Di Vincenzo Russo
17/10/2025
È stato Sciascia ad annotare:
“Mi sono interessato all’Inquisizione poiché questa è lungi dal non esistere più nel mondo”.
Se è puro anacronismo parlare di “Inquisizione” nelle moderne società democratiche, può risultare utile, ancora oggi, tentare di capire come nel nome di Dio si siano potuti mettere al rogo così tanti “eretici”. È questo, probabilmente, il significato del monito di Sciascia: cercare di disvelare le dinamiche socio-politiche di determinati meccanismi che conducono alla pubblica censura in nome di un “sommo bene”, senza possibilità di appello.
Troppo facile liquidare la faccenda con gli occhiali del presente – come va tanto di moda, addossando ogni colpa ai cattivi uomini di Chiesa di allora. Beh, magari molti avranno in mente il volto marcato dall’espressione sadica – che sprizza fanatismo da tutti i pori – di Bernardo Gui, l’inquisitore domenicano del Nome della Rosa.
Il fatto è che tra gli attori di questo inquietante fenomeno storico ci sono stati inquisitori che, seppur dotati di profonda spiritualità, praticavano la tortura e accendevano roghi convinti in buona fede di agire ad maiorem Dei gloriam. Insomma, Cesare Beccaria avrebbe detto, in ben altri contesti di pensiero e qualche tempo dopo, che “la pena è un male necessario”. Lui, ovviamente, non si riferiva né alla tortura né alla pena di morte arsi vivi.
Lo stesso Roberto Bellarmino, consacratosi al servizio pastorale con impegno e passione tanto da diventare santo, votò a favore della condanna al rogo di Giordano Bruno, eseguita il 17 febbraio del 1600 a Roma.
Per gli inquisitori di allora, pur quando mossi dalla migliore disposizione d’animo verso gli inquisiti, era molto difficile fare appello alla loro onestà intellettuale e alla responsabilità personale, perché loro agivano, essendone intimamente convinti, quali custodi della dottrina della Chiesa.
Al di là degli aspetti politici legati al potere temporale, la Chiesa operava così perché animata dall’idea che il bene derivasse unicamente da Dio, quindi dalla Sacra Scrittura, e dalla Chiesa quale unico e vero interprete. Insomma, il bene non era considerato né originario, né assoluto, ma doveva necessariamente essere ricondotto alla volontà di Dio che si serviva della Scrittura e della Chiesa come suoi tramiti terreni. Era questo l’errore teologico, se così oggi si può dire.
Quando le religioni hanno soggiogato l’etica e l’integrità del bene alla lettera dei testi sacri hanno generato roghi, guerre sante, e hanno dato la stura a varie forme di fondamentalismo che imperversano per il mondo. Se poi Dio giunge a “scendere” in politica per mobilitare le coscienze e catturare il consenso, vuol dire che l’etica della responsabilità (Weber) è morta e sepolta. A Dio tutto è concesso, tutto si rimette.
Adesso come allora, la religione non può impadronirsi dell’etica, ma dovrebbe limitarsi a servirla. D’altronde, collocare l’etica nella sua dimensione di indipendenza dalla religione non vuol dire, ipso facto, rinunciare a Dio. È stato Kant a dimostrarcelo con la sua vita ed il pensiero (Critica della ragione pura).
Oggi, le diverse parrocchie politiche e mediatiche della sinistra massimalista e non solo – dopo lo storico fallimento del progetto politico marxista-leninista, hanno abbracciato i cascami culturali del vangelo postmoderno, aderendo ai dettami dell’attivismo postcoloniale – il cui padre fondatore è Edward Said, che ha avuto origine nel mondo accademico francese, poi diffusosi negli Stati Uniti e nel Regno Unito.
Gli esiti dell’applicazione dei principi di tale teoria fondamentalista sono sistematicamente sottovalutati.
In primo luogo, a causa del suo spregio per il metodo scientifico e la ragione, quali strumenti per la produzione della conoscenza, il postcolonialismo applicato non solo mette a rischio le basi di realtà su cui si fondano le società moderne, ma ostacola seriamente anche la crescita e il progresso di quelle in via di sviluppo.
Secondariamente, la constatazione che l’Occidente si è macchiato di misfatti verso altri paesi e culture ha condotto a una forma di relativismo culturale che impedisce, in ogni modo, di criticare tali culture, giungendo, in certi casi, a negare la possibilità di un aiuto diretto.
È così che si manifesta, spesso, l’assurdità etica, figlia della blasfemia intellettuale che non considera l’universalità dei diritti umani ma è catturata dal fideismo in sistemi di potere binari, che prende in considerazione la sottomissione e le sofferenze degli orientali solo quando il persecutore è occidentale o amico degli occidentali. Pannella ne sapeva qualcosa.
Si spiega solo così la scarsa o nulla attenzione che gli attivisti riservano alle femministe dell’Arabia Saudita, ai liberali laici del Pakistan, a chi si impegna per i diritti LGBT in Uganda, senza contare l’indifferenza verso la drammatica condizione delle donne in Iran, dei cristiani perseguitati in Nigeria, e la completa disattenzione verso le drammatiche crisi umanitarie scatenate dai conflitti in atto in Medio Oriente e in Africa.
L’Ucraina è esclusa dall’orbe umanitarista perché sogna l’Europa, covo storico della liberaldemocrazia.
Recentemente, Bonelli e Fratoianni di AVS hanno avuto da ridire persino sull’assegnazione del Nobel per la Pace all’attivista liberale venezuelana Maria Corina Machado, perché sfacciatamente anticomunista. La democrazia per i leader di AVS va bene purché rispetti il canone ideologico del socialismo e dell’anticapitalismo. Una posizione sovrapponibile a quella dell’attuale dittatore cubano.
La teoria postcoloniale vuole assolutamente evitare che dinamiche simili a quelle occidentali – anche le più virtuose – si possano replicare altrove, e considera le violazioni dei diritti umani nei paesi frutto di precedenti colonizzazioni un mero retaggio del colonialismo. E ciò deve bastare.
Se questo è l’antefatto, va da sé che personaggi come la dottoressa Francesca Albanese possano incarnare il ruolo di una specie di polizia del pensiero che custodisce i frutti tossici del postcolonialismo, cercando di condannare e di esporre al pubblico ludibrio chi osa mettere in discussione le percezioni allucinate degli iniziati: gli unici in possesso del sapere liberatorio trasmesso dai dipartimenti umanistici di molte università che hanno coltivato credenze nichiliste divenute i nuovi vangeli della modernità.
Francesca Albanese, sacerdotessa del genocidio palestinese, a differenza del cardinale Bellarmino e di Bernardo Gui, è però capace di clemenza: si è spinta sino a elargire il pubblico perdono al sindaco di Reggio Emilia, Marco Massari, macchiatosi dell’onta di aver citato la liberazione degli ostaggi israeliani da parte di Hamas, tra le diverse condizioni per la pace a Gaza.
Non è andata così per Liliana Segre. Forse perché solo pronunciare il nome della senatrice a vita ha per la relatrice speciale all’Onu lo stesso effetto dell’aglio per i vampiri: lei si alza di scatto e abbandona gli studi televisivi nel corso della trasmissione. E il perdono, per via dell’indebita contesa del “genocidio” al popolo palestinese da parte di “un’amica di Israele”, non può essere offerto a chi è colpevole di essere vittima e testimone della Shoah.
Non solo non ci può essere perdono, ma la dottoressa Albanese ha sentenziato: “Rispetto Segre, ma il suo dolore non la rende lucida sul genocidio a Gaza”. Il fideismo estremo nella propria missione può giungere ad annichilire l’identità altrui, come accadeva con l’operato della Santa Inquisizione.
Nel corso di un suo recente intervento pubblico, Giuliano Amato ha sagacemente osservato che se dovessimo dare seguito alle affermazioni sulla mancanza di lucidità della senatrice Segre dovremmo chiedere:
“la revisione del processo di Norimberga e del processo Eichmann perché tutti i testimoni erano parti, … quindi non erano lucidi”.
Amato si è detto sconcertato dal fatto che nonostante “Albanese dica le cose più infami, continua a circolare”. Ecco, probabilmente, è vero anche il contrario: certe enclave politiche e mediatiche le danno spazio e credito proprio per l’estremismo delle sue posizioni.
Questo non è il tempo della ragione ma dell’ideologia che declina la lettura dei conflitti in chiave antioccidentale. E oggi il motore del sommovimento contro l’Occidente si chiama Gaza. I vaticinanti che calcano le piazze in nome della sempiterna rivoluzione liberatrice, di Hamas, della Russia di Putin, dell’Iran di Khamenei (e via discorrendo), e di tutte le loro nefandezze, non si curano, perché come loro hanno in uggia il mondo democratico con i suoi riti decadenti. Rappresentano, anzi, gli alleati ideali per una spallata esterna alla demolizione del detestato ordine liberale.
Ora, chi evoca il Sant’Uffizio non può certo far propri toni censori. La dottoressa Albanese avrà senz’altro modo di inanellare sorprendenti performance di relatrice speciale (contro Israele), laddove invitata a farlo. Ed è probabile che possa, quanto prima, calcare la scena politica tra le file di una delle forze “moderate” della sinistra italiana. Sì, perché la liberaldemocrazia ha tra le sue peculiarità quella di consentire sfavillanti carriere – seppur senza garanzia di continuità – anche a chi non si identifica in essa e nei suoi valori, oltre che ai suoi più incalliti oppositori.
Resterà fermo il profondo biasimo verso chiunque continuerà a spianare autostrade a personaggi come Francesca Albanese o ai suoi epigoni. Le varie forme di chiese, in ogni tempo e in ogni luogo, hanno la responsabilità della predicazione dei loro ferventi omelisti.
Se l’opera di evangelizzazione incorre ancora nell’”errore teologico” di piegare l’etica alla “parola di Dio”, sarà il preludio di un’altra catastrofe della storia umana, che vedrà le persone annientate dal furore ideologico, e la morale immolata sull’altare della suprema indignazione che imputa torti collettivi e dispensa giustizia sommaria.
