LA GENIALITÀ DEL PIANO DI TRUMP PER GAZA RISIEDE NEL SUO FALLIMENTO INEVITABILE
Di Gregg Roman
30 Settembre 2025
Il piano del presidente Donald Trump per porre fine al conflitto di Gaza non è una proposta di pace; è una dichiarazione di guerra all’illusione strategica. Agli architetti del declino a Washington e a Bruxelles, sembrerà un’offerta ragionevole di ricostruzione, aiuti e autonomia. Si torceranno le mani per la frustrazione quando fallirà, ma non ne colgono il punto. La vera genialità del piano non risiede nel suo potenziale di successo, ma nel suo fallimento predeterminato. È un test finale e chiarificatore, progettato per smascherare i nemici di Israele, smascherare i loro protettori e fornire una giustificazione per l’unica politica in grado di portare una pace duratura nella regione.
Ovvero che la politica si fonda su una verità semplice e storicamente innegabile: i conflitti non si concludono con negoziati o compromessi quando una delle parti è un nemico implacabile e ideologico. La pace duratura non è il prodotto di un’intesa condivisa; viene imposta a un nemico sconfitto, la cui volontà di combattere è stata spezzata.
Il percorso per trasformare Giappone e Germania in pacifiche democrazie dopo la Seconda Guerra Mondiale ha richiesto la loro resa incondizionata e la trasformazione della società. Questa è la realtà necessaria, seppure brutale, che una generazione di politici occidentali si è rifiutata di accettare.
A prima vista, la proposta di Trump offre a Hamas un ponte d’oro verso la resa. Offre un cessate il fuoco, un massiccio scambio di prigionieri, l’amnistia per i combattenti che si disarmano e uno sforzo internazionale multimiliardario per ricostruire Gaza. È una via d’uscita da una guerra che Hamas ha iniziato e non può vincere, un’alternativa superficialmente attraente alla propria distruzione. Per la mentalità occidentale, assuefatta alla fantasia che tutti i conflitti siano semplicemente incomprensioni che il dialogo può risolvere, questa sembrerà un’offerta che Hamas non può rifiutare.
Ma è proprio questo il fallimento dell’immaginazione che ha portato all’eccidio del 7 ottobre 2023. Hamas non è un attore razionale che persegue obiettivi politici negoziabili; è un culto ideologico della morte, un movimento totalitario la cui intera identità si fonda sul rifiuto genocida dell’esistenza di Israele. Mentre i suoi leader ora affermano che rivedranno il piano in “buona fede”, l’asse del rifiuto ha già mostrato le sue carte. I suoi alleati, come la Jihad Islamica, hanno denunciato la proposta, e i delegati dell’Iran l’hanno definita un “complotto”. Il piano di Trump esige che Hamas si disarmi, rinunci al suo potere e accetti una realtà di coesistenza pacifica. Per Hamas, questo non è un compromesso; è un atto suicida. Il loro rifiuto è una certezza, ed è questa certezza che conferisce al piano il suo vero valore.
Quando Hamas dirà di no, metterà il suo principale sostenitore, il Qatar, in una posizione impossibile. Per anni, i qatarini hanno giocato un doppio gioco, presentandosi all’Occidente come mediatori indispensabili e, allo stesso tempo, agendo come principali finanziatori e protettori ideologici di Hamas e della Fratellanza Musulmana globale. Con un’ampia coalizione di ministri degli esteri arabi e musulmani che accolgono pubblicamente con favore l’impegno americano, la pressione sul Qatar affinché consegni un Hamas compiacente è immensa. Il suo fallimento sarà un’umiliazione globale, che lo mostrerà come non disposto o incapace di controllare il suo mandatario. Questo è il momento di spezzare finalmente l’asse Hamas-Qatar.
Il “no” di Hamas sarà il momento più chiarificatore di questo conflitto dai tempi dell’eccidio stesso. Eliminerà l’ultima scusa per la codardia morale dell’Occidente. Dimostrerà, una volta per tutte, che il conflitto persiste non per mancanza di concessioni israeliane – che persino il leader dell’opposizione Yair Lapid ora ammette – ma per l’impegno palestinese alla distruzione di Israele. Quando Hamas rifiuterà questa ultima, generosa offerta di resa, fornirà a Israele la chiarezza morale e la legittimità internazionale per offrire l’unica alternativa. La promessa del Primo Ministro Benjamin Netanyahu di “finire il lavoro” non sarà più una minaccia; sarà una necessità, e una con il “pieno appoggio” di Trump.
Questo piano non riguarda il processo di pace; riguarda la fine del processo di pace, una frode strategica che ha premiato il rifiuto palestinese per trent’anni. Costringendo Hamas a rifiutare una via verso la vita, il piano Trump apre la strada alla necessaria fine del gruppo. È l’atto finale di un teatro dell’assurdo, e il suo fallimento sarà l’apripista per un ordine nuovo e più realistico, costruito non sulle sabbie mobili dell’illusione diplomatica, ma sul fondamento di una vittoria israeliana.
https://www.meforum.org/mef-observer/the-trump-gaza-plans-genius-lies-in-its-inevitable-failure
Traduzione di Niram Ferretti
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La gogna a Molinari: quando il giornalismo diventa guardia del corpo della propagandaPerché sono sionista e rivendico il mio diritto a esserloGuerra ideologica totale
Note a margineLa gogna a Molinari: quando il giornalismo diventa guardia del corpo della propaganda
DiStefano PiazzaPostato il 29 Settembre 2025
Maurizio Molinari, ex direttore di Repubblica e oggi editorialista, è stato ufficialmente “censurato” dal Consiglio di disciplina dell’Ordine dei giornalisti del Lazio. Una decisione che pesa non soltanto sulla sua carriera, ma soprattutto sul senso stesso della libertà di stampa in Italia. La motivazione: avrebbe rivolto accuse «non provate e offensive» nei confronti di Francesca Albanese, Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati.
Lo scorso 9 luglio gli Stati Uniti hanno sanzionato Francesca Albanese, accusandola di condurre una «guerra politica ed economica» contro Washington e Israele. A motivare la decisione sono stati i suoi rapporti ufficiali, nei quali ha definito «genocidio» le operazioni israeliane a Gaza e ha denunciato una serie di aziende che, a suo dire, «si arricchiscono con il genocidio», cioè traggono profitto dall’occupazione. Secondo il Segretario di Stato Marco Rubio, le sue posizioni vanno oltre il mandato ONU e mirano a delegittimare Israele sul piano internazionale.
Per tornare alla surreale vicenda di Maurizio Molinari vale la pena ricordare che la censura è il secondo livello di sanzione disciplinare previsto dall’Ordine. Più pesante dell’avvertimento, meno della sospensione o della radiazione. In altre parole, un cartellino giallo che brucia, soprattutto se indirizzato a chi ha guidato una delle più importanti testate italiane. Non una nota di biasimo formale, ma un marchio che rimarrà inciso nei registri dell’Ordine, pronto a essere brandito come precedente.
Tutto parte parte da alcuni esposti presentati da avvocati e giuristi. Nel mirino, le dichiarazioni rese da Molinari a luglio 2025 durante un’intervista a RaiNews24, condotta da Giuseppina Testoni. In quell’occasione, l’ex direttore aveva parlato di presunti finanziamenti da Hamas e di titoli accademici falsi riconducibili alla Albanese. Accuse forti, certo, ma legittimamente inserite nel dibattito pubblico, soprattutto considerando la delicatezza del ruolo della Relatrice speciale.Gli esposti erano corredati dal video dell’intervista e sottolineavano un aspetto preciso: che le principali istituzioni internazionali – dal portavoce del segretario generale Guterres, all’Alto Commissario ONU per i diritti umani Volker Türk, fino al presidente del Consiglio per i diritti umani – si erano già schierate apertamente in difesa della Albanese, respingendo anche le sanzioni statunitensi nei suoi confronti. Non bastasse, era intervenuta pure l’Unione Europea, sempre pronta a difendere la Relatrice come fosse una proprietà intellettuale registrata a Bruxelles. Il ragionamento degli esponenti era semplice: se l’ONU e l’UE la difendono, allora ogni critica è automaticamente falsa o infondata. Un sillogismo degno di un manuale di logica capovolta, ma evidentemente sufficiente a convincere il Consiglio di disciplina.
L’Ordine come tribunale morale
Davanti ai giudici disciplinari, Molinari è stato ascoltato e ha illustrato le fonti da cui aveva attinto le sue informazioni. Non è bastato. Il Consiglio ha deciso di non dargli credito e di procedere con la censura. Una scelta che lascia trasparire più una volontà politica che una valutazione strettamente deontologica.Perché qui sta il punto: non siamo davanti a un caso di giornalismo d’invenzione, di notizie manipolate o di fake news create ad arte. Non c’è stata alcuna campagna diffamatoria orchestrata contro la Albanese. C’è stato un giornalista che, sulla base delle proprie fonti, ha espresso dubbi e rilievi critici su una figura pubblica. E per questo è stato punito. Il giornalismo italiano, dunque, si trasforma ancora una volta in un tribunale morale. Non indaga, non verifica, non discute. Giudica. E lo fa con la spada di Damocle delle sanzioni disciplinari, che pendono sulla testa di chiunque osi toccare i simboli intoccabili del momento.
Il clima internazionale e il peso delle narrazioni
La vicenda non si capisce appieno se non la si inserisce nel contesto più ampio. Francesca Albanese è da tempo una figura controversa. Amata dai circuiti filo-palestinesi, ferocemente ostile a Israele, difesa a spada tratta dalle cancellerie europee e da Ginevra, criticata apertamente da Washington e da gran parte della stampa israeliana. Un personaggio a dir poco divisivo. Che un giornalista italiano la metta in discussione non dovrebbe stupire. Che per questo venga censurato dall’Ordine, sì. Perché qui non è in gioco soltanto il rapporto tra Molinari e la Albanese, ma l’orientamento stesso dell’informazione in Italia: sempre più attenta a non disturbare l’ONU, sempre più prona a proteggere la narrativa propalestinese, sempre meno interessata a garantire il pluralismo. È innegabile che sul fronte mediatico la causa palestinese abbia conquistato una sorta di immunità diplomatica. Ogni critica viene immediatamente bollata come “offensiva”, ogni dubbio come “non provato”. Si dimentica che proprio il compito del giornalismo è porre domande scomode, scavare nelle zone grigie, mettere in discussione verità confezionate. Invece no: si preferisce trasformare l’Ordine in un cane da guardia della propaganda, pronto a mordere chiunque alzi la testa.
Dal caso individuale alla deriva collettiva
Il caso Molinari, quindi, non è un incidente isolato. È la spia di una deriva che riguarda l’intera categoria. Oggi si punisce l’ex direttore di Repubblica, domani potrebbe toccare ad un altro giornalista che si azzarda a sollevare dubbi su un comunicato ONU. La logica è la stessa: mettere a tacere la voce fuori dal coro, assicurarsi che l’orchestra suoni la melodia concordata, che nessuno stoni la partitura propalata dai circuiti internazionali. Si chiama “deontologia”, ma assomiglia sempre di più a una polizza assicurativa per chi detiene il monopolio della verità. In questo contesto, parlare di libertà di stampa è quasi ridicolo. La stampa è libera solo quando si allinea. Quando devia, scatta la punizione. Il messaggio che arriva è chiaro: guai a chi tocca i nuovi intoccabili. Oggi una censura, domani una sospensione, dopodomani una radiazione. Non importa il merito, non importa la buona fede, non importa nemmeno la qualità delle fonti. Conta soltanto la conformità alla linea. E se questo è il giornalismo che ci aspetta, allora tanto vale dichiararlo apertamente: niente più inchieste, niente più opinioni scomode, niente più voci dissonanti. Solo un lungo bollettino di comunicati, redatti secondo il manuale ONU-UE, diffusi senza una virgola fuori posto. Il caso Molinari è, in fondo, l’ennesima cartina di tornasole: quando l’informazione non difende più il diritto a dubitare, ma quello a conformarsi, ha già perso la sua funzione. Un giornalismo che censura le opinioni sgradite non è più giornalismo: è burocrazia della parola, apparato di propaganda travestito da istituzione. E così, in Italia, si celebra il paradosso. Non si difende la verità, si difende la narrativa. Non si punisce la menzogna, si punisce il dubbio. Non si tutela il cittadino, si tutela il potente. Se questa è la deontologia, allora la verità non interessa più a nessuno. Benvenuti nel giornalismo di pace: quello che ti toglie la parola per non disturbare Francesca Albanese e i suoi amici.
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Israele e sionismoPerché sono sionista e rivendico il mio diritto a esserlo
DiStefano PiazzaPostato il 29 Settembre 2025
Essere sionista, nel 2025, è diventato per molti una colpa da cui difendersi, un’accusa da respingere. Per me, invece, è un’identità che rivendico con fierezza e con piena consapevolezza storica. Sionista non come insulto, ma come definizione legittima di appartenenza a un movimento che ha garantito al popolo ebraico ciò che per secoli gli è stato negato: la possibilità di vivere libero, sovrano e autodeterminato nella propria terra.
Il sionismo non nasce come ideologia di conquista, ma come movimento di liberazione nazionale. È la risposta a secoli di persecuzioni, ghettizzazione e pogrom in Europa e in Medio Oriente, fino all’apice dell’orrore della Shoah. Theodor Herzl, padre del sionismo politico, lo aveva capito già a fine Ottocento: finché gli ebrei fossero rimasti una minoranza dispersa, nessuna emancipazione, nessuna promessa di integrazione avrebbe potuto proteggerli dall’antisemitismo. La storia gli ha dato ragione in modo tragico.
Il ritorno a Sion non è stato un capriccio moderno, ma la concretizzazione di un sogno millenario. Nelle preghiere quotidiane, nel ricordo collettivo, nella cultura ebraica, Gerusalemme non è mai stata solo un simbolo: è stata sempre un luogo vivo, atteso, reclamato. Il sionismo ha trasformato quella speranza in un progetto politico. Dopo la Dichiarazione Balfour del 1917, il Mandato britannico e le migrazioni forzate, lo Stato di Israele è stato proclamato nel 1948 e riconosciuto dalle Nazioni Unite come patria del popolo ebraico.
Essere sionista oggi significa, quindi, difendere un diritto fondamentale: che Israele esista e viva in sicurezza. Non è odio verso altri, non è negazione dei diritti palestinesi, non è arroganza coloniale. È la semplice affermazione che il popolo ebraico, come tutti i popoli, ha diritto a un focolare nazionale. Eppure, troppo spesso, il termine “sionismo” viene rovesciato in insulto, in etichetta da additare per delegittimare Israele e chi lo sostiene.
Per questo rivendico il mio diritto a essere sionista. Perché nessuno dovrebbe vergognarsi di difendere l’esistenza di uno Stato nato dopo secoli di oppressione e dopo lo sterminio sistematico di sei milioni di ebrei. Perché non accetto che, nel XXI secolo, si cerchi di negare a Israele ciò che è considerato naturale per ogni altro Paese: la legittimità a esistere e a difendersi.
Essere sionista significa anche rifiutare la manipolazione storica che riduce Israele a un intruso. La guerra del 1948 e i conflitti successivi non sono stati causati dall’idea stessa di Israele, ma dal rifiuto di accettarne l’esistenza. Ancora oggi, i movimenti che invocano la “liberazione della Palestina dal fiume al mare” non chiedono due Stati, chiedono la cancellazione di Israele. Davanti a questa minaccia, il sionismo resta l’unica risposta possibile.
Naturalmente il sionismo, come ogni movimento nazionale, non è stato privo di errori e contraddizioni. Ha conosciuto correnti diverse, dal socialismo dei kibbutz al revisionismo più rigido. Israele, nella sua storia, ha commesso scelte discutibili e politiche contestate. Ma nessuno di questi elementi può cancellarne la legittimità. Non si chiede agli italiani di rinnegare il Risorgimento per gli errori del Regno d’Italia, né ai francesi di vergognarsi della Rivoluzione perché sfociò nel Terrore. Allo stesso modo, il sionismo non si misura solo dalle sue imperfezioni, ma dalla sua ragion d’essere: garantire al popolo ebraico un futuro.
Io sono sionista perché credo che la sicurezza ebraica non sia negoziabile, e perché so che senza Israele gli ebrei del mondo sarebbero ancora una minoranza vulnerabile, facile bersaglio dell’odio. Sono sionista perché non accetto che l’unico Stato ebraico venga trattato con parametri diversi da quelli applicati a ogni altra nazione. Sono sionista perché, in un tempo in cui l’antisemitismo torna a crescere sotto nuove maschere, il sostegno a Israele è una forma di resistenza morale. Il sionismo, infine, non è chiusura ma apertura. Difendere Israele non significa negare i diritti dei palestinesi, significa piuttosto cercare un equilibrio in cui due popoli possano vivere fianco a fianco. Il rifiuto del sionismo, invece, non porta pace: porta solo all’illusione che un popolo intero possa essere cancellato. E mentre il mondo discute, Hamas giura apertamente di voler ripetere i massacri del 7 ottobre ancora e ancora. Questo è il terrore che Israele e il mondo libero devono affrontare: la minaccia dichiarata di chi non vuole la pace, ma la distruzione. Ed è per questo che io sono, e resto, sionista.
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Antisemitismo, Antisionismo e DebunkingGuerra ideologica totale
DiDavide CavalierePostato il 28 Settembre 2025
Oggi, in Occidente, è in corso una guerra ideologica totale contro Israele e il sionismo, una guerra capace di mobilitare milioni di persone contro l’unico Stato ebraico del mondo. Ondate di «indignati» chiedono l’isolamento diplomatico di Israele, così che le einsatzgruppen di Hamas e della Jihad islamica palestinese possano uccidere gli ebrei con maggiore facilità (e soprattutto nel silenzio di una comunità internazionale stanca di questo piccolo popolo dalla dura cervice).
L’israelicidio è ciò che affratella tutti i nemici della civiltà occidentale, che sullo Stato ebraico proiettano il vecchio odio per l’Occidente «imperialista» e «colonizzatore». La giudeofobia, soprattutto nella forma dell’antisionismo, è in grado di superare tutte le barriere ideologiche (estrema destra, estrema sinistra, tradizionalismo cattolico, anarchismo) e generazionali. La «causa palestinese» unisce laddove altro separa. Dichiararsi «per la Palestina» significa schierarsi dalla parte del «Bene», non esiste causa più commovente di quella per Gaza.
L’ultima escatologia occidentale è questa lotta religiosa – perché il «palestinismo» è una religione politica come lo furono il nazionalsocialismo e il comunismo – contro quello che viene reputato l’ultimo «razzismo» della storia: il sionismo. «From the river to the sea» è la visione apocalittica di un mondo emendato dal sionismo. Una promessa di libertà che non riguarda solo il cosiddetto «popolo palestinese», bensì tutta l’umanità, perché Israele è considerato la «testa» di una setta conquistatrice responsabile di ogni oppressione e di ogni ingiustizia.
L’antisionismo è costitutivamente sterminazionista. Com’è possibile, infatti, vivere in pace con questo Stato razzista, autoritario e intrinsecamente perverso? Come possiamo far sì che questo popolo ostinato, abbandoni da sé il suo nefasto proposito di voler dominare il mondo? E ancora: come si può distruggere il sionismo, il suo progetto di una sovranità ebraica sulla Terra Santa, senza eliminare tutti i sionisti? A queste domande, il «palestinista» occidentale dà la medesima risposta dello jihadista: sterminio.
I buoni sentimenti (antirazzismo, ecologismo, umanitarismo…) vengono così messi al servizio di una politica di distruzione, che ha come fine l’omicidio di massa dei sionisti e degli ebrei.
La Shoah non è altro che un sottile baluardo morale, che agli antisionisti sembra sempre più un mito fabbricato per cancellare la memoria della Nakba. Il sospetto si trasforma progressivamente in negazione, ed ecco che tutto diventa di nuovo possibile, tutto ricomincia.