martedì 21 ottobre 2025

Riconoscere lo Stato palestinese e fingere che Hamas non esista Filippo Piperno

 


RICONOSCERE LO STATO PALESTINESE E FINGERE CHE HAMAS NON ESISTA 

 Filippo Piperno 

 22/09/2025


Nel giorno in cui Regno Unito, Canada e Australia riconoscono lo “Stato di Palestina” è utile fare una riflessione sulla circostanza che questo gesto dal significato simbolico sembra soprattutto una punizione alla condotta del governo israeliano dal 7 ottobre 2023 in poi.

In secondo luogo, è una conferma che in Occidente esiste nel racconto pubblico del conflitto israelo-palestinese un cortocircuito che raramente viene discusso: il diverso metro con cui viene giudicata la responsabilità collettiva.

Quando si parla di Palestina e palestinesi la narrazione dominante è che Hamas rappresenta un attore separato, quasi un corpo estraneo al popolo palestinese e non il partito che governa Gaza dal 2006. Sembra quasi che Hamas, per citare una recente provocazione di Pif, stia ai palestinesi come la mafia ai siciliani.


Per cui oggi gli inglesi, canadesi e australiani ritengono di riconoscere uno Stato palestinese, facendo finta che Hamas non esista. Per gli israeliani questo riconoscimento è invece un premio dato proprio ad Hamas.

Sul versante israeliano, la narrativa si ribalta. Le azioni del governo sono per lo più imputate a tutti i cittadini. In questo caso, la democrazia israeliana diventa l’alibi per distribuire la colpa a pioggia: “se l’hanno votato, allora se lo meritano”. Eppure, anche qui i numeri raccontano una storia diversa: il Paese è spaccato, l’opposizione è visibile, centinaia di migliaia di israeliani hanno contestato in piazza le politiche di Netanyahu ben prima dello scoppio della guerra. Ma questo pluralismo tende a sparire nella percezione esterna, che vede Israele come un blocco monolitico.

Il “paradosso” è che l’estensione della responsabilità non si ferma ai confini dello Stato ebraico. L’operato del governo israeliano ricade anche sugli ebrei della diaspora: studenti, professionisti, cittadini di altri Paesi ma di origine ebraica che si trovano additati come complici di decisioni che non hanno mai preso. È un meccanismo che riattiva, con nuove parole, un’antica idea di colpa collettiva.

Agli ebrei non israeliani si chiede di dissociarsi da Israele come fossero oggettivamente e collettivamente associabili allo Stato d’Israele mentre i cittadini israeliani, che siano o meno elettori del governo Netanyahu, che siano o meno d’accordo con le politiche del governo vengono discriminati dai locali pubblici, dalle fiere, dai festival.

Si dirà, e lo dicono quasi tutti sui giornali, in tv, nei salotti, nei bar e negli atenei che Israele è uno Stato che sta commettendo crimini di guerra. Ma anche la Russia sta commettendo crimini di guerra in Ucraina e francamente nel mondo non mancano Stati criminali e liberticidi che andrebbero pubblicamente esecrati con lo stesso metro e soprattutto con lo stesso zelo adoperati per Israele.

Quando si parla dei palestinesi avviene invece che le responsabilità degli orrori di Hamas siano solo di Hamas. Nessuno, la mattina dell’8 ottobre 2023, si è sognato di discriminare un palestinese in un bar. Nessuno, dopo la strage compiuta da Hamas, ha esteso la propria indignazione a cittadini di religione mussulmana come avviene per gli ebrei in giro per il mondo, rispetto alle responsabilità d’Israele.


Certo, è presumibile che non tutti i palestinesi di Gaza sostengano Hamas, che molti ne subiscono la violenza, che molti siano paralizzati dal terrore e qualche centinaio di persone ha effettivamente manifestato contro Hamas ma resta, quello della presenza di un’opposizione a Gaza, un dato solo presumibile perché l’assenza di elezioni politiche e di sondaggi d’opinione o quant’altro non consente di avere certezze. Per cui la stradominante vulgata che separa nettamente “Hamas” da “i palestinesi” resta una presunzione (che comunque non sarebbe esente da alcune controdeduzioni).


Non si tratta di lana caprina e non si sta cercando di avvalorare la tesi che tutti i palestinesi siano sodali con Hamas. Ma è una questione dirimente rispetto a quanto sta accadendo a Gaza e alla condotta della guerra intrapresa da Israele.


L’assenza di una forza palestinese alternativa, organizzata e autorevole (e visibile), che si opponga apertamente a Hamas, finisce per rafforzare la narrativa israeliana (soprattutto quella più estremista) secondo cui palestinesi e Hamas sono una cosa sola.


Eppure esistono palestinesi critici verso Hamas: ci sono movimenti civili, attivisti, figure politiche in Cisgiordania e nella diaspora che da anni denunciano l’autoritarismo del gruppo e la sua gestione militare. Ma il problema è la loro irrilevanza sul piano del potere e della visibilità politica.


Questa situazione – e mi sembra che non lo si dica abbastanza – è una colpa oggettiva della società palestinese nel suo complesso anche se c’è qualcuno che cerca di farla ricadere (anche questa!) sulla testa di Netanyahu.


Sono passati quasi vent’anni dalle ultime elezioni legislative palestinesi. Tenute nel gennaio 2006, furono vinte da Hamas che sconfisse Fatah, il partito storico di Yasser Arafat e Mahmoud Abbas.


Da quel momento in poi la scena politica palestinese è entrata in un vicolo cieco e con lei ogni ipotesi di accordo con Israele, ogni idea di possibile convivenza tra i due popoli venne soppiantata dalla visione di Hamas: Free Palestine from the river to the sea.


La vittoria di Hamas con il suo corollario di scontro frontale all’ultimo sangue rafforzò la posizione di chi in Israele aveva sempre combattuto l’idea di un accordo possibile con i palestinesi, di quelle forze politiche che usavano i nuovi insediamenti abitativi anche come disconoscimento de facto del diritto dei palestinesi a quelle terre.


Però Hamas fu votata dai palestinesi non dai coloni.


Quando nel 2007 i due movimenti si sono spartiti il potere – Hamas prese con la forza il controllo della Striscia di Gaza, mentre Fatah mantenne la Cisgiordania – senza sino ad oggi trovare un terreno comune per organizzare elezioni congiunte (per paura di perdere il controllo dei rispettivi territori) si può considerare o no una responsabilità palestinese?


Se dalla morte di Arafat i palestinesi sono stati capaci di realizzare un sistema bloccato in cui i due acerrimi nemici Hamas e Fatah si legittimano a vicenda come unici interlocutori possibili senza nessuno spazio per una leadership nuova e alternativa, né in patria né in esilio, a chi dare la colpa?


A chi possiamo intestare la responsabilità del fatto che la popolazione palestinese resta priva di un vero processo democratico dal 2006 e la frattura tra le due principali forze politiche continua a rimanere uno degli ostacoli centrali non solo per la rappresentanza interna, ma anche per qualsiasi ipotesi di soluzione del conflitto con Israele?


E di chi è la responsabilità se l’ingente mole di finanziamenti internazionali piovuta nelle tasche dei palestinesi è stata utilizzata da Hamas per l’arricchimento personale dei suoi leader e la preparazione di una guerra senza quartiere con Israele, di cui il 7 ottobre è stata una plastica rappresentazione?


Se ci si attanaglia per l’avanzata delle forze populiste, sovraniste e autoritarie in tutto l’Occidente, se si rimprovera all’elettorato israeliano di tenere al governo del proprio paese da quasi un trentennio Bibi Netanyahu e il suo codazzo di partiti religiosi ed estremisti, coerentemente non si dovrebbe biasimare la società palestinese per tutto ciò che non è stata in grado di fare e ancora di più per ciò che è stata in grado di fare?


Sono domande che rivolgiamo ovviamente alle persone di buona volontà e non agli odiatori dell’Occidente “colonialista e suprematista” che tifano sempre per il tanto peggio tanto meglio, si chiami Putin o Hamas. E men che meno agli antisemiti in servizio permanente ed effettivo che ancora non si sono rassegnati alla circostanza che l’ebreo errante si sia costruito una casa e un esercito e non debba più implorare per avere salva la propria vita.


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5 thoughts on “Riconoscere lo Stato palestinese e fingere che Hamas non esista”

rolm

22/09/2025 alle 1:56 pm

Un territorio per essere riconosciuto come Stato non è necessario che intraprenda un processo democratico. Molti Paesi al mondo riconosciuti sono dittature o autoritari, o lo sono diventati dopo.

Resta la questione che se un vicino di uno Stato già ampiamente riconosciuto non riconosce la legittima esistenza di questo Stato, allora è difficile che dall’altra parte si possa arrivare a conclusioni diverse.

Comunque dai fatti passati e presenti tra scontri, uccisioni e trattative in qualche modo le due entità si riconoscono, pur in maniera indiretta; questo perché nessun accordo ufficiale è stato firmato da entrambe le parti.

Quindi non vedo cosa cambierebbe se uno Stato palestinese venisse riconosciuto a livello mondiale, quando questo ancora molto probabilmente non vorrebbe riconoscere lo Stato già esistente di Israele.

I Paesi che riconoscono l’esistenza di uno Stato palestinese dovrebbero fare pressione su quest’ultimo e non su Israele, per arrivare a un probabile e possibile riconoscimento reciproco ed eventualmente a una fine delle ostilità formalizzata da accordi e trattati.


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Luciano Roffi

22/09/2025 alle 12:55 pm

Condiviso su Facebook. Come ho già detto non è possibile dire “mi piace” perché compare un ineliminabile videata world press 🤷‍♂️


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Gian Paolo Aloi

22/09/2025 alle 9:29 am

Dovreste ricordare le parole pronunciate ieri da Ghazi Hamad sul riconoscimento dello Stato della Palestina da parte del Canada, della Francia e della Gran Bretagna


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Giorgio Tortorella

22/09/2025 alle 9:09 am

Proprio un paio di settimane fa, a una cena, un conoscente, persona seria con ascendenza ebraica da parte di padre, mi ha chiesto come sta mia moglie, che è Inglese, disabile, ed ebrea. Quando ho risposto che lo stress causato dagli attacchi antisemiti in UK sta avendo effetti nefasti sulla sua salute mentale (e, di riflesso, su quella fisica), mi sono sentito rispondere che, se gli ebrei inglesi vengono attaccati, la colpa è di Netanyahu. Non ho potuto trattenermi dal contro-argomentare. Per fortuna i toni, per quanto accesi, sono rimasti corretti e il rapporto non è andato distrutto. Purtroppo però, a ogni occasione sociale temo di trovarmi a dover escludere amici dalla mia vita.


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G.T.

22/09/2025 alle 8:56 am

Riconoscere oggi uno “Stato di Palestina” significa premiare il terrorismo del 7 ottobre e legittimare un’entità priva di confini, di governo sovrano, di istituzioni democratiche: un fantasma che viola i criteri stessi del diritto internazionale.

I palestinesi hanno sempre rifiutato ogni proposta di pace concreta – da Camp David a Olmert, fino al “deal of the century” – mentre la loro leadership resta divisa fra corruzione (Fatah) e jihadismo (Hamas). L’idea degli Stati “riconoscenti”, secondo cui il riconoscimento rafforzerebbe i moderati è un travisamento della realtà: non sono le istituzioni a creare i moderati, ma i moderati a dover prima conquistare il potere. E moderati tra le fila dei gazawiti e residenti di Giudea e Samaria non ce ne sono: prove me wrong.

Chi invoca “due popoli, due Stati” dimentica che la Giordania è già nata dal Mandato britannico e che, nei testi arabi, non si parla di coesistenza ma di cancellazione di Israele “dal fiume al mare”.

Un riconoscimento del genere non porterà pace, ma consoliderà la menzogna, tradendo il diritto e la verità storica.