sabato 27 settembre 2025

I PROFESSIONISTI DEL CORTEO Luigi Giliberti



I PROFESSIONISTI DEL CORTEO

Luigi Giliberti

@LuigiGiliberti2

[...]Le piazze restano uno strumento legittimo e vitale della democrazia. Ma vanno lette per quello che sono: non il cuore pulsante della società, ma la cassa di risonanza di minoranze organizzate.[...]

I professionisti del corteo: chi riempie sempre le piazze e perché può permetterselo.

Le piazze italiane non si spengono mai davvero. Ogni settimana c’è un corteo, un presidio, un sit-in. Gli slogan cambiano - Palestina, clima, salari, diritti - ma i volti restano gli stessi. Studenti, collettivi, sindacati di base, ambientalisti di Ultima Generazione. Sempre loro, sempre lì.

La domanda è inevitabile: come fanno a permetterselo?

Tempo e libertà che altri non hanno

Un lavoratore a tempo pieno non può mollare la catena di montaggio o l’ufficio per passare il pomeriggio sotto Montecitorio. Un piccolo imprenditore non chiude il negozio per unirsi a un corteo. Un genitore con due figli non si può accampare in una tenda universitaria.

Chi invece vive da studente fuori sede, da precario senza orari, o in una comunità autogestita con spese bassissime, ha margini enormi. Non è un caso che i collettivi universitari siano l’ossatura costante di ogni mobilitazione: tempo libero, nessun vincolo, identità politica come collante.

Reti che li sostengono

Le manifestazioni non si reggono sull’improvvisazione. Dietro ci sono ONG, sindacati, associazioni, crowdfunding online. I pullman per portare la gente da Napoli a Roma non si pagano da soli. I megafoni, le bandiere, gli striscioni, i gazebo per i sit-in permanenti hanno costi e logistica.

Molti movimenti, specie quelli internazionalisti (pro-Palestina, clima), hanno alle spalle un sistema di donazioni e fondazioni che garantisce continuità. Non a caso li vedi tornare in piazza a cadenza settimanale: c’è un’infrastruttura che li alimenta.

La militanza come carriera

Per alcuni la piazza non è solo un impegno morale: è un investimento personale. Stare sempre in prima fila significa guadagnare visibilità, accumulare “credito militante”, costruirsi un curriculum da spendere in ONG, partiti, giornalismo “impegnato”.

Nasce così la figura del professionista della protesta: chi trasforma il corteo in palestra di leadership. Oggi studente, domani candidato consigliere, dopodomani dirigente di qualche organizzazione internazionale.

Il costo personale ridotto

Chi lavora in fabbrica o in studio legale rischia troppo: perdere giornate, finire denunciato, rovinarsi la reputazione. Per gli attivisti cronici il costo è minimo: poche conseguenze legali, vita organizzata intorno alla militanza, nessun vincolo familiare.

Il sistema italiano, che raramente reprime con durezza, facilita questa costanza. In Francia i blocchi vengono sgomberati con la forza. In Italia, un sit-in davanti all’università può durare settimane.

Le città laboratorio

Roma: qui trovi il mix più ampio. Collettivi studenteschi di Sapienza e Roma Tre, centri sociali storici, sigle sindacali. Sono quelli che presidiano le ambasciate e organizzano i sit-in a Montecitorio.

Milano: capitale delle mobilitazioni climatiche e dei cortei pro-Palestina. Gli stessi volti che bloccano Corso Buenos Aires per il clima compaiono due settimane dopo con la kefiah in Duomo.

Bologna: università e centri sociali sono la spina dorsale. Qui la protesta è quasi tradizione: tenda, corteo, scontro simbolico con la polizia.

Firenze: epicentro delle iniziative culturali “contro la guerra”. Manifestazioni davanti a musei e teatri, studenti come protagonisti.

Piazza asimmetrica

La verità è che la piazza non rappresenta la maggioranza del Paese. Rappresenta chi ha tempo, sostegno e interesse a esserci.

Gli operai a turni non li vedi. I piccoli imprenditori nemmeno. I professionisti schiacciati tra mutui e clienti non hanno margini. Non perché non abbiano idee, ma perché i vincoli della vita reale li tengono lontani.

Risultato: le cronache parlano di “città mobilitate”, ma in realtà vediamo sempre lo stesso zoccolo duro. Militanti con il corteo come mestiere, che saltano da una causa all’altra senza soluzione di continuità.

Il meccanismo mediatico

Le telecamere amplificano. Un corteo di duemila persone diventa “la città in piazza”. Ma dietro quelle bandiere ci sono sempre gli stessi, pronti a passare dal “Fuori la NATO” al “Stop fossili” al “Boicotta Israele”. Una rotazione di slogan, non di volti.

Così l’opinione pubblica rischia di confondere la piazza con la nazione. Un errore che avvantaggia i professionisti della protesta, ma penalizza la percezione reale delle priorità del Paese.

La morale

Le piazze restano uno strumento legittimo e vitale della democrazia. Ma vanno lette per quello che sono: non il cuore pulsante della società, ma la cassa di risonanza di minoranze organizzate.

In Italia le strade non raccontano cosa pensa la maggioranza silenziosa. Raccontano chi può permettersi di starci sempre. Chi ha tempo, chi ha reti, chi ha interesse a trasformare il corteo in mestiere.

E finché le telecamere continueranno a scambiare questo zoccolo duro per “il Paese che protesta”, la piazza resterà un teatro: sempre lo stesso pubblico, sempre gli stessi attori, sempre la stessa recita.