posto come i caratteri nella matrice del linotype, in attesa di servire di nuovo. Anche questo fa parte della nostra concezione idealistica del linguaggio. Ogni termine, ogni fonema non ripreso, non "restituito", non volatilizzato mediante il raddoppio poetico, non sterminato come termine e come valore (nella sua equivalenza con ciò che ha 'voluto dire'), "resta". É un residuo. Va ad aggiungersi a una sedimentazione fantastica di rifiuti, di materia discorsiva opaca (si comincia ad accorgersi che il problema essenziale d'una civiltà produttiva può essere quello dei suoi rifiuti, "che è semplicemente quello della sua morte": soccombere sotto il proprio residuo - ma il residuo industriale non è nulla in confronto al residuo linguistico: così com'è, la nostra cultura è assillata e bloccata da questa gigantesca istanza residuale pietrificata, che essa cerca di risolvere mediante una sovrapproduzione: mediante un rilancio linguistico essa cerca di ridurre la caduta tendenziale del tasso di 'comunicazione'. Non serve a nulla. Come qualsiasi merce, cioè qualsiasi cosa prodotta sotto il segno della legge del valore e dell'equivalenza, è un "residuo insolubile" che sbarra il rapporto sociale, così qualsiasi parola, qualsiasi termine, qualsiasi fonema prodotto e non distrutto simbolicamente s'accumula come un rimosso, pesa su di noi con tutta l'astrazione del linguaggio morto).


Sul nostro linguaggio regna un'economia di profusione e di spreco - l'utopia dell'abbondanza. Ma mentre l''abbondanza' e lo spreco sono una caratteristica recente dell'economia materiale, un tratto storico, essi appaiono come una dimensione naturale, già sempre data, del linguaggio parlato o scritto. Utopia che ce ne sia, che ce ne sarà sempre, in qualsiasi momento, quanto se ne vorrà per tutti. Utopia d'un capitale illimitato di linguaggio come valore d'uso e valore di scambio. Ognuno, per significare, procede per accumulazione e scambio cumulativo di significanti la cui verità è altrove, nell'equivalenza con ciò che vogliono dire (lo si può dire almeno delle parole - la concisione è una virtù morale, ma non è mai che un'economia di mezzi). Questo 'consumo' discorsivo, sul quale non cala mai lo spettro della penuria, questa manipolazione scialacquatrice, sostenuta dall'immaginario della profusione, porta a un'inflazione prodigiosa che lascia, a immagine delle nostre società a crescita incontrollata, un residuo altrettanto prodigioso, un rifiuto non degradabile di significanti usati ["consommés"], ma mai consumati ["consumés"]. Perché le parole che sono servite non si volatilizzano, s'accumulano come un rifiuto - inquinamento segnico altrettanto fantastico dell'inquinamento industriale, e ad esso contemporaneo.


 


É soltanto questo stadio del "rifiuto" che recupera la linguistica, quello d'un linguaggio funzionale, che essa universalizza come lo stato naturale di qualsiasi linguaggio. Essa non immagina niente di diverso: 'Come i romani e gli etruschi dividevano il cielo mediante rigide linee matematiche e in uno spazio delimitato oltre che in un "templum", scongiuravano un dio, così ogni popolo ha sopra di sé un simile cielo di concetti matematici ripartiti e, sotto l'esigenza della verità, intende ormai che ogni dio concettuale non sia cercato da nessun'altra parte che nella sua sfera' (Nietzsche, "Livre du Philosophe"). Così fa la linguistica: essa "costringe" il linguaggio in una sfera autonomizzata a sua immagine - essa fa finta di trovarla 'oggettivamente' là dove l'ha inventata e razionalizzata di tutto punto. Essa è incapace d'immaginare un altro stato del linguaggio, diverso da quello dell'astrazione combinatoria d'un codice (la "langue") dotato d'una manipolatoria indefinita della "parole" altrimenti detto quello della speculazione (nel duplice senso del termine) in base a una equivalenza generale e a una libera circolazione - ciascuno usando le parole a suo piacimento e scambiandole secondo la legge del codice.


Ma "supponiamo" uno stadio in cui i segni linguistici siano deliberatamente contingentati (come il denaro presso gli ara-ara): diffusione ristretta, niente 'libertà' formale di produzione, di circolazione né di uso. O piuttosto un doppio circuito:


- quello delle parole 'liberate', usabili a piacimento, circolanti come valore di scambio - zona del 'commercio' di senso, analogo alla sfera del "gimwali" nello scambio economico;


- quello d'una zona non 'liberata', sotto controllo, d'un materiale riservato all'uso simbolico, in cui le parole non hanno né valore d'uso né valore di scambio, non sono né moltiplicabili né proliferabili a piacimento - analoga alla sfera del "kula" per i beni 'preziosi'.


In questa sfera non vale affatto il principio di equivalenza generale, né quindi l'articolazione logica e razionale del segno di cui si occupa la 'scienza' semio-linguistica.


Il poetico ricrea in materia di linguaggio questa situazione delle società primitive: un corpus ristretto di oggetti la cui circolazione ininterrotta nello scambio/dono suscita una ricchezza inesauribile, una festa dello scambio. Rapportati al loro volume o al loro valore, i beni primitivi si riducono a una penuria quasi assoluta. Incessantemente consumati nella festa e nello scambio, rappresentano, con il loro 'minimo di volume e di numero', quel 'massimo di energia nei segni' di cui parla Nietzsche, o quella vera società dell'abbondanza, la prima e l'unica, di cui parla Marshall Sahlins ("Les Temps Modernes", ottobre 1968).


In essa le parole hanno lo stesso statuto degli oggetti e dei beni: non sono disponibili in qualsiasi momento per tutti, non c'è 'opulenza' di linguaggio. Nelle formule magiche, rituali, regna questa restrizione che sola preserva l'efficacia simbolica dei segni. Lo sciamano, il vate, operano su fonemi o formule contate, codificate, limitate, esaurendole in una organizzazione massimale del senso. Come la formula è pronunciata, nella sua esattezza letterale e ritmica, così essa incatena l'avvenire - non per ciò che essa significa.131


Lo stesso vale per il poetico, che si definisce per il fatto di operare su un corpus "ristretto" di significanti, e di mirare alla sua completa risoluzione. Ed è proprio perché il poetico (o il rituale linguistico primitivo) non mira alla produzione di significati, ma al consumo esatto, alla risoluzione ciclica d'un materiale significante, che esso si dà necessariamente un corpus limitato. "La limitazione" non ha qui niente di restrittivo né di penurico: "è una regola fondamentale del simbolico". Inversamente, il carattere inesauribile del nostro discorso è collegato alla regola dell'equivalenza e della linearità - esattamente come l'infinitezza della nostra produzione materiale è inseparabile dal passaggio all'equivalenza nel valore di scambio (è questo infinito lineare che alimenta allo stesso tempo, in ogni momento del capitale, la povertà data e il fantasma d'una ricchezza finale).


Il significante che si raddoppia e ritorna su se stesso per abolirsi - è lo stesso movimento del dono e contro-dono, il donare e il rendere, reciprocità in cui si abolisce il valore di scambio e il valore d'uso dell'oggetto - medesimo ciclo perfetto che dà come risultato un nulla del valore, e su questo nulla gioca l'intensità del rapporto sociale simbolico o il godimento del poema.


Si tratta qui di una "rivoluzione". Ciò che il poetico compie microscopicamente su un valore/fonema, qualsiasi rivoluzione sociale lo compie su interi settori del codice del valore: valore d'uso, valore di scambio, regole d'equivalenza, assiomi, sistemi di valori, discorso codificato, finalità funzionali, eccetera, mentre la pulsione di morte vi si articola per volatilizzarli. Persino l'operazione analitica si compie allo stesso modo: contrariamente alla scienza come processo d'accumulazione, la vera operazione "analitica" e quella "che annienta il suo oggetto", che ne viene a capo. Il termine dell'analisi - non della sua finalità 'costruttiva', ma la sua vera "fine", è questa volatilizzazione del suo oggetto e dei suoi stessi concetti - o ancora è l'atto del soggetto che, lungi dal cercare di dominare il suo oggetto accetta di essere analizzato a sua volta, movimento grazie al quale si disfanno irrimediabilmente le rispettive posizioni dell'uno e dell'altro. É soltanto a partire da questo momento che il soggetto e l'oggetto "si scambiano", mentre nella loro rispettiva positività (nella scienza, per esempio) non fanno che edificarsi e fronteggiarsi indefinitamente.


La scienza è legata alla costruzione del suo oggetto e alla sua ripetizione come fantasma (come pure alla riproduzione fantasmatica del soggetto del sapere). Fantasma al quale è inerente un piacere perverso: quello di restituire continuamente un oggetto mancante, mentre la peculiarità dell'analisi, e del godimento, è di "venire a capo del suo oggetto".132


Il poetico è la restituzione dello scambio simbolico al centro stesso delle parole. Là dove, nel discorso della significazione, le parole, finalizzate dal senso, non si corrispondono, non si parlano (né, all'interno delle parole, le sillabe, le consonanti, le vocali tra di loro), nel poetico, al contrario, una volta spezzata l'istanza del senso, tutti gli elementi costitutivi si mettono a scambiarsi, a rispondersi. Non sono 'liberi', né alcun contenuto profondo o 'inconscio' è 'liberato' attraverso di essi: sono semplicemente resi allo scambio, ed è questo stesso processo che è godimento. Inutile cercarne il segreto in una energetica, in una economia libidica o in una dinamica dei fluidi: il godimento non è collegato all'effettuazione di una forza, ma alla realizzazione d'uno scambio - d'uno scambio senza traccia, senza l'ombra d'una forza, avendo risolto qualsiasi forza, e la legge che è dietro alla forza. Perché è opera del simbolico d'essere per se stesso la propria fine definitiva.


La semplice possibilità di tutto questo è una rivoluzione rispetto a un ordine in cui nulla, nessuno, né le parole, né gli uomini, né i loro corpi, né i loro sguardi sono ammessi a comunicare direttamente, ma devono tutti transitare come valori attraverso i modelli che li generano e li riproducono in una 'estraneità' totale gli uni per gli altri... La rivoluzione è ovunque s'instaura uno scambio che spezza la finalità dei modelli, la mediazione del codice e il ciclo consecutivo del valore - questo scambio, sia pure quello infinitesimale, dei fonemi, delle sillabe, in un testo poetico, o quello di migliaia di uomini che si parlano in una città insurrezionale.


Perché il segreto d'una parole sociale è anche questa dispersione anagrammatica dell'istanza del potere, questa volatilizzazione rigorosa di qualsiasi istanza sociale trascendente. Il corpo smantellato del potere si scambia allora come parola sociale nel poema della rivolta. Di questa parola, non resta nulla ed essa non si accumula da nessuna parte. Il potere rinasce da ciò che non è stato consumato in essa, perché il potere è residuo di parola. Nella rivolta sociale si attua la stessa dispersione anagrammatica di quella del significante nel poema, di quella del corpo nell'erotismo, di quella del sapere e del suo oggetto nell'operazione analitica: la rivoluzione è simbolica, o non è affatto.


 


"La fine dell'anatema."


Tutta la scienza linguistica può essere analizzata come resistenza a questa operazione di disseminazione e di risoluzione letterale. É ovunque il medesimo tentativo di ridurre il poetico a un 'voler dire', di ricondurlo all'ombra d'un senso, di infrangere l'"utopia" del linguaggio per ricondurlo alla topica del discorso. Al ciclo della letteralità ("reversibilità e disseminazione") la linguistica oppone l'ordine della discorsività ("equivalenza e accumulazione"). Si può vedere in atto questa controffensiva in tutte le interpretazioni date qui e là del poetico (Jakobson, Fonagy, Umberto Eco - vedi più avanti "L'immaginario della linguistica"). Ma da questa resistenza dipende anche l'interpretazione psicoanalitica, sulla quale ritorneremo. Perché la radicalità del simbolico è tale che tutte le scienze o le discipline che lavorano a neutralizzarla si trovano a loro volta analizzate dal simbolico, e rinviate al loro disconoscimento.


Sono quindi tutti i principi della linguistica e della psicoanalisi che saranno in gioco a proposito dell'ipotesi anagrammatica di Saussure. Lui l'ha fatta su un punto preciso, e con beneficio d'inventario. Ma nulla vieta di svilupparla fino alle sue estreme conseguenze. In ogni modo, "la radicalizzazione delle ipotesi è l'unico metodo possibile" - perché la violenza teorica è l'equivalente, nell'ordine dell'analisi, di quella 'violenza poetica' di cui parla Nietzsche, 'che rinnova l'ordine di tutti gli atomi della frase.'


Cominceremo con il commento dello stesso Starobinski su Saussure. Vi sono in causa soprattutto due aspetti: la parola-tema (la sua esistenza o no) - la specificità del poetico (e quindi della scoperta di Saussure).


Tutta l'argomentazione di Saussure sembra poggiarsi sull'esistenza reale di questa parola chiave, di questo significante latente, di questa 'matrice', di questo '"corpus princeps"': 'Questa versificazione è interamente dominata da una preoccupazione "fonica", ora interna e libera (corrispondenza degli elementi tra di loro, a coppie o a rime), ora esterna, cioè ispirandosi alla composizione fonica d'un nome come Scipio, Jovei, eccetera'. E si sa che, dopo averne avuto l'intuizione, tutti i suoi sforzi hanno mirato all'accertamento della prova. Saussure cade qui, è vero, nella trappola della convalidazione scientifica, nella superstizione del fatto. Fortunatamente, egli fallisce nell'accertamento di questa prova (ossia che il poeta arcaico regolava scientemente la sua pratica sull'anagramma di una parola-tema), e questo scacco salva la portata della sua ipotesi. Questa infatti, circoscritta dalla prova, si sarebbe ristretta a un determinato tipo di poesia arcaica e, cosa ancor più grave, avrebbe ristretto l'atto poetico alla ginnastica formale del criptogramma, d'un gioco a rimpiattino con una parola chiave, giocante sulla ricostituzione d'un termine volontariamente nascosto e disarticolato. Così l'interpreta Starobinski: 'Il discorso poetico non sarà quindi che il secondo modo d'essere d'un nome: una variazione sviluppata che lascerebbe scorgere, per un lettore perspicace, la presenza evidente, da dispersa, dei fonemi conduttori... L'ipogramma slitta da un nome semplice nella ripartizione complessa delle sillabe d'un verso; si tratterà di riconoscere e di rimettere assieme le sillabe direttrici, come Iside riuniva il corpo smembrato di Osiride.'


Starobinski elimina di primo acchito la teoria emanatista o mistica (diffusione germinale della parola-tema nel verso) e la teoria produttiva (la parola-tema utilizzata dal poeta come canovaccio d'un lavoro di composizione). La parola-tema non è né una cellula originaria, né un modello: Saussure non cerca mai di stabilire una relazione di privilegio semantico tra i due livelli (nominale e anagrammato) della parola. Manichino, abbozzo, copione miniaturizzato, tema o anatema, quale statuto gli si può dare? Questo è importante, perché è tutto lo schema della significazione, del 'fare segno', che è in gioco; è almeno certo che non si può fare della parola-tema il significato d'un significante che sarebbe il poema, non meno certo che tra i due, se non una "referenza", almeno una "coerenza". Starobinski sembra tenersi più vicino a Saussure quando propone: 'La parola-tema latente non differisce dal verso manifesto che per la sua contrazione. Essa è "una" parola come "le parole" del verso sviluppato: non ne differisce quindi che nel modo in cui l'uno differisce dal multiplo. Venuta prima del testo totale, nascosta dietro il testo, o piuttosto nel testo, la parola-tema non segna nessuno scarto qualitativo: non è né d'un' essenza superiore, né d'una natura più umile. Essa offre la sua sostanza a una invenzione interpretativa, che la fa sopravvivere in un'eco prolungata'. Ma: se è una parola "come" le altre, perché occorre che essa sia nascosta, latente? D'altra parte, il testo 'manifesto' è qualcosa di diverso da uno 'sviluppo, moltiplicazione, prolungamento, eco' della parola-tema (di per sé, l'eco non è poetica): ne è la disseminazione, lo smembramento, la decostruzione.


Questo aspetto dell'operazione anagrammatica sfugge a Starobinski, persino nell'interpretazione più sfumata che egli fornisce: 'La dizione della parola-tema appare dislocata, sottomessa a un ritmo diverso da quello dei vocaboli attraverso i quali corre il discorso manifesto; la parola-tema si distende, nella maniera in cui si enuncia il soggetto di una "fuga", quando questo è trattato in "imitazione per aumentazione". Soltanto che, non essendo la parola-tema mai fatta oggetto d'una esposizione, non potrebbe essere questione di riconoscerla, bisogna indovinarla, in una lettura attenta al possibile legame di fonemi spaziati. Questa lettura si sviluppa secondo un altro "tempo" (e in un tempo diverso): al limite si esce dal tempo della "consecutività" propria del linguaggio usuale'.


Questa interpretazione, più sottile in quanto s'apparenta al processo analitico (l'attenzione fluttuante a un discorso latente), sembra tuttavia cadere anch'essa nella trappola del presupposto d'una formula generativa; la presenza sparsa nel poema non sarebbe in qualche modo che il secondo stato, ma di cui sarebbe sempre possibile (e anzi l'essenziale della lettura) scoprire l'identità. Duplice presenza simultanea a due livelli: Osiride smembrato è lo stesso sotto un'altra forma, la sua finalità è di ridiventare Osiride lui stesso dopo la fase della dispersione. L'identità rimane latente, e il processo di lettura è un processo d'identificazione.


Qui è la trappola, qui è la "difesa" linguistica: per quanto complesse siano, tutte queste interpretazioni non fanno mai del poetico che una operazione "supplementare", un "détour" in un processo di riconoscimento (d'una parola, d'un termine, d'un soggetto). É sempre lo stesso che si dà a leggere. Ma allora: perché questa demoltiplicazione laboriosa - e in che cosa tutto questo è 'poetico'? Se è per ridire lo stesso termine, se il verso non è che la dissimulazione fonica d'una parola chiave, tutto ciò non è che complicazione e inutile sottigliezza. E dov'è il godimento? L'intensità del poetico non è mai nella ripetizione di una identità, essa è nella "distruzione" d'una identità. É il disconoscimento di questo fatto che costituisce la riduzione linguistica, è qui che essa distorce sottilmente il poetico verso i propri assiomi: identità, equivalenza, rifrazione dell'identico, 'imitazione per aumentazione', eccetera. Soprattutto, non ammettere mai che c'è una diffrazione folle, una perdizione del significante, una morte nell'anagramma come forma simbolica del linguaggio. Restare nel gioco linguistico, dove la poesia non sarebbe che una cifra, una 'chiave', come si parla di una chiave dei sogni.


Sono i giochi di società che lo fanno, e non fanno che questo. Sono la cattiva poesia, l'allegoria, o la musica 'figurativa' a farlo, quando rimandano troppo facilmente a ciò che 'significano', o non fanno che metaforizzarlo in altri termini. Sono le sciarade, gli indovinelli o le inversioni ["contrepèteries"], in cui tutto si risolve nella scoperta della parola chiave. E certamente c'è un piacere in questo "détour", e a smascherare ciò che è nascosto, e la cui presenza segreta ci attira. Ma questo piacere non ha nulla a che vedere con il godimento poetico, che è diversamente radicale, e "non perverso": non vi si scopre nulla, non vi si esprime nulla, non ne traspare nulla. Non un indovinello, non un termine segreto, non un ostacolo al senso. Il poetico distrugge qualsiasi tracciato verso un termine finale, qualsiasi referenza, qualsiasi chiave; esso risolve "l'anatema", la legge che grava sul linguaggio.


Si può avanzare l'ipotesi che il godimento sia una funzione diretta di questa risoluzione di qualsiasi referenza positiva. Esso è minimo là dove il significato si produce immediatamente come valore: nel discorso 'normale' della comunicazione - "parole" lineare e piatta, che si esaurisce nella decodificazione. Al di là di questo discorso - grado zero del godimento - è possibile qualsiasi tipo di combinazione in cui s'installa un gioco a rimpiattino con il significato, una decrittazione, e non più una pura e semplice decodificazione. É l'anagramma tradizionale o il testo a chiave, lo "Yamamoto Kakapoté" o i testi di "Fliegende Bl„tter" (ripresi da Freud e analizzati da Lyotard in "Le travail du reve ne pense pas", in "Revue d'Esthétique", I, 1968), dove, dietro un testo manifesto, coerente o incoerente, giace un testo latente da scoprire. In tutti questi casi, c'è uno sganciamento, un distanziamento dal significato, dal senso profondo della storia, "détour" mediante il significante, 'differenza', direbbe Derrida. Ma in tutti questi casi è sempre possibile, per qualche via, reinvestire la parola chiave, la formula che governa il testo. Questa formula può essere subconscia (nel motto di spirito, ritorneremo su questo punto) o inconscia (nel sogno), ma è sempre coerente e discorsiva. Con la scoperta di questa formula, si esaurisce il ciclo del senso. E il godimento, in tutti i casi, è proporzionale al "détour", al ritardo, alla perdita del l'enunciato, al "tempo perduto" a ritrovarlo.


É quindi molto limitato nei giochi di società, più intenso nel motto di spirito, dove la decifrazione è sospesa e dove si ride in proporzione alla distruzione del senso. "É infinito nel testo poetico", perché qui non si può ritrovare nessuna cifra, nessuna decifrazione è possibile, ma solo un significato che metta fine al ciclo. La formula non vi è nemmeno inconscia (qui è il limite di tutte le interpretazioni psicoanalitiche), "essa non esiste". La chiave è definitivamente perduta. Qui è la differenza fra il semplice piacere criptogrammatico (tutta la categoria della "trouvaille", in cui l'operazione è sempre saldata con un residuo positivo) e l'irradiazione simbolica del poema. O ancora: se il poema rimanda a qualcosa, e sempre a "nulla", al termine nullo, significato zero. É questa vertigine della risoluzione perfetta, che lascia perfettamente vuoto il posto del significato, del referente, a costituire l'intensità del poetico.133


'"Aboli bibelot d'inanité sonore"': verso perfetto in cui si riassume la forma anagrammatica. '"Aboli"' è la parola-tema generativa che corre lungo il verso, e rinvia al nulla. La forma anagrammatica e il suo contenuto suggellano qui una congiunzione straordinaria.


 


Diverse altre cose si possono avanzare sulla parola-tema, nel quadro stesso dell'ipotesi di Saussure. L'ipogramma, essendo un nome di dio o di eroe, non è un 'significato' qualunque, anzi non è affatto un significato. É noto che l'invocazione letterale del dio è pericolosa, per le potenze nocive ch'essa scatena. Per questa ragione, l'anagrammazione s'impone come incantesimo velato, compitazione rigorosa, ma deviata, del nome del dio - modo allusivo radicalmente differente dal modo della significazione. Perché il significante vale come assenza, come dispersione e uccisione del significato. Il nome del dio vi appare nell'eclisse medesima della sua distinzione, nel modo sacrificale, sterminato nel senso letterale del termine.


Ciò supposto, è chiaro che la questione di fiducia che Saussure si pone, e sulla quale si basa tutta l'obiezione di Starobinski - quella dell'esistenza "positiva" della parola-tema - è inessenziale, perché questo nome del dio esiste soltanto per essere annientato.


Non sappiamo che farcene dell'identità del nome del dio, al quale non si collega nessun tipo di godimento: questo deriva sempre dalla morte del dio e del suo nome e, più generalmente, dal fatto che, là dove c'era qualcosa - un nome, un significante, un'istanza, un dio - non resta nulla. C'è qui tutta una revisione lacerante delle nostre concezioni antropologiche. Si sostiene che la poesia fu sempre l'esaltazione, la celebrazione positiva d'un dio o d'un eroe (o di tutt'altre cose, in seguito), bisogna comprendere, al contrario, che essa è bella e intensa solo perché lo rende alla morte, perché essa è il luogo della sua volatilizzazione e del suo sacrificio, perché tutta la 'crudeltà' (nel senso di Artaud), tutta l'ambivalenza del rapporto con gli dei gioca in essa in modo preciso. Bisogna essere tanto ingenui come un occidentale per pensare che i 'selvaggi' si siano prosternati dinnanzi ai loro dei come noi facevamo davanti al nostro. Essi hanno sempre saputo, al contrario, attualizzare nei loro riti l'ambivalenza nei loro confronti, "può persino darsi che non li abbiamo mai suscitati che per metterli a morte". Questo è ancora vivo nel poetico. Dio non vi è invocato sotto un'altra forma, il suo nome non vi è ripetuto 'per esteso' (ancora una volta, che interesse c'è? per ridire il suo nome è sufficiente un mulino di preghiera), vi è risolto, smembrato, sacrificato "nel suo nome" - si potrebbe dire, seguendo Bataille, che la discontinuità (discorsività) del nome vi è abolita nella continuità radicale del poema. Estasi di morte.


Nel poema, né il dio è il soggetto, sia pure nascosto, dell'enunciato, né il poeta è il soggetto dell'enunciazione. É il linguaggio stesso che prende la parola per perdervisi. E il nome del dio è d'altronde il nome del Padre: la legge (della rimozione, del significante, della castrazione) che questi fa pesare sul soggetto e allo stesso tempo sul linguaggio, questa legge è sterminata nell'anagramma. Il testo poetico è l'esempio finalmente realizzato del riassorbimento senza residuo, senza traccia, di un atomo di significante (il nome del dio) e, attraverso questo, dell'istanza stessa del linguaggio e, attraverso questa, della "risoluzione della Legge".


Il poema è questa declinazione mortale del nome di Dio, e per noi, che non abbiamo più un dio, ma per i quali il linguaggio è diventato Dio (il valore pieno e fallico del nome di Dio è diffuso per noi attraverso tutta l'estensione del discorso), il poetico è il luogo della nostra ambivalenza di fronte al linguaggio, della nostra pulsione di morte di fronte al linguaggio, della potenza adatta alla sterminazione del codice.


 


"I nove miliardi di nomi di Dio."


In un racconto di fantascienza (Arthur Clarke, "I nove miliardi di nomi di Dio"), 134 una confraternita di lama sperduta nel cuore del Tibet, ha votato tutta la vita alla recita dei nomi di Dio. Questi nomi sono molto numerosi: nove miliardi. Quando saranno tutti detti e declinati, il mondo finirà, un intero ciclo del mondo. Venire a capo del mondo passo dopo passo, parola dopo parola, esaurendo il corpus totale dei significanti di Dio: questo è il loro delirio religioso - o la verità della loro pulsione di morte.


Ma i lama decifrano lentamente, il loro compito dura da secoli. É allora che sentono parlare di misteriose macchine occidentali, che possono registrare e decifrare a una velocità fantastica. E uno di essi va a ordinare un potente calcolatore all'I.B.M., per accelerare il loro lavoro. Alcuni tecnici americani vengono sui monti del Tibet a installare e programmare la macchina. Secondo loro, basteranno tre mesi per venire a capo dei nove miliardi di nomi.135 Per quanto li riguarda, non credono certamente una parola sulle conseguenze profetiche di questa contabilità e, poco prima della scadenza dell'operazione, temendo che i monaci se la prendano con loro di fronte allo scacco della loro profezia, fuggono dal monastero. É allora, mentre scendono verso il mondo civilizzato, che vedono le stelle spegnersi a una a una...


Anche il poema, è risoluzione totale del mondo, mentre i fonemi sparsi del nome di Dio vi si consumano. Quando la declinazione anagrammatica è compiuta, non resta più nulla, un ciclo del mondo si è concluso, e l'intenso godimento che lo attraversa non proviene da nient'altro se non da questo.


 


Il secondo punto sul quale verte il commento di Starobinski è la specificità stessa del poetico. In fondo, dice, le regole scoperte da Saussure, e che questi imputa a un calcolo deliberato, possono essere ricondotte a dei dati base di qualsiasi linguaggio. Sulla prima regola (quella dell'accoppiamento): 'Le possibilità foniche totali offerte in ogni istante dalla "langue" a chi vuole impiegarle... sono abbastanza numerose da non richiedere alcuna combinazione laboriosa, e da esigere semplicemente una combinazione "attenta"' (al limite, nemmeno questa: il caso, la pura probabilità può bastare). O ancora: 'I fatti di simmetria fonica [il termine 'simmetria' è già un termine riduttivo: significa vedere nel raddoppiamento dei fonemi una ridondanza speculare] qui constatati sono impressionanti: ma sono veramente l'effetto d'una regola osservata [di cui non sarebbe sopravvissuta nessuna testimonianza]? Per giustificare questa molteplicità di risposte interne, non si potrebbe invocare un "gusto dell'eco", molto poco cosciente e quasi istintivo?'


'Gusto istintivo dell'eco': il poeta non sarebbe in fondo che un acceleratore di particelle del linguaggio, non farebbe nient'altro che rafforzare il tasso di ridondanza del linguaggio usuale. Questa è la 'ispirazione', e non c'è bisogno di calcolo per questo, bastano un po' di 'attenzione' e di 'istinto': 'É necessario che l'esercizio della poesia presso gli antichi somigli maggiormente al rito dell'ossessione che allo slancio della parola ispirata?' Si può certo ammettere la coercizione formale: 'vero, la scansione tradizionale asserve la dizione del vate a una regolarità che si deve pur qualificare come "ossessiva". Nulla impedisce d'immaginare, poiché i fatti vi si prestano, un rilancio di esigenze formali che obbligherebbero il poeta a utilizzare due volte nel verso ciascuno degli elementi fonici... 'Ma che il poeta sia un risonatore ispirato o un calcolatore ossessivo, è sempre lo stesso tipo d'interpretazione: l'accoppiamento e l'anagramma sono degli effetti di risonanza, di ridondanza, di 'imitazione per aumentazione', eccetera - in breve il poetico è un gioco combinatorio, e poiché qualsiasi linguaggio è combinatorio, il poetico ridiventa un caso particolare del linguaggio: 'Perché non vedere nell'anagramma un aspetto del processo della "parole" - processo né puramente fortuito, né pienamente cosciente? Perché non esisterebbe una iterazione, una palilalia generativa, che proietterebbe e raddoppierebbe nel discorso i materiali d'una prima parola, a un tempo non pronunciata e non taciuta? Pur non essendo una "regola" cosciente, l'anagramma può nondimeno essere considerato come una "regolarità" (o una legge) in cui l'arbitrario della parola-tema si affida alla necessità d'un processo. 'L'ipotesi della parola-tema, della sua rigorosa dispersione?' scoprire questa semplicissima verità: che il linguaggio è una risorsa infinita, e che dietro ogni frase si dissimula il molteplice rumore da cui si è staccata per isolarsi davanti a noi nella sua originalità. 'Ma allora, che ha scoperto Saussure? Nulla. Foss' anche la 'vertigine d'un errore'? Peggio: una banalità. Così generalizzata, la sua ipotesi è annientata. Ecco come, in tutta 'buona fede linguistica', si nega la differenza radicale del poetico. Saussure almeno era stato preso da una vertigine del poetico - vertigine di quel rigore con il quale egli vedeva il linguaggio tornare su se stesso, operare sulla propria materia, invece di distendersi linearmente, di susseguirsi stupidamente, come nel discorso usuale. Più niente di tutto questo in Starobinski: il rigore è diventato 'ossessione', categoria psicopatologica, il raddoppiamento senza residuo è diventato occorrenza/ricorrenza probabilistica, la dispersione anagrammatica è diventata 'rumore molteplice della "langue"', contestualità armonica in cui questo senso si specifica a vicenda: 'Ogni discorso è un insieme che si presta al prelevamento di un sottoinsieme... qualsiasi testo è d'altronde esso stesso il sottoinsieme d'un altro testo... qualsiasi testo ingloba ed è inglobato. Ogni testo è un prodotto produttivo, eccetera'. E avanti con le scatole cinesi, con la testualità '"en abyme"' cara a "Tel Quel".


Tutta l'argomentazione di Starobinski vuol dire: o il poeta non è che un maniaco formalista (se si segue l'ipotesi di Saussure), oppure la sua operazione è quella stessa di qualsiasi linguaggio, e allora è Saussure che è un maniaco: tutto ciò che ha creduto di scoprire non è altro che illusione retrospettiva del ricercatore, poiché 'qualsiasi struttura complessa fornisce all'osservatore elementi sufficienti perché egli possa scegliere un sottoinsieme apparentemente dotato di senso, e al quale niente impedisce di conferire a priori un'antecedenza logica o cronologica.' Povero Saussure, che vedeva anagrammi dappertutto, e prestava ai poeti i suoi fantasmi!


Starobinski e i linguisti, invece, non sognano: verificando all'infinito l'ipotesi di Saussure, la riducono a zero. É bastato per questo appuntarla sul suo "contenuto" (l'induzione della parola-tema, la sua rappresentazione positiva, le sue metamorfosi) invece di giudicarla sulla sua "forma". La posta in gioco del poetico non è la produzione, e nemmeno le variazioni combinatorie su un tema, o un 'sottoinsieme' identificabile. In questo caso, esso rientrerebbe in effetti abbastanza bene in un modo universale del discorso (sennonché allora non si vede più affatto la "necessità" del poetico, il suo statuto differenziale, né il godimento peculiare a questo modo, in opposizione a quello del discorso). La sua posta è, proprio attraverso il lavoro anagrammatico, il "punto di non ritorno" a qualsivoglia termine o tema. A questo punto, l'esistenza accertata o no della parola-tema è un falso problema - non perché in definitiva, secondo Starobinski, qualsiasi linguaggio si articola su una specie di cifra o di formula - ma perché, in ogni modo, è l'"annientamento" di questa cifra a essere la forma del poetico. E questa forma descritta da Saussure vale per qualsiasi poesia, la più moderna altrettanto che la più antica. Il principio di questo annientamento della cifra conserva la sua piena intelligibilità anche se l'esistenza di questa formula non può essere verificata. 136 Può semplicemente darsi che questa cifra, che nella poesia arcaica poteva aver assunto la forma d'una parola-tema, nella poesia moderna non sia altro che una costellazione significante non isolabile in quanto tale, ossia una lettera o una formula perduta per sempre, di tipo leclairiano, o l'inconscio, oppure quel 'differenziale significante' di cui parla "Tel Quel". Qualunque sia la formula, l'essenziale è che non si consideri il poetico come il suo modo d'apparizione, ma come "il suo modo di sparizione". In questo senso, è meglio lo scacco e la vertigine di Saussure, che almeno conserva l'esigenza del poetico, di tutte le banalità che si accontentano del poetico come d'un fatto di linguaggio universale.


 


L'immaginario della linguistica

 


Bisogna ora vedere, indipendentemente da Saussure, come i linguisti si sono sbarazzati del poetico e dell'interrogativo che esso fa pesare sulla loro 'scienza'. Tirate le somme, la loro difesa davanti al pericolo è la stessa di quella dei sostenitori dell'economia politica (e dei suoi critici marxisti) di fronte all'alternativa del simbolico nelle società precedenti e nella nostra. Tutti scelgono di differenziare, di modulare le loro categorie senza modificare in nulla il loro principio di razionalità - senza modificare in nulla l'arbitrario e l'immaginario che ha fatto loro ipostatizzare nell'universale l'ordine del discorso e l'ordine della produzione. In quanto scienze, esse hanno delle buone ragioni per credere a quest'ordine, perché ne sono il servizio d'ordine.


Così, i linguisti ammetteranno che l'arbitrarietà del segno è un po' messa a soqquadro nel poetico - ma non certamente la distinzione stessa del significante e del significato, né quindi l'equivalenza e la funzione di rappresentazione. In un certo modo, anzi, il significante rappresenta questa volta molto meglio il significato, perché lo 'esprime' direttamente, secondo una correlazione "necessaria" tra ogni elemento della sostanza del significante e ciò che è ritenuto esprimere - invece di rimandare ad esso arbitrariamente come nel discorso. Al significante è concessa l'autonomia (Ivan Fonagy, in "Diogène", 51, 1965: 'I messaggi concettuali trasmessi dai suoni differiscono necessariamente dai messaggi preconcettuali contenuti nell'incatenamento dei suoni stessi e dei ritmi. Avviene talvolta che parole e suoni abbiano significazioni diverse...') 137 - ma è in definitiva perché esso incarna meglio, non più soltanto per convenzione, ma nella sua materialità e nella sua carne, ciò che ha da dire: 'Nei versi di Swinburne, sentiamo passare la brezza...' Invece di essere, come nel linguaggio concettuale, l'unità di prima articolazione, è "il fonema, l'unità di seconda articolazione, che diventa rappresentativo" - ma la forma di rappresentazione, invece, non è cambiata. Si tratta sempre di "rinviare" - non più mediante dei termini della "langue" o della sintassi, a un concetto - ma mediante delle vocali, delle sillabe, degli atomi di linguaggio e mediante la loro combinazione nel ritmo, a una presenza elementare, a una istanza originale delle cose (la 'brezza' come processo primario!). Tra la sostanza del linguaggio e la sostanza del mondo (il vento, il mare, i sentimenti, le passioni, l'inconscio: tutto il 'preconcettuale' - in realtà già concettualizzato, senza averne l'aria, mediante tutto un codice della percezione), è sempre una correlazione positiva che opera, un gioco d'equivalenza tra dei "valori".


Così le vocali chiuse varrebbero per il cupo, eccetera, e non avremmo più qui una equivalenza concettuale "arbitraria", ma una equivalenza fonica "necessaria". Così il sonetto di vocali di Rimbaud, e tutta l'esposizione di Fonagy sul 'simbolismo' dei suoni del linguaggio ("Diogène", 51, pag. 78): tutti sarebbero d'accordo nel riconoscere 'che la "i" è più lieve, più rapida, più sottile della "u" [...] che la "k" e la "r" sono più dure della "l"', eccetera 'La sensazione di sottigliezza associata alla vocale "i" può essere la risultante di una percezione cinestetica precosciente della posizione della lingua all'emissione di questo suono [...] La "r" sembra maschile (!) a causa dello sforzo muscolare maggiore che richiede all'emissione [...] a paragone di una "l" alveolare o di una "m" labiale...' 138 Autentica metafisica di una lingua originale, tentativo disperato di ritrovare un "giacimento naturale" del poetico, un genio espressivo della lingua, che basterebbe captare e trascrivere.


In realtà, tutto questo è codificato, ed è altrettanto arbitrario correlare il fonema "/f/" ripetuto con la brezza che passa quanto la parola 'tavola' con il concetto di tavola. Niente in comune tra di loro, non più che tra una determinata musica e ciò che essa 'evoca' (paesaggio o passione), se non per convenzione culturale, se non secondo un "codice". Che questo codice pretenda d'essere antropologico (vocali 'naturalmente' dolci) non toglie nulla alla sua arbitrarietà - inversamente, d'altra parte, si può benissimo sostenere con Benveniste che la fortissima convenzione culturale che collega la parola 'tavola' con il concetto di 'tavola' impone una reale "necessità", e che in definitiva il segno non è mai arbitrario. Questo è giusto: l'arbitrarietà fondamentale non sta nell'organizzazione interna del segno, ma nell'imposizione del segno come "valore", cioè nella presupposizione delle due istanze e della loro equivalenza secondo la legge - il segno che funge da equivalente, che emana da una realtà che vi fa segno. Tale è la metafisica della linguistica, tale è il suo immaginario, e la sua interpretazione del poetico è ancora assillata da questo presupposto.


Per contro, quando Harpo Marx brandisce un autentico storione invece di pronunciare la parola d'ordine 'storione', allora sì, sostituendo il referenziale al termine, abolendo la loro separazione, egli fa veramente saltare l'arbitrarietà allo stesso tempo che il sistema della rappresentazione - atto poetico per eccellenza: messa a morte del significante 'storione' mediante il suo stesso referenziale.


Concettuale o preconcettuale, si tratta sempre di un 'messaggio', e 'la messa a punto rispetto al messaggio in quanto tale', mediante la quale Jakobson definisce la funzione poetica, non fa che rinviare - autonomizzando l'operazione del materiale significante - a un effetto di significazione "supplementare". É rappresentata una cosa diversa da un concetto, ma ancora una cosa diversa - diverso il valore attualizzato dal gioco stesso del significante, ma ancora "valore" - il materiale significante funziona a un altro livello, il proprio, ma continua a "funzionare": d'altronde Jakobson fa di questa funzione poetica una funzione del linguaggio tra le altre, supplementare e non alternativa - plusvalore di significazione dovuta al fatto che lo stesso significante è messo in conto come valore autonomo. Il poetico vi dà di più!


Questa 'presenza a se stesso' del significante è analizzata in termini di ridondanza, di eco interna, di risonanza, di ricorrenza fonica, eccetera (Hopkins: 'Il verso è un discorso che ripete totalmente o parzialmente la stessa figura fonica'). 139 O ancora (M. Grammont, "Traité de phonétique", 1933): 'É notorio che i poeti degni di questo nome possiedono un senso delicato e penetrante del valore impressivo delle parole e dei suoni che le compongono; per comunicare questo "valore" ai lettori, arrivano spesso a "rappresentare" intorno alla parola principale dei fonemi che la caratterizzano, in modo che questa parola diventa insomma il generatore dell'intero verso nel quale essa figura.'


In tutto questo, il 'lavoro' del significante appare sempre come concatenamento positivo, concorrente di quello del significato - ora essi coincidono, ora divergono, per riprendere Fonagy, ma in ogni modo questo non porta che a '"una corrente soggiacente di significazione"' - nessun problema di sfuggire all'essere del discorso. E non potrebbe essere altrimenti, in una prospettiva che non concepisce il poetico che come autonomizzazione di una delle categorie fondamentali dell'ordine del discorso.


Medesimo illusionismo nell'altra formula jakobsoniana: 'La funzione poetica proietta il principio d'equivalenza dall'asse della selezione all'asse della combinazione.' L'equivalenza è promossa al rango di processo costitutivo della sequenza. 'In poesia ogni sillaba è messa in rapporto d'equivalenza con tutte le altre sillabe della stessa sequenza; un accento tonico è uguale ad ogni altro accento tonico; atona uguaglia atona; lunga (prosodicamente) si appaia a lunga, breve a breve', eccetera. 140 Certo l'articolazione non è più quella della sintassi usuale, ma si tratta sempre d'una architettura "costruttiva" - non è mai preso in considerazione il fatto che nella prosodia possa entrare in gioco qualcosa di diverso da una scansione delle equivalenze. All'"ambivalenza" del significante, Jakobson si accontenta di sostituire l'"ambiguità" del significato.


Perché ciò che caratterizza il poetico, e lo distingue dal discorsivo, è la sua ambiguità: 'L'ambiguità è un carattere intrinseco inalienabile di ogni messaggio concentrato su se stesso; è, insomma, un corollario della poesia.' 141 Empson: 'L'operare dell'ambiguità è alla radice stessa della poesia.' 142 Ancora Jakobson: 'Il predominio della funzione poetica rispetto a quella referenziale non annulla il riferimento [la denotazione], ma lo rende ambiguo. Ad un messaggio disemico corrisponde un mittente sdoppiato, un destinatario sdoppiato, un riferimento sdoppiato.' 143 Così, tutte le categorie della comunicazione discorsiva 'si allentano' nel poetico (tutte, tranne, curiosamente, il codice, di cui Jakobson non parla: cosa diventa il codice? Diventa ambiguo anch'esso? Ma allora sarebbe la fine del linguaggio e della linguistica). L'ambiguità, invece, non è pericolosa. Essa non cambia nulla al "principio" d'identità e d'equivalenza, al principio del senso come valore, fa semplicemente fluttuare questi valori, rende diffuse le identità, rende complessa la regola del gioco referenziale, senza abolirla. Così, il mittente e il destinatario ambigui non significano per Jakobson che lo sganciamento dell'"io/tu" interno al messaggio rispetto alla relazione autore/lettore: le posizioni dei rispettivi soggetti non sono perdute, non fanno in qualche modo che demoltiplicarsi - i soggetti diventano mobili "all'interno della loro posizione di soggetto". Così il messaggio diventa instabile, ambiguo, all'interno della sua definizione di messaggio - tutte le categorie (mittente, destinatario, messaggio, referente) si muovono, si allentano nelle loro rispettive posizioni, ma la griglia strutturale del discorso resta la stessa.


L''operare dell'ambiguità' non cambia quindi granché alla forma del discorso. Jakobson ha questa audace formula: 'La poeticità non consiste nell'aggiungere al discorso ornamenti retorici: essa coinvolge una rivalutazione integrale del discorso e di tutte le sue componenti quali che esse siano.' 144 Audace e ambigua, poiché le componenti (mittente/destinatario, messaggio/codice, eccetera) non cessano di esistere nella loro separazione, sono semplicemente 'rivalutate'. L'economia generale resta la stessa: è l'economia politica del discorso. Da nessuna parte questo pensiero si spinge fino a una "abolizione" delle funzioni separate: abolizione del soggetto della comunicazione (e quindi della distinzione mittente/destinatario) - abolizione del messaggio in quanto tale (e quindi di qualsiasi autonomia strutturale del codice). Tutto questo lavoro, che costituisce la radicalità dell'atto poetico, è qui abbassato a una 'ambiguità', a una certa fluttuazione delle categorie linguistiche. 'Discorso all'interno del discorso', 'messaggio centrato su se stesso': tutto questo non fa che delineare una "retorica dell'ambiguità". Ora, il discorso ambiguo, quello che adocchia se stesso (strabismo del senso), 145 è ancora il discorso della positività, "il discorso del segno come valore".


Nel poetico, al contrario, il linguaggio ritorna su se stesso per abolirsi. Non è 'centrato' su se stesso, si "decentra" da se stesso. Esso disfà tutto il processo di costruttività logica del messaggio, risolve tutta questa specularità interna che fa sì che un segno sia un segno: qualcosa di pieno, di riflesso, di centrato su se stesso, e a questo titolo ambiguo, in effetti. Il poetico è la perdita di questa chiusura speculare del segno e del messaggio.


 


Alla base della stessa metafisica domina la teoria della forma artistica a partire dal romanticismo: la metafisica borghese del totalità. La peculiarità dell'arte consisterebbe nell'evocare 'questa qualità di essere un tutto e di appartenere a un tutto più grande, che tutto include e che è l'universo nel quale viviamo.' 146 Umberto Eco fa propria questa cosmologia, e la ritrascrive in termini linguistici: questa totalizzazione del senso avviene per una 'reazione a catena' e per una infinita 'molteplicità delle significazioni' ("Opera aperta") attraverso 'una identificazione di significante e di significato [...] il segno estetico è quello [...] in cui il rimando semantico non si consuma nel riferimento al denotatum, ma si arricchisce continuamente ogni qual volta sia fruito godendo il suo insostituibile incorporarsi nel materiale in cui si struttura; il significato rimbalza continuamente sul significante e si arricchisce di nuovi echi...'. Così lo schema è quello d'una prima fase referenziale (denotativa), poi di un'altra fase di referenza 'armonica', in cui opera una reazione a catena 'in teoria inarrestabile' – d' onde l'evocazione cosmica.


Questa teoria serve da ideologia di base a tutto ciò che si è detto del poetico (la stessa psicoanalisi non vi sfugge): ambiguità, polisemia, polivalenza, polifonia di senso - si tratta sempre di una "irradiazione" del significato, d'una simultaneità di significazioni.


Fonagy: 'Il carattere lineare del discorso [...] nasconde una ricca polifonia, un armonioso concerto di messaggi diversi' ("Diogène", n. 51, pag. 104). 147 Densità semantica del linguaggio, ricchezza d'informazione, eccetera: il poeta 'libera' ogni specie di virtualità avendo per corollario un'ermeneutica differenziale da parte del lettore: ogni lettura 'arricchisce' il testo delle sue armoniche personali). Tutto questo mito gioca su un'anteriorità 'selvaggia', preconcettuale, su una verginità del senso: 'Il termine abituale appropriato al concetto, che è la scheletrica riduzione di tutte le esperienze precedenti, viene respinto dal poeta che si trova faccia a faccia con una realtà primitiva, indomita, ancora vergine' - 'Bisogna ogni volta ricreare la parola a partire da una esperienza personale intesa a rivestire di carne viva lo scheletro della "cosa per sé"[...] per attribuirle la realtà concreta della "cosa per me"' (ibid., pag. 97) - non si sa più bene se bisogna spogliare o rivestire il concetto per ritrovare la verginità del poetico! In ogni modo, si tratta di scoprire 'le segrete corrispondenze esistenti tra le cose'.148


Teoria 'geniale' e romantica, questa concezione si trova oggi paradossalmente a riscriversi in termini informatici. La 'ricchezza' polifonica si può tradurre in termini di 'aumento di informazione'. Al livello del significato: la poesia di Petrarca costituisce un immenso capitale di informazioni sull'amore (Umberto Eco). Al livello del significante: un certo tipo di disordine, di rottura, di negazione dell'ordine usuale e prevedibile del linguaggio accrescono la quantità d'informazione del messaggio. Esisterebbe una 'tensione dialettica' tra gli elementi del disordine e dell'ordine, che serve da sfondo al poetico. Mentre l'utilizzazione più probabile del sistema linguistico non darebbe nulla, il carattere inatteso del poetico, la sua improbabilità relativa determinano una quantità massima d'informazione. Anche qui, il poetico vi dà di più.


Così l'immaginario semiologico concilia benissimo la polifonia romantica con la descrizione quantica: 'La struttura del verso può essere descritta e interpretata esattamente in termini di probabilità concatenate.' 149 'La concentrazione, superiore alla frequenza media, di fonemi di una certa classe, oppure l'unione contrastante di due classi opposte nel contesto fonico di un verso, di una strofa, di un componimento, agisce come '"una corrente semantica sotterranea"'.150


'Nel linguaggio, la forma ha una struttura manifestamente granulare ed è suscettibile di una descrizione quantitativa' (Jakobson). 151 Alla quale si può avvicinare la Kristeva ("Poésie et Négativité", in "Semeiotiké", pag. 246): 'Le parole non sono delle entità non decomponibili, tenute assieme dal loro senso, ma degli assemblaggi di atomi significanti, fonici e scritturali [grafici], che volano di parola in parola, creando così dei rapporti imprevisti, inconsci, tra gli elementi del discorso: e questa messa in relazione degli elementi significanti costituisce una "infrastruttura significante della langue".' Tutte queste formule convergono verso l'idea d'uno stadio 'browniano' del linguaggio, d'uno stadio emulsionale del significante omologo allo stadio molecolare della materia fisica - liberante delle 'armoniche' di senso come la fissione, o la fusione, liberano nuove affinità molecolari. Il tutto concepito come una 'infrastruttura', una 'corrente soggiacente', cioè uno stadio logico anteriore, o strutturalmente più elementare, del discorso come della materia. Visione scientista 'materialistica' del discorso, in cui l'atomo e la molecola sono assimilati propriamente alla seconda articolazione del linguaggio. E lo stadio molecolare allo stadio poetico - stadio originale, anteriore alle organizzazioni differenziate del senso. La Kristeva d'altronde non ha paura della propria metafora: afferma che la scienza moderna ha decomposto i corpi in elementi semplici allo stesso modo che la linguistica (poetica) disarticola la significazione in atomi significanti.


É qui che si avvia, in concorrenza con la metafisica della prima articolazione (metafisica dei significati, legata al gioco delle unità significative), quella che si potrebbe chiamare "la metafisica della seconda articolazione", quella dell'effetto di significazione infrastrutturale, legata al gioco delle unità distintive, degli elementi minimali del discorso - ma anche qui presi come valenze positive (come gli atomi e le molecole hanno una valenza elementare), come materialità fonica la cui combinazione si fa in termini di concatenazione e di probabilità.


Ora il poetico non si fonda maggiormente sull'articolazione autonoma del livello fonematico che su quella delle parole o della sintassi. "Non gioca la seconda articolazione contro la prima". 152 Esso è l'abolizione di questa distinzione analitica delle articolazioni sulla quale si basa la discorsività del linguaggio, la sua autonomia operativa come mezzo d'espressione (e come oggetto della linguistica). Ad ogni modo, perché mai il livello fonematico sarebbe più 'materialistico' di quello del concetto lessicale o della frase? Da quando se ne sono fatte delle sostanze minimali, i fonemi, come gli atomi, sono delle referenze idealistiche. Con la fisica dell'atomo, la fisica non ha mai fatto che approfondire la propria razionalità positivistica. Essa non s'è per niente avvicinata a un altro modo, che presupporrebbe la sterminazione reciproca delle posizioni d'oggetto e di soggetto della scienza. Forse essa arriva adesso ai suoi confini, contemporaneamente a una crisi teorica totale del materialismo, senza poter tuttavia saltare sopra la propria ombra: non c'è una transizione 'dialettica' tra la scienza, pure all'apogeo della sua crisi, e qualcosa che sarebbe al di là e da cui essa è irrimediabilmente separata, perché è sulla denegazione 153 (non la negazione dialettica, ma la denegazione) di ciò stesso che essa è fondata. Il materialismo più rigoroso non porterà mai al di là del principio di razionalità del valore.


 


Le analisi di "Tel Quel" vanno più lontano nella decostruzione del segno fino a una 'liberazione' totale del significante. Finita l'ipoteca del significato e del messaggio, non c'è una 'polisemia', è il significante che è plurale. Non più 'ambiguità' del messaggio, ma l'intertestualità del significante, che si concatena e si produce nella sua pura logica 'materiale'. Testo senza fine del programma, la significanza è il vero livello di produttività del linguaggio, produttività al di là del valore che s'oppone alla significazione del segno prodotto.


Julia Kristeva, in "Poésie et Négativité" ("Semeiotiké", pag. 246 sg.) si avvicina al massimo a un riconoscimento della forma del poetico, anche se la superstizione d'una 'produzione materialistica' del senso la porta nonostante tutto, trasferendo il poetico all'ordine semiotico, a censurarla come alternativa radicale.


Essa afferma l'"ambivalenza" (e non la semplice ambiguità) del significato poetico: esso è a un tempo concreto e generale, ingloba a un tempo l'affermazione (logica) e la negazione, enuncia la simultaneità del possibile e dell'impossibile - lungi dal postulare 'concreto "versus" generale', bisogna saltare questa frattura del concetto: la logica bivalente (0/1) è abolita dalla logica ambivalente. D' onde la negatività molto particolare del poetico. La logica bivalente, quella del discorso, si fonda sulla negazione interna al giudizio, fonda il concetto e la sua equivalenza con se stesso (il significato è quello che è). La negatività del poetico è una negatività radicale che "verte sulla logica stessa del giudizio". Qualcosa 'è' e non è ciò che è: utopia (nel senso letterale) del significato. L'equivalenza della cosa con se stessa (e anche del soggetto, certamente) è volatilizzata. Così il significato poetico è quello spazio in cui 'il Non-essere s'intreccia all'Essere, e ciò in modo affatto sconcertante.' Ma c'è il pericolo - ed esso si profila nella stessa Kristeva - di prendere ancora questo spazio per "topico" e questo 'intreccio' per dialettico. Pericolo di "riempire" questo spazio di tutte le figure di sostituzione: 'La metafora, la metonimia e tutti i tropi s'inscrivono nello spazio circondato da questa struttura semantica doppia.' Pericolo della metafora, d'una economia ancora positiva della metafora. Nell'esempio citato, quello dei '"meubles voluptueux"' di Baudelaire, l'effetto poetico non deriva da un valore erotico aggiunto, gioco di fantasmi addizionali, né da un 'valore' metaforico o metonimico. Esso deriva dal fatto che, nel cortocircuito dei due termini, né il mobile è più mobile, né la voluttà voluttà - il mobile diventa voluttuoso, la voluttà diventa mobile - non resta nulla dei due campi separati del valore. Nessuno dei due termini è poetico in sé, e nemmeno la loro sintesi: lo sono in quanto volatilizzati l'uno nell'altro. Nessun rapporto tra il godimento (poetico) e la voluttà in quanto tale. Nel piacere amoroso, questa "non è che voluttà" - volatilizzata in mobile, diventa godimento. E così per il mobile annullato dalla voluttà: medesima reversione che elimina la posizione propria di ciascun termine. É in questo senso che vale la formula di Rimbaud: 'É vero letteralmente, e in tutti i sensi.'


La metafora non è ancora che "transfert da un campo all'altro" del valore, fino al 'riassorbimento d'una molteplicità di testi (di sensi) nel messaggio' (Kristeva). Il poetico implica "reversibilità di un campo sul l'altro", e quindi annullamento dei rispettivi valori. Mentre nella metafora i valori si mescolano, si implicano, si intertestualizzano secondo un gioco 'armonico' (gli 'accordi segreti del linguaggio'), nel godimento poetico essi si annullano - l'ambivalenza radicale è non-valenza.


Nella Kristeva c'è quindi un ribaltamento d'una teoria radicale dell'ambivalenza su una teoria dell'intertestualità e della 'pluralità dei codici'. Il poetico non si distingue più allora dal discorso che per l''infinità del suo codice' - è un discorso 'plurale', l'altro non essendo che il caso limite d'un discorso monologico, discorso a un solo codice. Vi è allora spazio per i due tipi di discorso in una "semiotica generale": 'La pratica semiotica della "parole" [il discorso] non è che una delle pratiche semiotiche possibili' ("Semeiotiké", pag. 276). La semanalisi ha il dovere di prenderle in considerazione tutte, senza esclusioni, cioè senza trascurare l'irriducibilità del poetico, ma senza ridurre tuttavia la logica del segno. Ha il dovere di costituire una 'tipologia non riduttiva della pluralità delle pratiche semiotiche.' C'è un intrico di differenti logiche del senso: 'Il funzionamento della "parole" è impregnato di paragrammatismo, come il funzionamento del linguaggio poetico è circondato dalle leggi della "parole"' (Ibid., pag. 275).


Ritroviamo qui l'equivoco di Starobinski su Saussure: reciproca tolleranza del poetico e del discorsivo in nome delle regole universali del linguaggio (qui in nome di una scienza 'veramente materialistica' chiamata semiotica). In realtà, posizione riduttiva, repressiva. Perché tra il poetico e il discorsivo non c'è la differenza tra un'articolazione del senso e un'altra - c'è un antagonismo radicale. Il primo non è 'infrastruttura significante' (di cui il discorso logico sarebbe la 'sovrastruttura'?). E il discorso, il logos, non è un caso particolare nell'infinità dei codici: è il codice che mette fine all'infinità, è il discorso di chiusura che mette fine al poetico, al para- e anagrammatico. Inversamente, è sul suo smantellamento, sulla sua distruzione, che il linguaggio si avvicina alla possibilità dell''infinità'. In effetti, il termine 'infinità dei codici' è cattivo: è esso che permette questo amalgama dell'uno e dell'infinito nella 'matematica' del testo, e la loro distribuzione su una medesima catena. Si deve dire, in termini d'incompatibilità radicale e di antagonismo: è sulla distruzione di questo discorso del "valore" che il linguaggio si riavvicina alla possibilità dell'"ambivalenza" - è qui la "rivoluzione" del poetico in rapporto al discorso, e l'uno non può essere che la morte dell'altro.


L'impresa semiotica non è che un modo più sottile di neutralizzare la radicalità del poetico e di salvare l'egemonia del linguistico (ribattezzato 'semiotico'), non più per annessione pura e semplice, ma dietro l'ideologia della 'pluralità'.


 


La sovversione del linguistico da parte del poetico non si ferma qui: essa porta a chiedersi se le regole del linguaggio siano valide anche per il campo del linguaggio in cui esse prevalgono, cioè nella sfera dominante della comunicazione (allo stesso modo, lo scacco dell'economia politica a rendere conto delle società precedenti porta, per contraccolpo, a chiedersi se i suoi principi hanno qualche valore anche per noi). Ora, è vero che la pratica immediata del linguaggio ha qualcosa di refrattario all'astrazione razionale della linguistica. O. Mannoni lo dice molto bene ne "L'ellipse et la barre" in "Clefs pour l'imaginaire", 154 pag. 35: 'La linguistica nasce dalla barra che essa instaura tra significante e significato e sembra che essa rischi di morire della loro unione - la quale ci rinvia precisamente "alle conversazioni ordinarie della vita".' É questa barra saussuriana che ha permesso di rinnovare da cima a fondo la teoria linguistica. Analogamente, è mediante il concetto d'una infrastruttura materiale opposta alla 'sovrastruttura' che il marxismo ha fondato qualcosa come un'analisi 'oggettiva' e rivoluzionaria della società. Il taglio ["coupure"] fonda la scienza. É d'altronde dalla distinzione fra teoria e pratica che nasce una 'scienza', una razionalità della pratica: l'organizzazione. Qualsiasi scienza, qualsiasi razionalità, dura quanto dura questa frattura. La dialettica non fa che sistemarla formalmente, non la risolve mai. Dialettizzare la struttura e la sovrastruttura, la teoria e la prassi, oppure il significante e il significato, la "langue" e la "parole": vano sforzo di totalizzazione - la scienza vive di questa frattura, e muore con essa.


É ben per questo che la pratica non scientifica corrente, sia linguistica che sociale, è in qualche modo rivoluzionaria "perché non fa questo genere di distinzioni". Così come non ha "mai fatto la distinzione dell'anima e del corpo", mentre tutta la filosofia e la religione dominanti non vivevano che di questa distinzione, così la prassi sociale, immediata, 'selvaggia', la nostra, quella di tutti, non fa la distinzione della teoria e della prassi, della struttura e della sovrastruttura - essa è di per se stessa, non deliberatamente, trasversale, al di là della razionalità, borghese o marxista. La teoria, la 'buona' teoria marxista, non analizza mai questa prassi sociale "reale", analizza l'oggetto che si è data dissociando questa prassi in una struttura e una sovrastruttura, oppure analizza il campo sociale che si dà attraverso la dissociazione fra teoria e prassi. Non raggiungerà mai questa 'prassi', perché non esiste che per averla vivisezionata: fortunatamente questa prassi, invece, comincia a raggiungerla e a superarla. Ma allora è finita per il materialismo dialettico e storico.


Allo stesso modo, la prassi linguistica immediata, quotidiana, quella della parola e del 'soggetto parlante', non si cura della distinzione fra il segno e il mondo (né di quella tra significante e significato, né dell'arbitrarietà del segno, eccetera). Benveniste lo dice e lo riconosce, ma a titolo informativo, perché è precisamente lo stadio che la scienza supera e si lascia alle spalle: la interessa soltanto il soggetto linguistico, il soggetto della "langue": lui, Benveniste. In qualche modo, tuttavia, è l'altro ad aver ragione, quello che parla al di qua della distinzione del segno e del mondo, in piena 'superstizione' - è vero che, sull'essenziale ne sa di più, e con lui ciascuno di noi, e lo stesso Benveniste, ne sa di più del linguista Benveniste. Perché la metodologia della separazione del significante e del significato non vale di più della metodologia della separazione dell'anima e del corpo. E il medesimo immaginario in entrambi i casi. In un caso, la psicoanalisi 155 è venuta a dire come stavano le cose, nell'altro caso il poetico lo dice anch'esso. Ma in fondo non c'è mai stato bisogno né della psicoanalisi né del poetico: nessuno ci ha mai creduto, tranne gli scienziati e i linguisti - come nessuno ha mai creduto alla determinazione in ultima istanza da parte dell'economico, tranne gli scienziati dell'economia e i loro critici marxisti.


Virtualmente, ma letteralmente parlando, "non c'è mai stato un soggetto linguistico", ciò non vale nemmeno per noi che parliamo quando non riflettiamo puramente e semplicemente questo codice della linguistica. Allo stesso modo, non c'è mai stato un "soggetto economico", un "homo oeconomicus": questa finzione non è mai stata inscritta da nessuna parte, se non in un codice. Allo stesso modo non c'è mai stato un "soggetto della coscienza", e allo stesso modo non è mai esistito un "soggetto dell'inconscio". Nella più semplice prassi, c'è sempre stato qualcosa che attraversa questi modelli di simulazione, che sono tutti dei modelli "razionali" - c'è sempre stata una radicalità assente priva di tutti questi codici di tutte queste razionalizzazioni 'oggettive', che in definitiva non hanno mai dato luogo che a un solo grande soggetto: "il soggetto del sapere", la cui forma è infranta fin da oggi, fin d'ora, dalla parola indivisa. 156 In fondo, chiunque la sa sempre più lunga di Cartesio, di Saussure, di Marx, di Freud.


 


Il Witz, o il fantasma dell'economico in Freud

 


C'è un'affinità fra il poetico e lo psicoanalitico? Se è chiaro che la forma poetica (disseminazione, reversibilità, stretta limitazione del corpus) è inconciliabile con la forma linguistica (equivalenza significante/significato, linearità del significante, corpus indefinito), sembra invece che essa concordi con la forma psicoanalitica (processo primario: spostamento, condensazione, eccetera). Nel sogno, il lapsus, il sintomo, il motto di spirito, dovunque lavora l'inconscio, si può leggere con Freud questa distorsione della relazione significante/significato, della linearità del significante, della discrezione del segno, questa distorsione del discorso sotto l'effetto del processo primario, questo eccesso, questa trasgressione del linguaggio in cui si rappresenta il fantasma e si manifesta il godimento. Ma che ne è del desiderio e dell'inconscio nella poetica, e fino a che punto l'economia libidica ne rende conto?


Il poetico e lo psicoanalitico non si confondono. "Il modo simbolico non è quello del lavoro dell'inconscio". Interrogare il poetico secondo Freud è quindi interrogare la psicoanalisi secondo il simbolico - sempre l'analisi di ritorno, l'unica che, mediante questa reversione, permette di sfuggire alla teoria come puro e semplice esercizio del potere.


L'analisi del motto di spirito in Freud può servire da filo conduttore, perché in lui non c'è d'altronde una differenza "teorizzata" fra il campo propriamente sintomatico e il campo dell'opera d'arte della 'creazione artistica' (il concetto di 'sublimazione', come è noto, soffre di poco rigore e di idealismo ereditario). Questo è già un punto importante: se il poema non è il lapsus e nemmeno il motto di spirito, nella teoria dell'inconscio manca qualcosa capace di renderne conto.


Contrariamente a Saussure, che non si cura del piacere poetico e nemmeno d'una causa o d'una finalità qualsiasi di ciò che descrive, l'analisi di Freud è "funzionale", è una teoria del "godimento". Il lavoro sul significante vi è sempre messo in relazione con l'appagamento di desiderio. E questa teoria del godimento è "economica". Il "Witz", il motto di spirito, va più rapidamente, per delle scorciatoie, dei cortocircuiti, verso ciò che vuol dire, e dice delle cose, 'libera' delle significazioni che, senza di esso, non lo sarebbero state se non al prezzo d'uno sforzo intellettuale cosciente considerevole - è questa ellissi della distanza psichica la fonte del godimento. In altri termini, l'abolizione della censura, la sottrazione che essa opera, 'libera' le energie legate al Super-io e al processo di rimozione. 'Liberazione' degli affetti - disinvestimento di rappresentazioni consce o preconsce - disinvestimento dell'istanza psichica rimovente - il godimento emerge comunque da un resto, da un sovrappiù, da un quanto d'energia differenziale, resa disponibile dall'operazione del "Witz".


É in questo senso che la concisione, o la riutilizzazione, sotto diverse modalità, del medesimo materiale, sono delle caratteristiche fondamentali del motto di spirito - sempre l'economia di sforzi: con un unico significante si significa a livelli multipli, dal minimo di significante si trae il massimo di significazioni (talvolta contraddittorie). Inutile insistere sulle numerose analogie con il modo poetico: la riutilizzazione del medesimo materiale richiama l'anagramma e l'accoppiamento di Saussure, la necessaria limitazione del corpus, e quel 'massimo nell'energia dei segni' di cui parla Nietzsche. Del poeta, Freud dice anche che 'l'orchestrazione polifonica gli permette di emettere dei messaggi sul triplice piano della coscienza, del subconscio e dell'inconscio.' Ovunque c'è altrettanta energia 'economizzata' in rapporto al sistema ordinario di distribuzione degli investimenti. In quel poligono di forze che è l'apparato psichico, il godimento è come la risultante d'una specie di scorciatoia, o piuttosto di quella trasversalità del "Witz" che, tracciando una diagonale attraverso i diversi strati dell'apparato psichico, raggiunge con minor spesa il suo obiettivo, raggiunge persino senza sforzo degli obiettivi imprevisti, e quindi lascia una specie di plusvalore energetico, il 'premio' di godimento, il 'beneficio di piacere'.


Questo calcolo energetico ha come un profumo di capitale - quello d'una economia del risparmio (Freud usa continuamente questo termine), in cui il godimento non deriverebbe mai che per sottrazione, per difetto, d'un residuo d' investimenti, o d'una "eccedenza, ma mai d'un eccesso" - oppure da nulla di tutto questo: da un processo inverso di dispendio, di abolizione delle energie e delle finalità. Non parliamo in un primo tempo del 'lavoro' stesso del 'significante', perché questo livello non è mai primario in Freud. La sua economia libidica è fondata sull'esistenza di contenuti inconsci (affetti e rappresentazioni), d'una rimozione e d'una produzione del rimosso, d'un calcolo d'investimento che governa questa produzione in funzione dell'equilibrio (soluzione delle tensioni), di legamento/slegamento delle energie. É in termini di forze e di quantità d'energia che si fa e si parla il godimento freudiano. Nel "Witz" o nel sogno, il gioco dei significanti non è mai di per sé l'articolazione del godimento: non fa che tracciare delle vie a dei contenuti fantasmatici o rimossi. É un 'medium' che non è mai di per se stesso un 'messaggio', perché occorre qualcosa come un desiderio - in stretta teoria topica ed economica, s'intende - per parlare attraverso la sua voce, dell''Es' che parla. Il gioco del significante non è mai che in filigrana del desiderio. É qui, intorno a questo 'modo di produzione' dell'inconscio (e del suo modo di rappresentazione), che si pone tutto il problema dell'economia libidica e della sua critica nella prospettiva "d'un godimento che non avrebbe nulla a che vedere con l'economico".


Freud, nella "Psicopatologia della vita quotidiana", sul lapsus: 'É sempre la disposizione del lettore che cambia il testo, e che lo induce a leggere qualcosa che lo interessa e lo preoccupa. Basta allora che il testo gli venga incontro con un'assomiglianza qualsiasi nell'immagine della parola, che poi il lettore può cambiare nel senso da lui voluto.' 157 Si tratta appunto d'un contenuto latente, rimosso, che attende di sorgere e 'approfitta' delle fantasie, degli interstizi, dei punti deboli del discorso logico per far eruzione. É al livello del discorso ciò che ha luogo per il corpo nel concetto di appoggio: il desiderio 'approfitta' della soddisfazione del bisogno fisiologico per investire libidicamente questa o quella zona del corpo: esso devia la funzione pura e semplice (la logica organica) verso l'appagamento di desiderio. Sì, ma precisamente: l'articolazione del bisogno e del desiderio non è mai stata chiarita. Tra i due termini così posti senz'altra forma di processo, l'uno di appagamento funzionale determinato, l'altro di appagamento pulsionale indeterminato (per quanto riguarda il suo oggetto), il concetto di 'appoggio' non è che un concetto passerella, che non articola assolutamente nulla. L'economia libidica soffre qui del medesimo '"collage"' dell'economia "tout court" con il concetto di 'bisogno': tra il soggetto e l'oggetto c'è un 'bisogno' - tra il bisogno e il desiderio c'è un 'appoggio' (stessa cosa in economia linguistica: tra il significante e il significato, o tra il segno e il mondo, c'è o non c'è, una 'motivazione'). Tutti questi "collages" hanno il fascino discreto d'una scienza insolubile: se l'articolazione è insolubile, è che i termini sono mal posti, è che la loro stessa posizione è insostenibile. In qualche modo, indubbiamente, l'autonomizzazione del desiderio rispetto al bisogno, quella del significante rispetto al significato, quella del soggetto rispetto all'oggetto, non è che un effetto della scienza. Ma le economie che conseguono hanno la vita dura, non rinunciano a quelle opposizioni regolate di cui vivono: desiderio/bisogno, inconscio/coscienza, processo primario/processo secondario... Lo stesso principio di piacere è qualcosa di diverso dal principio di realtà della psicoanalisi?


É tuttavia vero che la psicoanalisi ha fatto spostare la relazione significante/significato, e in un senso vicino al poetico. Il significante, invece di manifestare il significato in sua presenza, è in relazione inversa con esso: lo significa nella sua assenza, nella sua rimozione, secondo una negatività che non appare mai nell'economia linguistica. Il significante si trova in una relazione necessaria (non arbitraria) con il significato, ma come la presenza lo può essere con l'assenza di qualcosa. Significando l'oggetto perduto e venendo al posto di questa perdita. Leclaire, "Psychanalyser", pag. 65: 'il concetto di rappresentazione si collegherebbe in psicoanalisi non tra una realtà obiettiva da una parte e la sua raffigurazione significativa dall'altra, ma piuttosto tra una realtà allucinata da un lato, immagine mnestica di un oggetto soddisfacente perduto, e un oggetto sostitutivo dall'altro, sia che si tratti di una 'formula-oggetto' come quella che costituisce il fantasma, o di un aggeggio strumentale quale può essere un feticcio.' 158 L'equivalenza linguistica è perduta, perché il significante sta in luogo e vece di qualcos'altro che non è più, che non è mai stato. Non è quindi mai ciò che esso non è più: l'oggetto-feticcio, nella sua identità oscillante, non fa che metaforizzare ciò che è negato per sempre: l'assenza del fallo della madre, la differenza dei sessi.


La demarcazione della significazione psicoanalitica in rapporto alla linguistica c ben formulata da O. Mannoni ("L'ellipse et la barre", in "Clefs pour l'imaginaire", pag. 46): 'É introducendo il significante che facciamo oscillare il senso. E questo non accade perché il significante porterebbe con sé un insieme di significati quali potrebbe trovarli una semantica di tipo tradizionale. É perché interpretiamo l'ellisse di Saussure "come se riservasse vuoto il posto del significato", vuoto che non si può riempire che nei diversi discorsi in cui un unico significante è allora la parte comune [...] Se noi sganciamo il significante dal peso del significato, non è per restituirlo alle leggi che la linguistica scopre in qualsiasi discorso manifesto, ma perché si possa dire che esso obbedisce a quella del "processo primario", attraverso il quale esso sfugge, sia pure per una breve esitazione, alla costrizione del discorso apparente, che tende sempre all'univocità, anche quando strutta l'equivoco.' Passo notevole, ma cos'è questo significato 'in bianco', che si riempie di discorsi successivi, e cos'è questo significante 'liberato' per essere restituito a una giurisdizione d'altro ordine? Si può far prendere un tale 'gioco' alle categorie linguistiche del significante e del significato senza far saltare la barra che li separa?


Questa barra è l'elemento strategico: è essa che fonda il segno nel suo principio di contraddizione e i suoi costituenti come valori. Questa struttura è coerente, e non vi si può introdurre checchessia (un'ambivalenza, una contraddizione, un processo primario). Benveniste mette chiaramente a punto le cose nella sua critica al "Gegensinn der Urworte" ["Significato antitetico delle parole primitive"]. 'É "a priori" improbabile [...] che queste lingue, arcaiche quanto si voglia, sfuggano al "principio di contraddizione" [...] Anche ammesso che esista una lingua in cui "grande" e "piccolo" si dicono nello stesso modo, si tratterà di una lingua in cui la distinzione tra "grande" e "piccolo" non ha assolutamente senso [...] poiché un progetto contraddittorio è proprio quello di attribuire a una lingua la conoscenza di due nozioni in quanto opposte e allo stesso tempo l'espressione di queste stesse nozioni in quanto identiche' ("Problèmes de linguistique génerale", t. I, pag. 82). 159 E questo è giusto: l'ambivalenza non è mai dell'ordine della significazione linguistica. 'É proprio del linguaggio esprimere solo quanto è possibile esprimere', è assurdo immaginare un senso che non sia portato da qualche distinzione, o inversamente un significante che voglia dire tutto: 'Immaginare uno stadio del linguaggio [...] in cui la "denominazione" di un certo oggetto varrebbe per questo e per un altro qualsiasi, e in cui la relazione "espressa" sarebbe quella di contraddizione permanente [...] in cui tutto sarebbe sé e altro da sé, quindi né sé né altro, è immaginare una pura chimera.' 160 Benveniste sa di cosa parla, perché tutta la razionalizzazione linguistica esiste precisamente per impedire ciò. L'ambivalenza del rimosso non rischia di affiorare nella scienza linguistica, perché questa fa interamente parte d'istanza rimovente. Ma, nel suo ordine, essa ha ragione: non farà mai parte della "langue" nulla che non obbedisca al principio di non-contraddizione, d'identità e di equivalenza.


Non si tratta di salvare la linguistica, ma di capire che qui Benveniste vede chiaro sulla scelta da fare (d'altronde non è tanto chiaroveggente se non perché si tratta di proteggere il suo campo dall'incursione di estranei - egli tollera che altrove esista un 'aria simbolica', ma 'questo discorso non appartiene alla lingua' - ciascuno a casa sua, e la lingua sarà ben guardata!): "non ci si può accontentare di 'interpretare' l'ellisse e la barra saussuriana per trasferire il segno al processo primario", per farlo entrare in analisi. Bisogna spezzare tutta l'architettura del segno, bisogna spezzare la sua stessa equazione, non basta moltiplicarne le incognite. Oppure bisogna supporre che la psicoanalisi si adatti in qualche modo a un certo modo di significazione e di rappresentazione, a un certo modo del valore e dell'espressione: in effetti è proprio ciò che 'significa' questo significato 'vuoto' di Mannoni - il posto del significato resta marcato: è quello dei contenuti mobili dell'inconscio.


Se dunque, con il significante psicoanalitico, siamo fuori dell'equivalenza logica, non siamo tuttavia fuori del valore, né al di là. Perché ciò che esso rappresenta nella sua 'esitazione', lo designa pur sempre come "valore in absentia", sotto il segno della rimozione. Questo valore non non transita più logicamente per il significante, lo assilla fantasmaticamente. La barra che li separa ha cambiato di senso, ma nondimeno rimane: vi e pur sempre da un lato un significato in potenza (un contenuto di valore irrisolto, rimosso) e dall'altro un significante, esso stesso istanza eretta in quanto tale dalla rimozione.


Per dirla tutta, non c'è più un'equivalenza, ma non c'è più nemmeno ambivalenza, cioè dissoluzione del valore. Qui è la differenza con il poetico, in cui questa perdita del valore è radicale. Non più un valore, sia pure assente o rimosso, per alimentare un significato residuale sotto forma di sintomo, di fantasma o di feticcio. L'oggetto-feticcio "non è poetico", proprio perché è opaco, molto più saturo di valore di qualsiasi altro perché il significante non vi si disfà, ma al contrario è fissato, cristallizzato da un valore nascosto per sempre, allucinato per sempre, come realtà perduta. Non più mezzo per sboccare questo sistema, per sempre "irrigidito nell'ossessione del senso", nell'appagamento di desiderio perverso che viene a riempire di senso la forma vuota dell'oggetto. Nel poetico (nel simbolico) il significato "si disfà" assolutamente - mentre nello psicoanalitico non fa che "spostarsi" sotto l'effetto dei processi primari, distorcersi secondo pieghettature dei valori rimossi - ma distorto, trasversale o in diagonale, resta una superficie ancorata alla realtà agitata dell'inconscio - nel poetico esso si diffrange e irradia nel processo anagrammatico, non cade più sotto il colpo della legge che lo erige, né sotto il colpo del rimosso che lo lega, non ha più nulla da designare, nemmeno l'ambivalenza d'un significato rimosso. Non è più che disseminazione, assoluzione del valore - e questo è vissuto senza ombra di angoscia, nel godimento totale. L'illuminazione dell'opera, o dell'atto simbolico sta in questo punto di non rimosso, di non residuo, di non ritorno - là dove sono eliminate la rimozione e la ripetizione incessante del senso nel fantasma o nel feticcio, la ripetizione incessante del divieto e del valore - là dove giocano senza pastoie la morte e la dissoluzione del senso.


'Cogliere in ciò che è stato scritto un sintomo di ciò che è stato taciuto' (Nietzsche, "Al di là del bene e del male"). Proposizione psicoanalitica per eccellenza: tutto ciò che 'vuol dire' qualcosa (e particolarmente il discorso scientifico nella sua 'trasparenza') ha la funzione di "tacere". E ciò che ha taciuto torna ad assillarlo, in una lieve ma irreversibile sovversione del suo discorso. Qui è il luogo dello psicoanalitico, in questo non-luogo relativo di qualsiasi discorso logico.


Ma il poetico, invece, non tace nulla, e nulla ritorna ad assillarlo. Perché ciò che è sempre rimosso e taciuto è la morte. Qui, essa è attualizzata nel sacrificio del senso. Il nulla, la morte, l'assenza, è apertamente detta e risolta: finalmente la morte si manifesta, finalmente è "simbolizzata", mentre in tutte le altre formazioni discorsive non è che "sintomatica". Questo significa certamente la decadenza di qualsiasi linguistica, che vive della barra d'equivalenza fra ciò che è detto e ciò che vuol dire, ma anche fine della psicoanalisi, che vive, invece, della barra della rimozione fra ciò che è detto e ciò che è taciuto, rimosso, negato, fantasticato, ripetuto indefinitamente nel modo della negazione: la morte. Quando, in una formazione sociale o in una formazione linguistica, la morte parla, si parla e si scambia in un dispositivo simbolico, allora la psicoanalisi non ha più nulla da dire. Quando Rimbaud dice della "Saison en Enfer": 'É vero letteralmente e in tutti i sensi', ciò vuol anche dire che non c'è un senso nascosto, latente, nulla di rimosso, nulla dietro, nulla per la psicoanalisi. É a questo prezzo che tutti i sensi sono possibili.


'La linguistica nasce dalla barra che essa ha instaurato tra il significante e il significato, e rischia di morire della loro riunione' (O. Mannoni). La psicoanalisi, anch'essa, nasce dalla barra che essa ha instaurato, sotto la legge della castrazione e della rimozione, tra ciò che è detto e ciò che è taciuto (o 'tra una realtà allucinata e un oggetto sostitutivo', Leclaire, "Psychanalyser", pag. 65), 161 e rischia anch'essa di morire della loro riunione.


Niente residuo, ciò significa non solo che non c'è più un significante e un significato, un significato "dietro" il significante, o da una parte e dall'altra d'una barra strutturale che li distribuisce - ciò significa anche che non esiste più, come nell'interpretazione psicoanalitica, un'istanza rimossa "sotto" un'istanza rimovente, un latente sotto un manifesto, dei processi primari che giocano a rimpiattino con dei processi secondari. Non c'è più un significato, qualunque esso sia, prodotto dal poema, non c'è più un 'pensiero del sogno' dietro il testo poetico, né una formula significante (Leclaire), né una libido o un qualsiasi potenziale energetico che, in qualche modo, s'intrufolerebbe attraverso i processi primari e dimostrerebbe ancora in qualche modo un'economia "produttrice" dell'inconscio. "Non c'è un'economia libidica più che non ci sia un'economia politica" - né certamente un'economia linguistica, cioè un'economia politica del linguaggio. Perché l'economico, ovunque sia, "si fonda sul resto" (soltanto il resto permette la produzione e la riproduzione 162) - che questo resto sia il non condiviso simbolicamente che rientra nello scambio mercantile e nel circuito d'equivalenza della merce - che questo resto sia ciò che non si esaurisce nella circolazione anagrammatica del poema ed entra allora nel circuito della significazione - che questo resto sia semplicemente il fantasma, cioè ciò che non ha potuto risolversi nello scambio ambivalente e nella morte, che, per questa ragione, si risolve in quel precipitato di "valore" inconscio individuale, di stock rimosso di scene o di rappresentazioni, che si produce e riproduce secondo l'incessante coazione a ripetere.


Valore mercantile, valore significato, valore rimosso/inconscio - tutto questo è fatto di ciò che resta, del precipitato residuale dell'operazione simbolica, questo resto ovunque si accumula e alimenta le diverse economie che governano la nostra vita. Passare al di là dell'economia - e se cambiare la vita ha un senso, non può essere che questo - significa sterminare questo resto in tutti i campi - cosa della quale il poetico è il modello, con la sua operazione senza equivalenza, senza accumulazione, senza residuo.


Per ritornare al "Witz" - non si può supporre che il godimento non sia né quell'effetto di 'economia', di guadagno di potenziale dovuto all''ellissi della distanza psichica', né questa irruzione d'un senso "sotto il senso", né questa realtà più profonda che impone la supposta dualità delle istanze psichiche: la finalità dell''altra scena' a venirsi a produrre per torsione su questa, la finalità del rimosso a risorgere come valore psichico della separazione stessa delle istanze (ipotesi topica) - e il corollario d'un legamento/slegamento delle energie da cui risulterebbe, a un certo momento, quel plusvalore libidico che si chiama godimento (ipotesi economica)?


Non si può supporre che il godimento provenga all'inverso dalla fine della separazione di questi campi separati - che prevenga dal di qua della stessa discriminazione delle istanze, e quindi del gioco differenziale degli investimenti - e quindi dal di qua della psicoanalisi e del suo ordine logico.


Effetto di conflagrazione, di cortocircuito ("Kurzschluss"), di "télescopage" tra campi separati (fonemi, parole, ruoli, istituzioni) che finora non avevano senso che "in quanto separati", e che "perdono" il loro senso in questo brutale riavvicinamento che li costringe a scambiarsi? Il "Witz", l'effetto di godimento, non è là dove anche il soggetto si perde in quanto separato, non soltanto nella distanza riflessiva della coscienza, ma anche secondo l'istanza dell'inconscio? L'abolizione del Super-io in questo istante, dello sforzo che c'è a mantenere la disciplina del principio di realtà e di razionalità del senso, non significa soltanto l'eliminazione dell'istanza rimovente a vantaggio dell'istanza rimossa, significa l'eliminazione simultanea di entrambe. É qui che c'è del poetico nel "Witz" e nel comico, e che è al di là della resurrezione coattiva del fantasma e dell'appagamento di desiderio.


Freud cita Kant: '"Das Komische ist eine in nichts zergangene Erwartung"' ('Il comico è un'attesa che si risolve nel nulla, che si dissolve in niente'). 163 In altre parole: "là dove c'era qualcosa, non c'è più niente" - nemmeno un inconscio. Là dove c'era una qualsiasi finalità (sia pure inconscia) oppure un valore (sia pure rimosso), non c'è più niente. "Il godimento è l'emorragia del valore", la disgregazione del codice, del logos repressivo. Nel comico, è l'imperativo morale dei codici istituzionali (situazioni, ruoli, persone sociali) che è eliminato - nel "Witz", è l'imperativo morale dello stesso principio d'identità delle parole, e del soggetto, che si annulla. Per niente. Non per 'esprimere' un 'inconscio'. La definizione del coltello (del non-coltello) di Lichtenberg - motto di spirito radicalmente poetico - rappresenta questa esplosione del senso senza secondo fine. Un coltello esiste in quanto esistono separatamente, e nominabili separatamente una lama e un manico. Se si elimina la separazione tra le due cose (e non si può riunire la lama e il manico che nella loro scomparsa, ciò che fa il motto di Lichtenberg), non c'è propriamente più nulla - tranne il godimento. L''attesa' del coltello, direbbe Kant, l'attesa pratica, ma anche l'attesa fantasmatica (si sa ciò che il coltello può 'voler dire'), si risolvono in niente. E non c'è qui un processo primario (spostamento, condensazione), non c'è irruzione di qualcosa che sta dietro la lama o il manico, dietro questo niente non c'è niente. Fine della separazione, fine della castrazione, fine della rimozione, fine dell'inconscio. Risoluzione totale, godimento totale.


L'esempio di Lichtenberg non è un caso particolare. Se si guarda bene, tutti gli esempi di logica assurda (che è il limite del "Witz", e là dove il godimento è più acuto) citati da Freud - il paiuolo bucato, la torta, il salmone con maionese, la pelle dei gatti con fessure al posto degli occhi, la fortuna che ha il bambino quando viene al mondo di trovare una madre che si occupa di lui - si potrebbero analizzare allo stesso modo, come raddoppiamento di una identità o di una razionalità che ritorna su se stessa per disgregarsi e annullarsi, come riassorbimento d'un significante in se stesso senza una traccia di senso.


'"Eifersucht ist eine Leidenschaft, die mit Eifer sucht, was Leiden schafft"' (intraducibile in quanto "Witz": 'La gelosia è una passione che con zelo cerca ciò che procura sofferenza'). 164 Riutilizzo del medesimo materiale, quindi piacere per sottrazione di energia? Ma Freud medesimo ammette che il riutilizzo del medesimo materiale è anche il più difficile - essendo ancor più semplice dire cose differenti con l'aiuto di significanti differenti. Ciò che cambia è che le due cose sono dette "simultaneamente". Ma allora l'essenziale è questa abolizione del tempo di svolgimento del significante, della sua successività - il piacere proviene non dall'addizione dei significati sotto il medesimo significante (interpretazione economicista), ma da questo annullamento del tempo logico dell'enunciazione, il che equivale all'annullamento del significante stesso (interpretazione antieconomicista). D'altra parte, il "Witz 'Eifersucht", eccetera' costituisce una specie di accoppiamento saussuriano: esso realizza, al livello d'una frase e della sua 'antifrase', ciò che Saussure diceva di ogni vocale e della sua contro-vocale nel verso. La regola opera qui al livello d'un intero sintagma, mentre in Saussure essa opera per degli elementi non significativi (fonemi o difoni), ma è sempre la medesima regola di rivoluzione d'un significante su se stesso, d' onde proviene la scintilla di piacere, Witz o poema. Poco importa la 'ricchezza' del senso o dei sensi multipli. Al contrario: è il significato che spesso fa sì che il piacere del "Witz" sia relativamente scarso, sono i significati che fermano il gioco salvaguardando un senso. Mentre nel periodo di tempo infinitesimale di ritorno del significante su se stesso, nel tempo di questo annullamento, c'è un'infinità di senso, una virtualità di sostituzione indefinita, dispendio folle e ultrarapido, cortocircuito istantaneo di tutti i messaggi, ma per sempre non significati. Il senso non ha presa: resta allo stato di circolazione, di centrifugazione, di 'rivoluzione' - come i beni nello scambio simbolico: incessantemente dati e resi, non cadono mai sotto l'istanza del valore.


 


Freud parla diffusamente della 'tecnica' del motto di spirito, che distingue così dal processo fondamentale: 'La tecnica del motto consiste nel fatto che la stessa parola - il nome - vi figura impiegata in due modi diversi, una volta intera e l'altra scomposta nelle sue sillabe come in una sciarada', 165 - ma ciò non è che una 'tecnica'. Stessa cosa per il riutilizzo del medesimo materiale: tutte queste tecniche si riassumono in una sola categoria: la condensazione: 'La condensazione resta la categoria sovrastante. Una tendenza alla concentrazione o, meglio, al risparmio domina tutte queste tecniche. Sembra tutta una questione di economia, come dice il principe Amleto.' 166 Ciò che qui sfugge a Freud è che le 'tecniche' del "Witz" sono "di per se stesse" fonti di piacere. Tuttavia egli lo afferma ("Il motto di spirito e la sua relazione con l'inconscio", pag. 141), ma per aggiungere poco dopo (pag. 154 sg.): 'Ora notiamo che quelle che abbiamo descritto come tecniche del motto [...] sono piuttosto le fonti dalle quali l'arguzia ricava il piacere [...] La tecnica peculiare del motto, la sola che gli sia pertinente, consiste nel modo con cui l'arguzia procede per proteggere l'applicazione di questi mezzi procacciatori di piacere dalle rimostranze della critica, che distruggerebbero il piacere [...] Tale funzione consiste fin dal principio nello sbarazzare da inibizioni interiori che avevano reso inaccessibili fonti di piacere.' In tal modo tutto ciò che potrebbe sorgere dall'operazione del "Witz" è rinviato a una 'fonte' originale di cui allora il "Witz" non è più che un mezzo tecnico.


Medesimo schema per il piacere del riconoscimento e del ricordo (ibid., pag. 145 sg.): 'Questo ritrovamento del già noto è causa di piacere, e anche qui non ci sarà difficile riconoscere in un tal piacere il piacere del risparmio, metterlo in relazione col risparmio di dispendio psichico [...] rima, allitterazione, ritornello e altre forme di ripetizione di suoni verbali simili in poesia sfruttano la medesima fonte di piacere, il ritrovamento del già noto.'


Anche qui, queste tecniche 'che mostrano un'analogia così notevole con l'"impiego del molteplice" nel motto', non hanno senso in se stesse: sono subordinate al risorgere d'un contenuto mnestico (conscio o inconscio: questo può essere un fantasma originario, d'infanzia, eccetera), di cui esse non sono che il "mezzo d'espressione".167


Qualsiasi interpretazione del "Witz", come del poetico, in termini di 'liberazione' di fantasmi o di energia psichica è falsa. Quando il significante fa irruzione e circola in tutti i sensi (simultaneità dei significati provenienti dai diversi strati dell'apparato psichico, trasversalità del significante sotto l'effetto dei processi primari) - non si ride e non si gode affatto: è l'angoscia, è l'allucinazione e la follia. Ambiguità e polisemia sono angoscianti, perché l'ossessione del senso (la legge morale della significazione) vi rimane interamente, mentre il senso chiaro e univoco non vi risponde più. Il godimento proviene al contrario dal fatto che qualsiasi imperativo, qualsiasi referenza di senso (manifesto o latente) è stata spazzata via, e questo non è possibile che nella perfetta reversibilità di qualsiasi senso - non nella proliferazione ma nella reversione minuziosa di qualsiasi senso. Lo stesso vale per l'energia: né la sua 'liberazione' esplosiva, né il suo slegamento, né la sua sola deriva, né la sua 'intensità' sono godimento - soltanto la reversibilità è fonte di godimento.168


Quando si ride o quando si gode, è perché, in un modo o nell'altro, una torsione o ritorsione del significante o dell'energia è avvenuta per fare il vuoto. Così la storia di quello che ha perduto la chiave di casa in una stradina buia, e la cerca sotto il lampione, perché è l'unica probabilità che ha di trovarla. A questa chiave perduta si possono attribuire tutti i sensi nascosti (madre, morte, fallo, castrazione, eccetera), d'altronde tutti indecidibili e ciò è senza importanza: è il vuoto d'una ragione logica che si raddoppia esattamente per distruggersi, è nel vuoto così creato che esplodono il riso e il godimento (e non perché in questo vuoto 'si solleva e si erge il rimosso del verbo suo sottosuolo' [Lyotard]). Freud dice molto bene: '"Entfesselung des Unsinns"' - scatenamento del nonsenso. Ma il nonsenso non è l'inferno nascosto del senso, né l'emulsione di tutti i sensi rimossi e cotraddittori. É la reversibilità minuziosa di qualsiasi termine - "sovversione" per "reversione".


É mediante questa logica interna del "Witz" che si deve interpretare una delle sue caratteristiche 'esterne': esso si condivide, non si consuma da solo, non ha senso che nello scambio. Il motto di spirito o la storia buffa sono come i beni simbolici, lo champagne i regali, i beni rari, le donne nelle società primitive. Il "Witz" evoca il riso, o la reciprocità d'un'altra storiella buffa, oppure un autentico "potlàc" di storielle successive. É nota la rete di complicità che annodano certe storielle o motti di spirito, che passano dall'uno all'altro come un tempo la poesia. Qui tutto risponde all'"obbligo" simbolico. Serbare per sé una barzelletta è assurdo, non riderne è offensivo, ma ridere per primo alla propria barzelletta infrange anch'esso a modo suo le leggi sottili dello scambio.169


Se il "Witz" s'inscrive necessariamente in uno scambio simbolico, è perché è collegato ad un modo simbolico (e non economico) del godimento. Se questo derivasse dal 'risparmio psichico', non si vede perché ognuno non riderebbe da solo, o per primo, di tutta questa energia psichica 'liberata'. Bisogna quindi che ci sia qualcosa di diverso dai meccanismi economici inconsci, e che costringe alla reciprocità. Questo qualcosa di diverso è precisamente l'annullamento simbolico del valore. É perché i termini vi si scambiano simbolicamente, cioè vi si reversibilizzano e vi si annullano nella loro stessa operazione, che il poetico e il "Witz" istituiscono una relazione sociale del medesimo tipo. Solo i soggetti spogliati della loro identità, come le parole, sono votati alla reciprocità sociale nel riso e nel godimento.


 


"Teoria antimaterialistica del linguaggio".


Nell'interpretazione analitica del sogno, del "Witz", delle nevrosi, e, per estensione, della poesia, si vede profilarsi una teoria 'materialistica' del linguaggio. Ciò che rende possibile il lavoro del processo primario è il fatto che l'inconscio tratta le parole "come delle cose". Il significante, sfuggendo all'orizzonte e alla finalità del significato, ridiventa puro materiale, disponibile per un altro lavoro - materiale 'elementare' disponibile per le increspature, gli spostamenti, i tamponamenti del processo primario. La sostanza fonica del linguaggio assume l'immanenza della cosa materiale, ricade al di qua (per tanto che queste formule abbiano un senso) della prima articolazione (unità significative), forse persino al di qua della seconda articolazione (unità distintive). I suoni (oppure le lettere) sono allora concepiti come gli atomi d'una sostanza non diversa da quella del corpo.


Può sembrare che ci sia qui una radicalità insuperabile del linguaggio. Trattare le parole 'come cose' sarebbe al principio dell'operazione profonda del linguaggio, poiché sembra che si sia detto tutto quando si è finalmente individuata una base 'materialistica'. Ma accade qui per il materialismo come in ogni altro campo. Il destino filosofico di questa teoria è di operare semplicemente un rovesciamento dell'idealismo, senza superare la speculazione senza fine, e mediante un semplice gioco di alternanza. É così che i concetti di 'cosa' e di 'materia', forgiati negativamente dall'idealismo come il proprio inferno, il proprio fantasma negativo, sono passati tranquillamente allo stadio di realtà positiva, anzi di principio rivoluzionario di spiegazione, senza perdere completamente questa astrazione che gli deriva dalla sua origine. L'idealismo ha fantasticato "nella rimozione" una certa 'materia', ed è quest'ultima, caricata di tutte le stigmate della rimozione idealistica, che risorge nel materialismo. Interroghiamoci bene su questo concetto di 'cosa' mediante il quale si vorrebbe racchiudere l'aldilà della rappresentazione. Eliminata ogni trascendenza, resta una materia bruta, opaca, 'oggettiva', un essere sostanziale, base molare, o molecolare, di pietra o di linguaggio. Ma non si vede che è l'ultimo colpo - e il più sottile - dell'idealismo aver racchiuso ciò che lo negava in questa sostanzialità irriducibile, legittimandolo così come referenziale opposto, come alibi, e scongiurandolo così in un 'effetto' di realtà, che diventa il miglior supporto del pensiero idealistico. La 'cosa', la 'sostanza', la 'infrastruttura', la 'materia' non hanno mai altro senso. E la teoria 'materialistica' del linguaggio cade nella medesima trappola di controdipendenza idealistica. Non è vero che le parole, quando escono dalla rappresentazione, quando perdono la ragione del segno, diventino delle 'cose', incarnando allora uno statuto più fondamentale dell'oggettività, un più di realtà, uno stadio ritrovato dell'ultima istanza. Non esiste controsenso peggiore.


Trattare le parole 'come cose'... per esprimere "LA" cosa: l'Inconscio, per materializzare un'energia latente. É sempre il trabocchetto dell'espressione, sennonché ciò che è qui positivizzato come referenziale è il rimosso, il non detto, l'indicibile, forse - ma che in qualche modo assume forza vigore di istanza, se non di sostanza. In definitiva, il pensiero occidentale non sopporta, non ha mai sopportato il vuoto della significazione, il "non-luogo" e il non valore. "Ha bisogno di una topica di una economica". Il riassorbimento radicale del segno inaugurato nel poetico (e indubbiamente anche nel "Witz") bisogna che ridiventi il segno decifrabile d'un non-detto, d'una cosa che forse non svelerà mai la sua cifra, ma che acquista con ciò unicamente maggior valore. So bene che la psicoanalisi non è una 'volgare' ermeneutica: essa è una delle più sottili, nella misura in cui, dietro l'operazione del materiale significante, ha sempre luogo un'altra cosa, un altro mondo, un'altra scena, di cui un discorso specializzato può scoprire le finzioni. Il godimento non è mai quello d'un consumo puro e semplice. Esso è sempre ciò che si metabolizza di libido in questa operazione, ciò che si 'parla' dal fondo dei fantasmi, ciò che si libera d'affetto. In breve, questo materiale linguistico è già finalizzato mediante una trasformazione (in questo caso, una trascrizione) positiva, è dipendente in anticipo dall'interpretazione che lo avvolge come la sua ragione analitica. 170 La 'Cosa' si nasconde, e nasconde qualcos'altro. Cercate la forza, cercate il significante.


 


Motivazione profonda del segno/sintomo, consustanzialità della parola e della cosa del destino di linguaggio e del destino di pulsione, della figura e della forza. Economia libidica il cui principio è sempre di metaforizzare (o metonimizzare) l'inconscio, il corpo, la libido, il fantasma, in un "disordine" di linguaggio. Nella motivazione linguistica, è l'arbitrarietà del segno che soccombe a un'analogia "positiva" del significante e della cosa significata. Nella motivazione psicoanalitica, è una necessità "capovolta" che lega il significante decostruito a un potenziale energetico primario. La motivazione appare qui come "trasgressione" d'una forma da parte d'un contenuto insurrezionale. É la surrealtà cieca della libido che viene a far scoppiare il principio di realtà e di trasparenza della "langue". É così che viene interpretato, nel migliore dei casi, il poetico: è il rumore vitale di Luciano Berio, è il teatro della crudeltà di Artaud, rantolo, grido, ansito, l'incanto e l'irruzione del corpo nello spazio repressivo interiorizzato della "langue". Irruzione di pulsioni parziali, che ritornano a galla, "sotto il suggello della repressione", trasgressive/regressive ad un tempo, perché questa liberazione non è precisamente che quella d'un contenuto rimosso, marcato in quanto tale dall'egemonia della forma.


É meglio che la brezza di Swinburne, ma è sempre una motivazione e una metafora. Metafora vitalistica, energetica, corporeistica, di questo teatro della crudeltà. E quindi finalistica, in ultima istanza, anche se si tratta d'una finalità selvaggia. Magia d'una 'liberazione' della forza originale (è nota l'affinità, spesso scabrosa, di Artaud con la magia e l'esorcismo, anzi il misticismo orgiastico ["Eliogabalo"]). La metafisica è sempre all'angolo, come è all'angolo della visione economica/energetica del processo inconscio (cioè, semplicemente, del concetto d'inconscio): tentazione metafisica della sostantificazione dell'Inc come "corpo", e quindi della finalità della sua liberazione. Illusione contemporanea della rimozione che rappresenta l'inconscio come contenuto, come forza. É il trionfo della forma circoscrivere come contenuto ciò che essa nega, e accerchiarlo in una finalità d'espressione di contenuto o di resurrezione di forze.


A questo punto, non c'è tanta differenza tra il linguistico e lo psicoanalitico: è sempre il medesimo tentativo di fondare il poetico nella connaturalità del discorso e del suo oggetto: 'La distanza delle parole alle cose è aggirata mediante l'uso di quanto di "cosale" vi è nella parola, attraverso la mediazione della sua carne, e dell'eco che la sua carne può fare, nella caverna della sensibiità, al rumore che vi susciterebbe la cosa' (Lyotard, "Discours, Figure", pag. 77). Così i linguisti cercheranno - nel migliore dei casi - di salvare il valore 'simbolico' della sonorità contro la tesi dell'arbitrarietà. Più avanti: 'La cosa non è "introdotta nel" linguaggio, ma la disposizione di quest'ultimo fa sbocciare sulle parole e tra di loro dei ritmi che formano una consonanza con quelli che susciterebbe sul nostro corpo la cosa di cui parla il discorso.' Quale miracolo fa consonare la 'cosa' e la parola per mezzo del corpo? Il ritmo? La metafora. Si tratta in effetti in tutto questo d'una "economia positiva della metafora" - l'idea d'una riconciliazione tra la 'cosa' e la parola restituita alla sua materialità. Ma ciò è falso. Se è vero che il discorso logico nega la materialità della parola (il "Wortk”rper"), il poetico non è affatto, per semplice inversione, resurrezione della parola come cosa. Lungi dal far apparire una cosa, esso mira a distruggere il linguaggio stesso come cosa. Il poetico è precisamente la volatilizzazione dello statuto "rispettivo" della cosa e del discorso. Cioè mira alla sterminazione del linguaggio come discorso, ma anche come materialità - non rimuovendola come fa il discorso, ma tenendone conto fino ad annientarla.


 


É così che Julia Kristeva, partendo da Eraclito e da Lucrezio, enuncia anche lei una teoria materialistica del significante: le parole "non esprimono" il reale (mutevole), lo "sono". Non attraverso la mediazione delle idee, ma grazie a questa consustanzialità (che è più che una 'corrispondenza') tra la cosa materiale e la sostanza fonica del linguaggio. Omologia con la psicoanalisi: se il linguaggio fa vedere l'inconscio, non è perché lo esprima, ma perché è della stessa struttura, perché si articola e parla allo stesso modo. Stesso taglio, stessa scena, stessa 'esecuzione', stesso lavoro. Laddove gli antichi dicevano il fuoco, l'acqua, l'aria, la terra, noi diciamo: il linguaggio, l'inconscio, il corpo.


Ma dire che il linguaggio fa vedere il fuoco, l'aria, l'acqua, la terra (o il lavoro dell'inconscio) perché è esso stesso elemento, sostanza elementare in affinità diretta con tutte le altre, è a un tempo più radicale di qualsiasi 'motivazione' psiconaturalistica - e anche lontanissimo dalla verità. Manca tutto un capovolgimento: è a condizione di capire che il fuoco, l'acqua, la terra, l'aria non sono né dei valori, né degli elementi "positivi", ma una metafora della continua dissoluzione del valore, dello scambio simbolico del mondo - che non sono delle sostanze, ma delle "antisostanze", delle antimaterie - è in questo senso che si può dire che il linguaggio si riunisce a loro, quando è strappato alla logica del segno e del valore. É questo che dicevano gli antichi miti sugli elementi, è questo il mito eracliteo e nietzschiano del divenire - ed è in questo che essi erano poetici, e ben superiori a qualsiasi interpretazione analitica che, invece, traspone questa dissoluzione in istanza nascosta d'un non detto, trasparente da un non-dire, o da un dire-altro.


Nell'operazione simbolica, nessun referenziale materialistico, nemmeno 'inconscio'. Piuttosto un'operazione 'antimateria'. Attenti alla fantascienza, ma è vero che esiste qualche analogia fra una particella e la sua antiparticella, il cui incontro si risolve in un annientamento reciproco (accompagnato, come per sovrappiù, da un'energia favolosa), e il principio della vocale e della sua controvocale in Saussure, o più generalmente di qualsiasi significante e del suo doppio anagrammatico che lo abolisce: anche qui non resta nulla, se non un godimento favoloso.


Kristeva: 'In quest'altro spazio, in cui le leggi logiche della "parole" vengono fatte vacillare, il soggetto si dissolve e, al posto del segno, s'instaura l'urto di significanti che si annullano l'un l'altro. Un'operazione di negatività generalizzata, che non ha niente a che vedere con la negatività che costituisce il giudizio ("Aufhebung") né con la negatività interna al giudizio (logica 0-1), una negatività che annienta (buddhismo: "sunyavada"). Un soggetto zerologico, un non-soggetto che viene ad assumere questo pensiero che si annulla.'


 


"Al di là dell'inconscio."


La questione è questa: l'inconscio, questa energia, questo potenziale d'affetto che, nella sua rimozione e attraverso il suo lavoro, è alla base del disordine, dello spostamento 'espressivo' dell'ordine del discorso e oppone il suo processo primario ai processi secondari - vi sono buone ragioni per farne l'ipotesi nel processo del poetico? E tutto è collegato, evidentemente: se l'inconscio è questa istanza irreversibile, allora la dualità processo primario/processo secondario è anch'essa irriducibile, e il lavoro del senso non può consistere che nel ritorno del rimosso di questo nella sua trasparenza nell'istanza rimovente del discorso. A questo riguardo, non c'è nessuna differenza fra il poetico e il nevrotico, tra il poema e il lapsus. Noi prendiamo atto della radicalità della psicoanalisi: se i processi primari 'esistono', sono all'opera dovunque, e sono dovunque determinanti. Ma inversamente, la semplice ipotesi d'un ordine diverso, d'un ordine del simbolico che costituirebbe l'economia dell'inconscio, del divieto e della rimozione, e che risolverebbe a fondo la distinzione stessa fra processo primario e processo secondario - questa semplice ipotesi è sufficiente a relativizzare tutta la prospettiva psicoanalitica, e non soltanto sui terreni marginali per essa, ma dove sconfina sovrana (antropologia, poetica, politica, eccetera): sul suo stesso terreno, nell'analisi psichica, nella nevrosi e nella terapia. Per citare Mannoni, non è escluso che la psicoanalisi, che nasce dalla distinzione tra processo primario e processo secondario, muoia un giorno dell'abolizione di questa distinzione. Il simbolico è già "questo al di là dell'inconscio e della psicoanalisi", questo al di là dell'economia libidica, come è al di là del valore e dell'economia politica.


É necessario comprendere che i processi simbolici (reversibilità, dispersione anagrammatica, riassorbimento senza residuo) non si confondono affatto con i processi primari (spostamento, condensazione, rimozione). Vi si oppongono, anche se entrambi gli insiemi si oppongono al discorso logico del senso. É questa notevole differenza (anche per quanto riguarda il godimento) che fa sì che un sogno, un lapsus, un motto di spirito non siano un'opera o un poema. Differenza tra il simbolico e l'inconscio libidico, oggi largamente cancellata dal privilegio della psicoanalisi, ma che bisogna ristabilire - impedire alla psicoanalisi di sconfinare là dove non ha nulla da dire: sul poetico (l'opera d'arte), sul simbolico, sull'antropologia (primitiva), né Freud né Marx hanno nulla da dire, se non di riduttivo, l'uno al modo di produzione, l'altro alla rimozione e alla castrazione. Là dove la psicanalisi e il marxismo s'incagliano, non bisogna voler far fare loro il volo dell'angelo (e della bestia), bisogna analizzarli senza pietà in funzione di ciò che loro sfugge. Questi limiti dell'uno e dell'altra sono oggi i punti strategici di qualsiasi analisi rivoluzionaria.


Marx crede di ricuperare l'istanza fondamentale nell'economico e nel suo processo dialettico. In realtà ricupera, "attraverso" l'economico e le sue convulsioni, ciò che lo assilla sintomaticamente: la "stessa separazione di questo economico in quanto istanza". Ciò che attraversa l'economico, lo conflittualizza, ne fa il luogo di contraddizioni, ciò che queste contraddizioni, per violente che siano, razionalizzano a modo loro, è l'autonomizzazione fantastica dell'economico elevato al livello di principio di realtà.


"Ma questo è vero anche della psicoanalisi": sotto i termini d'inconscio e di lavoro dell'inconscio, Freud ricupera come istanza fondamentale ciò che, anche qui, è il risultato, sotto forma di psichismo individuale, d'una frattura del simbolico. I rapporti conflittuali conscio/inconscio non fanno che tradurre l'assillo di questa stessa separazione dello psichico in quanto tale. La topica freudiana (Inc/Prec/C) non fa che formalizzare e teorizzare come dato originario ciò che è il risultato d'una destrutturazione.


L'analisi di Marx e di Freud è critica. Ma né l'una né l'altra lo sono in rapporto alla separazione rispettiva del loro campo. Esse non sono coscienti della "coupure" che le onda. Sono sintomatologie critiche che, sottilmente, fanno del loro rispettivo campo sintomatico il campo determinante. Processi primari, modo di produzione: parole 'radicali', schemi di determinazione irriducibili. É a questo titolo che esportano i loro concetti e si imperializzano.


Marxismo e psicoanalisi cercano ora di mescolarsi, di scambiare i loro concetti. Logicamente in effetti, se dipendessero entrambi dalla critica 'radicale', dovrebbero poterlo fare. Tutte fandonie. É il fantasma e lo scacco del freudo-marxismo in tutte le sue forme. Ora, la ragione profonda dello scacco continuo di questo transfert di concetti, ciò per cui non è che metafora disperata sia da una parte che dall'altra - è precisamente che sia il marxismo sia la psicoanalisi hanno coerenza esclusivamente nella loro circoscrizione parziale (nel loro disconoscimento), e non sono quindi generalizzabili come schemi d'analisi.


Né la loro 'sintesi', né la loro contaminazione - solo la loro s-terminazione rispettiva può fondare una teoria radicale. Marxismo e psicoanalisi sono in crisi. Bisogna far scontrare e precipitare la loro rispettiva crisi, piuttosto che puntellare l'uno con l'altra. Possono farsi ancora reciprocamente molto male. Non bisogna privarsi di questo spettacolo. Non sono che campi critici.