LA BUGIA PIÙ LUNGA DEL MONDO ARABO: "RESISTENZA" CONTRO LA VITA
Luigi Giliberti
@LuigiGiliberti2
Da più di settant’anni il mondo finge di non sapere. Ogni volta che un missile parte da Gaza o una bomba cade su Rafah, si risvegliano improvvisamente esperti, pacifisti, indignati a turno. Ma la verità, quella vera, è che questo conflitto non nasce da una questione di confini: nasce da un rifiuto.
Il rifiuto di accettare che Israele esista.
Tutto comincia con una promessa e un tradimento. 1917, Dichiarazione Balfour: gli inglesi appoggiano una “casa nazionale per il popolo ebraico” in Palestina. Poi il Mandato britannico, e l’illusione che due popoli potessero convivere sotto la stessa amministrazione. Già allora iniziano gli scontri. Negli anni ’30 gli arabi attaccano gli ebrei in decine di pogrom. La Commissione Peel prova a dividere il territorio: due Stati, ma gli arabi rifiutano. “Meglio niente che uno Stato ebraico accanto a noi.” È tutto lì, già scritto.
Salto al 1947. L’ONU approva la risoluzione 181: due Stati, uno arabo, uno ebraico. Gli ebrei accettano. Gli arabi rispondono con cinque eserciti in marcia. Israele nasce e subito viene attaccato. Da quel momento ogni guerra, ogni intifada, ogni trattato rotto, ripete lo stesso copione: Israele si difende, il mondo lo accusa, i palestinesi vengono usati come arma politica.
La “Nakba”, la catastrofe palestinese, è una tragedia vera. Centinaia di migliaia di persone fuggirono - o furono spinte via - in un caos totale. Ma nessuno racconta l’altra Nakba: 800.000 ebrei cacciati dai Paesi arabi, dalle case di Baghdad, Il Cairo, Damasco, Beirut. Quegli esuli si integrarono in Israele. I palestinesi, no. Furono mantenuti in un limbo eterno, con l’UNRWA, agenzia ONU creata solo per loro, generazione dopo generazione, come se il rifugiato fosse un mestiere. Mantenuti in un dolore programmato, utile a chi vive di propaganda.
Arrivano gli anni ’60: nasce l’OLP, “liberazione” a parole, terrorismo nei fatti. Aerei di linea dirottati, Olimpiadi insanguinate, stragi in Europa. Poi gli anni ’90, la stretta di mano a Oslo: sembrava la svolta. Autonomia in Cisgiordania, autorità palestinese, aiuti miliardari. Ma la corruzione e la violenza restano più forti della diplomazia. Hamas si prepara all’ombra delle moschee, con i dollari del Qatar e l’indifferenza occidentale.
2005: Israele si ritira da Gaza, smantella le colonie, abbandona i campi e i serbatoi. Risultato? In due anni Hamas prende il potere con le armi, elimina Fatah e inizia a costruire tunnel e arsenali sotto scuole e ospedali. La “resistenza” diventa un business. Gaza diventa uno Stato parallelo: niente libertà di stampa, niente elezioni dal 2006, dissidenti torturati, e miliardi di aiuti spariti nel cemento dei bunker.
E arriviamo al 7 ottobre 2023, la data che ha spogliato il mondo dalle sue ipocrisie. Non è stata una “reazione” o una “protesta”: è stato un massacro pianificato. Civili massacrati, bambini bruciati vivi, donne stuprate. E mentre le immagini correvano, la sinistra radicale europea trovava il coraggio di dire “ma”. Quel “ma” è il veleno della nostra epoca.
“Ma Israele occupa”, “ma Gaza è una prigione”, “ma i palestinesi soffrono”.
Sì, soffrono. Ma chi li tiene prigionieri non è Israele: è Hamas, è l’Iran, è chi finanzia la morte al posto della vita.
Oggi, 2025, Gaza è un cimitero e un laboratorio di menzogne. Ogni volta che Israele reagisce, scatta il rituale: risoluzioni ONU, cortei di piazza, foto selezionate ad arte, hashtag e indignazione prêt-à-porter. Nessuno parla delle guerre tra clan interni, dei civili usati come scudi, dei miliziani travestiti da medici. Nessuno parla dei tunnel sotto gli ospedali di Al-Shifa, dove Hamas si nascondeva con gli ostaggi. Nessuno parla dei 300 milioni l’anno finiti in stipendi falsi e fondi neri. Gaza è il paradosso perfetto: la popolazione più aiutata al mondo, governata dai più fanatici del pianeta.
E Israele? Israele non è innocente, ma è uno Stato che risponde a un principio chiaro: esistere. Non per fede, ma per sopravvivenza. Ogni guerra che combatte è una guerra imposta, ogni tregua è un conto alla rovescia verso la prossima.
Dietro la facciata dei diritti umani si nasconde una verità semplice: se Hamas depone le armi, la guerra finisce; se Israele le depone, Israele finisce. Punto.
Eppure, in Europa, nei campus, sui social, la narrazione si è rovesciata. L’aggressore è diventato vittima, la democrazia è vista come tirannia, e il terrorismo è romanticizzato come “lotta di liberazione”. Tutto in nome di una morale selettiva: piangi per Gaza, ignora Sudan, Congo, Yemen. La compassione si è fatta ideologia, e l’odio per Israele è diventato status sociale.
La verità è che la pace non arriverà finché il mondo continuerà a coccolare il vittimismo palestinese e a demonizzare l’esistenza israeliana. Perché non puoi fare la pace con chi ti nega il diritto di vivere.
La bugia più grande non è quella dei media o dei governi. È quella che raccontiamo a noi stessi: che ci importa davvero della giustizia. Non è vero. Ci importa dello spettacolo, del brivido di schierarsi, del gusto di odiare chi sta meglio.
Il conflitto israelo-palestinese non è più solo una guerra di territori. È diventato una guerra morale - e l’Occidente la sta perdendo, pezzo dopo pezzo, perché non sa più distinguere tra chi difende la vita e chi la usa come scudo.
Alla fine, tutto torna a quella scelta del 1947: accettare due Stati o distruggerne uno.
Oggi, come allora, il mondo ha scelto l’ambiguità. E l’ambiguità, in guerra, è solo un altro nome per la codardia.
Finché Hamas terrà in ostaggio il popolo palestinese e l’Occidente continuerà a difendere i carnefici come se fossero vittime, non ci sarà pace, né verità, né redenzione. Solo un eterno replay della stessa menzogna.
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Luigi Giliberti
@LuigiGiliberti2
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