Carmen Dal Monte
L’editoriale di Massimo Giannini su “la Repubblica” dello scorso 11 ottobre non contiene insulti né stereotipi espliciti. Ma riproduce, quasi parola per parola, l’architettura simbolica dell’antigiudaismo europeo: il rovesciamento del mito dell’Esodo (l’ebreo da liberato a persecutore), la cristianizzazione della vittima (i “poveri cristi”), l’uso di “sterminio” per indicare la colpa ebraica, la negazione del contesto antisemita, e la canonizzazione dell’ebreo che si autoaccusa (Grossman). Sotto la superficie poetica e progressista, l’editoriale traduce in linguaggio contemporaneo il più antico dei pregiudizi: che gli ebrei, avendo sofferto, non abbiano diritto a difendersi. È un antisemitismo culturale, elegante, civile – ma strutturalmente identico a quello teologico da cui discende. Ecco dove accade.
1 Fuggito dall’esercito del Faraone, il popolo di Mosè attraversò le acque del Mar Rosso. Sopravvissuto all’esercito di Netanyahu, il popolo di Allah lambisce il Mare Nostrum da una spiaggia fatta solo di rovine.
Questo è il nucleo simbolico più esplicitamente antiebraico del testo. Giannini non si limita a usare una metafora biblica: trasferisce l’archetipo della liberazione ebraica all’Islam, compiendo un rovesciamento teologico. L’ebreo – “il popolo di Mosè” – non è più colui che fugge dall’oppressione, ma colui che la infligge. Netanyahu (cioè Israele) è equiparato al Faraone, la figura del potere malvagio e idolatra.
L’effetto retorico è devastante: Israele non è più il luogo del riscatto della memoria, ma la reincarnazione del male originario da cui un tempo fuggiva. È lo schema classico dell’antisemitismo cristiano in versione moderna: l’ebreo, nonostante la propria storia di persecuzioni, si trasforma nel persecutore – dunque merita di essere giudicato più severamente di chiunque altro. Questa non è una metafora neutra. È una sostituzione teologica: il popolo di Dio viene scalzato dal suo ruolo biblico, e un nuovo popolo — quello palestinese — eredita il titolo di “vittima universale”. Nella cultura europea, questa è la forma più raffinata e persistente di antisemitismo culturale.
2 I poveri cristi di un contro-esodo biblico, carichi solo di stracci, in cammino lungo la costa verso un Nord dov’è rimasto ormai solo un deserto che si sforzeranno di chiamare “casa”.
Questa frase prosegue lo stesso schema e lo radicalizza: Giannini cristianizza il dolore palestinese. Il termine “poveri cristi” non è solo un modo di dire: è una figura teologica precisa. “Cristo” è l’innocente che soffre per la salvezza altrui. Dunque, se i palestinesi sono i nuovi “poveri cristi”, allora la loro sofferenza redime il mondo — e per contrappasso, chi infligge quella sofferenza (gli ebrei) si trova nel ruolo dei nuovi carnefici di Cristo. È un meccanismo antiebraico antico, oggi riformulato in linguaggio laico. Non si parla più di “popolo deicida”, ma l’effetto è identico: il dolore palestinese è sacralizzato, quello israeliano è negato o deriso. In questa sostituzione, il martirio cristiano si appropria del dolore ebraico, cancellandolo.
3. «735 giorni di mattanza, 1.200 ebrei inermi straziati nei kibbutz e 68 mila palestinesi innocenti sterminati nella Striscia».
A prima vista, sembra una frase equilibrata. Ma lo è solo in apparenza. L’accostamento serve a relativizzare la Shoah simbolica del 7 ottobre (le vittime ebraiche dei kibbutz) attraverso la sovrapposizione numerica e morale. L’aggettivo “innocenti” attribuito ai palestinesi, ma non agli ebrei, produce una asimmetria morale: i primi sono vittime pure, i secondi sono semplicemente “ebrei straziati”. Inoltre, il verbo “sterminati” applicato ai palestinesi è un’appropriazione diretta del linguaggio della Shoah. È una torsione semantica gravissima: la parola storicamente legata all’Olocausto viene spostata per designare Israele come nuovo nazismo. L’operazione linguistica è antisemita, anche se travestita da pathos umanitario: suggerisce che Israele stia riproducendo il male che un tempo subì, e quindi meriti una condanna morale superiore.
4. «La tregua riposa sulle spalle di Netanyahu, premier di un governo criminale e incostituzionale».
Qui si passa dalla metafora biblica al giudizio morale assoluto. L’aggettivo “criminale” non è rivolto a un atto, ma a un’intera istituzione: “governo criminale”. È un linguaggio che trasforma la colpa politica in colpa ontologica: Israele non agisce male, è male. È la stessa logica che nei secoli ha accompagnato la rappresentazione dell’ebreo come “corrotto per natura”, “colpevole per definizione”. Oggi il discorso si è aggiornato: non si dice più “ebreo”, si dice “Israele”; ma la struttura morale resta identica. È un antisemitismo simbolico, che non attacca l’identità etnica ma la riduce a principio del male storico.
5. «Sopravvissuto all’esercito di Netanyahu, il popolo di Allah lambisce il Mare Nostrum da una spiaggia fatta solo di rovine. Non è tutto, ma è già tanto».
La chiusa di questa immagine rafforza il messaggio: la sopravvivenza palestinese è un miracolo. Ma dietro la commozione c’è una restituzione teologica per contrappasso: l’ebreo che un tempo sopravvisse (Mosè, l’Esodo, la diaspora) oggi è sostituito da un nuovo sopravvissuto, il “popolo di Allah”. L’ebreo è escluso dal racconto della salvezza, come se la sua sopravvivenza non avesse più diritto morale. È l’esatto rovesciamento del significato originario di Shoah: da monito universale a colpa particolare. Nel linguaggio di Giannini, la memoria ebraica è revocata — e il diritto di esistere in quanto sopravvissuti è trasferito a un altro popolo.
6. «Dimentichiamo tutto per un attimo e diamo a Donald quel che è di Donald».
Anche qui l’eco evangelica (“rendete a Cesare quel che è di Cesare”) non è casuale. Serve a inserire Trump e Netanyahu dentro una grammatica del potere impuro. Trump è lo “sceriffo di Washington”, Netanyahu è il “Faraone”, entrambi sono figure che violano l’ordine morale. È una genealogia del male che rilegge la contemporaneità in chiave biblica, ma sempre con Israele nel ruolo del colpevole archetipico.
7. «David Grossman, con lungimirante coraggio, li definì “la pace dei ricchi”. Il furente tagliagole Yahya Sinwar, con Hamas esclusa dal tavolo, li sabotò con il mostruoso pogrom del 7 ottobre».
Questo passaggio è apparentemente equilibrato: Giannini cita un intellettuale israeliano per rafforzare la propria tesi. Ma l’effetto è strutturalmente antiebraico: l’unico ebreo “accettabile” è quello che accusa Israele. Grossman diventa la “voce buona” dell’ebraismo, quella che conferma la colpa del proprio popolo. Questo uso selettivo dell’ebreo critico è un classico dispositivo dell’antisemitismo colto europeo: non si nega la legittimità di parola agli ebrei, ma la si concede solo a chi rinnega la dimensione collettiva e difensiva di Israele. L’ebreo moralmente ammesso è quello che si autoaccusa.
8. «Il resto è la tragedia che sappiamo, sempre pronta a riesplodere».
La chiusa apparentemente neutra (“tragedia”) funziona come sigillo morale. Non c’è colpa, né responsabilità: c’è solo una “tragedia” che si ripete. Ma proprio questa indeterminatezza assolve Hamas e colpevolizza Israele per l’eternità. Perché la tragedia, nella cultura occidentale, è colpa di chi la perpetua, e qui il soggetto che “non impara mai” è chiaramente Israele. È la ripetizione del mito del “popolo che non capisce”, del “popolo testardo”, del “popolo che tradisce la lezione della storia” — un leitmotiv che, nella cultura cristiana e poi illuminista, è alla base del pregiudizio antiebraico: l’ebreo che rifiuta la redenzione.
9. Assenza totale della parola “ebraismo” o “antisemitismo”. In tutto l’editoriale Giannini non nomina mai né l’identità ebraica delle vittime né l’antisemitismo di Hamas. Il 7 ottobre è ridotto a “mostruoso pogrom”, formula quasi rituale, subito neutralizzata dall’avverbio “il resto è la tragedia che sappiamo”. È una strategia di cancellazione: il fatto antisemita è riconosciuto solo per dissolverlo subito nella categoria dell’universale dolore. Questo è oggi uno dei segni linguistici più riconoscibili dell’antisemitismo intellettuale: non negare apertamente l’odio antiebraico, ma neutralizzarlo semanticamente, togliendogli il suo nome.
