martedì 30 settembre 2025

LE PIACE BRAHMS Françoise Sagan



 LE PIACE BRAHMS 

Françoise Sagan

Recensione

Già dall’incipit, Françoise Sagan mette in mostra tutta la sua raffinatezza descrivendo una “Parigi lucida di pioggia autunnale”. L’atmosfera malinconica e grigia di cui è avvolto il romanzo, mi ha ricordato Gente di Dublino di James Joyce e Paule somiglia straordinariamente a Eveline. Diversa età e condizione sociale ma lo stesso immobilismo, la stessa incapacità di tirarsi fuori dal pantano. Paule è una donna insoddisfatta, sola, inquieta. Eppure, è già rassegnata, come se invece di avere 39 anni fosse nel tramonto della vita. E quel riferimento iniziale a un viso devastato, che sicuramente non lo è se piace a un venticinquenne, ci fa capire subito quanto Paule svaluti se stessa. Pur apparendo come una donna brillante. Ecco, è forse questa l'approccio con cui leggere il romanzo: la differenza tra apparire ed essere, tra volere e ottenere. Per un amore che non è amore, di un uomo che non è un uomo, di una vita che è una non vita.

La chiave per comprendere fino in fondo Paule è in questa semplice domanda che Simon le scrive su un biglietto: Le piace Brahms? Lei è talmente disabituata a coltivare le sue passioni e ad ascoltare le sue esigenze che non si ricorda neanche più cosa le piace e cosa no. 

Da questo libro di Françoise Sagan è stato tratto nel 1961 l’omonimo film diretto da Anatole Litvak con Ingrid Bergman, Ives Montand e Anthony Perkins.

LE PIACE BRAHMS?

CAPITOLO I

Paule fissava il suo volto nello specchio e ne scandagliava le sconfitte accumulate in trentanove anni, una per una, non con il panico e con l’acrimonia soliti in questi casi, ma con attenta tranquillità. Come se la pelle tiepida, presa tra due dita per sottolineare una ruga, per far uscire un’ombra, fosse stata di qualcun’altra, di un’altra Paule appassionatamente preoccupata della sua bellezza, che a stento passava dalla condizione di giovane donna a quella di donna giovane: una donna che riconosceva a mala pena. Si era messa davanti allo specchio per ammazzare il tempo e – questa idea la fece sorridere – scopriva che la stava uccidendo a fuoco lento, dolcemente, attaccandosi a un aspetto che lei sapeva essere stato amato.

Roger doveva arrivare alle nove; erano le sette; aveva tutto il tempo. Il tempo di allungarsi sul letto, con gli occhi chiusi, di non pensare a nulla. Di distendersi. Di rilassarsi. Ma a cosa pensava di così appassionante, di così estenuante durante il giorno da doversi riprendere la sera? E questa indolenza inquieta che la portava da una stanza all’altra, la conosceva bene. Era quella della sua infanzia, nei giorni di pioggia.

Entrò in bagno, si curvò per toccare l’acqua nella vasca, e questo gesto gliene ricordò subito un altro. Risaliva a quindici anni prima. Allora stava con Marc, passavano le vacanze assieme per il secondo anno consecutivo e già sentiva che tutto questo non sarebbe potuto durare. Erano sulla barca di Marc, la vela sbatteva al soffiare del vento, come un cuore incerto. Aveva venticinque anni. E all’improvviso si era sentita invasa di felicità, accettando tutto della sua vita, accettando il mondo, comprendendo in un lampo che tutto andava bene. E per nascondere il viso, si era chinata sul capo di banda, per immergere le dita nell’acqua corrente. Il piccolo veliero aveva trovato un riparo; Marc le aveva lanciato uno di quegli sguardi inespressivi di cui deteneva il segreto e subito, dentro di lei, l’ironia aveva preso il posto della felicità. Sicuro, era stata felice dopo, con o per altri, ma mai in questo modo totale, insostituibile. E questo ricordo assomigliava alla fine a quello di una promessa disattesa.

Roger stava per arrivare, gli avrebbe spiegato, avrebbe cercato di spiegargli. Le avrebbe detto: «Sì, certamente», con quella specie di soddisfazione che gli prendeva ogni volta che scopriva gli imbrogli della vita, un vero entusiasmo nel commentare l’assurdità dell’esistenza, la loro testardaggine a prolungarla. Soltanto che dentro di sé compensava tutto ciò con una incessante vitalità, con forti appetiti e, a un livello più profondo, con un grande appagamento dell’essere che non si placava che con il sonno. Allora si addormentava di colpo, con la mano sul cuore, attento alla sua vita sia durante il sonno che nella veglia. No, lei non sarebbe riuscita a spiegare a Roger che era stanca, che non ne poteva più di quella libertà che si era stabilita tra di loro come una legge, quella libertà di cui solo lui poteva godere e che per lei non significava altro che solitudine. Non avrebbe potuto dirgli che talvolta si sentiva come una di quelle donnette avide e possessive che lui odiava. Di colpo il suo appartamento deserto le sembrò orribile e inutile. Alle nove Roger suonò e nell’aprirgli, vedendolo sorridente, ben piantato davanti alla porta, disse tra sé, ancora una volta che quello era il suo destino e che lo amava.

La abbracciò: «Come sei vestita bene! Avevo nostalgia di te. Sei sola?»

«Sì, entra.»

«Sei sola…?» Che avrebbe fatto se gli avesse risposto: «No, ti è andata male.» Ma in sei anni non lo aveva mai detto. Non mancava mai di chiederglielo e qualche volta anche di scusarsi di disturbarla, per una forma di furberia che gli rimproverava più che la sua incostanza. (Non riusciva neppure ad ammettere l’idea che potesse essere sola e infelice per causa sua). Gli sorrise. Aprì una bottiglia, riempì due bicchieri, si sedette: «Avvicinati, Paule. Dove vuoi che andiamo a cena?»

Si sedette vicino a lui. Aveva l’aria stanca, anche lui. Le prese la mano, la strinse.

«Nuoto nelle complicazioni», disse. «Affari privi di interesse, gente sciocca e moscia come non mai. Ah, sai, vivere in campagna…» Paule si mise a ridere: «Ti mancherebbe il tuo molo di Bercy. I tuoi magazzini, i tuoi camion. E le tue notti a Parigi…».

All’ultima frase sorrise, si stirò e si lasciò cadere indietro sul divano. Lei non si voltò. Guardava la mano che aveva lasciato sulla sua, una grande mano aperta. Conosceva tutto di lui: i suoi capelli fitti, dall’attaccatura bassa, l’espressione esatta dei suoi occhi azzurri un po’ sporgenti, la piega della bocca. Lo conosceva a memoria.

«A proposito», disse «a proposito delle mie folli notti, sono stato arrestato dagli agenti, l’altra sera, come un ragazzino. Avevo fatto a botte con un tipo. A più di quarant’anni… al comando… Ti rendi conto…»

«Perché facevi a botte?»

«Non mi ricordo. Ma era ridotto male.»

E come se il ricordo di questa dimostrazione fisica lo avesse rianimato, si alzò di soprassalto.

«Ecco dove si va. Al Piemontese. Dopo andremo a ballare. Se ti degnerai di riconoscere che io ballo.»

«Cammini», disse Paule, «non si può proprio dire che balli.»

«Non tutti la pensano così.»

«Se stai parlando di quelle poverette che metti sotto», disse Paule «allora è diverso.»

Si misero a ridere. Le avventurette di Roger erano un eccellente argomento di scherzo tra di loro. Paule si appoggiò al muro un istante prima di mettere la mano sulla ringhiera. Non ne aveva il coraggio.

Nell’auto di Roger, accese la radio con una mano distratta. Intravide per un secondo, sotto la luce smorta del cruscotto, la sua mano, lunga e curata. Le vene vi si stendevano sopra, cominciavano ad arrampicarsi all’assalto delle dita, e si mescolavano in un disegno disordinato. «È l’immagine della mia vita», pensò, ma arrivò presto alla conclusione che questa immagine era fasulla. Aveva un lavoro che le piaceva, un passato senza rimpianti, dei buoni amici. E una relazione duratura. Si girò verso Roger: «Quante volte ho fatto questo gesto: accendere la radio della tua macchina mentre sto andando a cena con te?»

«Non so.»

Le lanciò un’occhiata obliqua. Nonostante il tempo e la certezza che aveva del suo amore per lui, rimaneva sorprendentemente sensibile ai suoi umori, sempre in agguato. Come i primi tempi… Trattenne un: «Ti ricordi?» e decise di fare molta attenzione quella sera al suo sentimentalismo.

«Ti sembra vecchio?»

«No. Sono io che mi sento un po’ vecchia talvolta.»

Tese la mano verso di lei, Paule la prese tra le sue. Andava forte, le vie conosciute si appiattivano sotto la macchina; Parigi riluceva di una pioggia autunnale. Si mise a ridere.

«Mi chiedo perché vado così forte. Temo che non sia per fare il giovanotto.»

Lei non rispose. Da quando lo conosceva, faceva il giovanotto, era il “giovanotto”. Era da molto che glielo confessava, e quella confessione le faceva paura. Le faceva sempre più paura il ruolo di confidente in cui si stava infilando, a forza di comprensione, a forza di tenerezza. Era la sua vita, lui lo dimenticava e lei lo aiutava a dimenticarlo, con un pudore del tutto rispettabile.

Cenarono tranquillamente, parlando dei problemi comuni a tutte le imprese di trasporto come quella di Roger, poi lei raccontò due o tre aneddoti divertenti sui negozi che stava allestendo. Una cliente di Fath voleva assolutamente che si occupasse del suo appartamento. Un’americana, piuttosto ricca.

«Van den Besh?», disse Roger. «Mi dice qualcosa. Ah! Sì…».

Paule alzò le sopracciglia. Roger aveva quell’aria allegra che gli dava un certo genere di ricordi.

«Una volta la conoscevo. Prima della guerra, temo. Era sempre da “Florance”».

«Dopo di allora si è sposata, ha divorziato, ecc. ».

«Sì, sì», disse sognante «si chiamava, ah…».

La infastidiva. Ebbe bruscamente voglia di piantargli la forchetta nella mano.

«Non mi importa come si chiama», disse. «Credo che abbia un bel po’ di soldi ma niente gusto. Esattamente ciò di cui ho bisogno per vivere.»

«Quanti anni ha ora? ».

«Una sessantina», disse freddamente, e vedendo l’espressione di Roger scoppiò a ridere. Si curvò sul tavolo, la fissò: «Sei davvero terribile. Fai di tutto per deprimermi. Ti amo lo stesso ma non dovrei.» 

Gli piaceva recitare la parte della vittima. Paule sospirò.

«Comunque stiano le cose, ci vado domani. Avenue Kléber. Il mio bisogno di soldi mi angoscia. E anche tu», aggiunse mentre sollevava la mano.

«Parliamo d’altro», disse. «Andiamo un po’ a ballare.»

Nel locale si sedettero a un tavolino lontano dalla pista e guardarono sfilare i volti senza proferire parola. Aveva la mano sulla sua, si sentiva perfettamente al sicuro, perfettamente abituata a lui. Non avrebbe mai potuto fare lo sforzo di conoscere qualcun altro e attingeva da questa certezza una felicità triste. Danzarono. La teneva saldamente, attraversando la pista da un capo all’altro senza alcun senso del ritmo, con un’aria alquanto appagata. Lei era molto felice.

Più tardi tornarono alla macchina, scese, la prese tra le braccia davanti al portico.

«Ti lascio dormire. A domani, mia cara.»

La abbracciò leggermente e partì. Paule agitò la mano. La lasciava dormire sempre più spesso. Il suo appartamento era vuoto; sistemò meticolosamente le sue cose prima di sedersi sul letto, con le lacrime agli occhi. Era sola, anche quella notte, e la sua vita futura le si affacciò alla mente come una lunga serie di notti solitarie, in lenzuola ancora intatte, immersa in una tranquillità triste come quella di una lunga malattia. Nel letto tese il braccio istintivamente come se accanto ci fosse un fianco tiepido da toccare; respirava piano come per proteggere il sonno di qualcuno. Un uomo o un bambino. Non importava chi potesse aver bisogno di lei, del suo calore, per dormire o per svegliarsi. Ma nessuno aveva davvero bisogno di lei. Roger, forse, saltuariamente, ma non sul serio. Non nel modo per niente passionale ma fisiologico che talvolta aveva avvertito.

Rimuginava dolcemente, amaramente, la sua solitudine. Roger lasciò la macchina davanti a casa sua e camminò per un bel po’. Respirava profondamente, allungava il passo un poco alla volta. Si sentiva bene. Stava bene ogni volta che vedeva Paule. Non amava che lei. Solo che quella sera, nel congedarsi, si era accorto della sua tristezza e non aveva saputo cosa dire. Gli stava chiedendo qualcosa confusamente, lo sapeva bene, qualcosa che non poteva darle, che non aveva mai saputo dare a nessuno. Probabilmente avrebbe dovuto restare con lei e fare l’amore: in fondo era ancora il modo migliore per rassicurare una donna. Ma aveva voglia di camminare, fare un po’ di strada, gironzolare. Aveva voglia di sentire il rumore dei suoi passi sul selciato, di vegliare sulla città che conosceva così bene e di coglierne forse le opportunità notturne. Si diresse verso le luci in fondo al molo.

CAPITOLO III


 


 


Simon ci impiegò un quarto d’ora a trovare un posto e finì per parcheggiare a cinquecento metri dallo studio. Lavorava da un amico di sua madre, un avvocato molto noto e tremendamente odioso che, per motivi che Simon temeva di comprendere, tollerava le sue leggerezze. Talvolta aveva voglia di farlo uscire dai gangheri ma la sua pigrizia glielo impediva. Salendo sul marciapiede inciampò e si mise subito a zoppicare, con un’aria docile e rassegnata. Al suo passaggio le donne si giravano e Simon sentiva i loro pensieri battergli sulla schiena: “Così giovane, così bello e invalido. Che peccato!” Anche se non traeva nessuna sicurezza di sé dal suo fisico, ma solo una certa consolazione: “Non avrei mai avuto la forza di essere brutto”. E solo al pensiero, intravvedeva una vita da asceta, a volte da pittore maledetto, a volte da pastore delle Lande.


Entrò in ufficio zoppicando e la vecchia Alice gli lanciò uno sguardo nello stesso tempo tenero e scettico. Conosceva le sue distrazioni preferite e le tollerava con una certa condiscendenza piena di rimpianti. Se fosse stato serio, con la sua prestanza fisica e la sua immaginazione, avrebbe potuto essere un grande avvocato. Le fece un saluto enfatico e si sedette alla scrivania.


«Perché zoppica?»


«Non zoppico sul serio. Chi ha ucciso chi questa notte? Quand’è che mi capiterà di occuparmi di un bel crimine imperdonabile?»


«L’hanno chiamata tre volte questa mattina. Sono le undici e mezzo.»


“Hanno chiamato” voleva dire che “il grande avvocato aveva chiamato”. Simon lanciò un’occhiata verso la porta.


«Mi sono alzato tardi. Ma ho incontrato una gran bella persona.»


«Una donna?»


«Sì, mi capisce, un viso molto bello, molto tenero, un po’ sfatto… gesti che sono dei veri gesti… una che soffre di qualcosa che non si sa.»


«Farebbe meglio a guardare la pratica Guillaut.»


«Va bene.»


«È sposata?»


Simon fu bruscamente risvegliato dai suoi sogni.


«Non so… ma se lo è, non è felice. Aveva problemi di soldi che ora si sono sistemati e quindi era tutta contenta. Amo le donne che sono rese felici dal denaro.» Alzò le spalle.


«Allora tutte.»


«Quasi», disse Simon «Tranne quelle troppo giovani.» Si tuffò nella pratica.


La porta si aprì e l’avvocato Fleury mise dentro la testa.


«Signor Van den Besh, permette un minuto?»


Simon si scambiò un rapido sguardo con la segretaria. Si alzò e passò nell’ufficio inglese che detestava per la sua perfezione. «Sapete che ore sono?» L’avvocato Fleury si lanciò in un’apologia della precisione, del lavoro e terminò il discorso con un elogio della sua pazienza e di quella della signora Van den Besh. Simon guardava dalla finestra. Gli sembrava di rivivere una scena vista e rivista, di aver sempre vissuto in quell’ufficio inglese, di aver sempre sentito quelle parole. Gli sembrava che qualcosa si stringesse attorno a lui, lo soffocasse fino a farlo morire. “Che cosa ho fatto – pensò all’improvviso – che cosa ho fatto in questi venticinque anni, se non passare da luminare a luminare, sempre rimproverato, sempre lusingato di esserlo?” Era la prima volta che si poneva la domanda con questo rigore e alzò la voce meccanicamente.


«Che ho fatto?»


«Come? Ma lei non ha fatto niente, mio caro amico, è proprio questo il dramma: lei non fa niente.»


«Credo persino di non avere mai amato nessuno», continuò Simon.


«Non le sto chiedendo di innamorarsi di me o della vecchia Alice.», sbottò l’avvocato Fleury «Le sto chiedendo di lavorare. C’è un limite alla mia pazienza.»


«C’è un limite a tutto», riprese Simon pensieroso. Si sentiva nel pieno del sogno, nel pieno dell’assurdo: l’impressione di non dormire da dieci giorni, di essere a digiuno, di morire di sete.


«Mi prende in giro?»


«No.», disse Simon. «Mi scusi, farò attenzione.»


Uscì camminando a ritroso, si sedette alla scrivania, con la testa tra le mani, sotto gli occhi sorpresi della signora Alice.


“Che cos’ho?” – pensava – “Ma che cos’ho?” Cercava di ricordare: un’infanzia in Inghilterra, gli studi universitari, una passioncella, sì, a quindici anni, per un’amica di sua madre che lo aveva smaliziato nel giro di una settimana, una vita facile, amici allegri, ragazze, strade baciate dal sole… Tutto ruotava nella sua memoria senza che si potesse soffermare su qualche cosa in particolare. Non c’era niente, forse. Aveva venticinque anni.


«Non si preoccupi», disse la signora Alice, «gli passerà. Lo sa bene». Scribacchiava vagamente su un foglio di carta assorbente. «Pensi alla sua amica, invece», continuò Alice inquieta «o, meglio ancora, alla pratica Guillot», riprese.


«Non ho nessuna amica», disse Simon.


«E quella di stamattina?» Come si chiama?


«Non so». Era vero. Non sapeva neppure come si chiamava. C’era qualcuno a Parigi di cui non sapeva nulla. Già, tutto ciò era meraviglioso. Del tutto insperato. Qualcuno su cui avrebbe potuto fantasticare a suo piacimento per giorni.


 


Roger era disteso sul divano del salotto; fumava lentamente, spossato dalla fatica. Aveva trascorso la giornata sul molo di sbarco a sorvegliare il rientro dei suoi camion. Si era tutto inzuppato di pioggia e per di più era stato obbligato a mettersi in strada per Lille, all’ora di pranzo, per verificare i danni di un incidente che gli sarebbero costati più di centomila franchi.


Paule sparecchiava la tavola.


«E quella Teresa?», disse.


«Quale Teresa?»


«La signora Van den Besh. Mi è tornato in mente il suo nome stamattina, Dio sa perché.»


«Sistemato», disse Paule. «Mi occupo di tutto. Non te l’ho detto perché hai avuto così tanti problemi.»


«Credi che il fatto che tu non ne abbia di più mi avrebbe dato ulteriore fastidio?»


«No. Semplicemente pensavo…»


«Mi trovi molto egoista, vero, Paule?»


Si era seduto sul divano, la fissava con i suoi occhi blu; aveva la sua solita aria furiosa. Paule avrebbe dovuto calmarlo, spiegargli che era il migliore degli uomini, cosa che in un certo senso era vera e che la rendeva molto felice. Si sedette vicino a lui.


«Non sei egoista. Sei preoccupato per le tue cose; è normale che ne parli…»


«No. Voglio dire: rispetto a te, mi trovi egoista?»


Si accorse di averci pensato tutto il giorno, probabilmente da quando l’aveva lasciata davanti alla porta di casa, la sera prima, con gli occhi turbati. Paule esitò. Non le aveva mai fatto una domanda diretta e forse era arrivato il momento di parlarne. Ma lei si sentiva di buon umore, sicura di sé, e lui aveva un’aria così stanca. Paule indietreggiò.


«No, Roger. Ci sono momenti, è vero, in cui mi sento un po’ sola, meno giovane, incapace di starti dietro. Ma sono felice.»


«Sei felice?»


«Sì.»


Si distese di nuovo. Aveva detto: “Sono felice”, e la piccola domanda angosciante che l’aveva perseguitato tutto il giorno non doveva fare altro che sparire. Non chiedeva che questo.


«Sai, tutte quelle storielle che mi capitano, insomma, dai, sai che valore darci.»


«Sì, sì», disse lei.


Lo guardava tenendo gli occhi chiusi. Lo trovava infantile. Allungato sul divano, così gigantesco, così pesante, a fare domande puerili.


«Sei felice?» Tese la mano verso di lei; Paule la prese e si sedette vicino a lui. Roger teneva gli occhi chiusi.


«Paule», disse, «Paule… senza di te, sai Paule…»


«Sì.»


Paule si chinò, lo baciò sulla guancia. Stava già dormendo. Senza rendersene conto tolse la mano da quella di Paule, la sollevò e se la mise sul cuore. Paule aprì un libro. Un’ora più tardi si svegliò, tutto agitato, guardò l’orologio, decise che era ora di andare a ballare e a bere, per dimenticare tutti quei maledetti camion.


Paule aveva sonno, ma nessun argomento poteva resistere a un di desiderio di Roger.


La portò in un posticino nuovo, in un seminterrato di Boulevard St-Germain, adibito a giardinetto pubblico, bagnato dall’ombra, che un giradischi inondava di ritmi sudamericani.


«Non ce la faccio a uscire tutte le sere», disse Paule sedendosi, farò cent’anni domani. Già alzandomi questa mattina…».


Fu solo allora che si ricordò di Simon. Lo aveva completamente dimenticato. Si girò verso Roger. «Figurati che stamattina…»


Ma di colpo si fermò: Simon stava davanti a lei.


«Buongiorno», disse Paule.


«La cercavo», disse Simon, «e la trovo, è un buon segno.»


E senza attendere si lasciò cadere su uno sgabello. Roger si rialzò, contrariato.


«La cercavo dappertutto», riprese Simon. «Stavo quasi per chiedermi se per caso l’avessi sognata.»


Gli brillavano gli occhi, aveva messo la mano sul braccio di Paule sbalordita.


«Forse ha un altro tavolo», disse Roger.


«È sposata?», le chiese Simon. «Non ci voglio credere.»


«Mi dà fastidio», disse Roger, «lo porto via». Simon lo guardò, poi si appoggiò con i gomiti sul tavolo, con la testa tra le mani.


«Ha ragione, signore, le chiedo scusa. Credo di aver bevuto un po’ troppo. Ma ho scoperto stamattina che non ho mai concluso niente nella vita.»


«Allora faccia qualcosa di bello: se ne vada!»


«Lascialo stare», disse Paule dolcemente. «È infelice. Tutti, prima o poi, beviamo un po’ troppo. È il figlio della tua…ehm… della tua Teresa.»


«Il figlio?» disse Roger sorpreso, «… è il colmo.»


Si chinò in avanti, Simon aveva messo la testa sulle braccia.


«Si svegli», disse Roger. «Andiamo a bere un bicchiere insieme. Così mi spiega i suoi guai. Vado a prendere i bicchieri, va per le lunghe qui!»


Paule cominciava a divertirsi. L’idea di una conversazione tra Roger e quel giovane eccentrico era un divertimento in anticipo. Simon aveva alzato la testa e guardava Roger mentre faceva evoluzioni tra i tavoli, con difficoltà.


«Ecco un uomo», disse. «Eh? Un vero uomo? Mi fanno orrore gli uomini robusti, virili, con idee sane.»


«Le persone non sono mai così semplici», disse Paule seccata.


«Lo ama?»


«Non la riguarda!»


Aveva un ciuffo di capelli sugli occhi, la luce delle candele gli scavava il viso. Era stupendo. Al tavolo vicino due donne lo contemplavano con beatitudine.


«Le chiedo scusa», disse Simon. «Ma guarda, come è strano! Da questa mattina passo la mia vita a scusarmi. Lo sa, credo di essere un poco di buono!»


Nel frattempo Roger tornava con tre bicchieri e borbottò che tutti arrivavano a quel punto, un giorno o l’altro. Simon bevette tutto d’un fiato il suo e si mantenne in un silenzio prudente. Era seduto vicino a loro e non si muoveva. Li guardò ballare, li ascoltò parlare senza alcuna reazione tanto che a poco a poco lo dimenticarono. Solo, di tanto in tanto, voltandosi, Paule lo vedeva al suo fianco come un bravo bambino e non poteva fare a meno di ridere.


Quando si alzarono per andarsene, si mise educatamente in piedi ma subito crollò. Decisero di riaccompagnarlo a casa. Nella macchina di Roger dormiva e la sua testa sballottava sulla spalla di Paule. Aveva i capelli setosi, respirava dolcemente. Finì per mettergli la mano sulla fronte, perché non sbattesse contro il vetro, e la sua testa divenne pesante contro la sua mano, completamente abbandonata. In avenue Kléber. Roger scese, fece il giro della vettura e aprì la portiera.


«Fai attenzione», mormorò Paule. Roger sorprese la sua espressione, ma non disse nulla e tirò fuori Simon dalla vettura. Quella sera la riportò a casa e salì da lei. La tenne a lungo stretta al suo petto nel sonno, impedendole di dormire.

CAPITOLO II


 


 


Si svegliò indolenzita; era in ritardo, partì affrettatamente. Doveva passare dall’americana prima di andare nel suo ufficio.


Alle dieci fece il suo ingresso in un salone mezzo vuoto, in avenue Kléber. La proprietaria stava ancora dormendo, perciò ne approfittò per rifarsi il trucco, con calma, davanti allo specchio. E nello specchio vide arrivare Simon. Indossava una vestaglia da camera esageratamente grande per lui, era spettinato e incredibilmente bello.


«Non è il mio genere», pensò sempre senza girarsi e si sorrise un istante. Era magrissimo, i capelli scurissimi, gli occhi chiari, un po’ troppo sottile. Non la vide subito e si diresse verso la finestra canticchiando. Paule tossì e allora lui si girò di scatto con l’aria di chi è colto in flagrante. Paule pensò per un attimo che fosse l’ultimo capriccio della signora Van den Besh.


«Le chiedo scusa», disse, «non l’avevo vista. Sono Simon Van den Besh.»


«Sua madre mi ha chiesto di passare questa mattina per visionare l’appartamento. Temo di aver svegliato tutti.»


«In ogni caso bisogna sempre svegliarsi, presto o tardi», disse tristemente.


E Paule pensò con noia che doveva far parte della categoria dei giovani lagnosi.


«Si sieda, dunque», disse e prese posto di fronte a lei con un’espressione seria, stringendosi addosso la vestaglia da camera. Aveva un’aria piuttosto timida e Paule cominciò a provare una vaga simpatia per lui. In ogni caso non sembrava assolutamente consapevole del suo fisico, cosa davvero inaspettata.


«Credo stia ancora piovendo, no?»


Paule si mise a ridere. Pensava all’espressione di Roger se l’avesse vista seduta, con l’espressione di una donna d’affari, intenta a terrorizzare un giovane esageratamente bello, in vestaglia da camera, alle dieci del mattino.


«Sì, sì, piove», disse allegramente.


Simon alzò gli occhi. «Che vuole che le dica? Non la conosco. Se la conoscessi già, le direi che sono molto felice di rivederla. Lo guardò sconcertata.»


«Perché?»


«Così.»


Simon girò la testa. Lo trovava sempre più strano.


«Questo appartamento, effettivamente, ha bisogno di essere un po’ sistemato», disse. «Dove vi sedete quando siete più di tre?»


«Non so», disse. «Non ci sono quasi mai. Lavoro tutto il giorno e quando rientro sono così stanco che vado subito a letto.»


Paule dovette riconsiderare tutte le idee che si era fatta su di lui. Non si vantava del suo fisico; lavorava tutto il giorno. Finì quindi per chiedergli: «Che lavoro fa?», e si fermò. Questa curiosità non le era connaturale.


«Sono un avvocato praticante», riprese Simon. «C’è molto da fare: si va a letto a mezzanotte, ci si alza all’alba.»


«Sono le dieci», fece notare Paule.


«Il mio cliente più importante è stato ghigliottinato stamattina», disse con voce strascicata. Paule ebbe un sobbalzo. Teneva gli occhi bassi.


«Mio Dio», disse «…ed è morto?»


Entrambi scoppiarono a ridere. Si alzò e prese una sigaretta sul caminetto.


«No, in effetti non sto lavorando tanto, non abbastanza comunque. Lei invece, già in piedi alle dieci del mattino, pronta a sistemare questo orribile salone, quasi quasi mi mette soggezione.»


Camminava avanti e indietro, molto agitato.


«Si calmi», disse Paule.


Si sentiva di buonissimo umore, divertita.


Cominciò anche a temere l’arrivo della madre di Simon.


«Vado a vestirmi», disse Simon. «Faccio in un minuto. Mi aspetti.»


Passò un’ora con la signora Van den Besh visibilmente di cattivo umore e un po’ stravolta di mattina; ragionò con lei su alcuni progetti complicati e scese la scala, rapita, concordando un piano finanziario, completamente dimentica di Simon. Fuori continuava a piovere.


Alzò il braccio per chiamare un taxi. Una piccola vettura si fermò davanti a lei; Simon aprì la portiera.


«Posso darle uno strappo? Stavo andando in ufficio.»


Si vedeva chiaramente che aspettava da un’ora, ma la sua aria sorniona la intenerì. Salì a fatica, piegandosi in due e sorrise: «Avenue Matignon».


«Tutto sistemato con mia madre?»


«Nel migliore dei modi. Potrete presto riposare le vostre fatiche su dei soffici divani. Non è che le facc iofare tardi? Sono le undici passate. Faranno a tempo a ghigliottinare tutti.» 


«Ho tutto il tempo», disse con un tono brusco.


«Non la sto prendendo in giro», riprese gentilmente, «è che sono di buon umore perché avevo grossi problemi di soldi e ora, grazie a sua madre, spariranno».


«Fateveli dare subito», disse «è tremendamente tirchia.»


«Non si parla così dei propri genitori», disse Paule.


«Non ho mica dodici anni!»


«Quanti allora?»


«Venticinque. E lei?»


«Trentanove».


Fece un piccolo fischio così maleducato che per un secondo rischiò di far arrabbiare Paule, che invece scoppiò a ridere.


«Perché ride?»


«Per il fischio di ammirazione…»


«Sicuro, di ammirazione, più di quanto non pensi», disse e la guardò con un’aria così tenera che quasi si infastidì.


I tergicristalli battevano il tempo sul vetro, con assoluta inefficacia e si chiese come riuscisse a guidare. Nel salire aveva smagliato una calza: si sentiva meravigliosamente allegra, in quella vettura scomodissima, con un giovane sconosciuto, palesemente sedotto, mentre la pioggia che penetrava dalla cappotta le sporcava il soprabito chiaro. Si mise a canticchiare: una volta pagate le tasse, spedita la pensione di sua madre, regolati i debiti con il negozio, le sarebbero rimasti… non aveva voglia di fare i conti.


Simon andava forte, anche lui. Pensò a Roger e alla notte passata, e si incupì.


«Le farebbe piacere pranzare con me un giorno?»


Simon parlava in fretta, senza guardarla. Per un istante provò una sensazione di panico. Non lo conosceva, avrebbe dovuto fare un certo sforzo per conversare, fargli domande personali, entrare in una nuova esistenza. Era combattuta.


«Questi giorni non posso: ho troppo lavoro.»


«Capisco!», disse lui. Non insistette.


Gli lanciò un’occhiata, aveva rallentato e le sembrava persino che guidasse laconicamente. Paule prese una sigaretta e Simon le porse l’accendino. Aveva un pugno da adolescente, estremamente magro, che usciva in maniera buffa da una giacca di tweed pesante.


“Non ci si veste come un cacciatore di pellicce con un fisico così”, pensò e per un attimo ebbe voglia di prendersene cura. Era proprio quel genere di ragazzo che ispirava sentimenti materni a una donna della sua età.


«È qui», disse.


Simon scese senza dire una parola, aprì la portiera. Aveva un’aria caparbia e malinconica.


«Grazie ancora», disse lei.


«Di niente.»


Fece tre passi verso la porta e si girò. La guardava, immobile.


 CAPITOLO III


 


 


Simon ci impiegò un quarto d’ora a trovare un posto e finì per parcheggiare a cinquecento metri dallo studio. Lavorava da un amico di sua madre, un avvocato molto noto e tremendamente odioso che, per motivi che Simon temeva di comprendere, tollerava le sue leggerezze. Talvolta aveva voglia di farlo uscire dai gangheri ma la sua pigrizia glielo impediva. Salendo sul marciapiede inciampò e si mise subito a zoppicare, con un’aria docile e rassegnata. Al suo passaggio le donne si giravano e Simon sentiva i loro pensieri battergli sulla schiena: “Così giovane, così bello e invalido. Che peccato!” Anche se non traeva nessuna sicurezza di sé dal suo fisico, ma solo una certa consolazione: “Non avrei mai avuto la forza di essere brutto”. E solo al pensiero, intravvedeva una vita da asceta, a volte da pittore maledetto, a volte da pastore delle Lande.


Entrò in ufficio zoppicando e la vecchia Alice gli lanciò uno sguardo nello stesso tempo tenero e scettico. Conosceva le sue distrazioni preferite e le tollerava con una certa condiscendenza piena di rimpianti. Se fosse stato serio, con la sua prestanza fisica e la sua immaginazione, avrebbe potuto essere un grande avvocato. Le fece un saluto enfatico e si sedette alla scrivania.


«Perché zoppica?»


«Non zoppico sul serio. Chi ha ucciso chi questa notte? Quand’è che mi capiterà di occuparmi di un bel crimine imperdonabile?»


«L’hanno chiamata tre volte questa mattina. Sono le undici e mezzo.»


“Hanno chiamato” voleva dire che “il grande avvocato aveva chiamato”. Simon lanciò un’occhiata verso la porta.


«Mi sono alzato tardi. Ma ho incontrato una gran bella persona.»


«Una donna?»


«Sì, mi capisce, un viso molto bello, molto tenero, un po’ sfatto… gesti che sono dei veri gesti… una che soffre di qualcosa che non si sa.»


«Farebbe meglio a guardare la pratica Guillaut.»


«Va bene.»


«È sposata?»


Simon fu bruscamente risvegliato dai suoi sogni.


«Non so… ma se lo è, non è felice. Aveva problemi di soldi che ora si sono sistemati e quindi era tutta contenta. Amo le donne che sono rese felici dal denaro.» Alzò le spalle.


«Allora tutte.»


«Quasi», disse Simon «Tranne quelle troppo giovani.» Si tuffò nella pratica.


La porta si aprì e l’avvocato Fleury mise dentro la testa.


«Signor Van den Besh, permette un minuto?»


Simon si scambiò un rapido sguardo con la segretaria. Si alzò e passò nell’ufficio inglese che detestava per la sua perfezione. «Sapete che ore sono?» L’avvocato Fleury si lanciò in un’apologia della precisione, del lavoro e terminò il discorso con un elogio della sua pazienza e di quella della signora Van den Besh. Simon guardava dalla finestra. Gli sembrava di rivivere una scena vista e rivista, di aver sempre vissuto in quell’ufficio inglese, di aver sempre sentito quelle parole. Gli sembrava che qualcosa si stringesse attorno a lui, lo soffocasse fino a farlo morire. “Che cosa ho fatto – pensò all’improvviso – che cosa ho fatto in questi venticinque anni, se non passare da luminare a luminare, sempre rimproverato, sempre lusingato di esserlo?” Era la prima volta che si poneva la domanda con questo rigore e alzò la voce meccanicamente.


«Che ho fatto?»


«Come? Ma lei non ha fatto niente, mio caro amico, è proprio questo il dramma: lei non fa niente.»


«Credo persino di non avere mai amato nessuno», continuò Simon.


«Non le sto chiedendo di innamorarsi di me o della vecchia Alice.», sbottò l’avvocato Fleury «Le sto chiedendo di lavorare. C’è un limite alla mia pazienza.»


«C’è un limite a tutto», riprese Simon pensieroso. Si sentiva nel pieno del sogno, nel pieno dell’assurdo: l’impressione di non dormire da dieci giorni, di essere a digiuno, di morire di sete.


«Mi prende in giro?»


«No.», disse Simon. «Mi scusi, farò attenzione.»


Uscì camminando a ritroso, si sedette alla scrivania, con la testa tra le mani, sotto gli occhi sorpresi della signora Alice.


“Che cos’ho?” – pensava – “Ma che cos’ho?” Cercava di ricordare: un’infanzia in Inghilterra, gli studi universitari, una passioncella, sì, a quindici anni, per un’amica di sua madre che lo aveva smaliziato nel giro di una settimana, una vita facile, amici allegri, ragazze, strade baciate dal sole… Tutto ruotava nella sua memoria senza che si potesse soffermare su qualche cosa in particolare. Non c’era niente, forse. Aveva venticinque anni.


«Non si preoccupi», disse la signora Alice, «gli passerà. Lo sa bene». Scribacchiava vagamente su un foglio di carta assorbente. «Pensi alla sua amica, invece», continuò Alice inquieta «o, meglio ancora, alla pratica Guillot», riprese.


«Non ho nessuna amica», disse Simon.


«E quella di stamattina?» Come si chiama?


«Non so». Era vero. Non sapeva neppure come si chiamava. C’era qualcuno a Parigi di cui non sapeva nulla. Già, tutto ciò era meraviglioso. Del tutto insperato. Qualcuno su cui avrebbe potuto fantasticare a suo piacimento per giorni.


 


Roger era disteso sul divano del salotto; fumava lentamente, spossato dalla fatica. Aveva trascorso la giornata sul molo di sbarco a sorvegliare il rientro dei suoi camion. Si era tutto inzuppato di pioggia e per di più era stato obbligato a mettersi in strada per Lille, all’ora di pranzo, per verificare i danni di un incidente che gli sarebbero costati più di centomila franchi.


Paule sparecchiava la tavola.


«E quella Teresa?», disse.


«Quale Teresa?»


«La signora Van den Besh. Mi è tornato in mente il suo nome stamattina, Dio sa perché.»


«Sistemato», disse Paule. «Mi occupo di tutto. Non te l’ho detto perché hai avuto così tanti problemi.»


«Credi che il fatto che tu non ne abbia di più mi avrebbe dato ulteriore fastidio?»


«No. Semplicemente pensavo…»


«Mi trovi molto egoista, vero, Paule?»


Si era seduto sul divano, la fissava con i suoi occhi blu; aveva la sua solita aria furiosa. Paule avrebbe dovuto calmarlo, spiegargli che era il migliore degli uomini, cosa che in un certo senso era vera e che la rendeva molto felice. Si sedette vicino a lui.


«Non sei egoista. Sei preoccupato per le tue cose; è normale che ne parli…»


«No. Voglio dire: rispetto a te, mi trovi egoista?»


Si accorse di averci pensato tutto il giorno, probabilmente da quando l’aveva lasciata davanti alla porta di casa, la sera prima, con gli occhi turbati. Paule esitò. Non le aveva mai fatto una domanda diretta e forse era arrivato il momento di parlarne. Ma lei si sentiva di buon umore, sicura di sé, e lui aveva un’aria così stanca. Paule indietreggiò.


«No, Roger. Ci sono momenti, è vero, in cui mi sento un po’ sola, meno giovane, incapace di starti dietro. Ma sono felice.»


«Sei felice?»


«Sì.»


Si distese di nuovo. Aveva detto: “Sono felice”, e la piccola domanda angosciante che l’aveva perseguitato tutto il giorno non doveva fare altro che sparire. Non chiedeva che questo.


«Sai, tutte quelle storielle che mi capitano, insomma, dai, sai che valore darci.»


«Sì, sì», disse lei.


Lo guardava tenendo gli occhi chiusi. Lo trovava infantile. Allungato sul divano, così gigantesco, così pesante, a fare domande puerili.


«Sei felice?» Tese la mano verso di lei; Paule la prese e si sedette vicino a lui. Roger teneva gli occhi chiusi.


«Paule», disse, «Paule… senza di te, sai Paule…»


«Sì.»


Paule si chinò, lo baciò sulla guancia. Stava già dormendo. Senza rendersene conto tolse la mano da quella di Paule, la sollevò e se la mise sul cuore. Paule aprì un libro. Un’ora più tardi si svegliò, tutto agitato, guardò l’orologio, decise che era ora di andare a ballare e a bere, per dimenticare tutti quei maledetti camion.


Paule aveva sonno, ma nessun argomento poteva resistere a un di desiderio di Roger.


La portò in un posticino nuovo, in un seminterrato di Boulevard St-Germain, adibito a giardinetto pubblico, bagnato dall’ombra, che un giradischi inondava di ritmi sudamericani.


«Non ce la faccio a uscire tutte le sere», disse Paule sedendosi, farò cent’anni domani. Già alzandomi questa mattina…».


Fu solo allora che si ricordò di Simon. Lo aveva completamente dimenticato. Si girò verso Roger. «Figurati che stamattina…»


Ma di colpo si fermò: Simon stava davanti a lei.


«Buongiorno», disse Paule.


«La cercavo», disse Simon, «e la trovo, è un buon segno.»


E senza attendere si lasciò cadere su uno sgabello. Roger si rialzò, contrariato.


«La cercavo dappertutto», riprese Simon. «Stavo quasi per chiedermi se per caso l’avessi sognata.»


Gli brillavano gli occhi, aveva messo la mano sul braccio di Paule sbalordita.


«Forse ha un altro tavolo», disse Roger.


«È sposata?», le chiese Simon. «Non ci voglio credere.»


«Mi dà fastidio», disse Roger, «lo porto via». Simon lo guardò, poi si appoggiò con i gomiti sul tavolo, con la testa tra le mani.


«Ha ragione, signore, le chiedo scusa. Credo di aver bevuto un po’ troppo. Ma ho scoperto stamattina che non ho mai concluso niente nella vita.»


«Allora faccia qualcosa di bello: se ne vada!»


«Lascialo stare», disse Paule dolcemente. «È infelice. Tutti, prima o poi, beviamo un po’ troppo. È il figlio della tua…ehm… della tua Teresa.»


«Il figlio?» disse Roger sorpreso, «… è il colmo.»


Si chinò in avanti, Simon aveva messo la testa sulle braccia.


«Si svegli», disse Roger. «Andiamo a bere un bicchiere insieme. Così mi spiega i suoi guai. Vado a prendere i bicchieri, va per le lunghe qui!»


Paule cominciava a divertirsi. L’idea di una conversazione tra Roger e quel giovane eccentrico era un divertimento in anticipo. Simon aveva alzato la testa e guardava Roger mentre faceva evoluzioni tra i tavoli, con difficoltà.


«Ecco un uomo», disse. «Eh? Un vero uomo? Mi fanno orrore gli uomini robusti, virili, con idee sane.»


«Le persone non sono mai così semplici», disse Paule seccata.


«Lo ama?»


«Non la riguarda!»


Aveva un ciuffo di capelli sugli occhi, la luce delle candele gli scavava il viso. Era stupendo. Al tavolo vicino due donne lo contemplavano con beatitudine.


«Le chiedo scusa», disse Simon. «Ma guarda, come è strano! Da questa mattina passo la mia vita a scusarmi. Lo sa, credo di essere un poco di buono!»


Nel frattempo Roger tornava con tre bicchieri e borbottò che tutti arrivavano a quel punto, un giorno o l’altro. Simon bevette tutto d’un fiato il suo e si mantenne in un silenzio prudente. Era seduto vicino a loro e non si muoveva. Li guardò ballare, li ascoltò parlare senza alcuna reazione tanto che a poco a poco lo dimenticarono. Solo, di tanto in tanto, voltandosi, Paule lo vedeva al suo fianco come un bravo bambino e non poteva fare a meno di ridere.


Quando si alzarono per andarsene, si mise educatamente in piedi ma subito crollò. Decisero di riaccompagnarlo a casa. Nella macchina di Roger dormiva e la sua testa sballottava sulla spalla di Paule. Aveva i capelli setosi, respirava dolcemente. Finì per mettergli la mano sulla fronte, perché non sbattesse contro il vetro, e la sua testa divenne pesante contro la sua mano, completamente abbandonata. In avenue Kléber. Roger scese, fece il giro della vettura e aprì la portiera.


«Fai attenzione», mormorò Paule. Roger sorprese la sua espressione, ma non disse nulla e tirò fuori Simon dalla vettura. Quella sera la riportò a casa e salì da lei. La tenne a lungo stretta al suo petto nel sonno, impedendole di dormire.