GIULIO CESARE
William Shakespeare
Traduzione di J. Rodolfo Wilcock
Recensione
Il Giulio Cesare di William Shakespeare racconta i suoi ultimi giorni di vita, ma anche e soprattutto i fatti successivi alla sua morte, fino alla decisiva battaglia di Filippi (42 a.C.) tra Antonio e Ottaviano, da una parte, e Bruto e Cassio dall'altra, i due principali artefici della congiura che portò all'assassinio di Cesare nelle idi di marzo dell'anno 44 a.C.
La commedia è sì incentrata sulla figura di Cesare, ma il vero protagonista della tragedia sembra essere Bruto, personaggio sempre alle prese con scrupoli etici, caratterizzato come persona integerrima, che decide di partecipare all'assassinio di Cesare soltanto per amore di Roma e della libertà e a scapito dei suoi rapporti con Cesare.
I due atti conclusivi sono quasi interamente dedicati a Bruto e al suo rapporto con Cassio, colui che lo ha convinto a uccidere Cesare e che rappresenta, invece, la malignità e la cattiveria.
Quanto a Cesare, dunque, non sembrerebbe il protagonista, anche se è attorno lui che ruota tutto l'intreccio.
Le sue battute, infatti, non sono moltissime, e anche se alcune sono memorabili. Ricordiamone una: "I codardi muoiono molte volte prima della loro dipartita; gli audaci non conoscono la morte che una volta sola".
Anche Marco Antonio è personaggio fondamentale, mentre viene praticamente quasi ignorato Ottaviano, a cui vengono lasciate poche battute di importanza secondaria, se si fa eccezione per quella che conclude la tragedia, che però è storicamente non veritiera (Ottaviano rende onore alla salma di Bruto, quando invece pare che ne esigette la decapitazione, per mandare la testa a Roma come segno della compiuta vendetta).
GIULIO CESARE
ATTO I
SCENA PRIMA
Roma. Una strada.
(Entrano Flavio, Marullo, e alcuni Popolani).
FLAVIO A casa fannulloni, tornate a casa!
Forse oggi è festa? Oggi si lavora;
voi artigiani quindi non potete
girare senza gli arnesi del mestiere.
Che mestiere fai tu?
1° POPOLANO Il falegname.
MARULLO E dov’è il regolo, e il grembiule di cuoio?
Perché ti sei vestito a festa?
E tu, là, che mestiere fai?
2° POPOL. Faccio un mestiere molto impegnativo: rammendo i buchi sotto le persone.
FLAVIO E che mestiere sarebbe, insolente?
2° POPOL. Chiedo scusa, signore, faccio ammenda. Io sono quello, ho detto, che vi rammenda. Sotto, signore.
MARULLO Che vuoi dire, burlone? Che mi rammenda!
2° POPOL. E che vi fa le scarpe.
MARULLO Sei ciabattino, insomma.
2° POPOL. Uno che campa a forza di trincetto. Sono il chirurgo delle scarpe vecchie: quando già stanno per tirare il cuoio, ci pratico una sutura.
FLAVIO Ma perché mai non sei oggi in bottega?
Perché ti porti dietro quella gente?
2° POPOL. Perché si logorino le scarpe, e io lavoro. No, scherzo, abbiamo chiuso per Giulio Cesare, per vederlo e goderci il suo trionfo.
MARULLO Godere che? Che conquiste ci porta?
Che tributari lo seguono a Roma
incatenati alle ruote del carro?
Siete di legno?, peggio del sasso inerte?,
o cuori duri, voi romani crudeli!,
non ricordate Pompeo? Quante volte
vi siete arrampicati sulle muraglie,
sulle torri e finestre, e anche sui tetti,
con i bambini in braccio, e il giorno intero
avete lì aspettato per vedere
Pompeo il grande per le strade di Roma?
E non appena si affacciava il suo carro,
non lanciavate un urlo universale
da far tremare il Tevere nel suo letto,
con l’eco ripetuta delle grida
che si mandavano le sue rive concave?
E adesso vi vestite a festa tutti,
e approfittate per chiudere bottega,
e spargete dei fiori sulla strada
di uno che trionfa sul sangue di Pompeo?
Tornate a casa, a pregare gli dèi
di rimandare la peste sicura
che punirà la vostra ingratitudine.
FLAVIO Andate, amici, e per fare ammenda,
chiamate i popolani come voi
sulle sponde del Tevere; e lì piangete
giù nel letto del fiume, finché il torrente
non bacerà le rive più esaltate.
(Escono i Popolani).
Vedi, il metallo più vile si commuove:
se ne vanno, colpevoli, a bocca chiusa.
Vai tu di qua, verso il Campidoglio,
io invece vado di là: spoglia le statue,
se mai ne trovi qualcuna addobbata.
MARULLO Possiamo? Oggi è la festa dei Lupercali.
FLAVIO Non ha importanza: che nessuna statua
porti i trofei di Cesare. Farò un giro
per scacciare la gente dalla strada;
tu fai lo stesso, se ne vedi molta.
Così, strappando dall’ala di Cesare
le piume nuove, lo costringeremo
a volare a un’altezza ragionevole;
quello, altrimenti, si perde di vista
e ci fa schiavi tutti della paura.
(Escono).
SCENA SECONDA
Roma. Una pubblica piazza.
(Entrano in solenne processione, con musica, Cesare, Antonio pronto per la corsa, Calpurnia, Porzia, Decimo, Cicerone, Bruto, Cassio, Casca, un Indovino, e dopo di loro Marullo e Flavio, seguiti da una gran folla).
CESARE Calpurnia!
CASCA Silenzio! Parla Cesare!
(La processione si ferma, la musica cessa).
CESARE Calpurnia!
CALPURNIA Eccomi, Cesare.
CESARE Cerca di metterti sulla strada di Antonio
quando fa la sua corsa. Antonio!
ANTONIO Cesare, dimmi.
CESARE Non ti dimenticare, mentre corri,
di toccare Calpurnia; i nostri vecchi
dicono infatti che le donne sterili,
se uno le tocca nella corsa sacra,
spesso si liberano dalla sterilità.
ANTONIO Me ne ricorderò. Basta che Cesare dica «Fa’ questo», e la cosa è già fatta.
CESARE Cominciate. Non trascurate nessuna cerimonia.
(Musica, di nuovo).
INDOVINO Cesare!
CESARE Zitti! Chi chiama?
CASCA Silenzio tutti! Non fate rumore!
CESARE Chi è che mi ha chiamato tra la folla?
Sento una lingua più forte di ogni musica,
che chiama Cesare. Parla, sconosciuto!
Cesare si è voltato per ascoltare.
INDOVINO Sta’ attento agli Idi di marzo.
CESARE Chi è quell’uomo?
BRUTO Un indovino: ha detto di stare attento agli Idi di marzo.
CESARE Voglio vederlo in faccia; che si avvicini.
CASSIO Esci, tu, e guarda Cesare in faccia.
CESARE Che mi vuoi dire, adesso? Parla.
INDOVINO Sta’ attento agli Idi di marzo.
CESARE È un visionario; non ci badiamo. Su.
(Escono tutti, tranne Bruto e Cassio).
CASSIO Non vuoi venire a vedere la corsa?
BRUTO Non ne ho intenzione.
CASSIO Vieni, ti prego.
BRUTO Non sono fatto per i giochi, non ho
quella vivacità di spirito di Antonio.
Ma ti trattengo, Cassio. Va’, ti saluto.
CASSIO Bruto, da un po’ di tempo mi sono accorto
che in te non trovo più quella attenzione,
quelle mostre di affetto che usavi prima.
Tiri le redini con mano dura,
quasi ostile, all’amico che ti vuol bene.
BRUTO Ti inganni, Cassio: se il mio sguardo è velato,
questo suo turbamento si rivolge
solo a me stesso. Negli ultimi tempi
mi assillano passioni contrastanti,
pensieri buoni soltanto per me stesso,
che forse intorbidiscono la mia condotta.
Ma ciò non deve affliggere i miei amici
(tra i quali ho sempre annoverato te)
né altro dovete arguire da questa incuria,
se non che Bruto, in guerra con se stesso,
non sa più dare agli altri mostre d’affetto.
CASSIO Vedo; ho frainteso il tuo atteggiamento:
e così intanto mi tenevo per me
certi pensieri, riflessioni importanti...
Dimmi, buon Bruto, puoi vederti in faccia?
BRUTO No, Cassio, perché l’occhio non si vede se non riflesso su qualche altra cosa.
CASSIO Giusto, e tutti rimpiangono, Bruto, assai,
che tu non abbia un tale specchio, in grado
di mostrarti i tuoi meriti nascosti;
così vedresti te stesso. Mi hanno detto
che molti uomini tra i migliori di Roma
(eccetto Cesare immortale) parlando
di te e dell’oppressione di questi tempi,
commentano: Se Bruto avesse occhi!
BRUTO In che pericoli vorresti cacciarmi?
Perché mi chiedi di cercare in me stesso
quello che in me non c’è?
CASSIO Allora, caro Bruto, sta’ a sentire:
giacché te stesso non ti puoi vedere
se non riflesso, io, Cassio, il tuo specchio,
modestamente rivelerò a te stesso
ciò che tu stesso forse non sai di te.
Non diffidare di me, Bruto gentile:
se io fossi un buffone ordinario,
o usassi sbandierare la mia amicizia
coi più volgari giuramenti a tutti;
uno che ti sorride, ti abbraccia forte
e poi sparla di te; se tu sapessi
che ho l’abitudine di offrirmi nei conviti
col cuore in mano a tutta la compagnia,
potresti allora credermi pericoloso.
(Squilli di tromba e grida).
BRUTO Che sono queste grida? Ho paura che il popolo
voglia eleggere Cesare re.
CASSIO Ah, ne hai paura? Debbo allora pensare
che a te la cosa non piacerebbe molto.
BRUTO Infatti; eppure gli voglio molto bene.
Ma perché mi trattieni così a lungo?
Forse vorresti confidarmi qualcosa?
S’è cosa che ha a che fare col bene pubblico,
mettimi qua l’onore e qua la morte,
e io saprò guardarli imparzialmente;
perché, gli dèi mi accechino!, se non amo
l’onore più di quanto temo la morte.
CASSIO Conosco, Bruto, questa virtù ch’è in te,
come conosco il tuo aspetto esteriore.
Ecco, l’onore è il tema del mio discorso.
Non so davvero che ne pensate voi
di questa vita; ma, per conto mio,
meglio non vivere, piuttosto che vivere
in soggezione a uno ch’è pari a me.
Son nato libero – e anche tu – come Cesare;
quel che ha mangiato, l’abbiam mangiato noi;
e tutt’e due possiamo sopportare
il gelo dell’inverno come lui.
Ricordo, una giornata che tirava
un vento freddo e il Tevere infuriato
sferzava le sue sponde, mi disse Cesare:
«Cassio, saresti capace di buttarti
in questo fiume arrabbiato, con me,
e di nuotare fin là?». Appena detto,
così vestito mi tuffai nell’acqua,
e lo chiamai e lui mi venne dietro.
Il torrente ruggiva ai nostri schiaffi,
e noi lo si scansava e arginava
con gran bracciate e la contesa in cuore.
Ma prima di arrivare al punto detto,
Cesare urlò: «Aiuto, Cassio, annego!».
E come Enea nostro grande antenato
salvò dal fuoco di Troia il vecchio Anchise
sulle sue spalle, io dalle onde del Tevere
trassi Cesare stanco; e ora quest’uomo
è diventato un dio, e Cassio invece
è un poveraccio che deve inchinarsi
se Cesare distratto gli fa un cenno.
Ebbe la febbre, quando era in Spagna;
e quando gli prendeva, io l’ho visto
come tremava, sì, il dio tremava;
il colore codardo era fuggito
dalle sue labbra, e quell’occhio stesso
che con lo sguardo fa tremare il mondo
si era appannato; e lo sentivo gemere;
già, quella lingua che ordinò ai romani
di registrare in libri i suoi discorsi
gemeva: «Dammi da bere, Titinio»,
come una femminuccia. O santi dèi,
mi stupisce che un uomo di questa tempra
possa sopravanzare ogni maestà
del mondo e coglierne da solo la palma!
(Squilli di tromba. Grida).
BRUTO Ancora un urlo della folla!
Penso che applaudono per qualche nuovo onore
che gli staranno rovesciando sul capo.
CASSIO Ma sì, è a cavalcioni del magro mondo
come un Colosso; e noi meschinelli
gli camminiamo sotto le immense gambe
sbirciando in cerca di una tomba indegna.
L’uomo è padrone del suo destino, a volte;
la colpa, caro, non è delle stelle,
ma nostra, perché siamo sottomessi.
Bruto e Cesare: che c’è poi in quel Cesare?
Perché quel nome echeggia più del tuo?
Scrivili insieme, il tuo vale il suo;
dilli, e non è meno adatto alla bocca;
pesali, e pesa quanto il suo; scongiura,
e Bruto ti fa sorgere uno spirito
con la medesima rapidità che Cesare.
Ma per il nome degli dèi tutti insieme,
che cosa mangia questo nostro Cesare,
ch’è diventato così grosso? Vergognati,
secolo: Roma ha perduto il suo seme
di anime nobili! Quando mai, dal diluvio,
Roma fu rinomata per un sol’uomo?
Quando mai dissero che le sue larghe mura
racchiudevano un uomo solamente?
Come avrà fatto a restringersi tanto?
Oh i nostri padri ci hanno parlato spesso
di un altro Bruto che avrebbe preferito
vedere in trono a Roma l’eterno diavolo
piuttosto che un monarca!
BRUTO Che mi vuoi bene, non lo metto in dubbio;
dove vuoi arrivare, posso intuirlo;
che ne penso e che penso di questi tempi,
te lo spiegherò dopo; per adesso
io proporrei, se te lo posso chiedere,
di non parlarne più. Su ciò che hai detto,
rifletterò; quel che mi vorrai dire,
l’ascolterò; cercheremo il momento
più adatto per discutere argomenti
così importanti. Nel frattempo, ricorda,
nobile amico mio: Marco Bruto
preferirebbe essere un contadino
piuttosto che chiamarsi figlio di Roma
in circostanze così poco allegre
come quelle che i tempi ci preparano.
CASSIO Ringrazio le mie deboli parole
se in te hanno acceso quel tanto di fuoco.
BRUTO Cesare torna; i giochi sono finiti.
(Entra Cesare, con il suo seguito).
CASSIO Da’ una tirata di manica a Casca,
quando passa, vedrai che ci racconta
con il suo solito stile sarcastico
quel ch’è successo oggi di notevole.
BRUTO D’accordo. Guarda come brilla il segno
dell’ira cupa sulla fronte di Cesare;
e gli altri con la coda tra le gambe;
Calpurnia è pallida, Cicerone ha negli occhi
quello sguardo infiammato di furetto
che a volte gli si vede in Campidoglio
quando lo fa arrabbiare un senatore.
CASSIO Ci dirà Casca che cos’è successo.
CESARE Antonio.
ANTONIO Cesare.
CESARE Vorrei vedermi intorno gente grassa,
ben pettinata, che dorme di notte;
quel Cassio lì ha un’aria magra e famelica;
pensa troppo; quei tipi sono un pericolo.
ANTONIO Non è pericoloso, non temere;
è un nobile romano, brava persona.
CESARE Vorrei fosse più grasso. Ma non lo temo.
Eppure se il mio nome fosse accessibile
alla paura, non so chi eviterei
più di quel Cassio smunto. Legge troppo;
è un gran osservatore, e sa vedere
in fondo ai fatti. Non gli piace il teatro
come a te, Antonio; non ascolta musica;
di rado ride, e se lo fa è in un modo,
come burlandosi di se stesso, per scherno
per aver potuto ridere di qualcosa.
Quegli individui sono sempre a disagio,
se vedono qualcuno di più grande;
e perciò sono molto pericolosi.
Dico soltanto quel ch’è da temere,
non che lo temo: sono pur sempre Cesare.
Passa a destra – non sento da questo orecchio –
e dimmi veramente che ne pensi.
(Fanfara. Escono Cesare e il suo seguito).
CASCA Mi hai fatto un cenno; mi volevi parlare?
BRUTO Sì, Casca, dicci ch’è successo oggi, che Cesare è così nero.
CASCA Ma tu non eri lì con lui?
BRUTO Non ti avrei chiesto allora ch’è successo.
CASCA Ebbene, gli hanno offerto una corona,
e lui l’ha respinta, con il dorso della mano,
così; e allora tutti l’hanno acclamato.
BRUTO E la seconda volta?
CASCA Lo stesso.
CASSIO Tre volte, hanno urlato. Ch’è stato la terza volta?
CASCA Sempre lo stesso.
BRUTO Tre volte, gli hanno offerto la corona?
CASCA Infatti, e tre volte l’ha respinta; ma sempre con meno entusiasmo; e ogni volta che la rifiutava, questi onesti lavoratori lo acclamavano.
CASSIO Chi, gli ha offerto la corona?
CASCA Antonio, capirai.
BRUTO Raccontaci, buon Casca, tutto in bell’ordine.
CASCA Altro che bell’ordine! Una cosa senza senso, una buffonata... Non ci ho fatto caso. Ho visto che Marc’Antonio gli offriva una corona... ma non era nemmeno una corona, solo una coronina... e come vi ho detto, l’ha respinta una volta; ma a me è parso che l’avrebbe presa volentieri. Poi gliel’hanno offerta di nuovo, e di nuovo l’ha respinta; ma a me è parso che le dita gli rimanevano piuttosto attaccate. E poi l’Antonio gliel’ha offerta di nuovo; e per la terza volta l’ha respinta e intanto la folla strillava, e batteva le mani tozze, e scagliava per aria i berretti sudati, e tanto fiato pestifero mandavano tutti, al rifiuto di Cesare, che quasi l’hanno fatto soffocare. Infatti è svenuto e caduto. Quanto a me, non osavo nemmeno ridere, per paura di aprire la bocca in mezzo a quel tanfo.
CASSIO Aspetta, prego. Come hai detto? È svenuto?
CASCA In pieno Foro è caduto, con la bava alla bocca, senza parola.
BRUTO Ci credo, ha il mal caduco.
CASSIO No, non è lui che ha il mal caduco, ma io e te, e questo onesto Casca.
CASCA Non so che vuoi dire, ma comunque sono ben sicuro che Cesare è caduto. E non mi crederete se vi dico come quella plebaglia lo applaudiva e lo fischiava, quando gli andava o non gli andava a genio, come fanno con gli attori a teatro.
BRUTO E che ha detto, quando è rinvenuto?
CASCA Cosa credete che ha fatto, prima di cadere, quando si è accorto ben bene che il gregge approvava il suo rifiuto? Si è aperto la camicia e ha offerto la gola a tutti perché lo sgozzassero... E se io fossi stato uno di quei lavoratori, mi portino all’inferno, ma il piacere gliel’avrei fatto... E così è caduto. E quando è tornato in sé, ha detto: «Se ho fatto o detto qualcosa di inconsulto...», insomma, chiedeva scusa alle signorie loro; era tutta colpa della sua malattia. Tre o quattro donnine accanto a me si sono messe a strillare: «Oh poverino!», e l’hanno perdonato di cuore... sai com’è, lo stesso avrebbero detto se l’avessero visto scannare le loro mamme.
BRUTO E dopo è venuto via, così cupo?
CASCA Sì.
CASSIO E Cicerone, non ha detto nulla?
CASCA Sì, ha detto; qualcosa in greco.
CASSIO Esattamente?
CASCA Che io caschi morto se ve lo posso dire. Ma quelli che l’hanno capito, ammiccavano e scuotevano la testa; per me, invece, era greco. Che altro? Hanno trovato Marullo e Flavio che strappavano gli ornamenti alle statue di Cesare, e li hanno messi a tacere. Vi saluto. Ci sono state altre pagliacciate, che purtroppo non ricordo.
CASSIO Vuoi venire a cena da me stasera?
CASCA No, ho un altro impegno.
CASSIO E a pranzo, domani?
CASCA D’accordo, se non sono morto, se non hai cambiato idea, e se il tuo pranzo vale la pena.
CASSIO Bene, ti aspetto.
CASCA Aspettami. Addio, amici.
(Esce).
BRUTO Com’è diventato volgare Casca!
Era più acuto quando andava a scuola.
CASSIO E ancora lo è, se si tratta di compiere
qualsiasi impresa coraggiosa o nobile,
per quanto finga di essere così ottuso.
La rozzezza è la salsa del suo ingegno,
che dà appetito al pubblico per digerire
meglio le sue parole.
BRUTO Forse hai ragione. E adesso ti lascio;
se vuoi domani parlare con me
verrò da te; oppure, se preferisci
venire a casa mia, ti aspetterò.
CASSIO Verrò. Tu, nel frattempo, pensa al mondo.
(Bruto esce).
Bruto, sei nobile; tuttavia mi accorgo
che il tuo metallo onesto si può piegare
per quanto ben forgiato; perciò conviene
che gli onesti frequentino gli onesti:
chi è tanto forte da non farsi sedurre?
Cesare non mi stima, ma stima Bruto:
se io adesso fossi Bruto, e lui, Cassio,
non mi intrappolerebbe. Questa sera
voglio fargli gettare dalla finestra,
come se fossero scritti da molte mani,
messaggi vari sull’alta opinione
che ha Roma del suo nome, con accenni
non chiari all’ambizione del nostro Cesare;
e Cesare dovrà tenersi stretto
al seggio suo, perché lo scuoteremo,
altrimenti ci aspettano giorni peggiori.
(Esce).
SCENA TERZA
Roma. Una strada.
(Tuoni e lampi. Entrano, da lati opposti, Casca, con la spada sguainata, e Cicerone).
CICERONE Salve Casca, hai accompagnato Cesare?
Sei senza fiato? Perché fai quegli occhi?
CASCA Non ti impressiona che la terra intera
stia tremando malferma? O Cicerone,
bufere ho visto, che i venti furiosi
spaccavano le querce nodose; ho visto
sbavare di rabbia l’oceano ambizioso
alzandosi alle nuvole corrucciate;
ma mai fino a stanotte ho attraversato
una tempesta che piovesse fuoco.
O c’è la guerra civile nel cielo,
oppure è il mondo che avrà offeso gli dèi
e questi ora ci mandano distruzione.
CICERONE Perché, che hai visto di più portentoso?
CASCA Un certo schiavo, che conosci di vista,
alzò la mano sinistra che andò in fiamme
e bruciò come venti torce insieme;
eppure la sua mano era insensibile,
e non ne fu scottata. Poco dopo,
e ancora porto la spada sguainata,
mi imbatto in un leone in Campidoglio,
che mi guarda negli occhi, e se ne va
senza darmi fastidio; e lì ammucchiate,
c’erano cento donne almeno, pallide,
stravolte dal terrore, che giuravano
di avere visto uomini tutti accesi
che andavano e venivano per le strade.
Ieri, nel Foro, l’uccello della notte
è apparso in pieno giorno, lì a gracchiare.
Quando tanti prodigi si congiungono,
non è il caso di dire: «È naturale,
la causa è questa o quella»: sono annunci
chiari, rivolti al luogo dove si mostrano.
CICERONE Infatti, sono tempi strani questi;
ma gli uomini capiscono a modo loro
le cose, fraintendendo il loro scopo.
Verrà domani Cesare in Campidoglio?
CASCA Ne sono certo, oggi ha chiesto a Antonio
di dirti appunto che sarebbe venuto.
CICERONE Allora Casca, a domani.
Non è notte da andare in giro, questa.
CASCA Addio, Cicerone.
(Esce Cicerone. Entra Cassio).
CASSIO Chi va là?
CASCA Un romano.
CASSIO Dalla voce, sei Casca.
CASCA Hai buon orecchio, Cassio. Ma che notte!
CASSIO Molto piacevole, per la gente onesta.
CASCA Chi ha mai veduto i cieli così infuriati?
CASSIO Chi ha veduto la terra piena di colpe.
Quanto a me, ho girato per le strade,
per espormi alla notte pericolosa;
e così come vedi, a petto nudo,
mi sono offerto alla folgore, Casca;
e quando il lampo azzurro sfrecciante
squarciava in due le mammelle del cielo
io mi spingevo verso il suo bersaglio,
anzi cercavo il fulmine stesso.
CASCA E perché mai tentare così il cielo?
L’uomo dovrebbe temere e tremare,
quando gli dèi ci mandano come annuncio
questi araldi di orrore, per spaventarci.
CASSIO Sei lento, Casca, e quei guizzi di vita
che ogni romano serba in sé, ti mancano,
o li trascuri: sei pallido e attonito,
provi paura, non fai che stupirti
di questa strana impazienza dei cieli.
Ma se rifletti qual è la causa vera
di questi fuochi, questi spettri che scivolano;
perché bestie e uccelli mutano usanza,
e vecchie bimbi e scemi fanno oroscopi;
perché ogni cosa manca alla sua regola
e preformata facoltà, e natura, per qualcos’altro di mostruoso, vedrai
che il cielo ha infuso loro questi spiriti
per farli agenti di terrore e monito
di uno stato mostruoso. E io potrei
nominarti qualcuno ch’è molto simile
a questa notte orrenda, uno che tuona
e manda fulmini, apre tombe e ringhia
come il leone in Campidoglio; un uomo
non più potente di te o di me
personalmente, ma atroce e prodigioso
ormai come lo sono queste eruzioni.
CASCA Vuoi dire Cesare, non è vero, Cassio?
CASSIO Non importa chi sia; perché i romani
hanno sì membra e muscoli, come i loro avi,
ma è l’animo dei padri che in noi è morto,
ormai ci guida quello delle madri:
siamo pazienti, siamo effeminati.
CASCA Infatti dicono che domani il senato
intende dichiarare Cesare re;
porterà la corona per mare e terra
e dappertutto, tranne che in Italia.
CASSIO So quindi dove porterò il pugnale:
Cassio libererà Cassio dal giogo!
Così, dèi, fate i deboli fortissimi,
così, dèi, date la sconfitta ai tiranni!
Non con torri di pietra né con mura
di bronzo rinforzato o con catene
di ferro o con prigioni prive d’aria
si può fermare la forza dello spirito;
stanca del carcere del mondo, la vita
è sempre in grado di salutare e andarsene.
Se so questo, so tutto quel che occorre:
che da una parte almeno di tirannia,
la mia, posso liberarmi se voglio.
(Un tuono, ancora).
CASCA Anch’io posso. Ogni prigioniero
ha nelle proprie mani la facoltà
di cancellare la sua prigionia.
CASSIO E allora perché mai dovrebbe Cesare
fare il tiranno? Pover’uomo! Lo so
che non sarebbe lupo se i romani
non fossero soltanto delle pecore;
né leone se non fossero cerbiatte.
Quelli che voglion fare un grande fuoco
in fretta, l’incominciano con pagliuzze;
che avanzo è Roma, che scarto o segatura,
se viene usata per illuminare
un Cesare, una cosa tanto vile?
Ma dove mi ha portato la mia rabbia?
Forse parlo con uno ch’è felice
di essere servo; dovrò dunque rispondere
di quel che ho detto. Comunque, sono armato,
e ormai poco mi importano i pericoli.
CASCA Tu parli a Casca, a un uomo che non è
un delatore ipocrita. Dammi la mano:
bisogna porre fine alla vergogna;
se organizzi qualcosa, questo mio piede
non resterà dietro a nessuno.
CASSIO Il patto è fatto. Devi sapere, Casca,
che ho già convinto alcuni tra i romani
più probi, di tentare insieme a me
questa impresa onorevole quanto rischiosa.
E so che adesso mi stanno aspettando,
riuniti sotto il portico di Pompeo.
Perché con questa notte spaventosa
non si vede nessuno per le strade;
e l’aspetto del cielo è molto simile
al lavoro che abbiamo tra le mani,
bruciante, sanguinoso, terribilissimo.
CASCA Scostati un attimo, qualcuno arriva in fretta.
CASSIO Lo riconosco da come cammina.
È un nostro amico, è Cinna.
(Entra Cinna).
Dove vai Cinna così in fretta?
CINNA Ti cercavo. Chi è quello? Tillio Cimbro?
CASSIO No, è Casca; anche lui è con noi.
Non mi aspettano, Cinna?
CINNA Ne sono lieto. Che notte tremenda!
Si sono viste in giro strane cose.
CASSIO Non mi aspettano, Cinna? Rispondi.
CINNA Sì, ti aspettano. O Cassio, se tu potessi indurre Bruto a unirsi al nostro gruppo!
CASSIO Vedrai. Buon Cinna, prendi questo foglio,
e lascialo sul seggio del pretore,
così che Bruto non possa non vederlo;
e questo glielo butti dalla finestra;
quest’altro attaccalo con la cera alla statua
del vecchio Bruto; quando avrai finito
ritorna al portico, noi ti aspetteremo.
Decimo Bruto è arrivato? E Trebonio?
CINNA Ci sono tutti, tranne Tillio Cimbro
ch’è andato a prenderti a casa tua. Bene:
io vado a distribuire questi fogli.
CASSIO E poi ritorna al teatro di Pompeo.
(Esce Cinna).
Noi due, Casca, prima che spunti il giorno,
dovremmo andare a casa di Bruto;
ormai è nostro per tre quarti almeno:
al primo incontro avremo l’uomo intero.
CASCA Oh, quello siede in alto in tutti i cuori!
E ciò che in noi sembrerebbe un’offesa,
con la ricca alchimia del suo consenso
si muterebbe in valore e virtù.
CASSIO Hai ben descritto lui, il suo valore,
e il gran bisogno che ne abbiamo. Su,
mezzanotte è passata: prima dell’alba
lo sveglieremo e lo convinceremo.
(Escono).
ATTO II
SCENA PRIMA
Roma. L’orto di Bruto.
(Entra Bruto).
BRUTO Lucio! Ascolta!
Dal solo moto delle stelle non posso
sapere quanto manca al giorno. Lucio!
Vorrei anch’io avere questo difetto
di dormire così profondamente.
Svegliati, Lucio! Insomma, Lucio! Lucio!
(Entra Lucio).
LUCIO Mi ha chiamato, signore?
BRUTO Portami un lume nello studio, Lucio;
quando è acceso, mi avverti.
LUCIO Sì signore.
(Esce).
BRUTO Bisogna quindi ucciderlo. Personalmente,
non ho nessun motivo per fargli niente,
ma il bene pubblico... Vuole essere re:
il problema è sapere fino a che punto
questo potrebbe mutare il suo carattere.
È con il sole che spunta la vipera;
e allora bada dove metti il piede.
Incoronarlo? Cioè, ficcargli un dente
perché ci possa mordere quando vuole.
C’è abuso di grandezza quando il potere
si aliena dal rimorso. A dire il vero,
non ho mai visto prevalere in Cesare
le sue passioni sulla sua ragione.
Ma è risaputo che l’umiltà è la scala
della prima ambizione, verso la quale
si volge l’occhio dell’arrampicatore:
ma quando questi è giunto proprio in cima
volta le spalle finalmente alla scala,
e guarda al cielo disprezzando i gradini
sopra i quali è salito. Così potrebbe
fare anche Cesare: bisogna prevenirlo.
Dunque, se la questione non si pone
per quello che oggi è, c’è da dir questo:
che quello che oggi è Cesare, aumentato,
darebbe in queste e quelle enormità:
perciò, va visto come un uovo di vipera,
che una volta covato diventa perfido
per forza, e quindi lo si uccide nel guscio.
(Entra Lucio).
LUCIO Il lume è acceso nella stanza, signore.
Cercando l’esca sotto la finestra
ho visto questo foglio sigillato;
e sono certo che non era lì,
iersera quando sono andato a letto.
(Gli dà una lettera).
BRUTO Ritorna a letto, non è giorno ancora.
Dimmi, è domani, gli Idi di marzo?
LUCIO Non lo so.
BRUTO Guarda nel calendario, poi me lo dici.
LUCIO Sì signore.
(Esce).
BRUTO Queste meteore che sfrecciano in aria
mandano tanta luce che non si può leggere.
(Apre la lettera, e legge).
«Bruto, tu dormi. Sveglia e guarda te stesso.
Dovrà mai Roma... eccetera.
Parla, colpisci, salva!
Bruto, tu dormi; sveglia...».
Non è la prima volta che ricevo
istigazioni anonime del genere.
«Dovrà mai Roma, eccetera»... Che vorrà dire?
Dovrà mai Roma sottostare a un sol’uomo?
Roma? È vero che i miei antenati
scacciarono il Tarquinio dalle strade
di Roma, il giorno che si fece re.
«Parla, colpisci, salva!». Dunque mi chiedono
di parlare, e colpire? O Roma mia,
io ti prometto che se da me dipende
la tua salvezza, la mano di Bruto
eseguirà senz’altro la tua richiesta!
(Entra Lucio).
LUCIO Signore: marzo ha già consumato quindici giorni.
(Bussano, dentro).
BRUTO Va bene. Va’ alla porta, hanno bussato.
(Esce Lucio).
Non ho dormito un’ora, da quando Cassio
mi ha messo questa spina contro Cesare.
Tra il compimento di una cosa atroce
e il primo impulso, tutto l’intervallo
è come un sogno spaventoso, un incubo;
l’anima e i suoi strumenti materiali
sono in concilio; e lo stato dell’uomo
come un piccolo regno viene sconvolto
da un simulacro di rivoluzione.
(Entra Lucio).
LUCIO Signore, è suo cognato Cassio.
Vuole parlare con lei.
BRUTO È solo?
LUCIO Ci sono altri, con lui.
BRUTO Che altri? Li conosci?
LUCIO No, perché hanno i cappelli fin sulle orecchie
e mezza faccia avvolta nel mantello,
e non c’è modo di sapere chi sono.
BRUTO Falli entrare.
(Esce Lucio).
Sono i cospiratori. O congiura!
E così ti vergogni di mostrare
il tuo viso maligno anche di notte
quando il male è più libero? Di giorno, allora,
dove potrai trovare una caverna
tenebrosa abbastanza da mascherare
la tua faccia mostruosa? Ma non cercare:
avvolgiti in sorrisi e modi affabili;
perché se giri col tuo vero volto,
nemmeno l’Erebo sarà abbastanza buio
per impedirti di essere scoperto.
(Entrano Cassio, Casca, Decimo, Cinna, Tillio Cimbro, e Trebonio).
CASSIO Siamo sfacciati, penso, col tuo riposo.
Buon giorno, Bruto. Forse disturbiamo?
BRUTO Ero già alzato; non ho dormito niente.
Questi compagni tuoi, io li conosco?
CASSIO Sì, li conosci tutti, e tutti quanti
hanno di te la più alta opinione;
come d’altronde ogni buon romano;
e vorrebbero tanto che anche tu
l’avessi di te stesso. Questo è Trebonio.
BRUTO Benvenuto
CASSIO Questo Decimo Bruto.
BRUTO Benvenuto anche lui.
CASSIO Ecco Casca, ecco Cinna, ecco Tillio Cimbro.
BRUTO Siete tutti benvenuti.
Ma quali cure vigili si interpongono
tra i vostri occhi e la notte?
CASSIO Vieni, debbo parlarti.
(Bisbigliano).
DECIMO L’oriente è là; è là che spunta il giorno.
CASCA No.
CINNA Scusa, ha ragione; guarda quegli orli grigi
lì sulle nuvole, che annunciano il mattino.
CASCA Ebbene, vi sbagliate tutt’e due.
Qui, dove punto la spada, sorge il sole,
ch’è ancora molto spostato verso sud
per via della giovane stagione.
Tra due mesi all’incirca spunta lì,
assai più a nord, e il pieno oriente è là,
esattamente dov’è il Campidoglio.
BRUTO Datemi tutti la mano, uno per uno.
CASSIO E giuriamo la nostra risoluzione.
BRUTO No, non giurate: se il volto degli oppressi,
la nostra rabbia, il sopruso dei tempi...
se questi sono motivi insufficienti,
lasciamo perdere e ognuno torni a letto:
che alzi il suo volo l’occhiuta tirannia
per ucciderci tutti quanti al lotto.
Ma se questi moventi, come credo,
hanno abbastanza fuoco in sé da accendere
i codardi e da rendere di acciaio
gli spiriti fondenti delle donne,
allora, che altro stimolo, concittadini,
ci serve, oltre alla nostra causa stessa,
per spingerci a giustizia? Che altro vincolo
che l’essere romani di parola,
che hanno promesso e che non tradiranno?
E quale giuramento, oltre a quello
dell’onestà all’onestà impegnata
a dare effetto all’impresa o perire?
Giurino i preti, e i vigliacchi, e gli astuti,
i vecchi marci e deboli, i rassegnati
che si rallegrano dell’ingiustizia; giurino
per una losca causa quelle creature
a cui nessuno crede; ma non macchiate
la virtù pura della nostra impresa,
né il nostro ardore d’animo incontenibile,
pensando che la causa o che l’azione
chiedano garanzie; quando ogni goccia
del sangue nobile di ogni romano
si intorbida di varia bastardaggine,
se solo infrange la minima parte
di una sua qualsiasi promessa.
CASSIO E Cicerone? Proviamo a sondarlo?
Ci appoggerebbe, penso, di buon grado.
CASCA Non dobbiamo lasciarlo fuori.
CINNA No, in nessun modo.
TILLIO Oh sì, con quei capelli suoi d’argento
ci acquisteremmo una buona opinione,
anzi, ci compreremmo l’approvazione
della gente. Direbbero ch’è stata
la sua saggezza a guidarci le mani;
e la nostra irruenza e gioventù
non sarebbero più neanche avvertite,
morte e sepolte nella sua gravità.
BRUTO Oh no, non lui! Meglio lasciarlo stare:
è del tutto incapace di seguire
qualcosa che un altr’uomo ha cominciato.
CASSIO Allora, niente.
CASCA Non è infatti la persona adatta.
DECIMO Tutti gli altri vanno risparmiati?
CASSIO Ben detto, Decimo. Non mi sembra giusto
che Marc’Antonio, così amato da Cesare,
gli sopravviva. Quell’uomo, vedrete,
è un astuto intrigante; e ha molti mezzi,
che bene adoperati poi potrebbero
estendersi in misura preoccupante
per tutti noi; meglio, per evitarlo,
che Antonio e Cesare siano uccisi insieme.
BRUTO Ma sembrerebbe troppo sanguinario,
tagliare prima la testa e poi le membra;
come aggiungere all’ira l’accanimento:
Antonio è un membro, null’altro, di Cesare.
Ci vuole un sacrificio, non un macello.
Siamo contro lo spirito di Cesare,
e nello spirito dell’uomo non c’è sangue.
Potessimo raggiungere il suo spirito,
senza ferire Cesare! Ma no,
purtroppo Cesare dovrà sanguinare.
Uccidiamolo, amici, con coraggio,
ma senza collera; bisogna trinciarlo
come se fosse un piatto per gli dèi,
non come una carcassa per i cani.
Che i nostri cuori, come i padroni scaltri,
spingano i loro servi a un atto atroce,
per dopo fingere di rimproverarli.
Così la nostra azione apparirà,
agli occhi della gente, necessaria,
più che malvagia; e ci chiameranno
non assassini, bensì guaritori.
Quanto all’Antonio, non ci pensate più;
che può mai fare questo braccio di Cesare
quando la testa sarà tagliata via?
CASSIO Eppure ne ho paura, per quell’affetto
profondo che lo lega a Cesare...
BRUTO Non ci badare, Cassio: se ama Cesare,
il peggio che può fare è disperarsi
e morire per Cesare. Ma è troppo chiedere,
perché gli piace troppo la bella vita,
il gioco e l’abbondante compagnia.
TREBONIO Ma sì, povero gatto: meglio che viva,
e un giorno questa storia lo farà ridere.
(L’orologio batte le ore).
BRUTO Aspetta, che ore sono?
CASSIO Ho sentito tre colpi.
TREBONIO Dobbiamo andare.
CASSIO Ma il fatto è che nessuno ancora sa
se Cesare uscirà di casa, oggi.
Perché si è fatto così superstizioso,
lui che ai suoi tempi disprezzava tanto
i sortilegi, i sogni, gli avvertimenti...
Chissà se questa varietà di prodigi
e il terrore inconsueto di questa notte,
oltre ai consigli dei suoi indovini,
non lo distolgano oggi dal Campidoglio.
DECIMO Non abbiate paura: se così fosse,
saprò convincerlo. Ama sentirsi dire
che gli unicorni si lasciano prendere
con gli alberi, e gli orsi con gli specchi,
gli elefanti con buche, i leoni
con reti e gli uomini con gli adulatori.
E se dico: tu li odi, gli adulatori;
più che mai adulato, risponde: è vero.
Lasciate fare a me,
che so come piegare i suoi umori,
io ve lo porterò in Campidoglio.
CASSIO Converrà che veniamo tutti a prenderlo.
BRUTO Alle otto: non più tardi?
CINNA Non più tardi, alle otto, e non mancate.
TILLIO Quinto Ligario ce l’ha a morte con Cesare,
che l’ha sgridato perché lodò Pompeo;
strano, che non abbiate pensato a lui.
BRUTO Ma certo, caro Tillio: pensaci tu.
Mi stima e, posso dire, con motivo;
fallo venire, io lo persuaderò.
CASSIO Il giorno spunta. Ti lasciamo, Bruto.
Amici, disperdetevi; ma ricordate
quel che si è detto, e che siete romani.
BRUTO Ci vuole un’aria più fresca e cordiale:
che il vino non tradisca l’intenzione.
Dovete fingere, come i nostri attori,
con la stessa instancabile pazienza.
E ora vi dico: buon giorno a tutti quanti.
(Escono tutti, tranne Bruto).
Ragazzo! Lucio!... Dormi? Non fa niente.
Goditi pure la rugiada di miele
del sonno, libero dalle fantasie
e da quei mostri che la preoccupazione
evoca nel cervello degli uomini.
Perciò dormi così profondamente.
(Entra Porzia).
PORZIA Bruto, marito mio!
BRUTO Porzia, che fai? Perché ti alzi a quest’ora?
A una persona come te delicata
l’aria fredda dell’alba non fa bene.
PORZIA Nemmeno a te. Sei scivolato via
dal letto, ti par bello? E ieri sera
ti sei a un tratto alzato da tavola
e ti sei messo a passeggiare, assorto,
con le braccia incrociate, sospirando;
ti ho domandato che ti succedeva
e mi hai guardato poco gentilmente;
io ridomando, tu ti gratti la testa
e batti il piede con troppa impazienza;
e io insisto, ma non mi rispondi,
e con un gesto della mano irritato
mi fai segno di andarmene, e me ne vado,
per non dar esca alla tua irritazione
che mi sembrava già abbastanza accesa;
speravo fosse un semplice malumore,
a volte capita anche all’uomo più buono.
Però non mangi, non parli, non dormi,
e se il tuo corpo ne dovesse soffrire
come finora ne ha sofferto il tuo spirito,
non ti riconoscerei più. Marito,
dimmi cos’è che ti preoccupa tanto.
BRUTO Non sto bene, null’altro, è la salute.
PORZIA No, Bruto è saggio; e se non stesse bene
farebbe quel che occorre per rimettersi.
BRUTO Lo faccio; cara Porzia, torna a letto.
PORZIA Sei malato? E ti sembra un bel rimedio
girare mezzo nudo respirando
l’umidità del mattino? Malato!
E lui va via dal suo letto caldo
a rischiare i contagi della notte,
sfidando l’aria reumatica e impura
per ammalarsi peggio? No, Bruto mio,
la tua malattia è nel pensiero,
e per diritto e virtù del mio posto,
dovresti dirmela. In ginocchio, ti prego:
per questa mia bellezza che lodavi,
per tutte le promesse tue d’amore
e per quella promessa principale
che ci fece uno in un solo corpo,
a me, che sono te stesso e tua metà,
dimmi che ti preoccupa; e chi è venuto
questa notte a trovarti, perché so
che qui sono venuti in sei o sette,
con la faccia nascosta, anche nel buio.
BRUTO Porzia gentile, non ti inginocchiare.
PORZIA Se Bruto fosse ancora Bruto gentile,
io non sarei costretta a inginocchiarmi.
Dimmi, è compreso nel patto nuziale,
che io non debba sapere i segreti
che ti appartengono? Forse siamo uno,
ma per la vista, entro certi limiti:
per stare a tavola con te, e a letto,
e a volte chiacchierare? Forse abito
nei suburbi soltanto dei tuoi favori?
Se così fosse, Porzia allora sarebbe
la puttana di Bruto, non sua moglie.
BRUTO Tu sei mia moglie vera e onorata,
cara per me come le gocce rosse
che visitano il mio triste cuore.
PORZIA Se fosse vero, mi diresti il segreto.
Lo so, sono una donna, ma con ciò,
la donna che per moglie ha preso Bruto;
lo so, sono una donna, ma con ciò,
di ottimo nome, la figlia di Catone.
Con un marito e un padre simili,
non mi credi più forte delle altre donne?
Puoi dirmi tutto, non lo racconterò.
Ho già dato prova del mio carattere
quando mi sono ferita qui sulla coscia,
io stessa; e credi che chi può far questo,
non possa poi mantenere un segreto?
BRUTO O dèi, fatemi degno di mia moglie!
(Bussano, dentro).
Ascolta, bussano. Va’ nella stanza un attimo:
io verrò subito, e ti farò partecipe
di tutti i miei segreti e i miei impegni;
penserò a decifrarti la scrittura
della mia fronte cupa. Esci, in fretta.
(Esce Porzia).
Chi ha bussato, Lucio?
(Entrano Lucio e Ligario).
LUCIO Uno, malato, che la vuole vedere.
BRUTO Quinto Ligario, me ne parlò Cimbro.
Esci, ragazzo. Quinto, come va?
LIGARIO Questa debole lingua ti dà il buon giorno.
BRUTO Oh che momento hai scelto, mio buon Quinto,
per ammalarti! Proprio non ci voleva!
LIGARIO Non sono più malato, quando si tratta di cosa degna del nome dell’onore.
BRUTO È appunto quello che vorrei proporti, se ti restasse almeno un orecchio sano.
LIGARIO Per tutti i numi che i romani adorano,
qui rinuncio al mio male! Cuore di Roma!
Figlio intrepido, seme di lombi illustri!
Tu, come un esorcista, hai evocato
l’anima mia defunta! Dimmi di correre,
e sfiderò gli ostacoli più impossibili,
anzi, li vincerò. Che debbo fare?
BRUTO Qualcosa che farà gli infermi sani.
LIGARIO E non c’è pure qualcuno di sano che andrebbe nel contempo fatto infermo?
BRUTO Anche questo è previsto. Vieni, Quinto,
ti spiegherò per strada, mentre andiamo
da quel qualcuno di cui si parlava.
LIGARIO Andiamo allora; come un uomo nuovo
ti seguo, pronto a fare non so che:
mi basta che a guidarmi sia Bruto.
BRUTO Allora seguimi.
(Escono).
SCENA SECONDA
Roma. La casa di Cesare.
(Tuoni e lampi. Entra Cesare, in vestaglia).
CESARE Né la terra né il cielo questa notte
si sono dati pace. Tre volte, in sogno,
Calpurnia ha urlato: «Stanno uccidendo Cesare!
Aiuto!». C’è qualcuno, nella casa?
(Entra un Servitore).
1° SERVIT. Eccomi, signore.
CESARE Ordina agli auguri di offrire un sacrificio
e poi riportami il risultato.
1° SERVIT. Sì, signore.
(Esce).
(Entra Calpurnia).
CALPURNIA Che sento, Cesare? Vuoi uscire oggi?
Oggi tu non ti muovi da questa casa.
CESARE No, Cesare uscirà; se mai qualcosa
mi ha minacciato, lo ha fatto alle mie spalle:
quando mi vede, la minaccia fugge.
CALPURNIA Io ai presagi non ho mai badato,
ma adesso mi spaventano. C’è un uomo là
che oltre alle cose che abbiamo udito noi
ne sa di orrende, che hanno visto le guardie.
Per strada una leonessa ha partorito;
le tombe si aprono e rigettano i morti;
guerrieri in fiamme lottano sulle nuvole,
allineati e ordinati come in guerra,
sprizzando sangue sopra il Campidoglio.
Nell’aria c’era un chiasso di battaglia,
i cavalli nitrivano, i morenti
si lamentavano e i fantasmi strillavano
squittendo per le strade. Oh queste cose
non si sono mai viste e ho paura!
CESARE Forse è possibile evitare alcunché,
quando è voluto dai potenti dèi?
Eppure Cesare uscirà: i presagi
sono rivolti a tutti, non solo a me.
CALPURNIA Per un pezzente morto le comete
non si disturbano; ma quando muore un principe
il cielo stesso brucia per annunciarlo.
CESARE Chissà le volte che un vigliacco muore
prima della sua morte; i coraggiosi
non gustano la morte che una volta.
Di tutti i rari prodigi che ho udito
il più raro mi sembra la paura;
giacché la morte, fine necessaria,
arriva quando arriva.
(Entra un Servitore).
Che dicono gli aruspici?
1° SERVIT. Che oggi è meglio che Cesare non esca.
Hanno aperto una bestia e tra le viscere
non sono riusciti a rintracciare il cuore.
CESARE Gli dèi mi avvertono contro la codardia:
io, sarei la bestia senza cuore
se oggi restassi a casa per paura.
Non lo farò; lo sa bene il Pericolo
che sono più pericoloso di lui.
Siamo due leoni nati insieme, ma io
l’ho preceduto, e sono il più terribile.
E Cesare uscirà.
CALPURNIA Ahi, la fiducia acceca la tua saggezza!
Non devi uscire; di’ ch’è la mia paura
a trattenerti in casa, non la tua.
Manderemo al Senato Marc’Antonio,
lui spiegherà che oggi non stai bene.
In ginocchio, ti chiedo questo favore.
CESARE Marc’Antonio dirà che non sto bene;
rimarrò a casa per farti piacere.
(Entra Decimo).
Ecco Decimo Bruto; può dirlo lui.
DECIMO Salve Cesare! Buon giorno, illustre Cesare:
vado al Senato, posso accompagnarti?
CESARE Sei arrivato nel momento giusto:
porta tu il mio saluto ai senatori
e di’ che oggi non voglio venire.
Non posso, è falso; non oso, più che falso.
Di’ loro che oggi non voglio venire.
CALPURNIA Di’ che è malato.
CESARE E dovrà dire Cesare una menzogna?
Ho steso il braccio in guerra così lontano,
per farmi spaventare da quattro vecchi?
Di’ che non vengo perché non voglio, Decimo.
DECIMO Ci vuol pure un motivo, potente Cesare;
perché altrimenti mi prenderanno in giro.
CESARE La mia volontà: ecco il motivo;
questo dovrebbe soddisfare il senato.
Ma per la tua propria soddisfazione,
perché ti voglio bene, te lo dirò.
Mia moglie vuole che rimanga a casa:
questa notte ha sognato che la mia statua,
da cento bocche, come una fontana,
buttava sangue, mentre i bravi romani
ci si bagnavano sorridenti le mani.
Questo per lei è un monito, un presagio
di disgrazia imminente, e mi ha pregato,
anche in ginocchio, di restare a casa.
DECIMO L’avete interpretato male, il sogno;
è una visione bella e fortunata.
Quella tua statua che zampilla sangue,
coi romani felici che ci si bagnano, vuol dire che da te la grande Roma
succhierà sangue rigeneratore;
e che i grand’uomini ci si accalcheranno
con fazzoletti in cerca di reliquie,
tinture e attestati di nobiltà.
Questo, vuol dire il sogno di Calpurnia.
CESARE E l’hai spiegato bene, debbo dire.
DECIMO Infatti, ecco la prova, se mi ascolti:
il senato ha deciso di concedere
una corona, oggi, al grande Cesare.
Se mandi a dire che non vuoi venire,
potrebbero cambiare idea. Inoltre,
qualcuno, in burla, potrebbe commentare:
«Leviamo la seduta, finché la moglie
di Cesare non farà sogni migliori».
Se ti nascondi, non mormoreranno:
«To’, Cesare ha paura»? Devi scusarmi,
se dico questo, è per il grande amore,
grandissimo, che porto al tuo interesse;
e a quell’amore la ragione si arrende.
CESARE Vedi, Calpurnia, come sembrano assurdi
i tuoi timori adesso? Mi vergogno
di aver ceduto. Dammi il mantello, esco.
(Entrano Publio, Bruto, Ligario, Tillio, Casca, Trebonio, e Cinna).
Ed ecco Publio ch’è venuto a prendermi.
PUBLIO Buon giorno, Cesare.
CESARE Sii benvenuto, Publio.
Bruto, anche tu ti sei alzato presto?
Buon giorno, Casca. Quinto Ligario, vedi:
mai Cesare ti fu tanto nemico
quanto quel male che ti ha dimagrito.
Che ore sono?
BRUTO Le otto, Cesare.
CESARE Siete stati cortesi e vi ringrazio.
(Entra Antonio).
Perfino Antonio, che fa le ore piccole
di festa in festa, è alzato pure lui.
Buon giorno Antonio.
ANTONIO Buon giorno a te, nobilissimo Cesare.
CESARE Fa’ che preparino là dentro.
Scusatemi se vi faccio aspettare.
Ehi, Cinna! Salve, Tillio! Ecco Trebonio:
ho da parlarti, per un’ora almeno;
ricorda oggi di chiedermi udienza;
stammi vicino, se no mi dimentico.
TREBONIO Senz’altro, Cesare.
(A parte). Così vicino, che i tuoi migliori amici
rimpiangeranno non fossi più lontano.
CESARE Venite amici a assaggiare il mio vino;
poi, come amici, ce ne andremo insieme.
BRUTO (a parte) Sì, come amici, ma soltanto «come»:
quando ci penso mi si stringe il cuore!
(Escono).
SCENA TERZA
Roma. Una strada vicino al Campidoglio.
(Entra Artemidoro, leggendo un foglio).
ARTEMIDORO «Cesare, guardati da Bruto; sta’ attento a Cassio; non ti avvicinare a Casca; tieni d’occhio Cinna; non ti fidare di Trebonio; osserva bene Tillio Cimbro; Decimo Bruto non ti vuol bene; hai offeso Ligario. Un unico pensiero muove tutti questi uomini, e li muove contro Cesare. Se non sei immortale, guardati intorno: l’eccessiva fiducia apre la strada alla congiura. Che gli dèi ti proteggano! Il tuo amico, Artemidoro».
Rimarrò qui in attesa di Cesare,
e fingerò di porgergli una richiesta.
Duole, che la virtù non possa vivere
lontano dalle zanne dell’invidia.
Se leggi questo, Cesare, vivrai;
se no, il destino aiuta i traditori.
(Esce).
SCENA QUARTA
Di fronte alla casa di Bruto.
(Entrano Porzia e Lucio).
PORZIA Corri ragazzo, ti prego, al Senato;
va’ via subito, che stai aspettando?
LUCIO Vorrei sapere che ci vado a fare.
PORZIA Già ti volevo via e di ritorno,
prima di dirti quel che dovevi fare.
O tu fermezza, non mi abbandonare!
Innalza una montagna tra il mio cuore
e la mia lingua! Ho la mente di un uomo,
le forze di una donna. Com’è difficile
per una donna mantenere un segreto!
E sei ancora qui?
LUCIO Ma signora, che debbo fare?
Correre al Campidoglio, tutto qui?
E poi tornare a casa, tutto qui?
PORZIA No, devi dirmi se il padrone sta meglio,
perché è uscito indisposto; e guarda bene
che fa Cesare e chi gli sta dintorno
con suppliche. Hai sentito quel rumore?
LUCIO Non ho sentito niente.
PORZIA Ascolta meglio. Ho sentito un rumore,
come se fosse una lotta, e sembrava
che il vento lo portasse dal Campidoglio.
LUCIO Non sento nulla, davvero, signora.
(Entra l’Indovino).
PORZIA Vieni qua, tu; dimmi da dove vieni.
INDOVINO Da casa mia, signora.
PORZIA E che ore sono?
INDOVINO Press’a poco le nove.
PORZIA È già arrivato Cesare in Campidoglio?
INDOVINO No, non ancora; vado a prendere posto
per vederlo passare quando arriva.
PORZIA Hai qualche supplica da presentargli?
INDOVINO Infatti: purché Cesare sia cortese
con Cesare e si degni di ascoltarmi,
gli dirò di intercedere per se stesso.
PORZIA Perché, sai di un pericolo che lo minaccia?
INDOVINO Nulla di certo so, ma molto temo
che potrebbe accadere. E adesso vado.
Qui la strada è più stretta e la gran folla
di senatori, pretori e postulanti
alle calcagna di Cesare potrebbe
schiacciare un uomo debole come me;
cercherò un luogo più aperto di questo
per abbordare Cesare quando passa.
(Esce).
PORZIA Debbo rientrare. Ahimè com’è fragile
il cuore di una donna! O Bruto mio!
Ti aiuti il cielo in questa tua faccenda!
Sono sicura che il ragazzo ha sentito.
Bruto ha richiesto a Cesare un favore,
e non glielo vuol fare. Io vengo meno!
Corri Lucio e salutami mio marito;
digli che sto benissimo; poi ritorni
e mi ripeti quello che ti ha detto.
(Escono separatamente).
ATTO III