giovedì 2 ottobre 2025

PERCHÉ CHI TACE SUGLI OSTAGGI ISRAELIANI LEGITTIMA LA LORO PRIGIONIA Alfonso Lanzieri

 


PERCHÉ CHI TACE SUGLI OSTAGGI ISRAELIANI LEGITTIMA LA LORO PRIGIONIA 


 Alfonso Lanzieri 

 01/10/2025 

Il 24 settembre, sulle pagine de La Repubblica, Massimo Recalcati ha pubblicato un articolo dal titolo eloquente: “I corpi invisibili degli ostaggi”.

In quelle righe lo psicoanalista ha messo a fuoco una questione che, a distanza di pochi giorni, si sarebbe riproposta in un teatro gremito: la rimozione della sorte degli ostaggi israeliani nelle mani di Hamas.

Recalcati si è rivolto direttamente – anche se non solo – a quella parte della sinistra che nelle piazze italiane si è mobilitata per Gaza, denunciando i bombardamenti, le migliaia di morti civili, la catastrofe umanitaria.

Giuste e doverose denunce, ha scritto Recalcati, ma segnate da un’assenza fragorosa: nessuna parola sugli ostaggi. Corpi invisibili, appunto. Persone dimenticate, o peggio cancellate.

Di fatto, l’indisponibilità di Hamas a liberarli ha come minimo contribuito a fare degli abitanti di Gaza un gigantesco bersaglio militare.

Per quelle parole, il noto psicoanalista è stato non solo subissato di critiche, ma anche insultato – e non solo da anonimi account social, ma pure da accademici con nome e cognome in bella vista.

Quattro giorni più tardi, il 28 settembre, le parole del sindaco di Reggio Emilia, Marco Massari, hanno fornito la conferma più lampante delle ragioni di Recalcati.

Nel pieno della cerimonia per la consegna del Primo Tricolore a Francesca Albanese, relatrice speciale dell’Onu per i territori palestinesi, Massari ha pronunciato questa frase:

“La restituzione degli ostaggi e la fine del genocidio in atto a Gaza sono le condizioni per l’avvio di un processo di pace.”

A quel punto, dal Teatro Valli – gremito in platea e nei palchi – è esplosa la contestazione: fischi, urla, insulti (“Buffone!” è stato il più gentile).

Non una reazione isolata, ma un boato corale, capace di coprire la voce del sindaco davanti ad altre autorità istituzionali.

Come se non bastasse, Francesca Albanese, prendendo la parola, si è pure concessa il lusso di rimproverare il primo cittadino reggiano, chiedendogli di non usare più quelle frasi.

Perché, in una parte del mondo che si considera progressista, che dice di essere “dalla parte giusta della Storia”, che ha fatto della difesa dei diritti e della denuncia delle violenze la propria bandiera, gli ostaggi israeliani non trovano cittadinanza?


Quanta cecità ideologica serve per arrivare a denigrare pubblicamente il semplice richiamo a cittadini inermi, strappati alle loro famiglie ormai quasi due anni fa e tenuti nelle mani di un gruppo terroristico?


Qual è il livello di inquinamento morale di chi si infastidisce davanti a chi spera che dei rapiti – se ancora in vita – possano essere restituiti alle loro famiglie?


O che, almeno, i corpi di chi nel frattempo è morto in condizioni atroci possano tornare a casa ed essere pianti dai propri cari?


Inutile girarci intorno: chi non vuole sentir parlare degli ostaggi perché li ritiene numericamente irrilevanti rispetto alla sproporzione delle vittime palestinesi, o chi crede che il solo nominarli significhi fare un regalo a Israele, accetta una logica disumana.


Chi ragiona così afferma che gli ostaggi non contano nulla, che la loro cattura e la loro detenzione sono in fondo giustificabili.


In tal modo Hamas diventa – in una prospettiva perversa e pervertitrice – il povero Davide costretto a colpire anche innocenti pur di attirare l’attenzione del mondo sulla propria “nobile causa”.


È la stessa logica che molti dicono di combattere quando denunciano il massacro di civili palestinesi: nessuna ragione politica, sostengono, può giustificare l’annientamento di vite innocenti.


Quando però si tratta degli ostaggi israeliani, quella stessa regola viene sospesa.


Il risultato è che si finisce per riprodurre esattamente il vizio che si condanna: sacrificare vite concrete sull’altare di un’idea astratta che va a braccetto con una passione disumana.

Recalcati lo ha scritto con chiarezza: quando un’ideologia diventa più importante di un corpo umano, siamo davanti a una cecità morale.

È una “macchia cieca” che impedisce di vedere la realtà nella sua interezza.

È quello che è accaduto a Reggio Emilia: un intero teatro che insorge non contro la guerra, non contro il terrorismo, non contro l’ingiustizia, ma contro la semplice evocazione della condizione di civili rapiti.

Si può discutere di geopolitica, di rapporti di forza, di sproporzione dei conflitti.

Ma un punto non dovrebbe essere negoziabile: nessuna vita può essere usata come merce di scambio, nessun corpo sequestrato può diventare invisibile.

Chi tace sugli ostaggi non solo si consegna a una retorica monca, ma finisce per legittimare – anche implicitamente – la loro prigionia.

I fischi al sindaco Massari, dunque, non sono un dettaglio locale.

Sono il sintomo di una difficoltà più ampia di una sinistra ormai sempre più estremista a confrontarsi con la tragedia nella sua interezza.

E sono, insieme, la prova che l’articolo di Recalcati aveva colpito un nervo scoperto (e perciò è stato insultato rabbiosamente).

Sono pure l’ennesimo indizio di un sentimento antiebraico (per non dire di peggio) che solo l’irresponsabilità può continuare a fingere di non vedere.

Quando una folla di persone civilissime e ben vestite non riesce ad avere la quantità di umanità sufficiente per stare sia con i civili palestinesi sia con gli ostaggi israeliani, politicizzando perfino la pietà, dovrebbe partire il segnale d’allarme.

Io credo che ci sia ancora spazio, a sinistra, per recuperare una distorsione che in tanti stanno sottovalutando, per paura o per inerzia.

Serve però che in molti – soprattutto tra i cosiddetti intellettuali e tra gli esponenti politici – abbandonino l’astensionismo culturale, dicano una parola ragionevole, si sottraggano al ricatto morale di chi marchia con “amico del genocidio” chiunque osi uscire dal fanatismo, e siano disposti a ricevere la loro parte di fischi.

Un grammo di coraggio, insomma.

Altrimenti rassegniamoci ai tribunali popolari in stile maoista, in cui la giuria sanziona la pietà quando non è politicamente conforme. Il che merita, senza giri di parole, il nome di barbarie.